il manifesto
«Povertà globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie nel 2017, della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità globali degli abissi sociali»
L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.
Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a 20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti.
«Il parlamento si è fatto beffa del referendum del 2011. E la privatizzazione va avanti. È necessario perciò portare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni candidato e a ogni partito di esprimersi su questo tema vitale».
Il processo di privatizzazione dell’acqua, in atto in Italia, è una minaccia al diritto alla vita. Nonostante il Referendum del 2011 – quando il popolo italiano aveva deciso che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene così sacro – i governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno fatto a gara per favorire il processo di privatizzazione dell’oro blu.
Non migliore fortuna abbiamo avuto in parlamento, che aveva il dovere di tradurre in legge quello che il popolo italiano aveva deciso con il referendum, ma non l’ha fatto. A questo scopo il parlamento aveva a disposizione anche la legge di iniziativa popolare che aveva ottenuto oltre 500.000 firme. Ci sono voluti anni di pressione perché quella legge fosse presa in considerazione dalla Commissione ambiente della camera presieduta da Ermete Realacci (Pd). E quando l’ha finalmente accolta, la Commissione l’ha radicalmente snaturata e poi non l’ha mai fatta discutere in parlamento. È grave che due presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, non abbiano richiamato i parlamentari al loro dovere di legiferare secondo i dettami del referendum.
Invece il parlament, nella Finanziaria ,ha incoraggiato gli Enti Locali a privatizzare il servizio idrico, permettendo loro di utilizzare i proventi delle alienazioni dei beni comuni come i servizi idrici per coprire mutui e prestiti e così ripianare i loro debiti. È questa ormai la via maestra per forzare i Comuni indebitati a privatizzare l’acqua.
Inoltre, pochi giorni prima della chiusura del parlamento, è stato introdotto un emendamento nella Finanziaria per creare l’Acquedotto del Mezzogiorno, una multiutility, per gestire l’acqua del Centro-Sud dell’Italia! Un emendamento bipartisan proposto dal deputato pugliese Ginefra in nome del governatore della Puglia, Emiliano: «Nell’interesse dell’intero Mezzogiorno - aveva infatti detto Emiliano nel 2016 al Congresso nazionale ANCI, tenutosi a Bari - intendiamo dare avvio e realizzare un percorso nel quale l’Acquedotto Pugliese si trasformi in una holding industriale partecipata da quelle Regioni che intendono partecipare al progetto attraverso il conferimento delle rispettive partecipazioni azionarie nelle aziende regionali attive nell’acqua».
Per le proteste di varie regioni del Sud, questo emendamento non è passato, ma è stato sostituito con un altro più generico, ma che resta sempre molto pericoloso. Infatti Emiliano sta già lavorando per includere nell’Acquedotto Pugliese la Gesesa Spa di Benevento e l’Alto Calore di Avellino, per farne una piccola multiutility. Ma il suo sogno è sicuramente l’Acquedotto del Mezzogiorno. Un bel bocconcino per l’Acea di Roma , ma soprattutto per le due più potenti e onnipresenti multinazionali dell’acqua: Suez e Veolia.
Il popolo del referendum
È il tradimento del Referendum da parte di tutti i partiti. È in particolare il tradimento del Pd che ha continuato con la sua politica di privatizzazione dell’acqua, ma anche dei Cinque Stelle, nati dalla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, incapaci a Roma come a Torino a ripubblicizzarla. Così, in Italia, nonostante la vittoria referendaria, rischiamo di perdere il bene più prezioso che abbiamo.
Per questo mi appello al popolo dell’acqua, a quel grande movimento popolare che ha portato alla straordinaria vittoria referendaria, perché ritorni ad obbligare una politica riottosa a conformarsi al volere popolare. Questo avverrà solo se sarà il popolo a muoversi. La prima cosa che tutti dobbiamo fare è quella di riportare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni politico e ogni partito di esprimersi su questo tema vitale.
Per questo chiedo che i comitati cittadini, provinciali, regionali insieme al Forum scendano in campo per rimettere l’acqua al centro del dibattito politico. Mi appello anche al Coordinamento Centro-Sud perché si impegni contro la costituzione dell’Acquedotto del Mezzogiorno.
Dobbiamo lavorare insieme, in rete. Le multinazionali dell’acqua infatti stanno unitariamente montando una campagna durissima. «L’acqua non è un diritto pubblico - ha detto recentemente il presidente della potentissima Nestlé, Peter Brabek-Letmahe. La Nestlé dovrebbe avere il controllo della fornitura idrica mondiale in modo che possa rivenderla alle persone con profitto». Ecco il loro piano! E contro questo enorme potere che dobbiamo batterci. Dobbiamo farcela. Si tratta di vita o di morte per miliardi di uomini e donne.
Si tratta – come afferma papa Francesco – del diritto alla vita.
Ci sono sindacalisti come Giorgio Cremaschi (ex Fiom) e politici come Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista). Un’ex staffetta partigiana ed ex parlamentare come Lidia Menapace e la pasionaria dei No Tav Nicoletta Dosio. Ma anche sostenitori non candidati come l’allenatore Renzo Ulivieri e Haidi Giuliani, madre di Carlo, il ragazzo ucciso al G8 di Genova.
Tutti a pugno chiuso e con una stella rossa da seguire, quella di “Potere al popolo”, nuova forza politica nata a novembre sulle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio (Roma), che si presenta alle elezioni da outsider e fuori dalle alleanze, raccolta di firme permettendo (“ma siamo già a buon punto”, dicono).
Un movimento dal basso, che viene dal mondo dei lavoratori precari, dei disoccupati, dei sindacati di base e dei centri sociali. Ed è proprio da un centro sociale napoletano – Je so pazzo, un ex ospedale psichiatrico giudiziario occupato nel quartiere Materdei – che arriva la sua portavoce, Viola Carofalo, 37enne ricercatrice precaria in filosofia all’Università Orientale. “Vogliamo ridare dignità alla parola sinistra perché di sinistra in Italia c’è bisogno. Io mi definisco comunista, ma non tutti quelli che hanno aderito lo sono: non vogliamo ingessarci dentro un’etichetta o un’ideologia”, spiega Carofalo, che però non sarà candidata.
“Potere al popolo” nasce, appunto, dal fallimento dell’assemblea del Brancaccio: “Tomaso Montanari è stato coerente: quando ha visto che quel movimento non aveva ossigeno, si è fatto da parte. Anna Falcone, invece, mi pare sia candidata per LeU. Forse era quello che voleva fin dall’inizio…”, continua Carofalo.
Il 3% che garantirebbe l’entrata in Parlamento a stare alle ultime affluenze è fissato a circa un milione di voti: un’impresa quasi impossibile. Ma se dovesse riuscire il miracolo, poi che succede? “Vogliamo entrare in Parlamento per far sentire la nostra voce, portare nel Palazzo le lotte dal basso. Ma escludiamo a priori qualsiasi alleanza. Il Movimento 5 Stelle è populista e non è di sinistra. LeU, invece, è un Pd 2.0: non c’è differenza, vengono tutti dal partito di Renzi e lì vogliono tornare, come dimostrano le parole di D’Alema”, sostiene la portavoce di Potere al popolo.
Ma Renzi e Berlusconi pari sono? “Non sono la stessa cosa, ma hanno messo in campo politiche in assoluta continuità e su alcune temi Renzi è stato pure peggio: sul lavoro, con il Jobs act, e sull’immigrazione. La Minniti-Orlando è una legge fascista”, dice Carofalo.
Uguaglianza sociale, lavoro, welfare, parità di genere (nelle liste le donne sono circa il 40%), difesa dell’ambiente, lotta per i deboli, antifascismo sono le parole d’ordine. Nel loro dna i movimenti antagonisti, la lotta per la casa, l’America Latina, Podemos. Che Guevara e il subcomandante Marcos. “Il mio idolo però è Bertolt Brecht, che ha saputo mettere in poesia e letteratura discorsi altissimi e complessi”, afferma Carofalo.
Che poi guarda verso destra. “CasaPound è un movimento fascista che andrebbe messo fuori legge. La Lega è più subdola, ma poi, come nel Dottor Stranamore, la destra che è in loro viene fuori, come si è visto con le dichiarazioni di Fontana”. Con Sinistra Italiana finita nelle spire di Grasso, Bersani e D’Alema, un po’ di spazio elettorale gauchiste davanti c’è, specie pescando tra i giovani diretti verso l’astensione. Alcuni sondaggi li danno attorno all’1% già ora: se Renzi deve preoccuparsi di Grasso, insomma, Grasso deve preoccuparsi di Carofalo & C. Power to the people, cantava John Lennon. Ma forse loro preferiscono Adelante, compañeros di Carlos Puebla
Qui apri il link al discorso di Viola Carofalo, portavoce di "Potere al popolo"

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«Il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth: non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini»
Nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Lo affermano le Nazioni Unite, secondo cui si è difronte al «più grande furto della storia». Secondo i dati raccolti dall’organizzazione, non vi sono distinzioni di aree, comparti, età o qualifiche. «Non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini», ha detto il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth. Il divario salariale non ha una o due cause, ma è dovuto all’accumulo di numerosi fattori che includono la sottovalutazione del lavoro delle donne, la mancata remunerazione del lavoro domestico, la minore partecipazione al mercato del lavoro, il livello di qualifiche assunte e la discriminazione. Pertanto, le donne guadagnano meno in generale perché lavorano meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito o sono meno rappresentate nei livelli più alti delle aziende. Ma anche, semplicemente, perché ricevono in media salari più bassi rispetto ai loro colleghi maschi per fare esattamente lo stesso lavoro. Nel complesso, la stima dell’organizzazione è che per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna in media 77 centesimi.
Le differenze tra paesi, tuttavia, sono importanti. Tra i membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), vi sono paesi con una differenza inferiore al 5% come Costa Rica o Lussemburgo e altri fino al 36% come la Corea del Sud. I confronti sono complicati, dal momento che i numeri cambiano a seconda della fonte e della metodologia. In Spagna, ad esempio, il divario è dell’11,5% secondo i dati del 2014 utilizzati dall’Ocse, e del 24% secondo i dati di un rapporto pubblicato un anno fa dal sindacato Ugt. Secondo i più recenti calcoli dell’Ocse, in Giappone il divario è del 25,7%, negli Usa del 18,9%, nel Regno Unito del 17.1%, in Germania del 15,7%. La differenza di salario tra uomini e donne si amplia generalmente in relazione all’età, soprattutto quando le donne hanno figli. Secondo recenti stime, con ogni nascita le donne perdono in media il 4% del loro stipendio rispetto a un uomo; per il padre il reddito aumenta invece di circa il 6%. Ciò dimostra, afferma Seth, che buona parte del problema è il lavoro familiare non retribuito che le donne continuano a svolgere in modo sproporzionato.
Nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale, ad esempio, il divario retributivo di genere è pari rispettivamente al 31% e al 35% per le donne con figli, rispetto al 4% e al 14% per le donne che non hanno figli. Nonostante l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro negli ultimi decenni, il numero di donne attive resta molto inferiore a quello degli uomini; inoltre, in molti casi le donne lavorano meno ore. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) del 2015, il 76,1% degli uomini in età lavorativa fa parte della popolazione attiva, mentre la percentuale è del 49,6% nel caso delle donne. Al ritmo attuale, avverte l’Onu, ci vorranno più di 70 anni per porre fine al divario salariale tra uomini e donne.
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Le citazioni più frequenti sono di Marx, Lenin, Fidel Castro, Hugo Chavez, Antonio Gramsci, Salvador Allende. L’obiettivo dichiarato è la “liquefazione delle tolleranze morali verso i governanti”. Sembra complicato, ma è quel “punto di rottura” in cui le masse di proletari e sfruttati si ribellano fino a sovvertire lo status quo.
Parliamo di Potere al popolo, la lista di ultrasinistra che nasce dalle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio dello storico dell’arte Tomaso Montanari: una lista che parte da un video-appello notturno di un centro sociale occupato di Napoli “Je so pazzo”, nato nell’ex ospedale psichiatrico del quartiere Materdei. A novembre l’appello su Facebook, pochi giorni dopo un’affollata assemblea a Roma. Il capo politico è stato individuato in Viola Carofalo, 37 anni, assegnista in Filosofia all’Orientale di Napoli, una vita nei movimenti antagonisti, una che già alla parola “capo” inorridisce.
La lista sta nascendo da assemblee territoriali, mette insieme No Tav, No Triv, No Mose e tutto quello che sa di ribelle all’ordine costituito. Una lista che guarda al mutualismo di Podemos e della prima Syriza (prima che Alexis Tsipras chinasse il capo all’Europa), e ha ottimi rapporti anche con i francesi di France Insoumise guidata da Jean-Luc Melenchon, che ha mandato un rappresentante all’ultima assemblea romana.
Il traguardo del 3% resta un miraggio, ma il tentativo è quello di ricostruire delle reti dal basso e rosicchiare voti al M5S, soprattutto al Sud, sui cavalli di battaglie dell’ambientalismo e del no alle grandi opere. Puntano sui delusi del grillismo che tornerebbero a votare un partito di sinistra radicale invece di affollare le fila dell’astensionismo. L’altro bacino possibile di voti è quello di Liberi e uguali, considerati una sorta di “Pd-2”, un partito “ambiguo”. “Molti di loro hanno votato il fiscal compact e la legge Fornero”, una delle accuse. Carofalo non usa gira di parole verso i big di Liberi e uguali: “D’Alema, Speranza, Bersani sono i responsabili del collasso della sinistra e dell’arretramento delle nostre condizioni di vita, odiati da tutti». Qualche timido tentativo di contatto c’è stato nei mesi scorsi, sponsorizzato da alcuni ex Sel confluiti sotto le insegne di Pietro Grasso. Ma la scelta come leader dell’ex pm ha contribuito alla rottura: Pap (l’acronimo usato dagli attivisti di Potere al popolo) contrasta ogni logica securitaria, propone l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Non vuole magistrati al potere.
Al di là della partecipazione spontanea, che pure c’è, l’ossatura arriva dalla vecchia Rifondazione comunista, che ha totalizzato circa 60mila donazioni con il 2 per mille, oltre 600mila euro. Un risultato record per una forza che da tempo è fuori dal Parlamento. Rifondazione resta un po’ defilata, per scelta: nel simbolo non c’è traccia della falce e martello rimasti in custodia dopo la fine del Pci. Al loro posto una stella rossa. Il segretario del Prc Maurizio Acerbo sarà uno dei candidati, mentre sono stati posti paletti invalicabili verso chi è stato già eletto in qualche istituzione: stop dunque a Paolo Ferrero ma anche a Paolo Cacciari, fratello antagonista dell’ex sindaco di Venezia. E tuttavia alle assemblee si sono viste vecchie glorie della sinistra come Franco Turigliatto (il senatore che voleva far cadere Prodi), Giorgio Cremaschi, e poi Haidi Giuliani, l’eurodeputata della Lista Tsipras Eleonora Forenza. Ci sono stati endorsment di peso come quello della ex staffetta partigiana Lidia Menapace, ma anche di sportivi come il tecnico Renzo Ulivieri e del cantautore e autore di “Contessa” Paolo Pietrangeli.
Schierati i sindacalisti di base dell’Ubs, si attende una lettera -appello firmata da alcuni dirigenti della Cgil. Col sindaco di Napoli Luigi De Magistris un rapporto dialettico. “Lo sosteniamo, ma non a scatola chiusa”, spiega Carofalo. Che lo invita, la prossima volta, a “candidarsi con noi”. Per il momento, a Napoli correrà con Pap lo storico Giuseppe Aragno, molto vicino al sindaco di Napoli. Ma i punti di riferimento di Pap sono soprattutto stranieri. E’ all’estero che i nuovi marxisti italiani cercano le ricette per “riannodare il dialogo con le masse popolari”. Come? “Camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. E così facendo abbiamo imparato tantissimo”.
il manifestoil manifesto è molto avaro di spazio. Ragione di più per appoggiare quella lista
Potere al popolo! giovedì prossimo sbarca nella sala stampa della camera: la lista lanciata dal video-appello dell’Ex Opg Je so’ pazzo presenterà candidati e programma per le elezioni politiche del 4 marzo, frutto dell’elaborazione di oltre 300 assemblee territoriali, e il capo politico, Viola Carofalo. Nella mini bio Viola si definisce «lavoratrice precaria con un assegno di ricerca dell’Università Orientale, dopo aver conseguito due dottorati in filosofia». La location è stata scelta con un obiettivo: «Portiamo alla camera le istanze di tutti coloro che hanno subito le decisioni politiche degli ultimi anni ma che si sono adoperati per far fronte alla crisi e all’impoverimento dilagante».
Domenica scorsa, a Napoli, gli attivisti hanno riempito il cinema Modernissimo per la presentazione dei candidati.
Le storie personali raccontano la piattaforma politica della lista. C’erano volti noti della sinistra come l’ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi, l’avvocato Elena Coccia e lo storico Giuseppe Aragno accanto a una nuova generazione di protagonisti delle lotte. Chiara Capretti è uno dei motori dell’Ex Opg (dove l’ambulatorio registra più di 1.500 visite all’anno di napoletani e migranti), tra i fondatori della rete di Solidarietà popolare per l’accoglienza dei senza fissa dimora, rete che coordina associazioni impegnate sui temi della disuguaglianza sociale, della povertà e diritti dei detenuti.
Barbara Pierro è facile incontrarla a Scampia: avvocata, nel suo quartiere lavora con l’associazione «Chi rom e… chi no» perché ci siano condizioni giuste di vita per tutti attraverso processi di emancipazione e riappropriazione dello spazio pubblico. Salvatore Cosentino è laureato in filosofia e fa il fonico, è uno di quei lavoratori dello spettacolo che subiscono un mercato del lavoro sempre più precario e a basso costo. Anche Salvatore è facile da intercettare tra chi, a Bagnoli, si batte contro la speculazione e per la bonifica dell’ex area Italsider.
Sul palco domenica è salita anche Hazel Ndulue per spiegare che «una donna di colore non è l’oggetto delle passioni maschiliste né il colore della pelle ci identifica automaticamente come stranieri». Hazel non ha i 25 anni necessari per candidarsi ma il suo impegno a Castel Volturno è parte del lavoro di Potere al popolo! sui territori.
Sul piano nazionale, saranno in lista Lidia Menapace e Nicoletta Dosio (attivista No Tav). E poi c’è Ilaria Mugnai, 29 anni e un contratto come consulente informatico, le tasse da pagare alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, occupante casa, impegnata con i Clash city workers e parte delle Brigate di solidarietà attiva, in Abruzzo durante i giorni del terremoto.Stefania Iaccarino è invece una di quei lavoratori Almaviva della sede di Roma che si sono rifiutati di firmare l’accordo accettato dai sindacati e poi hanno fatto ricorso contro i licenziamenti, ottenendo il reintegro.
C’è anche un pezzo del mondo del calcio che appoggia Potere al popolo! L’allenatore Renzo Ulivieri ha postato su Facebook: «Ho provato a spiegarmelo. Anche razionalmente. Sto con Liberi e uguali, il cosiddetto Pd2, perché più forza prende più riuscirà a spostare a sinistra il Pd1. Solo che per me la politica è passione. Mentre facevo questi pensieri emozione zero. Ho scelto Potere al popolo! e sarò lì. La scelta riguarda il tipo di società nella quale vogliamo vivere. O si è di sinistra o non lo si è».
Partecipa alle assemblee di Vercelli Paolo Sollier: nato in Val di Susa, figlio di operai, era il centrocampista comunista del Perugia degli anni ’70 che militava in Avanguardia Operaia e salutava la tifoseria con il pugno chiuso.
Nigrizia, 6 gennaio 2018. Drammatico il divario tra ricchi e poveri nel Continente antico, massimo in Nigeria e in Sudafrica. Che fare per superarlo, secondo la rivista dell'Onu. Africa Renewal, che spiega come il promuovere l’uguaglianza di genere, anche nella gestione del potere, giovi alla società e all’economia
Quanto la ricchezza dell’Africa sia sempre più concentrata nelle mani di pochissime persone è stato esaminato tre mesi fa dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che in un dettagliato studio ha evidenziato l’enorme divario tra ricchi e poveri nel continente. Tra i dati salienti da segnalare, il primato del Sudafrica, che oltre a essere l’economia più sviluppata dell’Africa è anche quella con il più alto livello di disuguaglianza di reddito al mondo. Ed appare, inoltre, che tra i 19 paesi nei quali si registra la maggiore disparità a livello globale, ben dieci sono in Africa subsahariana. Tra questi figurano Botswana, Namibia e Zambia.
Senza tralasciare la profonda disparità che affligge la Nigeria, monitorata nel maggio scorso da uno studio di Oxfam, dal quale emerge che nel 2017 la scala della disuguaglianza nel paese africano ha raggiunto livelli estremi. Come dimostra il fatto che le cinque persone più ricche della nazione detengono una ricchezza complessiva di 29,9 miliardi di dollari, che equivale all’intero bilancio della Nigeria nel 2017.
Tutti questi dati convergono sull’urgenza di combattere la disuguaglianza, alla quale la rivista quadrimestrale Africa Renewal, edita dalla sezione africana del dipartimento delle Nazioni Unite per l’informazione pubblica, ha dedicato il suo nuovo numero.
Nel descrivere lo scenario, il magazine specifica che i paesi dove la disuguaglianza di reddito è più elevata sono principalmente quelli dell’Africa meridionale e centrale, mentre le cause alla base della disparità sociale raramente sono le stesse da un paese all’altro. Tra i fattori primari che influenzano le disuguaglianze sono inclusi l’accesso limitato a capitali e mercati, sistemi fiscali ingiusti, eccessiva esposizione a determinati mercati vulnerabili alle oscillazioni delle materie prime, corruzione dilagante e cattiva gestione delle risorse pubbliche.
Cose da fare
Dalla lettura dei vari approfondimenti contenuti nella pubblicazione si evince, che per affrontare una sfida di simili dimensioni è necessario fornire risposte multiple. Qualunque sia la storia e le dinamiche economiche di ogni singolo paese, alcune misure si sono già rivelate particolarmente proficue nel ridurre le disuguaglianze nella macroregione.
Tra queste, vengono elencate l’aumento della produttività tra i piccoli agricoltori, la garanzia per le donne dell’accesso alle risorse produttive necessarie alla sicurezza alimentare delle famiglie, la riduzione del favoritismo nelle opportunità economiche, la promozione della manodopera intensiva nelle industrie, la fissazione di salari minimi, il potenziamento della lotta all’evasione fiscale per impedire ai ricchi di evadere le tasse, l’aumento delle imposte dirette, l’incentivazione di investimenti nell’istruzione e nell’agricoltura, oltre all’introduzione di incisivi programmi di protezione sociale per porre fine alle forme di esclusione.
