L'estate che ormai è alle nostre spalle ci ha lasciato uno strascico mefitico di sospetti, congiure, complotti, conflitti e, quel che è peggio, intrecci d'interessi, e la sconfortante impressione dell'inadeguatezza al compito del nostro ceto politico, di quasi tutto il nostro ceto politico. S'è parlato molto di questione morale, come tutte le volte in cui l'immoralità dilaga. La mia persuasione è che per favorire una moralità appena decente, ci vorrebbe come sempre una buona politica: una politica assolutamente non autoreferenziale; una politica che «renda conto» invece di farsi gli «affari suoi»: insomma, una politica della partecipazione e non della degenerazione leaderistica. Di qui, - lo pensano ormai in molti, - bisognerebbe ripartire. Invece, - accanto ma anche dentro e anche attraverso il pattume della commistione affari-politica, - l'unica vera grande autentica manovra politica dell'estate è stata il rilancio massiccio dell'opzione neo-centrista, sia dall'interno del centro-destra sia dall'interno del centro-sinistra. Non tanto, io credo, per disarticolare ora ognuno dei due poli. Quanto per cominciare a preparare le future scelte politiche di governo (soprattutto se ci sarà un governo di centro-sinistra), in una prospettiva decisamente trans-bipolare, e su questioni assolutamente decisive (per es. la scuola, lo stato sociale, il lavoro).
A fare le spese di questa duplice stretta sembrerebbero per ora soprattutto i Ds, dilaniati fra la tentazione di stare anche loro per intero nella manovra neo-centrista e il residuo (duro a morire, ammettiamolo) richiamo di una tradizione riformista di sinistra, per quanto ormai moderata all'estremo. Potremmo commentare con la disincantata perfidia dei preveggenti: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso». Ma preferiamo guardare in avanti: il dispiegamento della manovra neo-centrista non potrà non riaprire in grande stile il problema dell'esistenza e dell'identità di una vasta sinistra italiana, anche nei Ds e anche per i Ds. E anche questo, nonostante le lontananze e i conflitti attuali, ci sembra affar nostro. Mai come oggi ci è apparsa fondata l'opportunità della previsione e della linea, sulle quali è nata nel gennaio scorso la Camera di consultazione della sinistra (della sinistra, appunto, non solo della sinistra radicale).
In sintesi: si sta, non v'è dubbio, nell'Unione; ma per costruirvi, dal punto di vista programmatico e organizzativo, il contrappeso più possente allo slittamento neo-centrista dell'Unione medesima. Al tempo stesso, si conferma sempre più valida l'esigenza che la tanto sbandierata osmosi tra forze politiche organizzate e forze di movimento si verifichi finalmente anche in questa delicata frase pre-elettorale.
Invece, io sono seriamente preoccupato (mentre Fausto Bertinotti sembra accantonare serenamente il peso di queste problematiche nell'intervista resa al il 27 u.s.). C'è il rischio che anche le primarie si trasformino in una tappa della generale avanzata moderata. Sono rimasto molto colpito da un'affermazione di Nando dalla Chiesa ( l'Unità, 23 agosto u.s.) in risposta all'istanza da «società civile» formulata da Flores d'Arcais. Scrive della Chiesa: che bisogno c'è di un candidato espresso dalla «società civile»? Infatti, «quel popolo dei movimenti che per decine di manifestazioni ci ha chiesto unità ha già deciso di votare Romano Prodi». Capito? Non c'è alcuna ragione di tormentarsi, la cosa è già tranquillamente sistemata: il movimento, travagliato e dialettico, ricco e composito degli ultimi quattro-cinque anni, sarebbe esistito semplicemente per incoronare Prodi vincitore. Ora, intendiamoci: Prodi va benissimo come premier di questo futuro governo di centro-sinistra. Ma se le primarie dovessero risolversi in un trionfo plebiscitario di Prodi, inevitabilmente anche questo sarebbe letto e usato come un trionfo in sono all'Unione delle forze e delle linee moderate, perché Prodi è un buon moderato, ma è un moderato. E questo rischio e, allo stato attuale delle cose, reale, anzi realissimo.
Per evitarlo ci vorrebbe a sinistra una concentrazione di forze, partitiche e di movimento, con una forte connotazione di genere, e un candidato in grado di rappresentarla. Ci sono? Non ci sono. Il problema dunque per me è, moto concretamente, come (se) si possa ancora ottenere che il candidato della sinistra sia in grado di fronteggiare il risultato prodiano, dando al tempo stesso risalto politico al fatto che nella realtà italiana esiste (come la lezione tedesca con la sua incredibile semplicità c'insegna) una vera sinistra, capace di dialogare da pari a pari con il centro del centro-sinistra e di riallacciare da sinistra rapporti seri, dialettici e condizionanti, con quei sinistri moderati che sono i Ds (invece di lasciarli semplicemente andare alla deriva, prigionieri del neo-centrismo).
Ora i candidati di sinistra alle primarie sono più di uno, difficoltà non piccola per qualsiasi elettore, me compreso. Ma semplifichiamo, sia pure a malincuore, il quadro fermando l'attenzione sul candidato Bertinotti, il quale, nel campo della sinistra, appare avere le maggiori chances di partenza. Bertinotti è senza ombra di dubbio un candidato di sinistra. Anzi, vorrei specificare che tutto il ragionamento che si può fare oggi sulla sinistra italiana, e la stessa Camera di consultazione della sinistra, non sarebbero stati possibili senza il processo di rinnovamento ideale e d'iniziativa politica, che hanno caratterizzato Rifondazione comunista nel corso degli ultimi anni.
Tuttavia: Bertinotti è un candidato di sinistra ma, allo stato attuale delle cose, non è candidato della sinistra. Per il bene della sinistra e, se intendessi usare parole forti, del paese, sarebbe opportuno che lo diventi e io penso che occorrerebbe lavorare coscienziosamente perché questo accada.
Nei giorni scorsi, dall'interno stesso, di Rifondazione, s'è parlato della necessità di praticare un «percorso», che andrebbe da qui alle prossime elezioni politiche, e oltre, in zona governo. Benissimo: «percorso» è anche una parola nostra. Ma un «percorso», come qualunque buon centometrista sa, comincia dalla sistemazione dei blocchi di partenza. Inoltre, si corre bene se si sa (almeno grosso modo) dove si vuole arrivare. Infine, se si condividono gli enunciati etico-politici, da cui ha preso le mosse il mio ragionamento, sarebbe opportuno che la corsa si svolgesse dall'inizio alla fine alla luce del sole.
Con queste premesse, mi permetto di tentare di «visualizzare» il famoso «percorso», evocato ma lasciato poi nella più totale indeterminatezza, pronto naturalmente a discuterlo e correggerlo, se mi saranno opposti buoni argomenti.
Innanzi tutto: non c'è bisogno di scomodare Lapalisse per affermare che la candidatura della sinistra, se vuole avere buone possibilità di successo, dovrebbe essere una candidatura ampiamente condivisa. Perché sia ampiamente condivisa, bisogna che sia collettivamente discussa, registrata e monitorata. Niente che intacchi la dignità e l'autonomia del candidato, ma al contrario l'inizio di un processo (di partito e di movimento, torno a ripetere) che ne garantisca un'affermazione non chiusa nel ristretto ambito di un singolo partito, situazione che ormai tende a suscitare sempre più diffidenza e distacco (e qui ci si potrebbe limitare ad osservare che si è partiti col piede sbagliato).
In secondo luogo (ma in una sequenza logico-politica normale dovrebbe essere il primo): un serio chiarimento di programma, altrettanto incerto a sinistra oggi quanto nel centro o nella destra. L'appuntamento che, all'unanimità , ci tengo a precisarlo, la Camera di consultazione si è dato per un'Assemblea nazionale di programma il prossimo 12 novembre, potrebbe essere utilizzato per svolgere questa funzione.
In terzo luogo: discutere collegialmente (partiti e movimenti) modalità e criteri d'indicazione delle candidature nei collegi uninominali e di formazione delle liste nel proporzionale per le elezioni politiche generali del 2006. Questa richiesta (esattamente al contrario di accuse rivolteci) nasce dal basso e accomuna movimenti di natura assai diversa, dai «disobbedienti» romani al Laboratorio per la democrazia di Firenze a un folto gruppo di sindacalisti Cgil autori in questo senso di un vero e proprio appello. Questa sì che può essere una grande esperienza di democrazia partecipata: la prima, forse, che la sinistra possa esibire nel nostro paese.
Se tale percorso fosse subito iniziato, e ci fosse l'impegno a percorrerlo poi per intero, anche le primarie, che ora non ne hanno alcuna, potrebbero ritrovare un minimo di logica. E la proiezione del percorso sul futuro governo di centro-sinistra contribuirebbe a rendere la competizione elettorale più facile e feconda e a determinare al tempo stesso un diverso rapporto di forze all'interno dell'Unione, attenuando l'ossessiva componente leaderistica del confronto, opra predominante. Mi rendo conto che in questo modo si mette in discussione con qualche semplice passaggio (una semplicità tedesca) l'attuale sistema politico e i suoi nodi decisionali e di potere, anche all'interno dell'attuale sinistra, e anche dell'attuale estrema sinistra. Ma non avevamo detto tutti fin dall'inizio (15 gennaio) che era questo che volevamo fare?
Confesso che mi arreca pena tornare a scrivere del sacrificio della Divisione Acqui a Cefalonia di fronte alle ricorrenti svalutazioni di cui quell´episodio che costò la vita a 6500 militari italiani è fatto oggetto. Se intervengo ancora una volta è per rispetto alla memoria di quei poveri morti ed anche perché vorrei che i propugnatori delle versioni «riduzionistiche» riflettessero sugli effetti negativi che la loro vulgata può avere sulla formazione all´amor patrio delle giovani generazioni. Dico questo anche perché sono convinto che i dubbi su Cefalonia sono stati in questi anni coltivati soprattutto da personaggi e da studiosi come Gian Enrico Rusconi e Sergio Romano (e nel passato anche da Montanelli), meritevoli per tanti versi di assoluta considerazione, ma impregnati forse da una forma personale di scetticismo storico assoluto, destinato a prevalere su ogni giudizio di valore. Da questo punto di vista discutibilissimo appare inoltre il luogo e l´occasione della loro ultima esternazione, la Radio ufficiale della Germania federale che, nel quadro del Sessantennio della fine della guerra, ha dedicato una trasmissione alla nostra Resistenza, a partire da Cefalonia.
Ecco cosa si evince dal resoconto stenografico della trasmissione.
Voce narrante: «E´ stato soprattutto il Presidente Ciampi a raccogliere l´impulso a porre il grande gesto patriottico della Divisione Acqui al vertice della resistenza italiana. Gian Enrico Rusconi non è d´accordo... « Intervento di Rusconi: «Effettivamente si sta ricostruendo una immagine d´insieme della Resistenza in cui c´è posto per i militari. Ma questi non hanno nulla a che vedere con la resistenza dei partigiani. Perché la Divisione Acqui - e Pirani può dire quello che vuole (la domanda, peraltro, riguardava Ciampi, ndr) - voleva tornare a casa con le armi, punto.... La Resistenza? Se resistenza significa lottare contro i tedeschi, allora quella era resistenza, ma avrebbero combattuto contro chiunque, anche contro i russi, se questi li avessero voluti disarmare. «Intervento di Lutz Klinkhammer, ricercatore presso l´Istituto storico tedesco a Roma: «C´è qui quella che si chiama storiografia del Quirinale.... dimostrare la resistenza della Divisione come simbolo dell´unità nazionale... delle analisi più approfondite potrebbero solo recare disturbo a questo mito di nuova creazione. Alcuni intellettuali conservatori, tra cui Sergio Romano, hanno parlato anche di questi punti dolenti».
Intervento di Sergio Romano: «L´unico desiderio di quei soldati era di tornare a casa. Per loro la guerra era finita. Avevano paura di essere catturati dai tedeschi. Non hanno combattuto per altre ragioni... Poi ci fu un episodio non bello e confuso, quando il generale Gandin forse perse il controllo della truppa. Nella truppa si svilupparono disordini di «tipo sovietico», tra virgolette nel senso che si formarono consigli militari. Ci fu un referendum, il che è piuttosto insolito per un´unità combattente. Forse Gandin perse il controllo della situazione ed in seguito ci furono quegli scontri. Dunque io non credo che si possa parlare di una prima manifestazione di resistenza».
Tralascio altre citazioni (tra cui gli interventi miei e di Giorgio Bocca) ma mi limito a ricordare che la strage di Cefalonia fu bollata dal Tribunale di Norimberga come uno dei più indegni crimini di guerra commessi dalla Wermacht.
Certamente i soldati italiani desideravano tornare a casa ma resta il fatto che decisero di battersi e di resistere, a prezzo della vita, dai generali Gandin e Gherzi all´ultimo fante. Quattro Reggimenti e 17 Caduti furono per questo decorati di medaglia d´oro alla memoria.
Mi spiace non avere lo spazio per riportare le motivazioni.
Se questa non fu Resistenza, tale non fu neppure quella dei 600.000 soldati prigionieri che preferirono restare nei lager piuttosto che aderire a Salò come era stato loro offerto. Se tutti volevano solo andare a casa non si capisce perché i sopravvissuti delle Divisioni Venezia e Taurinense dettero vita alla Divisione Garibaldi che fino alla fine della guerra combattè in Jugoslavia accanto ai partigiani di Tito. E perché le Divisioni Cremona e Friuli, comandate dal generale Magli, invece di ripiegare in Sardegna, liberarono la Corsica dopo duri scontri con le truppe corazzate tedesche. E perché 50 ufficiali a Trilj in Montenegro e più di cento a Santi Quaranta in Albania vennero giustiziati per aver rifiutato la resa. La risposta l´ha data Ciampi: «Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la Patria. Tennero fede al giuramento».
Ma forse non serve ripeterlo a chi non vuol sentire
Via libera ai sopralluoghi dei magistrati a Villa Certosa. La Procura di Tempio ha confermato la notizia pubblicata oggi dal Giornale di Sardegna. Prima ancora che la Corte Costituzionale potesse esprimersi sulla fondatezza del ricorso al segreto di Stato per impedire l'accesso ai magistrati nella sua residenza estiva, il premier, a sorpresa, ha deciso di aprire le porte della Certosa. La comunicazione e' stata inviata da Palazzo Chigi via fax al palazzo di giustizia di Tempio Pausania, alla Consulta e al ministero dell'Interno. Laconico il commento del procuratore capo della Repubblica di Tempio, Valerio Cicalo', secondo il quale la decisione di Berlusconi e' stata presa "per evitare il pronunciamento della Consulta". Il ricorso alla Corte costituzionale era stato avanzato dalla magistratura gallurese che, dopo aver aperto un'inchiesta su presunti abusi commessi nella residenza del premier, si era vista negare l'accesso alla tenuta di Punta Lada. Il Governo oppose il segreto di Stato, motivandolo con la necessita' di individuare una sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumita' del presidente del Consiglio. Nonostante le proteste dell'opposizione, il caso non approdo' in Parlamento, dopo che il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copaco) si divise equamente tra favorevoli e contrari al dibattito in aula.
Il Cavaliere e le ville segrete, il manifesto, 19 febbraio 2005
La villa del cactus, illustrata, Dagospia (on line)
CRavaioli A che serve la Camera dei «rossoverdi»
Una sinistra “rossoverde senza trattini”: una speranza per un futuro non subalterno? Da
il manifesto
Che il 15 gennaio abbia posto gli obiettivi elencati da Asor Rosa nel suo intervento del 30 aprile, non è discutibile. Ma non mi pare siano state le sole esigenze avanzate, e forse nemmeno le più significative emerse nel dibattito. Penso ad esempio agli interventi di Agnoletto, Greco, Tortorella - per dire solo di qualcuno. Ma in particolare penso a quanto affermato proprio da Asor Rosa in un articolo apparso sul poco prima del 15: «La sinistra del futuro o sarà rossoverde o non sarà». Con un'aggiunta che puntualizza: «Non rossa e verde, ma rossoverde, senza trattino». Un'affermazione di tale radicalità e pregnanza che, qualora venisse fatta propria da «tutte le forze autenticamente di sinistra», potrebbe non solo favorirne il «riavvicinamento unitario» e la «graduale omogeneizzazione» da Asor Rosa auspicati, ma farsi anche premessa di una strategia economica e sociale alternativa alle destre, di cui da gran tempo si sente il bisogno.
Una sinistra davvero «rossoverde» significherebbe innanzitutto un netto cambiamento del rapporto finora intrattenuto con il problema ambiente, in sostanza considerato (non molto diversamente dalla destra) come una variabile di scarso rilievo e comunque estranea ai grandi temi della politica. E questo comporterebbe un impegno nei confronti della crisi ecologica ben diverso, per quantità e qualità, da quello fin qui osservato.
Ma soprattutto porterebbe a una riflessione su quel «senso del limite» che la specie umana, a differenza di tutte le altre, dimostra di avere smarrito, non solo nell'uso dissennato e distruttivo della natura. Fino a leggere l'accumulazione - il motore di tanta parte della storia umana governata dal capitalismo - come l'azzardo di un continuo sconfinamento oltre il limite, ormai non più sopportabile. Accettare il fatto che i meccanismi di accumulazione si scontrano ormai contro la realtà di un mondo finito e non dilatabile a nostro piacere, e pertanto si trovano a fare i conti non solo con l'aggravarsi continuo dello squilibrio ambientale, ma con la crescente riduzione, anzi il prossimo esaurimento, di nuovi spazi disponibili alla valorizzazione dei capitali, offrirebbe risposta anche a una domanda mai formulata ad alta voce e però presente nelle cose: perché la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica che a lungo, pur tra iniquità e sfruttamento, è andata via via migliorando le condizioni di vita nei paesi industrializzati, sembra aver imboccato un itinerario opposto, e sempre più comporta disoccupazione e precarietà, salari miserabili, orari impossibili, taglio delle pensioni e dei servizi? e perché affannosamente rincorre le ultime chances delocalizzando verso terre di lavoro a costi irrisori, senza sindacati e leggi ambientali, per la produzione di una ricchezza destinata a una quota minima degli abitanti del pianeta?
Parrebbe allora inevitabile prendere atto dell'inutilità delle politiche portate avanti finora dalle sinistre, da un lato appiattite sulle strategie delle destre nell'eterna richiesta di modernizzazione produttività competitività aumento dei consumi crescita del Pil, dall'altra - nel modo più incongruo - tenacemente aggrappate a una tradizione che chiede più salari pensioni servizi.
E parrebbe logico riconoscere che l'attuale modello di produzione e consumo non solo va sconvolgendo le regole che presiedono alla continuità vitale della natura e di noi tutti, ma non è più in grado di consentire ciò che da sempre è scritto nei programmi delle sinistre e nelle ragioni stesse del loro esistere. Perché marginalizzazione ed esclusione sono oggi normali strumenti di strategia economica, le disuguaglianze vanno aumentando e da una parte del mondo si muore di fame mentre dall'altra si muore di obesità da sovralimentazione.
