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Non riformisti, ma «riformatori in senso luterano». Pronti a scegliere come «categoria operativa fondamentale il mutamento». Pronti anche a contrapporsi a chi, invece, privilegia un’idea di governo inteso come «amministrazione». Alberto Asor Rosa, professore di letteratura italiana e ideatore dell’incontro delle diverse anime e aggregazioni della sinistra promosso dal Manifesto, parte dalla ricerca di una definizione, un punto d’incontro comune per migliaia di persone che, in questa mattina di sabato, affollano una sala della Fiera di Roma.

Ma le definizioni, la consapevolezza di un comune sentire programmatico, non bastano. «Si può andare avanti con la spontaneità e l’assemblearismo?», si chiede Asor Rosa. La risposta è «no». E la proposta, già anticipata nei giorni scorsi dai giornali, è la creazione di una «Camera di consultazione permanente, un organismo plurimo e bifronte, aperto da una parte alla società politica organizzata e dall’altra alla società civile, nella quale siedano allo stesso tavolo segretari di partito e rappresentanti delle associazioni». Dunque, «non un nuovo partito, né una Fed di sinistra». Ma al contempo, questo sì, un luogo reale di aggregazione per un’area politica ben definita. Anche numericamente: «Esiste un vasto settore dell’opinione pubblica di sinistra, variamente composto. Un’area formata da forze che stanno in parte nella società politica, in parte nella società civile. Un po’ di vecchio e un po’ di nuovo. Un’area che, dal punto di vista elettorale, si può stimare intorno al 13%».

Contenuti e contenitori: una lista unitaria della sinistra radicale

Ma se queste sono le premesse (e le cifre, dedotte dalla somma delle percentuali prese dai partiti alla sinistra dei Ds alle ultime elezioni europe), qual è lo sbocco futuro? Asor Rosa non lo dice, limitandosi ad evocare «un esito che non è disdicevole sognare». Non lo dice nemmeno il direttore del Manifesto Gabriele Polo. Ad affermarlo con molta chiarezza è invece il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto, che, fra gli applausi, torna a proporre una reale unità politica ed elettorale. Partire dalla «Camera di consultazione», certo, ma per approdare a una confederazione della sinistra radicale. E ad una lista unitaria, se non per le regionali almeno per le politiche. «La proposta di Asor Rosa è l’avvio di un percorso. Dobbiamo fare tutti un passo indietro. Io sono disposto a farlo, il mio partito è disposto a farlo, per fare poi tutti insieme un passo avanti. Bisogna ricostruire la Sinistra, porre fine a litigi e frantumazione. I contenuti non si traducono in politica senza i contenitori».

A chi, a partire da Fausto Bertinotti, appare più che tiepido su questa proposta, Diliberto replica: «Spero che Bertinotti non sia freddo di fronte all'esigenza di centinaia di migliaia di persone. Dopo il congresso di Rifondazione a marzo mi auguro che Bertinotti si segga ad un tavolo con noi per discutere dell'unità a sinistra. Rimettendoci insieme daremo più forza alle nostre battaglie». L’obiettivo politico, al di là della palese competizione per l’egemonia a sinistra, è pesare di più nella Grande alleanza democratica: «Non voglio che la linea di politica economica del centrosinistra sia dettata da Montezemolo – afferma il segretario del Pdci – Quando andremo a parlare dell’abrogazione della legge 30, della riforma Moratti, della Bossi – Fini, quando discuteremo della destinazione delle poche risorse disponibili, lì cominceranno le difficoltà. Difficoltà che derivano dai rapporti di forza nella coalizione».

Le sconcezze del centrosinistra

La «Camera di consultazione» come strumento per una sfida nel centrosinistra. Lo dice, con toni molto duri, anche Giorgio Cremaschi della Fiom: «Bisogna mandare via Berlusconi ma anche fare in modo che non torni la politica precedente. Quando scopriamo che le sconcezze di questo governo discendono da quello compiute dai governi precendenti, ci rendiamo conto che serve un cambiamento profondo, non solo una vittoria elettorale».

È sui mezzi, non sui fini, che le differenze appaiono più evidenti. Per Cremaschi, ad esempio, la «Camera di consultazione» non serve. «Un nuovo organismo è inutile. Questa assemblea è la Camera, insieme a tutte le assemblee che faremo da oggi in avanti, allargandoci ai movimenti che oggi non ci sono, Disobbedienti compresi».

Cantieri aperti

I rappresentanti dei partiti appoggiano la proposta di Asor Rosa, ma bocciano Diliberto. Il più tranchant è il verde Alfonso Pecoraro Scanio: «Non serve rispondere ai listoni con i listini. Perché dobbiamo infognarci in una discussione sui contenitori? Dobbiamo dare un segnale opposto». No, grazie anche da Rifondazione: «Siamo qui per costruire una sinistra larga, non per mettere insieme cocci spezzati del passato», polemizza Fausto Bertinotti. E Franco Giordano osserva: «La proposta di Asor Rosa mi pare più praticabile, perché fa maturare i tempi di una discussione sui contenuti. C’è bisogno di una nuova soggettività politica, ma questa si fa allargando il dibattito, non cercando nuovi modelli organizzativi». Il percorso non comincia e non si esaurisce con la «Camera di consultazione»: «Domani (domenica, ndr), su iniziativa di alcune riviste, daremo il via a un’elaborazione programmatica, che cercherà di definire alcune proposte concrete per la coalizione. Un’iniziativa parallela, non in contrapposizione, l’apertura di un nuovo cantiere».

Le due sinistre

Due cantieri in due giorni. Un po’ troppo? I soggetti in campo sono più o meno gli stessi. Disposti a dire di sì a tutti e due i progetti. Le diverse anime della sinistra diessina, che saranno in prima fila all’iniziativa programmata domenica mattina dalLe riviste Aprile, Carta, Alternative, il network Eco Radio e Quaderni laburisti, sono pronte ad entrare nella «Camera di consultazione» lanciata da Asor Rosa: «Mi pare che sia una sperimentazione utile. E penso che la Sinistra dei Ds ci debba stare», afferma Pietro Folena, che dice no a una «raccolta di ceti politici». E aggiunge: «Il ragionamento del 13 per cento non mi convince. I movimenti sono potenzialmente maggioritari». Certo, però, che «se va avanti il progetto riformista si apre un vuoto. La leadership Ds ha sbagliato a non essere presente».

La «Camera di consultazione», comunque, dovrebbe essere aperta al di là dei confini politici della sinistra radicale, accogliendo contributi anche dalla Margherita e dalla Quercia. Per Fabio Mussi, deve assomigliare ad un «luogo strutturato dove si discute di programmi per l'intera coalizione». Ma se l’approdo dei Ds sarà il partito riformista, aggiunge «mi sento di prevedere che io e altri in quel partito non ci saremo». Per Cesare Salvi, «è necessario aprire un dialogo: non si può dare per scontata l’idea delle due sinistre»

Un esito concreto

E i movimenti? Il timore è la dispersione di un’iniziativa così riuscita. Nella platea affollatissima si vedono tanti personaggi della stagione dei girotondi, da Pancho Pardi a Paolo Flores D’Arcais. «Il rischio di oggi – osserva Paul Ginsborg – è che si finisca senza un esito operativo. C’è grande sete di dibattito e di superamento di una visione troppo partitistica». Anche per il professore anglo – fiorentino, «uno sbocco elettorale è da escludere». Sul tavolo devono essere messi grandi temi: «Facciamo un esempio. Nei rapporti nord / sud del mondo si fa come nel quinquennio fra il 1996 e il 2001 o in modo diverso? Che percentuale del Pil vogliamo destinare alla cooperazione allo sviluppo, lo 0,17 o lo 0,33 per cento?»

Poco dopo, prendendo la parola dal palco, Ginsborg si mette a canticchiare il ritornello di una canzone tradizionale inglese. Parla del «grande vecchio stupidissimo Duca di York»: «Il Duca di York – spiega - aveva 10 mila uomini e donne». Però non sapeva consa farsene: «Noi siamo qui 3 mila uomini e donne. Non finiremo come il Duca di York che portò questi uomini e donne in alto sulla collina e poi li fece scendere... Fine della strategia del grande vecchio stupidissimo Duca di York».

(in calce il collegamento al testo integrale)

"In passato i governi di sinistra hanno rallentato il potenziamento delle reti i cui fondi sono stati sbloccati grazie all'intervento della legge Obiettivo." Con questa testuale dichiarazione resa all'ANSA il ministro delle Infrastrutture l'ing. Lunardi, recatosi sul luogo del disastro ferroviario il 7 gennaio scorso, ha detto una autentica falsità.

Infatti l'inserimento nella lunga lista delle opere strategiche di investimenti ferroviari sulla rete esistente non ha portato né finanziamenti aggiuntivi né procedure accelerate e tanto meno cantieri aperti.

Quello che in realtà il ministro Lunardi ha fatto è stato allungare a dismisura la lista di nuovi investimenti ad Alta Velocità e nuovi valichi alpini, mentre in ogni Legge Finanziaria il governo ha tagliato le risorse da destinare al potenziamento della rete esistente.

A questo si deve aggiungere la politica di rilancio del settore autostradale adottata dal Governo Berlusconi, che aumenterà lo squilibrio nel sistema dei trasporti nazionale verso la gomma e che assorbirà risorse ed energie che dovrebbero viceversa essere utilizzate per il rilancio del trasporto ferroviario italiano.

Quello che il ministro non ha detto è che cosa intenda fare immediatamente per aumentare la sicurezza delle ferrovie e per migliorare il servizio offerto ai cittadini, a partire dalla tratta Bologna-Verona, su cui è accaduto il gravissimo incidente ferroviario in cui hanno perso la vita 17 persone.

Il caso della tratta Bologna-Verona:

raddoppio ripartito nel 1999, ma ritardi nei lavori

Il ministro Lunardi ha anche rivendicato come grazie alla legge obiettivo il progetto di raddoppio della linea Bologna-Verona sia stato approvato e finanziato. Ma questa è una colossale bugia, perché il raddoppio della tratta è ripartito dal 1999 e nonostante sia stato inserito fra le opere strategiche in quanto facente parte del Corridoio 1 Berlino- Palermo delle reti TEN Europee non ha beneficiato né di finanziamenti straordinari né di procedure accelerate. Ed infatti i lavori procedono purtroppo troppo lentamente ed in ritardo anche rispetto ai tempi previsti dal piano di investimenti di RFI.

E’ opportuno rammentare che il raddoppio di questa tratta ferroviaria era previsto nel Contratto di Programma 1994-2000 e che, dopo anni di mancati investimenti e progetti faraonici, l’opera è stata finanziata in modo significativo a partire dal 1999. Conseguentemente è ripartito l’iter di progettazione, approvazione ed appalto dei lavori.

Nel Contratto di Programma 2001-2005 di RFI (aggiornamento ottobre 2003) si spiega che il raddoppio della linea attualmente a semplice binario per 72 km sui 114 km complessivi, è articolato in 8 opere funzionali, che il costo a vita intera dell’investimento era stimato in 760 milioni di euro, ma che a seguito del completamento della progettazione esecutiva di alcuni tratti e per la previsione di nuove opere di mitigazione ambientali, il costo si è incrementato di 50 milioni di euro, passando complessivamente ad 810 milioni di euro. Incremento di costi che sembra essere stato inserito nel III addendum al Contratto di Programma, adottato sulla base delle risorse della legge finanziaria 2004.

Va anche censurato il fatto che i 40 km di binari già raddoppiati non sono interamente utilizzabili per la mancanza di poche centinaia di metri a Isola della Scala.

RFI ammette anche un ritardo nei lavori dovuto a difficoltà finanziarie dell’impresa aggiudicataria dei lavori della tratta Tavernelle-S.Giovanni in Persiceto e lo stesso problema per i lavori inerenti le opere di fondazione del Ponte sul Po. Come conseguenza dichiara RFI “si ha che l’attivazione delle opere è slittata da dicembre 2006 a luglio 2007”.

Ma questa data sembra già essere ulteriormente slittata almeno al 2008, come purtroppo abbiamo appreso dalla stampa e dalle polemiche successive al gravissimo incidente ferroviario del 7 gennaio, ed i costi dell’opera dichiarati di recente da RFI si attestano su 846 miliardi di euro.

Per quanto riguarda l’ammodernamento ed il potenziamento tecnologico è prevista l’istallazione al 2006 del Sistema di Comando e Controllo sulla linea Bologna-Verona-Brennero del costo di 250 milioni di euro, mentre per l’attivazione del Sistema di Controllo Marcia Treno (SCMT) bisognerà aspettare la terza fase di attivazione della tecnologia, che secondo le previsioni di RFI si concluderà nel 2006. E’ evidente il ritardo dei cantieri e l’arretratezza tecnologica del rete, che sopporta il traffico nazionale, il trasporto pendolari ed il traffico internazionale in particolare delle merci.

Per queste ragioni bisogna predisporre azioni concrete per anticipare sia gli investimenti tecnologici e di sicurezza che la conclusione del raddoppio delle tratte a binario unico.

Il piano di investimenti delle Ferrovie 2001-2005:

si allunga la lista delle grandi opere, ma si tagliano le risorse

Il Piano di investimenti delle Ferrovie dello Stato è contenuto nel Contratto di programma 2001-2005, il cui piano di priorità degli investimenti è stato aggiornato nell’ottobre 2003 da RFI, sulla base delle richieste del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture e successivamente approvato dal Cipe il 13 novembre 2003.

La revisione si è resa necessaria sia per adeguare il costo reale degli investimenti in corso di realizzazione, approvazione e progettazione, sia per adeguare il piano degli investimenti ai nuovi elenchi di opere strategiche previsti dalla Legge Obiettivo ed inclusi nella delibera Cipe del 21 dicembre 2001, decisi dal Governo Berlusconi.

Si fa presente che gli investimenti previsti dal precedente Contratto di Programma 1994-2000 sono in corso di esecuzione ed interamente coperti da finanziamenti già deliberati per un totale di costi a vita intera pari a circa 17,5 mld di euro.

Il risultato della revisione effettuata da RFI, d’intesa con il Ministero delle Infrastrutture, ha aumentato notevolmente i costi complessivi degli investimenti ferroviari che passano da 105,5 mld di euro a 147,5 mld di euro.

[omissis]

[…] il costo complessivo degli investimenti aumenta in misura considerevole e soprattutto a causa delle nuove e grandi opere previste dalla legge obiettivo che da sole fanno lievitare di 54 miliardi il costo del Piano. Sono in concreto le nuove tratte ad Alta velocità Torino-Lione, il nuovo traforo del Brennero, l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria connessa e funzionale alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, solo per citare le più rilevanti sul piano economico. Basta calcolare la somma di questi nuovi investimenti per tratte ferroviarie ad Alta velocità previste dalla Legge Obiettivo, che richiedono in totale investimenti per 42, 6 miliardi di euro.

L’Alta velocità/Alta capacità cosiddetta “tradizionale” e cioè la Torino-Padova, la Milano-Napoli e la Milano-Genova, inclusi i nodi, costa complessivamente 42,9 mld di euro ( la stima precedente si era attestata su 40,7) ed è utile ricordare che diverse tratte (Roma-Napoli, Bologna-Firenze, Bologna-Milano e Milano-Torino) sono in avanzata fase di realizzazione.

Gli interventi sulla rete convenzionale vengono stimati in 35,6 mld di costo, aumentando di ben 16 miliardi di euro, di cui 9 dovuti a nuovi investimenti richiesti dalla Legge Obiettivo e per la restante parte l’aumento dei costi è dovuto, spiega la relazione tecnica, alla effettiva progettazione ed in alcuni casi alla realizzazione in corso.

Per la manutenzione ordinaria e per l’upgrading della rete si stimano 5 mld di euro (la stima precedente si attestava su 2,9 mld di euro), per un investimento di tipo tecnologico per migliorare e mantenere la sicurezza generale della rete e l’accessibilità delle stazioni, pari al 3,4% del piano complessivo.

Quello che emerge con chiarezza è che il nuovo piano di investimenti per il rilancio delle ferrovie adottato dal Governo Berlusconi, punta con decisione su nuove e grandi opere (tunnel di base alpini del Frejus e del Brennero, Alta velocità Salerno-Reggio Calabria connessa al Ponte sullo Stretto, Alta Velocità Milano-Genova) senza incrementare ed accelerare in misura significativa gli investimenti sui nodi metropolitani, sull’adeguamento della rete esistente, sugli investimenti tecnologici e sul materiale rotabile.

Se si sommano gli investimenti già previsti per l’Alta Velocità (42, 9 miliardi di euro) alle nuove tratte AV previste dalla Legge Obiettivo ( 42, 6 miliardi di euro) si ottiene una somma totale di 85,5 miliardi di euro da destinare alla grandi opere.

Quindi ben il 57,6 % degli investimenti previsti dal nuovo Contratto di Programma è dedicato all’Alta velocità ferroviaria.

Del resto sono le stesse Ferrovie dello Stato a sottolineare nel Documento di aggiornamento del Piano di Investimenti 2003 che rispetto ad un trend storico, che si è sempre attestato al di sotto dei 4 miliardi euro/anno di investimenti, per realizzare questo nuovo piano servirebbero almeno 12 mld euro/anno nel 2004 ed a 23,7 mld euro/anno nel 2005. Somme davvero colossali e che non fanno i conti con le scarse risorse pubbliche effettivamente disponibili.

Infatti come dimostreremo successivamente mentre il Governo Berlusconi allunga la lista delle grandi e costose opere in realtà in ogni Legge Finanziaria taglia le risorse da destinare agli investimenti delle Ferrovie dello Stato per la rete esistente.

Le ultime leggi Finanziarie tagliano le risorse destinate alla rete esistente

Se valutiamo le risorse assegnate dalle diverse Leggi Finanziarie approvate dal Centrosinistra, emerge chiaramente come le polemiche irresponsabili del Ministro Lunardi contro i Governi precedenti che avrebbero fermato tutti gli investimenti sono completamente false.

Il flusso di finanziamenti è stato sostanzialmente costante (4,2 mld di euro per il 1998, 3,8 mld di euro per 1999, 3,1 mld di euro per il 2000 e 3,7 mld di euro per il 2001), con modeste rimodulazioni e rifinanziamenti effettivi. Sono state avviate opere ingenti come l’alta velocità Bologna-Firenze, Bologna-Milano e Torino-Milano, è stato avviato nel 1998 un piano straordinario di manutenzione e sicurezza ed ammodernamento tecnologico della rete, ed opere fondamentali come il completamento del raddoppio del binario tra Bologna-Verona sono state finanziate e sono finalmente ripartite.

Ovviamente questo non ha colmato il deficit infrastrutturale causato da 30 anni di mancati investimenti nelle ferrovie italiane, ma si è operato concretamente e responsabilmente nella giusta direzione.

[omissis]

Le risorse dimezzate della Finanziaria 2004: la sicurezza è rinviata

In concreto quindi le risorse effettivamente disponibili per gli investimenti ferroviari assegnati dalla Legge Finanziaria 2004 sono 2,7 mld di euro, da cui è esclusa l’Alta velocità in corso di realizzazione e che è stata affidata per il finanziamento ad ISPA. Questi ultimi investimenti verranno sempre ripagati e garantiti da risorse pubbliche, che produrranno un mostruoso indebitamento pubblico a partire dal 2008 (come ha segnalato la Corte dei Conti nella sua relazione annuale 2003 su FS), ma al momento sono esclusi dal Piano di Investimenti delle Ferrovie e quindi dal Bilancio dello Stato.

Ma lo “Schema di addendum n. 3 al Contratto di Programma”, recentemente sottoposto al parere delle competenti Commissioni parlamentari e che definisce il dettaglio dei progetti ed investimenti a cui devono essere destinate le risorse della Legge Finanziaria 2004 (e non le risorse nel triennio), continua a riproporre lo stanziamento di 6,7 miliardi di euro per il 2004 che in realtà non è disponibile (vedi Tabella 8 di pag. 32 del III addendum).

Si tratta di investimenti di adeguamento della rete esistente, di ammodernamento tecnologico della rete e degli impianti al fine di garantire l’incremento della sicurezza, ma che non potranno essere realizzati perché praticamente circa 2/3 non sono coperti in Legge Finanziaria e saranno quindi rinviati alla copertura finanziaria in anni successivi.

Tra questi investimenti vi è anche il famoso ed avanzato sistema di controllo della circolazione dei treni Sistema di Controllo Marcia Treni (SCMT) ed il sistema SCC (sistema di Comando e Controllo) a cui questo addendum destina rispettivamente 250 milioni di euro e 155 milioni di euro, che però sono in concreto disponibili solo per un terzo come è stato dimostrato.

