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Le metafore sono formule condensate: devo definire x e dico y, perché tra i due esiste una similitudine; lo scenario evocato dal segno metaforico illumina aspetti importanti della cosa da dire. Ad esempio «caimano», a proposito del quasi dominus d´Italia, il cui sorriso zannuto riempie le icone elettorali: è bestia eminente il coccodrillo, infatti Yaweh lo indica al povero Giobbe come capolavoro del creato; ha squame invulnerabili; sputa fuoco; quando solleva la testa dall´acqua, gli angeli piangono. Leviathan configura una potenza infraumana.

Analoghe misure esibisce B.: attraverso l´ipnosi televisiva comanda masse stupefatte; forte dei quarantamila miliardi moltiplicati nei cinque anni al governo, compra tutto quanto sia in vendita, dalle case editrici ai favori giudiziari; s´ingigantisce ripetendo due o tre mosse elementari (agguato, scatto delle mascelle, digestione); la sua forza sta nel non pensare; il pensiero semina dubbi; lui punta diritto alla preda e l´inghiotte. I suoi quadri mentali ignorano l´Altro: siamo bestiame umano; perciò irrompe a testa bassa contro le categorie politiche, morali, estetiche, nella cui sintassi gli animali inciviliti prevengono o regolano i conflitti. Le regole sono prodotti culturali: vuoi chiamare in giudizio Leviathan?; prova, se vi riesci. Così Iddio deride Giobbe.

Davanti agli spettacoli tristi chi ha buoni sentimenti abbassa gli occhi e affretta il passo, notavo una volta, allibito dallo show nell´udienza Sme 17 giugno 2003: l´imputato negatore della giurisdizione tiene banco in barba all´art. 494 c. p. p. dove le «dichiarazioni spontanee» (al riparo da scomodi contraddittori) sono ammesse purché non affoghino il dibattimento: il presidente ammonisce chi esorbita; e se costui persiste, «gli toglie la parola». Furente e vaniloquo, straparla un´intera mattina. L´identico riflesso scatta nel convegno confindustriale vicentino: viene quando gli fa comodo; colloca strategicamente i claqueurs; rifiuta ogni domanda, canta i mirabilia governativi come se l´uditorio non avesse organi percettivi né memoria, inveisce, miete applausi a comando, scatena fischi sui dissidenti, se ne va battendo i piedi. I caimani non sono animali da torneo dialettico. Se l´atto scenico fosse valutato in pura chiave estetica, leggo sgomento, meriterebbe trenta e lode: mettono freddo nella schiena battute simili; a tal punto Leviathan dissesta i sistemi nervosi.

Ho visto il film: quanto giusta fosse la metafora, lo dicono scene dal vero interpolate nella commovente fiaba chapliniana, al parlamento europeo e nell´aula milanese; le altre due incarnazioni lo ingentiliscono iniettandogli barlumi d´umanità, specie l´ultima, d´un B. eversore perdente. Gli artisti dello spegnitoio farfugliano ironie dando a intendere che ormai sia innocuo: non vedete che ha perso gli spiriti animali? Nossignori, è terribilmente pericoloso.

Titolo originale: New Labour must recognise that Berlusconi is the devil – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



Non dobbiamo sorprenderci se il New Labour è rimasto invischiato in uno scandalo che riguarda Silvio Berlusconi. C’è qualcosa di perfettamente prevedibile in questo. Tony Blair è stato felicissimo di abbracciare Berlusconi, insieme all’ex primo ministro spagnolo José Maria Aznar, come alleato all’epoca della rottura fra Europa e Stati Uniti nei mesi precedenti all’invasione angloamericana dell’Iraq. Ha visto in Berlusconi un valido alleato nel perseguimento della sua politica estera pro-Bush. In realtà, è stato notevolmente più vicino a Berlusconi che ad esponenti di centro-sinistra come l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Questo senso di affinità ha assunto anche una dimensione personale e familiare, con i coniugi Blair che accettavano l’ospitalità di Berlusconi passando le vacanze insieme al leader italiano nella sua casa estiva.

Blair chiaramente sente di avere un rapporto politico e personale con Berlusconi. E questo ha fissato la linea per il New Labour: Berlusconi è considerato un uomo con cui avere a che fare. Ciò è profondamente inopportuno. Come può, il New Labour, vedere Berlusconi in una luce simile? Come può ignorare e non riflettere sull’influenza maligna che egli ha avuto sulla democrazia italiana? E cosa ci dicono, il silenzio su questi argomenti e il caldo abbraccio al leader italiano, sullo stesso New Labour?

Berlusconi è il più pericoloso fenomeno politico d’Europa. Rappresenta la più seria minaccia lla democrazie dell’Europa occidentale dal 1945. Si potrebbe sostenere che è l’estrema destra rappresentata da figure evidentemente razziste e xenofobe come Jean-Marie Le Pen o Jörg Haider, a porre un pericolo più serio, ma si tratta di personaggi che restano relativamente ai margini della scena politica europea. Non Berlusconi. Durante i suoi due mandati come primo ministro c’è stata una grave erosione della qualità della democrazia italiana, e del tono della vita pubblica.

La democrazia si basa sulla separazione fra il potere politico, quello economico, culturale e giudiziario. La proprietà di Berlusconi dei principali canali televisivi – e il controllo delle reti statali Rai, durante la sua presidenza – insieme alla sua propensione a utilizzare questo potere mediatico per le proprie crude ambizioni politiche, ha minato la democrazia. Inoltre, ha modificato le leggi a proprio piacimento – usando la maggioranza parlamentare – per proteggere interessi personali e salvarsi dai processi.

Il collegamento fra Berlusconi e il fascismo italiano non è difficile da decifrare. C’è sempre stata una prevedibile tendenza ad aspettarsi che il fascismo si ripresentasse nelle vecchie forme; ma questo non è mai stato il pericolo principale. Ciò che dobbiamo temere è il riapparire del fascismo in nuove forme, che riflettono le mutate condizioni globali economiche e culturali dell’epoca, attingendo al tempo stesso dalle tradizioni nazionali. Berlusconi è esattamente una figura di questo tipo. Tratta la democrazia con sufficienza: ad ogni passo tenta di indebolirla, distorcerla, abusarne. Non ha rispetto per i fondamenti indipendenti dell’autorità: accusando i giudici di essere burattini dell’opposizione e descrivendoli come “comunisti”.

Con l’assalto indiscriminato a chiunque si frapponga al suo potere e arricchimento personale, ha avvelenato la vita pubblica italiana. È un discendente diretto di Mussolini. L’incapacità del New Labour di riconoscere questo - peggio, di essergli amici, di considerarlo come alleato, di accettare la sua ricca ospitalità – non possono essere liquidate come distrazioni. Chiamano in causa la visione del mondo e il giudizio politico: del New Labour come del primo ministro.

Tessa Jowell non è politicamente innocente. É membro di spicco del governo. Ha salito gradino per gradino la scala del New Labour per molti anni. È da lungo tempo una sostenitrice di Blair, e gode di un particolare rapporto di fiducia col primo ministro. Ha fiduciosamente condiviso i suoi punti di vista riguardo a Berlusconi come figura politicamente amica con cui il New Labour, e le sue famiglie di punta, potevano avere rapporti di affari. Può aver saputo o meno, dei minimi particolari degli affair finanziari di suo marito, ma sicuramente sapeva che aveva agito per Berlusconi, l’aveva aiutato ad evadere le tasse, l’aveva assistito nei suoi tentativi di resistere alla magistratura. E, senza dubbio, la Jowell non ha visto niente di sbagliato in tutto questo. In fondo, Berlusconi aveva la benedizione del primo ministro: era per così dire “dalla nostra parte”.

Ma Berlusconi è un uomo pericoloso per chi ci rimane invischiato. Agisce negli angoli oscuri della vita politica italiana. Il suo partito, Forza Italia, ha operato instancabilmente per assicurarsi l’eredità dei voti mafiosi dal cadavere della Democrazia Cristiana. I suoi tentacoli finanziari hanno violentato e sfigurato la politica italiana. Considera la legge cosa malleabile, trattabile, corruttibile. Chi va a cena col diavolo deve aspettarsi delle conseguenze. Il problema è che Blair e il New Labour non hanno mai riconosciuto che Berlusconi è il diavolo. Lo vedono invece come un amico e alleato. Non hanno mai riconosciuto, o almeno non ci hanno fatto sufficientemente caso, la minaccia velenosa che pone alla democrazia italiana ed europea.

Questo per due ragioni. Primo, è considerato anima gemella globale di Bush e Blair. Secondo, alcuni dei valori che rappresenta - denaro, celebrità e potere – sono quelli che lo stesso Blair desidera e ammira. Il New Labour condivide alcune caratteristiche con Berlusconi, in particolare una indiscriminata adorazione degli affari e del far soldi, una fede nel potere dei media, un disprezzo per la sinistra. Stiamo assistendo a un lento degrado della democrazia europea, di cui Berlusconi è la più estrema e perniciosa espressione, ma di cui il New Labour, in forma molto più attenuata, è in parte sia causa che conseguenza.

Col processo legale italiano che lentamente si dipana, senza dubbio verranno alla luce nuove rivelazioni. Qualunque cosa David Mills abbia o non abbia fatto, non può essere considerato responsabilità della Jowell, di Blair o del New Labour. Ma il fato che il partito sia stato pronto ad abbracciare un’influenza politica tanto insidiosa senza dubbio ha contribuito a convincere Mills che Berlusconi era un cliente accettabile, e la Jowell che non c’era niente di improprio negli affari di suo marito con un uomo del genere, e nel giocarci un ruolo tanto interno. Per questo, il primo ministro deve prendersi la responsabilità principale. Come nel caso dell’Iraq, Blair è responsabile di un errore politico monumentale. Quello che è in gioco, non è niente di meno che la salute democratica di uno dei più grandi paesi d’Europa, e di conseguenza la salute dell’Europa intera.

here English version

L'esilio di Umberto Eco non piace né a Massimo D'Alema né a Piero Fassino. I due esponenti ds non hanno gradito la provocazione lanciata dallo scrittore qualche giorno fa, dal palco di un convegno organizzato a Milano dall'associazione «Libertà è Giustizia»: «Se dovesse vincere Silvio Berlusconi e tornassimo in un regime come quello degli ultimi cinque anni, io sarei pronto ad andarmene in esilio».

Col suo grido di dolore, d'altronde, Eco è l'ultimo di una schiera di intellettuali e politici che, già prima di lui, hanno minacciato l'esilio per motivi diversi: Tabucchi, Forattini, Consolo, Pannella, Battiato, Sgarbi... Ma al presidente e al segretario ds stavolta la frase pronunciata da Umberto Eco ha dato fastidio. D'Alema, giovedì sera, in un convegno a Torino ha bacchettato indirettamente lo scrittore: «Non mi piace chi dice che se vince Berlusconi se ne va in esilio perché c'è un regime.

Credo che si debba stare tutti qui a combattere. A parte che non tutti si possono permettere un esilio...». E ieri Fassino, intervenendo a Radio Anche Noi (trasmissione in onda sulle emittenti del gruppo Area) è tornato sul tema: «Quale che sia l'esito delle elezioni, nessuno deve pensare che andrà in esilio, né chi voterà per il centrosinistra né chi voterà per il centrodestra. L'Italia è un grande Paese, capace proprio per la sensibilità democratica dei suoi cittadini di vivere democraticamente quale che sia l'esito delle elezioni». Ma perché D'Alema e Fassino bocciano la minaccia d'esilio di Eco? «Perché i nostri politici sono a prova di bomba — commenta ironico Alberto Asor Rosa —. Sarebbero in grado di mantenere la calma anche se il Paese dovesse cadere nelle mani di un popolo di extraterrestri particolarmente feroce, che stupri bambini e donne... Loro sono corazzati contro ogni evenienza, l'indignazione morale non li sfiora più. Se uno dice che il regime berlusconiano non è democratico, si incavolano perché le ritengono affermazioni avventate. Sono spaventati dalla loro ombra, hanno paura di apparire troppo diversi da Berlusconi». In esilio, però, lo storico non ci andrebbe: «Non ho casa fuori. Credo che quello di Eco sia un ragionamento estremo che non tutti gli italiani sarebbero in grado di fare... Preferisco Borrelli: resistere, resistere, resistere».

Non capisce la reazione di D'Alema e Fassino neppure la scrittrice Lidia Ravera, vicina alla sinistra radicale: «Non si può dare dell'intollerante a una persona che si lamenta di questo centrodestra. Non si può pensare che i cittadini non soffrano. Forse nel gioco astratto della politica si sanguina meno, ma noi invece sanguiniamo. Abbiamo sofferto.

Quello che dice Eco è una mozione di fiducia verso il centrosinistra, e francamente non capisco la reazione di Fassino e D'Alema: dovrebbero sentire la responsabilità di non deludere chi li ha votati e li rivoterà. E per quanto mi riguarda capisco Eco, ma sono contraria all'esilio: anche se vince Berlusconi, conto di continuare a essere fastidiosa. Sono una ragazza combattiva».

Difende invece la posizione assunta dai due leader il deputato ds Peppino Caldarola: «Che significano queste dichiarazioni stizzite di esilio? Capisco lo stato d'animo, ma non comprendo l'andar via. E poi, forse, ragiono da antico militante politico: se si perde si resta. Tanto più se si è dirigenti di partito. Difficile immaginarsi un politico che in caso di sconfitta lasci il Paese. Fassino e D'Alema potevano rispondere solo così: hanno delle responsabilità politiche, loro».

A sorpresa, anche il regista Marco Bellocchio, candidato con la Rosa nel Pugno, sostiene le tesi dei due esponenti ds: «Penso anch'io che quella di Eco sia un'esagerazione. La puoi fare se sei un multimiliardario… Però io dove vado? Lui ha casa a New York, a Parigi, ma gli italiani medi dove scappano? E poi così si attribuisce a Berlusconi un'onnipotenza che non dovrebbe avere. Condivido dunque l'incazzatura dei due leader della Quercia: bisognerebbe resistere. Non ha alcun senso mollare».

Il filosofo Gianni Vattimo, invece, è sulla stessa linea di Umberto Eco. Anzi, annuncia a sorpresa: «Non più tardi del 20 gennaio scorso, trovandomi a Madrid per una laurea ad honorem, ho dichiarato a El País che chiederò la cittadinanza spagnola, viste le condizioni dell'Italia. Non lo chiamerei esilio, ma certo l'atmosfera che si minaccia di respirare qui da noi sarà ancora peggio. Anche se non vince Berlusconi: si scatenerà il partito democratico, a cui bisognerebbe aggiungere fin d'ora l'aggettivo "cristiano". Per quanto riguarda poi Fassino e D'Alema, la verità è che i leader ds sono diventati superconservatori: hanno sempre ostacolato l'idea di regime legata a Berlusconi. Mi ricordo ancora quando alcuni di noi andavamo in giro per il mondo a denunciarlo e loro a ribattere che dicevamo sciocchezze, demonizzandoci».

E con Umberto Eco si schiera anche la presidente di «Libertà è Giustizia», Sandra Bonsanti: «La sua era una battuta, legata al giudizio negativo di questi cinque anni. Capisco, ma non condivido, Fassino e D'Alema: loro fanno un discorso più politico, hanno delle responsabilità. Ma la paura di un altro "regime Berlusconi" c'è, e Umberto si rivolgeva soprattutto ai delusi che potrebbero non votare. Tutto qui».

Postilla

Neanch’io parlerei di esilio. Ma certo, se vincesse di nuovo Berlusconi, bisognerebbe constatare:

- che il Belpaese verrebbe ulteriormente distrutto, il disagio sociale crescerebbe, il costo della vita aumenterebbe, tutela della salute e formazione peggiorerebbero,

- che le teste e le coscienze degli italiani verrebbero ulteriormente imbarbariti da media sempre più mercificanti;

- che oltre la metà dei nostri concittadini sono soddisfatti o rassegnati da ciò che Berlusconi rappresenta ed esprime.

Credo che la tentazione di andare a vivere altrove sarebbe comune a molti, anche se non tutti potrebbero cederle.

Se invece vincesse Prodi bisognerebbe non solo rimanere, ma combattere: si aprirebbe infatti (speriamo!) una fase molto dura, e finalmente civile, di lotta contro il berlusconismo, la cui scomparsa certo non seguirebbe automaticamente alla sconfitta del personaggio da cui il vigente “pensiero unico” prende il nome.