Altrettanto logico parrebbe abbandonare l'eterno alibi antiambientalista che da sinistra si richiama alla povertà da sconfiggere per giustificare la politica dello «sviluppo». Ricordando se non altro che - come attesta la Fao - il mondo produce cibo sufficiente a sfamare tutti suoi abitanti; ciò che lo impedisce è solo l'iniquità della distribuzione, la deliberata distruzione di enormi derrate alimentari al fine di proteggere questa o quella categoria di produttori, l'esosità e l'assurdo di politiche doganali a contraddire la realtà della globalizzazione e il mito del libero mercato.
Impiantare un discorso serio sul «senso del limite» smarrito dagli umani incrocerebbe poi tutta una serie di altri temi giganteschi che attraversano il nostro tempo e a ritmi sempre più veloci lo trasformano. Posso qui solo nominarne qualcuno, alla rinfusa. Accennare alle sorti della scienza, sempre più a rischio di subalternità rispetto allo strapotere economico, ciò che è già accaduto con la tecnologia. Al fenomeno migratorio, che la brutale insipienza dei governi vede solo in termini di manodopera da utilizzare, sottopagata, per i peggiori lavori, e da ridurre a mero problema di sicurezza quando non serve più: senza mai porsi domande di fronte alla magnitudine di masse, regioni intere, in movimento verso le frontiere del favoloso Occidente, di cui tv e satelliti ininterrottamente gli raccontano i fasti. Al terrorismo, una costante ormai del nostro vivere, forse - al di là delle cause connesse alle singole situazioni - soltanto urla di infelicità contro le smisurate disparità del mondo. E alla guerra, sempre più tranquillamente e senza pudori usata come ultimo strumento per far quadrare i conti dei potenti.
Una «sinistra rossoverde, senza trattino», quella da Asor Rosa indicata come l'unica capace di futuro, a me pare sarebbe il tema e l'obiettivo più confacente al lavoro di un organismo come la Camera di consultazione, che non credo potrebbe avere grande utilità inserendosi attivamente nell'immediato del dibattito politico, aggiungendo la propria voce all'interno di un coro fin troppo affollato. Come altri hanno detto, la funzione della Camera dovrebbe essere soprattutto un'attività seminariale, distaccata dal politichese dell'Italia berlusconiana: non certo per dimenticarla, ma per garantirsene un'osservazione più ampia, e rapportarla alle vicende del mondo dalle quali inevitabilmente anche i fatti di casa nostra sono condizionati.
E proprio l'idea di una sinistra «rossoverde senza trattino», che contiene e unifica i due massimi problemi d'oggi, mi parrebbe materia bruciante su cui riflettere e discutere: ipotesi certo tutta da costruire, verso un obiettivo estremamente difficile da raggiungere e prima ancora da mettere a fuoco, ma di cui qualcuno al mondo dovrà pure un giorno o l'altro farsi carico.
La signora Ludmilla si è garbatamente scostata.
Ma queste erano solo apparenze ingannevoli. Come ingannevole deve essere l´impressione, condivisa da tutti gli osservatori, che le celebrazioni di Mosca non abbiano per nulla sciolto il nuovo gelo nelle relazioni russo-americane. L´incontro tra Bush e Putin, assicura Berlusconi, è andato benissimo: glielo hanno detto gli interessati. Del resto è stato il presidente del Consiglio italiano, come ha spiegato lui stesso ai giornalisti (italiani anche loro, per fortuna) ad aver «opportunamente preparato» i due leader. È stato sempre lui, assicura, ad aver ricucito lo strappo che proprio su Yalta sembrava essersi consumato, quando Bush, nel solenne discorso pronunciato a Riga, ha condannato la spartizione del mondo in sfere di influenza decisa a tavolino sessant´anni fa.
Quisquilie, assicura Berlusconi, «è stata una cosa occasionale, la risposta alla domanda di un giornalista, non ci sono diverse interpretazioni».
Così Bush, che in spregio a Yalta e a quella che era la vecchia sfera di influenza sovietica ha infilato la silenziosa tappa di Mosca nel "panino" di una visita in Lettonia e di una in Georgia, due paesi ai ferri corti con la Russia, è partito ieri per Tbilisi dove lo hanno accolto come un liberatore. E Putin, di cui Berlusconi ha garantito a Bush le credenziali democratiche perché «non è un comunista», è andato personalmente a decorare il generale Jaruzelski, quello che prese in potere nella Polonia sovietica per reprimere Solidarnosc. Poi, nel corso dell´incontro con il cancelliere Schroeder, ha promesso l´appoggio della Russia per un seggio tedesco al consiglio di sicurezza dell´Onu che l´Italia sta cercando di scongiurare con tutti i mezzi. Forse Berlusconi non lo aveva "preparato" bene. O forse il russo, pur essendo democratico, non è tanto sveglio è fatica a capire.
In quattro anni da presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ci aveva abituato alla sua imbarazzante ma quasi sempre innocua megalomania nelle occasioni internazionali in cui rappresenta l´Italia. Un difetto superato solo dalla straordinaria capacità di travisare la realtà dei fatti. L´Europa ancora sogghigna per la sua disastrosa conduzione del semestre di presidenza Ue. Ma se finora il capo del governo aveva bordeggiato sull´abisso dal ridicolo, con le dichiarazioni rilasciate ieri a Mosca ha fatto, come si dice, un netto passo avanti sprofondando dalla commedia alla farsa.
Lo devono aver capito anche i sui «amici». L´atteggiamento di Bush, che gli dà ragione sulle credenziali democratiche di Putin e si dice pronto a "sostenere" il presidente russo come Berlusconi lo sollecitava a fare, segna il passaggio di quella linea sottile che separa la condiscendenza dalla compassione. Un altro lusso che l´America può permettersi e che l´Italia, per ora, deve limitarsi ad invidiarle.
La lista dei crimini è lunga: villaggi incendiati, stragi, rappresaglie, esecuzioni indiscriminate di partigiani, deportazione di migliaia di civili nei campi di concentramento, sevizie e torture. I responsabili sono quegli - così il titolo del libro di Costantino Di Sante - di stanza nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale. Criminali di guerra che la nostra diplomazia ha voluto per decenni occultare, alimentando così quel mito del "bravo italiano" rivelatosi sempre più malinconicamente infondato. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951) è il sottotitolo di questo nuovo j’accuse contro generali, ufficiali, semplici soldati, poliziotti, carabinieri, funzionari civili, ritenuti colpevoli di delitti non dissimili da quelli nazisti - e contro i governanti che ne hanno lungamente assicurato l’impunità - sorretto da una nutrita documentazione proveniente dagli archivi del ministero degli Esteri e dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Lo pubblica, con una prefazione di Filippo Focardi, una piccola casa editrice, Ombre Corte (pagg. 270, euro 18,00). L’autore del volume, Di Sante, è ricercatore presso l’Istituto di Liberazione marchigiano, studioso dei campi di concentramento nell’Italia littoria.
Le operazioni militari di Mussolini contro la Jugoslavia ebbero inizio il 6 aprile del 1941. Come già dimostrato dalla ricerca storica più documentata (da Enzo Collotti a Davide Rodogno), la politica di aggressione fascista nei Balcani fu caratterizzata da efferatezze, "non episodi isolati, ma componenti essenziali della strategia di dominio" inaugurata dal dittatore. Nessuno degli italiani denunciati per crimini di guerra fu consegnato ai paesi che ne avevano fatto richiesta, né fu mai processato in Italia. Gli oltre 750 italiani incriminati dalla Jugoslavia, come i 180 accusati dalla Grecia o i 140 segnalati dall’Albania poterono godere di totale impunità. E questo grazie «all’azione di salvataggio organizzata dal ministero degli Affari Esteri, d’intesa con il ministero della Guerra (poi della Difesa) e con la Presidenza del Consiglio» (così Lutz Klinkhammer).
Fin dall’autunno del 1944, avendo saputo che in Jugoslavia era al lavoro una commissione d’inchiesta sulle violenze degli italiani, cominciò a Roma un lavoro di "controdocumentazione", teso a dimostrare le sevizie commesse dal nemico sui nostri connazionali (e a discolpare la legittima reazione dell’esercito tricolore). La "controinchiesta" confluì in una sorta di memoriale difensivo (settembre 1945) a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, che Di Sante per la prima volta rende pubblico.
L’aspetto più rilevante è che, pur giustificando l’operato degli italiani pesantemente vessati dal "barbaro partigiano titino", le testimonianze dei nostri soldati in sostanza confermano i delitti denunciati dagli jugoslavi. In particolare, viene riconosciuta la crudeltà dell’occupazione in Dalmazia. «Parecchi villaggi incendiati», «molti civili passati per le armi o internati», «interrogatori eseguiti con durezza e mezzi illeciti», «la popolazione ritenuta ostile bastonata o vessata con l’olio di ricino» dalle squadre d’azione di Giuseppe Alacevic (segretario del fascio di Sebenico). Di alcuni vengono evocati anche «atti ripugnanti» e «malvagità» contro le donne arrestate. Ancora più gravi, poi, risultano le responsabilità del "Tribunale straordinario arbitrario" (istituito dal Governatore della Dalmazia), talvolta sbrigativo nel comminare le condanne a morte. Devastanti anche le nostre rappresaglie (otto civili per ogni militare ucciso), spesso concluse con incendi di villaggi o esecuzioni sommarie. Nella documentazione jugoslava molto risalto veniva dato anche all’internamento di migliaia di civili nel campo di Arbe, capace di ospitare fino a 10.500 persone e il cui tasso di mortalità era stimato intorno al 19 per cento: qualche generale italiano amava descriverlo come "luogo di villeggiatura".
Il "contromemoriale" italiano puntò naturalmente sulla necessità di difendersi dalla "barbarie" e dal "banditismo" dei partigiani jugoslavi, approntando anche una vasta ed efficace documentazione fotografica. Quel che seguirà nel lungo dopoguerra sarà il ripetuto tentativo da parte del nostro governo di sottrarre i militari incriminati dal giudizio internazionale: prima con la istituzione nel maggio del 1946 di una commissione d’inchiesta che, assicurando lo svolgimento di una severa giustizia in Italia, di fatto negò l’estradizione; poi con un sapiente lavoro di tessitura diplomatica, sintetizzato dal cosiddetto "memoriale Zoppi", un documento del gennaio 1948 che - citato anche da Di Sante - solo di recente è stato declassificato (riprodotto in questa pagina con l’autografo di Giulio Andreotti: ne parliamo qui accanto nell’intervista a Walter Vitali). In sostanza, rispetto alla richiesta jugoslava di processare i responsabili, prevalse una linea di temporeggiamento. Con risultati soddisfacenti: dopo la rottura tra Tito e Stalin, nel giugno del 1948, la Jugoslavia avrebbe perso l’appoggio dell’unica potenza che sino a quel momento l’aveva sostenuta nelle sue recriminazioni.
La vicenda si chiuse definitivamente nel 1951, con l’archiviazione di tutti i procedimenti a carico dei presunti criminali. Non senza alcuni episodi paradossali. Nel dicembre del 1947 è nominato segretario generale del ministro della Difesa proprio uno dei generali che figurava nella lista degli accusati (approvata dalla commissione interalleata). Un anno dopo, alla presenza del presidente Luigi Einaudi, vengono decorate alcune divisioni: «per meriti acquisiti ai tempi dell’occupazione fascista del Montenegro e della Croazia». Per il generale Mario Roatta, "l’esponente più importante della politica militaristica di Mussolini" (così la stampa antifascista), assoluzione piena: esito esemplare d’una vicenda ancora irrisolta.
Noi NonDimentichiamo
Ciampi, Carlo Azeglio
l’Unità del 26 aprile 2005 il testo del discorso pronunciato dal Presidente della
Sessant’anni fa, oggi, si compì la liberazione e la riunificazione della nostra Patria. Tanti ricordi si affollano alla mente. Il cuore è ancora gonfio di pena, ma anche di orgoglio, per quelli che, compagni della nostra giovinezza, diedero la vita per la libertà di tutti; anche di chi li combatteva. Presero le armi per far nascere quelle istituzioni democratiche in cui oggi noi italiani tutti ci riconosciamo. Eredi degli ideali del Risorgimento, restituirono alla Patria l'onore e il rispetto dei popoli liberi. Uomini e donne, militari e civili, laici e religiosi, ci insegnarono a conquistare e a vivere la libertà. Nel loro anelito di democrazia e di giustizia, nell’amor di Patria, che nell’ora della prova più difficile proruppe spontaneo nei loro cuori, si riconobbe una nuova Italia.
***
Un forte, indissolubile legame, unisce l’Italia del 25 aprile 1945 all’Italia che il 2 giugno 1946 partecipò, con universale entusiasmo, alle prime elezioni politiche libere dopo la dittatura. Vi presero parte, per la prima volta, anche le donne, elettrici e candidate. Gli italiani scelsero la Repubblica. Lo spirito della Resistenza vive nel testo della Costituzione repubblicana. La memoria dei sacrifici e delle lotte della Resistenza è fondamento della nostra passione per la libertà. Di quei sacrifici danno oggi solenne testimonianza le decine e decine di gonfaloni delle città e province insignite di medaglia d’oro che affollano, per la prima volta, questo cortile del Quirinale, la casa di tutti gli italiani. Da questi stendardi lo sguardo si leva al tricolore che sventola in alto, l’insegna che guidò i nostri padri nelle guerre del Risorgimento, affiancata oggi dalla bandiera azzurro-stellata della nuova Europa, unita da ideali di concordia e di pace.
Noi non dimentichiamo nessuno di coloro che furono protagonisti della lotta per la libertà di tutti gli italiani. Non dimentichiamo la Resistenza operaia, esplosa negli scioperi di massa del marzo ‘43 a Torino, a Milano, a Genova e in altre città, prima della caduta della dittatura.
Non dimentichiamo la Resistenza dei militari che, dopo l’8 settembre del ‘43, nello smarrimento delle istituzioni, trovarono nel loro cuore le radici di un orgoglioso amor di Patria, che li spinse all’azione. Molte migliaia caddero con le armi in pugno, o vennero trucidati dai nazisti.
Non dimentichiamo i civili che, a Roma e altrove, si unirono a loro per la difesa delle loro città, o, come a Napoli, si batterono per cacciare le forze di occupazione.
Non dimentichiamo la Resistenza delle centinaia di migliaia di militari deportati, che preferirono una durissima prigionia, che costò la vita a tanti di loro, al ritorno in Italia al servizio della dittatura.
Non dimentichiamo la Resistenza popolare, che si manifestò spontanea. Migliaia e migliaia di donne e uomini di ogni ceto, a rischio e a prezzo della loro vita, salvarono e protessero civili e militari alla macchia, ebrei minacciati dallo sterminio, soldati stranieri fuggiti dai campi di prigionia, che cercavano la salvezza. Li aiutarono a raggiungere l’Italia già liberata, accompagnandoli lungo quei sentieri della libertà che solcarono allora tutta la penisola, da Nord a Sud, di casolare in casolare, di paese in paese, di città in città. Fu una catena di silenziosa, spontanea solidarietà.
Non dimentichiamo le migliaia e migliaia di vittime delle innumerevoli, orrende stragi che insanguinarono il nostro Paese. Donne, vecchi, bambini, civili colpevoli soltanto di sostenere chi si batteva per la libertà.
Non dimentichiamo soprattutto i protagonisti della Resistenza armata, che nacque come scelta di popolo, che si organizzò in unità partigiane combattenti e dilagò nelle città, nelle pianure, nelle montagne, fino alla riconquista, nell’aprile del 1945, delle grandi città del Nord d’Italia, prima ancora della resa dell’esercito nazista.
Non dimentichiamo le unità del nostro esercito ricostituito, che combatterono con valore per l’onore della nuova Italia democratica.
Non dimentichiamo, non dimenticheremo mai, i soldati alleati, venuti da tutti i continenti per liberare, a costo di perdite immense, tutti i popoli europei dalla feroce tirannide nazifascista.
***
La memoria degli eventi di sessant’anni fa è un libro fatto di molte pagine, di tante storie personali e collettive, storie di individui che diedero una risposta alta e nobile alla sfida dei tempi, che seppero interpretare i valori profondi della civiltà italiana ed europea.
Essi volevano un’Italia libera per tutti, unita. Il loro ricordo non vuole alimentare divisioni, vuole insegnarci la concordia, insieme con l’amore per la Patria e l’amore per la Costituzione, fondamento delle nostre libertà. Questo è il significato profondo delle giornate della memoria che noi celebriamo: occasioni per ricordare ai giovani i valori ispiratori di quella libertà che essi hanno il privilegio di vivere e il dovere di custodire.
***
Italiani, gli uomini della mia generazione hanno avuto un singolare destino. Abbiamo vissuto, nella giovinezza, anni tra i più foschi della millenaria storia europea. Ma nelle prove più difficili si tempra l’identità di una Nazione. Dalle tragedie di quegli anni abbiamo tutti tratto ammaestramento. A noi sopravvissuti è toccata poi la fortuna di essere partecipi della grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli che assicura a tutta l'Europa, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile.
Abbiamo avuto la fortuna di garantire ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli, quei beni, quei valori, quelle speranze, che noi, da giovani, non avevamo conosciuto. E ne siamo orgogliosi. Ai giovani d’oggi, cresciuti in un’Italia libera, in un’Europa pacifica e unita, dico: non dimenticate mai gli ideali che ispirarono coloro che diedero la vita per voi. Possa la memoria dei sacrifici dei Padri della Repubblica rimanere viva, tramandata di generazione in generazione, guida e monito ad essere sempre vigili nella difesa della libertà riconquistata.
Il ricordo di quei giorni ci fa guardare con fiducia al nostro futuro; ci fa sentire il dovere di essere uniti tutti nell'amore per la Patria italiana ed europea, uniti nell’orgoglio delle nostre grandi tradizioni di civiltà, uniti nell’impegno a contribuire al progresso e alla pace di tutti i popoli.
Viva la Resistenza.
Viva la Repubblica.
Viva l’Italia libera e unita.
Chi ha paura del 25 aprile
Da la Repubblica
MI È rimasta impressa nella memoria l´angoscia di quel 25 aprile del ´45; il pensiero di poter morire in quell´ultimo giorno di guerra dopo essere scampato ai venti mesi della lotta partigiana, e di non poter rifiutare quell´ultimo rischio proprio per quei venti mesi, proprio perché non potevo mancare il giorno della loro fine, della liberazione. E mentre nei venti mesi avevo vissuto in una assurda certezza di immortalità, nella certezza di essere padrone del mio destino in quel 25 aprile sentii d´esser affidato al caso, trascinato da eventi incontenibili.
Perché militarmente il 25 aprile del ‘45, l´insurrezione, la liberazione fu questo: una corsa dietro eventi in certo senso accaduti prima di accadere, previsti nel loro succedersi caotico, lo sfondamento della linea Gotica da parte degli alleati, la rotta dei tedeschi e dei fascisti, la resa dei conti, la corsa fra la gioia e l´angoscia dalle montagne della Val Maira, a Savigliano, a Cuneo, a Torino fra sparatorie improvvise come temporali d´estate, cadaveri di fascisti nelle acque del Po, una colonna di carri armati tedeschi che gira a vuoto fra il basso Piemonte e il Canavese, sparando qualche cannonata sulle cascine, dovunque le casualità e i rischi di un epilogo convulso. E per tutti i decenni seguenti i discorsi inutili sull´importanza militare di un evento, la liberazione, l´insurrezione che era invece totalmente politica, già dentro quell´indimenticabile esperienza che fu la nascita, la fabbrica di una democrazia.