Nondimeno, è importante promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Lo dimostra il fatto che la disuguaglianza di genere incide sul 6% del Pil dell’Africa subsahariana, mettendo a repentaglio gli sforzi del continente per lo sviluppo umano inclusivo e la crescita economica.
Il reddito familiare favorisce in modo sproporzionato i maschi adulti, mentre la discriminazione di genere è acuta ed endemica. Una delle analisi contenute nella rivista correla l’uguaglianza di genere con lo sviluppo umano rilevando che Maurizio e Tunisia hanno bassi livelli di uguaglianza di genere e alti livelli di sviluppo umano. Al contrario, Ciad, Mali e il Niger hanno alti livelli di disuguaglianza di genere ma bassi livelli di sviluppo umano.
Ne consegue che gli uomini sono indicati come i principali responsabili dei problemi economici dell’Africa. E inoltre è anche evidenziato che quando a livello decisionale c’è una maggioranza femminile, c’è meno corruzione. Fino ad oggi, però, non si è sufficientemente incoraggiato l’aumento della presenza di donne nella governance africana.
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Gennaio 2018 Gli effetti sono noti -perdita di introiti per lo Stato, di efficienza economica e di giustiziasociale per il Paese – ma i numeri lo sono meno. L’evasione fiscale è, per suastessa natura, un fenomeno difficile da misurare: per provare a calcolarla glistudiosi si affidano perciò, oltre che a poco veritiere dichiarazioni deiredditi, ai più affidabili micro-dati provenienti dalle indagini campionarie.
Qui, però, devono fare i conti con un altro tipo di evasione, stavolta diinformazioni. È il cosiddetto under reporting: i soggetti intervistati mentonosui propri redditi anche nelle rilevazioni, sottostimandoli nel timore che sipossano stabilire collegamenti con quanto hanno dichiarato al fisco. Quali sonole categorie di contribuenti più propense all’under reporting? E quantaevasione fiscale si nasconde dietro alle loro omissioni?
Il dipartimento di Economiadell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha integrato i due principali approccidi stima dell’evasione - il discrepancymethod e il consumption-based method– con risultati sorprendenti: sui redditi da lavoro autonomo e impresa, unintervistato su 4 non dice la verità, e addirittura il 44% mente sugli affitti.
Il punto dipartenza
La ricerca indaga l’underreporting, cioè la tendenza adichiarare un reddito inferiore al reale nelle indagini campionarie, tra gliintervistati per la IT-SILC, la parte italiana della European Survey of Incomeand Living Conditions.
Analisi
Le precedenti stime dell'evasione fiscale ottenute in Italiacon il discrepancy method e basate sumicro-dati hanno spesso riportato tassi di evasione più bassi rispetto allestime ottenute con analisi macroeconomiche. La correzione per tenere contodell'under reporting del reddito ha consentito di allineare meglio le stimealle analisi macroeconomiche: il tasso complessivo di evasione per l'Irpef(stimato come rapporto tra redditi evasi e redditi lordi dichiarati) è quasidoppio rispetto a precedenti stime, passando da circa il 7,5% a circa il 14,4%della base imponibile potenziale. L'analisi econometrica ha confermato che l'under reporting riguarda soprattutto i contribuenti soggetti adautotassazione. Per i redditi da lavoro autonomo e impresa il tasso stimato di under reporting (dato dal rapporto tra redditi non indicati nelleindagini campionarie e redditi spendibili veri) è infatti del 23%, per salireintorno al 44% per i redditi da locazione. Grazie al nuovo approccio integrato,la stima del tasso di evasione totale sale a circa il 37% per i redditi dalavoro autonomo e impresa. L’evasione sulle rendite è intorno al 65%.
Non sono invece stati individuati significativi tassi di under reporting tra i lavoratoridipendenti, che comunque hanno fatto registrare un tasso di evasione - stimatosulla base del solo discrepancy method - pari a circa il 3,5%. Lecorrezioni per l’under reporting alzano le stime del valore assoluto deiredditi complessivi evasi a 124,5 miliardi di euro (simulazione B) e a 132,1miliardi (simulazione C).
La ricerca supporta l’ipotesi che la propensione degliindividui a sottostimare il proprio reddito nelle rilevazioni sia coerente –sia pure in misura minore – con la loro inclinazione a occultare gli introitialle autorità fiscali.
La tabella 1 mostra le perdite di gettito (tax gaps) dovuteall’evasione fiscale. La perdita di gettito ammonta a 16,5 miliardi di euronella simulazione A, a 37,5 miliardi nella simulazione B e a 36,8 miliardinella simulazione C. La parte maggiore del tax gap è causata dall’evasione dalavoro autonomo e da impresa, che in entrambe le simulazioni B e C, checorreggono l’under reporting, è vicina ai 21 miliardi di euro. La perdita digettito dovuta all’evasione sugli affitti è invece un po’ più alta nellasimulazione C che nella B (14,7 miliardi contro 12,6) e decisamente più bassanella simulazione A, che non corregge l’under reporting (circa 3,3 miliardi). Itax gaps stimati per il lavoro autonomo nelle simulazioni B e C sono coerenticon quelli presentati – per lo stesso anno e per la stessa tipologia di reddito- nel rapporto ufficiale Mef 2016. In particolare, la perdita di gettito per illavoro autonomo è stimata nel rapporto, con un approccio macroeconomico, pari a20,1 miliardi di euro.
Conclusioni
L'under reporting dei redditi nelle indagini campionariecattura solo una parte dell'evasione fiscale. Lo studio ha evidenziato chel’under reporting interessa principalmente i redditi da lavoro autonomo e lerendite da capitale e da affitto. Non è stato riscontrato under reporting suiredditi da lavoro dipendente. Attraverso il discrepancy method è stataindividuata una relazione sostanziale tra l’evasione fiscale e l’underreporting. In particolare, correggendo i micro-dati sui redditi dell'indaginecampionaria EU-SILC per l'under reporting, il discrepancy method ha consentitouna più precisa quantificazione dell'evasione fiscale ed ha reso possibilestimarne gli effetti redistributivi, con simulazioni distinte per profili medie individuali. Crediti Lo studio è stato realizzato d
Il dossier Stima l’evasione della principale impostaitaliana, l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del redditodelle persone fisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra duemetodi di stima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e il consumption-basedmethod. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
Osservazioni
La ricerca ha confermato la complessità del fenomenodell’evasione fiscale e la necessità di sviluppare approcci conoscitivi basatisu una pluralità di metodi di stima e confronto, oltre che su banche dati diqualità che integrino i dati amministrativi con informazioni da indaginicampionarie. Il dossier Stima l’evasione della principale imposta italiana,l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del reddito delle personefisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra due metodi distima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e ilconsumption-based method. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
Crediti
Lo studio è stato realizzato da Andrea AlbareaMichele Bernasconi Anna Marenzi Dino RizzI Università Ca’ Foscari di VeneziaFocus a cura di Uvi - Ufficio Valutazione Impatto Senato della Repubblicauvi@senato.it Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons
l'articolo è la sintesi dello studio promosso e pubblicato dal Senato delle Repubblica. Il testo integrale è scaricabile qui.
Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza,
Si può fare politica per cambiare il mondo. O si può fare politica per gestire lo stato delle cose.
Nel primo caso si parte da un tentativo di leggerlo, il mondo. Di capirlo. E di capire cosa fare, e cosa non fare, per cambiarlo. Nel secondo caso si parte dalla geometria delle alleanze, dalla scelta di un leader mediaticamente efficace, da una strategia sì, ma di marketing. Nel primo caso si ha in mente una strada, e la si percorre con determinazione e coerenza. Nel secondo caso si vive alla giornata, si risponde agli appelli dei giornali, si tratta su tutto.
È possibile che la prima via sia velleitaria, astratta, disincarnata. È sicuro che la seconda via finisce per lasciare le cose come sono. La prima via di solito non giova affatto a chi la percorre. La seconda spesso giova soltanto a chi la sceglie e la pratica.
Il Brancaccio è stato un tentativo di fare politica nel primo modo. Secondo uno schema chiaro: vedere, giudicare, agire. Lo scorso 18 giugno abbiamo detto cosa pensavamo di venticinque anni di centrosinistra, e non solo degli ultimi tre della sua fase finale, quella renziana. Poi abbiamo provato a spiegare perché quella strada andava lasciata: per sempre, senza esitazioni.
Con un esempio brutale: non si ferma la destra votando per Minniti, che fa la politica della destra, e la fa in un governo che difende gli interessi dei pochi contro quello dei molti. Perché se oggi Berlusconi è risorto e la Lega è alle porte, è per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto il Pd: e dunque allearsi con il Pd per fermare la destra è come mettere la testa sul ceppo per fermare il boia.
E infine abbiamo cercato di mostrare in che direzione avremmo voluto agire: scrivendo, collettivamente, un progetto di Paese, in cento assemblee. Un progetto una cui prima, parzialissima, bozza è ora a disposizione di tutti.
Leggendola, si capisce perché chi si riconosce nel percorso del Brancaccio non potrebbe mai allearsi con il Pd: per una ragione disarmantemente semplice, e cioè perché si va in direzioni diverse. Opposte.
Se il Brancaccio non è entrato in Liberi e Uguali non è solo perché non avrebbe avuto molto da dire a una somma di partiti già esistenti, sommati in una operazione di marketing elettorale blindata contro ogni dissenso, e con un leader scelto da dentro il Palazzo.
Ma anche perché non era affatto chiara la sua direzione: e non era chiara perché non si partiva da una analisi approfondita del reale. Qual è, infatti, la visione di Liberi e Uguali, che può presentarsi lanciando nello stesso giorno la proposta (sacrosanta) di abolire le tasse universitarie e quella di tenersi il contratto a tutele crescenti?
Poco importa se questa ultima posizione sarà corretta: il punto è la fragilità, per non dire l'assenza, di una visione chiara e condivisa. Del resto, il giudizio di Mdp e Possibile sul Centrosinistra era profondamente diverso da quello del Brancaccio. E Sinistra Italiana, che invece condivideva quel progetto, ha fatto una scelta pragmatica, le cui ragioni nobili sono state illustrate da Luciana Castellina sul Manifesto.
Ora i nodi vengono già al pettine. La possibilità di un'alleanza con il Pd in Lazio e in Lombardia è strettamente legata – come scrive lucidamente Stefano Folli – al "futuro del centrosinistra quando si tratterà comunque di sedersi intorno a un tavolo e discutere, specie se il risultato del 4 marzo dovesse imporre una riflessione a tutto l'arcipelago della Sinistra". Tradotto: se ci si allea oggi con il Pd, anche solo in Lazio, questo lascia aperta una porta all'alleanza nazionale per un governo "di responsabilità". Perché è ovvio che le stesse sirene che oggi chiamano all'unità contro le destre per due regioni, lo faranno a maggior ragione per tutto il Paese dopo il 4 marzo.
Capisco tutto, e in primo luogo capisco profondamente il travaglio di Sinistra Italiana, ma credo che alla dirigenza di Liberi e Uguali, alla direzione di Repubblica, a Susanna Camusso e a molti altri sfugga una cosa. Che è questa: chiamare al voto utile col Pd contro le destre significa preparare solo un trionfo ancora maggiore delle destre. Continuare ad appoggiare il sistema (questo sistema insalvabile e imperdonabilmente ingiusto) significa dare ragione a chi dice che il sistema si può solo abbattere.
Per questo alla grande manifestazione del 16 dicembre dei poveri e dei migranti non c'erano bandiere della Cgil, ma solo dell'Usb. Per questo i sommersi, gli ultimi, i giovani del Sud o non votano, o votano per i 5 Stelle: cioè per chi, di sicuro, non sarà poi alleato del Pd, sentito, perfettamente a ragione, come il garante dell'orrendo stato delle cose.
Io li capisco, profondamente. È quello il popolo che dovrebbe stare a cuore alla Sinistra. È con quel popolo che dovrebbe stare chi fa politica per cambiare il mondo.
Sono stati dichiarati tutti ammissibili i ricorsi presentati dai cittadini sudanesi contro il Governo italiano per il respingimento collettivo che, il 24 agosto 2016, ha dato esecuzione all'accordo tra il Capo della Polizia italiana ed il suo omologo sudanese. Ne danno notizia in una nota l'Arci e l'Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione. La Corte europea per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali (Cedu) ha comunicato formalmente i ricorsi al Governo italiano e ha posto precisi quesiti volti a conoscere le modalità dell'espulsione e se siano stati rispettati i diritti e le garanzie previste dalla Convenzione europea.
I ricorsi, ricorda la nota, sono stati tutti depositati da avvocati dell'Asgi: i cittadini sudanesi furono oggetto di una vera e propria "retata" a Ventimiglia, alcuni furono trasportati in condizioni disumane e poi rinchiusi illegittimamente nell'hotspot di Taranto. Quindi vi fu il tentativo di rimpatriarli tutti. Alcuni furono effettivamente riportati in Sudan e 5 di loro incontrarono rappresentanti di Asgi ed Arci che, tra il 19 e il 22 dicembre 2016, si recarono a Khartoum grazie al supporto di una delegazione di parlamentari europei del gruppo della Sinistra europea. Tutti coloro che non furono rimpatriati hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in quanto soggetti a persecuzioni e discriminazioni nel Paese da cui provenivano. I ricorsi hanno denunciato la violazione di diverse norme della Convenzione Edu e della Convenzione di Ginevra. Il Governo italiano, entro il 30 marzo 2018, dovrà fornire una risposta al proprio operato dinanzi alla Cedu.
Articolo tratto da "Avvenire!, qui raggiungibile in originale
«
Iniziato a Milano il processo civile contro l’azienda italiana da parte di una comunità del Delta del Niger che nel 2010 ha visto il suo territorio inondato di petrolio dopo un’esplosione di un oleodotto. L’Eni avrebbe violato la sua d
ue diligence».
I fatti risalgono al 5 aprile 2010 quando un oleodotto gestito dalla Nigerian Agip Oil Company (Naoc), sussidiaria nigeriana di Eni, è esploso inondando una superficie di 17,6 ettari nei pressi del villaggio di ikebiri. «Il guasto tecnico che ha provocato la fuoriuscita del petrolio, ammesso dalla stessa Naoc, risale al 5 aprile, ma l’ammissione del guasto e l’intervento dei tecnici non è arrivato prima dell’11 aprile, quasi una settimana dopo», racconta Godwin Ojo, ambientalista nigeriano direttore dell’associazione Friends of the Earth Nigeria che sta sostenendo la comunità del Delta in questa battaglia. «Terreni agricoli, stagni e fiumi dove la popolazione pesca, sono stati contaminati e l’intera comunità (circa 5 mila persone) è stata privata dei propri mezzi di sostentamento. Per questo chiediamo all’Eni di prendersi le sue responsabilità, di pagare una giusta compensazione e di bonificare il terreno perché questo non è stato fatto».
Da parte sua Eni ha sempre sostenuto che la sua sussidiaria ha già effettuato la bonifica dei terreni, mentre una compensazione di 20 mila dollari è stata rifiutata dalla stessa comunità che chiede invece 2 milioni di euro. «Speriamo di ottenere giustizia più velocemente e che questo possa portare al ripristino dei nostri mezzi di sostentamento. Insieme possiamo vincere», prosegue l’ambientalista nigeriano per cui questo è solo uno dei tanti casi di inquinamento provocato dalle compagni petrolifere che agiscono nel Delta del Niger, una delle zone più ricche di petrolio dell’intera Africa. «Il problema non è solo di Agip – continua Godwin Ojo –, ma di tutte le compagnie impegnate nel Delta: Shell, Mobil, Chevron ed Elf. Dal 1956, anno in cui è stata avviata la produzione petrolifera, sono avvenuti più di 10 mila sversamenti e molto spesso le compagnie, invece di bonificare le zone, preferiscono dare fuoco al petrolio per eliminare le prove». «E anche quando si ricorre ai tribunali locali – prosegue – è difficile avere giustizia, perché le compagnie sono troppo potenti, la pressione dei governi europei, assetati di risorse, è forte, e le rendite dal petrolio sono una voce chiave nel bilancio del governo. Per questo ci siamo rivolti all’Italia sperando di avere giustizia».
Il precedente
Petrolio e gas rappresentano la principale voce dell’export nigeriano, pari al 90% del valore delle esportazioni e al 30% del Prodotto interno lordo del paese. Un sistema segnato anche da una profonda corruzione politica e dal malaffare come dimostra il caso della
maxitangente Eni-Shell per cui la società di San Donato Milanese è stata recentemente rinviata a giudizio sempre al tribunale di Milano.
Nel caso si dovesse arrivare a sentenza sarebbe la prima volta che in Italia una compagnia viene chiamata a rispondere per i danni ambientali provocati da una propria sussidiaria in un altro paese. Anche se non è da escludere che vi possa essere un accordo extragiudiziale tra la compagnia e la comunità così da evitare il pronunciamento del giudice. Un precedente importante in questo senso risale al 2015 quando la comunità Bodo, che si era appellata alla corte di Londra, ha ottenuto dalla Royal Dutch Shell un risarcimento di 83,5 milioni di dollari per i danni provocati da un analogo incidente (anche se di portata molto più grande).
«In questo caso – conclude l’avvocato Saltalamacchia – la pressione dei media era stata fondamentale perché la stampa si era quasi interamente schierata al fianco della comunità e Shell aveva deciso di pagare pur di distogliere l’attenzione dal caso. Purtroppo in Italia la situazione è molto diversa e il sistema mediatico tende a tutelare queste grandi compagnie, ma speriamo che qualcosa possa cambiare».
Anche per questo Amnesty International Italia, Mani Tese e Survival International hanno deciso di promuovere una campagna per mantenere alta l’attenzione sul caso e sulle devastazioni ambientali in corso nel Delta del Niger.
L'edizione integrale, rieditata da
eddyburg, del documento dell'Assemblea Popolare per la Democrazia e l'Uguaglianza nel quale si riassumono i contenuti emersi delle piazze e città d'Italia dopo l'Assemblea del Brancaccio. In calce il link al testo .pdf
PER LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’È,
PER INVERTIRE LA ROTTA DELL’ITALIA,
PER ROVESCIARE IL TAVOLO DELLE DISEGUAGLIANZE.
Gennaio 2018
Avvertenza.
Questo testo è un primo tentativo di sintetizzare e restituire a tutti le idee, i progetti, le aspirazioni, le proposte emerse nelle cento assemblee “del Brancaccio” che hanno attraversato l’Italia durante l’estate e l’autunno del 2017 (e che si possono tutte trovare sul sito Assemblea Popolare DemocraziaUguaglianza. Non è un programma, non è omogeneo, non è compiuto. È un abbozzo, un inizio, un insieme di schede. Una sorta di cartello indicatore: che segna la direzione da imboccare se davvero vogliamo cambiare questo Paese.
La speranza è che tutti coloro che hanno creduto nel percorso “per la democrazia e l’uguaglianza” possano portare queste idee nelle liste che appoggiano in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo. O anche semplicemente utilizzarle come pietra di paragone per giudicare i programmi elettorali. O come bussola per continuare a cercare la Sinistra che ancora non c’è. Quella Sinistra che, dal 5 marzo 2018, bisognerà̀ ricominciare a costruire.
A questo tentativo hanno collaborato, in modi e misure diverse: Andrea Baranes, Luca Benci, Piero Bevilacqua, Ilaria Boniburini, Alberto Campailla, Vezio De Lucia, Giuseppe De Marzo, Anna Falcone, Maria Pia Guermandi, Federico Martelloni, Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, Gianni Principe, Christian Raimo, Andrea Ranieri, Edoardo Salzano, Francesco Sylos Labini.
Indice delle schede
1.La sinistra che ancora non c’é
4. iniziamo dalle donne.
10 il lavoro.
12 il reddito di dignità.
15 la democrazia.
16 centro e periferia.
18 per invertire la rotta in economia.
24 fisco.
27 salute.
29 la scuola.
31 la ricerca e l’universita’.
35 la casa e la casa comune: territorio e patrimonio culturale.
1. LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’É
Il percorso iniziato con l’Assemblea del Brancaccio aveva, come compito primario, quello di colmare il fossato che ancora oggi esiste tra la politica istituzionale (cioè quella del sistema dei partiti e presente nelle istituzioni democratiche) e gli attori sociali che fanno politica nei contesti di vita e di lavoro delle persone. Le associazioni sindacali e culturali, quelle grandi e strutturate e quelle che si muovono su un obiettivo specifico – l’accoglienza dei migranti, il contrasto alla povertà, la cura del territorio – e su un contesto territoriale limitato, ma che sempre più spesso sono state capaci, partendo dalla concretezza dei problemi che affrontano, di produrre uno sguardo lungo, più lungo di quello della politica- istituzione, sui fenomeni del nostro tempo.
Abbiamo pensato che le elezioni politiche imminenti avrebbero potuto essere un terreno privilegiato per avviare questo percorso. Costruendo le liste elettorali attraverso un metodo partecipato e democratico, in cui – assieme, senza rendite di posizione e canali privilegiati – i militanti dei partiti politici di sinistra, alternativi ai tre poli esistenti, e i protagonisti del civismo attivo decidessero in maniera trasparente i programmi, le candidature, e la leadership collettiva che dovesse impersonarli. Costruendo dal basso quella unità di tutte le forze di sinistra che dall’alto sembrava difficile realizzare.
Non è andata così. Le elezioni si sono rivelate, una volta di più, il momento peggiore per progettare e realizzare il reinsediamento sociale della politica della sinistra. Nei partiti, in quale più e in quale meno, ha prevalso una logica di autoconservazione e di affermazione del proprio primato, e la società̀ civile attiva ha faticato a mobilitarsi per imporre ai partiti, a livello nazionale, quel metodo trasparente e democratico che aveva dati buona prova di sé, con buoni risultati elettorali, in tante elezioni amministrative recenti.
Le liste che hanno trovato impulso dalla Assemblea del Brancaccio sono dunque due: Liberi e Uguali e Potere al popolo. E se una parte del popolo della Sinistra voterà per la forza antisistema dei 5 Stelle, altri ancora non parteciperanno al voto. Il rischio che avvertiamo è che questa rottura, derivante in gran parte dalla storia passata delle diverse formazioni della sinistra, più o meno alternativa, provochi una rottura nel popolo che ci proponevamo di tenere insieme. Da una parte il sociale strutturato e istituzionalizzato, e dall’altra il conflitto sociale e culturale sorto fuori e talvolta contro le regole e i contenuti dei grandi contenitori tradizionali. Da una parte il popolo che ha dato vita alla grande manifestazione della CGIL sulle pensioni, e dall’altra quella dei diversi movimenti che hanno unito i migranti e il sindacalismo di base nella manifestazione romana del 16 dicembre.
Un unico popolo
Ma questo è un unico popolo: il popolo che riteniamo essenziale tenere insieme, se davvero vogliamo ricostruire la sinistra nel nostro Paese. Un popolo che era riuscito a stare insieme nelle tante coalizioni civiche a livello territoriale: mentre la coalizione civica nazionale non è decollata.