La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per Silvio Berlusconi per aver indotto (con 600mila dollari) l'avvocato Mills, marito di un ministro di Blair, a testimoniare il falso in due processi milanesi. Il ministro della salute Francesco Storace si è dimesso ieri (ci sono già parecchi arresti) per aver organizzato spionaggio e sabotaggio elettorale ai danni di Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini in rapporto alle ultime elezioni regionali. Questi i fatti, noti e stranoti. Gli strilli degli illustri imputati sono egualmente noti e scontati. Proviamo ad avanzare qualche considerazione sempliciotta. Silvio Berlusconi non è schizofrenico, è una persona capace che si è fatta negli affari e poi (pare per salvarsi) è entrato in politica continuando a comportarsi come negli affari, con tutti i maneggi che negli affari servono. Quindi nessuna sorpresa o scandalo, l'uomo è fatto così, è sempre lo stesso ma essendo entrato pesantemente in politica, i magistrati stanno più attenti.

Analogo, anche se diverso il caso Storace: viene dallo squadrismo e non ha perso la passione per le operazioni speciali, come organizzare spionaggio d'assalto anche ai danni della nipotina del Duce. Che poi i due, Alessandra e Francesco si trovino nello stesso schieramento elettorale dice qualcosa su entrambi. Va aggiunto che quasi certamente Storace è stato indotto alle dimissioni da Fini e Berlusconi, preoccupati di tenersi un ministro cosiffatto a poche settimane dal voto.

Terza considerazione: il fronte della Casa delle libertà raccoglie quel che ha seminato, ma non ha più la forza di zittire chi dice che il re è nudo e piuttosto brutto. Capita così anche ai grandi banditi: fino a quando hanno successo sono bravi, coraggiosi e innovativi, appena gli va male sono coperti di insulti. Il cane morde chi è vestito di stracci recita un proverbio siciliano.

Insomma, perché non ricordiamo lo scenario delle elezioni politiche del 2001 quando D'Amato era presidente di una Confindustria appassionatamente berlusconiana? Se ora ha cambiato non è per ragioni ideali, ma materiali: la politica economica di Berlusconi non li ha fatti guadagnare quanto desiderato, e così anche parte di sindacati. Allora c'era una benevola attenzione di Cisl e Uil, oggi non più.

E ancora, Berlusconi con il suo slogan «arricchitevi come ho fatto io» riuscì a catturare anche l'attenzione e la benevolenza dei tassisti. Oggi nei taxi la musica è diversa. Se quelli che lo avevano sostenuto non lo fanno più una ragione c'è e Berlusconi dovrebbe rendersene conto, come - anche questo è sintomatico - se ne rendono conto i suoi alleati ex fascisti ed ex democristiani, per i quali, non a caso, Paolo Mieli ha avuto un occhio di riguardo.

Per ultimo c'è una quarta considerazione che si compendia nel detto latino «motus in fine velocior»: ogni movimento nel suo concludersi diventa più veloce. Un grave in caduta acquista il massimo di velocità quando sta per sbattere per terra. Il caso Mills, il caso Storace e certo altri ne verranno dicono che la velocità di caduta di Berlusconi sta raggiungendo il massimo.

Dal nuovo libro di Marc Lazar, L’Italie à la dérive. Le moment Berlusconi , in uscita il 23 marzo in Francia nelle edizioni Perrin, anticipiamo parte d’un capitolo.

Il «periodo Berlusconi» conferma le attuali metamorfosi che la democrazia italiana vive all’epoca della globalizzazione, della crisi degli Stati-nazione e delle difficoltà dell’integrazione europea. I mezzi di comunicazione rendono le relazioni tra i leader e le opinioni pubbliche più immediate e tempestive. La capacità di sedurre e la semplificazione dei discorsi avvantaggiano i leader più abili a comunicare, e di conseguenza costoro conoscono ascese folgoranti, ma vanno incontro altresì alla possibilità di subire rapidi tracolli perché sono sovraesposti. La propensione a ricorrere a modalità dirette di espressione in politica può favorire, per esempio, il successo di Silvio Berlusconi presso alcuni elettori, e al contempo presso altre categorie l’inizio di mobilitazioni contrarie a lui, di movimenti che esigono un maggiore controllo dei poteri e che vogliono prendere attivamente parte alla vita pubblica.

Il potere giudiziario afferma sempre più spesso la propria indipendenza in rapporto al potere politico, e questo fenomeno è sfociato in molteplici conflitti tra le due istituzioni, infiammatisi ancor più con Berlusconi. Il controllo della costituzionalità si accentua, e questo provoca una sorta di «giuridizzazione» dei rapporti politici e sociali. Infine, Europa significa dover rinunciare a qualche particella di sovranità in ambito monetario, economico, giurisdizionale, e persino in ambito politico e sociale, rinunce oggi percepite molto meno bene dagli italiani rispetto al passato perché non si concretizzano automaticamente in un miglioramento tangibile nella quotidianità e perché le scelte italiane non sempre sono state ben giustificate davanti all’opinione pubblica dai governi di Berlusconi. Nello stesso modo di quanto avviene presso altri membri dell’Unione Europea, il quadro tradizionale dello Stato nazione si spacca, senza che ne nasca automaticamente uno Stato europeo: questa fase di transizione alimenta l’incertezza, le esitazioni, i dubbi e le critiche, in Italia come altrove.

L’analisi di questi sviluppi richiede ovviamente di tener conto delle nuance: i partiti politici non sono scomparsi del tutto e costituiscono apparati sempre più importanti. I mezzi di informazione e di comunicazione non sono poi così influenti come assicurano coloro che si sentono delusi da Silvio Berlusconi. I giudici sono sicuramente più influenti, ma gli uomini politici mantengono il controllo della situazione. I movimenti nati dal basso, dalla società, si moltiplicano e ormai hanno un loro peso sulle decisioni pubbliche, ma incontrano enormi difficoltà a istituzionalizzarsi. L’Europa continua a lasciare un ampio margine di manovra in numerosi settori di cruciale importanza per l’Italia come per qualsiasi altro Stato-membro.

Volendo ricorrere ad un’altra definizione, la democrazia italiana come le altre democrazie europee occidentali, vive un’incerta mutazione. Essa non corrisponde più esattamente ai criteri della democrazia rappresentativa, ma non è ancora diventata la democrazia dell’opinione pubblica. Da questo punto di vista uno dei paradossi del periodo Berlusconi che colpiscono maggiormente ha appunto a che vedere col fatto che, per reazione a quest’ultimo, ha effettivamente visto la luce in Italia con un bel distacco rispetto ai vicini europei una nuova forma di rapporto con la politica: lo comprovano l’importanza delle associazioni, la vitalità dei movimenti dei cittadini, ma altresì il tentativo dei partiti, per lo meno quelli del centro-sinistra, di gettare nuovi ponti verso alcune componenti della società civile.

Il periodo Berlusconi è altresì emblematico dell’incerta fase nella quale è precipitata la società italiana. Essa da un lato è travagliata da un movimento di individualizzazione che fa saltare in aria le ultime coesioni delle classi sociali e incrinare ancora di più i fondamenti di un senso civico storicamente debole; dall’altro essa è in ugual modo resa fragile dalle forze di disgregazione che valorizzano, con la Lega Nord, gli interessi della parte settentrionale del Paese a discapito del Sud, o con questo o quell’altro gruppo di interesse, le rivendicazioni di uno strato sociale preciso, a detrimento del bene comune.

Eppure, per un altro verso ancora, questa stessa società italiana è continuamente alla ricerca di solidarietà. Le solidarietà di vecchia data rimangono vive grazie alla "sociabilità primaria" della famiglia o a quella più istituzionale dei sindacati, potenti ma in via di invecchiamento e comunque sempre più confinati nel settore pubblico. Nuove solidarietà si vanno affermando con l’invenzione di forme inedite di aggregazione e di coesione, che si realizzano per alcuni dei suoi componenti intorno alle imprese, nell’ambito locale o regionale, o che si formano nei «centri sociali» che costituiscono una sorta di società parallela e alternativa, o che ancora si manifestano nell’ambito della grande panoplia di movimenti civili di lotta alla mafia, di denuncia della «dittatura» di Berlusconi, di resistenza all’arrivo nelle valli alpine della Tav che collegherà Lione e Torino, di opposizione alla costruzione di un ponte nello Stretto di Messina e così via. È molto significativo il fatto che gli italiani accettano sempre più apertamente l’economia di mercato, e al contempo esprimono un forte attaccamento all’esistenza di uno Stato sociale modernizzato, attaccamento che trascende la spaccatura destra-sinistra. Pertanto, l’italiano è individualista, ma non è mai solo.

Il periodo Berlusconi riflette dunque molto bene la deriva dell’Italia, nel senso che sia il suo presente sia il suo avvenire sono pieni di indecisione e del tutto imprevedibili.

Codesta incertezza è quanto mai aggravata dal cumulo di cattivi indici economici e demografici, e dall’ampliarsi delle disparità sociali che affliggono la costellazione largamente maggioritaria delle classi medie. La forte diffidenza dei cittadini nei confronti della maggior parte delle loro istituzioni e dei loro dirigenti politici alimenta anch’essa il dubbio e lo scetticismo che si respirano.

Tutto ciò significa forse che l’Italia è inesorabilmente condannata a mettere il piede in fallo e addirittura a cadere?

La storia dimostra che ogni volta che questo Paese si è ritrovato in ginocchio, a terra, poi ha saputo rialzarsi in modo spettacolare. Così è avvenuto - volendo limitarsi alla sola seconda metà del ventesimo secolo - all’indomani della seconda guerra mondiale, o negli anni Sessanta-Settanta, all’epoca dell’ondata di contestazione cui fece seguito l’offensiva del terrorismo rosso e nero. Le sue capacità di riprendersi completamente sono dovute al senso di responsabilità di cui danno prova - checché se ne dica - numerosi tra coloro che prendono le decisioni e alla vitalità della sua stessa società, abituata a non fare completamente a meno dello Stato e dei politici, ma a trovare insieme ad essi accomodamenti, soluzioni e appoggi utili a mettere a punto una forma di controllo. Andrà dunque a finire così, in questo inizio di nuovo millennio? A suo favore, l’Italia dispone di considerevoli riserve di intelligenza, di talento e di inventiva nella società transalpina come in una parte della cerchia dei suoi dirigenti, malgrado l’esecrazione di cui sono oggetto questi ultimi.

In realtà, la salvezza non arriverà soltanto dalla società civile, come sostiene una vulgata molto diffusa in Italia e all’estero. La capacità di sapersi trarre d’impaccio, il dinamismo, l’ingegnosità non basteranno per raccogliere le sfide economiche, scientifiche e tecnologiche della nostra epoca e farvi fronte. Occorreranno altresì - e molto più che in passato - la volontà politica e insieme ad essa politiche pubbliche efficaci, in grado di garantire una convivenza.

Questo presuppone che le élite italiane sappiano dare nuove fondamenta alla propria legittimità e che la crisi della rappresentanza politica si risolva. Queste sono due delle sfide che periodicamente segnano e orientano la traiettoria di questo paese. Il Sisifo dei tempi moderni è senza alcun dubbio italiano.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Chi governa, si sa, non ama le critiche. C'è qualcuno però che per metterle a tacere pensa che sia lecito negare ogni addebito e in sostanza mentire: il ministro della Giustizia Castelli appartiene a questa non eletta schiera. Era poco più di due mesi fa, infatti, il 29 dicembre dell'anno scorso, quando, in risposta a un mio editoriale critico delle condizioni delle carceri italiane, egli scriveva a questo giornale una piccatissima lettera di risposta (lunga almeno il doppio, secondo un tipico costume nazionale), nella quale, oltre a sostenere il carattere malizioso e del tutto infondato delle critiche suddette, frutto naturalmente della più colpevole disinformazione, assicurava che sotto la sua guida l'amministrazione carceraria non aveva fatto che migliorare. «Smettiamola - concludeva l'indignato Castelli - di accreditare i nostri penitenziari come un inferno, smettiamola di eccitare irresponsabilmente l'animo dei detenuti». Peccato che a dispetto di tanto nobili intenzioni sia proprio il ritratto di un inferno quello che invece emerge dai dati resi noti in un convegno organizzato l'altro giorno proprio dal Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero cui sovrintende l'onorevole Castelli. Nelle carceri italiane sono ospitati oltre 15 mila detenuti in soprannumero (un sovraffollamento mai registrato nell'ultimo decennio), il 27 per cento di essi è tossicodipendente, il 20 per cento è affetto da patologie del sistema nervoso e da disturbi mentali; dal canto suo oltre il 20 per cento delle duemila e 800 detenute soffre di patologie tipicamente femminili come tumore dell'utero, della mammella, ecc. A fronte di questi dati c'è quello stupefacente della diminuzione della spesa sanitaria per ogni cittadino detenuto, passata da poco più di 1.800 euro di dieci anni fa agli attuali 1.607 (cifra che è sì un po’ superiore a quella destinata a ogni cittadino libero, ma che quindici anni fa lo era nella misura di più del doppio).

Ma non è solo questione di condizioni sanitarie o di sovraffollamento. Per esempio è drasticamente diminuito rispetto all'anno passato il numero dei detenuti iscritti a corsi professionali; di mille unità circa è diminuito il numero di quelli che hanno la possibilità di lavorare, mentre oltre il 63 per cento della popolazione carceraria italiana è tuttora costretta, all'inizio del XXI secolo, a lavarsi con l'acqua gelida. Come stupirsi se continua a contarsi ancora a decine il numero dei suicidi nelle prigioni della penisola?

Naturalmente questa situazione era la medesima anche due mesi fa, quando il ministro Castelli, che pure non poteva non esserne a conoscenza, scriveva al che nel suo dicastero, per carità, tutto andava per il meglio o quasi. Non solo, ma arrivava a dipingersi come la povera vittima della solita stampa superficiale e calunniatrice. Proprio in questo tentativo di nascondere la gravità di grandi questioni nazionali (nessuno è così sciocco da credere che il disastro delle carceri italiane sia cominciato con il governo Berlusconi), proprio in questa costante tendenza ad abbellire la realtà con le chiacchiere prendendosela con chi non sta al gioco, proprio qui, forse, sta la maggiore manifestazione del dilettantismo della classe politica e di governo che il centrodestra ha messo in campo. Dilettantismo di chi si ostina a pensare alla cosa pubblica come a una sorta di palcoscenico dove ciò che conta non è la serietà, magari anche sgradevole, dei comportamenti e dei provvedimenti, ma il «fare bella figura», e di chi, come l'onorevole Castelli, non si è ancora accorto, alla sua età, che le bugie hanno invariabilmente le gambe corte.

[…..] E così in quell'autunno del 1939. Eppure l'anno prima, sarà stato novembre, la mia compagna di banco mi aveva detto: “Da domani non vengo più a scuola"Perché? “Perché sono ebrea”. Giorgina Moll si chiamava, aveva un bel viso quieto, era un poco piu grande di me, bruna e gentile. Qualche anno fa una giovane donna mi lanciò animosamente: “Se non fosse stata ebrea l'avresti aiutata, saresti intervenuta, ti saresti informata”. No, temo di no. Funzionava il non sapere, non voler sapere, scansarsi - non dal pericolo, percepivamo confusamente not ragazzi, da una volgarità potente ma pur sempre accidentale. Fu una riduzione, il non fascismo, che non era l'antifascismo e credeva di starne fuori non senza una punta di sprezzo - sono le omissioni i veri peccati mortali. lo ero allenata a omettere.

Giorgina Moll non la vidi mai più. Mi dico, spero, che i suoi abbiano avuto il riflesso pronto, sia andata via, fuori dall'Italia. Che cosa dissero i professori di quei vuoti nei banchi? Niente. Che cosa chiesi? Niente. O furono domande e risposte elusive, di quelle che non restano. Siamo avvezzi a non chiedere e lasciare la prima risposta come viene. Ebrea che voleva dire? Chi era ebreo ? Nella nostra miscela triestina l'ebreo non lo trovo, non si diceva attorno a me il tale e ebreo o non lo é - l'ebreo come “altro” lo decide qualcuno, lo decisero il governo, il regime, i fascisti e sembrò di non dover ascoltare quella prevaricazione. Neppure la gran parte degli ebrei ne colse la gravità, o se la nascose o la ridusse. In ogni caso i miei compagni e compagne di scuola non si sentivano né erano sentiti diversi, e non basta un culto a farsi sentire tali. Lo e oggi per interposta Shoah. Venezia non era uno shtetl, dello shtetl credo neppure sapessero, se pur stava nella memoria di qualche vecchio parente. Dovevano essere ebrei come ero cattolica io, che non mi sarei sognata di dire a Giorgina: Sai, domenica sono stata a messa, tanto la cosa era indifferente. Così dal suo “non vengo a scuola perché sono ebrea» percepii che altri decidevano di noi, come sempre dei ragazzi.

Non un allarme. O che fosse addestrata a tacere o lei stessa non avvertisse che cosa covava in quella separazione. Era a scuola che non sarebbe venuta, non alla deportazione che sarebbe andata.