Il revisionismo storico in corso da mesi ha scarsa memoria ed è dominato da un´ossessione sadica. Non vede altro che cadaveri, comunismo in agguato, reciproche congiure, ma la storia di quando si è giovani è giovane, fiduciosa, con le speranze e le illusioni dei giovani. Metà delle case di Torino, di Milano, delle grandi città erano macerie, i macchinari della Fiat erano ancora nascosti in campagna o nei sotterranei, si viaggiava sui carri merci o sui camion a carbonella, gli eserciti stranieri ci occupavano con i loro carri armati grandi come palazzi, decidevano sulla nostra sussistenza e sulla nostra indipendenza, eppure non c´è mai stato da noi un più grande, un più illimitato, un più trascinante senso di libertà, di ottimismo.
Il giorno dopo passai a casa mia a Cuneo per salutare i miei. Ricordo che mio padre, preside di una scuola tecnica presso le officine ferroviarie di Savigliano, mi confidava la sua paura dei comunisti che avevano occupato la fabbrica e issate le bandiere rosse. E io non capivo perché mai i comunisti dovessero far paura e considerare nemico un professore di matematica che faceva il preside a mille lire al mese e girava con un regolo calcolatore nel taschino di un abito grigio, comprato fatto nei magazzini generali. Dopo mesi di guerra in comune, di nemico comune, quei comunisti non ci facevano paura. C´era meno paura del comunismo allora, che stava formandosi da noi il partito comunista più forte di Europa, che c´erano Stalin, l´Armata rossa, il mito della rivoluzione, la classe operaia e i vecchi compagni del "pugno di ferro" che oggi che il Partito comunista non c´è più, e che alla classe operaia hanno tagliato unghie e denti...
La democrazia che in quel 25 aprile tornava a vivere nelle nostre città a pezzi, nelle nostre strade piene di buche, nei nostri negozi semivuoti non era qualcosa di artificiale, era un bene ritrovato e fortemente condiviso e noi eravamo fermamente convinti che questa volta sarebbe durata in eterno. Era in corsa una resa dei conti anche feroce, ma fisiologica, come una gran febbre che ci avrebbe fatto guarire dal passato e vedo che oggi a sessanta anni di distanza il revisionismo storico se ne occupa con ossessione, come avesse trovato il segreto di quel partigianato che proprio non gli va giù. Ma noi partigiani della montagna, la spina dorsale della resistenza, non ce ne occupavamo, noi eravamo già nella stagione in cui si fabbrica la democrazia, si studia la democrazia, si scoprono i sindacati, le commissioni interne, le migrazioni interne, un Paese di diversi ma uniti, di cittadini responsabili e solidali.
Le riflessioni amare su questo 25 aprile di sessanta anni dopo vertono sulla fine di quella voglia comune di andare avanti, di fare del nostro un Paese civile e giusto a misura della Costituzione che allora avevamo pensato e votato, assieme in una Italia unita nonostante e forse per merito di una guerra in parte civile. E siamo ancora qui, in questo strambo Paese a resistere questa volta ad assurdi ritorni al passato a penose equiparazioni nel peggio, a un populismo truffaldino, ai trionfi delle mafie.
Finalmente, dopo 68 anni, l'obelisco di Axum è tornato a casa, nel quartiere ecclesiastico di Nefas, lungo le rive del Mai Heggià. Quando, a giorni, le sue tre parti, trasferite in Etiopia nel ventre di un Antonov ucraino, saranno riunite, e potrà essere di nuovo innalzato verso il cielo, finalmente gli etiopici potranno ammirare questo straordinario esemplare di arte axumita, diventato col tempo, nella febbrile attesa del suo rimpatrio, anche un simbolo del patriottismo etiopico. Con la restituzione di questo monumento, imposta all'Italia dall'articolo 37 del Trattato di pace di Parigi, nel lontano, lontanissimo 1947, si chiude, dopo rinvii immotivati, tentativi di sabotare l'obbligo, false storie di donazioni, finti problemi tecnici, la più incredibile, la più sconcertante, la più vergognosa telenovela che il nostro inaffidabile paese abbia mai prodotto.
È molto probabile che l'idea di trasferire in Italia uno degli obelischi di Axum sia venuta ad Alessandro Lessona, a quel tempo ministro dell'Africa Italiana. Lessona conosceva molto bene Mussolini, la sua infinita vanità. Sapeva che un omaggio, di stampo autenticamente imperiale come un monumento dell'antica civiltà axumita, non poteva che riuscirgli gradito. Affidò perciò l'incarico all'archeologo Ugo Monneret di Villard, che stava conducendo degli scavi proprio nella zona di Axum, di scegliere uno degli obelischi e di trasferirlo in Italia. La scelta dell'archeologo cadde su di un monolito alto 24 metri e del peso di 160 tonnellate, che giaceva a terra spezzato in tre parti. Iniziati nel 1937, i lavori per il recupero e il trasporto del monumento sino al porto di imbarco di Massaua, durarono tre mesi.
Furono gli operai della Gondrand, sotto la guida del piacentino Mario Buschi, a portare a termine il difficile trasporto, per il quale fu addirittura necessario sbancare fette di montagna. Trasferito a Napoli e quindi a Roma, l'obelisco veniva eretto sul piazzale di Porta Capena. Con questa straordinaria preda di guerra, complice Lessona, Mussolini poteva così celebrare, il 28 ottobre 1937, il quindicesimo anniversario della marcia su Roma.
Adesso che l'Italia, sia pure a denti stretti, ha assolto al suo obbligo di restituire il mal tolto, a Porta Capena c'è un vuoto da riempire. Noi vorremmo oggi rinnovare la proposta che il 23 ottobre 2002 facemmo proprio sulle colonne de il manifesto. Quella di sostituire l'obelisco di Axum con un altro obelisco, sia pure di ridotte dimensioni, sul quale incidere semplicemente delle date e dei nomi. Le date degli eccidi consumati nelle ex colonie italiane, delle deportazioni di intere popolazioni, della creazione dei lager della Sirtica, di Danane, di Nocra. E i nomi dei patrioti che più si sono distinti nella difesa delle loro terre. Pensiamo al degiac eritreo Batha Hagos, al somalo Mohammed ben Abdalla Hassan, al libico Omar al-Mukhtar, agli etiopici ras Destà Damteu, degiac Nasibù Zamanuel, abuna Petros. Alcuni di questi leader chiusero la loro esistenza dinanzi ad un plotone di esecuzione o appesi ad un cappio. Impossibile scolpire nella pietra i nomi di tutti i patrioti uccisi. Soltanto i libici sono centomila. Trecentomila gli etiopici.
Con la restituzione dell'obelisco di Axum abbiamo soltanto sciolto un obbligo di carattere internazionale, non abbiamo per nulla affrontato il problema delle colpe coloniali e degli obblighi di natura morale. È vero che l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, nella sua visita ad Addis Abeba, ha chiesto perdono agli etiopici per i crimini commessi dall'Italia fascista; e che l'allora capo del governo Massimo D'Alema, nel suo viaggio a Tripoli, sostando dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, ha esclamato: «Qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Ma queste chiare ammissioni di colpa non sono state seguite da gesti concreti. Mentre nel paese è tutt'altro che chiusa la lunga stagione delle amnesie, delle rimozioni, del revisionismo revanscista.
Mentre ad Axum accorrono i pellegrini festanti per venerare la stele restituita, sarebbe opportuno e molto significativo che in Italia si desse inizio a quel dibattito storico sul colonialismo, tante volte ostacolato o rimandato. Con il risultato che l'Italia repubblicana e democratica non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante
Milka ha 83 anni, l'espressione fiera e cammina incerta. Fa fatica quando sale sul pulmino, ma la maschera con una domanda: «dove stiamo andando?». E' quello che si chiedono molti qui, all'alba, nel campo nomadi di Foro Boario, quartiere Testaccio di Roma, dove i rom si stanno svegliando. Mentre qualcuno prepara il caffè altri guardano stupiti il furgone sul quale c'è scritto «Osservatorio Nomade di Roma», anche se quasi tutti sanno che si tratta di uno strano gruppo di artisti e amici che da qualche anno frequenta questo luogo mettendo in relazione storie e persone diverse che oggi partono insieme. Quelli dell'Osservatorio usano la loro arte per creare spazi di comunicazione e lo fanno soprattutto nei luoghi di confine, sul mare, lungo i fiumi, nei campi sosta, perché, spiegano, «in un mondo occupato quasi esclusivamente dalla solitudine mediatica è soprattutto lì che le persone si spostano con le loro vite e culture da raccontare e mettere a confronto». Cosa che ormai avviene sempre più nella marginalità in cui si muovono masse di immigrati e nomadi.
Anche per questo Milka sale sul pulmino dell'Osservatorio che, intanto, si riempie: ci sono Aldo, un altro rom, Osama, un operatore cinematografico egiziano, Matteo, Silvia e Lorenzo. E qualcuno risponde subito a Milka: «Stiamo andando ad Agnone». Lei sorride, guarda fuori dal finestrino e, con l'aria di chi la sa lunga, dice: «Ma sì, lo sapevo. Ci andiamo per raccontare. Perché io ci sono stata ad Agnone, tanto tempo fa. Ma allora datemi un po' di soldi». Tutti ridono e finalmente si parte.
Sconosciuto a torto
Agnone è un paesino arroccato sulle montagne del Molise, a nord fra Isernia e Campobasso, non molto conosciuto. Dovrebbe invece esserlo soprattutto per la storia che si trascina dietro da più di mezzo secolo: perché ad Agnone, durante il fascismo, c'era uno dei tanti campi di internamento italiani. Un campo in cui, almeno da un certo punto in poi, erano imprigionati soltanto «zingari».
Mentre la storia ufficiale è ancora lenta e ritarda a raccontarlo, lo fa Milka scendendo dal furgone, con i suoi 83 anni e la sua fatica, davanti all'ex convento di San Bernardino. Fa freddo, è stanca perché nel frattempo ha già parlato per due ore a un centinaio di studenti attentissimi, ma si incammina, decisa a ritrovare la memoria di quei luoghi e di quei tempi. E si arrabbia subito perché il cancello non è più lo stesso: «Non si entrava di qua, forse da là dietro», dice al sindaco e al professor Francesco Paolo Tanzi, che con le sue ricerche e i suoi studenti ha ricostruito tutta la storia di Agnone in un libro. L'edificio, una specie di cascinale fuori dal paese, a più di 800 metri d'altezza, adesso è un ricovero per anziane povere, prima e dopo la guerra era dei frati (ma il vescovo non ebbe dubbi a cederlo ai fascisti) dal 1940 al 1943 campo di concentramento. E, sicuramente a partire dalla seconda metà del 1941, c'erano rinchiusi solo rom e sinti di varie nazionalità: donne, uomini e bambini.
Dai documenti finora ritrovati si capisce che nel luglio del 1942 erano almeno 250 e che nel gennaio successivo era stata anche allestita una scuola per i bambini rom o, come si legge, per la loro «educazioneintellettuale e religiosa» che doveva «toglierli dalle loro abitudini randagie e amorali». «Io la scuola non me la ricordo», dice Milka un po' seccata, «però avevo già 18 anni quando sono entrata qua dentro. Ero con mio marito e i miei figli. E poi c'era tutta la famiglia, la mamma, mio padre, che è morto dalla fatica due mesi dopo che siamo usciti, il nonno e gli altri, zii e cugini miei e di mio padre. Due sono morti, li hanno portati all'ospedale di Isernia. Anche il nonno è morto e il corpo non lo abbiamo più visto. Insomma c'erano tutti i parenti stretti e poi altri rom. Eravamo più di 100. Noi Goman stavamo al piano di sotto e i Bogdandi sopra. E quando siamo arrivati molti erano già qui, dal Veneto. C'erano le guardie intorno e non potevamo mai uscire. La mattina facevano l'appello, come succedeva in Germania. Ma i nostri erano italiani. Però non chiedetemi che anno era, io gli anni non me li ricordo. Ci sarà ben scritto. So che qui sono diventata maggiorenne, ho compiuto 21 anni in questo posto, perché allora mi hanno dato il sussidio. Prima non me lo davano, mi davano qualcosa per il bambino che avevo al seno, ma morivamo di fame. Mio marito andava in cucina a rubare le bucce delle patate mentre quelli che avevano il sussidio qualche volta uscivano a comprare qualcosa. Con due carabinieri, uno per parte. Compravano anche dai contadini che venivano con le ceste di frutta. Ma noi non avevamo soldi. La mattina ci davano il caffè che era acqua e poi sempre la minestra con le patate e la bieta. E con i vermi. Tutti i giorni c'erano i vermi, verdi e grossi che mi viene ancora da vomitare. Ma dovevamo mangiare per non morire. Ci davano 100 grammi di pane e la gente cascava per terra. Li ho visti entrare come leoni e diventare scheletri. Un signore si metteva contro il muro per non cadere. Era un omone, è diventato come un pezzo di legno. Così ci avevano ridotto. Per fortuna non ci hanno fucilato anche se tanti sono morti».
Milka sa che i rom non erano solo ad Agnone. C'erano altri campi di internamento in Italia e c'erano altri prigionieri «zingari»: di sicuro, per quanto se ne sa fino a oggi, erano rinchiusi a Ferramonti in Calabria, in Sardegna, alle isole Tremiti, a Tossicia in Abruzzo, a Boiano e Vinchiaturo, altri due campi del Molise. In base a un ordine fascista del settembre 1940 i rom venivano rastrellati nei loro accampamenti, portati in carcere e nei vari campi: «A noi ci hanno preso in un prato vicino a Pisa - continua Milka - mi sembra fosse estate ma non chiedetemi quando perché se non ricordo bene io non dico niente. Stavamo in quel prato, molti lavoravano il rame, anche mio marito. Eravamo giovani con i nostri figli, ma sono arrivati i carabinieri, e ci hanno detto di lasciare tutto perché ci portavano in un posto migliore. Ma ci hanno portato con il treno fin qua giù, hanno aperto il portone e ci hanno buttato dentro. C'erano i letti di ferro, materassi vecchi e due coperte a testa. E i pidocchi dappertutto che per me erano la cosa peggiore: li vedevi anche sul pavimento, grossi, e ci toglievamo i pezzi di carne per grattarci. A me è venuta una malattia che avevo tutti i buchi sulla faccia. D'inverno faceva molto freddo, non c'era il riscaldamento e l'umidità era terribile. Ti marcivano le ossa. Ancora adesso cammino male e questo me lo sono guadagnato qua dentro».
Milka comincia a girare dentro l'edificio, cerca di ricordare e ritrovare la sua stanza. Cammina traballante e con le mani sempre davanti. Non riesce ad entrare, si aggrappa al braccio di chi le è vicino, guarda restando sulle porte e dice che ormai tutto è diverso. «Le stanze - ripete - le stanze, le stanze». Va verso un balcone ed esce: «Qui si veniva e guardavamo fuori. Stavo qui e guardavo», sospira. Poi va verso il cortile: «Ecco la fontana, questa è rimasta uguale. Sono arrivata a vederla. Mi tremano le gambe come una foglia». La fontana è di ferro battuto, al centro del cortile. Milka si siede per riposare un po'. E piange: «Per mio marito - dice - lui soffriva più di me e dopo la guerra non è mai stato bene. Il signore se l'è preso 25 anni fa. Ma sai come piangevamo quando siamo usciti di qua? Io ci sono stata 3 anni ma eravamo tanti, non solo italiani, anche tedeschi, jugoslavi e spagnoli, che la sera qualche volta suonavano. E' l'unico ricordo bello. Il resto è tutto buio. Un giorno sono arrivati i tedeschi, hanno spalancato il portone. Per fortuna c'erano i Campos, madre e figlio, che parlavano tedesco. Gli hanno raccontato come stavamo male e loro ci hanno aperto e ci hanno lasciati uscire. Lo so che i tedeschi hanno fatto male al mondo, l'ho visto alla televisione, eppure a noi ci hanno lasciato andare, senza mitragliarci. Siamo fuggiti subito, come fanno i conigli quando scappano dalle gabbie. Davvero - sorride - è la santa verità davanti a Dio. Poi abbiamo ricominciato a girare e battere il rame, abbiamo comprato un carrettino, anche un cavallino e siamo arrivati a Roma. Adesso voglio essere pagata per quello che abbiamo sofferto. Ora che ci sono i documenti c'è scritto, non si può più dire che non è vero».
Gli elenchi degli internati
Negli archivi della prefettura, infatti, il professor Tanzi ha trovato due elenchi di rom internati e anche altri documenti che raccontano la storia di Agnone. Milka chiede un risarcimento che le sarebbe dovuto. Come a tutti gli ex internati, come per qualcuno è stato fatto. Non per i rom, vittime negate prima ancora che dimenticate.
Un po' più tardi, nella sala del consiglio comunale, il sindaco di Agnone, Gelsomino De Vita, area centrodestra, le chiede ufficialmente scusa. Dice: «Io chiedo scusa a Milka, a Tomo Bogdan che era con lei e oggi è rimasto a Roma perché sta male, al marito di Milka che non c'è più e a tutti gli altri rom internati qui nella nostra città. Ci sono silenzi che pesano sul popolo di Agnone. Lo abbiamo capito tardi, ma oggi la cittadinanza vuole chiedere scusa. Se accetti, Milka, io ti chiedo scusa». E lei: «Ma prego, prego signor sindaco, non mi dica così, non faccia così. Io le sono riconoscente. Io però vivo in una roulotte che è grande come questo tavolo, con i buchi e non ho niente. Nemmeno la cittadinanza, solo il permesso di soggiorno. Sono ancora straniera, dopo la prigionia e più di 60 anni in questo paese. E non ho mai staccato uno spillo da una siepe, anzi ho tolto il pane dalla mia bocca per darlo agli altri. Qui ad Agnone sono stata male e non si guarisce più. Vorrei una sistemazione e forse lei, signor sindaco, può aiutarmi».
Milka chiede un posto dove vivere, e dice che con lei lo chiedono molti altri rom. Il sindaco risponde che la aiuterà e le consegna un attestato: oltre alle scuse c'è scritto che è cittadina d'onore. Lei, uscendo, dice che non sa leggere, ma «mi ha fatto piacere vedere dove ho sofferto». Nessuno ha parlato di fascismo e di responsabilità politiche, ma almeno, come voleva l'Osservatorio, qualcosa è stato fatto mettendo insieme persone e luoghi diversi, testimoni e documenti. Un atto di verità unico e importante per il nostro paese: il riconoscimento di una persecuzione che diventa strumento di conoscenza contro l'indifferenza e i revisionismi. E le scuse di una città a una donna rom che, con i suoi 83 anni, ha fatto un po' meno fatica a risalire sul furgone per tornare a Roma. Almeno per una notte.