Tuttavia, le più di cento assemblee che nei territori si sono sviluppate hanno dimostrato che questo incontro, quando avviene, produce una straordinaria ricchezza di idee e di proposte. È questa ricchezza che vogliamo restituire.
Ci sono qui, in questo embrione di programma, elementi su cui invitiamo a riflettere: e che intendiamo discutere con tutti quelli che hanno partecipato alla sua elaborazione, e con le forze che si presenteranno alle elezioni. Ma queste istanze vanno molto oltre la stessa scadenza elettorale. Il cambiamento radicale che la situazione richiede, può funzionare se vede come protagonisti le persone impegnate nel lavoro sociale e culturale, se serve di orientamento e trae alimento dai conflitti e dalle pratiche sociali che avvengono nei contesti di vita e di lavoro. Per una politica che non si limiti a chiedere la delega, ma si metta al servizio di quanti cercano di praticare la democrazia di ogni giorno.
Non è una pura petizione di principio. La democrazia non delegata è la condizione necessaria per affrontare una crisi che è insieme economica, sociale, ambientale, e che nel suo insieme dà luogo a quella che papa Francesco ha definito come “bancarotta dell’umanità̀”. E che non è risolvibile senza la mobilitazione attiva della maggioranza delle persone, comprese quelle che non vanno più a votare perché si son stancate di un rituale che fa del voto un semplice bene di consumo individuale, sganciato dai conflitti e dai reali processi di trasformazione che riguardano la vita reale delle persone.
Una forza di sinistra è tale se pensa la sua presenza nelle istituzioni – al governo come all’opposizione – come un mezzo per ampliare i processi di partecipazione e di autogoverno dei cittadini, se si pensa non come il vertice della piramide, ma come il nodo di una rete con tutti i soggetti che fanno politica fuori dai confini delle istituzioni, che praticano con passione ed intelligenza l’utopia del quotidiano.
Del resto, hanno avuto questa caratteristica i due più grandi movimenti a cavallo tra i due millenni: quello per la giustizia ambientale e il femminismo. Entrambi capaci di coniugare la capacità di porsi obiettivi di politica globale, e quella di praticare nel quotidiano nuove modalità di relazione delle persone, nuovi stili di vita: quel “buon vivere” che è l’alternativa più radicale al consumismo individualista e alla riduzione dell’uomo e dei suoi diritti alla sfera economica e alla tirannia del mercato. La lotta per l’uguaglianza e quella per il lavoro, come quella per la pace nel mondo acquistano significato se si collegano alla lotta contro il riscaldamento climatico che sta mettendo in discussione la stessa sopravvivenza del genere umano sul pianeta. La sfida cruciale è quella di unire la lotta per l’uguaglianza al riconoscimento delle diversità, che è la cifra fondamentale del movimento delle donne.
Le migrazioni, le guerre, il riscaldamento climatico ci impongono infatti un mutamento radicale della nostra stessa idea di sviluppo economico, e dei nostri stili di vita.
Migliaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché́ il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.
La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perchè fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. È la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.
Un'altra idea di sviluppo
Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza per una selva di palazzoni o una marea di villette).
Questo sviluppo, da un obiettivo è diventato una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.
Il primo passo che dobbiamo dunque compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.
Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.
Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).
Politica estera: una politica indipendente e incernierata sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.
E poi dobbiamo comprendere che esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.
La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.
Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende.
La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte.
Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree, e sta progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo.
Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società̀. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.
Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli.
Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.
Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.
Se assumiamo il conflitto sociale, la partecipazione alle decisioni e l’auto-organizzazione come i principi fondamentali della nuova politica, la città e il territorio e le sue trasformazioni sono il terreno fondamentale dell’iniziativa politica: allora, conoscere le regole che le governano e pensare alle nuove regole possibili diventa la priorità. E sulle città si è sviluppata gran parte delle discussioni nelle assemblee territoriali che si richiamano al Brancaccio e di cui proviamo a dare conto in questa bozza programmatica: ancora assai acerba, squilibrata, piena di lacune e di limiti. Ma che va intesa come un primo frutto di un intenso lavoro comune: che non intendiamo abbandonare.
4. INIZIAMO DALLE DONNE
Sono le donne ad avere le parole del cambiamento. Sono loro a muoversi, a trovare le forme per opporsi a un potere sempre più reazionario, violento, e nello stesso tempo inafferrabile, insomma il neocapitalismo contemporaneo. È successo in Polonia, nel settembre 2016, con la manifestazione del “lunedì nero”, giorno in cui lo sciopero delle donne da qualunque forma di lavoro, compreso il portare i bambini a scuola, ha trascinato tutto il paese in piazza contro il governo, contro una legge che voleva proibire la già limitata libertà di aborto. E in questi mesi sono le donne a guidare l’opposizione a un governo sempre più duro. È successo negli Usa. Il 21 gennaio 2017 la Marcia della donne ha riempito le strade della grandi città degli Stati Uniti, contro il neopresidente Trump, con in testa i pussy hat, cappellini fucsia, colore che è diventato il simbolo del movimento. Succede in America Latina, continente leader contro la violenza sulle donne.
NonUnaDiMeno è la sigla che si è estesa a livello internazionale. In Italia dal 2016 il movimento è tornato in piazza. Con forza, con rabbia, con gioia, con determinazione. Nelle manifestazioni contro la violenza, nell’8 marzo che a livello internazionale è stato rivitalizzato come giornata di lotta e di sciopero, non come la festa tra amiche in cui era stato relegato negli ultimi anni. In un mescolamento di generazioni, dalle ragazze delle scuole medie alle nonne, in una vasta presenza di esperienze e di sigle diverse, dalle lavoratrici ai sindacati alle studenti alle ricercatrici precarie, a chi insegue una pensione che si allontana sempre di più, in un ampia gamma di obiettivi, dal piano antiviolenza alla lotta alla precarietà, alla consapevolezza che la cura, l’antica gabbia in cui venivano rinchiuse le donne, è una risorsa attiva di cambiamento per tutta la società. Un movimento che crea connessioni inedite, preziose in questo momento di passaggio, di necessaria ridefinizione delle identità e degli obiettivi.
Tra i primi obiettivi da raccogliere la lotta contro la violenza. Le recenti vicende che si possono riassumere come “caso Weinstein”, hanno messo sotto i riflettori che la violenza contro le donne è estesa in tutti gli aspetti della vita, dalla casa alla strada, al lavoro. Che si tratta di una forma del potere. Le misure di prevenzione e contrasto alle molestie e alla violenza di genere vanno rafforzate, sostenute con investimenti e, soprattutto, con un approfondimento del lavoro culturale ed educativo, per smantellare le basi della diffusa mentalità sessista. Così come i centri antiviolenza e le case rifugio devono trovare forme continuative e costanti di finanziamento e rafforzamento della loro rete, in modo da coprire la domanda di aiuto e assistenza sull’intero territorio nazionale. Essenziale, inoltre, è la garanzia di una giustizia rapida e certa nei procedimenti giudiziari in materia, che garantiscano, prima durante e dopo la loro celebrazione una reale protezione delle vittime di violenza da vendette e reiterazione delle condotte criminose. Molti femminicidi sono il risultato di storie di violenza ignorate o sottovalutate. Non deve più accadere e il fenomeno va contrastato e prevenuto come priorità assoluta di una società che non pò̀ tollerare ulteriormente la morte violenta di tante donne per il solo fatto di essere donne.
Altro punto centrale per il movimento è la lotta alla precarietà del lavoro. Un obiettivo in comune con gli uomini, naturalmente. Per le donne la precarietà̀ mostra con più chiarezza come il neocapitalismo derubi le persone della loro vita. L’impossibilità o quasi di fare progetti per il futuro, diventa un forzatura dei ritmi biologici, dei corpi.
Reddito di dignità, sostegno alla maternità e paternità, asili nido pubblici e gratuiti, anche nei luoghi di lavoro, sono le misure essenziali. Ma anche un ripristino del welfare che non faccia gravare tutta la cura degli anziani e dei familiari con disabilità su donne che non vedono più la fine di rapporti di lavoro, rispetto a una pensione sempre più lontana. O che devono lottare con lavori sfuggenti e sempre più ridotti e precari, nonostante l’età.
Pace, antirazzismo, anticolonialismo, inclusione, solidarietà e sostegno sociale. Contro la violenza, contro le ingiustizie. Queste sono le parole che i nuovi movimenti, i nuovi femminismi riprendono e rilanciano nel mondo. Queste sono le parole che facciamo nostre.
10. IL LAVORO
Per la Costituzione, il lavoro è fattore d’emancipazione e riscatto, mentre al tempo del “lavoro povero” esso è divenuto, essenzialmente, ricatto e solitudine. Negli anni della crisi, poi, mentre la struttura produttiva italiana si riduceva e si trasformava, un uso politico della crisi agitava il miraggio dell’occupazione come leva di deregolamentazione e compressione retributiva, svalutando tutto il lavoro sul piano non soltanto economico. Disoccupazione e sotto occupazione toccano livelli drammatici specie per i giovani, anche altamente scolarizzati; abbondano forme di lavoro precario di tipo subordinato e non, o addirittura non qualificato: come lavoro, semi-gratuito e gratuito, talvolta anche coatto. Proseguono indisturbati i processi di scomposizione dell’impresa e decentramento della produzione anche oltreconfine, con esternalizzazioni (e privatizzazioni) che coinvolgono anche i servizi della Pubblica Amministrazione. Dilagano i contratti nazionali pirata, stipulati da finti sindacati per legittimare il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Lo smantellamento di diritti e garanzie – prima praticata con la moltiplicazione di forme di lavoro alternative ai rapporti standard, poi con l’indebolimento delle tutele anche di questi ultimi, oltre che del ruolo del giudice – ha determinato uno spostamento dei rapporti di forza a vantaggio dei datori di lavoro. Se da un lato ciò scoraggia i lavoratori dall’esercizio, collettivo e individuale, anche dei diritti vigenti, dall’altro lato ha assecondato la “via bassa” allo sviluppo, favorita dalla politica di incentivi a favore delle imprese, slegati da investimenti in innovazione e qualità. Per contro, l’assetto organizzativo dell’impresa non va assunto come dato, ma come l’esito di un processo che il diritto può orientare e governare, affinchè chi utilizza lavoro altrui ne assuma sempre anche la responsabilità.
La sinistra muore se non riesce a rappresentare il lavoro, coniugandolo con la libertà. Un programma di cambiamento, nel solco della Costituzione, va fondato sulla ricomposizione del mondo del lavoro e sulla responsabilizzazione dell’impresa; sul rilancio delle libertà individuali e collettive, dentro e fuori dalle tradizionali forme della rappresentanza e sulla difesa della titolarità individuale del diritto di sciopero. Per riunificare il lavoro è, innanzitutto, necessario garantire l’emancipazione dal ricatto del bisogno, anche attraverso la garanzia di un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa; al contempo, bisogna riconoscere essenziali diritti di libertà a chiunque svolga lavoro personale e continuativo in un’organizzazione altrui, per la realizzazione di beni o servizi di cui altri è immediatamente legittimato ad appropriarsi: a tutto il lavoro per conto altrui va riconosciuto un nucleo di diritti che vadano dal rispetto della riservatezza alla tutela della professionalità, dall’equo compenso ai diritti sindacali fino al diritto alla stabilità del rapporto, da considerarsi architrave e pre- condizione dell’effettività di ogni altra tutela. Sotto questo profilo, va innanzitutto reintrodotta ed estesa la reintegrazione sul posto di lavoro come rimedio generale al licenziamento ingiustificato: la reintegrazione non ha, infatti, alcun legame con l’organizzazione del lavoro di matrice fordista-taylorista; rappresenta, semplicemente, il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi.
In seconda battuta, è tempo d’invertire la rotta sul fronte del lavoro povero, precario e gratuito o semi-gratuito: a) sperimentando forme, anche inedite, di regolamentazione del lavoro sulle piattaforme digitali; b) introducendo per tutti/e, ed anche per il lavoro autonomo, un salario minimo legale che si riferisca ai contratti collettivi autentici; c) disboscando la selva dei rapporti precari (a partire da lavoro a chiamata e occasionale), mal pagati (tirocini) o non pagati affatto (alternanza scuola-lavoro); d) tornando a legare tutti i contratti con una scadenza ad esigenze oggettive di carattere temporaneo.
Specie in un paese nel quale si lavora ben più della media europea, vanno introdotti istituti finalizzati alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo tale da liberare tempo di vita, redistribuire lavoro e favorire nuova occupazione, in particolare giovanile.
In terzo luogo, al fine di responsabilizzare l’impresa e governarne l’articolazione organizzativa, alla tecnica della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore va nuovamente affiancata la parità di trattamento tra dipendenti del primo e del secondo, il che consentirebbe solo un decentramento orientato alla specializzazione qualitativa, precludendo quello finalizzato alla mera riduzione dei costi.
La responsabilità̀ dell’impresa deve essere anche quella di far crescere, e non di indebolire la professionalità e le competenze dei lavoratori. Va quindi affermato il diritto per tutti i lavoratori alla formazione continua, anche come misura essenziale per affrontare le sfide dell’innovazione dei prodotti e dei processi, ampliando e non contraendo la dignità del lavoro.
In ultimo, ma non per ultimo, andrebbe garantito e agevolato l’acceso alla giustizia per chi vive del proprio lavoro, sia accelerando i tempi del processo, sia rinnovandone la gratuità.
Tornare a regolare il lavoro di mercato è essenziale per salvaguardare la dignità del lavoro e per perseguire uno sviluppo basato sulla qualità invece che sulla contrazione dei diritti e del costo del lavoro. Ma non risolverà di per sé i problemi della disoccupazione e della povertà crescente. È necessario per questo pensare e progettare nuovo lavoro fuori dalle compatibilità economiche del mercato. Esiste una immensa quantità̀ di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perchè il Mercato non li considera utili (non producono né profitto nè rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla messa in sicurezza del territorio: dalla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico; dai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazione di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche. Dobbiamo rovesciare il rapporto tra lavoro ed economia. È l’economia, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia.
12. IL REDDITO DI DIGNITÀ
È necessario e urgente introdurre anche in Italia (come in moltissimi altri paesi europei) un Reddito di dignità (o minimo, o di cittadinanza). Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia ed Europa, secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà̀ relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale.
Il Reddito di dignità, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza sociale (ammortizzatori socio- economici) perché li hanno esauriti (esodati, mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la soglia di rischio di povertà. Il Reddito di dignità, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di supporto economico. Il Reddito di dignità, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali, perché è uno strumento che rompe il ricatto economico imposto da chi ha il vero controllo del territorio.
Occorre destinare al Reddito minimo di dignità almeno 16 miliardi di euro all’anno (la Francia ne impiega 10, l’Irlanda 20), da recuperare attraverso una riduzione della spesa militare, e da una ricostruzione del sistema fiscale ispirato alla progressività e alla giustizia.
15. LA DEMOCRAZIA
Da più di dieci anni l’Italia non ha una legge elettorale conforme alla Costituzione.
Prima il Porcellum, annullato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014; poi l’Italicum, annullato con la sentenza n. 35 del 2016; ora il Rosatellum, approvato abusando di rapporti di forza parlamentari costruiti illegittimamente e imponendo ben otto votazioni di fiducia incostituzionali. Il vizio, sorto nel 2006, è andato di anno in anno incancrenendosi in una situazione che la Corte costituzionale ha definito di «alterazione» del rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, di «coartazione» della volontà degli elettori, di «contraddizione» del principio democratico, di lesione della libertà di voto. Cosa di più grave avrebbe potuto colpire la democrazia italiana?
L’ossessione di incoronare un vincitore la sera stessa delle elezioni ha travolto l’essenza stessa del sistema parlamentare: il confronto tra le posizioni presenti nella società, alla ricerca, conflittuale ma costruttiva, di possibili profili di compromesso. Abbiamo assistito alla creazione di giganti coi piedi d’argilla, forti in Parlamento grazie a numeri artificialmente gonfiati e deboli nella società perché privi di reale consenso. L’arroganza del potere è cresciuta in parallelo alla sua inettitudine: lo sprezzo per i deboli, l’irrisione delle minoranze, lo sfregio delle forme hanno prodotto azioni politiche di corto respiro, volte a cristallizzare l’esistente, sempre a rimorchio degli stravolgimenti socio-economici in atto. Tanto potere per una politica violenta, tronfia, subalterna.
Viviamo in una società sempre più diseguale e divisa. Abbiamo bisogno di costruire ponti, non di innalzare muri. Al centro del sistema deve tornare il Parlamento, l’organo che rappresenta tutti. Le decisioni fondamentali che riguardano la collettività devono tornare a essere apertamente discusse, a nascere dall’ascolto delle opinioni altrui, a guardare al futuro perché frutto di costruzioni condivise. La contrapposizione tra rappresentanza e governabilità è fuorviante. Un Paese è tanto più governabile quanto più le sue
istituzioni costituzionali sono rappresentative. Dalla scuola media unica, obbligatoria e gratuita (1962) al servizio sanitario nazionale (1978), passando per lo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), tutti i più rilevanti interventi di attuazione del dettato costituzionale si sono avuti quando massima è stata la capacità di rappresentare nelle istituzioni i differenti orientamenti politici presenti nella società. Per questo è, anzitutto, necessaria una legge elettorale proporzionale, che ridia finalmente voce agli italiani in modo equilibrato e plurale, anche con riguardo alla scelta dei rappresentanti. Inoltre, il Parlamento deve tornare ad assumersi la piena responsabilità delle scelte politiche fondamentali, riequilibrando il rapporto col governo sull’iniziativa delle leggi e ponendo fine all’abuso della delega legislativa.
Gli italiani hanno bisogno di tornare a concepire l’attività politica come un’occasione di impegno costruttivo, non di occupazione del potere. Le forze politiche devono essere messe in condizione di svolgere un’attività continuativa, diffusa sul territorio, organizzata. La loro presenza non può esaurirsi nella figura di leader che occupano spazi virtuali e si palesano fisicamente a singhiozzo, in occasione delle consultazioni elettorali. Per assicurare continuità servono risorse. È per questo che si deve reintrodurre il finanziamento pubblico delle forze politiche, da attribuirsi in rapporto al numero degli iscritti e vincolandolo a trasparente rendicontazione (sottoposta alla Corte dei Conti), e imporre rigorosi limiti quantitativi al finanziamento offerto dai privati perché nessuno possa approfittare delle proprie ricchezze personali e a tutti siano garantite uguali condizioni e opportunità di partecipazione alla contesa politica.
Per lo stesso motivo è necessario intervenire sul sistema dei media, nazionali e locali, attraverso cui passa la comunicazione politica: stampa, televisione, internet. È necessario recuperare l’idea che l’informazione è un bene pubblico, il cui pluralismo va tutelato a garanzia dei diritti costituzionali di informare e di essere informati. Per questo proponiamo una severa legge sull’informazione, che rilanci il servizio pubblico e garantisca la competitività delle aziende editoriali private colpendo le concentrazioni proprietarie.
16. CENTRO E PERIFERIA
In questi ultimi anni le regioni sono passate da essere presentate come la soluzione ai problemi dell’Italia, grazie all’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini, al problema dell’Italia, a causa degli scandali che hanno colpito la classe politica locale. Come un pendolo fuori controllo, adesso, con i referendum del Veneto e della Lombardia, gli equilibri politici sembrano di nuovo tendere verso le regioni. L’incerta definizione del ruolo delle istituzioni territoriali ha investito anche gli enti locali, travolti da una legislazione continuamente in divenire che ha privato di ruolo e identità, oltre che di risorse, comuni, province e città metropolitane.
Nelle città vive la grande maggioranza della popolazione del globo. Anche in Italia vivono 22 milioni di persone solo nelle 14 città metropolitane ed almeno 10 milioni negli altri grandi comuni esterni a queste. Non è solo un fenomeno quantitativo. Il modo di vivere urbano condiziona l’insieme della vita umana sul pianeta. È cambiata l’idea storica di città, la stessa distinzione fra città e campagna, fra chi è dentro e chi è fuori. L’economia globale, coi suoi flussi di denaro e di persone, di parole e di cose, il computer e il container, rende vicino quel che è lontano, ma insieme allontana i vicini, sconvolgendo i vecchi modi del vivere insieme. Le città sono sempre più differenziate tra loro ed al loro interno, tra l’estremo delle zone riservate alle élites in rete col mondo, protette ed autosufficienti, le aree intermedie popolate da ceti medi più o meno impoveriti, e l’estremo opposto delle aree periferiche abitate dai ceti più emarginati, spaccati dalla contraddizione tra autoctoni ed immigrati.
Nelle città la crisi morde più forte. La riduzione di risorse e di poteri dovuta al neocentralismo di uno Stato cinghia di trasmissione delle Istituzioni sovranazionali e della finanza globale, al quale s’è aggiunto il neocentralismo delle Regioni, ha causato in quasi tutte le città la perdita di controllo del territorio e la riduzione degli spazi comuni, il degrado culturale ed ambientale, la sofferenza delle categorie più deboli, la crisi dei servizi pubblici fino alla soglia del collasso. Le associazioni ed i movimenti impegnati su queste
tematiche si trovano a riscontrarne le connessioni concrete nella vita delle persone e la derivazione comune dalle politiche di austerità̀; perciò, la contiguità territoriale dei progetti e delle pratiche di partecipazione ha la possibilità di produrre un coordinamento delle rispettive attività, fino a produrre forme di collegamento permanente a livello cittadino. Ovvero a livello politico.
Il governo delle città, in Italia, è stato compromesso dal fallimento della riforma delle Città metropolitane e dell’abolizione delle Province. più in generale, dall’ affermarsi del nuovo centralismo dello Stato e delle Regioni. E’ necessaria, perciò, una riforma dell’assetto istituzionale delle città nella direzione dello sviluppo della democrazia e della partecipazione. Ciò significa, in primo luogo spostare poteri e risorse verso il basso, dalle Regioni verso gli Enti locali; poi, allentare i vincoli di bilancio per la spesa sociale, gli investimenti, il buon andamento degli apparati; infine, rendere effettive ed esigibili le procedure di partecipazione.
È necessario porre un limite al centralismo regionale. Non è possibile che le Regioni continuino a gestire ed amministrare quando la Costituzione prevede che la loro funzione sia quella di legiferare, programmare, indirizzare e coordinare, mentre l’amministrazione attiva spetta di norma agli Enti locali. Agli Enti locali maggiori vanno attribuite nuove funzioni in materia di servizi essenziali, ed i mezzi per farvi fronte. Tutti gli Enti locali devono avere organi eletti dai cittadini, per essere responsabilizzati da un’investitura popolare sul programma.