Basti pensare che la terza fase di attuazione del sistema SCMT avrebbe bisogno di ulteriori 206 milioni di euro che sono ancora da reperire e che allo stesso modo il sistema SCC secondo il contratto di Programma 2001-2005 costa 1,033 miliardo di euro e che ne restano da reperire ancora ben 878 milioni di euro. Il risultato è che tra ritardi attuativi, risorse assegnate ma non disponibili, e risorse ancora da reperire in leggi Finanziarie future, i tempi di completamento di queste nuove tecnologie che incrementano la sicurezza e l’efficienza della rete non sono vicini.

Ed è ancora più evidente la sproporzione tra queste risorse che mancano per l’adeguamento tecnologico della rete esistente e le opere inutili promesse dal Governo Berlusconi: basterebbero le risorse destinate al Ponte sullo Stretto di Messina, per completare tutti questi investimenti.

Altri tagli alle Ferrovie per finanziare la riduzione delle tasse nella Finanziaria 2005

La legge finanziaria per il 2005, con il comma 299, lettera a) (a copertura del maxiemendamento fiscale), ha provveduto a ridurre una serie di trasferimenti correnti alle imprese pubbliche tra le quali è ricompresa anche la società Ferrovie dello Stato.

In particolare, la riduzione relativa alle Ferrovie opera sul contratto di programma con le Ferrovie dello Stato Spa (Ministero dell'Economia e delle Finanze - upb 3.1.2.8 - Ferrovie dello Stato) nella seguente misura: per il 2005, la riduzione è di 90 milioni di euro, per il 2006 la riduzione è di 100 milioni di euro ed ulteriori 90 milioni vengono tagliati a decorrere dal 2007. Assistiamo quindi ad una decurtazione dei finanziamenti relativi al contratto di programma delle Ferrovie dello Stato Spa per un importo totale nel triennio 2005-2007, pari a 280 milioni di euro, su un totale di 1.860 milioni di euro.

31 anni per realizzare gli investimenti ferroviari promessi dal Governo Berlusconi

In conclusione, solo con la Finanziaria 2002 vi era stato un effettivo incremento assegnando 4,3 miliardi di euro agli investimenti delle ferrovie, (che includeva anche la quota per l’Alta Velocità Torino-Milano-Napoli), mentre nel 2003 le risorse effettivamente spendibili assegnate sono state pari a 3,8 mld euro, nel 2004 si è passati a 2,7 mld di euro, ed infine nella Finanziaria 2005 sono stati previsti fondi per 2,9 mld di euro.

E’ certamente intervenuto un fatto nuovo che deve essere sottolineato: con l’articolo 75 della Legge Finanziaria 2003, il sistema ad alta velocità è stato affidato per il suo finanziamento alla società Infrastrutture SPA, (con adeguate garanzie dello Stato) mentre è stato deciso che nel Contratto di Programma di FS sarà previsto “solo” il finanziamento degli interessi intercalari del debito assunto da Ispa per la nuove tratte AV.

Quindi è logico sostenere che avendo escluso dal Contratto di Programma 2001-2005 le tratte AV, le quote annuali da assegnare in ogni legge Finanziaria si riducono conseguentemente.

Ma i conti non tornano comunque perché della somma assegnata ad FS ogni anno, una quota robusta e crescente è destinata agli interessi intercalari dell’AV: per esempio nel 2004 la quota per le sole tratte Torino- Milano-Napoli, è stata di 560,6 mld di euro, su di un totale di risorse assegnate dalla Legge Finanziaria di 2,7 mld di euro.

In pratica questo significa che le risorse per ammodernare la rete esistente, gli investimenti tecnologici ed il materiale rotabile vengono ridimensionate, mentre aumentano i costi delle opere, aumentano gli interessi intercalari dell’Alta Velocità e si allungano a dismisura la lista delle grandi opere inutili e devastanti promesse dal Governo Berlusconi.

Del resto basta fare un semplice calcolo: se il nuovo Contratto di Programma 2001-2005 costa 147,5 miliardi di euro, calcolando che sono effettivamente già disponibili 12,5 miliardi di euro ed escludendo il finanziamento della rete veloce affidata ad ISPA, al ritmo di assegnazione annuale di circa 3 mld di euro in ogni legge Finanziaria, servirebbero ben 31 anni per realizzare tutte le infrastrutture ferroviarie promesse dal Governo Berlusconi.

Quello che si dice una politica del fare e non solo di promesse!

È evidente la sproporzione fra le parole del Ministro Lunardi che promette di realizzare entro il 2012 il Ponte sullo Stretto e la connessa rete ad alta velocità Salerno - Reggio Calabria, che rilancia l’inutile linea veloce Milano – Genova, l’alta velocità tra Torino e Lione ed il nuovo tunnel di base del Brennero, mentre non dedica invece utili energie e tempo per accelerare gli investimenti per il raddoppio del binario tra Bologna e Verona.

E sembra non accorgersi che anche al nord c’è almeno da un anno una emergenza pendolari, fatta di disservizi, di ritardi, di cancellazioni, di linee a binario unico con scarse tecnologie, di materiale rotabile obsoleto.

Secondo i Verdi, per intervenire a sostegno delle ferrovie servono prioritariamente le seguenti azioni:

un forte ridimensionamento del piano di investimenti faraonico promesso dal Governo Berlusconi, ed una selezione accurata delle priorità per gli interventi per le ferrovie

- l’accelerazione ed il completo finanziamento del piano di ammodernamento tecnologico e messa in sicurezza della rete esistente, anticipandone l’ entrata in funzione

- azioni concrete di miglioramento del servizio per il trasporto ferroviario locale in aree critiche, con investimenti mirati sul materiale rotabile

ROMA L’idea di un incontro a sinistra è venuta da Alberto Asor Rosa nell’ambito di un dibattito aperto da «Il Manifesto» sullo stato della sinistra in Italia. Adesso l’incontro si concretizza il 15 gennaio alla Fiera di Roma. L’adesione è stata superiore alle aspettative. «Le risposte - spiega Asor Rosa - per le motivazioni e l’ambito concettuale nel quale la proposta è stata formulata, sono venute da una certa sinistra, quella più radicale: Prc, Pdci, Verdi, gruppo Occhetto e una miriade di associazioni e gruppi della società civile, dai pacifisti al Laboratorio per la democrazia di Ginzborg». Il giorno dopo, il 16 gennaio, si terrà un altro incontro sul programma del centrosinistra promosso da un pool di riviste. Ma le due iniziative «hanno marciato indipendentemente l’una dall’altra, la coincidenza temporale è puramente casuale». Fatto sta che questa coincidenza consentirà una due giorni di riflessione a tutto campo in un momento critico per il centrosinistra: «È emersa con chiarezza la tendenza a spostare verso il centro l’asse del centrosinistra. Un errore, secondo me. Riuscire a dimostrare che esiste una forza coesa e solidale a sinistra capace di tirare nella direzione contraria, potrebbe impedire quella deriva moderata del centrosinistra che probabilmente sarebbe perdente anche sul piano elettorale».

Lei ipotizza un percorso. Con quale finalità?

«Tentare di fare chiarezza su quelli che possono essere i valori fondativi e le idee guida di una sinistra che non sia concepita come puro e semplice strumento di gestione di questo sistema, sia a livello nazionale che internazionale. Una operazione che è, in primo luogo, di cultura politica».

Questo implica l’esistenza di un vuoto di elaborazione politica a sinistra?

«Un vuoto pesantissimo, stratificato negli anni a partire dal momento in cui la vecchia cultura di sinistra, quella che ruotava intorno al Pci, è andata in crisi senza essere stata rimpiazzata da nessuna sintesi nuova o magari da più di una sintesi»

Lei rimprovera alla sinistra di essere diventata uno strumento di gestione del sistema. Vuole spiegare?

«La sinistra italiana nel suo complesso si è appiattita sulla gestione dell’esistente e sulla ricerca di formule organizzative destinate a sopperire a una serie di difficoltà con le quali di volta in volta ci siamo confrontati, sia stando al governo che all’opposizione. Il contingente ha prevalso nettamente sullo strategico e questo ha provocato anche un degrado della politica a mera gestione, ad amministrazione del potere. Il ragionamento riguarda la sinistra nel suo complesso anche se, per ora, a porsi il problema è stata quella componente della sinistra italiana ed europea che non ha scelto una via di tipo blairiano per intenderci».

Da una parte la sinistra che si aggrega nella Fed identificata come motore riformista della più vasta alleanza dell’opposizione, dall’altra una aggregazione più radicale che porta nel programma dell’alleanza un suo contributo di idee e di contenuti?

«Direi che si confrontano due diverse opzioni possibili di riformismo. La prima è quella della modernizzazione, formula usata da Piero Fassino fin dal congresso di Pesaro. La seconda insiste invece sul processo di mutamento del sistema economico sociale capitalistico nel senso di una maggiore solidarietà sociale e di una maggiore partecipazione. Due visioni diverse. Due approcci diversi a questo sistema e al modo di governarlo».

Su quali temi deve esercitarsi questa riflessione?

«Guerra e pace, innanzitutto. Capitale-lavoro, globalizzazione, diritti e garanzie costituzionali. A partire dai pericoli insiti nello slittamento autoritario e intriso di conflitto di interessi del governo Berlusconi e del sistema di potere che ha creato».

Lei ha detto che non serve un nuovo contenitore ma che va garantita a questa aggregazione a sinistra un minimo di rappresentatività. Ha proposto una Camera di consultazione permanente. Una forma di organizzazione stabile?

«La mia idea, che sarà oggetto di discussione in questa assemblea, è che occorre trovare una soluzione intermedia fra la ricerca di una struttura organizzativa permanente alla maniera della Fed, e l’assenza di organizzazione. La prima sarebbe troppo precoce e tradirebbe l’attesa di molti che cercano risposte strategiche e non forme organizzative. L’altra metterebbe chi partecipa all’iniziativa in una condizione di incertezza e di discontinuità. Una Camera di consultazione permanente sarebbe un organo al quale sono ammessi tutti quelli che lo desiderano (partiti, sindacato, rappresentanze di gruppi, associazioni...) con compiti di discussione ed elaborazione su temi di carattere generale ma anche attinenti allo svolgimento concreto della vicenda politica italiana».

Non c’è il rischio di spezzettare ancora di più il panorama politico? Da una parte la Fed riformista, dall’altra la sinistra radicale, mentre il programma della Gad ancora non parte perchè la sintesi è difficile e nel frattempo ci si attarda su primarie e regole varie?

«L’iniziativa del 15 gennaio va in direzione esattamente contraria a uno spezzettamento. È una scelta profondamente unitaria tesa a rendere più chiari gli elementi di programma sui quali c’è una convergenza. Penso a un processo unitario a sinistra capace di rendere più forte e solida anche l’alleanza democratica. Secondo me ci sono più prodiani convinti in questa zona della sinistra che non nella Margherita».

In questo quadro cosa accade ai Ds?

«Se una parte dei Ds punta alla fusione con la Margherita bisogna prendere atto che una parte della sinistra storica si appresta a percorrere una strada che non è la nostra. Ma non c’è niente di scontato in questo processo».

Dico per titoli i fatti storici dai quali parto: il crollo dell'ipotesi sovietica, la crisi irrimediabile dell'esperienza della socialdemocrazia europea e la sconfitta del `68. E' un «elenco» che - in modo del tutto sommario e sempre a mo' di titolo di una possibile e auspicabile ricerca analitica adeguata - narro così: il tentativo fallito di costruire il socialismo mutando la proprietà dei mezzi di produzione, non il modo di produzione e l'illusione di potersi servire dello strumento «stato» per fare l'operazione, dimostra che non è possibile, senza mutare anche il modo di produzione e senza costruire uno stato che non sia - come quello uscito dalla Rivoluzione francese - uno strumento dotato di garanzie giuridiche e di laicità, ma in fin dei conti autoritario e militarista.

La crisi irreversibile della grande socialdemocrazia europea, compreso anche il suo esempio estremo di «sinistra socialdemocratica» che fu il Pci, dimostra che anche costruire lo stato sociale è una buonissima idea, ma non basta per mutare l'economia e non regge alle spinte militariste anche prima citate.

Quanto al `68, la cui origine antiautoritaria e creativa poteva far sperare che avrebbe ovviato ai limiti prima elencati, esso fu sconfitto non perché avesse sbagliato l'agenda dei problemi (che sono ancora tutti lì irrisolti e presenti) bensì le forme della politica con la trasformazione del movimento in una costellazione di partiti e partitini aventi caratteristica di istituzioni generaliste, quando già la critica di tali forme era nata. In più di avere ceduto - per una immagine di stato non radicalmente diversa da quella sovietica - all'idea che l'uso della forza o della violenza politica potesse avere una carica rivoluzionaria.

Se questi sono i titoli di un possibile ragionamento e tenendo conto che nel frattempo sono avvenuti fenomeni sociali molto vasti (migrazioni, delocalizzazione produttiva, segmentazione dell'iniziativa sindacale) e sono nate nuove culture politiche (femminismo, ecologia, pacifismo) sembra di poter osservare che non si può avanzare di un passo se non si ripercorrono i temi indicati, per trovare le cause dei fallimenti e porvi rimedio.

A me pare che si dovrebbero soprattutto analizzare le novità sociali e culturali e di conseguenza disegnare la traccia di un sistema di relazioni politiche che tenga conto dell'esistenza della società complessa, della critica alle forme generaliste e della prevalente cultura sistemica; in più bisogna analizzare con cura i nuovi movimenti, che hanno la caratteristica di essere politici e non rivendicativi e perciò pongono la domanda cruciale di ridiscutere il sistema delle relazioni politiche. Inoltre sembrano, in tutto il mondo, avere scelto la pratica dell'azione diretta nonviolenta e di non rifiutare un rapporto con le istituzioni formali e informali.

In più - e questa è la caratteristica più innovativa - i movimenti hanno un approccio alla realtà attraverso un simbolico che non è più quello del mosaico (l'armonia dei vari pezzi e colori che prevede sempre uno che disegna e stabilisce funzioni e dispone i pezzi al loro posto) bensì un modo olistico di leggere il reale, tanto che in uno dei pezzi - per piccolo che sia - si trova il nesso con l'intera realtà e per questo ogni movimento è politico e un sistema di relazioni deve tenere presente la questione di come si compone il rapporto tra molteplici (non tra plurali), che restano tali e non sono riducibili a unità o a sintesi: in altri termini come si può organizzare una serie di relazioni politiche e di forme adeguate a una complessità non riducibile. Come si risolve a sinistra l'analisi fatta da Luhmann; allo stesso modo come Marx non rifiutò l'analisi degli economisti del capitalismo ma ne mise in discussione le conseguenze sociali, le valenze politiche, la scala dei valori: tutto qui, per cominciare.

Lo avrai camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolato delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli

che ti vide fuggire

ma soltanto col silenzio dei torturati

più duro d'ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci ritroverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama ora e sempre

RESISTENZA

C'è l'impressione che in questi anni - quelli di transito tra il novecento e il nuovo millennio - la "politica dei partiti" abbia abbandonato la riflessione teorica sulle dinamiche reali della società e del Paese, rinunciando alla costruzione di elaborazioni orientate a porre rimedio ai danni concreti e quotidiani del neolibersimo, e prima del capitalismo italiano. Riflessioni ed elaborazioni da incidere nell'alveo di un progetto di società e di futuro chiaro e condiviso, o come auspica Fausto Bertinotti (nell'intervista con Sansonetti su Liberazione del 7 novembre), di una nuova "ideologia".

La "questione territoriale" è, a questo proposito, emblematica, ma anche utile a ritrovare la via per una dialettica nella sinistra, da cui elaborare i contenuti di un nuovo progetto di società, e, contestualmente, di un nuovo progetto di governo, concretamente alternativo al "berlusconismo", di destra e di sinistra.

Quattro categorie

La "questione territoriale" si connota, nei suoi tratti principali, per almeno quattro categorie problematiche, intimamente legate.

La prima di queste ha a che fare con i ritmi e le forme dell'urbanizzazione in Italia: se è vero che il ritmo dell'edificazione (di alloggi, attrezzature e infrastrutture) si è oggi allentato rispetto a cinquant'anni fa, è anche vero che le forme di questa edificazione sono oggi maggiormente invasive ed energivore, allorché si concretano in ciò che nel gergo disciplinare si chiama "dispersione degli insediamenti". Si tratta di una forma di urbanizzazione a bassa densità, che si allunga in mille rivoli e acquitrini, "consumando" il suolo del vasto territorio attorno ai centri urbani storici; richiedendo ai cittadini e ai "fattori di produzione" di muoversi, di spostarsi, per raggiungere le attrezzature - di vita, di lavoro, di produzione ecc. - che, seguendo altre economie di localizzazione, rimangono necessariamente "distanti": così si sta producendo un territorio saturo di manufatti e una società vieppiù erratica. Il primo di questi "prodotti" deve far riflettere sulla compromissione, difficilmente reversibile, delle diverse funzioni (e delle diverse risorse) del territorio: quella agricola, quella "ecologicamente produttiva", quella ricreativa, quella identitaria ecc. Il secondo impatta invece, principalmente, sulla mobilità privata dei cittadini e sulle forme relazionali e comunitarie che, con questo nuovo e spontaneo assetto territoriale, si stanno producendo. Significa quindi, tra l'altro, aumento del consumo di carburanti fossili, di inquinamento, di incidentalità stradale, cioè di voci di costo collettivo nei bilanci pubblici (per ciò che riguarda la mobilità), e - per ciò che riguarda il sistema sociale - "privatizzazione" dei legami, degli scambi, della socializzazione, della comunicazione: una comunità cioè che sta prendendo il sentiero dell'isolamento tra soggetti, della rottura della "sfera pubblica" a favore di un succedaneo privato.

La seconda categoria problematica si riferisce al sistema di infrastrutture e di politiche per la mobilità e i trasporti, che nel nostro Paese sembrano non servire un "progetto" ma asservire ad uno stato di cose. Si parla infatti di "domanda di infrastrutture", come conseguenza di un fatto non governato o non governabile: spesso cioè si costruiscono insediamenti senza interrogarsi sulla portata e la scala della mobilità indotta (delle persone e delle merci); a valle di questo processo "si chiedono" infrastrutture e politiche che risolvano il problema del traffico e della mobilità: è, questo, un circuito autoalimentante per il quale nessun "progetto di futuro" è praticabile, ma si danno solo risoluzioni di emergenze, tramite il ricorso, spesso, alla via più veloce ed economica (nel breve termine): quella dell'asfalto. Da qui, da questo ritardo nella progettazione del territorio, sono nate caotiche e conflittuali infrastrutture, spesso inefficaci, che allontanano continuamente l'attenzione e gli impegni pubblici dalle politiche per la mobilità collettiva: nelle città come nei territori del Paese, il trasporto pubblico di massa è spesso la cenerentola degli investimenti.

La terza categoria di problemi ha a che fare con l'universo della fiscalità locale e del sistema tributario. L'orientamento che lo Stato ha preso da diversi lustri è quello di agganciare al territorio, alle sue dimensioni costruite e urbanizzate, una parte, progressivamente sempre più importante, del gettito degli enti locali: un sistema che doveva garantire servizi ai cittadini e alle imprese. Una condizione che poteva sembrare in equilibrio se fosse continuata nel tempo la compartecipazione sostanziale dello Stato, tramite i suoi trasferimenti, al bilancio degli enti locali; condizione che invece, come è noto, non si è verificata, per seguire gli obiettivi del decentramento, del federalismo e della riduzione delle tasse, con la conseguenza di indurre - più o meno implicitamente - gli enti locali a "costruire nuova base imponibile", con previsioni di sviluppo territoriale capaci - ma solo in modo effimero - di non ridurre il livello di servizi offerto alle comunità e alle imprese. L'impatto più evidente di questa condizione è leggibile nella disarticolazione tra costruzione del territorio e interesse pubblico: il territorio è "merce", e la sua valorizzazione monetaria è lo scopo; conflitto nel quale l'interesse pubblico rimane profondamente leso.

La quarta categoria problematica è relativa alla casa, come simbolo di uno "stato sociale" in progressivo declino, e come emblema di un sistema politico/amministrativo non più in grado di fornire prospettive esistenziali non subalterne al mercato capitalistico. Anche qui si prende atto di una condizione: che ormai i tre quarti degli italiani siano proprietari della casa in cui abitano e che, di conseguenza, la collettività debba dedicarsi esclusivamente alle emergenze e mai più a costruire un progetto organico di un futuro desiderabile. Ma il fatto è anche che la promozione della "residenzialità" sta impedendo la mobilità e la flessibilità pretesa dai nuovi paradigmi di sviluppo; sta riducendo progressivamente la possibilità di investire e consumare risorse; non ultimo, per conseguenza della mercificazione di questo diritto, la casa è sempre più un canale di rendita, capace, come si sta vedendo in questi ultimi anni, di drenare investimenti dai settori produttivi del mercato.