Caro Piero, oggi si interrompe la mia esperienza nei Ds, dopo quasi trentatré anni di militanza. È un passaggio doloroso della mia vita che pensavo di compiere con più tranquillità e rivedendomi con te nei prossimi giorni, al mio rientro in Italia. Ma il gioco al massacro avviato da alcuni giornalisti - segnalo in particolare un articolo del Corriere della Sera - mi costringe ad accelerare i tempi e a chiarire la mia posizione. Un gioco al massacro che, comandato dalle leggi del mercato dell’informazione, neppure in un momento come questo ha rispetto per le persone e per le loro storie.
Da molti mesi, come chi mi sta più vicino sa bene, avevo maturato l’orientamento di far passare le elezioni regionali per compiere ciò che le mie convinzioni profonde mi dettavano. Non intendevo turbare in alcun modo un passaggio, quello elettorale, troppo importante in vista dell’alternativa a Berlusconi e alla destra. Il successo generale dell’Unione alle regionali, il brillante risultato dei Ds, l’esito positivo della lista Uniti nell’Ulivo e perfino i dati inferiori alle aspettative di Rifondazione, oggi mi permettono di essere me stesso arrecando il minor danno ai Ds e alla nostra causa comune.
La mia valutazione è infatti che questo risultato spalanchi le porte, oltreché alla probabile vittoria alle politiche, alla costruzione della Federazione come soggetto forte di centrosinistra. Non credo, come ti ho detto personalmente, che ciò comporti un’inevitabile deriva moderata dei Ds - ho anzi apprezzato, della tua relazione all’ultimo Congresso, gli aspetti più autenticamente socialdemocratici -. Temo piuttosto che si rafforzi l’illusione che basti l’unità della Federazione per reggere la sfida della coesione dell’Unione, e si rinunci ad un confronto vero e rigoroso tra riformisti e radicali facendo cadere steccati e pregiudizi.
La Puglia è stata la cartina al tornasole di questo problema politico. Ho sostenuto, a differenza dai Ds nazionali e regionali, Nichi Vendola fin dalle primarie - e anche allora sono stato oggetto di accuse e denigrazioni - convinto che fosse necessario mescolare riformisti e radicali, passeri e merli, com’è stato scritto, e che la distinzione tra posizioni dovesse andare oltre le categorie del Novecento. Oggi gioisco in particolare della vittoria pugliese perché si dimostra che non ero un visionario, e che era invece povera l’idea della politica fondata sullo schema della competizione tra simili al centro.
Questa vittoria dà anche a me una grande responsabilità. Non è un’eccezione, ma impegna a lavorare, oltreché su candidature vincenti com’è stata quella di Nichi, su soggettività nuove che vadano oltre le esperienze del passato (comunismo, socialismo, liberalismo democratico, centrismo, magari con una spruzzata di movimenti). È una sfida di lungo periodo. Ma urge cominciarla ora. È una sfida sui contenuti.
Con la minoranza di sinistra abbiamo cercato, esercitando fino ed oltre il limite il diritto al dissenso, di condizionare la politica prevalente nei Ds. Ma il catalogo di differenze programmatiche e culturali è molto ampio: dal rifiuto comunque della guerra e dell’uso della forza alla volontà di invertire i processi di privatizzazione dei servizi pubblici e in particolare dell’acqua, dal legame con la condizione salariale e democratica dei lavoratori alla nuova centralità della “questione morale” nell’Italia di oggi fino alla scelta strategica della democrazia partecipativa contro la personalizzazione autoritaria della politica e della decisione.
Riconosco a te e alla tua segreteria, osteggiata da un “partito nel partito” che fa di una concezione spregiudicata del potere e di una sostanziale indifferenza ai valori la propria identità, il merito di aver avuto determinazione nel perseguire una vocazione “riformista”. Oggi tu sei il vero protagonista, insieme a Prodi, del disegno “riformista”.
È allora indispensabile che tra le due rive - quella della purezza riformista e quella della purezza radicale - non venga meno il proposito di costruire un ponte, largo e solido, capace di mescolare culture ed esperienze. Altri compagni e amici lo continueranno a fare dall’interno dei Ds, o della Margherita. Ad essi mi continua a legare un sentimento profondo di comunanza.
Io preferisco, per propensione interiore - si può dire, parlando di politica, “spirituale”? - attraversare il fiume, stare sull’altra riva, provare ad aiutare a costruire il ponte da lì. È un ponte non solo tra le truppe della politica e della sinistra italiana, ma tra le persone, le vite, le esperienze individuali e collettive, con la convinzione che la società di oggi, il mondo odierno, la coscienza contemporanea richiedono di non essere pigri, di avere coraggio.
Non faccio un passo indietro. Una storia così lunga non si cancella, e il Pci, la Fgci, il Pds e i Ds mi hanno dato immensamente di più di quanto io abbia dato loro. Ma quella storia può vivere ancora sul ponte che costruiremo, nei rapporti da coscienza libera e indipendente che avrò con un partito, Rifondazione, in cui non entro ma che ha avuto il coraggio di rimettersi radicalmente in discussione. E quella storia vivrà se faremo diventare l’Unione la casa comune dei democratici italiani.
Tutto il resto - le insinuazioni di questi giorni e una non nuova campagna di demolizione personale - non mi tocca.
A te e a tutti i compagni e le compagne della Direzione e del Partito sento il bisogno di augurare buon lavoro e tanti successi.
Ora anche per me, ricordando il mio amico Tom e le tracce che ha lasciato, è tempo di rimettermi in cammino seguendo la mia ragione, i miei sentimenti, il mio istinto.
"Fidatevi delle mie intuizioni, siamo 4 punti sopra l'opposizione. L'economia mondiale è in ripresa e tutto sommato anche quella italiana va" (Silvio Berlusconi, la Repubblica, 27 ottobre 2004).
"Siamo 5 punti avanti ai nostri avversari. Io le cose me le sento dentro e il sesto senso mi dice che riconquisteremo la maggioranza senza tanti problemi. Forza Italia ha uno zoccolo duro del 20 per cento che non ci abbandonerà mai, poi c'è un altro 10 per cento dei nostro elettorato fluttuante, che stiamo già recuperando. Infine i sondaggi ci segnalano un ulteriore 10 per cento di incerti, i quali potrebbero essere attratti dal nostro messaggio" (Silvio Berlusconi, La Stampa, 23 dicembre 2004).
"Dopo la riforma fiscale, Forza Italia è sopra il 23%" (Silvio Berlusconi, 3 gennaio 2005).
"Siamo 3 punti sopra la Gad" (Silvio Berlusconi, Il Giornale, 26 gennaio 2005).
"La nostra sarà una campagna spirituale, siamo alternativi in tutto ai comunisti. Usiamo il libro nero del comunismo quando facciamo i comizi, è efficacissimo!" (Silvio Berlusconi, la Repubblica, 26 gennaio 2005).
"Vincerà chi avrà più voti nell'insieme di tutte le regioni, e sono convinto che questa parte sarà la Cdl. Le regioni più importanti confermeranno l'attuale governo di centrodestra, perché li si sono registrati concreti vantaggi per i cittadini. Sono convinto che la Cdl sarà vincente. Una regione in più sarà un risultato buono, due in più ottimo" (Silvio Berlusconi, Il Giornale, 13 marzo 2005).
"Ho nei cassetti dei sondaggi molto positivi che fanno sperare in un buon risultato. Spero che la sinistra non inquini i risultati" (Silvio Berlusconi, Il Giornale, 26 marzo 2005).
L’aggressione scatenata dall’Italia contro l’Etiopia nel 1935 come guerra 'coloniale' è in ritardo sui tempi, sostanzialmente ‘antistorica’, dichiarata in un’epoca in cui altrove in Africa già cominciano a mostrare i primi segni di crisi impianti coloniali ben più solidi e sperimentati.
L’impresa tuttavia è ritenuta da Mussolini un’utile carta da giocare sia sul fronte del prestigio internazionale che su quello interno, dove il recupero di antiche suggestioni imperiali diventa utile strumento di compattamento, soprattutto dopo i guasti causati dalla crisi del ‘29.
D’altro canto egli è anche consapevole - come in effetti ripetutamente dichiara - che la guerra debba essere rapida e, soprattutto, vittoriosa.
Il ricordo delle dolorose disfatte italiane in Africa è ancora vivo nel paese al punto da potervisi richiamare, nella fase preparatoria della guerra, come a un un’onta da cancellare: “vendicare Adua” diventa l’abusata giustificazione ma anche l’efficace spinta ideologica che fa del fascismo il vindice della débâcle dell’Italia liberale, legittimando per questa via la superiorità del regime, capace finalmente di realizzare l’antico sogno di annettere l’impero negussita riscattando l’onore del paese. Per altri versi nella memoria di Adua si raggruma anche un timore mai sopito nei riguardi di un avversario che, per quanto male equipaggiato, è numericamente imponente e può contare su una grande mobilità su un terreno impervio e difficile ma familiare. Anche per questa ragione, per non correre rischi, il regime non bada a mezzi, non lasciando nulla al caso e avvalendosi di una superiorità tecnica indiscutibile che include, pur di allontanare ogni possibilità di fallimento, anche il ricorso all’uso dei gas.
Al riparo dai controlli normalmente garantiti in un governo democratico (oltre che duce del fascismo e capo del governo, Mussolini all’epoca ricopre la gran parte delle cariche politiche: è ministro della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica, delle Colonie, degli Esteri, dell’Interno), e disponendo del controllo pressoché totale dei media anche come formidabile strumento di produzione del consenso (non a caso la guerra d’Etiopia, vanamente denunciata da fogli clandestini come “L’Unità”, diviene la più popolare delle guerre italiane), il fascismo può assicurare alla campagna d’Etiopia, e a chi militarmente la conduce, di godere di una totale copertura politica.
Già a partire dalla fase preparatoria della guerra, in un Promemoria segreto di Mussolini, si fa riferimento esplicito all’uso dei gas, prospettato come una normale necessità di guerra.
Datato 30 dicembre 1934 e inviato alle autorità politiche e militari dello Stato, dal documento emergono direttive e scenario dell’imminente guerra all’Etiopia e di una vittoria che si vuole “rapida e definitiva”. A questo scopo Mussolini precisa che si devono predisporre grandi mezzi. “[...] Superiorità assoluta di artiglieria e di gas. Più sarà rapida la nostra azione e tanto minore sarà il pericolo di complicazioni diplomatiche”.
E difatti durante il conflitto Mussolini autorizza, in una serie di telegrammi indirizzati ai generale Graziani e al Maresciallo Badoglio, rispettivamente comandanti del fronte meridionale e comandante superiore in Africa orientale, il ricorso a “qualunque mezzo”, facendo costantemente riferimento alla necessità di operare con la “massima decisione” ed esplicitamente riferendosi all’ “impiego gas qualunque specie et su qualunque scala” (Mussolini a Badoglio, il 29 marzo 1936) pur di piegare la resistenza etiopica, autorizzandone il ricorso anche “per ragioni di difesa” o per rappresaglia. Il duce sembra prendere in considerazione anche l’eventualità di ricorrere, se necessario, all’uso di armi batteriologiche, venendone dissuaso, tuttavia, da Badoglio.
L’uso delle armi chimiche e batteriologiche era stato proibito dal trattato internazionale di Ginevra del 17 giugno 1925 sottoscritto dal governo italiano, che tuttavia lo vìola, in occasione delle sue campagne africane, già in Libia, tra il 1923 e il 1930 (con i governatori De Bono e Badoglio), per piegare la resistenza delle popolazioni locali. Ma è con la campagna d’Etiopia che il ricorso all’uso dei gas da parte italiana si fa sistematico, come risulta esplicitamente da una nota dell’epoca, controfirmata da Mussolini, in cui risulta soprattutto la preoccupazione del regime di trovare possibili giustificazioni alle proprie reiterate e massicce violazioni del trattato di Ginevra, consapevole dell’impossibilità di poter continuare a celarle o negarle a lungo.
In realtà, nonostante le denunce immediate del governo etiopico e di buona parte della stampa internazionale, la consapevolezza del crimine mette in moto, a partire dagli anni del conflitto e fino ad anni assai recenti, una fitta rete di censure, silenzi, rimozioni ma anche di reazioni scomposte nei riguardi di chi cerca di far luce su quelle pagine di storia nazionale. “La guerra chimica - scrive G. Rochat - fu cancellata dalla stampa, dalla produzione documentaria e memorialistica e dalla coscienza popolare con un’efficacia che ha pochi precedenti”.
Ne è risultato, a livello di comune sentire, una sorta di addomesticamento della memoria di estrema efficacia nel rimuovere colpe e responsabilità che l’inaccessibilità degli archivi ha a lungo contribuito a sottrarre allo studio e alla ricerca.
E’ solo nel 1996, a distanza di sessant’anni dagli eventi e a seguito di polemiche durate decenni che, in risposta ad una serie di interpellanze parlamentari e ad un appello sottoscritto da buona parte degli storici italiani, il Governo italiano ammette ufficialmente attraverso il ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, l’impiego di bombe e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite e arsine in occasione della guerra d’Etiopia.
La recente apertura degli archivi militari ha consentito agli storici una prima stima che, senza pretesa di completezza, valuta in almeno 500 tonnellate il totale di iprite e fosgene utilizzato contro militari e civili etiopici in azioni effettuate anche negli anni successivi alla proclamazione dell’Impero.
Qui il link al Museo Virtuale delle Intolleranze e degli Stermini (f.b.)
Salò, una Legge contro la Storia-Appello degli storici
L’appello di numerosi storici italiani contro la legge sullo status di militari combattenti ai seguaci della Repubblica sociale italiana
La maggioranza parlamentare di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi ha portato in parlamento e sta per approvare il disegno di legge n.224, presentato dai parlamentari di Alleanza Nazionale, che in soli due articoli rovescia il senso della Resistenza e della contrapposizione tra i giovani che scelsero di lottare contro i tedeschi occupanti, il terrore nazista e i fascisti della «repubblica sociale» e quelli che all`opposto decisero di arruolarsi nelle file dell`esercito di Salò e combatterono per venti mesi contro i partigiani e gli alleati angloamericani.
disegno di legge stabilisce che ai soldati e agli ufficiali che militarono nell`esercito della «repubblica sociale italiana» deve essere riconosciuto lo status di militari combattenti equiparato a «quanti combatterono nei diversi paesi in conflitto durante la seconda guerra mondiale».
Si mette così sullo stesso piano la scelta di chi ha lottato e versato il proprio sangue per costruire in Italia la democrazia parlamentare e la giustizia sociale, e quella di chi non solo non ha rinnegato gli obiettivi politici e ideologici della dittatura fascista, ma ha ritenuto di poter condividere la visione hitleriana e razzista dell`Ordine nuovo nazista, simboleggiato dall`orrore di Auschwitz.
È il primo passo per ottenere che ai fascisti di Salò vengano concesse medaglie al valor militare e decorazioni per la battaglia sostenuta con i nazisti contro l`indipendenza nazionale dell`Italia, contro la democrazia e la libertà.
Invitiamo l`opposizione parlamentare e l`opinione pubblica democratica del nostro paese a reagire con tutti i mezzi per impedire che questo rovesciamento di valori sia sancito dal Parlamento e diventi legge dello Stato. Qui non si tratta, come é giusto, di rispettare i caduti di ogni colore, ma di difendere i valori della Resistenza e della lotta di Liberazione e i principi fondanti della Repubblica e della Costituzione contro una maggioranza che vuole sradicare le basi stessi della nostra convivenza civile e della nostra identità democratica.
Hanno già aderito all`appello
Daniela Adorni, Aldo Agosti, Bruno Anatra, Massimo Baioni, Francesco Barbagallo, Ornella Bianchi, Bruno Bongiovanni, Camillo Brezzi, Franco Carboni, Sandro Carocci, Carlo Felice Casula, Enzo Cervelli, Enzo Collotti, Pietro Corrao, Claudio Della Valle, Giovanni De Luna, Giancarlo Jocteau, Maria Ferretti, Vincenzo Ferrone, Roberto Finzi, Massimo Firpo, Patrizia Gabrielli, Marco Galeazzi, Benedetta Garzarelli, Raffaele Licinio, Fiamma Lussana, Sergio Luzzatto, Luisa Mangoni, Aldo Mazzacane, Brunello Mantelli, Guido Melis, Giovanna Merola, Giovanni Miccoli, Giovanni Murgia, Claudio Natoli, Adolfo Pepe, Rossano Pisano, Giuliano Procacci, Leonardo Rapone, Giuseppe Ricuperati, Maurizio Ridolfi, Giuseppe Sergi, Simonetta Soldani, Gianfranco Tore, Francesco Tuccari, Rosario Villari, Giovanni Vitolo, Albertina Vittoria
Chi vuole aderire all`appello può scrivere a Nicola Tranfaglia, Dipartimento di Storia, Università di Torino, via S. Ottavio 20 (email nicola.tranfaglia@unito.it).
Il 6 aprile 1941 l'esercito italiano e quello nazista invasero la Jugoslavia. La Slovenia viene smembrata fra Italia (il territorio che diventa provincia di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia il 18 maggio Aimone di Savoia, diventa re di Croazia, con il collaborazionista Ante Pavelic come primo ministro.
Le prime formazioni partigiane slovene iniziarono la loro azione nel luglio 1941, con effettivi molto limitati (vengono successivamente indicate in 8-10 mila). Il primo tentativo di annientamento del movimento di liberazione jugoslavo, con un'azione congiunta italo-tedesca, viene realizzato nell’ottobre 1941. Esso termina con un totale fallimento, malgrado l’uso sistematico del terrorismo verso le popolazioni civili, le stragi e la distruzione, le rappresaglie feroci verso i partigiani e le loro famiglie (solo a Kragulevac, furono fucilate 2300 persone).
Con l'inasprimento della lotta, i nazifascisti tentano una seconda grande offensiva, con 36.000 uomini. Scarsi risultati, moltissime vittime. I partigiani riescono a sfuggire al tentativo di accerchiamento.
La terza grande offensiva si svolge dal 12 aprile al 15 giugno 1942, sotto la direzione del generale Roatta. Ancora una volta grandi perdite, stragi e distruzioni: non viene raggiunto l'obiettivo di annientamento.
Intensificazione delle azioni contro guerriglia in Slovenia da parte delle forze del XI^ Corpo d'Armata (quattro Divisioni italiane, con l'aggiunta dei fascisti sloveni della "Bela Garda" (Guardia Bianca). Sempre feroci le azioni di terrorismo contro i civili e la deportazione delle popolazioni di intere zone, senza distinzioni di sesso e di età.
Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista
nei 4.550 Km quadrati di questo territorio:
Ostaggi civili fucilati: n. 1.500
Fucilati sul posto: n. 2.500
Deceduti per sevizie: n. 84
Torturati e arsi vivi: n. 103
Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento: n. 7.000
Totale: n. 13.087
In Slovenia, già dall’ottobre del 1941, il tribunale speciale pronuncia le prime condanne a morte, il mese dopo entra in funzione il tribunale di guerra. La lotta contro i partigiani, che diventano una realtà in continua espansione, si sviluppa nel quadro di una strategia politico-operativa rivolta alla colonizzazione di quei territori. Con l’intervento diretto dei comandi militari italiani la politica della violenza si esercita nelle più svariate forme: iniziano le esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico delle città, rastrellamenti… prende corpo il progetto di deportazione totale della popolazione, con il trasferimento forzato degli abitanti della Slovenia, progetto che i comandi discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio 1942 e che non si realizza solo per l’impossibilità di domare la ribellione e il movimento partigiano. Nel clima di repressione instauratosi con l’occupazione militare nel territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni.