Pertanto:
a) In applicazione dell’art. 118 COST. va precisato che di norma le funzioni amministrative e gestionali sono attribuite a Comuni, Province e Città metropolitane e non alle Regioni, anche per l’attuazione di leggi regionali. Nei casi in cui le Regioni ritengano di dover esercitare direttamente tali funzioni per assicurarne l’esercizio unitario, sono tenute a dimostrare le ragioni di tale necessità.
b) Le Città metropolitane e le Province devono essere governate da organi eletti direttamente dai cittadini ( Sindaco o Presidente, Consiglio ), Devono lavorare a tempo pieno, evitando doppi incarichi tra la Città metropolitana, la Provincia e i singoli Comuni. I Sindaci metropolitani e i Presidenti devono esercitare le proprie funzioni con il supporto di organi collegiali ( Giunte ) formate da Assessori non appartenenti ai Consigli, cui viene delegata la realizzazione delle missioni e dei programmi di governo dell’ Ente. Alle città metropolitane vanno attribuite competenze, anche normative, in materia di sanità, scuola, servizi sociali e di integrazione, lavoro.
c) Nella formazione dei rispettivi Bilanci, le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono contemperare le garanzie dei diritti incomprimibili di cui alla Prima parte della Costituzione con il principio dell’equilibrio di Bilancio di cui all’ Art. 81, comunque escludendo che l’attuazione di tale principio possa condizionare in termini assoluti e generali l’ erogazione sui rispettivi territori dei servizi essenziali per garantire l’effettività dei diritti incomprimibili, come previsto dalla recente giurisprudenza costituzionale. In particolare, per garantire nel proprio territorio il buon andamento delle amministrazioni e l’erogazione dei servizi essenziali le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono poter procedere ad assunzioni di personale superando i vincoli stabiliti dalla legislazione vigente in materia di assunzioni per gli Enti locali.
La centralità della partecipazione attiva dei cittadini costituisce un decisivo fattore di cambiamento della politica e dell’amministrazione, a partire dai livelli di governo più vicini alle persone. La spinta a favorire la partecipazione ha prodotto, negli ultimi venticinque anni, una grande quantità di norme, dagli Statuti degli Enti ai Regolamenti conseguenti, che tuttavia hanno avuto scarsa attuazione, sia per un atteggiamento di diffidenza di gran parte del ceto politico, sia per la crescente sfiducia dei cittadini verso la politica in generale. Questa situazione può essere rovesciata da due fattori: a) l’impegno deciso in questo senso di un nuovo progetto politico, che si fondi anche al suo interno sulla partecipazione democratica; b) una nuova disciplina che renda
obbligatoria, e dunque esigibile, l’attivazione di procedure di partecipazione in relazione all’ esercizio di funzioni e potestà amministrative decisive per il funzionamento democratico delle istituzioni locali.
Pertanto:
a) Nell’ordinamento di tutti gli Enti locali devono esse reinseriti Regolamenti sulla partecipazione democratica, che prevedano elenchi delle Associazioni abilitate ad intervenire nelle relative procedure nonché modalità di coinvolgimento dei singoli, cittadini o comunque residenti.
b) In tutti gli Enti locali, nelle procedure di approvazione del Bilancio di previsione va inserita la previsione della presentazione al Consiglio, congiuntamente alla proposta formale di Bilancio, di una proposta di Bilancio partecipato costruita con procedure decentrate di consultazione democratica di cittadini ed associazioni. Nella delibera di approvazione del Bilancio, il Consiglio è tenuto a motivare esplicitamente le ragioni delle eventuali difformità rispetto alla proposta di Bilancio partecipato.
c) In tutte le procedure di approvazione di Piani territoriali va inserita la considerazione di documenti unitari prodotti al riguardo dalle associazioni presenti sul territorio, con la previsione dell’obbligatorietà della motivazione delle scelte del Piano eventualmente difformi.
d) Ogni atto relativo all’ affidamento della gestione dei beni comuni, pubblici o privati, a imprese esterne alla pubblica amministrazione va subordinato all’ espletamento di una procedura di verifica della convenienza di un affidamento “in house” o ad aziende pubbliche o ad associazioni di cittadini e di residenti, procedura che si concluda con una specifica delibera del Consiglio competente.
È dunque necessario immaginare una legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali ( coi relativi tempi di discussione e di approvazione); una iniziativa politica nei confronti delle Regioni e degli Enti locali per realizzare le proposte di cui sopra nelle parti e nella misura consentite dalla legislazione vigente ( da avviare nell’immediato ).
La strategia dell’austerity ha teso ad allontanare dai cittadini i centri di potere un cui si prendono le decisioni. Lo spostamento di risorse economiche e politiche verso i comuni, che sono i luoghi dove i cittadini e le organizzazioni sociali possono far sentire la loro voce, non deve tuttavia permettere che continuino ad acuirsi oltre il tollerabile le diseguaglianze territoriali nell’attuazione dei diritti fondamentali: la salute, l’assistenza, l’istruzione. Si è giunti all’aberrazione di introdurre ticket sanitari differenziati su prestazioni integranti i livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere egualmente garantite su tutto il territorio nazionale. Come stupirsi che ammonti addirittura a quattro anni la differenza di aspettativa di vita tra i cittadini che vivono in regioni diverse? Da ultimo, stiamo assistendo a un insensato discorso sui residui fiscali regionali, volto a rattrappire egoisticamente la solidarietà da nazionale a regionale: come se, nell’affrontare il problema della redistribuzione della ricchezza, la regione di residenza fosse più importante della condizione di benessere o indigenza.
Dobbiamo dare a tutti gli italiani, in qualunque parte del territorio nazionale vivano, eguali opportunità di realizzare il proprio progetto di vita. Competenze attualmente attribuite alle regioni devono tornare a essere gestite dallo Stato, in particolare in quei settori dove si è perduta, o si sta perdendo, la dimensione nazionale dell’azione politica. Vogliamo che sui temi della salute, della formazione, della tutela dei beni culturali, della protezione dell’ambiente, del governo del territorio le competenze delle regioni siano ridotte o eliminate, incrementando le competenze dello Stato. Un profondo ripensamento deve, inoltre, investire il tema delle regioni a Statuto speciale: la specialità ha perso giustificazione, trasformandosi in privilegio odioso e controproducente. L’eventuale attribuzione di poche competenze differenziate, motivate da ragioni oggettive, deve prendere il posto degli Statuti speciali. Tutte le regioni tornino a essere ordinarie e con competenze circoscritte a profili non riguardanti diritti costituzionali da garantire egualmente a tutti.
Il Mezzogiorno d’Italia è oramai uno dei territori più arretrati d’Europa. Troppe risorse politiche, intellettuali ed economiche sono state negli ultimi anni destinate ad affrontare una presunta questione settentrionale di cui tutti siamo stati chiamati a farci carico, mentre la vera questione territoriale del Paese, quella meridionale, veniva abbandonata a se stessa. L’arretratezza, non solo economica, del meridione deve diventare un tema sentito da tutti gli italiani. Proponiamo l’istituzione di un’Agenzia per il Mezzogiorno, perché solo uno strumento d’intervento statale può adeguatamente far fronte a un problema che coinvolge lo Stato nel suo complesso.
La legislazione sul “federalismo” fiscale va abolita. La logica di mercato non può essere elevata a criterio attraverso cui gestire i rapporti tra Stato e autonomie. Territori e città devono poter contare sulla solidarietà reciproca. Le risorse vanno distribuite con l’obiettivo primario di migliorare i servizi dove più sono carenti, nel contempo preservando quelli che già hanno raggiunto idonei livelli di qualità.
18. PER INVERTIRE LA ROTTA IN ECONOMIA
La rinuncia ad inserire il Fiscal Compact nei Trattati europei e il suo affidamento ad una prossima direttiva rimanda ad una sede ancora meno democraticamente qualificata una decisione cruciale, in base alla quale dovremmo riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL al 60%. Potrà essere sancita, con forza superiore alle Leggi ordinarie, la rinuncia a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi, obbligandoci a continui avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi. Soprattutto, si potrà affermare il definitivo primato della tecnocrazia sulla democrazia. L'economia come scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini, i diritti o l'ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili.
Il Fiscal Compact è solo uno delle regole che hanno messo nero su bianco le politiche di austerità, diligentemente seguite dal nostro Paese, malgrado periodiche quanto roboanti dichiarazioni sul volere “battere i pugni sul tavolo a Bruxelles”. Un comportamento ambiguo quanto pericoloso, perché da credito alle pulsioni nazionaliste e populiste di chi dice che è impossibile cambiare le cose in UE. Da un lato “è l'Europa che ce lo chiede” e “non ci sono i soldi” come foglie di fico per giustificare tagli e sacrifici, dall'altro, caso più unico che raro in UE, cambiamo la Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio.
I singoli trattati seguono il dogma mercantilista che domina in Europa. Il compito principale dello Stato non è più il benessere dei cittadini – il bene comune, come scriveva Giuseppe Dossetti –, ma mettere le proprie imprese nelle migliori condizioni per competere. La competitività come obiettivo in sé, e soprattutto una competitività che non si gioca su ricerca e innovazione di prodotto o processo. Al contrario, in particolare in Italia assistiamo a una corsa verso il fondo in materia ambientale e sociale, inseguendo la Cina sul piano del costo e dei diritti del lavoro o le Isole Cayman su quello della tassazione.
L'unica “politica industriale” - oltre alle privatizzazioni per fare cassa - è assicurare sgravi e contributi alle imprese. Politiche unicamente dal lato dell'offerta, per produrre di più e a prezzi più bassi. Ma il problema in Italia è dal lato offerta o nella domanda? Le imprese non investono e non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo e ci sono troppe tutele, o al contrario perché le diseguaglianze deprimono la domanda, perché c'è una profonda sfiducia nel futuro, perché queste stesse politiche contribuiscono al peggioramento della crisi?
Una crisi nata dagli eccessi e dai disastri della finanza privata, il cui conto è stato scaricato sul pubblico. In un gigantesco ribaltamento dell'immaginario collettivo, oggi quest'ultimo è sotto accusa e subisce le politiche di austerità, mentre la prima è ripartita a pieno ritmo e viene inondata di soldi. Le migliaia di miliardi del Quantitative Easing sono in massima parte rimasti incastrati in circuiti speculativi invece di alimentare l'economia reale.
Sul piano delle regole va se possibile ancora peggio. A ottobre la Commissione europea dichiara di abbandonare il progetto di separazione tra banche commerciali e di investimento. Le lobby rialzano la testa, chiedendo nuovamente di abbattere regole e controlli La lezione della crisi, se mai era stata appresa, è stata già dimenticata.
Una risposta è dunque chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. Da una tassa sulle transazioni finanziarie a misure contro i paradisi fiscali o gli eccessi della speculazione, sappiamo cosa andrebbe fatto e come. Il problema non è nelle difficoltà tecniche, ma nella volontà politica di attuare tutto questo.
In parallelo occorre riaffermare il ruolo della finanza pubblica. Serve un piano di investimenti per l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia, la mobilità sostenibile, la ricerca. Tutti obiettivi di lungo periodo che non possono essere lasciati alla mano invisibile di un mercato guidato dal massimo profitto nel brevissimo periodo.
Come primi passi dobbiamo escludere gli investimenti dal patto di stabilità e abbandonare il Fiscal Compact.
Nello stesso momento, le regole europee non possono essere un alibi per non cambiare rotta in Italia. Le risorse si possono trovare con un diverso utilizzo della spesa pubblica. Tagliare le spese militari per investire nel sociale; chiudere la disastrosa stagione delle grandi opere e occuparsi di tutela e conservazione del territorio; investire nella transizione energetica dalle fossili alle rinnovabili con vantaggi non solo ambientali, ma anche per l'occupazione e la bilancia commerciale (considerato il peso delle importazioni di gas e petrolio), per non parlare delle implicazioni geopolitiche. Solo pochi esempi per chiarire che servono regole diverse, ma che è ancora più urgente un cambiamento culturale, tanto in Italia quanto su scala europea.
24. FISCO
Negli ultimi decenni, il sistema fiscale italiano è andato trasformandosi: da improntato al principio di progressività a ispirato a una tendenziale proporzionalità. È noto che più aumenta la disponibilità di un bene, meno prezioso questo diventa per il suo possessore. Per questo, al crescere della ricchezza deve crescere la percentuale di risorse da pagare in imposte, in modo che la raccolta delle risorse pubbliche non gravi egualmente su tutti, ma in misura maggiore sui ricchi. Questo elementare principio di giustizia, prescritto dall’art. 53 Cost., è oggi pressoché ignorato nel nostro sistema fiscale. L’imposizione sul reddito grava quasi esclusivamente sui redditi medi e medio-bassi, a tutto vantaggio di coloro che guadagnano cifre più elevate. L’imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari è modestissima. L’imposizione sulle eredità è addirittura risibile: la più alta aliquota italiana è inferiore alla più bassa aliquota tedesca. Il rapporto tra imposte dirette (progressive) e imposte indirette (proporzionali) è sempre più squilibrato a favore delle seconde. A ciò va aggiunta un’evasione fiscale ampiamente superiore ai 100 miliardi di euro annui e l’opacità prodotta da una giungla di detrazioni, deduzioni, sgravi, esenzioni, assegni familiari, bonus, addizionali locali.
Un’enorme quantità di ricchezza si è spostata, negli ultimi anni, dal basso verso l’alto. Luciano Gallino ne ha calcolato l’ammontare in 240 miliardi di euro. Nel 1973, quando venne istituita l’Irpef, erano previsti trentadue scaglioni, l’aliquota più bassa era fissata al 10%, quella più alta al 72%. Oggi gli scaglioni sono scesi a cinque; l’aliquota più bassa è salita al 23%, quella più alta è scesa al 43%. Si sono alzate le tasse ai poveri per abbassarle ai ricchi. Il risultato è stato l’impoverimento non solo degli strati più indigenti della popolazione, ma anche della classe media, sempre più “schiacciata” verso il basso. Ridurre le tasse indiscriminatamente è sbagliato: vanno ridotte a chi ne paga troppe; vanno aumentate a chi ne paga poche.
Sono diverse le misure che si potrebbero mettere in campo. Aumentare il numero degli scaglioni Irpef, introducendo almeno un
sesto scaglione per i redditi oltre i 100.000 euro, con aliquota più alta di quella massima attuale. Diminuire le aliquote per il primo e secondo (redditi fino a 28.000 euro), aumentandole per quarto e quinto scaglione (oltre i 55.000). Rivedere la tassa di successione, riducendo l’attuale franchigia di un milione di euro e introducendo anche qui scaglioni ad aliquote progressive. È poi inammissibile che in Italia venga tassato quasi esclusivamente il reddito ma non la ricchezza. Dobbiamo riprendere il dibattito intorno a una seria tassazione patrimoniale, che riguardi prima di tutto il patrimonio immobiliare inutilizzato. Più in generale, non si può addurre la scusa di una completa libertà di movimento dei capitali per giustificare l'impossibilità di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari. Al contrario, questo è un ulteriore argomento per tornare a parlare di controlli sui flussi di capitale in entrata e in uscita dall’Italia. Un argomento che si lega alla necessità di un serio contrasto ai paradisi fiscali, che non può ridursi a inseguire l’isoletta tropicale di turno. Dobbiamo guardare in casa nostra. Da dove provengono i soldi che finiscono offshore? Chi ne trae beneficio? La proposta, oggi discussa in UE, di obbligo per tutte le imprese di pubblicare i bilanci suddivisi in ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting) sarebbe una delle misure in tale direzione e un passo in avanti non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio internazionale e traffici illeciti.
Queste sono alcune prime proposte, alle quale possono seguire diverse altre. La cosa fondamentale è invertire la rotta degli ultimi anni e adottare da subito delle misure per una maggiore progressività del sistema fiscale, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione.
27. SALUTE
Negli ultimi anni, con particolare accelerazione a partire dalla spending review sono state adottate politiche di definanziamento del Servizio sanitario nazionale che prevedono una diminuzione in termini percentuali del rapporto fondo sanitario/pil che nel 2020 dovrebbe scendere al 6,3%. Nei paesi europei solo Portogallo, Grecia e Slovenia hanno un rapporto inferiore.
Il definanziamento ha portato alla chiusura di ospedali, di posti letto, al depotenziamento dei servizi, al blocco del turnover del personale, alla diminuzione degli investimenti, alle maggiori difficoltà di accesso alle cure e all’aumento delle liste di attesa.
La contrazione della spesa pubblica ha comportato il progressivo aumento della spesa privata dei cittadini sia con acquisito di prestazioni dirette (out of pocket) sia intermediata da assicurazioni e fondi sanitari integrativi. Nel 2015 a fronte di 147 miliardi di spesa sanitaria totale, 113 miliardi sono risultati della spesa pubblica, 30 miliardi di spesa out of pocket e 4,5 di spesa intermediata.
La spesa intermediata privata è destinata a salire non solo per il progressivo peggioramento delle strutture pubbliche, ma anche per le politiche fiscali favorevoli ai fondi sanitari e alle assicurazioni. Anche gli accordi sindacali che portano alla creazione del c.d. “welfare aziendale” portano la spesa in quella direzione.
Il diritto alla salute non è omogeneo sul territorio nazionale anche per la diversa organizzazione posta in essere nelle regioni e per le politiche di compartecipazione alla spese (ticket) diverse sul territorio nazionale. Negli ultimi anni cinque regioni meridionali sono commissariate dal ministero dell’economia e i vincoli di bilancio hanno nettamente prevalso sulla tutela del diritto costituzionale alla salute.
Sul versante dei diritti legati alla bioetica (inizio e fine vita) il ritardo del nostro paese è ancora più evidente: una legge conquista di civiltà, come la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, è in difficoltà per lo strumentale utilizzo dell’istituto dell’obiezione di coscienza; la legge sulla fecondazione assistita è, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale, ancora inaccettabile.
Occorre mettere in atto un progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale che permetta, entro la fine della legislatura, un recupero più ottimale del rapporto spesa pubblica/pil per permettere:
– un progressivo smaltimento delle liste di attesa;
– uno straordinario programma di assunzioni di operatori e
professionisti del Servizio sanitario nazionale;
– la riforma delle cure primarie e territoriali oggi non più rinviabile;
– l’eliminazione del c.d. superticket e la progressiva diminuzione delle altre forme di partecipazione alla spesa in favore di politiche di appropriatezza per combattere sprechi e abusi. Le politiche di compartecipazione alla spesa devono essere omogenee su tutto il territorio nazionale;
– investimento in edilizia sanitaria per la sostituzione di ospedali obsoleti, inefficienti e costosi nella gestione (con il divieto di costruzione di ospedali con la “finanza di progetto” che vede la compartecipazione e la gestione di “concessionari” privati).
È necessario anche un forte contrasto alla corruzione e ai conflitti di interesse che allignano in molte parti dell’intero sistema.
Sul fronte della bioetica è necessaria una stagione riformatrice che metta fine agli abusi dell’obiezione di coscienza per le procedure abortive e che porti al varo di una nuova legge sulla fecondazione assistita che ponga, tra l’altro, fine ai divieti per le donne single e alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.
Sempre sul versante bioetico è necessaria una legge sulle decisioni complessive di fine vita – che integri la recente legge sul testamento biologico - che riconosca il pieno diritto di autodeterminazione delle proprie scelte individuali per porre fine alla “migrazione” verso l’estero.
29. LA SCUOLA
La scuola della Costituzione è la scuola che deve assicurare la mobilità sociale e dare a tutti pari opportunità per essere cittadini sovrani, inserirsi nella società e nel lavoro come soggetti liberi e consapevoli, superando le differenze derivanti dalla famiglia e dal luogo in cui si è nati, e dalle condizioni economiche di partenza. Uno strumento fondamentale per rimuovere le cause dell’ineguaglianza, come indicato dall’art. 3 della Costituzione. E invece la scuola italiana resta, a settant’anni dalla Costituzione, una scuola classista. In cui gli alunni si distribuiscono nei diversi ordini scolastici a seconda delle condizioni di reddito e cultura della famiglie di provenienza, e in cui i “dispersi” vivono tutti in famiglie povere e nelle periferie delle città, figli di migranti o di italiani poveri. Una scuola che, come diceva don Milani, continua ad assomigliare ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Tutto questo nonostante l’impegno profuso da migliaia di insegnanti, di pedagogisti illuminati, da militanti del movimento operaio e sindacale, consapevoli dell’importanza che ha la scuola nel segnare le disuguaglianze fra le persone nel lavoro e nella società̀, per costruire una buona scuola, capace di far crescere tutti, a partire dai più poveri e svantaggiati, portando nella scuola pubblica l’ispirazione e i metodi educativi della scuola di Barbiana.
Il problema è che le riforme, dopo quelle degli anni sessanta e settanta – i tempi della scuola media unica, del sostegno alla innovazione didattica e ai programmi delle elementari, al superamento delle classi speciali per i diversamente abili, alla conquista del tempo pieno, riforme ancora segnate dallo spirito della Costituzione – hanno avuto come effetto quello di creare difficoltà e intralci burocratici alla buona scuola reale, piuttosto che aiutarla e sostenerla. Un buon inizio sarebbe quello di de-riformare la scuola: abrogando tutte le ultime riforme.
La buona scuola reale, la pedagogia per crescere tutti insieme, vive finché vive una speranza di trasformare il mondo, di promuovere la dignità e la libertà del lavoro, di vincere la fame e le guerre; entra in crisi quando ci si propone l’adattamento dei bambini e degli adolescenti al mondo com’è.
E le riforme degli ultimi anni, l’ultima, quella del governo Renzi è l’esempio più clamoroso, hanno come obiettivo l’adattamento ad un mondo che nel frattempo è diventato sempre meno uguale, sempre più ingiusto e violento. La buona scuola reale ha come asse la cooperazione educativa, la buona scuola di Renzi promuove la competizione, la gerarchia e l’individualismo, un una sorta di neoliberismo dell’anima che enfatizza le eccellenze, reali o presunte, e colpevolizza chi non ce la fa.
La scuola è colpevolizzata perchè non sa fornire alla economia e alle imprese quello che serve. Così si addebita alla scuola la ‘colpa’ di non preparare i ragazzi al lavoro, e si ‘rimedia’ istradandoli in percorsi di alternanza scuola-lavoro in lavori poveri e dequalificati, in imprese in cui è assente la formazione per gli stessi lavoratori. Contemporaneamente, si vanifica il lavoro della scuola per far convivere bambini di tanti paesi diversi negando la cittadinanza a chi ha un colore della pelle diverso; e le scuole che insegano ai bambini il rispetto dell’ambiente li consegnano poi ad un mondo che l’ambiente e il territorio continua a inquinarlo e cementificarlo.