Politica del territorio

A partire da quest'ultima osservazione è utile annotare quanto contenuto squisitamente politico vi sia nelle questioni che afferiscono all'urbanistica e al governo del territorio; e quanti valori primari siano qui rintracciabili per contribuire a costruire una nuova idea di società, e da qui un nuovo progetto di governo.

Oggi, Rifondazione Comunista partecipa al governo di molti enti territoriali, con la prospettiva di aumentare questa presenza, fino alla sfera nazionale. Ma questa attività non sembra essere sufficientemente accompagnata dal lavoro di costruzione di una "visione" forte e condivisa circa i temi del governo del territorio; una visione capace di dare contenuto ad un progetto di società, ad una nuova "ideologia".

Sembra perciò terribilmente importante trovare uno spazio di discussione non occasionale e non autoreferenziale, all'interno di Rc e magari nell'alleanza che si prospetta nel centro-sinistra: una sorta di "forum permanente" in cui cominciare a costruire valori e progetti per il governo del territorio, a partire certamente dalle esigenze contingenti che gli amministratori si trovano ad affrontare; e a partire anche da una seria critica alla proposta di legge urbanistica, del governo di centro-destra, che oggi giace alla Camera.

Marco Guerzoni, urbanista; hanno aderito: Carla Colzi, Assessore alla Casa e LLPP del Comune di Reggio Emilia; Gino Maioli, Assessore alla Mobilità e Trasporti della Provincia di Ravenna; Andrea Mengozzi, Assessore all'Ambiente della Provincia di Ravenna; Fabio Poggioli, Assessore all'Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di Ravenna; Maurizio Zamboni, Assessore alla Mobilità e LLPPdel Comune di Bologna

Non sarei tornato a parlare della morte di Giovanni Gentile (Repubblica 8 novembre) se questo evento non ricomparisse puntualmente come un ricorrente archetipo negativo dei valori della Resistenza. Ad esempio recentemente sul Corriere della Sera una recensione del libro del postino delle Br, Valerio Morucci, ("La peggio gioventù", ed. Rizzoli) era titolata su cinque colonne: "Moro ucciso come Gentile" creando una equazione immediata tra i partigiani e i terroristi. E se è pur vero che il recensore, Giovanni Bianconi, prendeva le distanze dal paragone di Morucci, è altrettanto rivelatore che egli lo abbia fatto affermando che accettarlo "sarebbe come racchiudere tutta la Resistenza nello sconsiderato omicidio del filosofo". È quanto meno singolare che su quelle stesse colonne non avesse trovato ospitalità la replica inviata al giornale da uno degli ultimi attori e testimoni di quell´evento, Teresa Mattei (che sarà poi la più giovane parlamentare della Costituente), la quale, avendo rivelato al giornale gli autentici retroscena dell´attentato, era rimasta ferita dalle interpretazioni che ne erano seguite da lei giudicati "offensivi e distanti dalla verità".

Inaccettabile, in particolare, le sembrava il paragone avanzato da Sergio Romano, fra l´uccisione del filosofo e l´assassinio dei fratelli Rosselli, avvenuto nel 1937, a opera di sicari del fascismo, in Francia, dove si erano rifugiati. "Come si può mettere sullo stesso piano - scrive nella lettera cestinata - un crimine e una legittima sentenza bellica... eravamo in guerra e di guerra era anche il diritto... la decisione di eliminare Gentile non è stata guidata da ansia di vendetta... ma fu un atto con cui si chiudevano i conti con il maggior responsabile della cultura fascista... Sicuramente le torture efferate e la morte di mio fratello Gianfranco (rinchiuso in via Tasso, n.d.r.), dei suoi compagni e di mille altri, insieme ai proclami di condanna alla pena capitale per i giovani renitenti alla leva di Salò di cui Giovanni Gentile era il più cinico celebratore, così come la conseguente fucilazione sotto i nostri occhi di tanti giovani a Firenze, in Campo di Marte, hanno contribuito a renderci ancor più determinati".

Certo, coloro i quali oggi bollano l´attentato dei Gap fiorentini,(che, a partire dal loro capo, Bruno Fanciullacci, pagarono poi quel gesto con la vita), usano l´argomento che Gentile non fosse da annoverarsi tra i gerarchi più biasimevoli, tanto che alcune volte era intervenuto, nei limiti consentiti e senza, però, mai contestarne la giustezza, per rendere meno aspre le misure di persecuzione contro qualche collega avverso al regime o ebreo. Ciò non pertanto queste attenuanti, riferenti a prima del 25 luglio 1943, non potevano muovere ad alcuna indulgenza dopo l´8 settembre, quando solo i più accaniti filonazisti fra le camice nere avevano seguito Mussolini nel precipizio finale a fianco di Hitler. Lo scontro era ormai definito e definitivo: da un lato gli eserciti che portavano libertà e democrazia, a cui si erano affiancate le formazioni partigiane e i militari agli ordini del legittimo governo italiano, dall´altra le brigate nere, le varie bande di torturatori agli ordini delle SS, i fedeli ausiliari dei responsabili delle camere a gas e dei lager, ispirati dai teorici del razzismo. Il fatto che un filosofo illustre avesse dato loro avallo costituiva un aggravante del collaborazionismo "repubblichino".

In proposito ho ricevuto - dopo il mio primo pezzo - una bellissima lettera di Sergio Lepri, per decenni mitico direttore dell´Ansa e prima ancora, pur provenendo dalla sinistra liberale, portavoce del presidente del Consiglio, Amintore Fanfani. Eccone qualche brano: "All´epoca della morte di Gentile dirigevo a Firenze un foglio liberale clandestino, "l´Opinione". La notizia dell´attentato mi colpì dolorosamente... mi ero laureato in filosofia nel ´40, a vent´anni, e avevo studiato con passione i suoi testi... alcuni storici revisionisti di oggi... non si sforzano, però, minimamente di capire il clima di allora, il contesto storico ed anche emotivo in cui vivevamo, in mezzo a una guerra civile e di liberazione; e ogni giorno c´erano morti, quasi tutti della nostra parte... fu proprio per Giovanni Gentile che molti giovani si schierarono dalla parte sbagliata. Ecco perché Teresa Mattei, la cara Chicchi, nei giorni in cui suo fratello era torturato dai fascisti repubblichini, tanto da portarlo al suicidio, non si oppose alla decisione del suo futuro marito, Bruno Sanguinetti e dei suoi compagni di ispirare un atto clamoroso... ecco perché uno come me provò dolore ma non indignazione per la morte di Giovanni Gentile".

Superare in voti la CdL e liberare il paese dalla presenza dell'attuale governo è, più che un obiettivo politico, una prescrizione di igiene democratica. Sono rilevanti i temi in discussione, dalla ricostituzione di una sinistra (con aggettivi o senza), al metodo con cui si costruisce democraticamente una proposta, tema che ha ricevuto notevole impulso dalle ultime prese di posizione di Fausto Bertinotti. Per essere ottimisti sull'esito dello scontro mi pare manchi non un leader credibile ma piuttosto una idea guida forte. L'arricchitevi di Berlusconi, anche se non credibile, ha emanato un tale «fascino» da portarlo due volte alla vittoria. Il programma dovrebbe essere facilmente delineabile, la restaurazione democratica: giustizia; distinzione dei poteri; scuola pubblica; pluralismo nell'informazione e ruolo del servizio televisivo pubblico. Sta dentro tale «restaurazione» una normativa costituzionale che vieti ogni possibile legalizzazione di comportamenti illegali («condoni» fiscali, edilizi, ambientali, ecc.) e se un federalismo dovesse proprio esserci, che sia temperato e solidale.

Più problematici sono ancora gli aspetti economico-sociali: meno flessibilità nei rapporti di lavoro (si è dimostrato serve solo a esercitare un maggior sfruttamento sulla forza lavoro); garanzia di una stato sociale più allargato, migliore emeno costoso per gli utenti; un programma di lotta alla povertà e all'emarginazione; il mezzogiorno ancora una questione aperta; la politica di governo delle città come caposaldo della convivenza civile, dello sviluppo economico e dell'allargamento della democrazia. Oscura, infine, appare la questione fiscale. Che la situazione imponga un nuovo patto fiscale, tra cittadini e stato, è evidente. Che esso si debba basare sulla trasparenza, pare condiviso dai più, incerta è l'accettazione del fisco non come un carico sui cittadini, ma piuttosto quale contributo finalizzato ad accrescere il valore reale delle disponibilità di ciascuno e di tutti. Una ipotesi di questo tipo non può che partire dalla definizione delle necessità finanziarie dello Stato, in ragione dei servizi offerti e ritenuti essenziali, e quindi prospettare, non una riduzione delle imposte, ma piuttosto una migliore distribuzione progressiva delle aliquote tra le diverse fasce di reddito e una lotta determinata all'evasione. Anche un'imposta patrimoniale, dopo anni di redistribuzione del reddito a favore dei «ricchi», non ci starebbe male.

Pare indispensabile, tuttavia, che l'opposizione assuma anche (e prioritariamente?) in tutto il suo spessore l'obiettivo di riconciliare la società con l'industria. Solo i ciechi non vedono il declino rilevantissimi dell'apparato industriale del nostro paese. Questo mentre molti intellettuali della sinistra (magari ex-operaisti) cincischiano con la fine del lavoro industriale, la smaterializzazione della produzione, il piccolo è bello, e via di questo passo. Certo che il lavoro è cambiato, in questi venti anni più rapidamente che nel secolo precedente, ma il rapporto sociale di produzione non si è modificato, la rivoluzione passiva operata dalle forze del capitale ha teso a cambiare la forma ma non la sostanza di tale rapporto, ne ha, di fatto, peggiorato la condizione. Su questo terreno forse è possibile cogliere passi indietro secolari, con l'emergere sempre più vistoso del «lavoro servile». Se l'economia del paese non deve fondarsi su camerieri, bagnini, maestri di sci, ecc. allora è necessario mettere mano ad una vigorosa politica industriale. L'apparato della grande impresa è in crisi ed è centro di corruzione e malaffare (non importa se privata o pubblica: Parmalat, Cirio, gruppo Eni, per citare solo i più grossi). Appena si soleva un poco il coperchio della loro gestione si viene investiti da fetori pestilenziali di corruzione, di appropriazioni, ecc. (magari qualcuno dei responsabili ha ottenuto una laurea honoris causa in «etica degli affari»). Ma della grande industria non si può fare a meno; tuttavia si tratta di cosa molto importante per lasciarla in mano agli industriali o ai manager; c'è necessità di sviluppare forme appropriate di controllo pubblico e collettivo, si può pescare per questo in vecchi modelli, si può innovare, ma la necessità è questa (si può ripensare all'economia mista che tutti ci invidiavano, ecc.). Ma una tale e vigorosa politica industriale ha bisogno, come già detto, della riconciliazione della società con l'industria. Un'industria rinnovata, innovata, attenta all'ambiente ma anche ai rapporti di lavoro, una società che assuma il lavoro industriale non come un male da sconfiggere, ma come un'occasione di crescita economica, sociale e culturale.

Ma insieme va assunto il rapporto sociale di produzione come terreno di conflitto e di suo superamento in una prospettiva reale, collettiva e di interesse per tutta la società. Sta dentro tale riconciliazione ogni riferimento a un nuovo modello di produzione e di società, così come la difesa ambientale ha al suo centro non l'industria ma il rapporto sociale di produzione che le è costitutivo. Dentro tale riconciliazione è possibile un nuovo patto keynesiano, del tutto impossibile oggi per lo sfaldamento dell'industria e per la sua natura sempre più corrotta, speculativa e appropriativa. Si tratta di una battaglia culturale che la sinistra non può non fare sua, infatti, insieme alla scienza, per la quale vale lo stesso problema di una riconciliazione con la società, ci si riferisce al dato costitutivo dell'organizzazione della società e alla base per il suo superamento. Senza tale vigorosa battaglia culturale, sociale e politica si rischia una deriva «gestionale» con l'illusione di controllare le derive economiche e sociali.

Esattamente 35 anni fa, il 28 novembre del 1969, Roma - che li conosceva poco - fu invasa dai metalmeccanici. Le cronache dell'epoca raccontano di due cortei giganteschi che per sei ore sfilarono da piazza Esedra e dalla Piramide fino a piazza del Popolo. Li ricordo anch'io quei cortei: per noi studenti romani che uscivamo dal sessantotto fu il primo vero incontro con la mitica classe operaia del nord. Giornata memorabile. Noi capimmo una cosa che fu decisiva per la nostra formazione: la classe operaia non era solo un concetto, un ragionamento dei libri, e neppure soltanto un ceto o uno strato sociale: era una forza concreta e formidabile, formata da migliaia e migliaia e migliaia di persone, in carne ed ossa, tenaci, intelligenti, combattive, fantasiose, che potevano cambiare il corso della politica, vincere delle battaglie, modificare il nostro futuro. Mi ricordo la sensazione persino fisica di forza - e di serenità - che ci dava quel fiume di tute blu: era un autunno di grande tensione politica, dieci giorni prima in un corteo a Milano era stato ucciso un agente di polizia, in ottobre a Pisa la polizia aveva ammazzato due studenti, ogni volta che scendevamo in piazza, o che occupavamo una facoltà universitaria, o una scuola, avevamo paura di essere attaccati dalla celere, di essere picchiati, feriti, messi in prigione. Quel giorno no, fu un corteo splendido e tranquillo, sotto il sole, non temevamo nulla, circondati da quella specie di esercito operaio. Eravamo protetti, forti, spavaldi. Partimmo alle nove di mattina, arrivammo a piazza del Popolo nel pomeriggio, e non si riusciva nemmeno ad entrare, perché era piena come un uovo, era piena via del Corso, via del Babbuino, piazzale Flaminio, e le rampe di Villa Borghese su su fino al Pincio e a Trinità dei Monti. Dal palco parlarono due giovani sindacalisti, Bruno Trentin, comunista, che era un quarantenne, e Giorgio Benvenuto, socialista, poco più che un ragazzo, e poi parlò anche quello della Cisl, cioè il democristiano, un po' più vecchio degli altri due, Luigi Macario.

Noi, in quell'epoca, per intendere la controparte, dicevamo: la borghesia. Bene, la borghesia restò impressionata da quella prova di forza, e iniziò a cedere. Il contratto nazionale di lavoro, che sembrava irraggiungibile, fu firmato un mese dopo e fu un grande contratto, che aumentava i salari, riduceva il cottimo, diminuiva l'orario di lavoro, introduceva in fabbrica la democrazia (si chiamava "democrazia consiliare") e spezzava un decennio di sconfitte sindacali. Fu l'inizio di una spettacolare riscossa che durò diversi anni e si estese rapidamente: ai chimici, ai tessili, poi via via a tutte le altre categorie. In gennaio fu approvato lo statuto dei lavoratori, e fu una sconfitta sonora e travolgente per il padronato stile anni-cinquanta. Nel '72 per i metallurgici ci fu un contratto ancora migliore di quello del ‘69, che stabilì le 150 ore, cioè un periodo dell'orario di lavoro da dedicare gratuitamente all'istruzione. A spese delle aziende e dello Stato. Le 150 ore cancellarono in Italia l'analfabetismo. Due anni dopo ci fu l'accordo sul punto unico di contingenza, che fu una spinta formidabile a quello che per noi era egualitarismo, e oggi, nel pensiero unico, si chiama appiattimento salariale.

Non furono pacifiche quelle conquiste, si sa. Una parte della borghesia in realtà era decisa a trattare con questa classe operaia che avanzava, maturava, era sempre più seria e sicura di se. E che era rappresentata dalla sua stessa autonomia, e poi dai sindacati e dai partiti tradizionali, soprattutto dal Pci, ma anche dalle forme nuove di sindacalismo dal basso, come i Cub, e da nuove e piccole organizzazioni politiche, Potere Operaio, Lotta Continua, il Manifesto, Avanguardia operaia, tutti gruppi che nascevano allora, soprattutto nelle cinture operaie di Torino e di Milano. Ma c'era anche una parte della borghesia che non intendeva trattare, non cercava la via politica e fece la scelta eversiva. Due settimane dopo la marcia delle tute blu su Roma, scoppiò la bomba a piazza Fontana, a Milano, in una banca, fece sedici morti, furono arrestati gli anarchici, uno fu portato in questura a Milano, probabilmente preso a botte, ucciso, gettato dalla finestra, si chiamava Pino Pinelli, era assolutamente innocente. Ci vollero tre anni per stabilire con certezza che gli anarchici con quella strage non c'entravano niente. Chi l'aveva realizzata la strage di piazza Fontana? Ancora nessuno ce l'ha detto, forse i fascisti, forse i servizi segreti, forse gli uni e gli altri di comune accordo; sicuramente la ordinò quella parte della borghesia italiana che non voleva trattare con gli operai e preferiva eventualmente rinunciare alla democrazia.

Gli anni '70 sono stati sanguinosi. Il terrorismo nero (o bianco, o quello dei servizi segreti) ha riempito di bombe il paese, ha ucciso a tradimento centinaia di persone. Tranne poche eccezioni, e cioè i giovanotti dei Nar (Fioravanti, la Mambro, qualcun altro) per il resto è rimasto totalmente impunito. Anche il terrorismo rosso ha seminato morti, senza bombe, con le rivoltelle strumenti più "virili" ma altrettanto ignobili, e ha rovinato l'esistenza dei parenti delle vittime e anche delle migliaia di ragazzi che hanno creduto nella lotta armata e poi hanno passato decine di anni nelle carceri e altre decine con il rimorso che li rodeva dentro. Il terrorismo rosso ha pagato per i suoi sbagli, ma questo non cambia molto le cose.

Se però immaginate gli anni '70 come il buio periodo della violenza, commettete un errore grandissimo. Sono stati anni straordinari, meravigliosi, è stato il decennio nel quale l'Italia è uscita dal suo medioevo fascista e post fascista, ha trovato se stessa, ha inventato i diritti di massa, ha conquistato più libertà, più giustizia, più uguaglianza, un'idea meno corporativa, ed egoistica, e padronale di società, una capacità di liberarsi dalle oppressioni, delle istituzioni totalizzanti, dell'idea ottocentesca dello Stato padrone. In quegli anni l'Italia è stata un paese all'avanguardia. Sono gli anni delle grandi conquiste sociali e delle riforme, avviate proprio in quell'autunno caldo del '69 che era culminato con il 28 novembre dei metalmeccanici. L'Italia del '79 era un paese molto più giusto di quello di oggi. Dove il senso comune era avanzato ed egualitarista, mille miglia lontano dal berlusconismo e dalla marmellata meritocratica dello spirito pubblico di oggi.

Avete letto in questi giorni gli anatemi contro gli anni '70? Non è vero che i conservatori hanno paura che torni il terrorismo e la violenza. E' chiaro a tutti che quel rischio non esiste. Temono che torni lo spirito politico, la passione di massa, la politica-politica che ha reso unico quel decennio. Speriamo che i loro timori siano fondati.

A pensarci bene, sono molto coerenti. C´è una lucida, anche se viziosa, razionalità in quanto sta per accadere in Parlamento con la legge «Salva Previti!». Ricordiamo brevemente. Per liberare dai grattacapi milanesi se stesso e Cesare Previti, amico, sodale, avvocato, onorevole e ministro di giustizia "ombra", Silvio Berlusconi ha prima modificato il reato (il falso in bilancio). Poi, con la legge sulle rogatorie, ha voluto annichilire le prove. Non è stato sufficiente per mandare per aria il lavoro della procura di Milano. E allora sono state manipolate le regole del processo con la legge Schifani. Bersaglio mancato. La manovra è stata sventata dalla Suprema Corte che ha cancellato la legge perché incostituzionale. Al rosario delle manomissioni del principio dell´uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, mancava all´appello - dopo il reato, la prova e il processo - la sentenza.

L´aggressione alle sentenze si è consumata ieri alla Camera, in commissione giustizia. Come è naturale, una sentenza non si può cancellare. Ma se ne possono cancellare gli effetti, ovvero la condanna. Come? Estinguendo, come si dice, il reato. In una parola, cancellandolo, considerandolo morto.

E´ una mossa meno complicata di quanto si possa immaginare. Se non si può modificare l´esito di un processo - faccenda alquanto ardua: come si fa a gettare nel cestino la corruzione magari aggravata dalla circostanza che il corrotto è un giudice? - lo si può aggirare. Per esempio, definendo dei tempi di prescrizione più ridotti. Se passa troppo tempo dal giorno della consumazione del reato, il reato non c´è più: questa è la prescrizione. Dunque, se si accorciano i tempi della prescrizione anche il reato di corruzione in atti giudiziari può evaporare.