In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 1942 (N. 08906), viene proposta la deportazione della popolazione slovena. "In questo caso scrisse si tratterebbe di trasferire al completo masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all'interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana".
I campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Solo nei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel lager di Arbe (Yugoslavia) ne morirono 1.500 circa. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche "zingari" ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.
A proposito ecco un documento del 15 dicembre 1942, in quella data l'Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati "presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame", sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo".
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di "briganti comunisti passati per le armi" e "sospetti di favoreggiamento" arrestati, in una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose; "Chiarire bene il trattamento dei sospetti, cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!".
L'ultima frase è sottolineata, il generale Robotti alludeva alle parole d'ordine riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:
"Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente".
E infatti furono migliaia i civili falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla "Provincia del Carnaro", dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Edizioni Kappa Vu, Udine 1997
Il libro è integralmente pubblicato in formato digitale nel sito http://www.cnj.it/foibeatrieste/, "per renderne accessibile la preziosa documentazione in seguito all'esaurimento di tutte le copie disponibili".
PREFAZIONE
Credo che il lavoro di Claudia Cernigoi sia una specie di lezione per la categoria di persone che si occupano professionalmente di storia, alla quale appartengo, che tanto scarsa prova di se hanno dato nell’affrontare la questione delle foibe. Mentre infatti paleo e neo revisionisti e fascisti, largamente finanziati da privati e istituzioni pubbliche, inviano i loro libercoli propagandistici a magistrati e scuole, dove poi vengono invitati - per ignoranza o peggio - a tener lezione sul “genocidio di italiani della Venezia Giulia”, gli storici professionisti “democratici.. (salvo rare e perciò ancor più apprezzabili eccezioni, che peraltro non trovano spazio sugli stessi media che ne offrono in abbondanza a Pirina & C.) non si degnano di affrontare seriamente la questione per mettere fine alle strumentalizzazioni, ma si dedicano, nel migliore dei casi, a girare attorno all’argomento e a dotte riflessioni su giornali e TV che generalmente giungono a
una conclusione comune: quanto fossero cattivi i comunisti, e gli “slavocomunisti” in particolare, e come le masse combinino orrori quando si muovono per modificare a proprio favore equilibri sociali ormai insopportabili. E nel fare tutto questo si danno sostanzialmente per buone cifre e tesi presentate dai revisionisti, limitandosi a formulare ipotesi sulle motivazioni dei presunti “massacri”.
Ma come biasimare gli storici “democratici”, se poi a scatenare l’ultima campagna propagandistica sulle foibe a livello nazionale è stata la “sinistra democratica” ora al governo! Essi in realtà non fanno che adeguarsi (con maggiore o minore convinzione) al clima della “pacificazione nazionale” (che partendo dalla comprensione per i fascisti arriva a farne dei martiri dell’”italianità”), finalizzata al ricompattamento politico della borghesia italiana e a fornire un supporto ideologico alla nascente Seconda Repubblica e alle sue mire da potenza regionale. Indirizzandosi queste mire in primo luogo verso obiettivi tradizionali, come l’Albania e le regioni confinarie slovene e croate, ecco rimessi in campo anche gli altrettanto tradizionali strumenti propagandistici e di pressione su Slovenia e Croazia, da sempre inscindibilmente legati tra loro: foibe ed esodo. E non si può non accorgersi di come le campagne stampa su questi temi preparino il terreno, con l’aizzamento dell’odio nazionale, a un eventuale energico intervento di “riparazione dei torti subiti”.
Il lavoro di Cernigoi, anche se affronta la questione foibe nel solo territorio della provincia di Trieste, era quindi più che necessario. L’autrice non nega la realtà delle foibe, né gli eccessi e le vendette personali, ma attraverso una ricerca rigorosa riporta il fenomeno fuori dal mito, presentandoci sull’argomento un lavoro agile, ma organico e completo. I risultati immediati del lavoro (presentato già in parte sul periodico La Nuova Alabarda) sono tutt’altro che disprezzabili (tenuto conto poi del fatto che i media locali ne hanno costantemente taciuto) avendo infatti costretto Pirina a ritirare “spontaneamente”dal commercio il suo “Genocidio” per correggerne gli “errori”. Ma è stata anche messa in serissimo dubbio l‘esistenza di infoibati in quella che è la foiba-simbolo di Trieste, quella di Basovizza (lo Šoht), dichiarata monumento nazionale non molti anni fa e sulla quale si svolgono ogni anno celebrazioni, alle quali partecipano autorità e picchetti d’onore militari.
I meriti maggiori del libro sono però due: l’aver affrontato la questione di chi e quanti fossero gli infoibati nella zona di Trieste e la ricostruzione, breve ma esaustiva, della storia dell’utilizzo propagandistico delle foibe. Il curriculum di squadristi, aguzzini, spie e altro, nonché la presenza tra gli uccisi di diversi sloveni, smentisce nel modo migliore la tesi degli infoibati uccisi solo in quanto italiani e chiarisce i veri motivi del fenomeno foibe.
Per quel che riguarda il numero degli infoibati si tratta di ristabilire semplicemente la verità storica - quella di un fenomeno limitato – di fronte alle cifre iperboliche letteralmente inventate dagli ambienti nazionalisti e (neo)fascisti.
La ricostruzione delle vicende dell’uso propagandistico del tema foibe dimostra come la cosa venga da lontano e come quella intorno alle foibe sia stata, e sia tuttora, una operazione di vera e propria “dezinformacija”, di guerra propagandistica, e lascia intravedere, per gli ambienti in essa coinvolti (X Mas), collegamenti con altre operazioni (per es. Gladio). E risulta molto più plausibile anche l’ipotesi che la costante riproposizione delle sparate propagandistiche sulle foibe faccia parte di un progetto politico molto più ampio (comprendente per esempio l’insediamento massiccio di esuli a Trieste) per mantenere alta la tensione nazionale in queste terre di confine.
Ed è proprio a partire da questo ultimo tema, che indica prospettive di ricerca tutte da percorrere, che vorrei fare alcune considerazioni generali più ampie. Contro il revisionismo, ormai divenuto dottrina semi-ufficiale anche della sinistra di governo, non serve a mio avviso cercare di difendersi, come fanno parte degli ex comunisti locali sulla questione delle foibe, vantando meriti patriottici e scaricando le presunte responsabilità sui comunisti sloveni e croati, facendo così il gioco di chi vuole ridurre tutto a contrapposizione nazionale, A mio avviso la sfida del revisionismo va accettata ritorcendogli contro i suoi stessi argomenti, come ha fatto l’autrice di questo libro, e abbandonando l’impostazione oleografica della Resistenza. La Resistenza non è stata infatti solamente lotta di liberazione nazionale, ma anche lotta per il potere da parte della classe operaia e delle altre classi subalterne.
Nella Resistenza c’era chi lottava per questi obiettivi e chi (per sua stessa ammissione) c’era entrato per impedire che tali obiettivi si realizzassero, se necessario anche con le armi e con l’aiuto dei fascisti, e riconsegnare il potere nelle mani di quella borghesia che il fascismo lo aveva finanziato e messo al potere. Come dimostra anche la vicenda delle foibe, i connubi con i fascisti sono continuati anche nel dopoguerra, tanto che lo stesso assioma secondo il quale la Repubblica sarebbe nata dalla Resistenza va messo in discussione, viste le persecuzioni dei partigiani comunisti e le stragi di operai e contadini attuate da quella stessa Repubblica (con largo ricorso a personale fascista) fin dall’immediato dopoguerra (per non parlare delle successive “Stragi di Stato”).
Alla luce di queste considerazioni e di quanto dice questo libro risulterà forse più chiaro come mai ogni anno rappresentanti ufficiali delle istituzioni repubblicane si rechino alla foiba di Basovizza ad onorare la memoria di “martiri dell’italianità” del tipo di quelli che ci descrive Claudia Cernigoi. Ed i primi a sentirsi offesi dal fatto che l’italianità venga rappresentata da “martiri” di tale risma, dovrebbero essere proprio quegli italiani che desiderano rispettare se stessi ed essere rispettati dai popoli vicini.
Sandi Volk
ricercatore storico
INTRODUZIONE
È da ormai cinquant’anni che l’immaginario reazionario si trastulla con il discorso del “genocidio” delle foibe, ma negli ultimi due anni il problema ha assunto rilevanza nazionale dopo la campagna stampa attivata intorno all'inchiesta sulle foibe condotta dal Pubblico Ministero di Roma Pititto e, più recentemente dall’estate del '96, dopo gli interventi non solo locali ma anche a livello nazionale dei vertici del P.D.S. che, in una malintesa logica di “pacificazione”, hanno raccolto gli inviti delle destre revisioniste che chiedevano, dopo il processo Priebke, anche «giustizia per i crimini delle foibe» [1]. Dopo questa pubblica “assunzione di colpa”, da parte del partito degli ex-comunisti (si noti però che queste “colpe” il P.D.S. le fa comunque ricadere su altri, non su se stesso!), anche i dibattiti e le discussioni sulla revisione della storia hanno preso nuovo avvio, ma questo problema lo approfondiremo in maniera più organica nell'ultimo capitolo.
Lo spunto per questa nostra ricerca ci è stato dato dalle dichiarazioni del PM Pititto, che intende chiedere il rinvio a giudizio per “genocidio” di un numero imprecisato di persone, e che ha più volte asserito che una delle “prove” basilari della sua inchiesta sono i libri pubblicati dal pordenonese Marco Pirina.
È appunto partendo da uno di questi libri di Pirina (il numero 4 della collana “Adria Storia” ovvero “Genocidio...”, che tratta anche della zona di Trieste), che abbiamo cercato di fare un po’ di luce su tutto ciò che in questi anni è stato detto a proposito (ed a sproposito!) sulle foibe.
Le pagine che seguono non vogliono essere un punto di arrivo ma un punto di partenza per fare finalmente luce sulla questione foibe, al di là delle facili retoriche, delle demagogie strumentali, degli pseudo-studi condotti finora solo da una parte politica, in funzione meramente propagandistica.
Noi non affronteremo il problema “foibe” né da un punto di vista politico né da un punto di vista etico: intendiamo semplicemente fornire dei dati di fatto (sui quali non v’è possibilità di intervenire polemicamente, perché si tratta appunto di fatti dimostrati) allo scopo di ritrovare le vere dimensioni di quello che viene spacciato come «genocidio di migliaia di infoibati perché italiani». In tutti questi anni a Trieste la destra ha continuato a perpetrare la propria ideologia facendosi forte della lotta contro gli «slavocomunisti infoibatori di italiani», mentre la sinistra non ha mai avuto la volontà di prendere in mano i dati sulle foibe per cercare di fare chiarezza, per ricercare la verità, per realizzare uno studio serio, basato su dati incontrovertibili e testimonianze attendibili e non su “voci” o “sentito dire”; uno studio che dimostri cosa effettivamente c’è e c’è stato nelle varie foibe; quanti siano realmente stati i morti e di questi quanti i militari, quanti i partecipanti ai rastrellamenti, quanti i membri della Guardia Civica, della Guardia di Finanza, dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e quanti i civili; e di questi quanti i collaborazionisti e via di seguito.
Lo studio che presentiamo vuole appunto fare chiarezza sulla storia delle nostre terre, vuole rendere giustizia ai morti di tutte le parti, finora strumentalizzati a scopo di propaganda; vuole mettere fine a quella continua creazione di elementi di tensione politica in un’area di confine delicata come la nostra e, oltretutto, potrebbe servire a liberare finalmente anche gli Sloveni e la sinistra tutta da quel senso di colpa che si portano dietro come “infoibatori”, accusa che viene loro mossa incessantemente da cinquant’anni senza che d’altra parte si tenga minimamente conto dei vent’anni di dominio fascista e snazionalizzazione forzata subita dai popoli “non italiani” e dei successivi anni di guerra con massacri feroci perpetrati contro le popolazioni dell’Istria, della Slovenia e di tutta quell’area che una volta veniva chiamata Venezia Giulia.
Le “prove” del “genocidio”
Gianni Bartoli, già sindaco democristiano di Trieste (noto come Gianni Lagrima dato che nei suoi comizi si metteva regolarmente a piangere ricordando le terre perdute d’Istria e Dalmazia), pubblicò nel 1961 il “Martirologio delle genti adriatiche-Le deportazioni nella Venezia Giulia e Dalmazia”, libro che raccoglie 4.122 nomi di “scomparsi” (dalle province di Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia...); questi nomi sono accompagnati da note biografiche che, pur nella loro incompletezza, possono servire, se lette con un minimo di fantasia e senso critico, ad inquadrare la realtà dei fatti. Dei militari, ad esempio, è spesso indicato il posto in cui risulterebbero dispersi (dispersi in combattimento, si badi bene, quindi non “infoibati”); le indicazioni riferite ai “civili”, invece, possono spesso essere d'aiuto per ricostruire la storia della persona scomparsa, che da un’indagine accurata può risultare completamente diversa da quella indicata da Bartoli [2].
Un altro discorso merita l’”Albo d’oro” [3] di Luigi Papo (che si autonomina “de Montona”, ma, visto che è nato a Grado e non a Montona, che è una cittadina dell’Istria, a noi viene voglia di chiamarlo “de Grado”...), il quale riporta (salvo errori di computo nostri, visto che lui non fornisce il totale), 20.712 nomi di morti tra Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia e non meglio identificate “terre irredente” (“Fronte russo”, “Fronte greco”, Corsica...), in un periodo storico che inizia con il 10.6.40, ed arriva fino a citare il generale Licio Giorgieri (ucciso dalle B.R. il 28.3.87) ed il militare Millevoi Andrea (ucciso a Mogadiscio l’1.7.93). E perché non, ci chiediamo noi, anche Pietro Greco, ucciso a Trieste dalla polizia il 9.3.85 oppure i giornalisti della RAI uccisi a Mostar e a Mogadiscio nel 1994 ?
Tra questi oltre ventimila nomi troviamo: tutti i caduti sui vari fronti della seconda guerra mondiale, i deportati nei lager tedeschi, i partigiani (mancano però sia Alma Vivoda, uccisa da un carabiniere a Trieste il 28.6.43 [4], che Pinko Toma’i’, fucilato ad Opicina dai fascisti il 15.12.41), i morti sotto i bombardamenti, nelle rappresaglie naziste, e le “vittime degli slavi” tra le quali spiccano perle come questa: «Ciurcovich Leonardo, da Borgo Erizzo (Zara), ivi ucciso il 9.8.40 per aver difeso la propria italianità di fronte ad elementi slavofili». Con quel cognome la vicenda ci pare contraddittoria...
Oppure quest’altra: «Serbo Eugenio, capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14.12.44 a Leitmeritz».
Ora, Leitmeritz è il nome tedesco di Litom’rice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin [5], praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificati “slavi” di cui parla Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco.
Nell’insieme il libro di Papo è un elenco di nomi e dati non sempre completi. Quanto alle introduzioni ed alle note, più che della solita becera propaganda nazional/fascista non si tratta. Giova forse ricordare che durante la guerra Luigi Papo si è reso responsabile di rastrellamenti in Istria; fu arrestato dai partigiani per i crimini di guerra da lui commessi e deportato a Prestranek in Slovenia, da dove però venne rilasciato. Importante elemento dei servizi d'informazione della Milizia repubblichina, collaborò, dopo la fine della guerra con i servizi alleati ed i neocostituiti servizi italiani, occupandosi, indovinate un po', di documentazioni sulle foibe... Logicamente non possiamo attenderci da lui informazione storica imparziale.
Tuttavia, pur con tutte le duplicazioni e le inesattezze presenti nei libri di Bartoli e di Papo, essi sono di gran lunga più accurati degli elenchi pubblicati nei libri di Pirina [6], che riportano anch’essi duplicazioni ed inesattezze (senza, tra l’altro, avere la scusante che potrebbe avere Bartoli e cioè che ai suoi tempi non esistevano i computer!), ed hanno inoltre il grosso difetto di non riportare la minima nota esplicativa ai nomi trascritti. Si tratta cioè di un mero elenco di nomi, a volte solo di cognomi, talvolta con l’indicazione della qualifica e della data di “scomparsa” (ma tali indicazioni, anche quando ci sono, spesso - come vedremo - non corrispondono al vero); in ogni caso, Pirina non chiarisce cosa possa essere successo a questi "scomparsi", limitandosi a scrivere “D” per deportato, “S” per scomparso, “I” per infoibato...; però non riporta alcun “R” (rimpatriato) se il “deportato” ha poi fatto ritorno, come in molti casi è successo. Tutto ciò serve solo a lasciar credere che tutti i deportati siano anche scomparsi facendo lievitare le cifre dei morti.
Neanche nel capitolo dedicato alle “foibe” Pirina dà prova di serietà, mescolando assieme “foibe” istriane e triestine, inserendo prima un ‘abisso di Semich’ e poi un ‘abisso di Semez’ nella stessa pagina, senza accorgersi (?) che si tratta dello stesso “abisso” e facendo poi una gran confusione tra i morti della foiba Plutone e quelli di Gropada. Vale la pena qui di citare il passo, perché è indicativo del modo di lavorare di Pirina:
«FOIBA DI GROPADA. Sono recuperate 5 salme. “...Il 12 maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di Gropada 34 persone, previa svestizione e colpo di rivoltella alla nuca. Tra le ultime Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari”».
A parte che Pirina non cita la fonte da cui ha tratto questi dati, va precisato in ogni caso che dalla foiba di Gropada furono recuperati 10 corpi di persone uccise in tempi diversi, e che, come vedremo nel Cap. III, Dora ‘ok (e non Ciok!) e Marega sono stati uccisi a Gropada nel maggio del ‘45, ma Zuliani e Zerial furono infoibati già a gennaio (erano due ex-partigiani.che si erano dedicati alla borsa-nera); ed infine Bigazzi (non Bisazzi!) e Mari sono stati uccisi e gettati nella Plutone (foiba che Pirina stranamente non nomina).
Ma appunto neanche Pirina è uno “studioso” imparziale. Presidente del FUAN (l’organizzazione universitaria neofascista) a Roma alla fine degli anni Sessanta, fu anche presidente del “Fronte Delta”, gruppo di estrema destra operante all’università “La Sapienza” di Roma. Per l’attività in questo gruppo fu incriminato per il coinvolgimento nel golpe Borghese; arrestato nel luglio del 1975 fu rilasciato un mese dopo e poi prosciolto, come tutti quelli coinvolti nel golpe. Alla fine degli anni Ottanta Pirina fonda a Pordenone l’associazione “Silentes loquimur”, e, grazie anche a finanziamenti pubblici, è riuscito a sfornare più o meno un libro all’anno sui temi dei “crimini” compiuti dai partigiani, testi di matrice tipicamente revisionista e comunque pieni di inesattezze e falsi storici.