Fino a tardi fra la gente comune le distinzioni fra ebrei e non ebrei non esistettero né nel bene né nel male. Ma il male doveva essere così sornione e la gente così spossessata che la discriminazione si installò senza un sussulto. La furia mi prese dopo: chi non aveva avuto in casa, o vicino, degli antifascisti impegnati era venuto su nel silenzio. Al più - non so se meglio o peggio - un rifiuto che pareva aristocratico della politica, cosa sporca della quale non occuparsi. I miei appartenevano a questa cieca categoria.

E io ? E certo che per le vicende politiche non avevo uno spazio interno. Ma come mi comportai ? Che cosa rilevavo ? Il primo ricordo sono i manifesti “Si Si Si” che tappezzavano la scuola, avrò avuto otto anni, ero al Lido, gli zii non votarono e basta. Si diceva “il regime” come un'ovvietà. Ho in mente - o l'ho sognata? - una visita del re a Venezia, cui la scuola ci accompagnò, e la delusione nell'intravvedere oltre la siepe di folla un ometto senza corona.

Nulla di questo entrava nella quotidianità con la quale avevo a che fare, neanche quando ebbi dieci o dodici anni, salvo l'ora di ginnastica e la divisa. L'ora di ginnastica era tremenda, non riuscivo a percorrere l'asse di equilibrio senza precipitare, saltavo trenta centimetri o simili. “Patata! Polentona!” gridavano le maestre magre e diritte, capelli tirati sulla nuca, che provenivano dalla Farnesina. Una faceva “Ich!” col saluto romano per mostrarci come la massima estensione e dirittura del corpo corrispondesse a quella parola, e in tedesco funzionasse mirabilmente. Soltanto sul quadro svedese salivo, scendevo e caprioleggiavo, per cui cercavo sempre di infilarmici, ma quelle insegnanti malefiche mi spedivano sull'asse. Il mio corpo era pigro e non lo sapevo governare, a differenza di mia sorella Mimma, abituata dalla prima lunga malattia a prenderlo in conto e averne ragione. Mimma percorreva 1'asse fatale in punta di piedi, tipo farfalla, e graziosamente ne scendeva con un saltino. Inoltre saltava la funicella come una cavalletta e non lasciava cadere un pallone. Non posso reclamare ad antifascismo il mio disgusto per la ginnastica, legata a immagini littorie ma simile all'ora di religione, obbligatoria e non importante.

Mentre mi piacque la divisa da giovane fascista, era il primo tailleur con camicetta e cravatta. Con le stesse carte ci si iscriveva alla tal classe e alla categoria giovane italiana o giovane fascista. Non era un gesto, sarebbe stato un gesto dire: No, io no. Non mi venne mai in mente. Che cosa facessi dentro quella divisa non ricordo. Qualche scempiaggine devo aver detto o fatto se qualche tempo fa, a Torino, una compagna di classe dalla bella treccia bionda che ancora le circonda il viso, mi avvicinò a una conferenza nella quale ero stata verbalmente aggredita da alcuni seguaci di Nolte: “Ti ricordi di me? Sono Liliana. Dimmi, come è avvenuta la svolta ?” Quale svolta ? “Quella politica !” Politica ? Ero fascista ? “Eh, si”. Buon dio! Liliana era in piena buona fede, amichevolmente curiosa. Non ne dubitai, la memoria precipitò verso quel buio, vacillò, non pensò niente. Da allora ho frugato nel passato senza esito. Liliana Thalmann, si chiama, a che anni si riferiva? Non potevano essere che quelli che condividemmo al Manzoni, dunque fra i tredici e i sedici, fra il 1937 e il 1940, due anni di ginnasio e due di liceo, perche anticipai l'esame di maturità per guadagnar tempo. Dev'essere allora che Liliana mi ha visto giovane italiana o giovane fascista - era una graduazione per età - asserire non so che cosa, poi 1'ho perduta per mezzo secolo, fino alla sera di Torino. Perché non ricordo che diavolo ho fatto o ho detto? Che sia un tremendo rimosso? Non possono avermi sedotta le aquile e i gagliardetti, parenti del sole che sorgeva libero e giocondo, ridicoli. Mi ha tentato la retorica bellica, gente in trincea, Vinceremo?, o ero attratta da una certa impronta antiborghese, dall'ergersi eroico contro i modesti orizzonti, il buon senso del «chi te lo f fare”, insomma to ziopierinismo ?

Non so, ma questo potrebbe essere, mi dava fastidio e mi da fastidio anche oggi. Se fu, fu un atteggiamento obliquo, nato nell'indifferenza. Che e la peggior colpa, penso ora. Ma mi inquieta. Quindici, sedici anni adesso sono niente, allora non erano niente. E per come poi mi sbalestro il 25 luglio dovevano non essere stati niente. Fino ad allora il fascismo fu un panorama trovato, non scelto, ero una ragazza grigia. Quelli che Renzo De Felice definisce consenzienti col fascismo, quelli delle grandi adunate dove raccattare qualche brandello di identità, dovevano essere perlopiu grigi, il grande incolore del paese. Avrei cercato di individuarli con to sguardo fra il 1943 e il 1945 quando era decisivo capire se qualcuno di loro ti vedeva, ti notava, se ti avrebbe denunciato. Ma come distingui un grigio ? E non erano i grigi a denunciare. Oggi li penso con maggior pietà. Quanto a me, restai assordata dai fragori interni fino al 1943, quando su meta dell'Europa la guerra era gia passata, e per molti versi era decisa. Fino a quel momento mi difesi dal precipitar fuori e sbattervi il muso. La sbattuta fu violenta.[...]

La scena è otto volte orrenda. Una volta perché l’uomo pestato a sangue è ubriaco, non sta in piedi, basta uno spintoncino e va giù come un birillo, allora perché pestarlo in tanti? Una seconda volta perché è un extracomunitario, lo si sapeva fin da subito, han chiamato i carabinieri dicendogli: «Venite, c’è un marocchino ubriaco, sfascia tutto». La terza volta perché a pestare con pugni e calci sono carabinieri, due in divisa, uno in borghese: e i carabinieri sono la Legge, lo Stato, quindi qui è la Legge, lo Stato che picchia un uomo indifeso, incapace di reggersi in piedi.

La quarta aggravante perché l’uomo picchiato è nudo: s’è spogliato lui, è in mutandoni bianchi, e dunque pestandolo pesti la carne spoglia, vai direttamente sulle costole, ne senti lo schiocco. Il filmato trasmesso in tv è diviso in due tempi. Nel primo tempo il marocchino è attorcigliato a terra, viene colpito con pugni e calci, tirar calci a un uomo caduto a terra fa parte di un istinto primordiale, l’uomo civile lo riscopre in guerra (o nel lager).

Ogni uomo è tuo nemico. Se il nemico cade, colpiscilo prima che si rialzi, colpiscilo perché non si rialzi. E questa - la riscoperta degli istinti arcaici - è la quinta aggravante. Perché questa riscoperta la fa la Legge, lo Stato. Nel secondo tempo il marocchino è in piedi, forse l’han tirato su, qualcuno lo tiene fermo e intanto uno lo colpisce, ci volta le spalle, vediamo il braccio destro che rotea in aria per prender forza, poi viene scaricato dall'alto in basso, e il pugile che lo scarica fa un saltino, per dare al pugno più violenza.

E questa è la sesta aggravante, la gragnola di colpi su un uomo in ko. La scena dei pugni con saltino dura tanto a lungo che il nostro cervello fa in tempo a formulare un pensiero: «Questo è odio, odio personale». E questa è la settima aggravante. L’ottava, l’ultima che vediamo, è la più lugubre: l’uomo è di nuovo a terra, stramazzato, e uno dei carabinieri balza sopra il suo corpo, a piedi giunti. Non si vede bene, tutto il filmato è confuso, girato in fretta, di nascosto. Se qualcosa fosse meno grave di quanto ci è parso, saremmo i primi a esserne contenti. Lo dico in piena coscienza. Nostro massimo desiderio sarebbe che il filmato fosse tutto inventato. Ma purtroppo anche il Comando dei Carabinieri sa che è buono, e ha provveduto a punire immediatamente col trasferimento i militi protagonisti.

Ed ecco la coda velenosa dell'argomento: gli italiani residenti nel quartiere (siamo a Sassuolo, in provincia di Modena, la capitale delle piastrelle) han sottoscritto una petizione per chiedere che i carabinieri non vengano puniti, facevano quel che facevano per fermare la criminosità della zona, l’invivibilità, che rovina l'esistenza di tutti. Il marocchino pestato è un clandestino. Ma la zona è piena di extracomunitari regolari, i quali pure si sentono danneggiati dalla criminosità che detta legge.

La tentazione da respingere è quella di stare con una parte, contro l’altra. Se quello è un irregolare malavitoso (ripeto: se), non va massacrato, va espulso, che per lui è anche peggio. Se i carabinieri son pronti a metterci tanto impegno per bonificare le aree di loro competenza dalla criminosità, devono avere mezzi e leggi, non andare nel corpo a corpo, a farsi una giustizia tribale. Non vanno usati come barriera umana, a scaraventare il loro corpo contro il corpo dell’illegalità. Qui il gesto più saggio, più utile, più moderno, l’ha compiuto il marocchino che ha filmato la scena col suo cellulare, e ha mandato il filmatino alla stampa. Son passati dieci giorni, ed ecco, sappiamo tutto. Se non sapessimo niente, poteva anche succedere che tutto venisse coperto. Invece sappiamo, e scoppia lo scandalo, e la giustizia non può più fermarsi. Perché la giustizia non è la Giustizia. Siamo noi. Sono gli articoli, compreso questo.

Nota: sulla diffidenza generale che circonda a Sassuolo gli immigrati, per Eddyburg avevamo mesi fa proposto un articolo di Elisabeth Rosenthal (f.b.)

«Siamo a qualcosa di peggio». Lo dice Tina Anselmi l’indimenticata e coraggiosa presidente della Commissione P2, in un’intervista all’Espresso del 23 febbraio. L’intervistatrice Chiara Valentini ricorda all’Anselmi la durezza del suo esordio politico, ai tempi del «duello all’ultimo sangue tra Togliatti e De Gasperi». E prontamente l’ottuagenaria ma non domata signora risponde: «Adesso siamo a qualcosa di peggio. Oggi c’è chi rifiuta le modalità della democrazia». Dice: «Quando presiedevo la Commissione della P2 ho avuto pressioni, minacce, denunce, sette chili di tritolo davanti casa, era una vita impossibile, ma Papa Wojtyla, mi ha detto battendomi una mano sulla spalla: “Forza, forza”. Nell’elenco di Gelli c’era una buona parte di quelli che contavano, uno spaccato tremendo del Paese. Ma ben più grave è che molti uomini della P2 siano passati indenni da quegli anni. Basti ricordare l'attuale presidente Berlusconi, tessera P2 1816. E il suo aiutante, Fabrizio Cicchitto, tessera P2 2232».

Se in tempo di quote rosa si ammettesse che, oltre ai “padri”, ci sono anche le “madri della Patria”, quel titolo spetterebbe certo alla cattolica democratica Tina Anselmi. Per il coraggio che ha avuto, e per il coraggio che ha. Perché anche adesso il semplice menzionare un nome e una tessera P2 porta, come conseguenza immediata, di essere definiti «giornalisti criminali» e «testata omicida», con accuse di contiguità al terrorismo politico o al terrorismo islamico.

Eppure le due tessere P2 sopracitate corrispondono, nell’ordine, a colui che si proclama l’uomo nuovo destinato da Dio a cambiare il Paese (lo ha cambiato, purtroppo, e anche senza essere credenti c’è da dubitare che Dio sia coinvolto con lui, con Dell’Utri e con Previti in questo umiliante cambiamento). E al portavoce del premier che appariva ogni giorno nei telegiornali di Stato per redarguire la sinistra sulla scarsità di senso morale, al tempo in cui andavano quotidianamente in onda notizie false sulle scalate Ds alle banche.

I n quel tempo il buon avvocato Mills, destinatario di un anticipo di seicentomila dollari misteriosamente giuntogli dall’Italia, non aveva ancora parlato, non aveva ancora indicato il mittente della sua fortuna.

Se vi fermate un momento a riflettere, notate questo: tutti gli uomini del presidente (in particolare gli intimi) sono identificati o da una tessera P2 o da grandi somme di denaro, distribuite, assegnate o transitate per una ragione o per l’altra.

Per questo Tina Anselmi dice, dopo aver ricordato i suoi tempi terribili, «adesso siamo a qualcosa di peggio».

Ma mettetevi nei panni di un normale lettore o lettrice dell’intervista Valentini-Anselmi. Molti constateranno di non avere mai sentito, da quando esiste questo governo, un simile discorso alla radio o alla televisione italiana. Infatti la campana di vetro che isola l’Italia da ciò che realmente accade, attraverso il controllo ferreo delle notizie (Tg e talk show, le altre fonti dissuase o intimidite, se necessario, con pesanti denigrazioni o minacce) produce la percezione di una realtà alterata in cui chi si ostina a dire le cose così come sono, appare un persecutore e anche un testardo.

Infatti la realtà offerta dai Tg è completamente diversa. Al punto che il presidente del Parlamento Europeo Josep Borrell che vede gli eventi senza il filtro malato della Tv italiana, si è accorto subito delle dichiarazioni para-naziste di Romagnoli (uno dei nuovi alleati fascisti di Berlusconi, secondo i patti siglati a Palazzo Grazioli, sede privata del Governo) e del suo disprezzo della Shoah, ha subito dichiarato la sua incredula indignazione.

Molti italiani sarebbero stati colti di sorpresa da quella dichiarazione, se il presidente Ciampi, lo stesso giorno, di sua iniziativa, non si fosse recato alla Sinagoga di Roma per dire: «Un uomo della mia generazione non dimenticherà mai il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma, non dimenticherà mai la Shoah».

Ora non crediate che Carlo Azeglio Ciampi si sia trovato a passare per caso sul Lungotevere, e abbia pensato di passare a fare una visita al suo amico livornese Elio Toaff.

Una ragione c’era, anche se manca nelle notizie italiane: arrivano i fascisti, e fanno campagna elettorale, per la prima volta nella storia democratica italiana, con un leader che viene dalla P2 e che va in giro spacciandosi per “liberale” (come scrivono benevolmente di lui sui muri di “Porta a Porta”).

Ci sono anche collaborazionisti (più o meno consapevoli) della destra che si fanno trovare a bruciare bandiere di Israele (un Paese la cui distruzione viene continuamente invocata) in coda al corteo di un partito che figura nella coalizione guidata da Romano Prodi.

Prodi ha messo subito per iscritto, in una lettera a Giorgio Gomel e al gruppo Martin Buber, la sua recisa e incondizionata condanna per quella umiliante e incivile iniziativa. Si può capire l’imbarazzo di Berlusconi. Berlusconi non potrebbe scrivere quella lettera. Ha preso ben altri impegni con certi fascisti che, ancora adesso, si collegano direttamente alla Repubblica di Salò, e dunque anche alle leggi razziali.

Ma qualche altro “liberale” della sua parte (o qualche cattolico fervente, come Casini) avrebbe potuto dedicare un minuto di attenzione alle squadre fasciste che si sono adunate a Palazzo Grazioli per fare il “saluto ad Arcore” e comunicare, almeno, un po’ di disaccordo. Invece continuano a parlare di Vladimir Luxuria, come se essere transessuale fosse un reato. Lo sarà, forse, se dovesse vincere, con i suoi fascisti a bordo, accanto a Casini e a Pera, la Casa delle Libertà.

C’è un film dvd di Enrico Deaglio che sarà distribuito con il settimanale «il Diario» il primo marzo, e poi nelle librerie Feltrinelli. Contiene un documento che è importante vedere. È l’intera sequenza della seduta del Parlamento Europeo che ascolta Berlusconi nel giorno infausto in cui si è insediato alla guida del semestre italiano.

Di quell’evento è restato un senso di profondo imbarazzo in Italia, perché a nessuno piace mostrare in pubblico di aver meritato un simile primo ministro. Ma il nostro imbarazzo era motivato da brevissimi flash di telegiornale così cautamente contenuti che il Tg 1, per esempio, aveva soppresso la voce dei protagonisti e l'aveva sostituita con la narrazione fuori campo, durata comunque pochi secondi.

Che cosa è realmente accaduto? Lo vedrete nel dvd che mostra l’intera vicenda. È accaduto che il capo del governo italiano ha dato del nazista («Kapò») al deputato tedesco Martin Schultz, capogruppo dei socialisti in quel parlamento. La ragione della scenata di Berlusconi è familiare agli italiani. Schultz si era permesso di fare delle critiche e di alludere al gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi che, fuori dall’Italia, continua a provocare meraviglia, disagio e anche disprezzo a causa dell’evidente illegalità. Di fronte a quelle critiche - durate in tutto un paio di minuti e contenute nel più tradizionale linguaggio parlamentare - Berlusconi ha perso la testa ed è passato all’insulto violento, con parole volgari e gridate. L’evento è servito molto ai parlamentari europei. Hanno colto al volo l’incapacità di governare di Berlusconi, che infatti ha prodotto, nel semestre italiano, soltanto circostanze penose, negative o ridicole.