Finora la corruzione in atti giudiziari - reato per il quale Cesare Previti è stato condannato, in un processo, a undici anni di carcere e, in un altro, per corruzione semplice a cinque - si estingueva in quindici anni (dieci più cinque). La commissione giustizia della Camera propone ora di cambiare le regole del gioco. Senza farsi imprigionare dai tecnicismi, è sufficiente dire che i dieci anni più cinque, diventano otto più due. Il massimo della pena prevista da quel reato (otto anni) aumentata per le circostanze aggravanti di un quarto. Dunque otto più due, dieci anni. Non ci crederete, ma il processo milanese ha accertato che l´ultima manovra corruttiva di Cesare Previti (affare Imi-Sir) risale al giugno del 1994 (Previti si preparava a diventare ministro della Difesa e intascava una ventina di miliardi in Svizzera). Dunque, dieci anni e cinque mesi fa. Conclusione. Se la legge dovesse essere approvata come è stata confezionata oggi, il reato di corruzione in atti giudiziari di Cesare Previti, e manco a dirlo anche quello (ancora a giudizio) di Silvio Berlusconi, sarebbe estinto già da cinque mesi. Alla Camera, comunque, non vogliono proprio correre rischi. Si devono essere detti che bisogna garantire a Cesare Previti un´ulteriore opportunità nel caso l´operazione fallisse, la manipolazione saltasse e i tempi della prescrizione restassero quel che sono oggi. Il relatore della legge Luigi Vitali ha infilato così nella proposta un piccolo emendamento. Prevede che gli imputati condannati che abbiano compiuto i 70 anni, «a meno che non siano stati dichiarati delinquenti abituali o professionali», non faranno un solo giorno di carcere. Sconteranno la pena a casa. Anche in questo caso, sarete increduli nell´apprendere che, soltanto per un caso, Cesare Previti ha compiuto i settant´anni il mese scorso, il 21 ottobre.

E´ la legge «Salva Previti!», anche se i burattinai e i burattini di quest´ultima manovra lo smentiscono. Al di là del disegno legislativo che si adatta alla figura di Previti come una giacca tagliata da Caraceni, ci sono due circostanze che lo confermano. La prima la offre, forse inconsapevolmente, proprio il relatore della legge. A frittata fatta, Luigi Vitali salta fuori con una dichiarazione a prima vista senza senso. Dice Vitali: «Ieri Silvio Berlusconi ha inaugurato il nuovo corso, ricatti non li accettiamo». Non si comprende che cosa c´entra il presidente del Consiglio. Il disegno di legge presentato alla commissione giustizia è formalmente un´iniziativa parlamentare, non una mossa del governo. E allora, perché invocare Berlusconi a meno che non sia di Berlusconi la sollecitazione a togliere a se stesso e a Previti le castagne dal fuoco? E´ un´ipotesi che trova una conferma nella seconda circostanza.

Questa doveva essere la settimana del regolamento di conti con la magistratura. La riforma dell´ordinamento giudiziario è all´ultimo giro di boa, alla Camera. E´ la legge a cui il governo e la maggioranza hanno affidato, come sostengono le toghe, la vendetta contro pubblici ministeri e giudici. Ordine giudiziario fortemente gerarchizzato, umiliazione del consiglio superiore della magistratura, invasività dei poteri del ministro e delle commissioni di esame e di disciplina che egli contribuirà a formare. Sembrava fatta. Il ministro di giustizia addirittura sperava di chiudere la partita oggi togliendosi la soddisfazione di vincerla mentre la magistratura scioperava per la terza volta nella legislatura. Così non sarà. Il condono ambientale con la fiducia fa slittare il voto alla prossima settimana. Ma Palazzo Chigi ha fatto sapere che prima dell´ordinamento giudiziario bisognerà approvare la «Salva Previti!». Anche qui con molta coerenza perché prima la fai franca, eviti il pericolo e poi ti vendichi di chi te lo ha procurato. Quindi, prima si salva Previti, poi si puniscono i magistrati. Coerente. Come le riforme di giustizia del governo. Anche se, favorendo uno (Previti), sono riforme che salvano moltissimi e per reati socialmente minacciosi come la rapina, l´usura, la bancarotta... Ma questo a Palazzo Chigi deve essere apparso un insignificante

L'Unità
Salta la maggioranza su Previti, e per la villa di Berlusconi viene messa la fiducia, di red

Sulla delega ambientale il governo ha posto la fiducia: così l'ennesima

legge "salva-Berlusconi" non farà -mercoledì in votazione - la stessa fine della norma "salva-Previti"oggi in commissione. Ad annunciare la fiducia è stato alla ripresa dei lavori in aula a Montecitorio nel pomeriggio, è stato il ministro per i rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi.

La delega ambientale in mattinata ha passato per il rotto della cuffia il vaglio di costituzionalità, con uno scarto di soli 16 voti (223 a favore della pregiudiziale, 239 contro). La fiducia ha evitato pesanti scivoloni già successi nella seduta del mattino come quello sulla norma "salva-Previti".

Lo scorso 14 ottobre, il governo aveva ottenuto la fiducia in Senato sul maxi-emendamento alla legge delega in materia ambientale, in cui, tra l'altre cose, si propone il condono edilizio su abusi minori compiuti in zone a vincolo paesaggistico.

Tra i 51 commi dell'emendamento, che riscrive la legge, c'è la norma più criticata dai Verdi, secondo cui si possono condonare con una sanzione pecuniaria le costruzioni edificate in zone protette entro il 30 settembre 2004, purché? i materiali utilizzati siano giudicati «compatibili» con il contesto paesaggistico. Secondo gli ambientalisti il primo beneficiario della norma sarebbe il premier Silvio Berlusconi perché? il provvedimento sanerebbe le opere realizzate nella sua villa Certosa in Sardegna.

Giubila il ministro Giovanardi, ricordando che il ddl che dispone la delega al governo in materia ambientale «è pendente in Parlamento da almeno tre anni

Il provvedimento, ricorda Giovanardi, approda in aula per la quinta volta, dopo una doppia ?navetta? dall'assemblea di palazzo Madama a quella di Montecitorio. E dato che il ddl di delega dovrà essere accompagnato dai relativi decreti attuativi, il governo ha deciso di apporre la fiducia sul testo approvato dal Senato lo scorso 14 ottobre.

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La Repubblica

Delega sull'ambiente il governo pone la fiducia



ROMA - Il governo ha deciso di porre la questione di fiducia sul disegno di legge di delega ambientale, che ieri ha ripreso il suo cammino parlamentare alla Camera. Lo ha annunciato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi, spiegando che la legge attende l'approvazione da tre anni.

Già passato al Senato, dove il governo ha posto la fiducia, il testo

contiene il condono per gli abusi edilizi commessi nei paradisi ambientali, e un un giro di vite sugli "ecomostri" da abbattere. Ma soprattutto la legge consente di sanare gli abusi edilizi commessi fino al 30 settembre 2004 nelle aree di interesse ambientale.

L'opposizione punta il dito contro quest'ultima norma, sostenendo che

servirà anche a Silvio Berlusconi per sanare il teatro all'aperto costruito

nella villa in Sardegna. L'annuncio è stato accolto da vibranti proteste del centrosinistra. "Mentre il Paese è afflitto al nord da una gravissima crisi industriale - ha detto il capogruppo Ds Luciano Violante - e al sud da una terribile crisi del settore agricolo, il governo non dà risposte e per difendere interessi personali e un indegno condono edilizio pone la fiducia perchè non si fida della propria maggioranza".

Rivolgendosi ai banchi del centrodestra, Violante ha aggiunto: "Legittimate ogni giorno di più l'illegalità. La verità è che il blocco sociale che vi ha fatto vincere nel 2001 si è sfaldato. Dimettetevi e date la parola al Paese".

Oltre alla sanatoria degli abusi edilizi, il provvedimento prevede una

depenalizzazione degli abusi più "lievi", cioè quelli che non abbiano

determinato la creazione di nuove superfici o volumi come restauri, aperture di nuove porte e finestre, eccetera. Saranno le soprintendenze a decidere volta per volta se i lavori in questione sono compatibili con il vincolo paesaggistico e i trasgressori potranno sanare gli abusi pagando una multa, ma non saranno chiamati a rispondere in sede penale.

Qui potete ammirare l'ecomostro del padrone della repubblica

Prima che sull'articolo sul Settantasette di Giampaolo Pansa su la Repubblica di sabato, varrebbe la pena di interrogarsi sulla pervicacia con cui la medesima testata ha deciso, fin dalla domenica precedente, di presentare la «spesa sociale» al supermercato e alla libreria Feltrinelli fatta dai disobbedienti durante la manifestazione sul precariato come una funesta replica delle «cupe violenze» del Settantasette e un sicuro annuncio di efferate violenze prossime venture. Guerra preventiva della sinistra perbene contro ogni possibile collusione con la sinistra permale? Chissà. Quanto a Pansa, c'è poco da aggiungere al commento che ne ha fatto su di domenica Piero Sansonetti, compresa l'autodenuncia di quanti libri ci siamo «procurati» furtivamente da giovani tradendo, prima che le leggi del mercato e i controlli dei librai, le legalitarissime educazioni di padri specchiati che mai ci avrebbero perdonato quelle piccole illegalità pur commesse in nome del désir de savoir. A proposito, perché non ne parliamo? Perché nessuno si applica a considerare il piccolo problema che il circuito librerie-biblioteche è fatto apposta, in Italia, per ostacolare invece che incoraggiare il consumo specialmente giovanile di pagine scritte? Neanche Carlo Feltrinelli, che a latere di Pansa difende giustamente la «ragione sociale» del proprio marchio ma glissa su questo punto come sull'altro, spinoso, del carattere precario dei posti di lavoro che, come egli rivendica, le stesse librerie Feltrinelli creano. Ci si applica invece con inveterata passione a fare cattiva storia e cattiva memoria del Settantasette, riducendo quella che è stata una delle più complesse stagioni della vicenda politica italiana a una collana di morti ammazzati, un campo di battaglia da guerra civile, una sequenza senza soluzione di continuità fra espropri proletari, rapine, P38, ammazzamenti e terrorismo. Bizzarra approssimazione, nel paese del manierismo politico in cui un mediocre cronista ha il dovere di imparare subito a distinguere con acribìa le virgole delle dichiarazioni di mezza sera di Fassino e Rutelli o di Fini e Casini. Col Settantasette invece andiamo all'ingrosso: «un anno miserabile e sporco di sangue», Lama dixit e Pansa sottoscrive con l'aggiunta dell'«inquietante parallelismo» con l'oggi. Mettiamola così: i disobbedienti, con la «spesa sociale», del `77 ci mettono una citazione, gli obbedienti un fantasma. Non sarebbe il caso di analizzare il fantasma?

Sarà il caso, prima o poi. Anche a partire dalla domanda che si pone a un certo punto Sansonetti, perché tanta parte del giornalismo e dell'intellettualità italiana sia diventata sempre più conformista e sempre meno critica rispetto al potere. Questione che con quel fantasma c'entra eccome, non poche ottusità nell'analisi della società e della politica italiane essendo riconducibili precisamente a una mancata comprensione della cesura - anche violenta e tragica, ma non solo violenta e tragica - che il Settantasette ha operato sulla vicenda italiana. Se si smettesse di ridurlo a un fascio di insensate efferatezze, si riuscirebbe forse finalmente a capire che in quel complicato movimento c'era l'annuncio di trasformazioni sostanziali che nei decenni successivi hanno travolto il paradigma tradizionale della politica, rivoltate di segno e impugnate da poteri (e figuri) non meno violenti dei militanti dell'epoca. La trasformazione in senso postfordista del sistema produttivo, la crisi senza ritorno della rappresentanza, lo slittamento sui massmedia della comunicazione politica, la crisi della razionalità politica classica fecero irruzione sulla scena allora e da allora non l'hanno più abbandonata. Anche il problema della violenza di alcune pratiche (e anche l'esodo femminile - di cui nessuno si ricorda, a cominciare da Bertinotti - dalla violenza di alcune pratiche). Questione da sdoganare anch'essa nella discussione della sinistra estrema di oggi. Se i fantasmi alla Pansa non lavorassero tanto attivamente a renderla tabù.

Il primo libro di politica che ho letto, a 16 anni, me lo procurai alla Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. Costava 300 lire. Io però non avevo 300 lire e allora lo rubai. Era il "manifesto del partito comunista". Lo lessi, era bellissimo. E soprattutto era assolutamente convincente, ed io diventai comunista. Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine. Negli anni seguenti rubai altri libri: Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal. Il vecchio direttore della libreria, del quale non ho mai scoperto il nome, era un uomo molto simpatico e faceva finta di non accorgesene. Bastava non esagerare. Un libro alla volta, sotto il cappotto, non di più. D'estate niente.

Sono sinceramente stupito di fronte al possente fiume di indignazione che da una settimana sta travolgendo le coscienze degli opinionisti italiani, terrorizzati dalla spesa a basso costo (loro dicono "esproprio proletario") dei disobbedienti che sabato scorso hanno portato via un po' di merce da un supermercato di Pietralata e poi dalla Feltrinelli di piazza Esedra. Pagandola pochissimo e successivamente distribuendola alla gente. I disobbedienti hanno spiegato che quella era una forma di lotta contro il carovita. Questo giornale ha già spiegato - in modo assai netto - perché giudica sbagliata quella forma di lotta. Però, santo cielo, una cosa è dire che è una lotta sbagliata e una cosa un po' diversa è stracciarsi le vesti e paragonarla alle azioni della malavita, della mafia, della camorra, del terrorismo internazionale e delle Brigate rosse. Il ministro Pisanu ha gridato ai quattro venti che era pronto alla repressione più severa: "tolleranza zero", ha giurato tra gli applausi dei giornali (c'è in giro un sacco di gente che si gloria di essere intollerante. Gli pare una virtù: povero Voltaire...). Giampaolo Pansa ieri su Repubblica ha scritto un lunghissimo articolo intitolato: "Quegli espropri proletari che portarono alla P38". (Per chi non lo sa, la P38 è una pistola). Poi c'è un sottotitolo: "Nei blitz dei disobbedienti lo spettro del '77". Nelle fotografie, d'epoca, che accompagnano l'articolo di Pansa (inizia in prima e poi riempie l'intera pagina 17) si vedono varie pistole in mano a giovani manifestanti e ad agenti di polizia.

L'articolo è composto da una ampia intervista postuma a Luciano Lama (mitico capo della Cgil negli anni settanta, morto otto anni fa), e poi da un dettagliato racconto di tutti gli episodi di violenza e di tutti gli omicidi politici del 1977, intervallato da alcuni riferimenti a Luca Casarini, Francesco Caruso, Guido Lutrario e Nunzio D'Erme, cioè i capi dei disobbedienti di oggi. Non c'è nessun sottinteso nell'articolo, nessun ammiccamento. E' un articolo assolutamente esplicito, che sostiene candidamente questa tesi: i disobbedienti sono quelli che avviano un ciclo vizioso, e questo ciclo finisce con la lotta armata e il terrorismo. In uno dei titoletti che corredano l'articolo di Pansa c'è scritto proprio così: "Inquietante parallelismo". Non starò a spiegare perché la tesi di Pansa è del tutto inconsistente e anche un po' buffa. Ogni lettore di Liberazione è in grado di capirlo di se. Anche Pansa è in grado.

Ho sempre stimato Gianpaolo Pansa, che per molti di noi - quelli che sono arrivati al giornalismo proprio durante i cosiddetti anni di piombo - è stato un po' un maestro. Facevamo a gara ad imitare la sua capacità di scrivere, di raccontare, di trovare il dettaglio più suggestivo, di coinvolgere il lettore nelle cose di cui lui parlava. Bravissimo. So che le sue recenti posizioni politiche - soprattutto dopo il breve periodo dell'anti-dalemismo - oggi sono di feroce ostilità verso la sinistra radicale, verso Rifondazione e specialmente verso Fausto Bertinotti: ma questo è un suo pieno diritto professionale e personale, e non c'è niente da ridire. Però di fronte ad una operazione giornalistica come quella di ieri non posso non farmi una domanda seria: cosa spinge una parte consistente del nostro giornalismo - e della intellettualità italiana - ad assumere posizioni sempre meno critiche verso il potere, sempre meno impegnate nella ricerca e nella analisi politica, e sempre più insofferenti, arroganti, aggressive, verso ogni forma di lotta che rompa gli schemi del conformismo e del pensiero uniforme? Perché i grandi giornalisti, e gli intellettuali pensanti, non si sono mai misurati, in questi anni, con problemi come - per esempio - le leggi europee sul lavoro che azzerano i diritti e dimezzano i salari, o come il protezionismo agricolo, o come le normative internazionali che privatizzano i servizi (l'acqua, la scuola, la sanità), o come i prezzi delle medicine che arricchiscono le case farmaceutiche e mietono milioni di vittime in Africa, o come la sciagurata riforma della scuola della Moratti, o la politica della Confindustria (e dei governi italiani) che in un decennio ha ridotto del 15 o del 20 per cento gli stipendi di quasi tutte le categorie più deboli? Perché la nostra intellettualità e i nostri giornalisti - come ha scritto giorni fa su queste pagine Marco Revelli - si sono arresi? Perché hanno abbandonato ogni aspirazione a mettere in discussione l'ordine costituito? Al massimo riescono a lamentarsi per un eccesso di potere di questo o quel pezzo di borghesia, riescono a prendersela col prevalere del potere politico su quello giudiziario o viceversa, riescono genericamente a protestare per il basso profilo culturale e umano del berlusconismo: niente di più. L'intellettuale-contro, il giornalista-contro sono figure praticamente scomparse. E se qualcuno ha ancora voglia di indignarsi trova come sfogo l'invettiva da scagliare sui disobbedienti. Fabrizio De Andrè diceva: "Signori benpensanti... ".

Il fronte degli intellettuali è uno dei punti più deboli della sinistra di oggi: la sinistra è scoperta su quel lato. Negli anni sessanta non era così. Dobbiamo capire che c'è questo problema e non possiamo sottovalutarlo, perché è difficile vincere le grandi battaglie, e imporre idee nuove, se la stragrande maggioranza della intellettualità non ne vuole sapere. Per fortuna c'è ancora qualcuno che ha voglia di pensare: leggete l'intervista a Marcello Cini che pubblichiamo a pagina due e vi rincuorerete un po'.

SI RESPIRA una strana aria, nel centrosinistra. Un´aria frizzante, quasi euforica, che ne influenza il clima (d´opinione). Si è convinti, a centrosinistra, che il "futuro è nostro". Che le prossime elezioni siano largamente segnate. A proprio favore. Il voto alle recenti suppletive (7 a 0, tre collegi espugnati al centrodestra) ha rafforzato questo sentimento. Mentre, fra gli altri episodi, il "dimissionamento" di Mentana dal Tg5 viene letto come un´ammissione di debolezza dell´altro schieramento. Il premier deciso a investire tutto sul marketing e sulla comunicazione, perché costretto a navigare controcorrente.

Questa convinzione appare diffusa. Nel giugno del 2003 solo una quota minoritaria della base elettorale di centrosinistra pensava che la propria coalizione avrebbe vinto le elezioni. Oggi (secondo le indagini dell´Ipsos) è salita al 75%. Tre elettori di centrosinistra su quattro, in altri termini, si sentono già vittoriosi. Ma la percentuale, probabilmente, cresce ulteriormente nel ceto politico e nella classe dirigente. Le cui dichiarazioni pubbliche, al proposito, non palesano incertezze. Non tanto, sospettiamo, per motivi tattici. Ma per "convinzione convinta". Incoraggiati, anzitutto, dai sondaggi. Che continuano ad attribuire al centrosinistra un vantaggio molto netto nella competizione maggioritaria. E, in misura più ridotta, anche in quella proporzionale. Complice, una memoria selettiva, che induce a rivisitare la storia passata, anche quella più recente, in modo coerente con le proprie aspettative attuali. Così, si tende a leggere quanto è avvenuto nel giugno scorso isolando il voto amministrativo. Dove, effettivamente, il centrosinistra ha prevalso in modo netto.

Ma si glissa sul voto alle europee, che, pur confermando la ripresa del centrosinistra, ha sancito - in parziale contrasto con le stime dei sondaggi - un sostanziale equilibrio fra i poli. Confermando ancora una volta che il centrosinistra "rende" meglio nelle competizioni su base amministrativa. Dove dispone di personale politico credibile, organizzazione radicata e, contrariamente a quanto avviene a livello nazionale, può lasciare sullo sfondo le differenze di programma e identità.