Nella sua carta intestata si autonomina “Prof. Marco Pirina, deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace, Presidente Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes loquimur”, presidente Commissione Cultura comune di Pordenone” (quest’ultima parte, purtroppo, corrispondeva al vero, almeno fino alle recenti elezioni comunali).Ed è proprio dall’analisi del libro “Genocidio... Adria storia 4” di Marco Pirina ed Annamaria D’Antonio (edito dalla “Silentes loquimur”), che presentiamo nelle pagine seguenti, che risulterà evidente il metodo della falsificazione e del revisionismo storico seguito dai due autori.
CAPITOLO I
A TRIESTE LA STORIA NON COMINCIA IL 1° MAGGIO 1945
1.UN PO’ DI STORIA
Prima di addentrarci nella “ricerca” di Pirina dobbiamo parlare un po’ di storia, perché la storia di Trieste e della Venezia Giulia non è purtroppo molto conosciuta, neanche in zona, e spesso la gente tende a dimenticare che prima del 1° maggio del 1945 (giorno della liberazione di Trieste per mano partigiana) erano accadute un bel po’ di cose, la maggior parte delle quali di gran lunga peggiori delle peggiori azioni compiute nei 40 giorni di amministrazione jugoslava. Ma la maggior parte della gente, purtroppo, tende a dimenticare le cose avvenute prima, anche perché, come diceva il poeta Carolus Cergoly nella sua poesia sulla Risiera di S. Sabba: «Su, femo i bravi. / In fondo xe un brusar / Ebrei e Slavi» [1]. Così era la concezione mentale del triestino medio, che non visse male sotto il fascismo prima ed il nazismo poi, perché “non si occupava di politica”, innanzitutto, e poi era “italianissimo” ed “arianissimo”, ed in fin dei conti sotto il duce non ci mancava niente e poi i Tedeschi mettevano un po’ d’ordine ed in fin dei conti gli Slavi sono un popolo di bifolchi e gli Ebrei lasciamo perdere... così era, ma così, disgraziatamente, è ancora, almeno in parte.
A Trieste il nazionalismo italiano assunse delle connotazioni esasperate, con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista, già prima dell’inizio della prima guerra mondiale. I propugnatori di questo “ideale” furono gruppi irredentistici, legati soprattutto ad alcuni ambienti massoni ci cittadini. Tra gli “ideologi” di questo irredentismo troviamo Ruggero Timeus il quale, dopo essersi autodefinito “irredentista-imperialista”, “militarista e conquistatore” asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla... contro questi “ignari bifolchi” ...noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale... ma con l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama... nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...» [2]. Va precisato che nell’”Istria” Timeus comprendeva anche tutta la zona di Trieste, retroterra carsico compreso. Diceva ancora Timeus: «è dovere d’ogni popolo uccidere ogni imperialismo che non sia il suo», «noi accettiamo l’assioma germanico che la bontà di un’idea si dimostra con la forza» ed ancora: «l’italianità si afferma imponendola ai popoli stranieri. È questo un ideale che non si esaurisce che con la conquista del mondo».
Riteniamo a questo punto opportuno ricordare che al signor Timeus, propugnatore di simili “ideali”, è tuttora dedicata una via di Trieste...
Le idee di Timeus non erano solo sue, erano condivise da buona parte di quel movimento irredentista di cui si diceva prima, magari non in maniera tanto “estremista”, ma che comunque vedeva necessario stroncare i popoli slavi per fare spazio all’imperialismo italiano e che identificava nel plurinazionalismo asburgico il proprio nemico da eliminare.
Dopo la fine del primo conflitto mondiale le tappe della repressione “antislava” procedettero rapidamente: i soldati austroungarici prigionieri che rientravano a casa, soprattutto se slavi, vennero internati in campi di prigionia speciali e particolarmente duri, dove molti trovarono la morte per le privazioni e le malattie [3].
Come già nelle Valli del Natisone, dove la snazionalizzazione forzata della comunità slovena locale iniziò immediatamente dopo l’annessione al Regno d’Italia, così pure nella neonominata “Venezia Giulia” (composta dalle province di Trieste e di Gorizia, compresi i retroterra che oggi si trovano in Slovenia e l’Istria), sia nelle città che nelle campagne iniziarono subito le opere di snazionalizzazione e repressione. Già il 13 dicembre 1918 lo scrittore Sem Benelli, all’epoca capo dell’Ufficio Politico del Comando in Capo della Piazza Marittima di Pola, scrisse in un rapporto ufficiale: «le società politiche Jugo-Slave mantengono continuamente desto lo spirito di rivolta. Sono focolai che non hanno grande importanza ma che tengono gli animi sospesi ed a volte formano qual.che fanatico. Essi sono i piccoli Narodni Dom delle campagne. Si chiamano “Citaonce” ossia società di lettura... sarebbe opportuno sciogliere questi circoli politici... Anche il giornale Hrvatski List che nelle campagne è molto letto dai Croati, mantiene vivo il fermento Jugoslavo e la convinzione che l’occupazione italiana sia semplicemente provvisoria». L’originale del documento reca una nota manoscritta, relativamente al giornale: «farlo partire sempre con alcuni giorni di ritardo?» [4].
È dell' aprile del ‘19 invece la nota del commissariato civile di Pola in cui si comunica che delle 49 scuole croate (37 pubbliche e 12 private) esistenti prima dell’arrivo dell’Italia in quelle terre, 45 erano state chiuse, ma «era però necessario di provvedere acchè migliaia e migliaia di fanciulli non rimanessero, in seguito alla chiusura di tante e tante scuole, senz’alcuna istruzione. In esecuzione degli ordini del predetto Comando venivano perciò aperte scuole e giardini infantili con lingua d’insegnamento italiana anche in quelle frazioni dove non era ancora sistemata una scuola italiana provinciale e fu assunto il personale necessario» [5]. Queste direttive anticipano la famosa legge di riforma delle istituzioni scolastiche dell’ottobre 1923 (la legge Gentile) che sancirà la definitiva chiusura delle scuole di lingua non italiana (tedesche, slovene, croate) nelle nuove province del Regno d’Italia. «Nel corso dei cinque anni scolastici successivi, con l’uscita delle generazioni scolastiche precedenti, la lingua slovena sparì dalla scuola statale. Ciò significò la trasformazione di quasi 500 scuole elementari slovene e croate in scuole italiane» [6].
Trieste ha anche un altro primato: «il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla fondazione dei fasci in piazza S. Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), il fascio veniva costituito a Trieste» [7]. Cresce l’attività di violenza squadrista del neo-costituito partito fascista: nel 1920 a Trieste viene incendiato il centro economico, politico e culturale dei gruppi etnici sloveni e croati della città, il Narodni Dom, costruito all’inizio del secolo su progetto dell’architetto Max Fabiani, che ospitava al proprio interno una sede bancaria, un centro culturale, un albergo e la tipografia dei principali giornali sloveni, tra cui il quotidiano “Edinost”. L’edificio non verrà restituito, neppure dopo la Liberazione, alla comunità slovena della città ed oggi è trasformato in sede universitaria.
Tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, «incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” diretto da Alessi» [8], compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici (però vi furono violenze anche contro scolaresche e va citata la strage di Strugnano [9], del 19.3.21, dove i fascisti spararono dal treno contro un gruppo di bambini che giocavano, ne uccisero due e ne ferirono cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita).
Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto.
Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti, ogni speranza di democrazia era sparita dall’Italia.
Oltre le azioni squadristiche v'erano anche altri sistemi per attuare la “pulizia etnica”: ad esempio i dipendenti non italiani (Sloveni, Croati, Tedeschi...) delle amministrazioni pubbliche (ferrovieri, insegnanti, poliziotti...) vennero o allontanati mediante trasferimento in località all’interno del Regno, oppure addirittura costretti a licenziarsi [10].
Contemporaneamente inizia la “riduzione” in forma italiana dei toponimi e dei nomi e cognomi “stranieri” [11], in modo tale da cancellare, ove possibile, anche la memoria dell’esistenza slava in queste terre.
Contro queste azioni di pulizia etnica e di programmato etnocidio vi furono dei tentativi di resistenza, anche armata, compiuti con organizzazioni “segrete”, quali il T.I.G.R. [12] e l'organizzazione “Borba”, che agivano contro singoli squadristi o collaborazionisti, contro postazioni militari e contro le scuole, che erano diventate centri di snazionalizzazione. Queste attività portarono ad una repressione feroce, basti pensare che «su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell'inizio della vera lotta armata» [13].
Il 6 aprile 1941 l’Italia sferra l’attacco alla Jugoslavia, arrivando alla creazione della “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza, tanto che esistono documenti del comando superiore delle Forze Armate italiane che recitano: «il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”» [14] e «si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia...» [15]. Già i127 aprile del 1941, a Lubiana, si era costituito l’Osvobodilna Fronta–Fronte di Liberazione che, basandosi su un accordo interpartitico di lotta contro gli invasori italiani, tedeschi ed ungheresi, ed appoggiandosi ad alcuni militari jugoslavi non disposti ad arrendersi, sviluppò azioni di lotta partigiana fin dall’inizio contro gli occupanti, collegandosi anche con elementi attivi nel Litorale sloveno, cioè nelle province di Trieste e Gorizia.
Delle repressioni compiute dai fascisti in Istria, in Slovenia e nell’entroterra triestino e goriziano durante il secondo conflitto mondiale, stragi, incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio (che non erano solo tedeschi ma anche “italianissimi” come quelli di Arbe-Rab, in Dalmazia e di Gonars in Friuli), esiste ampia documentazione [16]; tanto per citare delle cifre: «Dopo il 1941 l’occupazione italiana e poi tedesca di ampi territori jugoslavi (vengono annesse all’Italia la “provincia di Lubiana”, capitale slovena e la Dalmazia occupate) è particolarmente feroce e provoca sino al 1945 nei territori adriatici (Litorale) tra gli Sloveni e i Croati ed anche tra antifascisti italiani complessivamente 45.000 morti, 7000 invalidi, 95.460 arrestati, internati e deportati in campi di concentramento italiani e tedeschi, 19.357 case distrutte totalmente e 16.837 parzialmente (per lo più interi villaggi), il tutto con atrocità in cui si distinguono sia italiani che tedeschi» [17].
Scrive Galliano Fogar [18]: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani". Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri... A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(...) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani...».
Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Čerovlje-Ceroglie, Vižovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mačkovlje-Caresana, Gročana-Grozzana.
Anche nella città di Trieste furono compiuti diversi eccidi di rappresaglia, di cui i più noti sono i seguenti: 3 aprile 1944: 71 fucilati al poligono di Opčine Opicina; 23 aprile 1944: 51 impiccati nell’edificio del Conservatorio di musica di via Ghega; 29 maggio 1944: 11 impiccati a Prosek-Prosecco; 18 settembre 1944: 18 ostaggi fucilati od impiccati; 21 settembre 1944: 5 fucilati della “missione Molina” [19]; 28 marzo 1945: 5 impiccati in via D’Azeglio; 28 aprile 1945: 20 fucilati al poligono di Opčine-Opicina. Ed abbiamo qui citato solo gli eccidi di maggior rilievo, senza contare i morti (dai 3 ai 5.000) della Risiera di S. Sabba, le migliaia di deportati nei lager tedeschi, sia Israeliti (tra cui gli 80 Ebrei prelevati dall’ospizio della Pia Casa Gentiluomo [20] ed i 25 prelevati dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste), sia militari che non avevano voluto collaborare con la Repubblica di Salò ne con il Reich tedesco, sia partigiani e resistenti che semplici civili.
Oltre a tutto questo bisogna ancora ricordare che se il 25 aprile, giorno dell’insurrezione di Milano, è considerato a tutti gli effetti l’anniversario della Liberazione in Italia, questa data non rappresenta la fine generale delle ostilità. Infatti in varie parti d’Italia s’è continuato a combattere fino ai primi giorni di maggio. I partigiani hanno liberato Trieste il 1° maggio, però i nazisti in città si arresero definitivamente soltanto al 2 maggio, dopo l’arrivo delle truppe neozelandesi e ad Opicina si combatté fino al 3 maggio.
Dice Diego De Castro nel suo libro sulla “questione di Trieste”: «Mentre per gli Alleati, la guerra era finita, gli Slavi avevano ancora dietro le spalle i1 97° Corpo d’Armata tedesco, forte di oltre 15.000 uomini che, se fossero stati portati in tempo a Trieste, avrebbero difeso benissimo la città, attendendo gli Occidentali. Ordini errati li tennero fermi e, dopo pochi giorni, si arresero» [21].
Evidentemente De Castro avrebbe preferito un po’ di nazismo in più, in attesa dell'arrivo degli “Occidentali”. Comunque da questa affermazione appare chiaro come nell’immediato retroterra di Trieste le forze tedesche fossero ingenti, motivo per cui l’Armata jugoslava aveva di che stare sul chi vive. Infatti a Lubiana (che dista una sessantina di chilometri da Trieste), gli scontri terminarono appena l’11 maggio 1945.
[L'Autrice analizza nelle successive pagine i comportamenti di tutti gli altri crpi italiani, dalla X Mas alle guardie di finanza]
CAPITOLO II
IL NOSTRO STUDIO
[L’Autrice illustra il metodo seguito, le fonti utilizzate ed elenca i presunti “infoibati” della provincia di Trieste annotando per ciascunol’esito dei risconti. Conclude il capitolo come segue]
Alla luce di quanto esposto finora si possono trarre intanto le seguenti conclusioni:
1) nella provincia di Trieste non si può assolutamente parlare di “genocidio” per 517 persone di etnie diverse arrestate per motivi politici e poi, alcune giustiziate altre morte di malattia nei campi;
2) non vi furono massacri indiscriminati: della maggior parte degli arrestati si sa che erano militari o comunque collaboratori del nazifascismo;
3) le persone realmente “infoibate” risultano essere una quarantina;
4) di processi contro gli “infoibatori” e persone accusate di “delazione” nei confronti degli “scomparsi” se ne sono svolti un’ottantina e non si possono riprocessare le persone per gli stessi reati, né processare altri per reati dei quali si sono già condannati i colpevoli;
5) se vi furono delle vendette personali, di questo non si può rendere responsabile un intero movimento di liberazione, né creare un caso politico che dura da cinquant’anni.
In quanto alle onoranze richieste per i “caduti delle foibe” (commemorazioni, erezioni di monumenti e lapidi, intitolazione di vie), visti i ruoli impersonati dalla maggior parte degli “infoibati”, personalmente ci rifiutiamo di onorarli. Si può provare umana pietà nei confronti dei morti, ma da qui ad onorare chi tradiva, spiava, torturava, uccideva, ce ne corre.
Una lezione si può, e si deve, a parer nostro, trarre da tutto questo: che quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del nazionalismo, dalla voglia di supremazia e prevaricazione di un popolo su un altro, dalla guerra imperialista, quando si lascia andare alla violenza, allora la violenza genera altra violenza fino a coinvolgere tutti, indiscriminatamente, chi ha iniziato la violenza e chi s’è dovuto difendere e magari è stato costretto a fare violenza a se stesso per riuscire a controbattere con la violenza alla violenza altrui.
Un’unica lezione bisogna dunque trarre da questi fatti: mai più nazionalismi, mai più violenze, mai più guerre; ed impari finalmente l’uomo, come diceva Brecht, ad essere un “aiuto all'uomo”.
Bisogna precisare innanzitutto che la “cultura” della “foiba” non ha proprio una matrice di sinistra. Troviamo infatti in un libro di testo in uso nelle scuole della regione durante il ventennio fascista questa poesiola molto educativa:
De Dante la Favella
Mia mama m’ha insegnà,
Per mi xe la più bella
Che al mondo ghe xe sta.
E per difender questa
E sovenir la Lega [1]
Convien che ognun s’appresta
A fare el suo dover.
O mia cara patria
Mio dolce Pisin [2],
Mio nono cantava
Co iero picin.
Me par de vederlo
Là in fondo al castel
Che sempre ‘l dixeva
A questo ed a quel:
Fioi mii, chi che ofende
Pisin, la pagherà:
In fondo alla Foiba
Finir el dovarà.
Non è questa propaganda slavocomunista, ci sembra...
Però abbiamo poi anche il vate Giulio Italico, al secolo Giuseppe Cobol (poi italianizzatosi in “Cobolli Gigli”), che pubblicò, nel 1919 (ben prima dell’avvento del fascismo, dunque), un libretto dal titolo “Trieste. La fedele di Roma”. In esso è contenuta la trascrizione dell’aulica canzoncina, anch’essa di evidente origine pisinota, che così recita:
A Pola xe l’Arena,
La “Foiba” xe a Pisin
che i buta zò in quel fondo
chi ga zerto morbin.
E a chi con zerte storie
Fra i piè ne vegnerà,
Diseghe ciaro e tondo:
Feve più in là, più in là.
Questa è dunque la tradizione culturale che ha portato al fenomeno “foiba”. Non ci risultano canzoni partigiane, slave o italiane che siano, che facciano l’apologia della foiba [3].
Va anche riferito che più volte furono i fascisti a gettare nelle voragini persone ancora vive, persone “colpevoli”, magari, solo di essersi fatte scoprire a dire qualche parola in sloveno o croato; così come risultano, dall’archivio dello Stato civile triestino [4], diverse persone “infoibate da forze nazifasciste” durante la guerra. Bisogna ricordare che molto spesso i partigiani celavano nelle foibe i corpi dei propri compagni caduti in combattimento, per evitare che fossero trovati dal nemico, identificati e di conseguenza le loro famiglie fossero oggetto di rappresaglie.
[ Il testo prosegue con la puntuale descrizione delle diverse foibe, dei corpi rinvenuti e degli eventi in seguito ai quali essi vi furono gettati. Il capitolo successivo è dedicato a un’analisi delle “Inchieste” che si sono succedute. in appendice sono riportati docmenti ufficiali]
La memoria delle foibe è atroce e sessant’anni dopo continua a lacerare gli animi. Se si decide di dire la verità bisogna farlo con coraggio, senza nulla temere, senza ambiguità, senza nascondere o mascherare quel che accadde. È necessario dire tutto senza fini di parte evitando di adoperare quei fatti per trarne vantaggi politici. Il ministro Gasparri, di cui è nota l’eleganza del pensiero e dell’azione, ha dato dell’infoibatore (Il Piccolo, 30 gennaio), a chi critica la strumentalizzazione dei crimini commessi dai partigiani di Tito.
I quali, mossi da odio ideologico e nazionalistico, gettarono nelle foibe del Carso migliaia di avversari politici, non soltanto italiani, non soltanto fascisti.
Claudio Magris, limpido scrittore, conosce meglio degli altri, uomo di frontiera qual è, il valore della moderazione, capace di tutelare quanti temono il mondo ostile di là dalle mura. Davanti alle affermazioni del rozzo ministro il quale, con quelle parole, confessava in sostanza il suo ruolo di strumentalizzazione, Magris ha reagito con severità inconsueta ( Corriere della Sera, 1 febbraio), anche perché ha vissuto e sofferto quel dramma e ne ha scritto spesso e sempre senza paraocchi.