Ma la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è. La sinistra che vuole cambiare il mondo deve dunque impegnarsi per sostenere e fare avanzare la buona scuola che ha resistito alla riforme calate dall’alto. Lavorando a sostegno di quanti oggi sono impegnati a mettere in rete le esperienze migliori: il movimento di cooperazione educativa, il CIDI, le organizzazioni studentesche, i sindacati della scuola che non si rassegnano ad una lotta di pura resistenza, ma difendono gli spazi di autodeterminazione delle scuole che interpretano l’autonomia come comunità educativa
Dove è presente nelle istituzioni locali deve impegnarsi a mettere in rete la scuola con le opportunità educative e culturali presenti nel territorio, consapevole che la scuola funziona quando l’intera città sa essere città educativa. E concentra il suo impegno maggiore sulle scuole delle periferia, che sono spesso l’unico momento in cui un tessuto sociale frammentato e disperso può provare a ripensarsi come una comunità.
Una sinistra di governo dovrebbe avere come impegno prioritario la rimozione delle cause della dispersione scolastica. A partire da quelle economiche. La gratuità dell’istruzione deve essere resa effettiva a tutti i livelli, contrastando la deriva che scarica sulle famiglie, in maniera insostenibile per le famiglie più povere, i tagli al sistema scolastico e ai bilanci delle singole scuole. Una percentuale altissima, quasi la metà dei ragazzi delle superiori, ricorre alle lezioni private, per raggiungere gli standard che permettono una valutazione positiva. I compiti a casa acuiscono le differenze fra chi ha in casa libri e genitori in grado di aiutarli e chi non ce l’ha. È la scuola della meritocrazia e dell’individualismo che genera queste derive. La scuola della cooperazione educativa, quella in cui si impara tutti assieme e i più bravi diventano ancora più bravi impegnandosi a fianco di chi resta indietro, non ha bisogno né di lezioni private né di compiti a casa. Il divieto delle lezioni private deve essere accompagnato dal giusto riconoscimento economico del lavoro degli insegnanti, sottratto alla logica di una valutazione meritocratica che premia l’individualismo docente e scoraggia la cooperazione educativa.
Le scuole devono essere aperte alla educazione permanente degli adulti. La scuola italiana ha vissuto il momento più ricco della sua storia recente quando gli operai sono tornati a scuola dopo la conquista contrattuale delle 150 ore. Quando i genitori erano contemporaneamente genitori ed allievi. L’assenza di un sistema di educazione degli adulti, che vuol dire scuola, ma anche biblioteche pubbliche, teatri, cinema, accesso al patrimonio culturale del territorio, è una delle carenze più gravi del sistema educativo del nostro Paese. Eppure ha a che fare con i diritti di cittadinanza fondamentali e la vivibilità del territorio. La stessa percezione della sicurezza passa in gran parte da qui. Gli anziani che invecchiano soli si sentono infinitamente più insicuri di quelli che non hanno rinunciato a imparare, che escono di casa per vivere la città anche come un insieme di opportunità educative.
Abrogare la riforma di Renzi non è di per se sufficiente a risolvere i problemi della scuola italiana. Ma liberarsi della logica aziendalistica e mercatistica che la ispira è la precondizione per affrontare i problemi reali che la riforma non ha affrontato o distorto. La dispersione scolastica. L’ingresso nella scuola italiana di bambini provenienti da ogni parte del mondo. La crescente demotivazione dei ragazzi e delle famiglie a investire e a impegnarsi nello studio. A quest’ultimo problema la riforma di Renzi ha risposto enfatizzando l’uso delle tecnologie, diventate un fine del percorso educativo invece che un mezzo per condividere sapere e conoscenza. Oltre che alla onnipotenza del mercato i ragazzi sono chiamati ad adattarsi alla onnipotenza dell’algoritmo, per prepararsi ad un sistema produttivo in cui sempre più le tecnologie non sono al servizio dell’uomo ma l’uomo al servizio delle tecnologie. Il fatto che i percorsi scolastici sempre meno abbiano come sbocco un lavoro dignitoso è risolto con il mito della auto-imprenditorialità. Nel frattempo l’alternanza in lavori e lavoretti per abituarsi fin da subito all’obbedienza e alla passività, al lavoro senza diritti dei call center o dei mcdonald. L’adattamento al mondo oltre che ingiusto si rivela impossibile, incapace di produrre, nelle condizioni attuali, un patto educativo fra insegnanti, alunni, famiglie. Perché il mondo a cui ci si dovrebbe adattare è un mondo senza futuro. Educare i ragazzi e le ragazze ad essere attori di un futuro possibile dovrebbe essere il compito primario della scuola. A partire dalla questione che più di ogni altra sbarra la strada al futuro, il riscaldamento climatico che mette in pericolo la stessa vita umana sul pianeta. È quello che Edgar Morin indicava ai ragazzi orfani della Resistenza e del ’68: studiare per salvare il mondo. E su questo tema provare a trovare un filo comune delle discipline separate e disperse. La storia degli uomini e la storia della natura, lo studio dell’ambiente e quello del paesaggio. E questo tema doveva interrogare le professioni e i lavori del futuro. La pedagogia, come direbbe Gunther Anders, del futuro anteriore, quella che non ha paura di indicare il disastro a cui ci porterebbe il nostro modo di produrre e di consumare, ma fornisce gli strumenti per impegnarsi ad evitarlo.
31. LA RICERCA E L’UNIVERSITA’
La ricerca è il frutto di un sistema d’istruzione che crea quelle competenze che sono la precondizione del processo che collega ricerca a sviluppo economico. La politica degli ultimi quattro lustri ha identificato nel sistema formativo, alla base della formazione delle competenze, il capro espiatorio del mancato sviluppo del paese. Per renderlo più adatto al mondo del lavoro sono state introdotte la riforma Gelmini, la riforma della Buona Scuola, ecc.: si tratta però di una risposta politica sbagliata che invertita in maniera radicale.
I laureati fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro, ma in Italia la percentuale di laureati è la metà che nell’Europa del centro-nord; su dieci ragazzi che lasciano il paese nove hanno la laurea; i ricercatori italiani sono ancora capaci di vincere i più ambiti e ricchi progetti europei, ma sempre più spesso scelgono di svolgere la loro attività di ricerca all’estero. Nonostante i laureati siano pochi, la politica dell’ultimo decennio sono state tagliate risorse nel settore della formazione con il risultato di ridurre il fondo di finanziamento ordinario delle università del 20%, i finanziamenti per la ricerca di base dell’80%, del 20% i corsi universitari e del 45% quelli di dottorato. Complessivamente vi è stata una diminuzione del 20% dei docenti e degli immatricolati mentre è esploso il precariato. Per contro le tasse universitarie sono aumentate in media del 60% (raggiungendo il terzo posto in Europa) mentre le borse di studio si collocano ai minimi del continente. Inoltre i tagli si sono distribuiti in maniera molto eterogena sul territorio nazionale, colpendo il centro sud a vantaggio del nord, generando pericolosi e nuovi squilibri. La spesa per il sistema universitario pubblico è oggi di circa 6,5 miliardi di euro, contro i 20 miliardi della Francia e i quasi 27 miliardi della Germania: una differenza abissale.
La presenza di un’attività di ricerca che sia di livello internazionale, è, una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che rappresentano il potenziale indispensabile per poi
riuscire a innovare; tuttavia queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico. Il problema del nostro paese è, infatti, un altro: quello di essere il fanalino di coda nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza e ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri. L’Italia eccelle nell’occupare la penultima posizione per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese. Dunque la motivazione delle politiche dell’istruzione è stata di formare personale che si possa adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica, che a sua volta non richiede dal sistema formativo competenze qualificate, generando in tal mondo un circolo vizioso al ribasso per
economia basata sulla competitività del costo del lavoro piuttosto che puntare alla competitività tecnologica. Dunque la rotta tracciata è caratterizzata dalla desertificazione non solo tecnologica, ma anche scientifica e culturale e dalla crescita di una tipologia lavoro sempre più mortificante per il paese e per le nuove generazioni. E’ perciò necessario ricostruire la base scientifica, tecnologica e intellettuale del nostro paese. Quest’obiettivo deve essere guidato dall’intervento pubblico, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti. Solo un coordinamento la formazione. Per questo si è preferito puntare su un’
presenza di settori tecnologicamente innovativi, potrà evitare tra politiche della formazione, di ricerca e sviluppo e politiche industriali volte a potenziare la all’Italia di andare incontro a una emarginazione dal contesto competitivo internazionale e dunque a una regressione economica ancora più marcata di quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Delle politiche, cioè, che invece di puntare a formare manodopera di basso livello formativo per lavori a basso costo, ripunti a formare quelle capacità di conoscenza che rappresentano l’unico potenziale di uno sviluppo solido. Queste dunque le proposte chiave per una inversione della rotta:
(1) rifinanziamento del sistema universitario (2) renderlo tendenzialmente gratuito, iniziando con l’abbassare le tasse universitarie e renderle più progressive con il reddito familiare (3) intervenire per diminuire gli squilibri geografici, soprattutto con riguardo al mezzogiorno (4) piano straordinario di reclutamento (5) separazione tra reclutamento e progressione di carriera (5) aumentare i fondi per i progetti di ricerca di base da 30 milioni/anno a almeno 500 (6) tutelare la libertà di ricerca (articolo 33 della Costituzione) e in particolare abolire l’Agenzia di Valutazione che al momento interferisce pesantemente con la libertà di ricerca (7)riorganizzazione del comporto ricerca (Enti Pubblici di Ricerca e Istituto Italiano di Tecnologia) (8) coordinamento interministeriale delle politiche per la ricerca e l’innovazione tecnologica (9) Messa a punto di strategie progettuali di ricerca e innovazione in risposta agli obiettivi di sviluppo del paese.
35.LA CASA E LA CASA COMUNE:
TERRITORIO E PATRIMONIO CULTURALE
Quello della casa è un problema strutturale non un’emergenza. Da circa vent’anni, con l’esaurimento delle entrate ex Gescal e con il trasferimento delle competenze alle regioni, l’Italia è l’unico Paese europeo privo di una politica nazionale per la casa. Sono più di 600 mila le domande per l’assegnazione di alloggi pubblici, alle quali vanno aggiunti i bisogni delle famiglie che non possono far fronte neanche ai canoni delle case popolari. Sono stati disposti solo occasionali finanziamenti volti più al sostegno dell’imprenditoria che ad alleviare il disagio abitativo. Le politiche da attivare al più presto sono almeno le seguenti: riassetto degli istituti preposti alla gestione dell’edilizia pubblica; abrogazione delle sciagurate norme che autorizzano la svendita degli alloggi pubblici; garanzia di risorse pubbliche costanti e continuative.
Le suddette azioni, perché siano efficaci, pretendono l’istituzione di un settore dell’amministrazione statale – ministero, agenzia o dipartimento – cui affidare le politiche della casa, attualmente disperse in varie sedi e gestite in maniera estemporanea.
Lo stesso settore dell’amministrazione statale dovrebbe coordinare apposite politiche per le città, come avviene in molti Paesi europei. Si consideri che più della metà degli italiani vivono in aree urbane dove, tra l’altro, è di vitale importanza l’introduzione di misure per far fronte a problemi fino a poco tempo fa sconosciuti come il cambiamento climatico, le ondate di calore, le siccità, le inondazioni. L’incremento del verde pubblico, degli spazi aperti e degli alberi è una delle più efficaci politiche, perseguibile anche con modeste risorse, funzionale a: catturare CO2; garantire l’alimentazione delle falde; assecondare la coesione sociale; favorire la mobilità dolce pedonale e ciclabile.
No al consumo del suolo. Anche se recentemente rallentato, il consumo del suolo (legale e illegale) continua a essere responsabile dello snaturamento del paesaggio e delle città. Il disegno di legge governativo approvato dalla Camera nel 2016 prospetta un progressivo calo delle espansioni destinate ad azzerarsi nel 2050, come richiesto dall’UE. Quand’anche fosse credibile il rispetto dei tempi con un improbabile meccanismo a cascata (Stato, regioni, comuni), la prosecuzione seppure frenata della crescita edilizia per oltre trent’anni porterebbe alla definitiva dissipazione del Bel Paese e a un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita nei nuovi insediamenti destinati a restare forse per sempre privi di servizi adeguati.
L’unica soluzione consiste nel fermare subito il consumo del suolo In questo senso agiscono la legge della Toscana del 2014 e il Prg di Napoli del 2004 che non consentono nuove espansioni. Un testo da assumere a modello è quello proposto dal sito eddyburg del 2013: scavalcando le regioni, fa capo alle competenze esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio (Costituzione, art. 117, c. 2, lett. s) e obbliga i comuni a localizzare qualsivoglia trasformazione solo nell’ambito del territorio urbanizzato.
Tutela del paesaggio. A 13 anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali, solo cinque regioni dispongono di piani paesaggistici approvati o adottati (Puglia, Toscana, Piemonte, Sardegna e Lazio). Un risultato scandaloso. Né risultano predisposte le “linee fondamentali del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”
Il patrimonio culturale. Non c’è mai stata, in questo paese, una politica culturale costituzionalmente orientata. Nell’ultima legislatura, poi, sono arrivate le ‘riforme’ di Dario Franceschini. La riforma Franceschini si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può.
In gioco non c'è la dignità dell'arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso (Codice, art. 145, c. 1) che potrebbero dare un contributo decisivo a mettere ordine nell’assetto urbanistico. Urge perciò – nel quadro di una radicale riforma del Mibact – rilanciare con fermezza e competenza la pianificazione paesaggistica. la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell'ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto ad un'unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l'antidoto. Se il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sullo schiavismo, davvero non abbiamo più motivi per mantenerlo con le tasse di tutti: non serve più al progetto della Costituzione, che è "il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3).
Il progetto sulla tutela, invece, è stato chiarito da Maria Elena Boschi. Dialogando amabilmente con Matteo Salvini in diretta televisiva (Porta a Porta, 16 novembre 2016), l'allora ministra per le riforme ha candidamente ammesso: "io sono d'accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d'accordo". Ecco la verità. Renzi l'aveva scritto, in un suo libro: "soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della democrazia". Detto fatto: ora chi vuole cementificare, distruggere, esportare clandestinamente, saccheggiare necropoli ha la strada spianata.
Tutto questo non è una novità, è l'estremizzazione della linea anticostituzionale di Alberto Ronchey (ministro per i beni culturali dal 1992 al 94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come ‘petrolio d’Italia’, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento ‘televisivo’ per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero.
La storia dell’arte è in grande parte la storia dell'autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.
Perché questo si realizzi, i primi passi sono semplici e chiari: abrogare le riforme Franceschini; tornare immediatamente al livello di finanziamento precedente al taglio Bondi-Tremonti del 2008; riportare la pianta organica dei Beni culturali a 25.000 unità e coprirle tutte con posti a tempo indeterminato; riunire Ambiente e Beni Culturali in un solo Ministero del Territorio e del Patrimonio, da intendere come un ministero dei diritti della persona, come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione.
Omelie Archivi Fraternità
Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo. C’è un angelo all’inizio di quel nome, perché il nome viene da lontano, appartiene a chi ci ha preceduto. Come quando i nostri genitori ci hanno dato il nome, quel nome che oggi ci identifica, ci appartiene, quel nome siamo noi.
Basta il nome senza tutti gli addobbi che siamo soliti appiccicargli: dottore, commendatore, don, avvocato, professore, monsignore (e dovrei declinarli quasi tutti anche al femminile)… il nome senza tutte queste qualifiche. Solamente il nome che ci accompagna dal primo giorno fino all’ultimo, e voglio pensare che essendo talmente nostro, pur non in esclusiva, ci starà attaccato addosso anche dopo, nella vita eterna, quando saremo faccia a faccia con Dio.
Ecco iniziamo il nuovo anno con un nome. Non lo iniziamo con altro, ma nel nome di quel Bambino di Betlemme che viene chiamato Gesù.
Il nome è come la vita: ti viene donato, non lo scegli tu. Tutto dipende poi da come lungo gli anni che hai a disposizione lo fai fiorire, gli dai spessore, lo riempi di cose belle, oppure se lo sfiguri con la durezza di cuore, con l’indifferenza, l’ottusità, la vigliaccheria, l’ozio, l’ira, la violenza…
Se ripensiamo al nome aramaico “Gesù” già dentro quelle quattro lettere nel loro significato che rimandano all’ebraico “Dio salva” c’è tutto il Vangelo che verrà dopo perché non è un nome che tende verso l’alto, verso la notorietà, la gloria, il successo, la fama… non ha bisogno che gli venga appiccicata una di quelle etichette che ricordavamo sopra.
Il nome Gesù significa Dio salva perché, come dice Paolo nell’inno ai Filippesi, Dio salva scendendo, abbassandosi… non c’è come quando qualcuno ti si fa vicino, ti dedica del tempo, si prende cura di te che ti senti “salvato”, nel senso che vieni liberato dalla paura, dal timore perché vieni amato e il tuo nome torna a vivere. Così è Gesù: è sceso, si è svuotato, si è consegnato per amore di me, di te, di ciascuno di noi. Così ci salva e così ci libera.
La cosa che sorprende è che un nome così sarebbe destinato all’oblio, alla disistima… invece come dice bene Paolo è proprio nel discendere e non nel salire, nell’abbassarsi e non nell’innalzarsi, nell’assumere la condizione di servo e non quella del padrone che Gesù salva e il suo nome emerge attraverso i secoli, oltre il tempo, ed è diventato un nome di cui non possiamo più fare a meno.
Iniziamo con questo nome il nuovo anno, perché il tempo che ci viene donato possiamo viverlo nel nome di Gesù, che vuol dire viverlo come Gesù: amando, condividendo, pregando, perdonando… anche se lo sappiamo che non sarà facile.
Non sarà facile vivere nel nome di Gesù l’economia delle nostre famiglie: come poter continuare ad essere capaci di solidarietà e di dono quando ci hanno annunciato come regalo di capodanno l’aumento della bolletta del gas, dell’energia elettrica e delle autostrade…!
Non sarà facile per la convivenza civile nel nostro Paese: ho già condiviso con voi la mia preoccupazione per i rigurgiti di fascismo, per i saluti romani sempre più frequenti nelle piazze… ma anche per l’emergere dei loro leader considerati ormai normali interlocutori politici!
L’indifferenza nei confronti della gravità e della pericolosità di tutti questi atti è il vero male capace di minare la nostra convivenza civile e democratica, perché il fascismo non porta valori, ma violenza. E noi dobbiamo dire l’importanza di capire perché accadono queste cose, non basta indicare il male perché esso non venga compiuto.
Ma non sarà facile questo nuovo anno nemmeno per la pace tra i popoli: non è pace l’aver sconfitto sul terreno il Daesh/Isis, quando paesi come l’Italia continuano a vendere armi al Qatar e agli Emirati Arabi e questi poi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa… e noi ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo?! Abbiamo speso 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno e per il 2018 si prevede un miliardo in più, denuncia p. Alex Zanotelli!
Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015[1]! E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, nonostante la legge 185 lo proibisca. Continuiamo a vendere bombe[2] all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu.
Ecco in un contesto così non è affatto facile iniziare l’anno nel nome di Gesù. Come ricorda papa Francesco nel tradizionale messaggio per il 1° gennaio, che è ormai da 50 anni la giornata mondiale della pace, questa situazione è la principale causa del fatto che ci sono 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Vale a dire uomini, donne e bambini, giovani e anziani che cercano un posto per vivere in pace e molti di loro per trovarlo sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte è lungo e pericoloso e ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani.
Come cristiani, cioè come coloro che portano quel nome che significa salvezza, salvare, liberare… non possiamo né tacere, né rimanere inerti.
Non possiamo tacere, perché la chiesa, come diceva il cardinale Giacomo Lercaro cinquant’anni fa nell’omelia di capodanno che poi gli costò la rimozione dalla cattedra di Bologna, non può essere neutrale di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia.
Si riferiva alla guerra degli USA in Vietnam che si protrarrà fino al 1975, un anno prima della sua morte, e disse esplicitamente: l’America si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. E poi quasi presagendo ciò cui andava incontro: Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti, anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni… piuttosto che essere rimproverati di non aver saputo illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio.
Non solo non possiamo tacere, ma non possiamo rimanere inerti, arresi all’impotenza di modificare il corso delle cose. Non saranno gli oroscopi o le chiromanti a indicarci il futuro, troppo facile e ingannevole pensare di risolvere così l’imprevedibilità della storia, quanto piuttosto il nostro impegno etico e civico che continua la missione di Gesù di liberare il mondo dalla violenza, dall’odio; di salvarlo dall’indifferenza e dalla paura.
Anzitutto mi chiedo quale sia stata, durante l’anno che abbiamo appena chiuso, la testimonianza di pace mia personale e della nostra chiesa. Mi domando fino a che punto possiamo aver talvolta inclinato a vedere solo negli altri la causa dei disordini e dei conflitti, piuttosto che esaminare noi stessi e preoccuparci di togliere da noi le pietre d’inciampo sul cammino della pace e le ragioni di scandalo.
Ci dobbiamo chiedere anche quale impegno mettiamo come adulti, come istituzioni, come responsabili a diverso titolo professionale o morale nel dare ai nostri ragazzi e giovani una coscienza evangelica dell’universale fraternità in Gesù, del rispetto assoluto della dignità di ogni uomo redento da Cristo, del rifiuto radicale di ogni forma di violenza.
Papa Francesco nel messaggio per la Giornata della pace chiede a tutti di avere uno sguardo diverso sul fenomeno delle migrazioni. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace.
Uno sguardo che sappia scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono.
Uno sguardo che sappia scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti.
È questo lo sguardo che la benedizione di Aronne invoca su di sé e sul suo popolo ed è anche lo sguardo che invochiamo su ciascuno di noi, sulle nostre famiglie, sul nostro mondo.
Abbiamo iniziato con il nome di Gesù e concludiamo con lo sguardo di Dio e condenso in queste due dimensioni il contenuto del mio augurio per ciascuno di voi, per le nostre famiglie, per il nostro mondo.
Il nome che salva è Gesù ed è un nome di cui non possiamo fare a meno, ma non perché lo ripetiamo all’infinito e continuiamo a dire Signore, Signore…, quanto piuttosto se anche i nostri nomi continueranno quell’abbassamento che Gesù ha espresso nel Vangelo. Se anche noi nel nostro lavoro, nelle nostre relazioni, nel nostro stare al mondo non smettiamo di imparare ad amare così, a donare così…
E poi il volto del Padre che si accompagna alla benedizione per il nuovo anno: camminiamo, viviamo, agiamo sempre ponendoci davanti al volto Dio, non per paura o per neutralità, ma perché, solo animati da questo sguardo, saremo in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e prenderci cura della loro crescita con coraggio.
(Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2, 18-21)
[1] Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza all’8° posto mondiale, grazie alla vendita di 28 Euro Fighter al Kuwait per otto miliardi di euro.