Si trattasse di "credulità demoscopica", denoterebbe solo imprudenza; e una certa dose di assimilazione del modello berlusconiano. Ma l´impressione è che si tratti di un vizio più radicato. Di un pregiudizio ideologico, che induce a leggere nel cambiamento, profondo, che coinvolge, da qualche anno, il paese, un processo destinato a produrre effetti prevedibili, quasi scontati, anche sul piano del comportamento elettorale. Trascinandolo, naturaliter, a sinistra.

D´altronde, i modelli e i riferimenti che avevano caratterizzato gli anni novanta oggi sono declinati. Il mito dell´imprenditore e del mercato, il privato efficiente opposto al pubblico necessariamente dissipativo. La protesta politica dei ceti medi fondata sull´interesse locale e fiscale. Il ripiegamento della partecipazione e dell´organizzazione, in politica, a favore della comunicazione e della personalizzazione. Tutti questi orientamenti da qualche anno hanno svoltato. E tutti, ormai, se ne sono accorti. È appassito il mito dell´imprenditore, mentre il mercato riserva più incertezze che motivi di speranza. Al richiamo individualista è subentrata, impetuosa, una diffusa domanda di comunità, di integrazione e interazione sociale. E la voglia di privato si è appannata. Mentre riprende la domanda di pubblico. E di stato. Anche in politica, le cose sono cambiate rapidamente. La protesta sociale si esprime attraverso la mobilitazione e la partecipazione "visibile". Cui contribuiscono in modo consistente, a differenza del passato recente, i giovani e gli adolescenti. La personalizzazione e la televisione, contano, ma non bastano. A volte giocano contro, suscitando saturazione e rifiuto. Riacquistano, invece, importanza la presenza sul territorio, la stessa "professionalità" politica.

Tutte queste tendenze contrastano con la fase precedente, interpretata dai partiti di centrodestra e soprattutto da Berlusconi. Il motore del suo successo - la speranza nel miracolo economico e nel benessere diffuso - si è decisamente inceppato. Visto che oggi tutti si sentono più poveri; e tutti guardano al presente e ancor più al futuro con inquietudine. Tutti: ma soprattutto i cosiddetti "ceti medi" privati. Fondamentali per il successo del centrodestra.

In mezzo a tanta incertezza "materiale", infine, la società cerca motivi di identità, invece che di utilità. Insegue i valori, non solo gli interessi. Si mobilita per la pace, per i diritti, per l´ambiente.

Da ciò la "fiducia", che si respira nel centrosinistra. Riflette la certezza che il "mondo" sia destinato a spostarsi verso la sua sponda. Spinto dal "cambiamento" dei comportamenti, dei miti, dei valori. Perché la partecipazione, l´insoddisfazione economica, la richiesta di "pubblico", la domanda di identità piegano a sinistra il vento della storia. Una convinzione quantomeno discutibile. Perché molti di questi cambiamenti riflettono paura e delusione. La paura della guerra, l´incertezza economica e dei mercati. Spingono a rivalutare il "pubblico" e lo Stato, come fonte di tutela e protezione. La delusione. Riflette le cattive prestazioni della classe imprenditoriale e di quella politica (sedicente dilettante). In fiero contrasto con le promesse degli anni precedenti. Peraltro, l´individualismo, la competizione di mercato, generano solitudine e senso di vulnerabilità. In tempi di minacce globali. La partecipazione diventa, essa stessa, una sorta di terapia, contro lo spaesamento e la solitudine.

Insomma: i miti degli anni novanta si sono spezzati. E nessuno più crede alla felicità privata, al mito dell´imprenditore - in economia e in politica. Mentre la partecipazione soddisfa più della protesta rancorosa e silenziosa. E i valori dimostrano una crescente "utilità" agli occhi e al cuore della gente. Ma questa corrente sociale e d´opinione non segue un corso obbligato. Può, invece, orientarsi diversamente. Perché ha bisogno di risposte adeguate, in grado di incanalarla.

Si guardi al voto degli Usa. Che, certamente, riflette le specificità del caso americano. Ma serve, anche a noi, a dimostrare come la "domanda di valori e di comunità" possa essere soddisfatta dai repubblicani (secondo il nostro schema: la destra) invece che dai democratici. In base a un´offerta di "protezione" e di ordine, alimentata dalla paura del terrorismo. In base a una mobilitazione della risorsa "comunitaria" presente nella periferia americana, che coincide con la gran parte del territorio degli Usa.

Peraltro, il voto degli Usa serve ad allertare circa un altro pregiudizio, particolarmente diffuso in Italia. Che la partecipazione e la mobilitazione elettorale premino il centrosinistra. Non è vero. La capacità di mobilitazione dei partiti di centrosinistra è tanto più efficace quanto più basso è il grado di partecipazione degli elettori in generale. Quando, come alle elezioni suppletive di ottobre, vota il 50% degli elettori. Allora, il peso dell´organizzazione e dell´identità del centrosinistra diventa preponderante. Ma quando la campagna riesce a mobilitare l´elettorato nell´insieme, coinvolgendo i settori più disincantati, distaccati e periferici, la competizione diventa sicuramente più aperta.

Fa male, allora, il centrosinistra a pensare che la delusione, la domanda di valori, la partecipazione, da sole, siano in grado di spingere i voti verso le sue sponde. Sbaglia a pensare di "avere la ragione dalla sua parte". E, se anche così fosse, sbaglia a pensare che sia sufficiente per vincere. Le ragioni, le parole di "destra", funzionano ancora. Perché ciò avvenga, deve dare agli elettori "buone ragioni". Esprimere valori diversi. Fondativi di un´identità diversa. Attraverso un linguaggio diverso. Rispetto al centrodestra. In grado di rispondere all´incertezza, alla paura, al disagio concreto e al disorientamento dei cittadini. Oggi non è (ancora) così. E le ragioni, le parole della destra continuano a funzionare.

Dovrebbe, il centrosinistra, insistere, sulle "sue" parole. Solidarietà, sicurezza e benessere "sociale", equità. Che oggi (ce ne accorgiamo mentre le scriviamo; e, ancor più, mentre le pronunciamo) appaiono largamente "svalutate". Anacronistiche. Fuori moda.

Tali rischiano di restare anche le attese del centrosinistra. E le sue pretese. Di essere sospinto verso la vittoria (annunciata) dal "vento della storia". Senza disporre di vele capaci di domarlo. Di parlare agli elettori delusi, in modo persuasivo.

Senza trovare le parole.

Quelle bugie del cavaliere

MILANO - Si apre, di buon mattino, il libro delle scommesse al Palazzo di Giustizia di Milano. Quale condanna avrebbe chiesto Ilda Boccassini per Silvio Berlusconi? Le previsioni si colorano subito di nero notte. Undici anni! Dodici anni! No, tredici! Gaetano Pecorella, l'avvocato del presidente del Consiglio e tante altre cose ancora, parlamentare di Forza Italia, presidente della commissione giustizia della Camera, in corsa per un posto da giudice costituzionale, lascia cadere prima una perfidia. "Vedrete, la Boccassini ci metterà due giorni per concludere la requisitoria perché un giorno solo è un titolo di giornale solo. Meglio allora stare lunghi in due giorni e guadagnare due titoli".

Liquidata così la vanità del pubblico ministero, l'avvocato scodella il vaticinio più pessimista. Lancia lì "tredici anni e otto mesi". Perché quegli otto mesi, avvocato? "Ma è chiaro. Per Previti il pubblico ministero ha chiesto tredici anni. Per Berlusconi, che all'accusa appare più colpevole di Previti, chiederà otto mesi in più. Non vi pare?".

Ilda Boccassini entra in aula con un paio di occhiali da sole che ne accentuano la grinta di "cattivissima". Brutto segnale. Appare a tutti l'annuncio di una requisitoria del pubblico ministero aspra nella sostanza e addirittura asprissima nella forma per emotività, aggressività, censura morale. A questo punto - e l'udienza non è ancora iniziata - c'è chi corre al libro delle scommesse e corregge la sua giocata al peggio. Per l'imputato Berlusconi Silvio s'annuncia una pessima giornata, dicono.

Campanello. La faccia, che non sai dire se assorta o distratta o assente, del presidente Castellano fa capolino in aula. L'udienza comincia e nessuna delle previsioni, alla fine, rimane in piedi. In sole sette ore, e non in due giorni, Boccassini liquida il suo impegno. Chiede otto anni di condanna e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per Berlusconi. Esclude ogni attenuante per l'imputato. Con una mossa a sorpresa, contesta non il reato di corruzione in atti giudiziari, ma la corruzione semplice.

Una requisitoria che fa tesoro delle correzioni dei giudizi precedenti (Cassazione, Tribunale, Corte di appello) per gli altri coimputati (Cesare Previti, Attilio Pacifico: i corruttori. Renato Squillante, Filippo Verde: i giudici corrotti).

Veggenti e scommettitori restano di princisbecco perché è il giorno in cui si scopre una Boccassini molto pragmatica. "Cinica" direbbero, credo, i cronisti sportivi. Il pubblico ministero gioca la sua partita in modo utilitaristico ed essenziale. Bada al sodo senza alcun preziosismo tecnico né alcuna mossa emotiva o vagamente "politica". Secca. Asciutta. L'accusa sta ai fatti, e i fatti - si sa - sono testardi e ostinatissimi. Non lo comprendono - non possono comprenderlo, per necessità - i corifei del Capo che, a udienza chiusa, intonano da Roma la farfallina e fraudolenta litania dell'"accanimento politico-giudiziario".

Fossero stati in aula si sarebbero vergognati delle loro parole perché a Milano la Boccassini elenca - anche a costo di diventare noiosissima - documenti, testimonianze, bonifici bancari, contatti telefonici e, degli imputati e dei testimoni a sostegno, contraddizioni, incongruenze, menzogne. Con una prima, sorprendente variazione.

Questo processo viene spesso definito "processo Sme". E' una deformazione di cui i media, in buona o cattiva fede, hanno abusato e che Berlusconi ha sfruttato con abilità parlando quasi esclusivamente dell'affare Sme. La manipolazione ha permesso, negli anni, al patron della Fininvest di coinvolgere nella mischia polemica il suo antagonista politico Romano Prodi, l'azionista di riferimento del Gruppo Espresso Carlo De Benedetti e "la sinistra" e "la magistratura rossa", insomma lo sfruttamento intensivo dell'armamentario con cui Berlusconi si autorappresenta agli italiani come vittima. E' un ruolo che, è noto, sa recitare meglio, con grande sapienza. Questa cosmesi esorcistica dei fatti lascia in ombra, se non dimenticato, che in questo processo i capi di imputazione, per Berlusconi, sono due. Che l'affare Sme è soltanto il secondo capo.

Nemmeno il più rilevante perché il più importante è il primo. Vi si legge che "Silvio Berlusconi ha agito affinché il consigliere istruttore di Roma Renato Squillante compisse una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio e in particolare: ponesse le sue pubbliche funzioni al servizio della Fininvest; violasse il segreto d'ufficio fornendo informazioni a lui richieste; intervenisse su altri uffici giudiziari al fine di indurli a compiere atti contrari ai doveri d'ufficio in modo da favorire quella società". Detto in altro modo, "Silvio Berlusconi, con Cesare Previti e Attilio Pacifico, prometteva e versava ingenti somme di denaro, retribuendo stabilmente, Renato Squillante".

Lo si può dire ancora in un altro modo più essenziale: Silvio Berlusconi ha avuto "a libro paga", come fosse un suo dipendente, il giudice di Roma. Ecco l'accusa che più mette in pericolo, preoccupandolo assai, Silvio Berlusconi. Sul terreno del primo capo d'imputazione (la "stabile retribuzione" di Squillante) e non sulla Sme (che è affare dell'altro giudice, Filippo Verde: il pubblico ministero ne parlerà in coda alla requisitoria e per non più di un'ora) Ilda Boccassini gioca le sue carte. Con uno stile apparentemente scarno - e, ripeto, a tratti addirittura noioso - l'accusa sviluppa a mano ferma una ricostruzione dei fatti, dei trasferimenti di denaro, dei contatti diretti tra Berlusconi e il suo giudice. Una mano - e quanto importante - le è stata offerta anche dal presidente del Consiglio. Che è apparso dinanzi al Tribunale in due occasioni rifiutando l'interrogatorio, ma accettando di fare dichiarazioni spontanee che sono diventate improvvide per il suo destino, provvidenziali per l'accusa. Berlusconi ha sempre negato che Squillante avesse deciso un qualche affare Fininvest. Ha sempre negato di averlo addirittura conosciuto ammettendo poi di aver ricevuto soltanto dal giudice una telefonata, forse per un'autocandidatura politica. Manco a dire, del denaro.

Mai denaro, per carità! Questa era dunque la conclusione di Berlusconi: "In questo processo non c'è il morto, non c'è l'arma del delitto, non c'è il movente".

Difesa incauta. Boccassini se la lavora lentamente. Passo dopo passo, documento dopo documento, il pubblico ministero dimostra che "la semplice esposizione dei dati permette di asseverare che il conto bancario "Polifemo", rifornito con fondi che, come sostiene la difesa, "provenivano da disponibilità personali di Silvio Berlusconi e non dalle casse della Fininvest", veniva utilizzato nel 1991 soltanto per tre mesi e solo per ricevere la somma di 12 miliardi di lire che, immediatamente dopo, venivano girati a due soli destinatari: Cesare Previti e Bettino Craxi. Esaurite tali operazioni il conto veniva chiuso".

"Agli inizi del 1991, continua il pubblico ministero, Cesare Previti destinava parte delle somme ricevute da Silvio Berlusconi (e con il suo accordo) a tre magistrati romani; in particolare: il 14 febbraio del 1991, una parte (425 mila dollari) di un bonifico di 2.732.868 dollari era destinata al giudice Vittorio Metta, relatore della sentenza della Corte d'Appello di Roma sul Lodo Mondadori; il 5 marzo 1991 434.404 dollari erano accreditati sul Rowena di Renato Squillante; 16 aprile 1991 da un trasferimento di 1.800.000.000 di lire, venivano accreditati 500 milioni sul conto "Master" di Filippo Verde e una parte - altri 500 milioni - portata in Italia in contati (se ne sono perse le tracce)". Quindi "un arma del delitto" c'è. Renato Squillante riceveva, intermediario Cesare Previti, denaro da Berlusconi. C'è "il morto"? Ovvero Squillante ha mai conosciuto il presidente della Fininvest?

Ha facile gioco ora l'accusa. Con i tabulati telefonici, può dimostrare le frequenti e ripetute telefonate del giudice all'allora imprenditore. E non solo a lui. Ma, per il Capodanno, al fratello Paolo Berlusconi, a Cesare Previti, ovviamente. Meno ovviamente, a Gianni Letta. Insomma, a tutto l'inner circle del presidente del Consiglio. Forse Renato Squillante voleva candidarsi al Parlamento?, come sostiene Berlusconi. No. Lo dice lo stesso Squillante: "E' stato Berlusconi a chiedermi di candidarmi: diceva di non avere toghe all'altezza dell'incarico". C'è "l'arma del delitto". C'è "il morto". Manca "il movente". Berlusconi: "Squillante non si è mai occupato degli affari Fininvest". E' la più clamorosa bugia che l'imputato ha gettato sul tavolo.

E' spietata Ilda Boccassini quando ricorda come "nel 1984, Squillante decise della possibilità della Fininvest di diffondere il segnale a livello nazionale: una questione di vita e di morte per le televisioni di Berlusconi, dopo l'oscuramento imposto da alcuni pretori. In quell'occasione fu addirittura interrogato da Squillante".

Morto. Arma del delitto. Movente. Il pubblico ministero può ora chiudere il suo affondo. Le interessa sanzionare i comportamenti più gravi di Silvio Berlusconi al di là dei reati (falso in bilancio, esportazione di valuta all'estero). Otto anni e l'interdizione dai pubblici uffici le sembrano una pena equa. Per la cronaca, le scommesse sono state restituite. Nessuno ha imbroccato il risultato.

Si è riaperta la discussione, a sinistra, sulla leggendaria domanda di sempre: "Che fare?". Fausto Bertinotti ha accennato alla possibilità di costruire un "contenitore" politico nuovo, che tenga insieme gruppi, partiti, movimenti, correnti di pensiero e di partito. Cioè uno strumento che "unifichi" e dia una forza maggiore, un peso politico più grande a quello schieramento di forze e di menti - vasto - che si colloca alla sinistra del campo riformista classico. Molti gli hanno risposto di sì. Giorni fa Asor Rosa, uno degli intellettuali più prestigiosi della sinistra radicale, ha scritto sul "manifesto" un articolo importante, nel quale ha posto alcuni problemi politici molto seri, e ha avanzato una proposta. La proposta è più o meno questa: convochiamo una assemblea nazionale, o qualcosa del genere, che metta insieme partiti, movimenti, circoli politici e intellettuali, e verifichiamo la possibilità di realizzare forme nuove di unificazione politica. Il problema fondamentale che Asor Rosa ha sollevato - e che precedeva la proposta - era un po' più complicato. Lo riassumiamo così: come si affronta il riemergere prepotente, in Italia e in tutto il pianeta, della contraddizione tra "Capitale" e "Lavoro"?, e come si costruisce una rappresentanza politica adeguata del "Lavoro"?

Il problema e la proposta di Asor Rosa sono molto connessi. Derivano una dall'altro. Sulla sua proposta, che assomiglia parecchio a quella di Bertinotti, Asor Rosa ha incassato molti sì. Bertinotti, Salvi, Diliberto gli hanno già detto di essere pronti a questa assemblea, ed è probabile che ci sia una ampia disponibilità dei movimenti e di pezzi di sindacati, di partiti, di organizzazioni culturali. Sarebbe importante a questo punto procedere, cioè andare avanti spediti ed evitare il rischio che la discussione diventi un po' come quelle inutili discussioni che negli ultimi tre o quattro anni (anche di più) hanno tormentato la vita dell'Ulivo: che regole ci diamo? Chi decide che regole ci diamo? Quando decidiamo chi decide che regole ci diamo? Chi decide quando decidiamo che regole ci diamo? Quando decidiamo chi decide che regole ci diamo? Chi decide quando decidiamo che regole ci diamo?

Procedere e non impelagarsi in noiosissime discussioni formali vuol dire affrontare il merito della questione. Qual è? E abbastanza semplice: dato che l'obiettivo è quello di mettere insieme una coalizione di centrosinistra che sconfigga la destra e il "berlusconismo", si tratta di vedere quale sarà l'asse politico di questa coalizione, e cioè quale sarà il progetto di società, il progetto per l'Italia che questa coalizione contrapporrà al berlusconismo. Non basta un progetto elettorale, serve un progetto di futuro. La grande debolezza della sinistra classica, fino ad oggi, è stata questa: non riesce a fare politica senza far coincidere la sua politica con vicende elettorali. Le scadenze elettorali contano, contano molto, ma non sono tutto. Sconfiggere Berlusconi ma non avere in mano nulla che sostituisca il berlusconismo - cioè quel sistema economico, sociale, morale, di pensiero, basato su un idea di società che ha al centro il profitto e mette tutto il resto in secondo piano - non sarebbe una grande vittoria e comunque non sarebbe duratura.

Francesco Rutelli, ieri, sul Corriere della Sera, ha indicato, seppure in modo molto generico, quelli che a lui sembrano i tratti essenziali di un programma riformista: in politica estera amicizia con l'America, in politica interna riforma e contenimento del Welfare e misure che rilancino la competitività delle aziende, e dunque i margini del profitto. Non è un programma che possa essere sposato, non vi sembra? Ma non basta strepitargli contro. La sinistra radicale cosa propone? Siamo in grado di mettere giù due, o tre, o quattro punti, e su questi costruire una unità reale, da fare poi pesare al momento in cui il centrosinistra dovrà decidere il suo programma di coalizione?

Per esempio: abolizione della legge "30" (quella che viene chiamata Legge-Biagi) e realizzazione di nuove leggi sul lavoro che stabiliscano forti rigidità, anziché flessibilità, vale a dire più diritti garantiti, niente precarietà e licenziabilità, sistemi automatici di aumento dei salari, eccetera.

Per esempio: abolizione della legge Bossi-Fini, apertura delle frontiere e regolamentazione dell'immigrazione in modo che i migranti diventino i titolari di diritti, anche di diritti speciali (persone deboli da proteggere) e non oggetti da respingere o comunque da controllare e rendere inoffensivi. Realizzazione dell'obiettivo, posto dall'Onu, di riservare lo 0,7 per cento della ricchezza nazionale a finanziare i paesi poveri.