Ha fatto una lezione al ministro e a quanti rovesciano la realtà per fini non nobili. Ha sottolineato la cecità e l’abuso dell’estrema destra che ricorda quei delitti soltanto per rinfocolare i propri rancori razzisti antislavi. Ha criticato il calcolo opportunista di tanta sinistra italiana che per macchiavelleria ha cercato in passato di ignorare, dimenticare e far dimenticare la tragedia delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata affinché non si parlasse delle responsabilità del comunismo. Ha alzato la voce contro i moderati che hanno avuto tutte le possibilità di esprimersi e sono stati invece zitti. «Fino a pochi anni fa, ha scritto Magris, parlare delle foibe non serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie. (...) Si conosca e si sappia la storia dele foibe. Ma che oggi la destra al potere - erede di quella colpevole della nostra catastrofe nella Seconda guerra mondiale e della mutilazione dell’Istria - usi le foibe per difendere il proprio potere è una bestemmia. Usare oggi le foibe contro la sinistra italiana di oggi è indegno».
Se non si fa uno sforzo anche scolastico di ripensare quel che accadde nel Novecento in quella che fu definita la polveriera balcanica, dall’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando che provocò lo scoppio della Prima guerra mondiale ai guasti del fascismo alla Seconda guerra mondiale al dopoguerra a oggi non si riuscirà mai a servire la verità. È necessario almeno partire dal fascismo, ripensare alla cancellazione dei diritti delle minoranze croate e slovene nelle terre italiane. E poi all’invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941. Altro che «italiani brava gente». La 2ª Armata comandata dal generale Roatta, si comportò spesso con la ferocia mutuata dai nazisti. Per le atrocità commesse il generale finì negli elenchi dei criminali di guerra. La provincia di Lubiana fu allora annessa all’Italia, fu creato il regno di Croazia dove fu spedito a regnare persino un re nostrano, Aimone di Savoia Aosta, Zvohimiro II.
In un piccolo prezioso libro di Guido Crainz, storico e conoscitore della società, Il dolore e l’esilio, appena uscito da Donzelli, è riportato un documento davvero impressionante, la circolare 3C del generale Mario Roatta (1 marzo 1942), «che prevede di incendiare e demolire case e villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione. Il suo spirito è riassunto da Roatta nella massima: “Non dente per dente, ma testa per dente”. In base ad essa si disponeva l’arresto, la confisca dei beni e l’internamento per le famiglie da cui mancassero dei membri: sospetti, quindi, di essersi uniti ai “ribelli”» (...) «Occorre distruggere i paesi e sgomberare le popolazioni», ribadisce Roatta nell’agosto 1942 ai comandanti di corpo d’armata. E il generale Robotti, sempre nell’agosto del 1942, dà queste indicazioni ai comandanti di divisione che ha convocato: «Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Ricordarsi che per infinite ragioni anche questi elementi possono trasformarsi in nostri nemici. Quindi sgombero totalitario. Dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei. Quindi paghi». E poi: «Lo stesso generale in quel tempo annotava su un documento: “Si ammazza troppo poco!” E ancora: “Gli uomini non sono nulla e l’unica cosa che conta è il Paese e il suo prestigio, assieme a quello del regime».
Mussolini, a Gorizia il 31 luglio 1942, parla in questo modo: «Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro ed il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. (...) È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate. Questa popolazione non ci amerà mai».
Almeno in questo Mussolini vede giusto. Bastano i pochi documenti citati a far capire che cosa è successo in quel magma incandescente: non vogliono di certo servire ad alimentare giustificazionismi di maniera per le atrocità commesse poi dai partigiani comunisti di Tito e per le loro vendette. Vogliono semplicemente esser utili per cercare di capire gli snodi degli avvenimenti.
Nel 1943 esplode una rivolta contadina parallela alla guerra partigiana. Le vittime non sono soltanto i fascisti, ma tutti coloro che fanno ricordare l’amministrazione italiana odiata per il suo fiscalismo, per le sue vessazioni poliziesche. I connotati etnici della rivolta e di quelle terribili morti si saldano allora con motivazioni sociali. Nel 1945 le vittime sono soprattutto i militari di Salò, ma vengono perseguiti e uccisi nelle foibe dai titini anche gli antifascisti del CLN che disturbano l’egemonia comunista. E con loro tutti quanti rappresentano una qualsiasi autorità, segretari comunali, maestri, farmacisti, postini, guardie campestri. Italiani.
Scrive Crainz, studioso che esce dai nudi schemi di molti compilatori di vicende umane, pieno di curiosità nei confronti delle culture e degli stili di vita che gli servono a dar corpo alla storia, come furono tragici, in quelle terre, gli anni dal 1941 al 1945. Segnati dai difficili rapporti tra la Resistenza jugoslava e quella italiana, dalle decisione di Tito di occupare e di annettere Trieste e tutta la Venezia Giulia, «dalla sostanziale subalternità dei comunisti italiani rispetto a quella volontà, pur tra oscillazioni e contraddizioni». Sullo sfondo di una guerra aspra tra gli eserciti nazifascisti affiancati dagli ustascia di Ante Pavelic e l’armata partigiana di Tito.
Marco Galeazzi, su l’Unità (2 febbraio), ha elencato gli storici, non pochi e di prim’ordine, che nei decenni hanno studiato in modo approfondito la questione istriana, le foibe, il comportamento del Pci. Tra gli altri, Giovanni Miccoli, Galliano Fogar, Giampaolo Valdevit, Roberto Spazzali, Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste che ha scritto molto su questi temi nel corso del tempo e ha appena pubblicato un libro importante, Il lungo esodo, (Rizzoli), accentrato soprattutto sull’abbandono delle proprie case e delle proprie terre, tra il 1944 e la fine degli anni 50, di 250mila italiani di Zara, Fiume, delle isole del Quarnaro, dell’Istria diventate jugoslave.
Tutto questo per dire che esistono opere scientifiche di livello alto, esistono i documenti. Quelli dell’Archivio del Pci depositati presso la Fondazione Gramsci e quelli dell’Archivio dell’ex polizia segreta jugoslava, l’Ozna, aperti nel 1990. Libri e documenti, ma come confinati anch’essi perché la sanguinante questione istriana non è mai diventata, per ragioni non soltanto politiche, una questione nazionale. E dobbiamo così ascoltare il linguaggio analfabetico e oltraggioso di un ministro della Repubblica e dei suoi disinformati seguaci.
Svezia, la tv di Stato si fa lo spot : "Non siamo come Berlusconi"
la Repubblica del 17 febbraio 2005
Per farsi pubblicità, e sottolineare la sua indipendenza e obiettività, la televisione di stato svedese Svt usa l'immagine di Silvio Berlusconi. In un filmato breve, che va in onda in questi giorni e si può vedere anche sul sito dell'emittente, sfilano alcune riprese di Berlusconi che saluta la folla o che appare su decine di video contemporaneamente. Il sottofondo musicale è il mandolino tipico della peggiore iconografia dell'italietta, con le note ovvie di "O sole mio".
Ad accompagnare le immagini una serie di scritte: "In Italia, il 90 per cento dei mass media è in mano a Silvio Berlusconi", "Dopo intensiva campagna elettorale (grazie ai propri mezzi di comunicazione) vince le elezioni" ", "Ora è anche presidente del consiglio" e per finire: "Svt: noi siamo una televisione libera".
La televisione svedese non sottolinea solo la concentrazione dei mezzi di comunicazione in mano al presidente del consiglio, ma anche la qualità dei programmi. Le riprese di Berlusconi, che saluta sorridente, sono alternate a quelle di ballerine poco vestite nei varietà italiani.
.Due episodi rinfocolano gli spiriti animali d´una destra belluina o lassista secondo i rei. Nel giudizio abbreviato contro imputati d´associazione terroristica un giudice si dichiara incompetente ma revoca la misura cautelare dissertando sulla qualità dei fatti, e sbaglia perché tali decisioni spettano all´organo competente. Nel secondo caso vengono alla sbarra delle nomadi: l´accusa è tentato sequestro di persona ma, dicono i resoconti, manca quel commencement d´exécution fuori del quale non esiste tentativo; le parti pattuiscono una pena d´otto mesi, sospesa, sotto il titolo "tentata sottrazione d´una persona incapace"; e il tribunale l´applica; senza quest´accordo m´aspetterei una condanna per minaccia (massimo 1 anno) o tentato furto con strappo (minimo 1 anno, massimo 6, diminuiti da uno a due terzi); se la minaccia fosse seria ("la borsa o il bambino"), il nome penale sarebbe estorsione (da 5 a 10 anni); e l´ipotesi ripugna a una clinica aliena da iperboli azzardose. L´esito sta dunque nelle regole: gli accordi sulla pena non sono un trucco curialesco; li codificano gli artt. 444-48. Ma l´Italia al governo freme. L´ingegnere padano succeduto ad Alfredo Rocco racconta d´avere perso il sonno, mentre galoppini del suo partito allestiscono fiaccolate, indi spiega quale sia la missione delle toghe: emettere responsi conformi al "sentimento popolare" d´un "dato momento storico"; l´attuale richiede "pene esemplari"; e inutile dirlo, sensibilità nel distinguere le persone; l´ancora influentissimo ex-ministro della Difesa, sodale del quasi padrone d´Italia, merita riguardi indulgenti, compensati dalla mano dura sui rifiuti sociali, nella cui compagnia cade de iure chiunque pensi storto. Infatti, vuole un pubblico ministero eletto dal popolo; e nella Casa delle cosiddette libertà è dogma l´ufficio d´accusa ancorato al governo: lo chiamano eufemisticamente "carriera separata".
A proposito d´eufemismi, ne alleva tanti il Terzo Reich, dove la Judenfrage, questione ebraica, richiede un´Endlösung, soluzione finale, e "il lavoro rende liberi", scritto sulla porta d´Auschwitz: nel cui anniversario, 27 gennaio, appare sul posto anche il mago d´Arcore; depone un lumino, poi borbotta qualcosa; il senso è che l´odio sia orribile; dobbiamo estirparlo dai cuori, bellissimo pensiero, se non suonasse ad hominem. L´Unico recita sé stesso anche lì, impenitente. La frase va intesa al lume d´altre sue: «io sono il bene»; dove governa lui, fiorisce l´amore; gli avversari portano «miseria, terrore, morte»; «la democrazia è in pericolo». Mi sono permesso la digressione perché sta a pennello: l´ignaro ministro ripete in dialetto padano stereotipi tedeschi anni Trenta e Quaranta; "il sano sentimento popolare" era un Leimotiv della dottrina penalistica politicamente corretta. Anche lo stile segnala vaghe parentele: adunate, rune, camicie, elmi, spade, riti fluviali; sangue e terra, parole d´alto appeal; e come talvolta avviene nei ricorsi della storia, la tragedia diventa farsa, ma il ridicolo nasconde dei pericoli. Non è puro caso che nel secondo governo B. un soi-disant celto sieda in via Arenula: i gangli delle società evolute passano attraverso la funzione giusdicente; il riconquistatore voleva impadronirsene; l´opera richiede una scure manovrata da qualcuno sulla cui pelle gli argomenti in lingua colta scivolino come acqua tiepida; un ignorante dei rudimenti legali era il devastatore giusto. Sa scegliersi gli uomini.
In 44 mesi il crociato dell´amore affonda l´Italia agli ultimi posti nella scala dei paesi usciti dall´economia tribale, ma nelle riforme senza spese combina mirabilia: dovendo salvarsi dai giudizi che trascina, dissesta i codici; siamo l´Eldorado dei falsari in bilancio, bancarottieri, corruttori; l´imputato abbastanza ricco da pagarsi le ugole complica i processi finché i reati cadano estinti dal tempo, quando non esce trionfalmente, avendo fulminato le prove d´accusa con varie chicanes; privilegi parlamentari garantiscono de facto l´immunità penale; qua e là erompono i brulichii del malaffare organico; Stato e mafia coesistono, insegna una massima del realismo politico. Siamo ancora ai primi passi. Gl´insediati nel Palazzo sono baroni, infìdi, qualcuno riottoso ma infine ubbidienti: il sovrano li soverchia; e riformando l´ordinamento giudiziario, elaborano l´arnese d´un controllo ad unguem. Saremo tutti sudditi quando le procure dipendano dal ministro e la carriera dei giudici sia in mano al governo soperchiatore. A che punto stia la metamorfosi dello Stato in Signoria, lo dicono certe cautele: qualche avversario troppo astuto teme le opposizioni nette presupponendo un B. egemone, vita natural durante, o almeno fortissimo, interlocutore più che legittimo e magari utile; poi verranno i diadochi, come dopo Alessandro. Coesisteremo col berlusconismo, meno facilmente di quanto avvenga rispetto al potere mafioso, perché l´impero d´Arcore ha più denti e squame. In politica regna il diavolo, insegnava Lutero. Torniamo al rude parlatore che custodisce i sigilli. Se è lecito qualche riferimento storico, dal ridicolo al terribile, i battaglioni padani stanno a B. come le SA inquadrate da Ernst Röhm stavano al Führer, con una differenza importante: nel giugno 1934 Hitler stermina i quadri alti volendo acquisire gerarchie militari, industriali, finanzieri, burocrati, ai quali riesce ostica l´aggressiva volgarità dei miliziani; stupidi, s´illudono d´addomesticare Kniébolo, come lo chiama Ernst Jünger. Cadono 400 e più teste, inclusi alcuni estranei da liquidare nell´occasione (a esempio, l´ex presidente del consiglio generale Kurt von Schleicher e consorte). Dieci anni dopo, fortunosamente scampato alla bomba nella Tana del Lupo, riconosce l´errore. Non credo che B. lo ripeta. Gli viene troppo utile il braccio leghista negli equilibri interni.
È sintomo d´imbarbarimento che i dominanti vogliano una giustizia servile, feroce nel piccolo in spregio alla legalità, riguardosa verso i potenti. Speriamo che la neoplasia s´arresti. L´Italia futura dipenderà in larga misura dagli affari giudiziari. La sogno così: governi efficienti ai quali nessuno debba insegnare il self-restraint, perché sanno fermarsi; un Parlamento dove il malaffare non trovi asilo; regole inflessibili a tutela della convivenza civile, dall´antitrust ai conflitti d´interesse, sicché la bulimia berlusconiana non sia più nemmeno pensabile; partiti antagonisti nelle scelte contingenti, concordi su poche premesse capitali; giustizia equanime, indipendente, rapida, secondo norme conformi alla migliore cultura, altrettanto bene applicate, da giudici sopra la mischia, in un lessico nel quale non fioriscano più ermetismi ma le parole dicano quel che uno pensa, ridotte al minimo compatibile con l´esigenza del dire tutto l´importante; insomma, motivazioni trasparenti, meglio se lette subito, quando l´autore esce dalla camera di consiglio. Costano poco le fantasie e aiutano a vivere.
A metà degli anni, novanta una giovane laureanda in storia, Vera Costantini, militante di Rifondazione, discutendo di politica se ne è uscita all’improvviso – una espressione quasi invidiosa – con un “fortunato te che hai fatto la Resistenza”[1]. Ho rimuginato nel tempo questa frase per una certa sua ambiguità – è proprio “fortuna” partecipare ad una lotta armata, per quanto la scelta sia volontaria? – ma insieme anche per la voglia che esprime di essere partecipe di processi storici fondanti, in critica aperta al tronfio pret-à-porter politico attuale. E alla fine anch’io debbo riconoscere di essere stato “fortunato” per aver partecipato alla Resistenza. Il primo salto, o passaggio, esistenziale e formativo è stato per me nella scuola, ma quello decisivo – ha dato il senso ai miei anni giovanili – si è attuato proprio nella Resistenza a cui è seguta naturaliter la “scelta di vita” nella militanza a tempo pieno nel Pci che poi ha dato significato a tutta la mia esistenza, anche quando ho partecipato, sin dagli anni sessanta e da sinistra, alla ricerca critica interna.
Mi sono deciso a scrivere ora queste note strettamente autobiografiche – cronaca[2] più che storia – perché alcuni amici, in particolare Mario Isnenghi, mi hanno fatto una certa pressione e anche perché, di questi tempi in cui la memoria fa troppo difetto per i miei gusti, mi pare giusto testimoniare su quello che, negli anni giovanili, mi ha animato e indotto ad agire. Rammento bene che una volta – a Turcato che mi mostrava una ennesima versione di uno dei suoi scritti memorialistici sulla Resistenza veneziana – ho chiesto se non gli sembrasse finalmente giunto il momento di por fine a tale tipo di scrittura per cominciare ad occuparsi invece di ricerca storica più approfondita e che mi ha risposto che anche la sua era ricerca storica, che anzi tale ricerca cominciava proprio da lì: non aveva tutti i torti e la mia tardiva ammenda, almeno in parte, s’invera in questo testo autobiografico. L’ho scritto poi anche perché i miei nipoti Federico e Donata, quando avranno qualche anno di più, possano leggere pagine dirette del loro nonno di quando era studente e partigiano.
L’arresto
Il 10 aprile 1944 – un lunedì di Pasqua – sono stato arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana (Gnr): nel pomeriggio un milite in borghese è venuto a casa mia, a S. Elena, invitandomi ad andare subito con lui in caserma per “chiarimenti”. Non si atteggiava a duro: non ha risposto negativamente alla mia richiesta di passare da un amico per ragioni di scuola: volevo informare Eugenio Pignatti – facevamo insieme attività propagandistica – della cosa capitatami per metterlo in guardia. Ma a casa sua mi hanno detto che era stato prelevato la mattina (ma nessuna della famiglia era venuto ad avvisarmi) e la stessa sorte, saprò dopo, era capitata anche a Cesare Dal Palù e ad Alberto Capisani, sempre del nostro giro di studenti. Era così evidente che non si trattava tanto di un “chiarimento”, ma di un problema ben più serio.
Abbiamo attraversato tutta la città a piedi sino ad una caserma all’Angelo Raffaele, il milite sempre bonaccione. La Riva degli Schiavoni era inondata di sole, c’era molta gente per il giorno di festa. Ho pensato di fuggire nella confusione – vi era più di una possibilità – ma ho riflettuto anche che non avrei saputo dove andare: eravamo senza piani di fuga, anche per andare in montagna (erano saltati i contatti dell’autunno precedente attraverso cui avevamo mandato gente nelle formazioni, fra cui anche un mio amico). La clandestinità totale – al momento e in città – mi sarebbe stata praticamente impossibile per mancanza di un rifugio e di collegamenti per cui la prospettiva avrebbe potuto essere anche peggiore.
Ero in un momento di passaggio nella mia partecipazione alla Resistenza: dal gruppo di studenti con cui avevo operato sinora, ma con il limite dell’improvvisazione e della faciloneria, all’organizzazione comunista, con Giuseppe Turcato. Un mese prima, ai primi di marzo, gli avevo chiesto infatti di aderire al Pci: se ci dovevano anche essere tempi d’attesa per via della candidatura che tutti i nuovi dovevano fare – così erano le regole –, limitato era stato pure il periodo per inserirmi nel nuovo contesto. Non mi sembravano possibili, dunque, vie di fuga in queste condizioni. Tuttora resto convinto di non aver ragionato male, anche col senno di poi.