Ma hanno visto anche - dietro la finzione dell’eterno sorriso da venditore - una genuina cattiveria, una vera e non controllabile voglia di vendetta (che del resto questo giornale conosce bene, se pensate alle accuse costantemente sollevate contro chi non ha mai accettato di considerare Berlusconi un normale avversario e si è sentito costretto a insistere sul pericolo per la democrazia che il conflitto di interessi provoca con la sua infezione e la sua estraneità alla legalità).

Ma è necessario vedere il film di Deaglio perché nessuno di noi, in Italia, ha mai visto l’intera, umiliante sequenza, ha mai ascoltato i boati di indignazione dei parlamentari europei, ha mai visto la faccia esterrefatta di Prodi che ascolta, ha mai potuto sostare sui primi piani del presidente Cox, che appariva offeso e desolato, ha mai potuto ascoltare le sue parole. Vedendo il film apprenderete ciò che la Tv italiana ci ha negato, negando una pagina rilevante del giornalismo contemporaneo.

I parlamentari europei insorgono. Quando Parla Schultz lo applaudono in piedi per più di un minuto. Quando parla Berlusconi gridano e protestano, non per impedirgli di parlare, ma per le cose incredibili che ascoltano. Ascoltano sarcasmo, maleducazione, offesa e rifiuto di scusarsi. Invano il presidente Cox, che notoriamente non è di sinistra, ha offerto a Berlusconi una seconda occasione di prendere la parola. Il premier ha ripetuto e deliberatamente peggiorato le cose che aveva già detto. La reazione del Parlamento è stata di aperto rigetto. Niente di tutto ciò era stato visto in Italia, dove anche coloro che avevano giudicato severamente l’evento erano stati lasciati con l’impressione di un momento sbagliato o difficile in un incontro altrimenti normale. La verità è che si è trattato di un disastro di immagine gravissimo, irrimediabile. E solo un uomo prepotente e ricco è in condizione di bloccare l’informazione nel suo Paese, una informazione tanto importante su un fatto così clamoroso. Attraverso la pesante intimidazione, oppure l’amicizia conveniente, oppure la paura preventiva è stato reso possibile il quasi silenzio.

Ho ripensato a questa sequenza proibita quando all’improvviso, nel corso di una puntata di «Otto e mezzo» il senatore Debenedetti ha detto a Berlusconi, che era accanto a lui in trasmissione: «Lei ha spaccato l’Italia».

La frase semplice e inequivocabile ha provocato un effetto dirompente. Il presidente-padrone è abituato alle lodi di corte o alla prudenza di chi conosce il suo istinto vendicativo. E, purtroppo, al silenzio dei giornalisti. In quel caso lo ha bloccato lo stupore. E, solo dopo, il furore. Ma questo, almeno, in Italia si è visto anche se Berlusconi non è sembrato in vena di perdonare la sorpresa. Berlusconi sa che, a causa del conflitto di interessi, è in grado di interferire in qualunque campo o attività imprenditoriale. Parlo delle imprese che controllano i giornali. Questo fatto, che è fuorilegge, spaventa e zittisce molti fra coloro che dovrebbero raccontare, interrogare, sollevare obiezioni.

Nei libri di storia italiani si ricorderà che la potente macchina illegale messa in funzione da Berlusconi e dai suoi associati - scelti a uno a uno dal condannato in primo grado Marcello Dell’Utri anche per le prossime elezioni - non ha potuto funzionare sui magistrati. «Delira», hanno detto di lui venerdì senza esitare i Giudici dell’Associazione Nazionale Magistrati, quando Berlusconi è tornato a dichiararsi vittima di persecuzione delle toghe rosse.

Parlando a Perugia, alla folla fatta pervenire sul posto per le riprese televisive, Berlusconi aveva appena assicurato i suoi: «Non me ne andrò finché non sarò riuscito a cambiare la magistratura». Vuol dire: metterli a tacere. I suoi elettori che - avrete notato - lo applaudono in continuazione ma, perfino loro si fermano stupiti e in silenzio quando lui ha il coraggio di dire: «Ho mantenuto tutti i punti del mio contratto», sanno che quella di far tacere i Magistrati è l’unica promessa che Berlusconi, se rieletto, si impegnerà davvero a mantenere.

Ciò rende ancora più urgente il voto di tutti i cittadini democratici, in qualunque parte si riconoscano, per chiudere l’epoca della illegalità e per informare i parlamentari e governi europei che l’Italia è tornata, che il Paese è uscito da una tremenda condizione di rischio. Come dice Tina Anselmi, «peggio della P2».

Chi potrà ancora sostenere che se si ritirano le truppe straniere dall'Iraq scoppierà la guerra civile? Quello che è successo ieri a Samarra - un'esplosione ha distrutto la cupola d'oro della moschea al Aksari, luogo santo sciita, cui sono seguite proteste e rappresaglie contro imam e moschee sunnite - toglie ogni velo di ipocrisia ai fautori dell'occupazione. Non è la prima volta che vengono attaccati i luoghi santi sciiti e probabilmente non sarà l'ultima. Bisogna fermare il massacro non alimentarlo, come hanno fatto finora gli occupanti acuendo la divisione fra le varie componenti etnico-confessionali irachene. Il ritiro dall'Iraq toglierebbe ogni alibi a coloro che non sono interessati alla sua liberazione dall'occupazione ma alla destabilizzazione del paese sfruttando le diverse appartenenze religiose (sunniti e sciiti) per perseguire il proprio disegno terroristico. Non si può assistere al dissanguamento di un popolo sfuggendo alle proprie responsabilità. Che non sono solo americane, ma anche italiane. La testimonianza resa a Rainews 24 da Ali Shalal al Kaisi, «l'incappucciato» di Abu Ghraib, ci rivela qualcosa che purtroppo non ci può sorprendere: tra i torturatori del tristemente famoso carcere c'erano anche italiani. Non i soldati in «missione di pace» a Nassiriya, ma i mercenari. Perché ci sono anche italiani tra i mercenari presenti in Iraq, insieme a sudafricani, cileni, bosniaci, colombiani, francesi, etc. etc. Io stessa a Baghdad avevo cercato di intervistarne uno ma non sono riuscita perché, da vero mercenario, voleva essere pagato. Sono quei contractors che costituiscono il secondo esercito di occupazione in Iraq, il cui numero è di decine di migliaia. Sono i fautori della privatizzazione della guerra sostenuta dalle americane Balckwater, Caci, Titan corp e altre società che così rimpinguano i loro bilanci.

E' la parte più sporca della guerra: sono infatti i contractors a fare quello che nemmeno i soldati regolari possono permettersi di fare. E sono superpagati. Tanto da far nascere tensioni con soldati americani che si erano ribellati a questo doppio trattamento. Non si può certo impedire a chi vuole fare della guerra una propria fonte di reddito di farlo, ma almeno potremmo evitare di celebrarli come eroi. Possiamo invece evitare che i nostri soldati continuino a essere complici di un'occupazione che non può avere nessuna giustificazione. L'Iraq è in guerra, per questo gli americani hanno sparato un anno fa alla macchina su cui viaggiavamo verso l'aeroporto uccidendo Nicola Calipari. E anche i nostri soldati sono in guerra e non in «missione di pace». Ancora una volta è stata Rainews 24 a svelarci una realtà che solo l'ipocrisia poteva farci ignorare: la guerra è la guerra e chi si trova su un teatro di guerra imbracciando le armi non svolge attività umanitaria. E spara anche sulle autoambulanze, lo ha confessato il caporalmaggiore Raffaele Allocca confermano le affermazioni del giornalista americano Micah Garen. Di fronte a tanta barbarie come è possibile che la campagna elettorale non faccia della posizione sulla guerra e l'Iraq un punto qualificante?

Si discute molto, nel centrosinistra, se Romano Prodi debba o no concedere a Silvio Berlusconi un confronto in diretta tv. Il buonsenso fa propendere per il no, perché al candidato che è in testa nei sondaggi non conviene esporsi al rischio di dilapidare il vantaggio in una serata storta. Nel 2001 il Cavaliere si rifiutò, accortamente, di incontrare Francesco Rutelli; in Francia, nel 2002, Jacques Chirac negò a Jean Marie Le Pen qualsiasi dibattito, e lo stesso ha fatto l’anno scorso in Gran Bretagna Tony Blair con gli sfidanti conservatore e liberaldemocratico. Quale che sia il suo orientamento in materia, però, il Professore sarebbe davvero matto se accettasse un duello in tv alle condizioni finora fissate dalla Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. E non soltanto per l’ignobile decisione di lasciare a Berlusconi l’ultima parola, con una conferenza stampa tutta per lui subito prima del voto del 9 aprile. Ciò che è in linea di principio totalmente inaccettabile, infatti, è che le regole dell’eventuale faccia-a-faccia vengano stabilite da organismi nei quali uno dei due contendenti, cioè Berlusconi, ha la maggioranza. È assurdo che siano la Vigilanza o il consiglio d’amministrazione della Rai, entrambi controllati dalla Casa delle libertà, a dettare legge; o, peggio, Raiuno, il cui direttore Fabrizio Del Noce è un ex deputato di Forza Italia. Se un duello ha da esserci, il regolamento non può scaturire che da una trattativa diretta fra le due parti in causa. Esattamente come è avvenuto nel 2004 negli Stati Uniti, dove George W. Bush e John F. Kerry hanno concordato tutto fra di loro senza sottostare al diktat di alcuna autorità esterna. All’esperienza americana pensa Prodi, probabilmente, quando allude sornione alla necessità di «un po’ di regolette». L’accordo fra Bush e Kerry, raggiunto dopo mesi di discussioni, disciplinava i tre faccia-a-faccia fin nei minimi dettagli. Nessuno era in grado di giocare scherzi da prete all’altro. Tutto veniva specificato nero su bianco: le caratteristiche dei conduttori e gli obblighi dei registi, i temi di ciascun dibattito e i doveri del pubblico negli studi. In Italia, visti il dominio di Berlusconi sulle tv e la sua inclinazione alla prepotenza, il duello esigerebbe regole ancora più stringenti. Fra le garanzie all’americana, però, ce ne sono almeno due che Prodi dovrebbe considerare assolutamente irrinunciabili. Una è il limite massimo di due minuti per ogni intervento dei candidati, senza il quale il premier uscente, volutamente logorroico, requisirebbe per sé gran parte del tempo a disposizione. L’altra clausola di rigore è la facoltà di opporre a ogni dichiarazione dell’avversario una replica di 30 secondi: se Berlusconi dicesse che i comunisti mangiano i bambini, con la perentorietà demagogica che gli è propria, Prodi avrebbe almeno la possibilità di ribattere che è una fesseria. Quanto ai conduttori, è ovvio che essi debbano apparire imparziali: non possono essere notoriamente vicini a uno dei duellanti più che all’altro. Che senso ha, dunque, fare il nome di Bruno Vespa? Costui è un professionista capace; ma non c’è dubbio che per vari aspetti, a prescindere dalle sue opinioni politiche, sembri gravitare nell’orbita di Berlusconi. Che riscuota emolumenti dal gruppo Fininvest è un fatto, sia come collaboratore fisso di "Panorama" sia come autore della Mondadori che gli pubblica un libro all’anno. L’ultima volta che ha ospitato il Cavaliere a "Porta a porta", il 31 gennaio, gli ha messo di fronte due giornalisti amici, Augusto Minzolini che ha anche lui una rubrica sul settimanale di Segrate e Maria Latella che è la biografa super-autorizzata di Veronica Lario. Un caso? Si aggiunga che la moglie di Vespa, il gip Augusta Iannini, ha ottenuto dal governo Berlusconi l’importante poltrona di direttore degli Affari penali al ministero della Giustizia; e i suoi rapporti con l’entourage berlusconiano sono tali che anni fa non se la sentì, correttamente, di esaminare lei due richieste di arresto avanzate dalla Procura di Roma per Gianni Letta e Adriano Galliani. Come arbitro dell’ipotetica sfida Berlusconi-Prodi, insomma, Vespa si esporrebbe fatalmente a qualche sospetto di sudditanza psicologica verso uno dei due. Se il leader dell’Unione preferisse designazioni diverse, come dargli torto?

IL FATTO più rilevante della giornata di ieri è stato la lettera che il presidente Ciampi ha inviato al presidente della Commissione di vigilanza della Rai con la richiesta che la «par condicio» entri in vigore da subito in tutte le trasmissioni della televisione pubblica, garantendo il pluralismo e la parità delle parti politiche e impedendo che i teleschermi e le radio siano monopolizzate da un solo partito o addirittura da un solo personaggio.

L´iniziativa di Ciampi è stata approvata da tutti, con la sola differenza che il centrodestra ha escluso di esserne il destinatario e soprattutto che l´indiziato principale di quel messaggio fosse Silvio Berlusconi. Ormai è una tecnica collaudata da tempo: Ciampi parla, il Polo continua come se le parole del Presidente non lo riguardassero.

Quanto a Berlusconi, il suo lapidario commento è stato: «La par condicio è una legge iniqua e illiberale».

Così lo scontro istituzionale appena sopito sulla data di scioglimento delle Camere torna più che mai a riproporsi tra Ciampi custode delle regole democratiche e il picconatore che vuole distruggerle ed è già abbastanza avanti in questo perverso disegno.

La situazione deve infatti essere arrivata ad un livello di gravità molto preoccupante se il Capo dello Stato ha deciso di intervenire rivolgendosi ad uno specifico organo di vigilanza parlamentare. Si è trattato di un messaggio vero e proprio che il Quirinale ha facoltà di inviare in qualunque momento e su qualsiasi argomento al potere legislativo; dal punto di vista costituzionale la lettera di Ciampi è dunque assolutamente corretta. Ciò non toglie che si tratti d´uno strumento straordinario, proporzionato alla eccezionalità creata da un presidente del Consiglio che ormai da venti giorni occupa gli spazi radiofonici e televisivi come mai era accaduto non solo in Italia ma in nessun´altra parte del mondo.

Temo purtroppo che anche questo estremo appello cadrà nel vuoto. La maggioranza parlamentare, ovviamente presente in forze sia nella Commissione di vigilanza sia nel Consiglio d´amministrazione della Rai, tirerà per le lunghe con tutti i pretesti possibili.

Quanto ai singoli conduttori delle varie trasmissioni, continueranno a subire o addirittura a incoraggiare la presenza di Berlusconi nelle trasmissioni di loro pertinenza, contrapponendogli interlocutori attentamente selezionati, giornalisti intimiditi o se stessi in veste di unico contrappeso. Fino a quando la legge entrerà finalmente in vigore dopo altri quindici giorni da oggi di manipolazione massiccia del corpo elettorale.

* * *

In che cosa consiste l´invasione della radio e delle televisioni da parte di Berlusconi? C´è un contenuto, un programma, un´affermazione di valori, un´indicazione di strumenti per realizzare concreti obiettivi? O almeno la dimostrazione che buona parte degli impegni assunti con tanta enfasi cinque anni fa è stata adempiuta? Alcuni brandelli di queste cose spuntano di tanto in tanto come discontinui sprazzi dietro una spessa cortina, ma il vero e sostanziale contenuto di quella presenza è l´esibizione del corpo del Re. Quel corpo trasuda energia, ottimismo, capacità taumaturgiche, muscolatura mentale, umori, buona fortuna, sicurezza. E anche odio per il nemico e sopportazione paziente degli alleati, disprezzo per le regole, noncuranza per le opinioni altrui. Logorrea. Luoghi comuni. Barzellette grevi. Sessuologia da taverna.

Megalomania.

E due messaggi martellati senza risparmio: il pericolo del comunismo incombente, l´immoralità della sinistra.

Questo è il messaggio che il corpo del Re comunica dai televisori da lui saldamente occupati. Un messaggio, come ha scritto Gad Lerner in un articolo dell´altro ieri, pre-politico, anzi antipolitico. Non lo ha confermato lui stesso nel profluvio di parole con le quali sommerge ogni giorno ed ogni sera i malcapitati ascoltatori? «Io odio la politica e odio la televisione. Ma sono costretto a far politica e ad apparire in televisione perché debbo salvarvi dal comunismo». Gliel´ha detto la mamma che già dieci anni fa sognò il drago che minacciava di distruggere e ingoiare la Penisola e che solo un San Giorgio con la spada lucente avrebbe potuto sconfiggere. Quel San Giorgio era lui e non poteva essere altri che lui.

Così, recalcitrante, scese (scese) in politica. Trasse dal nulla un partito, sconfisse l´avversario. Ma l´avversario, come Satana, è risorto dalla polvere, è più potente che mai, controlla la magistratura, l´università, la scuola, le banche, le imprese, i sindacati, la burocrazia, le case editrici, i giornali e perfino la televisione. Più lo sconfiggi e più si ripresenta potente e minaccioso; perciò la sua fatica deve ogni volta ripetersi. Ma lui c´è. Lui non diserta. Lui vincerà ancora con a fianco la mamma, i figli di primo letto, i figli del secondo. La sposa nello sfondo, forse appena un po´ perplessa ma (per sua fortuna) silente.