Per esempio: ritiro delle truppe dall'Iraq e avvio di una politica di riduzione drastica delle spese militari che porti in tempi ragionevoli al disarmo dell'Italia.

Per esempio, rifiuto del modello politico piramidale e decisionista, basato sul premier forte e sulla riduzione della rappresentanza, anzi rovesciamento di questo modello, da realizzare contrapponendo alle riforme costituzionali del Polo una idea di democrazia partecipativa.

Questi propositi, se realizzati, costano. Prevedono una diversa distribuzione delle risorse tra Capitale e Lavoro, e tra Nord e Sud del mondo. Questi propositi sono il terreno vero della battaglia.

Resta il grande problema dell'identità della sinistra. E' una questione molto alta, quasi filosofica, resa drammatica dagli eventi della fine del secolo scorso e ora dal progredire spedito e feroce della globalizzazione. Non credo che sarà mai risolta se non si comincia dalle cose. Dalle cose da fare. Fare queste cose, porsi degli obiettivi, studiare i modi per ottenerli - in tutto o in parte - vuol dire semplicemente fare politica. E affrontare dalla parte giusta il problema più scivoloso: cos'è la sinistra di governo se non è solo un pezzo di mondo politico che si adegua alla realpolitik, agli schemi, alle idee dell'avversario…

Partito il 14 luglio con un mio articolo, che non aveva (davvero) nessun'intenzione di aprire una discussione; proseguito nei due mesi o poco più che ci separano da quella data con una trentina di interventi, alcuni dei quali molto autorevoli (segretari di partito ed esponenti di varie frazioni politiche, importanti dirigenti sindacali e intellettuali di grido): il dibattito svoltosi sul sulle forme di una possibile, diversa unità della sinistra italiana si potrebbe definire un successo. Io ne ho avvertito soprattutto i limiti. Constato ad esempio che non è intervenuta nessun'esponente dei gruppi e movimenti femminili e/o femministi. Non sono intervenuti neanche i rappresentanti del cosiddetto «correntone», forse risucchiati nel gioco interno Ds. Non sono intervenuti (salvo un'eccezione) neanche i verdi: pensano che le tematiche ambientalistiche siano ancora autosufficienti? Non sono intervenuti neanche gli esponenti del riformismo moderato: forse pensano che non sia affar loro l'eventuale costituzione di un raggruppamento di sinistra distinto dal loro oppure lo guardano con sufficienza, pensando che l'idea sia fuori del mondo? Ma il limite più grande lo dirò alla fine.

Ripartirò dall'inizio, che a me era parso molto semplice, fin troppo elementare (e che del resto costituiva solo una minima parte del discorso): far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc) ne aumenterebbe la forza e attenuerebbe il rischio di compromessi di basso livello. Aiuterebbe anche i movimenti - che la sinistra hanno contribuito in passato e continuano a rinnovare - a preservare la propria autonomia. Contribuirebbe a chiarire l'indirizzo programmatico dell'intero centro-sinistra, indirizzo che rimane ancora indefinito nonostente il «ritorno» di Prodi e l'annuncio di un'opposizione più chiara al governo di cui la programmata manifestazione del 6 novembre costituisce per ora il solo punto forte. Vorrei esser molto chiaro su questo punto: non si tratta di mettere in dubbio l'alleanza di centro-sinistra, che non ha alternative.

Si tratta al contrario di renderla più credibile e di rafforzarla in settori molto delicati dell'elettorato (quelli più colpiti dalla crisi economica), influenzandone il programma e spostandola al tempo stesso, come si diceva una volta quando esisteva una sinistra, a sinistra. Rafforzare e riequilibrare l'alleanza di centro-sinistra in questo momento è particolarmente essenziale, perché a metterla davvero in dubbio ci pensano le componenti moderate, che, anche dall'interno dell'Ulivo, lavorano sempre più alacremente per riaprire il capitolo del centrismo. Questo, mi permetto di dire, lo capirebbe anche un bambino. Ma spingiamoci di qui in poi un po' più in là di una semplice, limitata, per quanto utile, razionalizzazione del quadro politico della sinistra italiana. A me pare che il problema del rapporto fra le «due sinistre» è destinato a presentarsi prima o poi, anzi, si sta già presentando, mutatis mutandis, in tutta Europa. La distinzione (più o meno profonda) tra le due ali del riformismo poggia infatti su fattori oggettivi, addirittura di classe, oserei dire (anche se non proprio alla vecchia maniera), tipicissimi in questa fase proprio della situazione europea.

L'assenza di una formazione, magari confederale, che renda esplicita tale distinzione, senza necessariamente (anche in senso tecnico) estremizzarla, significa in parole povere che un pezzo della società occidentale è politicamente sottorappresentato: sia che ciò si manifesti nella forma della disaffezione alla politica; sia che il tasso di astensionismo nei ceti deboli resti elevato, nonostante tutti gli appelli; sia che si verifichino, in presenza di condizioni particolarmente negative, paurosi spostamenti di questo elettorato verso destra; sia che, quasi infallibilmente, i programmi dei vari centro-sinistra europei appaiano egemonizzati dalla componente moderata del centro-sinistra medesimo.

L'incontro tra le diverse frazioni (organizzate o no) di questa «parte» della sinistra (componente dialettica, a sua volta, ma non necessariamente antagonistica di uno schieramento più largo), sarebbe davvero impossibile, solo se fra esse (e soprattutto nella fetta di società che esse dicono di rappresentare) ci fossero differenze ideali e strategiche insormontabili. Ma è così? Nessuno può pretendere che si faccia qui l'elenco delle questioni su cui un'unità sostanziale, non estremistica e non ideologica, appare già oggi operante. Eppure un primissimo tentativo, di entrare nel merito bisognerà pur farlo.

Quando si dice - e lo dicono ormai anche alcuni dei riformisti moderati, e persino qualche centrista del centro-sinistra, - che non è più possibile sostenere la linea di un liberismo senza freni, spesso non ci si accorge di dire che il rapporto (nesso, conflitto, persino compromesso, lo si dica come si vuole, purché lo si dica) tra capitale e lavoro, invece di aver fatto il suo tempo, prepotentemente riemerge. Riemerge con esso il problema di una rappresentanza politica del lavoro. E con esso riemerge il problema del rapporto fra rappresentanza politica del lavoro e sindacato, rapporto entrato da più di dieci anni verticalmente in crisi in tutta Europa.

Una situazione del genere non è un residuo del passato (come qualcuno dice) ma nasce (o rinasce) precisamente all'interno di quel contraddittorio e tormentato processo che chiamano globalizzazione. Influenzare, spostare, determinare il rapporto capitale-lavoro (e di conseguenza quello fra capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e sottosviluppo: da qui l'importanza del rapporto organico rossi-verdi), significa influenzare e determinare la globalizzazione e cambiarne il segno. E' per me del tutto evidente che la scintilla che ormai periodicamente incendia tutto il mondo, nasce dall'interno del sistema, perché all'interno del sistema non sono cresciuti gli anticorpi necessari a spegnerla. Non si può essere contro la guerra, se non se ne comprende e non se ne combatte la genesi profonda (che è dentro il sistema, non solo nel suo illimitato delirio espansivo).

La mancanza di regole, lo sfrenato avventurismo dei conservatori, l'incerta sempre più balbettante risposta dei riformisti moderati, fanno correre il rischio che una crisi politica si trasformi in una crisi di civiltà (la nostra) e che questa investa in maniera catastrofica la sfera dei valori, dei diritti e della stessa democrazia. La demoniaca volontà dell'Occidente capitalistico-democratico d'esportare all'esterno il proprio modello, svuota il modello e lo riduce ad un guscio vuoto, sempre più facilmente modificabile. La battaglia per i diritti torna a essere a sinistra di una portata epocale: la civiltà la difende la sinistra, perché non c'è più nessun altro che lo faccia. Lo dimostra ad abundantiam il radicale rifiuto della guerra, che solo a sinistra affonda senza ostacoli le sue radici (mentre il riformismo moderato su questo punto continua paurosamente ad oscillare).

Basta questa modesta sintesi a disegnare una linea di confine abbastanza precisa tra riformismo moderato e riformismo radicale e a precostituire le condizioni perché il riformismo radicale unisca le sue forze attualmente disperse? Può darsi che non basti: ma allora bisognerebbe dire onestamente perché e cos'altro serva perché basti. Bisognerebbe non aggirarsi intorno al problema, ma affrontarlo. O no?

Insinuo un'ipotesi negativa. Ecco qual è il limite più grande del nostro dibattito. Agostinianamente si potrebbe argomentare che il non potere discende dal non volere. Dubito fortemente che i protagonisti del dibattito sulle possibili forme dell'unità della sinistra sarebbero tutti disposti, messi alla prova dei fatti, a tradurre le parole in realtà. Se le cose stessero così, vorrei dichiarare una mia personale difficoltà. Sono anni che, a scadenze periodiche, si apre un dibattito sul modo di ripensare la sinistra, l'organizzazione politica, la realtà italiana ed europea, ecc: e poi si assiste inerti, ogni volta, alla dispersione in terra carsica del rivolo che sembrava essersi creato.

Beh, la pazienza e le forze (non solo mie, immagino) sono al termine. Ripropongo, in termini altamente e seriamente problematici, la questione iniziale: esiste o non esiste questa famosa sinistra diversa da quella che ora c'è ma che anch'essa domani potrebbe del tutto scomparire? E' pensabile, è tollerabile una situazione in cui non ci sia «sinistra»?

Se non faremo la prova, continueremo a non saperlo. E per saperlo dobbiamo almeno per una volta «materializzare» (sì, proprio nel senso letterale del termine) quella sinistra che dice di esserci e non vuole scomparire consensualmente nel nuovo raggruppamento moderato.

Propongo che ci sia, a breve scadenza, un momento e un luogo d'incontro per tutti coloro che si dichiarano e si sentono (e forse effettivamente sono, ma questo potremo saperlo solo dopo) a favore di un processo di avvicinamento e d'incontro (e forse di unificazione, ma anche questo potremo saperlo solo dopo) tra quelle forze della sinistra, che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata.

Ma sia chiaro: non ci bastano più gli Stati maggiori (per quanto necessari), persino le forze organizzate esistenti ci appaiono in sé e per sé, per quanti meriti gli si debbano riconoscere, più come la struttura cristallizzata del nostro passato che come la prefigurazione vera e propria del nostro futuro. Se l'iniziativa serve a quella massa che sta al di qua e al di là di quella linea che separa attualmente una «politica organizzata» da una «politica non organizzata», e cioè (ripeterò questa parola fino alla nausea) serve fin dall'inizio a fare politica in modo nuovo, sarà utile, altrimenti no. Perciò dico che in casi del genere la quantità fa la massa critica e la massa critica precede il pensiero (e, forse, ahi, lo determina). Bisogna lavorare sulla massa critica che precede e determina la nascista di una nuova sinistra.

Prodi ha lanciato l’idea delle elezioni primarie, all'americana; sull’Unità del 27 luglio Occhetto ha rilanciato l’idea di un nuovo Ulivo che abbia un progetto preparato da tutti i partiti e gruppi di opposizione; Veltri sull’Unità del 26 ha rilanciato per l’ennesima volta l’idea di una Costituente per un nuovo Ulivo.

È da molto tempo che fa questa proposta e più di una volta l'abbiamo fatta insieme: molti i consensi ed anzi Pietro Scoppola, che ha organizzato i “cittadini per l'Ulivo”, ci ha invitati più volte alle riunioni per preparare la Costituente del Nuovo Ulivo. Ma di concreto non si è concluso nulla. Forse questa è la volta buona, poichè la gente ha compreso che senza unità e senza progetto c'è il rischio di non battere Berlusconi, nonostante la caterva di prepotenze e di misfatti che compie ogni giorno. Oramai tutti si stanno rendendo conto di chi è Berlusconi. Ma è grande il rischio che abbia luogo un ulteriore aumento delle astensioni, che già rappresentano il maggiore partito italiano. Ed è essenziale che i leader superino i personalismi e le idiosincrasie. Se questo non succede sarebbe la finis Italiae. È importante la formula ed è importante il contenuto: il progetto; ha ragione Occhetto.

Con tutti i vassalli di cui dispone il Cavaliere - l'espressione gentile è di Violante, io parlerei di servi nel libro paga, sparpagliati in tutti i partiti del casino delle libertà - non possiamo sperare che se ne vada in tempi brevi. Ma i tempi non saranno neppure troppo lunghi. Dobbiamo prepararci. Le proposte di Prodi, di Occhetto e di Veltri, che convergono, mi sembrano utili.

Giuseppe De Rita ha posto il quesito: a quale blocco sociale il centro-sinistra intende far riferimento. Si può rispondere: neppure al tempo del Partito comunista e della “lotta di classe” c'era un blocco sociale di riferimento. Sul finire degli anni 60 secondo le mie stime, puramente indicative ma suffragate anche da esperti di quel partito, gli elettori erano solo per il 60% operai, gli altri appartenevano ai ceti medi, compresi non pochi membri della borghesia intellettuale. La democrazia cristiana, partito dichiaratamente interclassista, aveva come elettori il 45% di operai. Allora la “classe operaia” rappresentava il 45% della popolazione attiva, oggi la quota è scesa a un terzo - la tendenza persiste. L'orientamento politico dei ceti medi ha dunque un peso decisivo sui risultati delle elezioni. Ma non è affatto un peso costante né volto in una direzione predeterminata, essendo assai differenziati i loro interessi economici e le loro preferenze culturali. Contano, beninteso, le conquiste dello stato sociale, conta la pressione fiscale - sebbene la massima parte degli elettori abbia compreso che i tributi servono in primo luogo a fornire servizi sociali - e conta la corrispondenza fra promesse e azione politica: gli elettori non possono essere ingannati a lungo. Emerge dunque una sorta di mercato che da un lato ha i partiti che offrono vantaggi, economici e non economici, e cittadini, che votano per questo o per quel partito, cambiando anche partito o astenendosi dal voto se perdono fiducia in tutti i partiti. La fiducia la possono perdere se si convincono che nei partiti al potere dominano i ladri. Certo, ci vuole tempo per rendersi conto degli effetti dei ladrocini. Ma prima o poi succede: il tempo dipende dal grado di cultura e di civiltà di un paese. In tutto questo prevale l'indeterminatezza e il Progetto acquista un ruolo essenziale.

Come obiettivi di lungo periodo, ma da perseguire fin da ora, possiamo indicarne quattro. Non pensare solo all'altezza delle retribuzioni, ma anche al contenuto dei lavori. Bisogna mirare alla rapida crescita dei lavori gradevoli. È un'aspirazione già adombrata da Adam Smith, il fondatore della scienza economica moderna, e, più compiutamente, portata avanti dagli utopisti francesi del principio dell'800. Le vie principali sono due: sviluppare la ricerca, che moltiplica i lavori altamente qualificati e quindi non monotoni e non ripetitivi; promuovere la partecipazione dei lavoratori: una formula con diversi significati. In primo luogo la partecipazione deve riguardare la piccola ricerca applicata che si svolge nell'impresa in cui il lavoratore opera: vanno incentivate le sue proposte volte a migliorare la tecnologia e l'organizzazione. C'è poi la partecipazione alla gestione dell'impresa o solo agli utili o ai guadagni di produttività. La partecipazione alla gestione, prevista dalla Costituzione ma mai applicata, crea un clima di collaborazione che può far bene all'impresa e consente un controllo degli amministratori che può ridurre, ben più efficacemente di organi pubblici o di società di certificazione, i gravi abusi che hanno portato, egli Stati Uniti, al fallimento della Enron e, in Italia, della Parmalat. La partecipazione alla gestione nel caso delle grandi imprese va introdotta utilizzando ciò che di valido è emerso dall'esperienza tedesca. Nelle piccole e medie imprese la partecipazione può essere incentivata favorendo gl'imprenditori leader, che hanno la capacità di guidare, animare, motivare gli uomini e indurli ad amare il loro lavoro. Il “capitalismo” non è il Bene ma non è neppure il Male: è un sistema che può essere indirizzato in una direzione o nell'altra. Alla fine, il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell'alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.

Secondo obiettivo di lungo periodo - seconda “utopia”: l'Europa. Oggi si dibatte in difficoltà che sono gravi soprattutto per noi e per la Germania. Rilanciamo l'Europa per il progresso civile di tutti e per la salvaguardia della stessa pace del mondo. Avendo cessato di essere teatro di frequenti sanguinose guerre civili, l'Europa può diventare portatrice di pace proprio per la sua millenaria cultura. Così, per l'Iraq l'Europa dovrebbe inviare una missione di persone competenti ed autorevoli col compito di studiare a fondo la situazione, stabilire relazioni coi paesi confinanti, con la Turchia e con l'Egitto e preparare in tempi brevi un rapporto da presentare al vertice europeo con proposte preliminari concrete. La via è lunga e terribilmente difficile. Ma l'Europa deve assumere una posizione propria. Facendo leva sull'Europa, ma da principio operando autonomamente, dobbiamo rilanciare la ricerca nelle sue tre articolazioni - libera, di base, applicata - collegando un tale rilancio con quello dell'industria. Nel gruppo coordinato da Occhetto ci sono persone con cui io mi trovo in sintonia: anche altri economisti, esterni al gruppo, si trovano in sintonia e sono pronti a dare il loro contributo per una strategia di rilancio industriale. Stiamo lavorando.

Terzo obiettivo: l'ambiente. La critica che mi sento di muovere ai Verdi è che sono pronti ad opporsi ad opere che, a torto o a ragione, giudicano nocive per l'ambiente. Ma di proposte in positivo non ne fanno quasi mai. Faccio due esempi: sono possibili drastici risparmi nel consumo di petrolio: altri paesi, come la Germania, li hanno ottenuti: nulla è accaduto da noi. Secondo esempio: era stato avviato, con un certo successo, l'impiego di auto a motore ibrido: perché non si va vanti? Certo, la via maestra è d'individuare fonti di energia alternative sufficientemente abbondanti. Bisogna incalzare governi ed imprese.

Quarto obiettivo: sradicare la miseria. Ciò non è avvenuto né da noi, né negli Stati Uniti né in altri paesi avanzati. Ma è avvenuto, per esempio, nei paesi scandinavi, almeno se ci riferiamo alla miseria come fenomeno sociale. Dunque: è possibile. Ma la miseria più terribile è quella che troviamo in certi paesi dell'Asia e nell'Africa sub-sahariana.

Ben difficilmente questi paesi possono sradicarla senza l'aiuto dei paesi avanzati. Bisogna però evitare come la peste gli aiuti puramente finanziari, fonte di corruzione e di sprechi. Bisogna invece puntare sugli aiuti organizzativi, da fornire con tre centri: per l'Africa sub-sahariana i centri debbono essere creati in Europa e debbono organizzare, ciascuno, una rete di unità operative dislocate sul territorio, Il primo centro dovrebbe riguardare la lotta all'analfabetismo, il secondo la formazione di esperti agrari e industriali, il terzo la sanità, creando produzioni locali per i farmaci volti a combattere i tre grandi flagelli di quei paesi, l'Aids, la malaria cerebrale e la tubercolosi; questo centro dovrebbe rafforzare ed estendere le unità dell'Organizzazione mondiale della sanità.

Le unità dei tre centri richiederebbero molti volontari disposti ad andare sul posto. Ma la recente esperienza dimostra che i volontari non mancano. I “realisti” debbono ricordare che i giovani hanno un bisogno addirittura biologico d'ideali.

Il nostro gruppo elaborerà delle proposte col contributo di altri intellettuali e ci auguriamo di poterle offrire al Progetto del centro-sinistra che è urgente preparare.

La crisi del berlusconismo porta con sé quella del cripto-berlusconismo. I cripto-berlusconiani sono di due specie. Ci sono i maitres à penser che in nome di un olimpico imparziale liberalismo, in questi anni, hanno, con stomaco di ferro, ingoiato tutti i rospi, ma proprio tutti, dell´illiberalismo berlusconiano: dal populismo euroscettico al neo protezionismo "colbertiano", dal padanismo antinazionale ad alto grado alcolico alla impudica ostentazione del conflitto d´interessi (con lo spettacolo di un premier che minaccia un leader della sua maggioranza di scatenargli addosso le sue televisioni). E tutto ciò, senza neanche un ruttino, senza un fremito che turbasse la loro gravitas; seguitando a dare tre colpi al cerchio della sinistra e un colpettino alla botte della maggioranza. Ci sono poi i "migranti", per lo più delusi della sinistra, ma apparentemente titubanti (tranne eccezioni, s´intende). Si tratta di degne persone (tranne eccezioni, s´intende) che si sono fatte sedurre da un certo vitalismo neurovegetativo, che forse compensava le troppe "corazzate Potemkin" sofferte nei cineclub della sinistra; e, più seriamente dai rancori, spesso fondati, per i torti subiti dalla burocrazia comunista.