All’Angelo Raffaele – senza chiedermi o dirmi nulla – mi hanno messo in una cella non molto grande, con un tavolaccio che occupava metà dello spazio: avevo freddo e facevo fatica a deglutire, ho dormito poco. Alla mattina presto – ma non avevo orologio – è venuto uno in borghese a prendermi. Saprò dopo che si trattava di Ernani Cafiero ‑ scherano di Waifro Zani, l’ufficiale della Gnr addetto agli interrogatori degli antifascisti, entrambi condannati a morte, dopo la Liberazione, dalla Corte d’assise straordinaria di Venezia [3] ‑: aveva una rivoltella in mano (se ricordo bene una P 38 tedesca), allo scoperto, e mi ha detto freddamente “attento che sparo, senz’avviso” [4]. Mi ha condotto, sempre a piedi, a Ca’ Giustinian, sede della Gnr dove Zani aveva il suo ufficio. Ho il preciso ricordo di aver visto, durante il tragitto, sui muri, i manifesti di Ossessione di Luchino Visconti al San Marco (o al Rossini): ne avevo sentito parlare da alcuni miei amici come di un film assolutamente da vedere. Intanto, di passaggio, in una stanza avevo intravisto Pignatti, ma non ho potuto parlargli. Al mio turno, Zani – una rivoltella sul tavolo – ha cominciato l’interrogatorio.
Durante la notte avevo pensato a questa evenienza e al come dovevo o potevo farvi fronte. Saprò solo dopo che nell’organizzazione comunista il metodo era quello – per principio – di negare tutto, anche l’evidenza: ma allora nessuno me l’aveva detto e io non avevo la minima idea di cosa significasse la militanza comunista, il tribunale speciale, le condanne a vent’anni o trenta, il confino, la domanda di grazia come resa. Mi sono arrangiato come ho potuto, senza esperienza alcuna che si congiungeva ad una certa qual fierezza giovanile per l’attività svolta nella mia scuola – al ‘Benedetti’, il liceo scientifico veneziano – dove tutti sapevano come la pensavo. Ero stato uno dei promotori – improvvisatomi sul momento, come gli altri – subito dopo l’8 settembre, all’arrivo dei tedeschi a Venezia, di una manifestazione studentesca in campo S. Giustina, nel primo pomeriggio, durante la quale abbiamo cantato a squarciagola “Va fuori stranier” e gridato slogan contro nazisti e fascisti. Verso sera, in piazza S. Marco, abbiamo visto un gruppetto di ufficiali tedeschi in divisa che ammiravano la Torre dell’orologio: senza premeditazione – sospinto irrazionalmente al gesto – ho sputato sulla punta degli stivali di uno di loro. L’ufficiale ha avuto come un gesto di stupore ed io, subito, riconquistata la ragione, me la sono data a gambe nel dedalo di calli e callette. A scuola, reagivo d’istinto ai predicozzi fascisti del professore di disegno: spaccavo la matita, tossivo forte o guardavo per aria. Ero cioè consapevole dei miei comportamenti: non li potevo negare e qualcosa loro certamente sapevano, se mi avevano arrestato.
Anche perché, a fare il mio nome e quello degli altri, come saprò subito dopo, era stato Pignatti: i suoi poi hanno tenuto a spiegarmi che lo aveva fatto, su loro insistenza, perché era molto ammalato e non poteva assolutamente passare neanche un giorno in carcere e infatti è morto qualche anno dopo la Liberazione, credo proprio di tubercolosi. Eugenio era un giovane disponibile e colto, amante della musica: a casa sua ho ascoltato i primi dischi di musica classica. Aveva una particolare passione per un pezzo suonato da Menuhin che abbiamo ascoltato molte volte ma di cui poi non ricordavo più né autore né titolo. Qualche anno fa – verso la fine degli anni novanta – una mattina a Radio3, inopinatamente ho risentito e immediatamente riconosciuto con qualche emozione quel pezzo – un concerto di Max Bruch – di cui mi sono subito procurato il CD [5] per poterlo riascoltare per la musica, per il violino superbo ma anche per un ripercorso di memoria.
A Pignatti non gliene abbiamo mai voluto: anche lui era alle sue prime prove, senza esperienza e in una condizione di gran lunga peggiore delle nostre. Non era del nostro gruppo originario, ma inserito più tardi con altri che poi hanno anche subito l’intrusione di una spia di Zani – Sudessi, un giovane di cui non ricordo il nome e che abitava dietro la Toletta, fra l’Accademia e S. Barnaba – che, poco furbescamente dal suo punto di vista, li aveva subito denunciati senza tentare di scoprire di più sulla rete. Questo Sudessi l’ho poi ritrovato in carcere, dove si era fatto rinchiudere per continuare a fare la spia sperando di giocare sull’ingenuità e inesperienza dei giovani, ma senza concludere nulla, ché tutti comunque erano stati messi subito sull’avviso.
In questa condizione ho cominciato con lo spiegare a Zani – del resto con molta ingenuità, un po’ finta e un po’ no – che non tutti la potevano pensare allo stesso modo, che molti studenti erano contro i tedeschi per tradizione e, in breve, che avevo solo distribuito dei volantini con due persone (che sapevo già essere al sicuro). Naturalmente quel poco non l’ho detto di colpo, ma nel corso di tre interrogatori, ogni volta aggiungendo qualche particolare, più o meno inventato o adattato sul momento: hanno fatto i controlli, hanno riscontrato che queste due persone esistevano ma non erano a Venezia. La loro spia non aveva poi saputo portare nulla di significativo anche perché, in definitiva, non avevano grandi mezzi d’indagine né le tecniche adatte. Zani voleva farmi dire qualcos’altro, ma io avevo detto tutto quello che potevo dire senza danneggiare altri e non insistette molto, ché probabilmente pensava – non a torto in quel momento ‑ che non saremmo stati in grado di fare di più. Mi hanno così portato a S. Maria Maggiore, cella n. 91 dove, dopo qualche settimana, mi hanno consegnato una carta in cui mi si comunicava che ero stato condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello stato a due anni di carcere per “propaganda e associazione sovversiva” insieme a Dal Palù e Capisani [6].
Cominciava così la mia vita di carcerato, dopo le formalità dell’entrata: le impronte digitali, la consegna della cintura dei pantaloni e delle lacci della scarpe e l’assegnazione di gavetta e cucchiaio, oltre che di una coperta e di due lenzuola. Quando mi hanno chiuso in cella, sbattendo violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci – il senso fisico della separazione – rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso: era solo un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura e la situazione nuova. Avevo diciannove anni e non ero mai rimasto fuori di casa: non tanto paradossalmente, alla fine, questo sfogo ha funzionato come superamento del momento di crisi aiutandomi ad affrontare la situazione con la dovuta fermezza. Ne ho passate molte, in carcere, ma non ho più pianto se non quando, dopo la Liberazione, ho assistito, nel cimitero di S. Michele, alla riesumazione dei corpi dei 13 di Ca’ Giustinian per essere ricomposti, trasportati e sepolti con una grande cerimonia popolare nel cimitero di S. Donà di Piave, in una apposita tomba collettiva.
Anzi, per molti versi, in carcere mi sono indurito. Addirittura ho fatto un passo per me importante: sono entrato cattolico e praticante e ne sono uscito ateo. Il cappellano di S. Maria Maggiore, don Marcello Dell’Andrea, era una amabilissima persona, antifascista convinto, ci aiutava in tutto, comprese le comunicazioni con l’esterno rischiando grosso e senza mai chiederci nulla in cambio, tanto meno sul piano religioso, e il parroco di S. Elena mi mandava i mozziconi delle candele della sua chiesa perché potessi leggere la sera, visto che chiudevano presto la luce, anche lui senza chiedermi nulla, ed io ho avuto sempre molta riconoscenza per questa loro solidarietà concreta. Ma a dio non credevo più: per me non aveva proprio più senso, per come andava il mondo e soprattutto per bisogno di razionalità. Non è stata un’abiura, ma un abbandono tranquillo, quasi scontato. Me ne è rimasto anche un ricordo materiale: in una delle prime celle ho trovato un crocefisso – quelli soliti di legno e in lega di una volta, sui venti centimetri – che poi mi sono portato dietro e nel cui rovescio scrivevo man mano, a penna con inchiostro, il numero della cella: Alla fine la scritta è risultata così:
W L’Italia / Arrestato politico 10/4/44 / celle 91 – 66 – 60 – 62 – 110 – 101 – T 13 – 130 – 163 – 13 – 165 – 158 / S. Maria Maggiore – Carcere di Venezia – Trovato nella cella n. 66 / Portato nelle celle n. 66 – 60 – 62 – 140 – 101 – T 13 – 130 – 163 –73 – 165 – 158 – 4 [7].
Quando sono uscito me lo sono portato a casa e l’ho riposto per poi dimenticarmene completamente. Due anni fa, sgomberando la casa dopo la morte di mia madre, l’ho ritrovato nel fondo di un cassetto della mia vecchia scrivania di studente, e ho provato una certa emozione rivedere quella fila di numeri di celle praticate a S. Maria Maggiore. Non l’ho buttato via, come per istinto stavo per fare, e lo conservo tuttora come una doppia memoria, del carcere e della ex fede.
Sono arrivato a S. Maria Maggiore nel primo pomeriggio: non avevo fame, anche se erano quattro giorni che non avevo praticamente toccato cibo (mi avevano dato qualche pezzo di pane in un passaggio che mi avevano fatto fare nella caserma ai Gesuiti). Solo la mattina dopo un bicchiere di brodaglia nerastra come caffè e verso mezzogiorno pane e una specie di minestra di rape. I primi giorni li ho passati in isolamento – solo in una cella, cinque passi per tre – senza neanche un libro o un giornale e senza un pezzo di carta e una matita: in pura contemplazione dei muri, delle inferriate e della bocca di lupo, dal di sotto per poter vedere una sottilissima striscia di cielo. Con la sola compagnia delle cimici. Alla mattina – unica forma di socializzazione carceraria e di movimento fisico – c’era un’ora di aria nei cortiletti insieme a gruppi di altri detenuti, frammischiati fra comuni e politici (allora non era fatta distinzione: per l’autorità si trattava in ogni caso di criminalità comune).
Ė stato in una di queste prime mattine di aria che ho incontrato Francesco Biancotto – un operaio diciottenne – in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato – probabilmente mi avrà visto un po’ stordito – e mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello. Sono stato impressionato ma anche rallegrato: non mi sentivo più solo e ho fumato così la mia prima sigaretta e non ho più smesso per vent’anni, con più di qualche conseguenza nefasta. Poi anche da casa me ne hanno portato senza farmi tante prediche, ma anche il Cln – attraverso il cappellano – ci ha fatto pervenire del tabacco (immagino sia stato per iniziativa di Turcato), ma poi sono arrivato anche a fumare la paglia del materasso avvolta in carta da giornale (come, del resto molti altri) diventando un esperto arrotolatore di sigarette con le dita. Qualche settimana dopo, finito l’isolamento e non ricordo proprio come, mi sono ritrovato in cella con Biancotto e con Gianfranco Gramola, uno studente di Schio all’Accademia delle belle arti, allievo di Elena Bassi, arrestato per le stesse mie ragioni. Un piccolo sodalizio che ricordo ancora con suggestione.
Ma quell’isolamento non mi pesava: a distanza di tanti anni non ricordo come avvenne, ma nel tempo ho interiorizzato che mi è servito a fare un po’ di conti con me stesso. Mi trovavo molto cambiato, per certi aspetti non mi riconoscevo quasi più rispetto a solo qualche anno prima. Praticamente ero in carcere quasi per mia scelta: non che lo avessi cercato, ovviamente, ma avevo messo in conto che mi poteva capitare qualcosa, anche se certe efferatezze di repubblichini e nazisti dovevamo ancora conoscerle.
Stavo facendo l’ultimo anno di liceo scientifico, al Benedetti di Venezia: avevo imparato a leggere e a studiare piuttosto seriamente. Stimavo moltissimo alcuni professori che mi avevano aperto gli occhi in tutti i sensi. Guardavo ora gli avvenimenti terribili del fascismo/nazismo e della guerra sentendomi fortemente coinvolto e in dovere di fare qualcosa per la “libertà”. Avevo imparato ad assaporare questa parola, a declinarla nei vari significati, ne cominciavo a capire gli aspetti concreti nei diritti inalienabili che ci erano stati strappati a forza e di cui bisognava riappropriarci: un “noi” collettivo di cui non mi chiedevo come e da cosa potesse originarsi, ma che avvertivo necessario come l’aria e di cui percepivo in qualche modo il suo farsi in atto. Avevo avuto anch’io la mia passioncella per Croce e il “liberalismo” come traslazione politica della libertà, come “fondamento morale di tutti i programmi”, ché ne avevo potuto leggerne qualcosa alla Marciana o alla Querini ( La teoria della libertà del 1939 e il classico La storia come pensiero e come azione del 1938): soprattutto ai tanti giovani di scarse letture storiche e politiche come ero io, nel deserto del fascismo, in quei primi anni quaranta Croce appariva come “il faro della libertà”. Appunto, fantasticherie giovanili in mancanza d’altro in grado di fare i conti con la complessità sociale e storica, come comincerà ad apparirmi il problema solo pochi mesi dopo: il passaggio da “La storia come storia della libertà” [8] a “La storia […] è storia di lotte di classi” [9] mi è stato naturale, tutt’altro che difficile.
Uso Resistenza (al fascismo e al nazismo) con la R maiuscola per distinguerla dalla resistenza – per fare un esempio – del ferro da stiro Del pari, uso Liberazione con la L maiuscola per indicare specificamente il giorno della liberazione dai fascisti e tedeschi.
[2] Per tracciare un quadro autobiografico più contestualizzato, nel presente testo ho citato alcuni episodi già raccontati nella mia Introduzione a G. Turcato, Frammenti autobiografici, in “Venetica”, a. XIV, terza serie, n. 3, Cierre, Verona 2000, pp. 143-187 o ricordati nel mio intervento in occasione dell’”Omaggio a Francesco Semi” all’Ateneo Veneto (18 dicembre 2000), ma non pubblicati. Chiedo venia per tali inevitabili ripetizioni.
[3] M. Borghi – A. Reberschegg , Fascisti al la sbarra. L’attività della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia(1945/47),Comune di Venezia, 1999, pp. 108-110.
[4] Solo più tardi capirò quanto questo avvertimento fosse per niente astratto: infatti Cafiero, in gioventù era stato uno squadrista dei “Cavalieri della morte”, comandati da Gino Covre, arrestato e accusato, insieme ad un suo ‘collega’, per l’assassino del portuale Bernardo Borile in fondamenta dei Carmini nel maggio 1922 (cfr. G. Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001, p. 192) e difeso “sulla stampa oltre che in tribunale” ( ib., p. 194) niente meno che da Piero Marsich; sarà poi anche l’esecutore del colpo alla nuca, oltre che di altri, di G. Tramontin, sfuggito per miracolo alla morte e, per finire, membro del plotone di esecuzione dei 13 a Ca’ Giustinian, come si dirà più avanti e come risulta dalla citata sentenza della Corte d’assise straordinaria di Venezia. Sinistro e a suo modo coerente itinerario di un ‘fascista della “prima ora”.
[5] M. Bruch, Violin Concerto No. 1 in G minor, Op. 26†, violino Yehudi Menuhin, Emi Records Ltd, 1993.
[6]Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser), Fondo C. Chinello, 6/10/1944, Tribunale speciale per la difesa dello stato, "Estratto di condanna", manoscritto su modulo, B. 1, fasc. 1
[7] Non so ora spiegare la differenza delle due serie di numeri.
[8]B. Croce , La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, p. 46.
[9]K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1948, p. 94.
MILANO — Poco da fare per i processi di corruzione, compromessi quelli per truffa allo Stato ma anche per attentato alla sicurezza dei trasporti, nel cestino persino i processi per attentato con finalità terroristiche o di eversione: con la salva-Previti, cioè con l a nuova legge in cantiere sulla prescrizione, per “migliaia di processi già fissati in Cassazione” finirà così. Parola del Massimario della Cassazione, l'Ufficio Studi della Suprema Corte, che lo scrive in alcune delle 158 pagine di una sorta di Bibbia degli operatori del diritto: la “Rassegna della giurisprudenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione nel triennio 2002- 2004” . Un viaggio anche fra “mutamenti delle basi normative, radicali disarmonie del sistema e preoccupanti vuoti di disciplina” . Tale da spingere l'Ufficio Studi a non escludere che ormai, alla domanda “cosa sia veramente il processo oggi, la triste risposta possa essere: soltanto un gioco” . Una “metafora” , ma non nel nobile “senso degli illustri processualisti, cioè di un insieme di azioni e reazioni, di strategie finalizzate al risultato migliore; ma nel senso, allarmante, di una istituzione fine a se stessa, ove si impongono interessi strutturali a che i giochi si moltiplichino e durino sempre più a lungo” .
Nel passaggio sulle “plausibili conseguenze” della legge in arrivo, l'Ufficio Studi nota che, se “per le contravvenzioni il trattamento risulta meno favorevole di quello vigente, per cui si applicherà solo ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della legge, per i delitti la nuova disciplina sostanziale è quasi sempre più favorevole all'imputato e, quindi, sarà di immediata applicazione” .
Con quali effetti concreti? I direttori ( Stefano Evangelista e Giovanni Canzio) e i redattori ( Guglielmo Leo e Gioacchino Romeo) del documento rispondono sulla base di tre premesse. La prima è la legge Vitali- ex Cirielli approvata dalla Camera e ora in discussione al Senato. La seconda è “la durata media di un processo di merito, intorno ai 9 anni” . La terza è che “la fissazione di un ricorso per Cassazione richiede in media 13 mesi” . Su queste basi, “può ragionevolmente concludersi che risulta assai serio il rischio della prescrizione per quasi tutti i processi in corso per reati puniti con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i 5 e i 6 anni, e per la grande maggioranza dei processi per reati puniti con la pena della reclusione massima di 8 anni” .
Ed è sempre l'Ufficio Studi a incaricarsi di tradurre i numeri ( delle pene) in nomi ( dei reati a rischio prescrizione): “Tra gli altri, la rivelazione di segreti di Stato, l'attentato contro i diritti politici del cittadino, la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, la resistenza a pubblico ufficiale, il millantato credito, la frode nelle pubbliche forniture, il favoreggiamento reale, l'attentato alla sicurezza dei trasporti, la truffa ai danni dello Stato o di enti pubblici, l'attentato per finalità terroristiche o di eversione, la calunnia, numerose ipotesi di falso, la truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche” .
E “pur dando per scontato da parte della Corte di Cassazione un sollecito sforzo organizzativo al fine di evitare l'esito della prescrizione nel maggior numero possibile dei casi”, non ci sarà nulla da fare per “migliaia di processi” che “sono stati già fissati confidando sugli attuali termini di prescrizione: i margini di manovra sembrano nulli, essendo praticamente impossibile un "rifacimento" radicale dei ruoli, comunque a sua volta foriero di ritardi e disservizi” .