[2] Prodotte dall’azienda Rwm Italia a Domusnovas (Sardegna)
Postilla
Una omelia di Capodanno che, in assonanza con le parole di papa Francesco, denuncia i crimini contro l’umanità perpetrati dai paesi venditori di armi e ostili all’accoglienza dei migranti. Padre Giuseppe, oltre a proporre ogni domenica pomeriggio le sue omelie presso la Chiesa di Santa Maria dell'Incoronata a Milano - omelie molto seguite anche dai laici progressisti per il loro sguardo critico radicale nei confronti del nuovo ordine mondiale (Omelie Archivi - Fraternità) -, è promotore di iniziative concrete di solidarietà attraverso la Fondazione Arché. Nel 1997, in anni di oscurantismo nei confronti del virus HIV, apre a Milano la Casa di Accoglienza per mamme e bambini sieropositivi. Quando l’emergenza HIV rientra grazie alle cure antiretrovirali, l’impegno si sposta sul nucleo mamma e bambino in condizioni di disagio psichico e sociale. Nel 2013 Arché diventa Fondazione e continua nel suo lavoro quotidiano di solidarietà concreta in due strutture: la Casa Accoglienza, nel cuore di Milano, che ospita fino a 9 nuclei mamma e bambino e, più recentemente, “CasArché – Luogo di bene comune”, nell’estrema periferia di Milano a Quarto Oggiaro: un progetto innovativo che integra accoglienza e qualificazione professionale delle donne ospitate
il manifesto,
Questo Natale ha visto milioni di migranti in fuga da fame e da guerre, che bussano alla porta dell’Europa, ma non c’è posto per loro, restano fuori. Proprio come in quel primo Natale, quando per quei due poveri migranti, «non c’era posto nella locanda»: Gesù nasce fuori. Così oggi i migranti, la «carne di Cristo» come ama chiamarli Papa Francesco, restano fuori.
Per tenerli fuori, l’Europa «cristiana» ha fatto prima un patto con Erdogan perché bloccasse in Turchia milioni di rifugiati siriani, regalando a quel despota sei miliardi di euro. Poi, sempre per tenerli fuori, la Ue ha convinto l’Italia a bloccare la rotta dei migranti africani in fuga da guerre e fame. Per cui il governo italiano ha siglato un accordo con uno dei leader libici, El Serraj per bloccare i migranti in Libia e così restano fuori. Risultato: un milione di migranti nell’inferno libico, rinchiusi in lager, violentati ,torturati e stuprati. In quei lager vengono persino allestite aste di profughi-schiavi.
«È disumana la politica dell’Unione Europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle terrificanti prigioni – così l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein – la sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
Ancora più dura Amnesty International: «I governi europei, in particolare l’Italia ,sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche». Infine il Tribunale permanente dei popoli ,riunitosi a Palermo pochi giorni fa, ha emesso una storica sentenza : Italia e Ue sono corresponsabili degli abusi sui migranti.
È altrettanto disumana la politica della Ue, quando chiede all’Onu di evacuare i migranti bloccati nell’inferno libico. A parte i pochi rifugiati (somali e eritrei) che verranno riconosciuti dall’Onu, dove andranno tutti gli altri? Saranno rispediti nel disastro dei loro paesi, da dove sono fuggiti?
È disumana la politica dell’Europa verso l’Africa quando proclama: «Aiutiamoli a casa loro». Nel vertice di Abidjan (Costa d’Avorio), i leader Ue hanno promesso ai leader dell’Unione Africana (Ua) un Piano Marshall per l’Africa.
Quanto sia ipocrita questa politica la si evince dal viaggio in Africa di Macron e di Gentiloni. proprio alla vigilia del summit di Abidjan. Gentiloni ha visitato quattro paesi: Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio, tutte nazioni dove l’Eni ha enormi interessi di petrolio e di gas. È una politica la nostra che non aiuta le comunità africane a rimettersi in piedi ma aiuta noi a continuare a saccheggiare il continente africano. Il vero slogan della nostra politica estera è: «Aiutiamoci a casa loro!» La maledizione dell’Africa è la sua ricchezza!
È disumana la politica Ue di esternalizzare le frontiere per bloccare le rotte africane. La nuova frontiera per bloccare i migranti ora diventa quella saheliana: Niger, Ciad e Mali. È disumana questa politica perché finanziata utilizzando i soldi del Fondo per l’Africa e della Cooperazione italiana che dovrebbero invece essere usati per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Ben 50 milioni di euro di quei fondi finiranno nelle casse del Niger per la militarizzazione dei suoi confini.
Come se questo non bastasse, l’Italia, d’accordo con Francia e Germania, schiererà in Niger una missione militare che nel 2018 conterà 470 soldati «per la sorveglianza e il controllo del territorio del Niger». L’Italia ha già una presenza militare in Mali. Ne avremmo presto una anche in Ciad?
È questa la politica disumana che la Ue e il nostro governo stanno perseguendo in questo continente crocifisso.
Papa Francesco con grande coraggio ha bollato tali politiche disumane in tanti suoi interventi coraggiosi. Un coraggio che non trovo nelle chiese europee né in quella italiana.
Troppo silenzio anche da parte degli ordini religiosi che operano in Africa. È necessario soprattutto che noi missionari condanniamo questa politica criminale del nostro governo e della Ue.
il manifesto
Il movimento Ni Una Menos, che da due anni solca le strade di mezzo mondo, ha conosciuto anche l’adesione italiana. Sorto come una delle sorprese più vitali del 2016, quando per la prima volta il 26 novembre il progetto Non Una Di Meno ha esordito in piazza a Roma insieme a migliaia di donne, si è poi consolidato attraverso assemblee regionali e cittadine che hanno lavorato alacremente lungo tutto il 2017. Tavoli di lavoro per temi e la preparazione del grande sciopero globale organizzato per l’8 marzo, l’intento iniziale è stato rispettato: il Piano femminista antiviolenza contro la violenza maschile, nelle sue 57 fitte pagine, è stato presentato non più di un mese fa, alla vigilia del secondo appuntamento romano per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
In principio con la collaborazione tra Di.Re, Udi e la rete Io Decido, Non Una Di Meno ha raccolto da subito il consenso di molti collettivi e gruppi che si sono riconosciuti nel denominatore comune della libertà femminile per fare arretrare la miseria del vittimismo in tema di violenza maschile contro le donne. Ma, soprattutto il riconoscimento del confrontarsi tra pratiche diverse, diventando «casa delle differenze», ha segnato il punto di una serie di battaglie. Prima fra tutte quella di collocarsi nell’ambito internazionale, globale di un femminismo che trova la sua rigenerazione non azzerando ciò che è stato ma augurandosi di trovare maggiori intersezioni possibili.
Leggendo il Piano antiviolenza si scopre un documento politico capace di fotografare il presente e la sua complessità: tra lavoro, scuola, welfare, ambiente e tanto altro, seguendo il saldo protagonismo delle donne che non cede mai il passo all’automoderazione e alla convenienza partitica ma interroga costantemente i guadagni del femminismo per fare circolare una scommessa di civiltà. Per tutte e tutti.
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SINTESI DEL PIANO FEMMINISTA
CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE
E TUTTE LE FORME DI VIOLENZA DI GENERE21 novembre 2017
Dopoun anno che ha visto al lavoro decine di assemblee in circa 70 città, dopo 5incontri nazionali, dopo lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo scorso,Non Una di Meno presenta il Piano femminista contro la violenza maschile e digenere, un documento di analisi e proposte che porterà in piazza il 25novembre, a Roma, in occasione della manifestazione nazionale per la giornatainternazionale contro la violenza sulle donne.
IlPiano si basa sul presupposto che la violenza maschile contro le donne èsistemica, attraversa cioè tutti gli ambiti delle nostre vite e si fonda sucomportamenti radicati. È implicita nella costruzione e considerazione socialedel maschile e del femminile, per questo parliamo di violenza di genere. Non puòessere superata nell’ottica dell’emergenza, né se viene considerata unaquestione geograficamente o culturalmente determinata.
IlPiano è un documento di proposta e di azione, frutto della scrittura collettivadi migliaia di donne e soggettività alleate, che parte dalla messa in comune diesperienze e conoscenza, parte cioè dalla resistenza individuale e collettivaalle molteplici forme della violenza maschile e di genere. Si basa su unametodologia intersezionale, che intende cioè analizzare le forme di oppressioneche si innestano sulle differenze sociali, di origine, di classe, di identitàdi genere e sessuale, abilità e età.
Perscrivere il Piano, 9 Tavoli hanno lavorato sia a livello locale che nazionale.Per contrastare la violenza maschile e di genere nella sua complessità, Non Unadi Meno promuove azioni che si differenziano in modo sostanziale da quelle elaboratefinora dal Governo.
# LIBERE DI EDUCARCI.
Il femminismo si fa (a) scuola
Scuola e università sono luoghi primari di contrasto alle violenze di genere.Per questo chiediamo:
- formazione in materia di prevenzione della violenza di genere, mediazione deiconflitti ed educazione alle differenze per insegnanti, educatori ededucatrici;
- revisione dei manuali e del materiale didattico adottati nelle scuole di ogniordine e grado e nei corsi universitari, perché la scuola non contribuisca piùa diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti dipotere tra essi;
-abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di unprocesso dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, chepreveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi;
- finanziamenti pubblici e strutturali per i settori settore dell’educazione,della formazione e della ricerca, dal nido all’università.
# LIBERE DI (AUTO)FORMARCI EDI FORMARE.
Costruire e condividere saperi contro la cultura della violenza.
Per prevenire la violenza di genere è fondamentale un tipo di formazionepermanente e multidisciplinare, che consenta di monitorare il fenomeno in tuttele sue sfaccettature e sui vari livelli di intervento per il sostegno alledonne. Per questo vogliamo:
- Formazione delle operatrici curata dei Centri Antiviolenza (CAV), che hannouna mission specifica basata sul diritto di scelta, consenso eautodeterminazione delle donne;
- Formazione delle figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscitadalla violenza delle donne, come insegnanti, avvocati e avvocate, magistrati emagistrate, educatori ed educatrici ecc.);
- Formazione a chi lavori nei media e nelle industrie culturali, per combatterenarrazioni tossiche e promuovere una cultura nuova;
- Formazione nel mondo del lavoro contro molestie, violenza e discriminazionedi genere, con l’obiettivo di fornire strumenti di difesa e autodifesa adeguatied efficaci.
# LIBERE DI DECIDERE SUINOSTRI CORPI.
Consideriamo la salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale ecome espressione della libertà di autodeterminazione.
L’obiezionedi coscienza nel servizio sanitario nazionale lede il dirittoall’autodeterminazione delle donne, vogliamo il pieno accesso a tutte letecniche abortive per tutte le donne che ne fanno richiesta;
- Chiediamo la garanzia della libertà di scelta delle donne attraverso lapromozione della cultura della fisiologia della gravidanza, del parto, delpuerperio e dell’allattamento e che la violenza ostetrica venga riconosciutacome una delle forme di violenza contro le donne che riguarda la saluteriproduttiva e sessuale.
- Siamo contrarie alle logiche securitarie nei presidi sanitari: riteniamoinadeguati e dannosi interventi di stampo esclusivamente assistenziale,emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista dellaviolenza come fenomeno strutturale e vogliamo équipe con operatrici esperte
- Vogliamo consultori che siano spazi laici. Politici, culturali e socialioltre che socio-sanitari. Ne promuoviamo il potenziamento e la riqualificazioneattraverso l’assunzione di personale stabile e multidisciplinare. Incoraggiamo l’aperturadi nuove e sempre più numerose consultorie femministe e transfemministe, intesecome spazi di sperimentazione, auto-inchiesta, mutualismo e ridefinizione delwelfare
# LIBERE DALLA VIOLENZAECONOMICA,
DALLO SFRUTTAMENTO E DALLA PRECARIETÀ.
Strumenti economici per autodeterminarci.
Persuperare la violenza di genere nella crisi vogliamo strumenti e misure in gradodi garantire l’autodeterminazione e l’autonomia delle donne, antidoti allaviolenza data da dipendenza economica, sfruttamento e precarietà;
- Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato euniversale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dallaprecarietà.
- Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegnodella maternità e della genitorialità condivisa;
- Riaffermiamo l’importanza di costruire reti solidali e di mutuo soccorsocontro l’individualismo e la solitudine
- Nel dare nuovi significati alla pratica dello sciopero, oltre a quellosindacale, rilanciamo lo sciopero globale delle donne come sciopero dei e daigeneri e dal lavoro produttivo e riproduttivo.
# LIBERE DI NARRARCI.
Prevenire la violenza con una narrazione femminista e transfemminista.
I media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenzamaschile contro le donne, per questo vogliamo:
- La produzione di linee guida per narrazioni non sessiste e, dove queste giàesistono, sanzioni per chi trasgredisce
L’eliminazione di tutte le forme di lavoro sottopagato, sommerso e sfruttato dellelavoratrici e dei lavoratori della comunicazione: le narrazioni tossiche sonodovute infatti anche alla ricattabilità di chi lavora nel settore, oltre chealla mancanza di formazione.
- Diffondere narrazioni non tossiche. La violenza è strutturale, nasce dalladisparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente infamiglia e nelle relazioni di prossimità. La violenza avviene anche nella sferapubblica, ma non deve diventare spettacolo. Le donne non sono vittime passive,predestinate, isolate, e chi subisce violenza di genere non ne è mairesponsabile. La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, egli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi.Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta aglioperatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico.
# LIBERE DI MUOVERCI, LIBEREDI RESTARE.
Contro il razzismo e la violenza istituzionali.
Pratichiamoun femminismo intersezionale che, pur riconoscendo le differenze checaratterizzano le condizioni di ogni persona, sceglie di lottare insieme controla violenza del patriarcato, del razzismo, delle classi, dei confini
- Contro il regime dei confini e il sistema istituzionale di accoglienza,rivendichiamo la libertà di movimento e il soggiorno incondizionato dentro efuori l’Europa, svincolato dalla famiglia, dallo studio, dal lavoro e dalreddito. Vogliamo la cittadinanza per tutti e tutte, lo ius soli per le bambinee i bambini che nascono in Italia o che qui sono cresciute pur non essendovinati. Critichiamo il sistema istituzionale dell’accoglienza e rifiutiamo lalogica emergenziale applicata alle migrazioni
- Siamo contro la strumentalizzazione della violenza di genere in chiaverazzista, securitaria e nazionalista e vogliamo spazi politici condivisi efemministi
# LIBERE DALLA VIOLENZAAMBIENTALE.
Le violenze sui territori colpiscono anche noi.
Ricerchiamoil benessere dei corpi e degli ecosistemi. Definiamo “violenza ambientale”quella che si attua contro il benessere dei nostri corpi e gli ecosistemi incui viviamo, costantemente minacciati da pratiche di sfruttamento biocida
Vogliamo intraprendere un cammino comune a livello transnazionalenell’esercizio e nello scambio di pratiche transfemministe volte alla costruzionedi politiche economiche decolonizzate e di pace, alternative a quelle biocideed estrattiviste del capitalismo neoliberale
Affermiamo la necessità di superare il modello antropocentrico corrente:soggezione, sfruttamento della natura, degli esseri umani e delle altre speciee patriarcato si intrecciano infatti nella concezione delle relazioni comedominio e proprietà proprie di questo modello
# LIBERE DI COSTRUIRE SPAZIFEMMINISTI.
Spazi di autonomia, spazi separati, spazi di liberazione
Per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri è necessario recuperarequartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi gestiti da donne,riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delledonne.
- Riconosciamo e supportiamo la centralità dei Centri Antiviolenza (CAV) qualiluoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui internooperano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processidi trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamichestrutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne
- L’operatrice di accoglienza/antiviolenza è cardinale nel lavoro dei CentriAntiviolenza, e la sua formazione deve essere acquisita esclusivamenteall’interno dei Centri stessi. Il suo operato si fonda nella pratica femministadella relazione tra donne e nel contrasto agli stereotipi e allediscriminazioni di genere.
- I Centri Antiviolenza garantiscono la riservatezza, la segretezza,l’anonimato e la gratuità. Nei CAV viene adottata una metodologia indirizzataall’autonomia e mai all’assistenza, basata sulla relazione tra donne e sullalettura della violenza di genere come fenomeno politico e sociale, strutturalee non emergenziale
La pluralità di azioni necessarie per una concreta ed efficace lotta allaviolenza maschile sulle donne richiede l’impegno di risorse e finanziamentiappropriati e finalizzati al vantaggio delle donne e alla valorizzazione esostegno dei Centri Antiviolenza
- Siamo contrarie all’istituzionalizzazione dei percorsi di fuoriuscita dallaviolenza e ai requisiti minimi così come recentemente in discussione nellaConferenza Stato-Regioni
# LIBERE DI AUTODETERMINARCI.
Per concretizzare percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza ènecessario:
Ridurrei tempi della giustizia, anche mediante la previsione di corsie preferenziali,ad oggi inesistenti per i procedimenti civili e scarsamente attuate per iprocedimenti penali;
- In sede penale va contrastata ogni forma di obbligatorietà della denuncia eprocedibilità d’ufficio dei reati – che limiti il diritto di autodeterminazionedelle donne – e l’estensione ai reati di genere di strumenti processuali chedepotenziano i diritti della persona offesa (condotte riparatorie di cuiall’art. 162 ter c.p. dove anziché essere imprescindibile, il consenso dellapersona offesa è irrilevante). Vanno fissati parametri equi, congrui eduniformi per l’offerta reale del risarcimento del danno che non sviliscano lagravità del reato subito e restituiscano dignità e centralità alla donna;
- Recepire la direttiva europea sul risarcimento del danno per le vittime diviolenza, ponendo a carico dello Stato l’anticipazione di tutte le sommedisposte dall’autorità giudiziaria in loro favore sia in sede civile che insede penale, superando la burocratizzazione delle attuali procedure di accessoai fondi già costituiti
- Allargare la tutela del permesso di soggiorno per le donne che subisconoqualunque forma di violenza (art. 18 bis TUIMM), anche episodica e sul posto dilavoro, svincolandolo dal percorso giudiziario/penale, e garantendone l’accessoeffettivo alle donne prive di documenti sul territorio.
- Si chiede alla donna di essere una “brava madre” al di fuori della violenzae, di contro, si considera il padre adeguato anche se violento, in apertaviolazione della Convenzione di Istanbul (Titolo V art. 31). Bisogna superarela cultura giuridica che riconduce la violenza maschile sulle donne alla“conflittualità” di coppia, disconoscendo il fenomeno stesso della violenza esminuendo la credibilità delle donne che la subiscono.
- Introdurre modifiche legislative in materia di affidamento condiviso (artt.337 quater c.c. e ss.), escludendo la sua applicazione in tutti i casi diviolenza intrafamiliare e opponendosi ad altre forme di affidamento, comequello alternato, che causano pregiudizio e svuotamento dei diritti economicidelle donne (la perdita del diritto all’assegnazione della casa familiare e delmantenimento), generando una condizione di dipendenza e subordinazioneeconomica nei confronti degli ex partner come un ennesimo strumento di ricatto;
- Assicurare l’applicazione dei provvedimenti ablativi e/o limitativi dellaresponsabilità genitoriale paterna;
- Rispettare nei casi di violenza il divieto di mediazione familiare e disoluzioni alternative nelle controversie giudiziarie;
- Contrastare l’abdicazione da parte delle e dei giudici minorili e civili allapropria funzione di valutazione e decisione, praticata attraverso la delega difatto alle e ai Consulenti tecnici d’Ufficio e al personale dei servizisociali, e quindi vietare di procedere a valutazione psicologica epsicodiagnostica sulle donne vittime di violenza e sulla loro capacitàgenitoriale, valutazione che dovrebbe essere centrata sulla sola figura paternaevitando l’equiparazione dell’uomo maltrattante alla donna maltrattata;
- Garantire alle ed ai minori una tutela integrata effettiva con lasemplificazione del rilascio/rinnovo dei documenti, nulla osta scolastici,accesso ai servizi di sostegno psicologico e cure sanitarie.
- L’orientamento e l’inserimento lavorativo sono fondamentali per i percorsi diliberazione e autonomia delle donne che fuoriescono dalla violenza, in quantoconsentono la rottura dell’isolamento, la riacquisizione di autostima, lacapacità di riconoscere le proprie competenze, abilità e limiti per assicurarsiuna reale indipendenza, soprattutto dal punto di vista economico.
Pergarantire efficaci percorsi di autonomia lavorativa è necessario:
- Reddito di autodeterminazione per garantire un aiuto concreto che permettauna più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione delrischio di recidiva di maltrattamenti;
- Vietare il licenziamento e prevedere il trasferimento dai luoghi di lavorocon assicurazione di ricollocazione, il diritto alla flessibilità di orario,l’aspettativa retribuita e la sospensione della tassazione per le lavoratriciautonome;
- Modificare il congedo lavorativo per violenza (articolo 24 del D.lgs. n.80/2015) che esclude le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari enon garantisce l’anonimato. È inoltre necessario diffondere maggiormentel’esistenza di questo strumento presso i datori di lavoro e le sediterritoriali INPS;
Mettere a disposizione per attività di imprenditoria femminile una percentualedei beni commerciali confiscati.
Nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza il “problema della casa” assume unvalore primario, cui bisogna dare risposte adeguate, non episodiche e/oemergenziali
- Prolungare l’ospitalità dagli attuali 3-6 mesi a 12 mesi e conferire al tempodi permanenza una natura più flessibile, in grado di tener conto dellespecificità di ogni donna e del suo percorso;
- Slegare l’ospitalità, l’accoglienza o il trasferimento in altra località dalsistema delle rette dei Servizi Sociali che non devono sostituirsi alle donnedeterminando i loro percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
- Ampliare, modificare e applicare su tutto il territorio nazionalel’esperienza della Delibera 163 del Comune di Roma prevedendo che il contributoquadriennale per l’affitto sia destinato anche alle donne uscite da situazionidi violenza; a tal fine è necessario che sia equiparata, per gravità e urgenza,la necessità di fuga dalla casa familiare per sottrarsi a una situazione diviolenza all’essere colpite da una ingiunzione di sfratto, esperimento giàutilizzato con successo in alcuni municipi di Roma Capitale;
Prevedere l’istituzione di un fondo di garanzia che permetta una stipula delcontratto facilitato per le donne, che potrebbero così avvalersi dei CentriAntiviolenza e delle Associazioni che li gestiscono come garanti;
- Assegnare nelle graduatorie per le case popolari massimi punteggi per ledonne che hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza presso i CAV;
- Mettere a disposizione il 10% del patrimonio pubblico per l’implementazionedi case di Semiautonomia gestite da Centri Antiviolenza, e di case con affitticalmierati per donne che escono da situazioni di violenza, da sole o inco-housing, per una durata di 4 anni.
# LIBERE DI DARE I NUMERI
Intendiamocreare mappature, osservatori, banche dati e strumenti di analisi autonomi, pergarantire la diffusione di una consapevolezza del fenomeno della violenzamaschile contro le donne come fenomeno strutturale e non emergenziale.