Questo comunica il corpo del Re. Sembra una favola, di quelle che si ascoltano a bocca aperta come tutto ciò che sconfina dal reale nel fantastico.

Per alcuni è una favola bella a lieto fine. Per altri un inganno che può far perdurare il disastro che abbiamo ogni giorno dinanzi agli occhi. La conclusione è che si finisce col parlare soltanto di lui. Per inneggiarlo o vilipenderlo, non importa. Lui questo vuole: che il suo corpo sia al centro del dibattito e al massimo della visibilità.

Siamo ai confini della nevrosi. Prodi ha detto: tra poco venderà perfino i tappeti in televisione. Vedremo sicuramente anche questo, anzi l´abbiamo già visto: sono cinque anni che rifila agli italiani falsi tappeti persiani come fossero veri. Molti ci sono cascati e molti ci cascheranno ancora perché non sempre l´esperienza insegna e non sempre la memoria soccorre. Il potere poi, chi ce l´ha sa come farlo fruttare a proprio vantaggio. Lui e i suoi lo sanno.

Lo sapevano anche prima. Per questa ragione non era vero ciò che a un tempo la bella Iva Zanicchi consigliava dalle televisioni del «boss»: «Proviamolo, facciamolo governare e poi, se non funziona, lo rimanderemo a casa».

Non era vero nemmeno quello che diceva Montanelli: «Il solo vaccino contro la malattia berlusconiana è di iniettarsela. Poi saremo tutti definitivamente vaccinati». Non è così.

Quando te la sei iniettata rischi di renderla cronica quella malattia anziché vaccinarti contro di essa.

Non andrà così, ma potrebbe anche accadere.

***

Sempre ieri – altra notizia non da poco – l´anno giudiziario è stato aperto nei distretti di tutte le Corti d´appello italiane e il giudizio dei presidenti e dei procuratori generali è stato unanime: la giustizia non funziona come dovrebbe nel nostro Paese. È terribilmente lenta, i processi civili e penali si accumulano, i reati impuniti aumentano, la sicurezza pubblica non è affatto migliorata. Il governo, anziché tentare di migliorarla, ne ha scompaginato l´ordinamento con una raffica di leggi improvvisate, talvolta contraddittorie, spesso tendenti soltanto a sottrarre alla giurisdizione il corpo del Re.

Questo trattamento sussultorio, per di più affidato alle mani d´un ministro arrogante quanto incapace, ha ridotto la magistratura italiana allo stremo, lasciando i cittadini privi del più importante tra i servizi che lo Stato dovrebbe organizzare a loro vantaggio.

Se il corpo del Re rappresenta lo Stato, per quanto riguarda la giustizia esso è già imputridito da tempo. Non ci fosse un mucchio di altre ragioni, questa basta e avanza per rimuoverlo.

Mi prendo la licenza di riprodurre ancora una volta (lo feci già qualche anno fa ma i tempi mi sembra che lo richiedano) un sonetto del grande Gioachino Belli che fa al caso nostro. Eccone il testo.

C´era ´na vôrta un re, cche ddar palazzo

Mannò ffôra a li popoli st´editto:

Io so´ io, e vvoi nun zete un cazzo,

Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto!

Io fo ddritto lo storto e storto er ddritto;

Pôzzo venneve a tutti a un tanto er mazzo;

Io, si vv´impicco nun ve fo strapazzo

Che la vita e la robba io ve l´affitto.

Chi abbita a ´sto monno senza er titolo

O dde papa o dde re o dd´imperatore,

Cuello nun pô avé mmai vosce in capitolo.

Co st´editto annò er bojja pe ccuriero

A interrogà la ggente in zur tenore

E arisposero tutti: è vvero! è vvero!

"Legalità", nome astratto, evoca dei modelli: li chiamiamo positivi quando vigono; e se una norma viga, lo dicono regole-matrice dei singoli ordinamenti; nell´Italia 2005 gli artt. 70-89 Cost. Ma non basta comandare, perché talvolta i comandi restano sulla carta o nell´aria: dopo l´attentato 20 luglio 1944, l´apparato coattivo nazista lavora inesorabilmente; Roland Freisler, psicopatico presidente del Volksgerichtshof, applica norme valide ed effettive; nove mesi dopo gli ordini del Führer non incidono più nei fatti, puro rumore vocale; regna uno stato caotico, risolto dalle armi; appena qualcuno trovi gente che ubbidisce, ecco l´ordinamento nuovo, finché dura. La teoria del diritto sta tutta lì. I cultori del diritto cosiddetto naturale elaborano falsi teoremi raccontando che siano valide solo le norme giuste: pia favola; la questione però esiste ed esplode ogniqualvolta l´atto conforme al prescritto risulti immorale o dannoso alla comunità; Roland Freisler era l´organo d´una giustizia infame. Insomma, non confondiamo sintassi del diritto, etica, politica.

Dopo i nomi e le idee, la storia. Nel collasso della prima Repubblica corrosa dal malcostume consortile, appare B., finto homo novus: affarista d´origini buie; s´è ingrossato nel privilegio concessogli dalla vecchia consorteria; accumula soldi col monopolio delle televisioni commerciali, istupidisce il pubblico, falsifica bilanci, evade il fisco, allunga le mani dappertutto; gl´italiani sapranno poi in qual modo vincesse le cause, comprando i giudici attraverso un´agenzia barattiera. In vista dei sessant´anni scende in campo perché teme la resa dei conti. Tale l´unico programma, sotto la falsa bandiera d´una rivolta contro i politicanti professionisti: qualificandosi campione dello spirito d´impresa, truffa gli elettori; è un enorme parassita, fabbricato dalla malavita politica, abilissimo nella frode, mago delle lobotomie televisive; spaccia menzogne come i bachi secernono bava.

Convertite le televisioni in partito, assolda mano d´opera più o meno intellettuale: s´imbarcano anche degl´illusi d´una svolta radicale; qualcuno se ne pente; emergono naufraghi del vecchio corso, sgherri impuniti, parolieri, commedianti, uomini del sì, domestici, faune da Satyricon. Scenario senza precedenti nella storia d´Italia: bene o male avevano un disegno politico gli avventurieri, da Crispi a Mussolini; costui no, difende l´impero personale senza scrupoli nella scelta delle armi. Naturalmente autocrate, paga e vuol essere servito: gli mancano i neuroni del sentimento etico; l´avversario va sgominato o corrotto; negli elettori vede bestiame umano dal cervello frollo.

Le due stagioni al governo, 1994, dicono che gusti e talenti abbia: vuol ministro degl´interni o guardasigilli l´avvocato che gli compra i giudici; cade; dopo sedici mesi d´un confuso interregno, sale l´altro polo. I quattro anni seguenti portano dati su cui riflettere, se non vogliamo funesti bis. Qualcuno s´è convinto che l´intruso sia ormai innocuo (conclusione assurda: aveva raccolto altrettanti voti), e intavolando negoziati bicamerali, lo riaccredita; forse voleva disporne nelle partite interne al centrosinistra, il cui buon governo cade, affondato dagli arrembanti; ne segue uno da dimenticare; l´ultimo inalbera insegne ormai obituarie. I dialoghi presupponevano intese sotto banco: che l´impero mediatico resti intatto al parassita; glielo garantiscono, perché le sue aziende sono «patrimonio italiano» (formula d´inaudito ridicolo); va in fumo la prima cosa da fare, una legge che impedisca conflitti d´interesse come quello dal quale umori instabili e calcoli furbeschi d´un Bertoldo padano hanno provvisoriamente salvato l´Italia affossando l´invasore.

L´Ulivo è padrone delle Camere: 157 seggi contro 116; 284 contro 246, ma in materie capitali legiferano in chiave già berlusconiana; sul tema giustizia la Bicamerale ricalca il «Piano d´una rinascita democratica» tramato da Licio Gelli, contemplante inter alia un pubblico ministero nella gabbia del potere esecutivo; risulterà meno vandalica la riforma berlusconiana. L´astuto partner stava al gioco: incassato ogni possibile profitto, dopo un anno e mezzo rovescia il tavolo; e l´aborto bicamerale infetta i 23 mesi seguenti; i frutti velenosi dell´albero avvelenato maturano nel tempo; eravamo afflitti da una procedura penale declamatoria, farraginosa, contorta; vari interventi disseminano uno pseudo-garantismo passibile d´usi micidiali; viene da lì la norma grazie alla quale l´ex ministro sotto accusa (d´avere corrotto dei giudici a profitto del cliente, futuro statista) moltiplica i rinvii dell´udienza preliminare adducendo impegni parlamentari; la Camera nega l´autorizzazione alla custodia cautelare; e solleva un conflitto davanti alla Corte, perché quel giudice s´era permesso d´obiettare che la giurisdizione penale non è poi l´ultima ruota del carro. La coalizione muore suicida.

Guai se dimenticassimo i lugubri anni del dialogo col caimano. Rioccupato Palazzo Chigi, l´arrembante provvede a sé stesso.

Era falsario nei bilanci e subito, attraverso onorevoli yes-men, riformula la legge: sarà prosciolto, non costituendo più reato i fatti de quibus, con tanti saluti alla trasparenza societaria, importantissima dove esista un capitalismo degno del nome; poi ritocca pro domo sua la materia delle rogatorie, perché carte bancarie estere inchiodano gl´imputati dei processi milanesi. Fallita la fuga da Milano attraverso varie chicanes, sfigura un articolo del codice sulla translatio iudicii motivata da anomalie ambientali; s´inventa un´immunità che la Consulta dichiara invalida; riforma l´ordinamento giudiziario avendo in mente un pubblico ministero comandato dal potere esecutivo. Siamo sul terreno della legalità perversa: patologia più grave delle consuete prassi delittuose; il fattore criminogeno s´è impadronito della leva normativa. Qui la politica forzaitaliota, condivisa da alleati e satelliti, svela disegni coerenti. Chiamiamoli criminofilia. Parola forte ma otto esempi dicono quanto sia puntuale.

Primo, il socio dominante falsifica impunemente i bilanci, l´abbiamo appena visto: tali furberie sono bagatella nell´art. 2621 c. c., comma 1, mentre nei paesi dell´autentico capitalismo costano lunghe galere ai falsari; e chi fermerebbe la frenesia d´impunità se godessimo del miracolo economico che i dulcamara annunciavano. Secondo: bisogna salvare i correi del padrone; le difese pretendono d´escludere dal processo carte bancarie elvetiche, perché mancano dei timbri; apprendisti in diritto affatturano un nuovo art. 729 c.p.p., sicuri d´avere codificato il cavillo avvocatesco; ma dal Tribunale alla Cassazione i giudici lo disinnescano. Gli autori del capolavoro s´infuriano: «eversione!», gridano, tanto ignoranti da non sapere che i testi vanno interpretati nel sistema normativo: avevano anche congegnato una chiusura ermetica, vietando la prova dei fatti in questione mediante «dichiarazioni da chiunque rese»; inammissibili i testimoni; e se l´imputato, colto da rimorso, confessasse, la confessione non varrebbe. Fantasie da fumatori d´oppio.

Terzo caso, l´arcinota proposta rinnegata dall´autore, tanto gliel´hanno deformata i colleghi, taglia i termini della prescrizione scatenando una devastante amnistia sommersa, affinché dopo nove anni esca prosciolto il correo del quasi padrone d´Italia, nel cui interesse comprava sentenze. Quarto, l´offensiva contro le intercettazioni, canale insostituibile nel lavoro investigativo su pericolosi filoni criminali: ferrei garantisti le mandano al diavolo; così gli adepti d´un vario malaffare converseranno sicuri, nemmeno fossero parlamentari, i cui assurdi privilegi significano impunità.

Quinto, diciannove onorevoli i cui nomi meritano d´essere scolpiti, propongono un bando delle notizie anonime, esteso alle prove acquisite su tale impulso, e qualificano «nulli a ogni effetto i relativi procedimenti penali». Supponiamo che l´inquirente scovi archivi, arsenali, santuari, cimiteri d´una Murder´s Corporation, nonché i testimoni: tutta farina del diavolo, tamquam non sit; l´inquisito è lui, che indaga; gl´incombe l´onere d´una prova negativa; provi che l´anonimo non l´abbia guidato in nessun passo dell´indagine. Sesto, una lobby studia come rivedere processi e confische subiti da mafiosi. Settimo, cervelli forzaitalioti s´inventano un pubblico ministero puro organo requirente, sulla base dei materiali raccolti dalla polizia, unica legittimata (e siccome l´organo poliziesco dipende dal potere esecutivo, sarà il governo a stabilire chi debba o no essere perseguito). Infine, un´idea sbalorditiva: negare al pubblico ministero l´appello contro i proscioglimenti; se vuole, ricorra in cassazione; e siccome la Corte non acquisisce prove, né rivaluta le acquisite come giudice del merito, diverso essendo lo spettro cognitivo, diventano irreparabili gravi errori sul fatto. Norma grossolanamente incostituzionale (art. 111 Cost. c. 2). Arie affini spirano nella deregulation lassistica del fallimento.

Forte dei suoi ventimila milioni d´euro, divus Berlusco inquina teste, leggi, apparati: scardina la giustizia; con lui salgono al potere volgarità, sopruso, menzogna (vedi il dissenso da Bush sulla guerra d´Iraq, perché la democrazia non s´esporta con le armi, asserito e negato in ventiquattr´ore); potendo, ridurrebbe la vita psichica dei sudditi a giaculatorie e fescennini. Il quinto foglio volante della Rosa Bianca nella Germania hitleriana 1943 denuncia un regno del male: Gestapo, Lager, patiboli, lo configurano in forme atroci, ma il fenomeno può assumerne d´allegre; mancava la versione comica; l´imbonitore dalle ganasce aperte nel finto sorriso può combinarsi l´en plein dov´era fallito l´orrendo Kniébolo, come lo chiama Ernst Jünger, sotto quella maschera da serial killer (alla fine voleva uccidere l´intero popolo tedesco, «non è degno d´un genio come me»). Abbiamo un Führer barzellettiere, canterino, ottimista: «siete ricchi, belli, giovani, felici», svela ridendo a poveri diavoli italiani arrancanti in bolletta; e guardandosi nello specchio, confida d´avere visto un santo.

Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, durante l’avanzata verso Berlino, arrivarono nella città polacca di Oświęcim, meglio conosciuta con il nome tedesco di Auschwitz, e scoprirono il più tristemente noto campo di stermino, facendo così conoscere al mondo gli orrori del genocidio nazista. Le testimonianze dei pochi sopravvissuti hanno rivelato realtà mostruose e inimmaginabili. A 61 anni da quell’avvenimento si celebra in Italia la giornata della memoria per ricordare tutte le vittime delle persecuzioni naziste. Non solo ebrei, ma anche oppositori politici, gruppi etnici e religiosi dichiarati da Hitler indegni di vivere. Come il Porrajmos, lo sterminio, di 500mila rom e sinti.

L’ideologia della razza ha origini antiche, ma trova legittimazione in Italia, con il decreto del 17 novembre 1938 che permise di scrivere alcune tra le pagine più scure della nostra storia. Nel 2000, il Parlamento italiano decise di istituire la giornata della memoria con una legge proposta da Furio Colombo, approvata all’unanimità. Scrive Colombo nella illustrazione della sua proposta di legge: «La Shoah non è soltanto la memoria di un immenso e meticoloso progetto di genocidio di tutto un popolo in tutta Europa. È memoria di un delitto italiano. Italiane sono le leggi razziali (tra le peggiori d’Europa) e italiane sono le firme di Mussolini e del re. Vittorio Emanuele di Savoia è stato il solo monarca d’Europa a firmare leggi di persecuzione contro i suoi cittadini».

Il ricordo di sei milioni di vittime è una memoria troppo importante per essere cancellata, per questo dopo 61 anni, si continua a parlare di shoah. La memoria deve essere tenuta viva per evitare che una tragedia così immane si possa ripetere. Non dimenticare significa anche mantenere vivo il ricordo di ogni singola persona che quegli orrori li ha subiti.

Trovare il coraggio di testimoniare certi orrori, per chi è sopravvissuto, non è stato facile. «Vivere nella colpa di essere sopravvissuti - scriveva Primo Levi - è un peso spesso troppo grande da portare. Meditate che questo è stato». Un carico pesante per i reduci dei campi di sterminio che quegli orrori li portano tatuati addosso e nell’animo. Ma tanti non si sono voluti sottrarre all’obbligo morale di far conoscere la verità a chi questa storia la ha conosciuta solo sui libri.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le iniziative da parte delle scuole. Protagonisti studenti e docenti di numerosi istituti italiani che si sono confrontati con oratori che di storie da raccontare ne avevano tante. Incontri tra studenti ed ex deportati, viaggi della memoria, letture di testimonianze, seminari, sono solo alcune delle tante proposte per far conoscere ai giovani gli orrori della shoah.