Ora, di fronte a una crisi della maggioranza così impietosamente esibita, la reazione comune di queste due categorie di "compagni di strada occulti" è di natura terzista: se Sparta piange, Atene non ride; se Berlusconi sta messo male, anche Prodi non si sente bene; insomma, tutti e due i poli sono in crisi: ambedue sono falliti, meglio tornare al buon tempo antico.

Eh no, maestri liberali e migranti delusi, le carte di riconoscimento storiche e le performance delle due coalizioni sono ben diverse, non fosse altro che per questo: che la coalizione di centro sinistra ha impedito che il Paese si staccasse dall´Europa, salvandolo dal baratro finanziario; mentre quella di centro destra, governando in questi tre anni con incompetente leggerezza, ha fatto quanto poteva per risospingervelo.

Ciò che è vero, invece, è che il Paese, dopo tante strepitanti fanfare, si trova in una condizione di angosciosa incertezza. Sarebbe ovvio che, dopo la sbornia berlusconiana, si rivolgesse decisamente all´opposizione, non fosse altro che per il divario di qualità professionale del suo personale politico, ampiamente dimostrato dall´esito delle elezioni amministrative. Se ciò non avviene ancora se non in parte a livello politico nazionale, a che cosa è dovuto?

Giuseppe De Rita risponde: a incertezza sul "blocco storico di riferimento". Francamente, non credo che De Rita intenda resuscitare l´antica e a suo tempo significativa metafora gramsciana, in questo nostro tempo di grande frammentazione degli aggregati sociali e intensa mobilità dei loro componenti (non era proprio lui, tra i più acuti interpreti di questo fenomeno?). Assistiamo, nel campo della gravitazione sociale, a una mutazione simile a quella che si è verificata nella politica economica: lo spostamento dell´asse dalla domanda all´offerta. Detto alla buona: non è più la domanda dei blocchi sociali a disegnare la risposta politica efficace; ma è un´offerta politica efficace a configurare il disegno dei blocchi sociali.

Se questo è vero, il problema della sinistra, in Italia, non è quello di individuare il blocco storico di riferimento, concetto divenuto sfuggente: ma di individuare l´offerta politica - le riforme sociali e istituzionali, i cambiamenti - capaci di mettere insieme pezzi e pezzetti della società: di suscitare il consenso necessario per aggregare un nuovo blocco sociale e politico.

È possibile, questo, costruendo nuove combinazioni delle forze politiche in campo? Nuovi partiti? Nuove spartizioni e ripartizioni di partiti vecchi? Questo è certo un esercizio appassionante per politologi iperspecializzati. Ma temo che questa micropolitica non susciti il minimo sex appeal nella gente comune.

Ecco allora riproporsi il vecchio indiscreto fantasma del grande programma? Vade retro! Un grande zibaldone onnicomprensivo non ci serve a niente.

Si tratta di presentare al Paese una proposta forte, di poche grandi operazioni di riforma ispirate a una filosofia umanistica e moderna, dell´equità efficiente, che quelle riforme rendano credibile e mobilitante. Una strategia non dissipativa, di attacco (o di difesa) debole su tutto il fronte, ma selettiva e concentrata, che lasci grande spazio alle tattiche di adattamento del tempo e del luogo. Giuliano Amato ha già offerto un valido contributo in questo senso.

Si tratta di raccogliere attorno a questo "pacchetto di punta" il massimo di unità politica delle forze politiche progressiste e riformiste, invertendo arditamente una deriva storica nazionale di divisioni gelose e rissose, devastante per lo sviluppo del Paese, come quella di cui la ex maggioranza di centro destra sta dando un così esemplare spettacolo. Senza pretendere accordi preventivi e patti onnicomprensivi, ma riconoscendo in premessa l´esistenza di zone sulle quali l´accordo non è (ancora) possibile.

Si tratta però, nella scelta dei temi, di non aggirare quelli ritenuti intoccabili perché scabrosi, ma fondamentali per l´avvìo di una autentica politica di sviluppo. E qui bisognerebbe passare dalla politica perdente del "non si tocca" a quella audace della ricerca di compromessi con contropartite vincenti: come si dice, compromessi a somma positiva. Due soli accenni. L´allungamento della vita di lavoro è necessario per l´equilibrio dei conti previdenziali in una condizione di invecchiamento; ma si devono ottenere garanzie concrete sulla qualità del lavoro degli anziani. La flessibilità del lavoro è accettabile nella misura in cui sia compensata da una piena e buona occupazione concretamente garantita dallo Stato attraverso politiche attive di formazione e di ricollocamento, non affidata alle speranze del mercato.

La scelta di queste riforme strategiche va fatta usando un potente rastrello che riduca la complessità delle istanze, rinunciando a un´illusoria completezza. Il rastrello più ovvio è quello del tempo disponibile: una legislatura non tollera, al massimo della sua efficienza, più di cinque o sei grandi riforme.

L´agenda delle riforme dovrebbe essere preceduta da un piano di breve periodo diretto a far uscire il Paese dall´emergenza creata dall´attuale governo. E dovrebbe essere accompagnato da "strategie del contesto": proposte che l´Italia dovrebbe avanzare in sede europea, per il rilancio politico ed economico dell´Unione; ed in sede internazionale, per la governance dell´ordine mondiale.

Dovrebbe identificare inoltre i principali "benchmarks", gli indicatori economici e sociali che il governo si propone di raggiungere in tempi determinati, non con le chiacchiere ma con le cifre. Dovrebbe, infine, predisporre le linee di quella riforma modernizzatrice di un´amministrazione programmatica e "in tempo reale", che richiederà certo più di una legislatura, ma che è la madre di ogni riforma, la riforma dello Stato: un obiettivo finora in gran parte mancato, anche dal centro sinistra.

Last but not least, c´è il problema della comunicazione politica. Forse, il più importante. Qui si inserisce la mia "modesta proposta" avanzata su questo giornale e ripresa positivamente da Piero Fassino, da Fausto Bertinotti e da altri autorevoli esponenti del centro sinistra: quella di aprire, su uno schema elaborato dai partiti del Centro Sinistra, una Convenzione Programmatica aperta a tutte le istanze rappresentative delle forze economiche sociali e culturali del Paese. Un Convenzione nazionale che abbia tutto il tempo per discutere, approfondire, rielaborare. Per giungere a una Proposta finale, da sottoporre alla coalizione, e da quella al Paese.

Non si tratta solo di una procedura tecnica. Si tratta di una scelta politica, diretta a fondare la coalizione di Centro Sinistra non sulle combinazioni geopartitiche, ma su una grande esplicita seria scommessa di rilancio dello sviluppo, ispirata al primato dell´interesse pubblico.

Questo Paese si è affidato per tre anni a una gestione privatistica, ispirata alla concezione dello Stato come Supermarket, del popolo come gente, del cittadino come cliente, del politico come attore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È tempo che si riconosca nel volto umano, solidale e civile di una Repubblica.

Certo riformismo post-comunista è un po' come quel vecchio gatto che porta nel suo imprinting originario lo stigma del cacciatore, per cui quando vede un topo si mette «in presa», ma non sa più perché lo fa e dunque finisce per mangiare dallo stesso piatto con la sua potenziale preda, ormai tranquilla che nessun pericolo le potrà venire da tanto azzardo. Non paia questa metafora troppo irriverente, perché è provato che quando passi al sodo e discuti di salario, di precarizzazione del lavoro, di pensioni o di democrazia sindacale, scopri che il perimetro concettuale nel quale la sinistra moderata si muove è -sostanzialmente - quello imposto dalla vulgata liberista che ha fatto della compressione del lavoro la chiave della competitività d'impresa. Può allora capitare che se Epifani abbandona il confronto con Confindustria perché alle aperture del suo nuovo presidente corrisponde una proposta in cui «il morto afferra il vivo», Fassino - del tutto disinteressato al merito di quel contenzioso - si precipiti in Cgil per scongiurare che non si rompa l'idillio con il neonato fronte antiberlusconiano aperto, come si sa, alle più strabilianti cooptazioni. Non spiace, ovviamente, che Berlusconi perda consensi anche nel suo campo, il problema è semmai su quali basi programmatiche le forze che gli si oppongono intendano guadagnare i propri. Ora, che nella sinistra moderata stia ormai consolidandosi una strutturale sussunzione culturale ed ideale al «centro» è cosa talmente chiara da rendere superfluo ogni indugio sull'argomento. Dichiarata dissolta la classe (anzi, le classi), sterilizzato il partito dei suoi compiti di rappresentanza sociale, derubricato il conflitto a patologia ed espunto il tema dei rapporti di produzione, rimane un blando e ammorbato riformismo, anch'esso peraltro riclassificato come sfida per la modernizzazione nella quale competono e si alternano al potere elites più o meno competenti: il tutto rigorosamente circoscritto entro le compatibilità date.

Al riformismo della sinistra moderata, che si presenta - per dirla con linguaggio gramsciano - come rivoluzione passiva, occorre contrapporre una coalizione delle forze di sinistra sufficientemente coesa e rappresentativa, capace di costruire con l'opposizione moderata un serio compromesso programmatico che tracci, in positivo, una linea di discontinuità con il presente, ma anche con la precedente esperienza di centrosinistra. Questo comporta innanzitutto una volontà politica preliminare, la disponibilità del variegato mondo della sinistra radicale ad abbandonare la rincorsa di piccole, velleitarie, mediocri rendite di posizione; poi a ricostruire in termini non propagandistici il profilo di una rappresentanza sociale che individui nel lavoro e nella ricomposizione di esso il suo baricentro; quindi a ripensare i fondamenti (come suggerisce Asor Rosa), mettendo le acquisizioni più feconde del marxismo in tensione con la realtà attuale e con le soggettività che la innervano, dal pacifismo all'ambientalismo, dalla lotta contro le multinazionali e il diritto di proprietà intellettuale a quella contro le transazioni finanziarie speculative e l'esproprio dei beni comuni, fino alla critica dello sviluppismo e della crescita senza limiti.

L' irruzione sulla scena di nuovi, socialmente eterogenei soggetti non comporta affatto la rimozione di un'analisi che scavi più in profondità o il ripiegamento della teoria su un sincretismo culturale di breve respiro ma, al contrario, richiede uno sforzo di totalizzazione dialettica che non si identifica con la giustapposizione acritica delle diverse esperienze e neppure con la pretesa saccente di mettere le brache al mondo. Questa fatica deve essere ancora compiuta. Abdicarvi comporta le seguenti, gravi conseguenze: a) che le forze di tradizione marxista si limitino a cercare nella realtà la conferma dei propri schemi teorici, mentre l'azione diretta, concreta, rimane prerogativa di quanti si muovono deliberatamente in una sfera adattiva, oppure è svolta da una parte del sindacato (quando è ispirato) che dilata alla sfera politica la propria rappresentanza sociale, oppure ancora è assorbita dall'iniziativa feconda, ma inevitabilmente parziale e sussultoria dei movimenti; b) che il tema del potere politico, il tema dello stato, della trasformazione istituzionale e quello dell'egemonia, intesa come organizzazione della democrazia partecipata, come costruzione sul campo di diversi modelli di vita comunitaria solidale trovino più punti di tensione e di incomprensione che di sutura; c) che questa perdurante dicotomia renda più complicata l'individuazione di un denominatore comune e, soprattutto, la costruzione di un programma con cui rendere esplicito ciò che si vuole creare, senza la qual cosa diventa scarsamente credibile anche ciò che si intende distruggere. Di tutto questo ci si dovrebbe sommamente preoccupare. Non basta dire che è necessario abolire la legge 30, la legge Bossi-Fini, l'ennesima manomissione delle pensioni, la legge Moratti, la «riforma» istituzionale devoluzionistica, la riduzione delle tasse ai ricchi, la pratica aberrante dei condoni, la detassazione delle grandi eredità... e si potrebbe continuare. Non basta cioè pensare a un puro ritorno allo status quo ante rispetto al governo di centrodestra. E' indispensabile delineare un progetto riformatore che abbia al suo centro, nelle parti e nell'insieme, un nuovo corso della politica e dei rapporti sociali: impostare una grande riforma del welfare (dalle pensioni agli ammortizzatori sociali alla sanità) da finanziarsi con una tassazione fortemente progressiva che coinvolga anche la ricchezza finanziaria e patrimoniale e fare del sistema di protezione sociale e della spesa pubblica per la casa, la scuola , l'assistenza il volano di uno sviluppo fondato sui consumi sociali; rilanciare l'intervento pubblico come investimento e orientamento strategico, come intervento diretto nei settori nevralgici dell'economia e ridare dignità al concetto di programmazione; fare del salario, del contrasto alla precarizzazione l'enzima e la via virtuosa di un rinnovamento della stessa cultura d'impresa; favorire la diffusione della democrazia a tutti i livelli della società, promuovendo l'estensione dei diritti e delle tutele del lavoro alle piccole aziende e varando una legislazione di sostegno all'accertamento della rappresentatività sindacale e alla legittimazione dei contratti collettivi attraverso il voto di tutti i lavoratori interessati; fondare una politica di accoglienza dei migranti che affermi senza titubanza una cittadinanza di prossimità, non legata al diritto del sangue o del luogo di nascita.

Ecco un terreno sul quale tentare di ricostruire una soggettività politica del lavoro capace di superare la dimensione corporativa e di parlare a tutta la società. Dico ricostruire perché - come si sa e come duramente ci conferma l'esperienza- l'identità sociale non è un presupposto, un dato di partenza, ma un punto d'arrivo che deve essere costruito con pazienza, intelligenza e determinazione, altrimenti si rischia di imbattersi, sempre di più, in una singolare figura di operaio, costretto dalle circostanze a sussulti improvvisi di autodifesa, ma strutturalmente prigioniero dell'ideologia dominante ed in essa destinato a rifluire. Se di questo si potesse ragionare insieme per aprire una prospettiva finalmente convincente, varrebbe davvero la pena di essere della partita.

Radicale immaginario, per il presente

Stimolante riflessione, a partire da uno studio di Brett Neilson che propone di dare peso, nella politica della sinistra, ai sentimenti e all'immaginario. Su il manifesto, 28 luglio 2004

In un articolo scritto per la neonata rivista «Studi culturali» del Mulino, Brett Neilson, un giovane docente della University of Western Sydney molto vicino al pensiero radicale italiano e autore di un interessante saggio sulla politica dell'immaginario ( Free trade in the Bermuda Triangle... and Other Tales of Counterglobalization, University of Minnesota Press, 2004), traccia alcune note provocatorie, a suo dire provvisorie e a mio avviso molto stimolanti, sui rapporti che il potere intrattiene oggi con la sfera dei sentimenti e dell'immaginazione e su quelli che una politica alternativa dovrebbe a sua volta imparare a intrattenere. Mi permetto proditoriamente di anticiparne alcune intuizioni (l'articolo non è stato ancora pubblicato), perché mi sembrano rilevanti anche come contributo indiretto al dibattito sulla sinistra radicale che si sta svolgendo in questo scorcio di luglio sulle pagine del manifesto. Niente meglio dell'Italia berlusconiana, osserva infatti Brett e io concordo con lui, mostra lo scarto fra una politica del potere che usa la manipolazione dei sentimenti e dell'immaginario come parte integrante delle tecniche di governo di una democrazia post-costituzionale, e una politica di opposizione ancorata a categorie puramente razionali e istituzionali che della mobilitazione dei sentimenti e dell'immaginario si ostina a sottovalutare l'importanza. Anche se, come sempre, il laboratorio italiano fa luce su una situazione più generale. Non è Berlusconi ma l'intero quadro della politica globale a imporre la centralità del tema. L'11 settembre e il successivo trattamento dell'evento da parte dell'amministrazione americana e dei grandi network televisivi; l'11 marzo e il successivo conflitto fra la versione televisiva di Aznar e la controinformazione degli elettori spagnoli via Internet; la gestione a effetto delle immagini della guerra in Iraq, fra bombe «shock and awe» e statue di Saddam decapitate; la via fotografica alla denuncia delle torture di Abu Ghraib; la diffusione in Rete della decapitazione degli ostaggi occidentali da parte dei terroristi islamici: sono tutti esempi di come il potere fa leva su sentimenti elementari e fa politica dell'immaginario usando le tecnologie dell'immaginario, e di come a sua volta il contro-potere - caso 11 marzo, caso Abu Ghraib - riesce a vincere quando agisce sugli stessi terreni e con le stesse tecnologie, ma a modo suo e per fini suoi. Non si tratta solo, sottolinea giustamente Neilson, di analizzare la potenza del visuale nelle società postmoderne. Si tratterebbe di analizzare le complesse strategie del potere e del controllo che si formano all'incrocio fra visuale e tecnologico (quante tracce lasciamo ogni volta che andiamo in Rete?), fra livello cognitivo e livello emozionale della ricezione dei messaggi, fra ideologia e senso comune, fra razionalità degli enunciati e corporeità dell'esperienza. E di rispondere a queste complesse strategie del potere con pratiche alternative altrettanto complesse, e altrettanto emozionali.

Che la sinistra radicale, continua l'autore, si trova però a dover interamente reinventare, oltre le vie classiche della rappresentanza e oltre l'illusione di poter contrastare la «falsità» delle rappresentazioni del potere contrapponendole la «verità» del contropotere. Rappresentanza politica e rappresentazione linguistica, i due potenti bastioni della razionalità del Politico moderno, vacillano entrambi quando a politicizzarsi, sul versante del potere, sono il corpo, i sentimenti, le emozioni, la percezione, l'immaginario. A quel punto non bastano, sul versante dell'opposizione, dei razionali progetti di ingegneria istituzionale o costituzionale. Ma non basta neanche rispondere con l'immaginazione di «un altro mondo possibile», con un movimento reattivo di rifiuto del presente che rinvia il problema a un domani migliore. Ci vorrebbe, dice Neilson parafrasando Marx, «un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», a partire dalle condizioni materiali e immateriali in cui siamo immersi, mobilitando verso l'azione i corpi e le menti, la razionalità e l'emotività, il sapere e l'immaginario. Qualcosa di non molto diverso da quello che il femminismo italiano ha chiamato «politica del simbolico». Perché invece la sinistra radicale, italiana e non solo, continua a discutere di contenuti programmatici, formule organizzative, mondi a venire, come se la razionalità politica non c'entrasse niente con i sentimenti e l'immaginario, e come se i sentimenti e l'immaginario fossero diventati per sempre una colonia di Silvio Berlusconi?

23 luglio 2004

Il merito dell'alternativa

Sostanza Una costituente che si qualifichi su un progetto di fondo

GIUSEPPE CHIARANTE

E'mia impressione che nel dibattito che ha opportunamente aperto, a partire dalle sollecitazioni di Alberto Asor Rosa, attorno alla prospettiva della cosiddetta «sinistra radicale» (uso anch'io, per comodità, questo termine, che in realtà propone un tema che è esso stesso per tanti aspetti da discutere) in gran parte degli interventi siano considerati come impliciti, cioè praticamente fuori discussione, due presupposti che invece sono tutt'altro che assodati. Il primo è che la crisi dello schieramento di centro-destra, e in particolare l'evidente calo dell'egemonia del berlusconismo, siano tali da indurre a giudicare scontato che tale schieramento sia destinato a uscire perdente dalle prossime elezioni politiche. Il secondo, che al primo è strettamente collegato, è che sia ormai per tutti acquisito (e non vi sia da temere che qualcuno voglia rimetterlo in forse) che sarà una larga intesa elettorale di tutte le forze del centro-sinistra e della sinistra, per intenderci da Mastella a Bertinotti, a proporre nelle future elezioni la propria candidatura al governo del paese. Pare a me che questi presupposti corrispondano più alla situazione politica esistente prima delle ultime elezioni che a quella che si è determinata dopo tale evento. Infatti l'esito delle elezioni più propriamente politiche, ossia le europee (andrei molto cauto, per le ragioni che ho esaminato sulla Rivista del manifesto di luglio, nel sopravvalutare, ai fini del nostro ragionamento, l'indubbio successo del centro-sinistra nelle amministrative), ha confermato, in contrasto con le previsioni, una situazione di sostanziale parità fra i due schieramenti: con un netto cedimento di Forza Italia a favore dei suoi alleati, ma senza un travaso di voti di un qualche rilievo da destra verso sinistra. La controprova è l'insuccesso della lista «Uniti per l'Ulivo», che non è per nulla riuscita a consolidarsi al centro, come si proponeva; mentre il lieve avanzamento complessivo dell'opposizione è stata possibile solo grazie alle liste a sinistra del cosiddetto «triciclo» che hanno raggiunto il 13 per cento dei voti. Un risultato che non è però gran cosa e che non rappresenta affatto - come diversi indizi stanno a segnalare - il pieno recupero di tutto o quasi tutto l'astensionismo di sinistra.