Daparte degli enti pubblici e privati è necessario organizzare – a tutti ilivelli – banche dati che garantiscano la conoscenza qualitativa e quantitativadi tutte le forme della violenza di genere.
Il documento è tratto dal sito web nonunadimeno, ed è qui raggiungibile nel formato originale
«Il 27 ottobre 2009 si è svolto in Roma, a cura della Fondazione della Camera dei Deputati, un seminario dal titolo “Cercate ancora. La lezione di Claudio Napoleoni”. Introduzione di Fausto Bertinotti; relazioni di Riccardo Bellofiore, Raniero La Valle; approfondimenti tematici (introdotti da Mario Tronti) di Alessandro Montebugnoli, Giorgio Ruffolo, Gian Luigi Vaccarino, Silvano Andriani, Giorgio Cremaschi, Vittorio Tranquilli, Carla Ravaioli. Di seguito la relazione di Tranquilli»
Di Claudio Napoleoni si potrebbe dire – fatte le debite proporzioni – ciò che disse Engels davanti alla tomba di Carlo Marx: è stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario.
Negli anni Ottanta però, e particolarmente negli ultimi anni della propria vita (morì il 31 luglio 1988), Napoleoni si trovò di fronte a mutamenti del sistema capitalistico tanto profondi da rendergliene difficile una interpretazione, con indicazione di prospettive superatrici, in termini di teoria economica. Erano i tempi – ricordiamolo – in cui cominciavano a farsi chiari gli effetti della svolta neo-liberista voluta dalla Thatcher e da Reagan; in Italia c’era stata, nel giugno dell’85, la sconfitta del referendum contro l’abolizione della scala mobile.
Si profila allora in Napoleoni una crisi non soltanto teorica, ma spirituale, che lo porterà a riprendere – come testimoniato dal colloquio con Raniero La Valle a due mesi dalla morte (1) – l’heideggeriano «Solo un Dio ci può salvare».
«Ha ragione Riccardo Bellofiore – scrive La Valle nell’introduzione a Cercate ancora – quando osserva che “l’interrogazione teologica dell’ultimo Napoleoni trova la sua origine in questo dissolversi dello stesso pensiero rivoluzionario inteso come critica scientifica e rivoluzionaria del capitalismo”»(2).
E’ qui evidentemente in gioco, nell’"ultimo Napoleoni", il problema grossissimo della laicità della politica. Ma su questo problema egli non poteva non confrontarsi a fondo con la posizione di Franco Rodano (anche per l’impegnata collaborazione avuta con lui per almeno un decennio, cioè per tutti gli anni Sessanta). Scrisse infatti Piero Pratesi che la frequentazione di Rodano
«rimase un segno indelebile in Claudio Napoleoni. Non solamente restava sostanzialmente lo stesso il fine del pensare, la ricerca appunto del fulcro e della leva della rivoluzione possibile, ma l’esito finale della riflessione di Claudio Napoleoni, sparsa in conversazioni e appunti dell’ultima stagione, è caratterizzato da un continuo confronto con il pensiero rodaniano, oltre le ragioni dell’economia in senso stretto»(3).
Nel libro “Cercate ancora”, in effetti, sono riportati due documenti che confermano quanto fosse importante, per Napoleoni, questo confronto: parlo della “Lettera a Ossicini”(4) e dell’incompiuto “Saggio [appunto] su Rodano”(5). Non mi è quindi possibile, in questa sede, parlare di laicità – che è il tema assegnatomi – senza fare io pure riferimento a Franco Rodano.
La questione della laicità della politica non poteva non essere fondamentale e anzi fondante nella riflessione di Rodano, profondamente radicato nella fede cristiana e militante convinto del Partito comunista italiano.
«La ricerca dei modi e delle condizioni della laicità della politica – si legge sull’ultimo numero dei Quaderni della Rivista Trimestral, dedicato a ricordarlo – è stata suo sforzo precipuo e costante, fin dagli anni della giovinezza: discendeva infatti dal carattere peculiare della situazione e dell’esperienza che egli, e il gruppo di compagni da lui guidati, si trovavano a vivere già durante la guerra, e anche prima»(6).
Quale sia stata, di preciso, la posizione di Rodano, è bene espresso, ad esempio, in un saggio degli stessi Quaderni, anno 1977. Per fare positivamente i conti con Marx e col suo escatologismo rovesciato in termini di “assoluto umano” nella prospettiva della “società comunista”, e quindi per salvaguardare il “kerigma” cristiano dalla critica anti-religiosa dello stesso Marx, Rodano afferma – in quel saggio – la necessità che tale “kerigma”
«sia inteso e praticato in modo da accettare e rispettar sino in fondo l’autonomia, la “bontà” e la sufficienza di principio, per l’uomo, della realtà e delle operazioni “naturali” di esso (compresa dunque la politica); cosicché l’umana situazione storicamente alienata risulti passibile di un superamento rivoluzionario […] pienamente fondato e del tutto capace di sbocco vittorioso sul piano stesso della “natura” e su di esso soltanto»(7).
Ma espressioni di questo tenore sono assai frequenti in Rodano, anche a prescindere dal confronto con Marx. Ovviamente, qualunque posizione, specialmente su un tema così delicato e vessato come la laicità della politica, è soggetta a critiche. Quella di Rodano fu criticata, tra l’altro, da Giuseppe Ruggieri in un suo libro del 1978(8). Non posso entrare adesso, rispettando i 10 minuti, nel merito di questa critica, e tanto meno, più in generale, delle tesi di Ruggieri esplicitamente condivise da La Valle nella sua “Introduzione” al libro Cercate ancora(9).
Devo però soffermarmi su un brano dell’intervento di La Valle nel citato fascicolo dei Quaderni in ricordo di Rodano. Egli vi scrisse che, in uno dei suoi «rari incontri» con Rodano, lo sentì
«singolarmente sensibile e stimolato dalle riflessioni di Ruggieri sull’esperienza della Sinistra cristiana […]. Giudicò il saggio critico di Ruggieri pertinente e “intrigante”, intendendo dire – così interpreta La Valle - che il teologo catanese era entrato assai in profondità e attendibilmente nell’intrico dei problemi con cui Rodano si era misurato nel suo approccio alla “questione cattolica”»(10).
Questa sensazione avuta allora da La Valle, lo indusse a parlare di un “ultimo Rodano” che si sarebbe messo – proseguo la citazione - «intensamente e umilmente in cammino» verso, in buona sostanza, una revisione della sua posizione sulla laicità. Rodano, cioè, si sarebbe finalmente reso conto dell’inadeguatezza di tale sua posizione, la quale avrebbe patito – sto ancora citando - una «incapacità ecclesiale» imputabile «a tutta la storia cristiana degli ultimi secoli e degli ultimi decenni», e che sarebbe stato tempo oramai, dopo il Concilio, di riformulare radicalmente, in termini più rigorosi e corretti(11).
A questo punto vorrei allora concludere con una mia personale testimonianza. Con Franco Rodano ho avuto un rapporto di collaborazione stretta e di amicizia per oltre 40 anni, dalla comune partecipazione alla lotta antifascista clandestina e dalla Resistenza, fino alla morte di lui nel 1983. Posso assicurare tre cose:
che Rodano fu cattolico praticante nel corso dell’intera sua vita (compreso il periodo dell’interdetto dai sacramenti comminatogli sotto papa Pacelli e toltogli sotto papa Roncalli);
che Rodano, iscritto al PCI dal 1946 alla morte, vi militò con adesione tanto schietta quanto criticamente propulsiva verso l’uscita da strettoie ideologistiche;
che il pensiero di Rodano sulla laicità della politica venne sviluppandosi in modo lineare, su basi costanti, senza alcuna scoraggiata cesura né “intrigato” ripensamento.
Questa mia testimonianza è suffragata dagli scritti di Rodano posteriori al libro di Ruggieri, buona parte dei quali è stata poi raccolta nel volume a mia cura Franco Rodano: Cattolici e laicità della politica, Editori Riuniti 1992.
Non è perciò accettabile l’idea di un "ultimo Rodano" entrato in crisi proprio sul punto fondante dell’intera sua opera.
N O T E
(1) In Cercate ancora, a cura dello stesso La Valle – Editori Riuniti 1990, p.107-135.
(2) P. XXII.
(3) Claudio Napoleoni: coniugando economia e teologia, in “Regno Attualità” 1989, n. 2, p.55. Citato da Vittorio Tranquilli in Fede cattolica e laicità della politica in Franco Rodano, saggio pubblicato nel n. 2/1991 di “Teoria politica”.
(4) Cercate ancora cit, p. 5 sgg.
(5) Ivi, p. 17 sgg.
(6) Ricordo di Franco Rodano – Quaderni della Rivista Trimestrale n. 75-77/1983, p. 169
(7) Franco Rodano, Vittorio Tranquilli: La politica come assoluto, in “Quaderni” cit., n.51/1977, pp. 3-54.
(8) G. Ruggieri, R. Albani: Cattolici comunisti? Ed. Queriniana 1978.
(9) Cfr. pp. XXXI-XXXII, XXXVI.
(10) P. 53.
Perché apre il cuore alla speranza l'iniziativa partita “Potere al popolo”, mi piace. Perché vuol dire “democrazia”.Demos e Kratos, popolo e potere assieme. Utile ricordarlo all’inizio di unacampagna elettorale. Giusto per prendere le distanze dalle retoriche sul ritotruffaldino delle elezioni e battersi contro la “trasformazione dellapopolazione in elettorato” – per usare una espressione di Pierre Rimbert(“Dietro le quinte del mercato elettorale” su Le Monde Diplomnatique del maggio2017). Giusto segnare la differenza tra un’idea e un’altra di politica. Unaconcezione della politica come competizione per la conquista degli apparati digoverno e un’altra come azione permanente per abbassare il baricentro delledecisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità, reti civiche solidali. Giustoripresentare – in ogni occasione – quel tanto che c’è e che si muove “albasso”, tra le macerie che ha lasciato la crisi.
É necessario continuare a ricordareche una “ripresa” senza occupazione e redistribuzione della ricchezza non ciserve. Un lavoro che non produca utilità sociale è sfruttamento e alienazione. Unsistema produttivo che non rispetti salute e ambiente è suicida. Una finanza chearricchisca le rendite è criminale. La privatizzazione dello stato e delpatrimonio sociale è un furto. Alzare frontiere armate per respingere chi dasecoli deprediamo è semplicemente immorale. Se etica e politica – alcuni diconofin da Machiavelli – si sono trovate ufficialmente disgiunte, di fronte al piùgrande sterminio in tempo di pace in corso tra il Sahara e il Mediterraneo, è forse arrivato il momento di ridare unfondamento etico alla politica.
Mi pare anche bello che questa iniziativa dentro-contro leelezioni parta da una tra le esperienzepiù significative di solidarietà e mutualismo in corso nel nostro paese. Che sene parli è già un risultato. Sono una decina gli immobili che a Napoli sonostati liberati dal degrado e dalla speculazione e riconsegnati ad un usocollettivo e sociale. Non vedo altro modo per attuare la Costituzione se non quello messo in attodall’amministrazione partenopea anche per i servizi idrici. Una testimonianzadell’esistenza di un’altra possibile cultura e pratica di governo. Ma, a benguardare, esiste un vasto repertorio di sperimentazioni di sistemi economici edi welfare alternativi che hanno come obiettivo non la massimizzazione deiprofitti, ma il miglioramento dei legami sociali comunitari.
L’altra novità che fa scaldare il cuore è la voglia di autorappresentazione politica che emerge dai promotori di “Potere al popolo!”. Unrovesciamento del discorso e del linguaggio. I movimenti sociali rifiutano di essere intesi come un fenomeno spontaneo, effimero, prepolitico,incapace di gestire il confronto nelle sedi istituzionali, bisognoso dellatutela di un “ceto politico esperto” e si propongono invece come attoripolitici interi, non solo nelle piazze, ma anche nei palazzi. Non so ce lafaranno, scansando insidie burocratiche e fagogitazioni varie, ma mi pare chemeritino una firma per la presentazione della lista loro. Faranno bene anche acoloro che sono alla ricerca di un nuovo significato da dare alla sinistra. Hascritto Raul Zibechi: “Sono sempre i piccoli gruppi a prendere l’iniziativa,senza tener conto dei ‘rapporti di forza’ ma guardando solo alla giustiziadelle loro azioni” (Sulle piccole azionie le grandi vittorie, www.comune-info.net13/1/2014).
Questo articolo è inviato anche a il manifesto
Un testo di eccezionale chiarezza, semplicità, rigore per chi voglia comprendere qualcosa sulla società e sulla persona umana, a partire da questa.
Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.
LA SCIENZA ECONOMICA
1
La scienza economica studia, da un particolare punto di vista, le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni. L’inciso «da un particolare punto di vista» é essenziale in questa definizione, giacché le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni possono essere studiate non da un solo, ma da più punti di vista. Per esempio, si può studiare in qual modo, utilizzando certe leggi naturali (fisiche, chimiche o biologiche), sia possibile trasformare certi oggetti, non immediatamente utilizzabili per soddisfare bisogni umani, in altri oggetti che sono invece immediatamente utilizzabili a tale scopo. Cosi si può studiare attraverso quali procedimenti é possibile utilizzare un certo appezzamento di terra, certe sementi, certi concimi, ecc., nonché naturalmente una certa quantità di lavoro umano qualificato in un certo modo, per ottenere grano, e attraverso quali altri procedimenti sia possibile, dal grano, arrivare al pane, che e un oggetto capace di soddisfare immediatamente un certo bisogno umano. Oppure si può esaminare in qual modo dall’acciaio, dall’alluminio e da altre materie prime, utilizzando certi macchinari, il lavoro umano possa, alla line, ottenere un’automobile. Si possono fare, com’e chiaro, numerosissimi altri esempi, che il lettore certamente non farà fatica a immaginare. Ora studi di questo tipo hanno certo a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma il punto di vista che questi studi rappresentano non appartiene alla scienza economica, non é quello da cui la scienza economica risulta caratterizzata: questo punto di vista, come il lettore avrà probabilmente riconosciuto, é quello della tecnologia.
Altro esempio. Gli uomini, svolgendo le loro attività dirette alla produzione di oggetti che servono alla soddisfazione dei loro bisogni, entrano in certi rapporti reciproci, che, in ogni convivenza civile, sono regolati da leggi. Cosi, quando una persona prende in affitto un appartamento per soddisfare il proprio bisogno di abitazione, sa che deve sottoscrivere un contratto – il contratto d’affitto, appunto – il quale deve essere rispondente a certe norme che sono indicate nella legislazione del paese in cui tale contratto viene stilato. Analogamente, se più persone, ciascuna apportando un certo capitale, decidono di costituire una società, il cui scopo sia quello di esercitare una certa attività produttiva, esse sanno che la società deve essere costituita secondo certe regole e che la sua attività deve svolgersi secondo certe norme; regole e norme, che sono anch’esse indicate in una determinata legislazione. Esiste – com’e chiaro - lo studio di tale legislazione, e quindi di tutte le regole e norme da cui essa risulta costituita, e dei principii ai quali esse unitariamente si ispirano. Ora, anche uno studio siffatto ha a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma questo studio rappresenta un punto di vista che non è quello della scienza economica: esso rappresenta il punto di vista di un’altra disciplina, che, come il lettore avrà riconosciuto, é il diritto.
Un terzo esempio. I fini che gli uomini si propongono di raggiungere per soddisfare i loro bisogni, e i mezzi che essi impiegano per il conseguimento di tali fini, possono essere buoni o cattivi. C’e una considerazione dell’attività umana che ha lo scopo di valutare se essa sia, o non sia, buona. Neppure questa considerazione rappresenta, com’e chiaro, il punto di vista della scienza economica: si tratta, infatti, della considerazione propria della moralità.
Questi diversi punti di vista, questi vari modi di considerate l’attività umana, non sono dunque quelli propri della scienza economica, anche se, come risulterà chiaro nel corso di questa trattazione, nessuno di essi può considerarsi irrilevante per la scienza economica stessa: Per ora comunque il nostro compito consiste nel cercar di definire in che cosa consiste quel modo particolare di considerazione dell’attività umana, che é proprio della scienza economica.
A tal fine occorre tener presenti le due seguenti - e fondamentali - circostanze.
1) I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici é una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, cos1ì come essa si presenta in ogni momento dato. Gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, di vestirsi, di abitare in una casa, di costituire una famiglia, di istruirsi, di riposarsi, di divertirsi, ecc. Inoltre, nell’ambito di ciascuna di queste categorie di bisogni, è sempre possibile individuare bisogni più particolari e specifici. Cosi, non basta agli uomini di nutrirsi in un modo qualunque, ma, nel nutrimento, devono essere osservati certi requisiti, per quanto riguarda, ad esempio, la disponibilità di determinate quantità minime dei vari elementi nutritivi (calorie, vitamine ecc.). Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari d’un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore.
Un grande economista inglese che scrisse verso la fine del ’700, Adam Smith, dette questi esempi per mostrare l’evoluzione subita dai bisogni lungo il corso della storia: «Quello che una volta era un castello della famiglia di Seymour e ora una locanda nella strada di Bath. Il letto di nozze di Giacomo I, re di Gran Bretagna, che la regina sua moglie portò seco dalla Danimarca come dono degno d’esser fatto da un sovrano a un altro, era pochi anni fa l’ornamento d’una mescita di birra a Dunfermline» E ancora: in quale paese del mondo ci si accontenterebbe oggi di provvedere all’istruzione dei cittadini mediante libri scritti a mano, con tutte le limitazioni gravissime che ciò comporterebbe? La stampa é dunque diventata un bisogno, e, per giunta, un bisogno essenziale. E, nelle società più progredite, chi oggi penserebbe di poter viaggiare con mezzi la cui velocita dipenda dalla velocita di animali da tiro? La locomozione con mezzi meccanici è anch’essa diventata un bisogno. Ecco un altro argomento sul quale il lettore può sbizzarrirsi a trovare tutti gli esempi che vuole. Ma c’è un fatto che va tenuto ben presente: questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacché é il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni; l’uomo, insomma, non si ferma mai; se é riuscito a costruire delle case che, bene o male, lo difendono dal freddo e dal caldo, dal vento e dalla pioggia, non si accontenta più di questa protezione pura e semplice, e desidera che le sue case abbiano certe comodità, le quali, col trascorrere del tempo, Vengono poi ritenute sempre più importanti; se, più in generale, é riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli che dipendono dalla sua vita animale, vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.
2) I mezzi con cui gli uomini soddisfano i propri bisogni possono essere resi via via disponibili soltanto in quantità limitate, cioè in quantità minori di quelle che occorrerebbero per conseguire la piena soddisfazione dei bisogni stessi. Ci possono essere dei mezzi, rispetto ai quali non si pone il problema di renderli disponibili, perché essi già lo sono immediatamente, e può darsi che, in tal caso, essi lo siano in quantità illimitata rispetto al bisogno che gli uomini ne hanno. L’aria atmosferica è uno di questi casi: essa è certo un mezzo per soddisfare un bisogno precisamente quello di respirare, che é, per di più, un bisogno assolutamente essenziale, ed essa, almeno in condizioni normali, e immediatamente disponibile in quantità illimitata rispetto al bisogno medesimo.
Ma, di regola, i mezzi occorrenti ai bisogni umani non sono disponibili immediatamente, e devono esser resi disponibili mediante un lavoro a ciò specificamente diretto. Ora, il lavoro che gli uomini possono svolgere per procurarsi la disponibilità di quei mezzi trova un limite nel fatto che l’uomo stesso e limitato: limitate sono le sue forze, fisiche e mentali, limitata e la sua volontà, limitato e il tempo a sua disposizione, limitato è lo spazio che egli può rendere teatro delle sue operazioni, limitate, infine, sono quelle risorse naturali che egli può porre sotto il proprio controllo. Lo stesso lavoro umano, dunque, in quanto incontra tutti questi limiti (che, è bene ripetere, non sono che altrettante manifestazioni di un unico limite di fondo, che e la limitatezza, la finitezza propria della natura umana), non può mai arrivare a procurarsi tutti i mezzi che occorrerebbero per una completa soddisfazione di tutti i bisogni possibili in un dato momento e di tutti quelli che si possono svlluppare in conseguenza dell’aver soddisfatti i primi.
Ora, la compresenza delle due circostanze testé menzionate – e cioè, da un lato, il carattere illimitato dei bisogni, e, dall’altro lato, il carattere limitato dei mezzi che, mediante il lavoro, si possono rendere disponibili per la soddisfazione di quei bisogni - fa si che le azioni degli uomini comportino necessariamente delle scelte. Non essendo possibile, data la limitatezza dei mezzi, soddisfare compiutamente tutti i bisogni, l'uomo deve continuamente scegliere tra molte possibili linee di azione; scegliere l’una piuttosto che l’altra significa scegliere di conseguire certi fini piuttosto che certi altri, e di conseguirli in una certa misura, piuttosto che in una cert’altra, nonché di usare certi mezzi piuttosto che certi altri, e di usarli in una certa proporzione piuttosto che in un’altra.
2.
Per semplicità, é opportuno illustrare questa particolare caratteristica dell’azione umana - quella caratteristica cioè per cui essa é necessariamente una scelta - distinguendo due casi: nel primo caso, data una certa disponibilità di mezzi, si tratta di scegliere quali fini si intende conseguire con quei dati mezzi; nel secondo caso, dato un fine da raggiungere, si tratta di decidere con quali mezzi debba essere raggiunto.
Immaginiamo un uomo che viva isolato, un Robinson Crusoe, per esempio. Egli dispone di una certa quantità di lavoro, ovviamente limitata, con la quale si trova a dover soddisfare varie specie di bisogni: quello di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo, di costruirsi degli attrezzi che rendano più efficace il suo lavoro, e cosi via: dovrà perciò decidere come suddividere la propria limitata disponibilità di lavoro tra le diverse operazioni adatte a procurargli i mezzi per il soddisfacimento di quei vari bisogni, e -quindi in tanto può agire in quanto effettui una scelta tra varie possibili alternative di azione.
In una società evoluta, nella quale, come diremo meglio in seguito, esiste la divisione del lavoro, e nella quale, quindi, ognuno si procura i mezzi di cui ha bisogno mediante lo scambio, possiamo immaginare un individuo, che, a compenso del proprio lavoro, abbia ricevuto un salario; questo salario gli dà una disponibilità, evidentemente limitata, sulle merci che si trovano in vendita nel mercato, ed egli dovrà decidere quali merci comprare, e in quali quantità, dovrà cioè esercitare un atto di scelta.
Quando si redige il bilancio pubblico preventivo di una nazione, il governo di questa nazione deve scegliere in qual modo debbano essere utilizzati i mezzi raccolti attraverso le imposte: le alternative sono molte; lavori pubblici, scuola, difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza sociale, ecc., e per ciascuna di queste alternative si tratta di decidere se e in quale misura essa va perseguita.