Da parte dei giovani c’è voglia di sapere, di conoscere e di partecipare. Queste le parole di una delle organizzatrici di

un treno della memoria e dei diritti umani Un esempio di progetto educativo organizzato dall’archivio storico della Cgil che ha coinvolto diverse scuole italiane con un numero di partecipanti sempre più ampio.

Un viaggio come quello di tanti altri ragazzi iniziato all’insegna della leggerezza e dello svago, ma terminato con la voglia di non dimenticare. I numerosi istituti coinvolti nell’iniziativa hanno lasciato testimonianza della loro esperienza, c’è chi come Marta M. di una scuola media di Firenze dice: l’esperienza più toccante e significativa della mia vita, oppure chi, come Giovanni del Liceo Parini Di Milano, si limita a citare gli scritti di Primo Levi tante emozioni, sensazioni e commenti raccolti in altrettanti siti internet. Ma c’è anche chi, come il comune di Campi Bisenzio, ha deciso di racchiudere in un libro le impressioni e le esperienze di 31 ragazzi delle scuole medie del territorio che hanno partecipato al progetto. Tanti ragazzi come Giada che parlano delle emozioni di questa esperienza vissuta: "Due ore la settimana non bastano per rendersi conto, la Prof. ci spiega bene la storia, ma poi è finita lì, si chiude il libro e si scorda tutto. Così invece non si dimenticherà mai, ci rimarrà sempre qualcosa dentro, una piccola piaga, che farà male ogni volta che si rammenterà il nome Auschwitz. Non avevo mai provato una cosa simile, ne sono fiera, così potrò dire, io sono stata ad Auschwitz e mi sono resa conto di che cosa è stata la persecuzione contro gli ebrei .

Questa è la spinta giusta perché i giovani devono sapere che quegli orrori erano veri, hanno tentato di cancellare l’identità di un popolo, la dignità di ogni individuo. Non c’è futuro senza memoria e quando non ci saremo più loro dovranno essere la nostra memoria. Questi i commenti di Bruno Venezia, ex deportato ad Auschwitz , dopo l’incontro con alcuni ragazzi prima che partissero per la Polonia.

Imparare dalla storia a non ripetere certi orrori vuol dire anche essere pronti al dialogo con gli altri popoli, educare al rispetto e alla tolleranza questo il messaggio che tanti educatori impegnati nelle iniziative per il giorno della memoria vogliono lanciare soprattutto ai giovani. La memoria di tante persone che certi orrori continuano a viverli. La storia, infatti, non sempre insegna e purtroppo si ripete. In questa giornata così significativa è bene non dimenticare anche i genocidi che sono avvenuti in diversi paesi del mondo come il Ruanda, il Kossovo, la Cambogia, l’ Afghanistan e tutte quelle persone che sono ancora vittime di vessazioni in nome di assurde ideologie. Accanto alle tante proposte in calendario anche iniziative orientate in questa direzione.

Nota

Ricordo che "epifania" significa "manifestazione". Ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, si rivelò l'orrore dell'ideologia che considerava inferiori i diversi.

Cinque anni di governo una grande opera l'hanno portata a termine: la costruzione del balcone mediatico che il presidente del Consiglio usa per parlare al popolo. Entra nelle nostre case a ogni ora del giorno e della notte per dettare l'agenda della politica. Se non ha niente da dire ai giudici fa lo stesso, le telecamere lo inseguiranno, i telegiornali gli faranno da grancassa, i talk show lo serviranno come un piatto di spaghetti fumanti, le opposizioni saranno costrette a inseguirlo sul suo terreno, i giornali a riempire le prime pagine, finché l'opinione pubblica sarà convinta che è importante farsi un'idea sulla comparsata tribunalizia del Cavaliere. La macchina virtuale costruita in tutta una vita e modellata negli ultimi cinque anni per dotarla di un motore turbo-elettorale, viene spinta al massimo. Berlusconi dilaga, gli alleati ridono a denti stretti del loro mister Fregoli che finisce la serata con una telefonata a Ballarò, dà il buongiorno a Unomattina, fa una pausa a Isoradio, prenota il massimo share al Tg1, prende appuntamento per una sosta di quattro ore a Rai2 e Canale5. E la prossima settimana si ricomincia. Una ricca riserva per i prossimi mesi di Blob.

Mentre il presidente della Repubblica, nel ricevere la commissione parlamentare di vigilanza, pronuncia davanti ai rappresentanti del Parlamento, il suo alto richiamo al pluralismo dell'informazione, il presidente del Consiglio vortica come una falena sotto la luce delle telecamere occupando ogni fessura del palinsesto. Un drammatico paradosso istituzional-politico-mediatico: tanto più le parole di Ciampi sottolineano l'impegno della sua presidenza sulla regola fondamentale della democrazia (la libertà di espressione e le pari opportunità dei soggetti politici), tanto più risalta la sordità di una classe di governo, prona al predominio berlusconiano e dunque sorda al richiamo del Quirinale.

Una politica che costruisce la sua casa nel recinto delle quattro mura di Porta a porta, una classe dirigente che crea il suo habitat nel piccolo schermo, ne resta prigioniera. Fuori della tv, nel mondo degli umani, dove i metalmeccanici testimoniano una piazza reale, i politici sono stranieri. Il loro mondo è l'altrove dello schermo, e quando il più furbo, il più ricco, il più illiberale di loro se ne impossessa, non sanno come uscire dalla prigione dorata che hanno costruito. Non è facile aprire una via di fuga, anche perché un'altra strada, un altro modo di essere non ha cittadinanza da molti anni. La sinistra è rimasta vittima della sindrome berlusconiana, assimilandone la linfa, vitale per il re della pubblicità, esiziale per i suoi antagonisti. Quando Fausto Bertinotti stringe la mano all'avversario, convinto di aver fatto una bella figura, è già fregato perché lui ha discusso, parlato, spiegato dentro una cornice che intitolava il match «Il liberale e il comunista», come se il duello fosse tra la Libertà e la Solidarietà, due buone sorelle. Senza sospettare che di Grande Sorella ce n'è una sola ed è figlia unica. Dove sono i giornalisti del servizio pubblico? E come reagiscono i vertici radiotelevisivi? A sentire il presidente della Rai, la par-condicio è sostanzialmente rispettata, come se l'informazione fosse solo una questione di minutaggio delle presenze di leader e partiti. Ma Petruccioli li vede i telegiornali? Sono le vetrine di un'azienda superlottizzata che offre i suoi frutti avvelenati. Così nessuno può scagliare la prima pietra per rompere lo schermo incantato, e chi ci ha provato è stato preso a pedate nel sedere, come ricordava, qualche sera fa, con soddisfazione, Giuliano Ferrara davanti al presidente del Consiglio. Forse ci salverà l'effetto-nausea. Solo Berlusconi può affondare Berlusconi.

Giustizia. Via libera definitivo del Senato alla legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento

L'Aula del Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento. Adesso il pubblico ministero non potra' ricorrere in appello contro una sentenza di assoluzione. A favore si e' espressa la Cdl, mentre l'opposizione ha votato contro il provvedimento.

"Oggi in Senato è stata scritta una delle pagine più inquietanti di questa XIV legislatura". Lo dichiara il vicepresidente dei senatori della Margherita, sen. Roberto Manzione. "Nel silenzio della maggioranza [nessuno dei senatori di Fi, An, Udc e Lega ha preso la parola sui circa 150 emendamenti votati], è passata una riforma truffa che altera la parità fra accusa e difesa, limita l'obbligatorietà dell'azione penale, indebolisce la funzione e la tutela delle parti civili e determina effetti devastanti sulla durata dei processi stravolgendo il ruolo e la funzione della Corte di Cassazione. Anche la rete dei Presidenti delle Supreme Corti dell'Unione Europea, con voto unanime, ha inutilmente lanciato un appello al Parlamento ed al Governo Italiano. Con l'articolo 9, infine, si prevede che la legge truffa produca immediatamente i suoi effetti rispetto ai processi in corso che toccano direttamente il Presidente del Consiglio ed i suoi soci. Ecco perché, intervenendo in aula, ho detto che 'quando il padrone ordina, i servi obbediscono, in silenzio'."

Di segno completamente opposto il parere di Isabella Bertolini, vicepresidente dei deputati di Forza Italia e relatrice alla Camera della legge sull'inappellabilita' delle sentenze: "L'approvazione al Senato della legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento in primo grado segna un nuovo passo avanti verso una giustizia piu' giusta".

Isabella Bertolini, sottolinea che si tratta di "una legge sacrosanta che tutela i diritti di tutti gli italiani, e garantisce ai cittadini gia' giudicati innocenti in primo grado,

Nicola Labanca La memoria ambigua degli italiani

Il protagonista del romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere (1947), ambientato nell’Africa orientale italiana al tempo della guerra d’Etiopia (1935-36), ama carnalmente una donna locale ma poi finisce per ucciderla. La sua memoria rimane indelebilmente segnata da quella doppia esperienza, di fascinazione e repulsione, di amore e odio. Tornando in patria però solo una parte dell’esperienza viene ricordata: quella dell’amore, dell’affetto. Flaiano fa dire al suo protagonista: «"Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri". "Meglio così", dissi. "Se nessuno mi ha denunciato, meglio così"». La memoria del delitto rimane in Africa, in Italia torna solo quella dell’affetto: nasce così il mito della "bravagente".

L’episodio di Flaiano potrebbe essere la chiave per comprendere la memoria nazionale del colonialismo italiano. Un’esperienza di dominio italiano durata grossomodo sessant’anni, dall’Eritrea (1882) alla Somalia, dalla Libia all’Etiopia. Una storia per quarant’anni liberale e per vent’anni fascista, bruscamente interrotta perché il regime perse in guerra (1941-43) tutte le sue colonie. Di quella storia è rimasta una memoria nazionale fortemente ambigua, parziale. Solo una parte della storia è stata ricordata.

Come tutti i colonizzatori europei, gli italiani amano ricordarsi e immaginarsi come "bravagente" affascinata dalle bellezze della natura africana, sinceramente interessata delle popolazioni dominate, prodiga di interventi in loro favore. È difficile negare che anche questo furono (ma quanto rispetto ad altri imperi coloniali? già a questa domanda non si vuole rispondere). Inoltre, un po’ come i francesi in Algeria e i britannici in Rhodesia o in Sudafrica, laddove poterono, gli italiani affollarono le loro colonie anche di povera gente, di lavoratori manuali, di petit blancs o poor whites come si diceva a Parigi o a Londra. L’Italia liberale e persino l’Italia fascista (se si esclude la conquista dell’Etiopia, 1935-41) esportarono nelle colonie molto più manodopera che capitale.

Ma questa è solo una parte della storia.

Chi ricorda il "regime delle sciabole" della primissima Eritrea italiani, prima di Adua? O le deportazioni indiscriminate dei libici già nel 1911-12 verso le isole italiane come le Tremiti? O il sangue sparso nella "riconquista" della Libia voluta da Mussolini e condotta con brutalità da Badoglio e Graziani nel 1929-31? In particolare, chi ricorda i campi di concentramento della Cirenaica fra 1929 e 1933? Una decina di anni fa una polemica giornalistica fra Indro Montanelli e Angelo Del Boca portò all’attenzione di tutti la storia dei gas nella conquista dell’Etiopia, una vicenda conosciuta ai lettori di libri di storia ma segretata dal regime e negata sino all’ultimo dall’ostinato giornalista de "Il corriere della sera". Ma chi ricorda i massacri del convento copto di Debra Libanos, in cui Graziani fece sterminare l’elite religiosa etiopica?

Non si tratta del silenzio naturale della memoria di fronte a fatti sgradevoli, né è sufficiente lavarsi le mani dicendo che di fatti sgradevoli è piena tutta la storia del colonialismo europeo. Il punto è che senza quei fatti il debole dominio italiano non ci sarebbe stato, non avrebbe potuto né instaurarsi né sostenersi. Non sono fatti aggiuntivi, sono sostanziali. Inoltre il dominio italiano fu, per vent’anni, fascista. Per capire cosa ciò significhi si legga il programma politico del fascio di Asmara già fra 1919 e 1922, o si ponga mente al fatto che nel 1937 – un anno prima dell’adozione della legislazione antisemita – il fascismo introdusse istituzionalmente nel suo impero la discriminazione razziale, come al tempo forse nemmeno il Sudafrica aveva fatto. Tutto questo, gli italiani dei decenni della Repubblica hanno preferito non ricordarlo, come il genio letterario di Flaiano aveva per tempo intuito.

Quali le spiegazioni di questa memoria selettiva? È stato chiamato in causa il carattere nazionale degli italiani (sullo specifico coloniale già Benedetto Croce, nel 1927, aveva parlato di "bonomia" degli italiani…). Gli storici hanno spiegato che non aver vissuto le aspre divisioni che in Francia o in Gran Bretagna hanno accompagnato la decolonizzazione negli anni Cinquanta-Sessanta ha impedito una presa di coscienza ed un dibattito sul passato coloniale. C’è chi ha voluto trascinare in giudizio persino la sinistra, accusata prima di ambiguità (in effetti, per il prestigio nazionale, nel 1945-47 anche Pci e Psi volevano la restituzione all’Italia di tutte o parti delle vecchie colonie) e poi di "debolezza di anticolonialismo".

Forse, per trovare una risposta dobbiamo invece guardare in basso, in alto e al governo. In basso: perché le stesse responsabilità storiche di lavoratori e popolani non possono essere uguagliate a quelle di un Mussolini o di un Graziani. In alto: perché le maggiori decisioni, come sempre, furono prese da una ristretta cerchia di governatori coloniali, funzionari, militari. Al governo: questo è, per l’Italia repubblicana, il capitolo più interessante. Nelle liste stilate dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, non pochi politici e militari erano accusati di crimini di guerra perpetrati nelle colonie. E nel 1947 l’Etiopia aveva richiesto alcuni alti gerarchi del fascismo, fra cui Badoglio e Graziani, per i crimini commessi in colonia. Ma l’Italia repubblicana e ormai democratica fece di tutto per non consegnarli. Graziani non affrontò mai un processo per i suoi misfatti coloniali, del 1929-33 come del 1936-38. E se i tribunali dell’Italia democratica non processarono i massimi responsabili politici e militari, perché i petit blancs dell’imperialismo demografico italiano avrebbero dovuto ritenersi responsabili? La loro memoria fu aiutata a divenire parziale.

Se nel 1947 non furono fatti i processi, se l’Italia democratica non ricorda pubblicamente i campi di concentramento in Cirenaica del 1929-33 (ma attenzione: in quelli del 1941 passarono anche gli ebrei libici) e se oggi l’Italia berlusconiana restituisce l’obelisco di Axum all’Etiopia ma lo fa alla chetichella, perché obbligata, e non imposta un serio dibattito pubblico sul passato coloniale, se insomma così si fa in alto e al governo, perché in basso i combattenti della guerra d’Etiopia dovrebbero ricordare tutta la storia del colonialismo e non solo una sua parte?

Forse, si potrebbe dire, in Italia non c’è bisogno di un articolo di legge come quella francese (n. 258 del 23 febbraio 2005). Nei fatti, come anticipava Flaiano, il risultato è già stato raggiunto da tempo.

A volte una domanda stupida ha una risposta rivelatrice. Recentemente il comico italiano Beppe Grillo ha messo un annuncio di un'intera pagina sull'International HeraldTribune per pubblicizzare una campagna che gli sta particolarmente a cuore. Poiché in Italia non c'è una norma che vieta a chi è stato condannato di far parte del parlamento, e poiché nella classe politica italiana i criminali non mancano, nel parlamento italiano ed europeo ci sono 23 deputati che, dopo aver infranto la legge, si occupano di fare le nuove leggi. Grillo vuole sapere se nel mondo esiste un altro paese in cui i criminali possono rappresentare i cittadini del proprio paese (sembra che un paese così in effetti esista, è l'Uzbekistan). Ma lo scandalo più grande, forse, è che persone come Grillo siano costrette a fare le loro campagne sulle pagine dei giornali stranieri.

Su Eddyburg il testo in inglese

Sul blog di Beppe Grillo altri particolari sull'argomento

I Paesi civili non sanno proprio cosa siano gli abusi edilizi. Casomai sarebbero considerati alla stregua di oltraggi alle regole di convivenza tra cittadini e condannati senza riserve dal sentimento comune. Nell’Italia di oggi queste violazioni sono utili per fare quadrare i conti, e dal governo incluse tra le pratiche emancipate e liberali: nel senso che ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare e piace. Come nelle caricature di Guzzanti figlio sugli slogan del Polo delle libertà.