La contesa fra centro-destra e centro-sinistra, che elettoralmente rimangono in parità, resta dunque più che mai aperta. Ma a ciò si aggiunge il fatto che proprio perché il mutamento dei rapporti di forza è avvenuto soprattutto all'interno della maggioranza di governo ed essenzialmente a favore delle liste di orientamento più moderato, nella crisi politica che è seguita alle elezioni si è manifestato quel desiderio di «ritorno al centro» di cui tanto si è parlato. Ciò in primo luogo ad opera dell'Udc di Follini; ma anche ad opera di settori di centro dell'Ulivo, da alcuni gruppi di ex-democristiani allo stesso Rutelli. Tanto da indurre più di un osservatore a ipotizzare che qualcuno pensi, per il dopoelezioni, a una situazione in cui sia praticabile l'andreottiana «politica dei due forni» : ossia con la possibilità, per una federazione moderata neocentrista, corrispondente alla «lista Prodi», di governare preferibilmente con un'alleanza di sinistra - dai Verdi a Rifondazione- ma disponendo anche di un ricambio al centro verso destra (Follini, Casini, ecc.).

Ho voluto sottolineare questi dati di fatto non per togliere importanza alla discussione sui compiti e sulle responsabilità di quel «15 per cento» di cui ha parlato Asor Rosa (al contrario, da queste considerazioni tali compiti e responsabilità risultano, se mai, molto accresciuti), ma perché mi pare che un dibattito sulle prospettive della sinistra abbia tutto da guadagnare se è ben chiara l'analisi della situazione in cui occorre operare. Quest'analisi ci dice che il centro-destra non si sconfigge con una doppia operazione di carattere essenzialmente tattico. Ossia , da un lato, coltivando - alla maniera del «triciclo» - un neocentrismo moderato che si differenzierebbe da quello dell'attuale maggioranza solo perché darebbe maggiori garanzie di buon governo, di rigore finanziario, di rispetto dei diritti dei cittadini (l'esperienza dimostra che questo non basta a toglier voti alla destra); e d'altro lato sperando di consolidare ed estendere il consenso a sinistra attraverso una semplice somma o aggregazione o federazione di sigle, che potrebbe forse servire a dare alla cosiddetta «sinistra radicale» un maggior peso all'interno dello schieramento di centro-sinistra, ma poco inciderebbe sugli umori più generali dell'elettorato. Non credo, in sostanza, che il fatto risolutivo sia la politica delle «due gambe», una moderata e una di sinistra. Il vero problema, invece, è contrastare le tendenze di fondo che hanno favorito in questi anni lo scivolamento verso destra del senso comune e degli orientamenti di massa della società italiana. Per questo è essenziale - torno ai compiti della «sinistra radicale» - un impegno non solo programmatico ma di elaborazione politico-culturale che su temi come quelli indicati da Rossanda (le forme della rappresentanza, l'affermazione di una sfera pubblica contro la moda del privatismo, il nesso tra liberismo e capitalismo, il lavoro e i diritti, il no radicale alla guerra) riaffermi nell'opinione diffusa una visione dei rapporti sociali più consona a una politica che possa definirsi di sinistra. Ed essenziale è dare avvio a un processo costituente (in cui si ritrovino, come scrive Bertinotti, «forze politiche, loro componenti, sindacati, forze sociali, del volontariato, intellettualità diffusa, associazioni, comitati, singoli) che dia rappresentanza a chi oggi rappresentanza non ha - innanzitutto tanta parte del lavoro dipendente - e insieme offra una sponda a movimenti che non chiedono una rappresentanza politica, può non solo ridare consistenza a una «sinistra radicale», ma può incidere sugli orientamenti più generali, favorendo uno spostamento anche elettorale da destra verso sinistra. E può consentire di stabilire, tra le forze più avanzate e la sinistra moderata, un'alleanza che sia davvero qualcosa di più di un'intesa tattica, oggi ancora troppo simile a una semplice «desistenza»: una vera alleanza che è necessaria - ritorno all'analisi di partenza - sia per recuperare tutti i voti necessari a vincere sia per evitare che, vincendo, manchi quel minimo di terreno comune che è indispensabile, come l'esperienza del '98 insegna, perché un governo possa essere incisivo e duraturo.

Non credo invece che sia utile, per costringere a stare insieme democratici moderati e sinistra radicale, insistere sul maggioritario. A parte il fatto che un unione in virtù dei meccanismi elettorali è più facile a destra che a sinistra, c'è una questione di sostanza: l'esperienza dimostra che il maggioritario riduce la democrazia e la partecipazione democratica, e questi sono invece «valori» che sono coessenziali a u

Sul "manifesto" si è aperta una discussione sul futuro della sinistra radicale. Cioè di quei gruppi - o partiti, o parte di gruppi o partiti - che alle ultime elezioni europee hanno raccolto quasi il 15 per cento dei voti, che si collocano alla sinistra dell'asse Prodi- Fassino- D'Alema- Rutelli, che si oppongono ai valori del "liberismo" duro o temperato, che innalzano la bandiera del pacifismo e della resistenza alla globalizzazione americana, che credono nel valore-lavoro. Cosa devono fare per dare un senso alla propria forza? Cioè: quali sono i loro problemi strategici, politici, di programma, di comunicazione di massa? Come devono fare per mettere a frutto quel 15 per cento, e per usarlo in modo da spostare a sinistra l'Italia, visto che più o meno è questo il loro obiettivo comune?

Il problema lo ha posto Alberto Asor Rosa, storica colonna della intellettualità politica di sinistra da un più o meno quarant'anni. Asor Rosa ha scritto un articolo nel quale ha sostenuto quattro tesi. La prima è che quel 15 per cento di voti non può essere lasciato allo sbando e deve essere messo al riparo dalla litigiosità, dalle incomprensioni e dai piccoli dissensi che separano i vari partiti e gruppi che lo hanno raccolto. Dunque occorre una operazione di unificazione politica. Un partito? Non corriamo troppo, vedremo. La seconda tesi di Asor Rosa è che questa unificazione politica diventa sempre più urgente nella misura in cui si sta realizzando una operazione di unificazione della sinistra moderata. Un centrosinistra serio ha bisogno di due gambe, e la gamba di sinistra deve essere robusta, e deve essere parte organica dell'alleanza. La terza tesi è che nessuna unificazione politica è possibile se prima non si compie una unificazione culturale. Cioè se non si risponde a questa domanda: "può esistere una cultura di sinistra nelle condizioni date della globalizzazione? E quale può essere questa cultura di sinistra?" Infine Asor Rosa sostiene una quarta tesi: tutto questo deve avvenire nel rispetto del bipolarismo, e cioè in uno schema di alleanze organiche e di alternanza tra i due blocchi di destra e di sinistra al governo del paese. Asor Rosa dice che se si cedesse alla tentazione di rinunciare al bipolarismo per tornare al proporzionale, la sinistra radicale perderebbe tutta la sua forza e la possibilità di incidere nel governo dell’Italia.

Su queste quattro tesi è iniziata la discussione. Molti consensi per Asor ma anche molte critiche e molti distinguo. Oliviero Diliberto, il segretario dei “comunisti italiani”, ha sposato in pieno le tesi di Asor Rosa, ponendo in questo modo la questione: è all'ordine del giorno la battaglia per sconfiggere le destre. La sinistra radicale deve partecipare in modo unitario a questa battaglia se poi vuole avere un peso adeguato nel centrosinistra che sarà chiamato ad assumere il governo del paese. Rossana Rossanda e Marco Revelli - due intellettuali molto influenti nella sinistra - hanno ragionato su un altro aspetto della questione. E cioè sull’analisi del Berlusconismo e della sua crisi. La Rossanda ha fatto osservare che ci troviamo di fronte a una singolare situazione politica: la destra è messa in difficoltà politica, e forse addirittura è sconfitta, da una iniziativa del centro moderato; mentre la sinistra e il centrosinistra restano alla finestra e fanno politologia (nel migliore dei casi) invece che politica. Naturalmente questo fatto cambia la natura e la qualità della sconfitta della destra.

Revelli - con una analisi simile - ha paventato la sconfitta di Berlusconi e la sopravvivenza del berlusconismo. E cioè ha avanzato l’ipotesi che la fine dello schema politico di questi anni (con la persona di Berlusconi al centro di tutte le reti di potere del centrodestra) non significhi la fine del berlusconismo, come ideologia capitalistica moderna (”arricchitevi e ponete l’aumento del successo e della ricchezza personale come valore centrale e interclassiste dell’Occidente”). Revelli teme che il centrosinistra si candidi ad una guida temperata del berlusconismo, che ne elimini gli eccessi e ne salvi l’anima e la sostanza.

Cosa c’entrano queste analisi con la questione posta da Asor Rosa? C’entrano, perché Rossanda e Revelli approvano la richiesta di unità avanzata da Asor, ma non ritengono che questa richiesta possa precedere una operazione di chiarezza sulle strategie della sinistra radicale, e cioè sul progetto di società deberlusconizzata e sulle vie per realizzarla (del resto lo stesso Asor Rosa aveva posto il problema, domandando: quale cultura per la sinistra di alternativa?). Qui Revelli e Rossanda si dividono, perché Revelli si pone essenzialmente il problema di creare valori nuovi dal basso (a partire dal territorio, dalle città, dalle amministrazioni, dalle reti di solidarietà) mentre Rossanda chiede soprattutto di incidere sulle istituzioni, anche sulle più alte, dunque pone la questione del governo.

Vedete bene che tutta questa discussione avviene con idee e anche con terminologie politiche così lontane da quelle della politica ufficiale, da rendere molto difficile una unificazione tra questo dibattito e quello che si svolge all’interno dell’Ulivo. Se quello di Asor era un tentativo di avvicinare le due sfere di discussione, non è riuscito.

Nel dibattito aperto da Asor Rosa è intervenuto anche Fausto Bertinotti. Il quale approva il richiamo alla necessità di ricercare una cultura della sinistra che tenga conto dei dati nuovi della globalizzazione. Contesta però ad Asor Rosa sia la sua idea di porre la sinistra radicale organicamente all’interno del centrosinistra - come una sua componente fissa e riconoscibile - sia la proposta di rendere eterno il bipolarismo. Bertinotti pensa che il bipolarismo sia una gabbia dalla quale uscire, e che la sinistra radicale non può rinunciare alla sua autonomia politica come prezzo da pagare ad una alleanza organica di centrosinistra. Bertinotti dice che il problema di come la sinistra possa partecipare eventualmente al governo, e di come possa influire sul governo, è un problema vero e attuale. Ma oggi - dice - si tratta di sciogliere questo nodo: quale è il fuoco del progetto della sinistra? E’ il governo, cioè il raggiungimento di uno strumento di potere, o invece il fuoco sta nei movimenti, e cioè nel rapporto fluttuante con un insieme di mondi, di idee e di conflitti che non è possibile “fissare” in una organizzazione, nè subordinare a interessi superiori e a ragioni di Stato?

Naturalmente per Bertinotti il fuoco sta nei movimenti. Lui pensa che l’avvicinamento, o l’ingresso, nell'area di governo, possa essere un passaggio, ma deve restare uno strumento del progetto e non diventare il progetto stesso. Per questo - sembra - il leader di Rifondazione comunista non sente come urgentissima la necessità di una unificazione politica o organizzativa di partiti e gruppi, ma sollecita invece una unificazione di programmi e idee. Propone una costituente della sinistra per l'alternativa, che sia un luogo di elaborazione e di alleanza programmatica tra gruppi, partiti, individui, pezzi di sindacati.

Dunque l’ipotesi della creazione di un partito di sinistra del 15 per cento che si affianchi all’alleanza riformista (del 30 o del 35 per cento) non è una ipotesi concreta? Probabilmente no. Molti nella sinistra iniziano a pensare che i partiti hanno ancora un ruolo e un senso nella politica moderna, ma non più il ruolo fondamentale ed esclusivo e totalizzante che avevano una volta. E che persino la politica delle alleanze (caposaldo di tutta la politica italiana da De Gasperi, a Togliatti, a Moro, a Berlinguer) che è sempre stata intesa come politica delle alleanze tra partiti, possa cambiare la sua natura. Possa diventare una politica di alleanze tra correnti di pensiero, che attraversa i partiti, senza scomporli, senza metterli in crisi, senza scinderli. Forse la “scissione” - categoria politica principe nella politica del ‘900, attorno alla quale ruota l’intera storia dei partiti politici - è ormai decaduta e morta. Chi si attarda a evocarla, esaminarla, temerla, minacciarla, perde tempo.

In vista delle elezioni, per esempio, potrebbe realizzarsi una alleanza di programma di sinistra tra uomini e gruppi di molti o tutti i partiti del centrosinistra. Che imponga all'alleanza dell’Ulivo di fissare un programma di governo molto diverso da quello del 1996. (disarmo, apertura delle frontiere, fine della flessibilità, reddito di cittadinanza, Europa sociale eccetera...). In questo modo, pur lasciando aperta la questione organizzativa, la sinistra radicale potrebbe trovare lo spazio per dire delle cose sulla via lungo la quale superare il berlusconismo, come chiede Revelli.

Alberto Asor Rosa

si chiede come superare la frammentazione di quel 15% che ha votato alla sinistra del listone. Il quale persegue una formazione, federativa o unitaria, di tutte le sinistre moderate. Operazione che Asor definisce anche intrinsecamente logica: se Prodi e D'Alema la pensano allo stesso modo, se mirano a un'alternanza democratica e rispettosa delle regole, senza Berlusconi Bossi e Fini, nell'orizzonte del liberalismo compassionevole della Carta europea competitivo e privatizzatore, tanto vale che si mettano assieme. Ma perché quel 15% che non la pensa così non fa lo stesso? Non ha condiviso con i moderati la scelta delle guerre, non considera che basti una copertura dell'Onu per ricorrervi, è contrario alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il governo di centrosinistra aveva covato con Treu, insiste per la priorità di alcuni beni pubblici (scuola, sanità e previdenza) sul privato. Non sono convergenze da poco. Perché non si danno un'iniziativa comune che farebbe pesare quel 15% più di quel che pesi ora sul quadro politico? Non sarebbe «organico» all'opposizione o a un governo di centrosinistra avere due gambe? Bertinotti, che pur persegue un accordo elettorale con la sinistra moderata per far uscire di scena la Casa delle libertà, obietta che anzitutto una fisionomia della sinistra radicale non è organica al quadro di centrosinistra, e fin qui ha ragione: non è la stessa cosa formare una maggioranza elettorale o anche di governo - tipici oggetti di mediazione - e ricostruire una forza di sinistra coerente. Ma questa obiezione sembra rivolta, più che ad Asor Rosa, alla proposta di costituente di tutte le sigle che hanno concorso al famoso 15%, avanzata da Diliberto. Obietta Bertinotti che queste sigle non rappresentano la ricchezza dei movimenti e che è impensabile costruire un'alternativa senza di essi; e in secondo luogo che questa comporta un rivolgimento delle categorie politiche classiche della sinistra, rivoluzione culturale che già sta nei movimenti ed esclude un progetto compatto sul che fare. Questo, aggiunge, è il lavoro che Rifondazione ha avviato con il gruppo della sinistra europea.

Discuterei questa ultima affermazione, conoscendo i partiti che vi sono confluiti. Ma più importanti sono i ragionamenti che la precedono. E' certo che sarebbe folle definire un'alternativa anche a breve termine senza tenere conto della grande sollevazione dell'opinione fra i popoli che da alcuni anni costituisce la vera novità del quadro politico e non è stata prodotta dai partiti. Ma è altrettanto certo che ne è costitutivo il rifiuto a darsi una rappresentanza. Come il femminismo, i movimenti sono antipolitici e non è difficile scorgerne le ragioni, quindi nessuno delega nessuno, ed è il motivo per cui una costituente dei movimenti, cui Bertinotti lavora da tempo, non è avvenuta. Neanche a prescindere dalle sigle che hanno coaugulato il famoso 15%. Non so se questo atteggiamento sarà una costante. So che esso comporta oggi la rinuncia ad affrontare il blocco dei poteri proprietari, economici, militari sul terreno istituzionale, che è poi quello sul quale si decidono i grandi rapporti di forza, guerre incluse. Puntano i movimenti su un'azione molecolare che disgregherà dall'interno questo blocco? Sta di fatto che Bertinotti non può pensare di metterli attorno a un tavolo per definire un'alternativa alla Casa delle libertà o a un eventuale centro. Essi sono una presenza essenziale alla quale i partiti della sinistra dovrebbero fungere da sponda, senza pretendere né di assorbirli né di esserne assorbiti. In verità mi pareva che Rifondazione fosse già giunta a questa conclusione. Ma essa lascia totalmente aperta la necessità di una iniziativa politica loro, dei sindacati, dei gruppi che si vogliono rappresentativi.

Bertinotti aggiunge che un'alternativa implica affrontare un rivolgimento culturale che i movimenti avrebbero già costruito, che sarebbe autosufficiente, che non abbisognerebbe di programmi, tantomeno se venuti da altri e si esprimerebbe in un molteplice work in progress rifuggendo da compattezze e compiutezze. Non sono convinta che sia così. I movimenti rompono con il metodo della politica attuale ma riprendono molti elementi della politica moderna, quelli che Tronti chiama il grande `900. Quando rifiutano la guerra come soluzione dei conflitti, fanno propria e diffusa la dichiarazione delle Nazioni unite del secondo dopoguerra - la domanda cui né essi né noi rispondiamo è perché questa acquisizione comune sia andata perduta. Analogamente, Melfi o Terni non sono una nuova invenzione della lotta di classe, né Scanzano è una rivolta popolare «neoidentitaria» (fortunatamente): sono grandi riscoperte e riattraversamenti dopo la caduta conflittuale degli anni `90. Insomma una elaborazione fra politica, cultura e soggetto sociale diretto è da fare.

E rispetto a questa urgenza la diatriba sul vecchio e il nuovo non ha grande interesse. Proporrei di passare dal metodo: chi ha diritto e possibilità di darsi da fare per l'alternativa? al merito: in che consiste l'alternativa? E vedo due problemi. Il primo è che la costituzione di una sinistra deve ridiscutere la rappresentanza - pena la riproduzione dei propri vizi o la dissoluzione in una forma di populismo o la mera ripetitività dello slogan «la politica è in crisi». E questo rimanda anche a grandi e irrisolte questioni di teoria (e di storia). Ma non impedisce alle forze politiche in campo, anzi, di esporsi subito. Infatti, come si può affermare sul serio, per esempio, una priorità del pubblico sul privato senza riproporre il problema di chi decide? Dei diversi livelli delle istituzioni e del loro rapporto con una partecipazione non istituzionalizzata? Si possono difendere i diritti del lavoro o avanzare un programma di pieno impiego senza definire le istanze decisionali pubbliche e non solo legate al conflitto sui luoghi di lavoro ma ormai perfino continentali? Su questo punto si sfugge sempre per paura di essere accusati di statalismo. Il secondo problema è che un'alternativa esige una presa di posizione, con relative tappe e alleanze, sul tema se essere antiliberisti (cosa che tutti affermano) non significhi anche essere anticapitalisti, almeno nel medio termine, almeno nell'orizzonte che ci si dà. Anche su questo le sinistre sfuggono. Per molti di essi il potere sul modo di produzione è indifferente, il lavoro non è più «al centro» (espressione sempre un po' ridicola); il conflitto non sarebbe più che un esercizio ginnico. Con i codicilli che ne conseguono, la libertà viene prima dell'uguaglianza, la persona prima della società, e avanti di questo passo. Qui sta il nodo gordiano che divide la sinistra radicale da quella moderata, ma investe anche la maggioranza dei movimenti. Penso non solo a Galtung e a Latouche ma ai miei amici e compagni di Carta, a certe tesi negriane, a tutto l'ecologismo.

Un'alternativa agibile che non sia soltanto un'affermazione di dover essere ha questo orizzonte e insieme deve mediarlo subito. Il 15% di cui parla Asor e le sigle che lo hanno raccolto e i movimenti che lo hanno da lontano o da vicino sorretto sono costretti a porsi ambedue questi problemi. Che Berlusconi se la cavi o no, per il governo delle destre è suonata la campana. L'ha suonata il centro. Tutte le sinistre sono rimaste assenti. Restarlo nel passaggio che si va delineando sarebbe una responsabilità grave.

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