In tutti questi casi, e in altri analoghi che si possono immaginare, ci troviamo in presenza di un soggetto, di un centro di decisioni, che può essere una singola persona o un organo collettivo, il quale, a partire da una certa disponibilità di mezzi, e di fronte a certi bisogni da lui sentiti, deve scegliere in qual modo quei mezzi vanno utilizzati per soddisfare quei bisogni nel miglior modo possibile. Si usa dire che, in tutte le situazioni del tipo or ora illustrato, gli uomini agiscono secondo il principio del massimo risultato.
Adesso consideriamo un soggetto che desideri conseguire un certo fine, ossia soddisfare un certo bisogno, e desideri soddisfarlo in una certa misura. Supponiamo poi che egli possa far uso di vari mezzi per pervenire a quella soddisfazione. Per esempio, possiamo pensare a un individuo che, per nutrirsi, possa rendersi disponibili vari generi alimentari, ognuno dei quali può essere ottenuto con un certo dispendio di lavoro, oppure con la spesa di una certa parte del suo reddito. Ovvero possiamo pensare a un individuo che debba spostarsi da una località a un’altra, e possa farlo mediante mezzi di trasporto diversi (treno, automobile, aereo), l’uso di ciascuno dei quali comporti una certa spesa; o ancora, a un individuo, che, avendo deciso di trascorrere un pomeriggio di svago, possa farlo in vari modi (recandosi al cinema, o al teatro, ol a una partita di calcio, e cosi via), ognuno dei quali implichi un certo costo.
Se, in tutti questi casi, le varie alternative soddisfano il bisogno nella medesima misura, la scelta verrà effettuata in modo che l’impiego dei mezzi - rappresentato dal dispendio di lavoro o dalla spesa del reddito a disposizione - sia il più piccolo possibile. Si usa dire, allora, che, in tutte le situazioni del tipo esaminato, gli uomini agiscono secondo il principio del minima mezzo.
Noti bene il lettore come tanto il principio del massimo risultato quanto ll principio del minimo mezzo costituiscono regole di comportamento, regole di azione, soltanto, e proprio perché, i mezzi sono limitati. Infatti: 1) non avrebbe senso proporsi di render massimo il risultato della propria azione, se i mezzi fossero illimitati rispetto ai bisogni e quindi consentissero di soddisfare i bisogni stessi in modo pieno e totale; 2) non avrebbe senso proporsi di render minimo l’impiego dei mezzi richiesti per il compimento di una certa azione, se la limitatezza dei mezzi rispetto ai bisogni non ponesse il problema di risparmiare i mezzi stessi per poterli dedicare, nella massima misura possibile, ad usi alternativi, cioè ad altre azioni dirette a soddisfare altri bisogni.
I due principi menzionati, dunque, quello cioè del massimo risultato e quello del minimo mezzo, non sono che due modi di esprimere la medesima realtà, ossia che, nelle azioni che gli uomini intraprendono per soddisfare i loro bisogni, essi devono scegliere tra varie possibili alternative affinché la limitata disponibilità di mezzi sia utilizzata per rendere la soddisfazione dei bisogni la migliore possibile.
Ciò detto, possiamo tornare al problema che ci aveva mossi a svolgere tutte queste considerazioni, il problema cioè della definizione della scienza economica, ossia, come già sappiamo, il problema della determinazione del punto di vista dal quale la scienza economica considera il processo di soddisfazione dei bisogni. Diremo allora che la scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi.
É questa la definizione data dall’economista inglese Lionel Robbins nel 1932.
Come si vede, il punto di vista proprio della scienza economica e diverso dai punti di vista che abbiamo menzionati all’inizio di questo capitolo: é diverso da quello della tecnologia, da quello del diritto, da quello della moralità. Che tra questi vari punti di vista debbano esistere dei rapporti, risulta chiaro dalla semplice considerazione che, per diversi che possano essere, tuttavia essi si riferiscono alla medesima realtà, che è l’agire umano. Quali questi rapporti siano, o debbano essere, e un problema assai difficile, al quale potremo fare solo qualche accenno, e soltanto nel seguito di questa trattazione.
Qui vogliamo solo aggiungere che l’aspetto economico dell’agire umano viene generalmente esaminato, dalla scienza economica, prendendo in considerazione gli uomini in quanto membri di una società: di qui il nome di economia politica, con il quale assai spesso la scienza economica è pure designata.
Da Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.
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il manifesto
Sorprendentemente, nel suo emozionato discorso di circostanza, al momento dell’investitura a leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso ha tessuto l’elogio del termine radicale. E’ dunque una buona occasione per tornare a riflettere su questo aggettivo.
L’utilità immediata nasce dalla possibilità di chiarire una volta per tutte (si fa per dire) che radicale non significa estremista, settario, massimalista, come fa la grande stampa, interessata a mettere alla gogna quanti pensano alla politica come agente modificatore dei rapporti sociali. Nel lessico della sinistra esso ha ben più alto significato e più nobile origine. L’etimo storico risale al giovane Marx per il quale «essere radicale significa afferrare le cose alla radice».
DUNQUE SINONIMO di radicale non è estremista, ma profondo. Politica radicale è quella che guarda alle nascoste gerarchie di reddito e di potere su cui poggia l’intero edificio sociale. Essa non si limita alla gestione dell’esistente. Quest’ultima è la politica degradata ad amministrazione che ha svuotato la sinistra europea della sua tradizione e funzione storica. E’ il tran tran di gran parte delle nostre forze politiche, fiancheggiate dai grandi media, creatori di un sopramondo spettacolare in cui la finzione mercantile occulta abissi di iniquità reale.
CERTO NON MI SFUGGE che specie nei gruppi giovanili, nei movimenti, spesso alberga l’ingenua pretesa di trasformare in azione immediata l’ analisi radicale, di saltare la mediazione politica, la forma concertata di mutamento della realtà che tiene conto dei rapporti di forza in campo.
Oggi la sinistra o è radicale o non è. E in Italia è in grandissimo ritardo. I fenomeni sociali che avanzano da oltre un decennio sono di inaudita gravità. Mai nella storia contemporanea d’Europa e del mondo era accaduto che, per un periodo così lungo e per estese fasce sociali, le scelte delle classi dirigenti si traducessero in forme continuate e minacciose di retrocessione sociale. Il tempo portava avanzamento e benessere. Oggi gli anni avanzano portando per tanti strati di popolazione impoverimento e minacce di ulteriore regressione. La politica di austerità della Ue è da quasi 10 anni un fomite di violenza sociale. Da qui i cosiddetti populismi e i risorgenti fascismi. Essi nascono da un bisogno di radicalità dell’azione politica – cioè di efficacia di mutamento dell’azione dei partiti e dei governi – che la sinistra non assolve più.
Radicale , ma anche anticapitalistica. E’ scomparsa la parola capitalismo dal lessico della sinistra e pour cause. Il fondatore del Pd ha dichiarato sin dalle origini l’equidistanza tra imprenditori e operai. E come può essere di sinistra un partito che mette sullo stesso piano chi sfrutta e chi è sfruttato? Certo, non siamo nell’800, e nella nostra piccola e media impresa esistono anche generose figure di imprenditori. Ma siamo in una società capitalistica…
ANCHE IL TERMINE anticapitalistico ha bisogno di chiarimenti, di essere difeso da tentativi ideologici di criminalizzazione. Esso non allude a un progetto insurrezionale. Non ci sono più Palazzi d’Inverno da prendere d’assalto. Ma l’aggettivo possiede l’alto valore simbolico e ideale di mostrare un’alternativa generale alla miseria del presente. Dà senso e direzione all’azione politica, riscattandola dalla sua particolarità e proiettandola, in una tensione universalistica, verso la costruzione di un nuovo mondo possibile.
SI DIMENTICA SPESSO, allorché si tende ad annullare la distinzione tra destra e sinistra, che quest’ultima possiede un altro elemento di caratterizzazione, oltre agli altri ben noti: essa ha sempre accompagnato l’azione politica quotidiana con una elaborazione teorica sistematica, con l’analisi costante del modo di produzione capitalistico e delle sue trasformazioni. E’ la condizione non solo per dare efficacia operativa all’azione politica, ma anche per indicare una prospettiva di profonda alternativa al presente. Per tanti, soprattutto per coloro che hanno “voce,” il presente va bene così com’è. Per la vasta platea dei subalterni non è così. Per le nuove generazioni che si affacciano sotto il cielo della nostra epoca lo status quo è privo di futuro, ridotto ormai a qualche nuovo prodotto tecnologico gettato sul mercato.Il futuro è il prossimo smartphone lanciato dalla Apple. Ma una società incapace di alimentare il “sogno di una cosa “ incancrenisce, si dissolve nel deserto spirituale del nichilismo.
Cronache di ordinario razzismo
La “tutela del decoro” viene prima della garanzia dei diritti delle persone. Anche a Natale. Sembra pensarla così il sindaco di Como Mario Landriscina (sostenuto da una coalizione di Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia), che il 15 dicembre ha firmato un’ordinanza per “la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano”.
Si legge nell’ordinanza (
il cui testo è disponibile qui
):
«Con decorrenza immediata e fino al superamento delle situazioni di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana in premessa richiamate, con termine ultimo di 45 giorni dalla data odierna, all’interno della città murata (zona a traffico limitato) e nelle immediate vicinanze, in particolare nelle aree di mercato attigue alle mura e in viale Varese, è fatto divieto di:
- Mendicare in forma dinamica ponendo in essere forme di accattonaggio molesto ed invasivo, tali da coartare l’autodeterminazione delle persone a compiere atti di liberalità;
- Mendicare in forma statica occupando spazi pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni;
E’ altresì fatto divieto di bivaccare sotto i portici dell’ex chiesa di San Francesco in largo Spallino, presso la basilica del “Crocefisso” in viale Varese, nonché in piazza San Fedele e in via Boldoni e più ampiamente sotto tutti i portici della città murata».
Il linguaggio utilizzato nell’ordinanza meriterebbe da solo un commento, ma diamo priorità ai fatti. Perchè gli effetti di tale misura si sono visti immediatamente: domenica 17 dicembre, un gruppo di persone senza fissa dimora non ha potuto ricevere la colazione. E’ la prima volta che accade, dopo “più di sette anni”, come sottolineano i volontari che ogni mattina si recano presso l’ex chiesa di San Francesco a Como a distribuire la colazione “ma soprattutto un’occasione di relazione” alle persone – più di 150 – che dormono li fuori, perchè senza casa. “Questa mattina ci è stato proibito di farlo perché i nostri semplici gesti sarebbero contrari alla nuova ordinanza. Ci è stato detto che fino al 10 gennaio non ci è possibile portare un piccolo simbolo d’amore a queste persone, perché in vista del Natale non è decoroso”.
Certo, sentire associare al periodo natalizio la parola decoro, piuttosto che solidarietà, risulta piuttosto paradossale. Ma questo è quello che è andato in scena nel capoluogo lombardo, suscitando la rabbia dei volontari. “Una rabbia scatenata dall’ipocrisia di chi sputa sui valori più importanti. Così si aggiunge solo odio in animi già troppo feriti dalla vita. Con che scopo?”, scrivono i membri del gruppo, chiedendo “in quale specchio si guardino e cosa vedano le persone che continuano ad insultare così i poveri, non comprendendo che il problema non sono i poveri ma la povertà”. Una povertà che con misure del genere “si amplifica. Se provassimo a guardare in faccia la povertà con il desiderio di sconfiggere lei, e non i poveri, allora forse si potrebbero trovare soluzioni e pensieri che possano essere dalla parte dell’essere umano. Questo ci sembra allora il Natale: la ricerca di una possibilità, di un’umanità più dignitosa. Dignità non decoro ci aspettiamo dal nostro sindaco soprattutto a Natale, altrimenti non chiamiamolo Natale!”.
All’appello lanciato dai volontari si è unito il direttore della Caritas diocesana Roberto Bernasconi, con un duro monito: “La nostra città ha trasformato il Natale in un fatto meramente commerciale. Ha ridotto il capoluogo ad una città dei balocchi, dimenticandosi che dentro di essa esistono drammi enormi. E non mi riferisco soltanto ai profughi, che esprimono solo una parte delle povertà della nostra comunità, ma anche alle famiglie che non riescono ad arrivare ai fine mese; ai nostri anziani, sempre più soli ed emarginati nelle loro case; ai tanti giovani, insicuri e fragili nel progettare la loro vita; ad un carcere che abbiamo quasi dimenticato, che “ospita” più di cinquecento persone che lì sopravvivono, ogni giorno. Ed ecco che dentro questo quadro, ciliegina sulla torta, è arrivata un’ordinanza che, a mio avviso, mette fuori legge anche il Gesù Cristo che deve arrivare, perché è arrivato proprio in queste condizioni”, ha affermato Bernasconi, ricordando che “il Natale si fonda sull’accoglienza di Cristo, che nasce in una condizione di profugo, di emarginato”. Rivolgendosi al sindaco, il direttore della Caritas ha chiesto “un passo indietro”.
Anche Como Senza Frontiere ha chiesto al sindaco la revoca dell’ordinanza, organizzando per sabato 23 dicembre alle 10 una “bivacco solidale” proprio davanti all’ex chiesa San Francesco.
Le polemiche contro l’ordinanza travalicano i confini regionali: “L’ordinanza emanata dal sindaco di Como è deplorevole – dichiarano i membri di Cild -Coalizione Italiana Libertà e Diritti – ma consentita dalla legge. Una legge, il decreto Minniti Orlando, che è stata approvata lo scorso aprile e che abbiamo molto contestato. Una legge che prevede, tra le altre cose, proprio la possibilità di emanare ordinanze sindacali contro ‘grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana’. Questo a patto che non si ledano diritti costituzionali, quale è il diritto alla solidarietà. Nell’ordinanza non c’è alcun divieto di portare latte caldo e altri beni ai senza fissa dimora, niente che possa fermare chi intenda farlo”. Proprio per questo, la Cild “offre assistenza gratuita ai volontari ai quali sarà impedito di prestare solidarietà in forza di un’ordinanza che nulla dice al riguardo”.
Dal canto suo, il sindaco non sembra avere alcuna intenzione di tornare indietro: “Non ritirerò l’ordinanza. Sono un uomo libero, anche di sbagliare. Se la città me lo chiede, mi dimetto”.
Articolo tratto da "cronache di ordinario razzismo" qui reperibile in originale
la Repubblicaun'uguale libertà d'esercizio per tutti i riti di tutte le culture. E un edificio costruito per un rito può essere adoperato per un altro.
Quanti secoli ci ha messo il cristianesimo a ripudiare la convinzione che si possa uccidere in nome di Dio? Quando aveva l’età che ha ora l’Islam, in Europa scorrevano fiumi di sangue. E sembra che ci siamo dimenticati che, in nome del cristianesimo, solo vent’anni fa furono uccise decine di migliaia di musulmani bosniaci, a poche centinaia di chilometri da Ancona.
Se vogliamo accelerare un simile ripudio nell’Islam italiano, se vogliamo che siano più numerose e più forti le voci di chi dice «not in my name» (come ha subito gridato
Igiaba Scego, scrittrice musulmana di origine eritrea, che vive a Roma), abbiamo un’unica strada: accelerare l’integrazione. Ma quella vera.
Per far questo occorre radicalizzare la lacità, e dunque la terzietà religiosa, dello Stato: e contemporaneamente consentire il più pieno esercizio della vita religiosa delle comunità islamiche nel nostro Paese. Esattamente il contrario di ciò che propone la Destra (Lega e Forza Italia): che difende i presepi e i crocifissi nelle scuole (così che i bambini musulmani che ci studiano mai potranno sentirsi pienamente cittadini italiani) e al tempo stesso si oppone vigorosamente alla costruzione di nuove moschee. Ma anche la Sinistra, e l’intera classe dirigente italiana, non sembrano consapevoli che questa è una delle partite cruciali per il futuro del Paese.
Il caso di Firenze è emblematico. Qui la comunità islamica ha presentato un progetto per una grande moschea nel settembre del 2010. L’arcivescovo (cui certo non spettava esprimere un giudizio) sostenne che sarebbe stato meglio non pensare ad un unico tempio, ma a tanti piccoli luoghi di preghiera, possibilmente senza minareto. E il sindaco Matteo Renzi mise subito le mani avanti, dichiarando: «al momento non c’è un progetto, non c’è un’ipotesi di lavoro». Per poi chiudere ogni prospettiva: «Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento». Oggi, cinque anni dopo questo esorcismo, tutto è ancora fermo: e l’assenza della moschea è assai eloquente sulle vere intenzioni di chi parla di integrazione.
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| Santa Sofia, Istambul |
Ebbene, è da questa miopia che dobbiamo liberarci: quando ci sembrerà finalmente venuto il momento di costruire l’Italia del futuro? Soffocati dagli eterni tatticismi della politica e prigionieri in un discorso pubblico inchiodato alla cronaca di un presente mortificante, sembriamo non sapere che presto anche in Italia si porranno le questioni che oggi agitano la Francia. La sera del massacro di Charlie Hebdo, davanti a una televisione inevitabilmente accesa, mio figlio (che fa la prima elementare in una scuola pubblica fiorentina) mi ha detto che lui non ha paura dei suoi (tanti) compagni di classe musulmani. Mi sono chiesto quanto ci metteremo a rovinare questa naturale armonia: quanto ci vorrà perché cambi idea?
Tutto si deciderà nelle nostre città, così strettamente legate alla storia delle libertà (appunto) civili italiane. Come dimostra ciò che è successo nelle banlieuses francesi, le politiche urbanistiche hanno un peso straordinario nel futuro sociale di un Paese. Per secoli le città italiane hanno creato cittadini: italiani non per stirpe, ma per cultura. Siamo una nazione non per via di sangue, ma – letteralmente – iure soli: per la forza di un territorio che ci ha fatto comunità. Lo riconosce l’articolo 9 della Costituzione, uno dei pochissimi che spenda appunto la parola ‘nazione’: associandola al patrimonio storico e artistico e al paesaggio. Cioè allo spazio pubblico: luogo terzo in cui non siamo divisi né per fede né per censo, ma siamo cittadini ed eguali.
Oggi questo patrimonio può tornare a giocare nella direzione del futuro. Quante chiese abbandonate potrebbero diventare moschee (invece che alberghi di lusso)? Quanti centri storici possono rinascere accogliendo anche un’altra cultura, invece che avviarsi ad un’imbalsamazione turistica? Una moschea nel centro di Firenze sarebbe un segno potente, capace di indicare la direzione del cammino che dobbiamo intraprendere. Un modo per dire che ora, sì, sappiamo come costruire un’integrazione vera. Che passa attraverso città che permettono l’incontro quotidiano, la mescolanza, la conoscenza. E non attraverso quartieri ghetto: periferie chiuse e separate, luoghi fatti apposta per fomentare il risentimento verso quella separazione e nutrire un’identità basata sull’alterità radicale.
È una partita che ci mette di fronte alle nostre antiche carenze: non siamo mai riusciti a formare veri cittadini, a costruire uno Stato impermeabile al pervasivo secolarsimo della Chiesa, a dare un senso attuale e progressivo al patrimonio storico e artistico delle nostre città. Ebbene, è venuto il momento di farlo.
Nigrizia
Non è a Ellen Johnson Sirleaf, prima presidente eletta di un paese africano, la Liberia, che penso, riflettendo sul potere delle donne in Africa. Né a Grace Mugabe, che in Zimbabwe avrebbe voluto succedere al marito Robert alla testa dello Stato. Piuttosto, a tornarmi in mente è una persona incontrata in una township di Pretoria, in Sudafrica. Era anziana, abbastanza perché in tanti la chiamassero gogo, nonna, e si fidassero di lei, al punto da parlarle di qualcosa che, altrimenti, non avrebbero mai ammesso: di avere l’Aids. “Vengono da me - mi spiegò - e non vogliono raccontarlo a nessun altro, ma almeno si lasciano convincere a prendere gli antiretrovirali. Poi sono io che mi siedo a parlare coi loro genitori, che cerco di farli capire”.
A donne come la ‘nonna’ di Pretoria i mezzi d’informazione non dedicano neanche una frazione dello spazio occupato dalle figure femminili più note del continente: in positivo, come Ellen Johnson Sirleaf, o in negativo, come Grace Mugabe. Eppure a volte l’influenza che esercitano nel luogo in cui vivono è capace di portare cambiamenti anche più profondi rispetto al potere comunemente inteso. Lo sa bene Penda Mbow, storica senegalese, impegnata in politica e nella società civile. La incontrai, dopo una serie di attacchi di estremisti in Africa Occidentale, per parlare della crescita del fondamentalismo islamico e delle possibili conseguenze sulla condizione femminile.
Un timore che però, secondo Mbow, non teneva conto della forza sociale delle donne stesse: “Chi ha tentato di confinarle nella sfera privata, di eliminarle, ha fallito”, affermava. E portava ad sempio proprio il Senegal. “Dal punto di vista economico - sosteneva - la donna si è largamente sostituita all’uomo, è il lavoro quotidiano delle donne che permette alle famiglie di sopravvivere di fronte alla crisi economica”. Parole che mi sarebbero tornate in mente qualche giorno più tardi, nel nord del paese, davanti alle socie di una cooperativa femminile che avevano trovato una soluzione alla scarsità di carbone di legna - indispensabile nelle case: ne producevano una nuova varietà, ricavata da piante infestanti comuni nella zona.
Ma il potere di tante donne africane non è solo economico o sociale: il loro contributo dal basso alla politica è altrettanto prezioso. Molte sono, ad esempio, le giovani impegnate nel movimento cittadino per la democrazia Lucha, in prima linea nel rivendicare diritti fondamentali e libertà civili e politiche nella Repubblica democratica del Congo. Micheline Mwendike, non ancora trentenne, ha contribuito a fondarlo: “Lucha (sigla che indica ‘lotta per il cambiamento’, ndr) si fonda sull’uguaglianza di genere. - spiega - Sia uomini che donne fanno tutto, tenendo conto delle competenze di ogni persona, perché pensiamo che ogni congolese abbia qualcosa da offrire”. Certamente, riconosce Mwendike “per ragioni storiche, politiche e culturali, nel movimento oggi ci sono meno donne rispetto agli uomini. Ma una volta diventate attiviste, sono forti, costanti e mobilitano altre persone. Non sono vittime, ma attrici del cambiamento. Sono leader”.
Articolo tratto da "Nigrizia" qui reperibile in originale
Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza, 20 novembre 2017.
Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.
Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio – che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho forti perplessità su quelle della “sinistra”.
Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato.
* La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.
* La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.
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L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.
* La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).
Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politicanell’immediato.
Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.
La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”.[ cfr. il mio: La parola Sinistra]
Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno di quel convincimento.
Articolo tratto da "Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza" qui reperibile in originale