Berlusconi non solo fa approvare provvedimenti per condonare queste violazioni in danno dei più pregiati paesaggi. Ma da l’ esempio, eludendo da tempo i controlli su ciò che succede attorno a casa sua, in Sardegna, mentre si avanza da mesi il sospetto che le opere, in un ambito soggetto a tutela paesistica, non siano state autorizzate.

Invece di mettere le carte in tavola, come avrebbe fatto qualsiasi statista preoccupato delle ricadute istituzionali (la stampa estera segue con ironica indignazione il caso) ha deciso quest’estate di rimediare apponendo in un paio di giorni il segreto di Stato. Costringendo il nuovo governo della Regione Autonoma a porre la questione delle prerogative in materia di tutela del territorio.

Confermando tra l’altro tutta intera l’impressione che poca o nessuna protezione potranno assicurare al presidente e ai suoi ospiti gli approdi coperti, le piscine, l’anfiteatro e tutti gli altri corredi insolenti, a fronte di attentati che come si sa violano ben altre protezioni ( si consideri che Blair è stato ospite ad agosto in una splendida tenuta in Toscana tutt’altro che munita ).

E mentre il segreto veniva opposto verso chiunque ( magistrati compresi, ci mancherebbe) provasse a indagare sul caso, le fotografie del complesso in Gallura facevano il giro del mondo via internet. (Così almeno si ha un’idea di come si possa esibire sguaiatamente la propria ricchezza, con tutti gli eccessi immaginabili che non trovano apprezzamento neppure in quelle riviste tipo “casamata” “dolcecasa” che dedicano i loro servizi a ben più sobrie e raffinate abitazioni).

Ma non si pensi che la faccenda sia stata sottovalutata dal premier che ancora una volta sa, da abile comunicatore, di essere in sintonia con quella parte del Paese sensibile ai suoi sfarzi autocelebrativi e insofferente verso le regole tutte e che trova gratificante il condono e rassicurante ogni caso altolocato di trasgressione.

Sono poche le leggi approvate in questi anni che non abbiano esplicitamente nel titolo o tra le righe di un comma una risposta ad esigenze private di Berlusconi e dei suoi amici. Tra i provvedimenti ad personam (anzi: prodomo sua) ci sarebbe ora la disposizione in legge finanziaria secondo cui i lavori per la sicurezza a cura di Sismi, Sisde Cesis potranno avvenire ricorrendo a imprese di fiducia, eludendo i procedimenti di gara previsti dalle disposizioni di legge sui lavori pubblici.

Siccome tra le strutture da proteggere c’è anche la proprietà del premier in Sardegna, il sospetto è che si voglia evitare che un trasparente procedimento di appalto, di opere connesse alla sicurezza (?), possa mettere in luce le difformità.

Se questa ipotesi avanzata da autorevoli cronisti fosse vera ci troveremmo di fronte a un altro caso di interessi in conflitto. Ben poca cosa, si dirà, rispetto alla norma salvaPreviti. Piuttosto un’altra conferma di come vanno le cose da quando le regole su cui si fonda la Repubblica sono tutte, proprio tutte adattabili volta per volta al bisogno di pochi. Il danno che potrà arrecare, appunto ai tanti luoghi della penisola, questo modo di pensare e di fare – ognuno per sé – è molto al di là della nostra immaginazione. La privazione del nesso tra governo del territorio e interesse pubblico è un obiettivo delle destre che si sta realizzando pezzo dopo pezzo: i paesaggi e i beni comuni sono già merci e la loro valorizzazione monetaria è l’obiettivo. Ma questo non è un tema che appassiona come dovrebbe la sinistra.

L’Unità
Passa la fiducia sulla delega ambientale. Via libera al condono della villa di Berlusconi

Dopo l’ennesima sfida a colpi di fiducia con il Parlamento, il governo incassa il via libera definitivo alla delega per il riordino della legislazione in materia ambientale. Il centrosinistra ha votato compatto contro: 278 i sì, 184 i no, tre gli astenuti.

Il testo approvato contiene, fra l'altro, un nuovo, indiscriminato, condono edilizio, consentendo di sanare gli abusi edilizi commessi fino al 30 settembre 2004 nelle aree di interesse ambientale. Le opere abusive, però, dovranno superare l'accertamento di compatibilità paesaggistica. I trasgressori dovranno pagare una sanzione che andrà dai tremila ai cinquantamila euro. La domanda di sanatoria dovrà essere presentata entro il 31 gennaio del 2005. L'opposizione ha puntato fino all'ultimo il dito contro quest'ultima norma, sostenendo che servirà anche a Silvio Berlusconi per sanare il teatro all'aperto costruito nella villa in Sardegna.

Il testo prevede inoltreuna depenalizzazione degli abusi edilizi più «lievi», cioè quelli che non abbiano determinato la creazione di nuove superfici o volumi come restauri, aperture di nuove porte e finestre, eccetera. Saranno le soprintendenze a decidere volta per volta se i lavori in questione sono compatibili con il vincolo paesaggistico e i trasgressori potranno sanare gli abusi pagando una multa, ma non saranno chiamati a rispondere in sede penale.

«La legge delega è il peggio del peggio delle politiche ambientali del governo», afferma Fabrizio Vigni, capogruppo Ds in commissione ambiente. Appello di Italia Nostra a Ciampi: «Non firmare». Adesioni sul sito di Italia Nostra.

Il testo della petizione di Italia Nostraal Presidente della Repubblica

Illustre Signor Presidente,torniamo a rivolgerci a lei perché siamo molto preoccupati della spirale legislativa con cui si sta rapidamente smantellando quel complesso sistema di salvaguardie che sono state elaborate in oltre mezzo secolo di studi, d’impegno e militanza ambientalista a tutela del nostro patrimonio culturale, artistico e ambientale. Siamo ben consapevoli che lo sviluppo è necessario e positivo, e che viviamo in una economia di mercato, ma al tempo stesso riteniamo anche che non è vero sviluppo quello solo quantitativo di produzione e di consumi. La nostra Costituzione, all’articolo 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione e oggi noi vediamo questi inestimabili beni collettivi fatti oggetto di mercato attraverso leggi che riteniamo profondamente sbagliate. In particolare siamo preoccupati degli esiti infausti della legge delega sull’ambiente passata in Senato il 14 ottobre scorso. Riteniamo che si tratti di un provvedimento che sancisce una illimitata sanatoria degli abusi paesaggistici anche in aree vincolate. Inoltre, giudichiamo scorretta e pericolosa la scelta di esautorare il Parlamento dalla discussione e approvazione legislativa su materie centrali per il Paese come la gestione dei rifiuti, la tutela dell’aria e delle acque, la lotta alla desertificazione, la gestione delle aree protette e la valutazione d’impatto ambientale.Vogliamo anche dire con chiarezza che il nostro giudizio, come quello di molte altre associazioni ambientaliste, non è legato a scelte di schieramento o di maggioranza di governo. Riteniamo che, al di là delle maggioranze e dei governi che mutano, non può dirsi civile un paese che rinunzi a salvaguardare gli antichi e sacri paesaggi dove sono incastonati i nostri centri storici e i monumenti naturali, testimonianza di una continuità culturale unica al mondo. E’ per questo che ci rivolgiamo rispettosamente e con fiducia a Lei, come garante della legalità costituzionale e custode del l’identità nazionale, per chiederle di non firmare la legge delega per l’ambiente nel caso dovesse passare anche alla Camera.

La Repubblica Ambiente, sì alla delega

ROMA - Con 316 voti a favore e 225 contrari la Camera ha concesso la fiducia al governo sulla legge delega in materia ambientale. Il provvedimento è stato poi approvato definitivamente con 278 sì, 184 no e tre astenuti con l'opposizione compatta contro.

Anche la seduta di oggi è stata caratterizzata infatti da polemiche e tensioni. I Verdi, durante i lavori a Montecitorio, hanno esposto dai loro banchi lo striscione con la scritta "abusivi" su uno sfondo disegnato a mattoncini e hanno distribuito manifesti con la faccia di Silvio Berlusconi e lo slogan "condona anche le bugie". La protesta è durata pochi attimi, il tempo necessario a far intervenire i commessi allertati dal presidente di turno Fabio Mussi.

L'opposizione critica il provvedimento sia nel metodo che nel merito. Da un lato si sottolinea come il ricorso congiunto alla fiducia e alla delega espropria di fatto il parlamento della possibilità di discutere apertamente in materia di politica ambientale. Dall'altro si fa notare come la delega renda possibile l'ennesimo condono edilizio, compreso quello per gli abusi commessi nelle aree protette, non ultimo quello che avrebbe reso possibile l'ammodernamento della villa del premier in Sardegna.

Altri punti contestati dal centrosinistra sono la mancata introduzione dei reati ambientali nel codice penale, una nuova classificazione dei rifiuti che - a detta sempre dei detrattori - aprirà le porte al "riciclaggio" di materiali pericolosi e, infine, la composizione della commissione di 24 saggi di nomina governativa chiamata a riscrivere da cima a fondo le norme ambientali.


Obiezioni che la maggioranza rimanda seccamente al mittente: "Questa - ha precisato il parlamentare di Forza Italia Maurizio Lupi - è una legge importante che ha il pregio di procedere al riordino complessivo della materia ambientale".

Riserve, quelle dell'opposizione, condivise però dalle associazioni ambientaliste Amici della Terra, Fai, Greenpeace, Italia nostra e Wwf che hanno rivolto oggi un appello congiunto al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi affinché non firmi il testo della legge delega, rimandandola alle Camere.

SCHEDASupercommissione e condonoEcco cosa cambia per l'ambiente

ROMA - La legge delega sull'ambiente approvata dal parlamento prevede alcuni cambiamenti immediati e un più generale riordino di tutta la legislazione in materia.

Il compito di riscrivere e armonizzare le norme ambientali attraverso la redazione di testi unici spetterà a una commissione esterna al parlamento composta da 24 esperti di nomina governativa. La delega fissa in un anno, tre mesi e cinque giorni il limite di tempo per completare la riscrittura dei testi e completare l'iter legislativo.

Tra le novità subito in vigore, di rilievo quelle contenute nei commi 37, 38 e 39 dove si stabilisce la depenalizzazione degli abusi commessi in violazione dei vincoli paesaggistici "entro e non oltre il 30 settembre 2004".

I commi dal 25 al 31 si occupano invece di rifiuti, declassando a "non pericolosi" gli scarti di lavorazione ferrosi che potranno essere bruciati in cementifici o centrali elettriche senza tener conto dei limiti imposti sia dall'attuale normativa nazionale che dagli standard sanitari e ambientali fissati dall'Unione Europea.

Vengono inoltre rivisti in senso più permissivo i controlli sulla filiera dei rifiuti metallici pericolosi e su quelli di natura radioattiva.

l'Unità Ora anche Villa Certosa è al sicuro. Arriva il condono per delegadi Maria Zegarelli

Anche questa è andata. A colpi di fiducia, ma è andata. Adesso Villa Certosa è al sicuro, come le villette, i piccoli e i grandi abusi sulle coste, sulle rive di fiumi e laghi, in montagna, nei parchi. Ovunque. Là dove non aveva osato il condono è arrivato il maxiemendamento alla Delega Ambientale votato ieri al Senato con 158 voti favorevoli, due contrari e 1 astenuto. Il centro sinistra fuori dall’aula durante il voto, la parola "vergogna" più volte volata tra i banchi e sulle teste di un centro destra imbarazzato ma ubbidiente all’ordine di scuderia. Un altro brutto giorno per la Repubblica.

Il presidente Pera ha dovuto sospendere la seduta 3 volte ed espellere dall’aula i verdi Cortiana, Turroni, De Petris, Donato e Boco. Alcuni senatori, come Giuseppe Specchia, di An, invece, le hanno provate tutte per difendere l’indifendibile. Sostenendo che ci sono una marea di ecomostri che la sinistra non ha voluto demolire. Invece, adesso, arriva questo maxiemendamento e voilà Punta Perotti cade giù come fosse carta velina. Nessuno dice che a stabilire l’abbattimento è stato un tribunale, dopo la lunga battaglia per tenerlo su portata avanti dall’ex sindaco di centro destra Di Cagno Abbrescia. Nessuno della maggioranza osa dire, per esempio, che accanto alle pene più pesanti introdotte per gli abusi più gravi, c’è anche il comma 36 che permette un inedito clamoroso: se chi ha commesso un abuso, ripristina la situazione originale prima della sentenza di condanna il reato viene estinto. Questo vuole dire che se un pinco pallino qualunque si è costruito la villa sulla spiaggia se la può godere fino al giorno prima della sentenza del tribunale. Così il giorno dopo nessuno potrà condannarlo. Non era mai accaduto che un reato penale si estinguesse grazie ad un codice. Il ministro Urbani sarà ricordato anche per questo. Ed è chiaro sin d’ora che anche alla Camera andrà nello stesso modo. E chi se ne frega se l’Italia conserva il 60% dei Beni culturali mondiali.

Gasbarri del gruppo Ds-Ulivo ricorda come il senatore Emiddio Novi, Fi, "urlava che mai e poi mai si sarebbe dovuto fare quel Comma 32 dell’articolo 1 della legge delega". Infatti, prima fu eliminato, poi reinserito peggiorato. E Novi oggi è qui che vota come un soldatino. L’avvocato Cesare Previti ha fatto il suo lavoro. Poche ore di impegno ed ecco qua il primo condono nelle aree protette. Pera si chiede se ci sono i relatori in Aula, Turroni dei Verdi risponde: "Si vergognano". Mario Greco di Fi spiega che non ce la fa proprio a votare, lui magistrato per 30 anni un senso dello Stato ancora ce l’ha. Specchia invita il centro sinistra a dire le cose come stanno e ad avviare un’indagine conoscitiva su tutti i senatori perché è convinto che oltre a Villa Certosa sono tante le situazioni che verrebbero sanate. Fa allusioni. Gavino Angius, Ds, non ci sta al gioco delle illazioni e rilancia: "Facciamo una commissione parlamentare d’inchiesta". Intanto arriva la decisione: non ci sarà la diretta Tv sul voto. Dai banchi dei Verdi si sente un "Vergogna, state spogliando l’Italia". È solo l’annuncio di quanto accadrà di lì a poco. Novi prova a parlare, a voce bassa. I Ds urlano: "Ti vergogni a parlare più forte?".

Inizia la bagarre. I Verdi insorgono, il presidente li richiama. Novi parla di "presunto condono" e l’opposizione si accende. Appaiono gli striscioni: "State spogliando l’Italia". Poi alcuni senatori Verdi, Ds e Margherita, alzano i cartelli: "Villa Certosa ringrazia" "Villa Certosa la casa abusiva delle libertà". Pera sospende la seduta per 12 minuti. Al rientro i Verdi continuano, vengono espulsi e i lavori si fermano ancora. Durissimi gli interventi dell'opposizione in Aula. "Questo provvedimento è un nuovo attacco all’ambiente - dice Gavino Angius, capogruppo Ds -. È un provvedimento incostituzionale, perché la Costituzione tutela l’ambiente, mentre questa legge lo devasta. È il quarto provvedimento di condono in pochi anni. Con questo provvedimento ormai è stato condonato tutto quello che è stato costruito abusivamente in qualsiasi angolo d’Italia". Fausto Giovanelli, Ds, aggiunge: "La sanatoria avrà effetti penali, amministrativi, e di conseguenza anche civilistici dei lavori e delle trasformazioni di ogni genere compiuti in violazione delle norme di tutela paesistica previste dalla legge Bottai del ‘39, dalla cosiddetta legge Galasso, dalla legge sui parchi". Willer Bordon, capogruppo della Margherita ricorda: "L’attuale ministro dell’Ambiente ottenne il premio Attila nel ‘94, la prima volta che ricoprì questo incarico. Ho umana simpatia per Matteoli, ma in questo contesto perfino Attila avrebbe il diritto di iscriversi al Wwf o a Legambiente". Annota, Bordon, che un teatro greco non ha "volume, come una piscina". Quindi chiunque volesse... Tommaso Sodano di Rc:"Il governo fa l’ennesimo regalo alla cultura dell’illegalità e del cemento selvaggio su cui costruiscono le proprie fortune le mafie del nostro paese". Nota a margine: in Aula non c’erano né il ministro Matteoli, né il ministro Urbani.

la RepubblicaSull'ambiente non si discutedi ANTONIO CIANCIULLO

L'ambiente sta diventando un barometro delle difficoltà crescenti del governo Berlusconi. Prima al Parlamento sono stati scippati i principali nodi del dibattito legislativo sul futuro della terra, dell'aria e del suolo affidando la responsabilità di legiferare in materia a 24 signori scelti dal ministro dell'Ambiente anziché dagli elettori italiani come prevede la Costituzione. Poi a questa legge delega - così si chiama il provvedimento che prosciuga il Parlamento delle sue competenze - già eccezionalmente corposa sono stati aggiunti altri pezzi fino a costruire un ibrido che non si può considerare parlamentare né extraparlamentare: un vero ogm della politica.

L'ultimo innesto su questo corpo elefantiaco è il pacchetto di norme che allarga i confini delle sanatorie edilizie estendendoli (sia pure con vari distinguo) alle aree vincolate dal punto di vista paesaggistico (il 46 per cento del territorio italiano, come ricorda il Wwf).

Dunque il governo sta portando avanti il suo programma sull'ambiente basato su una crescente conflittualità con l'Unione europea e su un quadro culturale che vede il paesaggio più come un peso che come una risorsa. Ma il costo pagato si è rivelato più alto del previsto: interi spezzoni della maggioranza si sono dissociati su alcuni punti e il presidente del Consiglio è stato costretto a ricorrere sempre più spesso al voto di fiducia. Non sembra che il disastro ambientale paghi in termini di consenso.l'Unità

Cemento di governo

di Vittorio Emilian

Risorge il condono edilizio anche nelle aree paesaggisticamente più belle e risorge con la prospettiva di essere eterno. Senza che si possa nemmeno tentare di correggere il confuso e incredibile testo governativo che lo prevede e che fino a ieri sera è circolato in forma non ufficiale. Oggi infatti, con ogni probabilità, verrà chiesta ai senatori la fiducia: per esso e per l’intero, criticatissimo, disegno di legge sulla delega ambientale.

Perché tanta fretta? Perché questa blindatura della maggioranza su una materia tanto delicata e controversa? Perché tutta la materia dei vincoli paesaggistici risulta da sempre altamente indigesta a questo centrodestra fautore (per la seconda volta in dieci anni) di un maxi-condono edilizio. Perché, secondo i senatori Fausto Giovannelli (Ds) e Sauro Turroni (Verdi), "è evidente che si vuole sanare Villa Certosa di Berlusconi", il villone sardo con anfiteatro cementizio ed ingresso sottomarino di cui tanto si è parlato l’estate scorsa e che è rimasto top secret.

Ma c’è molto di più. Con le norme previste in questo maxi-emendamento ai commi 36 e 37, confuso, ripeto, volutamente confuso forse per infilare nelle sue pieghe qualunque cosa, viene modificato lo stesso Codice Urbani per i Beni culturali, varato appena l’estate scorsa e vantato come grande conquista della cultura, anche di quella paesistica. Chiacchiere, naturalmente. Come quelle affidate oggi alle agenzie dal ministro Giuliano Urbani il quale in materia ha sempre rifiutato confronti con gli esperti e persino le domande dei giornalisti.

Il ministro dei Beni culturali sostiene infatti che, adesso, potranno venire abbattuti gli ecomostri come quello barese di Punta Perotti omettendo di dire che su questa demolizione c’è già l’assenso del Consiglio di Stato. Egli ammette peraltro che le norme presentate dal governo al Senato, col suo pieno assenso, consentono (per venire incontro alle richieste delle Regioni, butta lì) una sanatoria "limitata nel tempo" la quale però non lede il principio dell’autorizzazione preventiva riservata nel suo Codice alle Soprintendenze.

Ma la presente sanatoria di abusi in zone vincolate – lo fa notare Gaetano Benedetto del Wwf – era stata già cancellata dalla Camera ed è il governo adesso a resuscitarla, e questo avviene "con una monetizzazione dell’estinzione del reato paesaggistico". Una bella conquista di civiltà. Inoltre, il parere preventivo delle Soprintendenze tanto sottolineato da Urbani è soltanto consultivo per i nuovi progetti (lottizzazioni incluse) e non vincolante com’era invece, prima del Codice, la bocciatura da parte delle Soprintendenze medesime in corso d’opera qualora fossero state accertate irregolarità.

Da domani l’abusivo che abbia eseguito lavori di "manutenzione ordinaria", ma pure "straordinaria" (quali? di quale entità?) in zona paesisticamente vincolata potrà venire integralmente condonato se questi lavori li avrà compiuti entro il 30 settembre 2004 (data-limite facilmente aggirabile). V’è di peggio : le Soprintendenze – che divengono così, col poco personale che hanno per decine di migliaia di pratiche, una sorta di Agenzia del Condono – avranno soltanto 180 giorni di tempo per dare il loro parere di "compatibilità" da cui tutto dipende. E se non riusciranno a formulare quel parere? Scatterà, a favore dell’abusivo, il meccanismo del silenzio/assenso? Non si sa. Come non si sanno tante altre cose importanti. Ma intanto col maxi-emendamento si butta in discarica il lavoro della commissione Ambiente del Senato e si va al voto di fiducia. Comunque. Costi quel che costi.

Non basta. All’abusivo non vengono imposti termini per la presentazione della domanda. Dunque, il condono può diventare perpetuo e così pure la manomissione delle nostre aree più belle, quelle, per l’appunto, vincolate. In tal modo abbiamo: a) i vecchi condoni del 1984 e del 1994 che in certi Comuni sono tuttora da chiudere e il cui costo grava ovviamente sui cittadini rispettosi delle leggi; b) un condono recente (quello del creativo Tremonti) fortemente azzoppato dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto alle Regioni la potestà di definire modalità, volumetrie e altro per l’applicazione del condono governativo; c) le Regioni che, per lo più in forma restrittiva rispetto al testo dell’esecutivo, stanno legiferando in materia (entro il 30 novembre). E con questo bel carico sulla schiena del Bel Paese, il governo Berlusconi aggiunge ora condono a condono, sanatoria a sanatoria, incoraggiando di fatto, guarda caso, una tendenza degli edificatori abusivi già ampiamente in atto, e cioè quella di insediarsi nelle zone di maggior pregio paesaggistico (a Roma, l’Appia antica o Veio). Così il Bel Paese è conciato per le feste.

"Ciascuno è padrone a casa sua". Mai slogan berlusconiano fu più gradito di questo all’Italia dell’urbanistica illegale e dei condoni tombali, all’Italia dei padroncini che si "arrangiano", dovunque e comunque. Mai slogan berlusconiano fu più rovinoso di questo per le coscienze in un Paese dalla bassa moralità pubblica e nel quale il patrimonio ambientale e paesaggistico di tutti viene considerato in realtà qualcosa di privato che si può impunemente inquinare, manomettere, imbruttire, violare. L’esempio lo dà un governo che sta facendo accattonaggio e che cerca, anche così, di tirar su un pugno di euro.

LiberazioneAmbiente, così ci giochiamo il futuro di Fabrizio Giovenale

Non è inverosimile - nonostante gli sdegnati dinieghi del ministro Urbani - che la sanatoria estesa agli "illeciti nelle aree paesaggisticamente vincolate" reintrodotta nel maxi-emendamento alla "delega ambientale" abbia qualcosa a che fare coi lavori abusivi (l’uscita-a-mare da un bunker travestita da teatrino greco) fatti eseguire da Berlusconi nella sua Villa Certosa in Costa Smeralda: a riprova ulteriore del leccapiedismo che ha contagiato così largamente il suo staff di ministri. Non è andata più o meno sempre così? Per il conflitto d’interessi, le TV, i rientri di capitali dall’estero, i giudici, la giustizia?... E tuttavia non è questo il problema. E‚ che siamo a quanto sembra di fronte a un’altra puntata della pluridecennale telenovela dei parchi italiani. Dove lo scontro - attenzione - non è fra il bene e il male alla maniera delle guerre di Bush. C’è anche qualcosa di simile, certo, ma c’è soprattutto la guerra di logoramento fra chi ragiona abbastanza da preoccuparsi per il futuro del paese, dei figli, del territorio e chi invece non sa sollevare lo sguardo al di là dei quattrini sull’unghia, e non vuol sapere nient’altro. Perché - ripetiamolo ancora - di questo si tratta. E’ il futuro che ci stiamo giocando.

La "vertenza dei Parchi". Valga il vero. Per più di vent’anni (tra i ’60 e i ’70) Antonio Cederna è andato ripetendo ogni giorno la geremiade del metroquadrato-scarso-di-verde-a-persona nel nostro paese contro i 24 di Londra, i non-so-più-quanti di Stoccolma, i cento e passa di Amsterdam... E finalmente, dài e dài, ce l’ha fatta. Per merito del batti e ribatti suo e delle associazioni ambientali la linea dei Parchi è passata. Ha fatto breccia nell’opinione pubblica, è diventa legge, ha visto Regioni e Comuni fare a gara nei salvataggi di spazi verdi, è arrivata a coprire quel 10% di territorio nazionale che è la media europea. In controtendenza tra l’altro (o "a compensazione") rispetto all’andazzo dell’abusivismo edilizio che in quegli stessi anni andava deturpando così largamente il paese e alle relative sanatorie periodiche...

Una cosa da notare è che in questo processo di formazione della "rete delle Aree Protette" italiane per superare gli interessi locali contrari si è fatto abbondante ricorso a promesse di vantaggi che sarebbero derivati ai Comuni interessati dalla "valorizzazione turistica" legata alla presenza dei Parchi. Tanto che nella mentalità corrente di molte amministrazioni locali il Parco è diventato sinonimo di buoni-affari turistici: un luogo nei cui dintorni (o magari all’interno del quale) tirar su alberghi, complessi residenziali e quant’altro per attirare visitatori paganti con l‚esca della "natura incontaminata" attraverso operazioni di per sé stesse contaminanti.

Il fare-e-disfare. Come dire che - fatti i Parchi - s’è subito avviato il lavorìo per disfarli: coi ridimensionamenti, le erosioni di confini, le deroghe, le eccezioni, perfino le licenze di caccia... Fino alla sanatoria di oggi. La quale sfonda porte aperte da un lato (la promessa di demolizione del "mostro di Punta Perotti" di Bari già stabilita dal giudice) e dall’altro dà spazio a un’altra sfilza di abusi... Tanto da dare l’idea che questo fare-e-disfare sia una triste caratteristica della nostra natura, del nostro paese, che tanto vale rassegnarci... Ma qui mi sembra ci siano ancora due riflessioni da fare.

La prima è che bene o male, da Cederna in avanti, un "ciclo virtuoso" per le questioni ambientali in Italia c’è stato, che ha riportato vittorie (dal referendum antinucleare dell’87 alla legge 394 sui Parchi del ’91 all’abbattimento del "mostro di Fuenti" del ’98), che ne potrà riportare altre ancora, che sarebbe sbagliato rinunciare a combattere.

La seconda riguarda più in generale la condizione del paese: il rapporto tra le aree edificate in aumento continuo e le aree libere in continua diminuzione, gli spazi per l’agricoltura che si vanno restringendo ogni giorno. Non è più questione di fiori-e-uccellini: è che ci va mancando lo spazio per respirare e per vivere... A Mexico City (metropoli di 18 milioni e passa abitanti in continua e caotica ulteriore espansione) hanno deciso di erigere un muro lungo cento chilometri attorno all’abitato attuale - con divieto assoluto di costruire al di là - come unico modo per salvare il territorio circostante dal dilagare edilizio. Da noi non siamo a quel punto, ma non è che ne siamo poi troppo lontani Vediamo di darci una regolata.

... E a proposito della diatriba di centrosinistra sul dopo-Berlusconi - se conservare le leggi varate sotto il suo governo o levarle di mezzo - ho idea che questo maxi-emendamento alla delega per l’ambiente fornisca un altro buon argomento a favore della seconda tesi: una cosa in più da levarci dai piedi alla svelta.

Qui una visita a Villa Certosa, la villa abusiva del Premier

«ABBIAMO arrestato duecento terroristi internazionali e debellato le Brigate Rosse», si autoglorifica. Infuriato, molto infuriato dal successo dello sciopero generale, Silvio Berlusconi ha annunciato l´"operazione verità" su quanto il governo ha realizzato. Appena 24 ore dopo, ieri, si è messo al lavoro e l´"operazione verità" ha partorito il primo capitolo di quel che si annuncia, da qui al voto del 2006, il Grande Catalogo della Menzogna.

Come si sa, c´è anche una fenomenologia della menzogna. Abbiamo la dissimulazione (si nasconde il vero); l´alterazione (se ne modifica la natura); la deformazione (si ingrandisce o si rimpiccolisce); l´antegoria (si sostiene il contrario); e la fabulazione, quando invece di mascherare la verità, ce la inventiamo di sana pianta.

La fabulazione è il tipo di menzogna che preferisce il presidente del Consiglio. Inventa di sana pianta la realtà. Sul terrorismo, il fabulista di Palazzo Chigi ne ha sempre sparate – irresponsabilmente – di grosse. Più o meno un anno fa, confida di aver trascorso quarantotto ore d´inferno. Solo. Aspettando il peggio. «Ho passato una vigilia di Natale terribile per la notizia precisa e verificata di un attentato su Roma nel giorno di Natale. Un aereo dirottato sul Vaticano. Un attacco dal cielo. La minaccia del terrorismo è in questo momento altissima». La notizia non è né precisa né verificata. È palesemente un´invenzione che nessuno ha preso in considerazione, ma in quel momento torna buona per posare a statista che, solitario, indefesso, trepidante, vigila sul Paese e sulla cupola di San Pietro minacciata dall´Islam radicale, mentre tutti si divertono e mangiano spensieratamente il panettone. Naturalmente, se gli viene utile, può inventare anche una favola di segno opposto. Per esempio, che non bisogna esagerare con la preoccupazione dell´attentato terroristico.

Accade in luglio, dopo gli attentati all´underground e ai doubledecker di Londra. Il Parlamento chiede al governo di correggere la legislazione per dare maggiori margini di azione all´intelligence e alle polizie. Il governo non trova l´accordo. Il ministro dell´Interno è isolato come le sue proposte. La paralisi dell´Esecutivo è imbarazzante e pericolosa. Il fabulista di Palazzo Chigi ne inventa un´altra. Il disegno di legge non c´è ed è meglio così perché il terrorismo per l´Italia non è un problema perché la situazione è sotto controllo. Ora che deve vantare i successi del suo gabinetto (che poi inevitabilmente sono i suoi successi personali) inventa che «sono stati arrestati 200 terroristi e distrutte le Brigate Rosse mentre gli altri non avevano fatto niente». Per le Brigate Rosse, che hanno visto impegnato tutto il Paese, dalla magistratura al sindacato, dai partiti alle istituzioni, la menzogna ha le gambe cortissime e non farà (non dovrebbe fare) molta strada tra la legittima indignazione di chi quella battaglia ha affrontato e vinto, e nel ricordo di chi ci è morto. Ma la millanteria di aver arrestato 200 terroristi islamici c´è magari chi la può berla. Vediamo allora qualche numero. Se si guardano i processi, si scopre che ci sono soltanto due condanne per terrorismo contro un marocchino (Noureddine Drissi) e un tunisino (Mouldi Ben Kamel Hamraoui). Se non si vuole prendere in considerazione l´attività giudiziaria (troppo formale), ma soltanto la prevenzione, bisogna leggere l´ultima relazione sulla politica informativa e della sicurezza dei nostri servizi segreti. Qui si parla di 24 persone arrestate. Non terroristi, attenzione, ma soltanto «soggetti integralisti». E allora i duecento?

Si può mentire per molti motivi. Ci sono le menzogne di conservazione e di interesse; di vanità; di esagerazione; di abbellimento; quelle di fabulazione gratuita. Anche dal lato delle ragioni del mentire, Berlusconi interpreta la menzogna come nessuno. Il fabulista di Palazzo Chigi mente (e sempre mentirà da qui alle elezioni) non per un solo motivo, ma per tutti i motivi contemporaneamente. Con un egocentrismo e un´irresponsabilità, politica e istituzionale, inedite. Ci si augurava che potesse tener fuori dalla girandola del Catalogo almeno il terrorismo. Cacciare balle su quel terreno è immediatamente pericoloso. Espone il nostro Paese. Sovraespone gli italiani in patria. Mette in pericolo gli italiani all´estero e i soldati italiani in missione nel "teatro di guerra". Attrae l´attenzione "operativa" dell´Islam terroristico (oggi è un´attenzione soltanto "mediatica"). Alimenta la paura di tutti (e la paura inibisce l´azione, crea sfiducia, paralizza ogni passo verso il futuro). Condiziona il lavoro dell´intelligence. Complica le mosse delle polizie. Radicalizza il risentimento e la collera dell´Islam italiano. Divide l´opinione pubblica nazionale che, almeno dinanzi alla minaccia del terrore, è stata finora unita. Si rende conto il fabulista delle conseguenze delle sue parole, delle sue menzogne? Se ne rende conto purtroppo con grande lucidità, ma tira avanti per la sua strada con la sua etica dell´irresponsabilità: quel che davvero conta per Berlusconi è soltanto Berlusconi, e nessun altro. Speriamo di non dover pagare altri prezzi prima che il gioco, con la scheda elettorale, ritorni di nuovo e finalmente nelle nostre mani.

«L’esecuzione di Mussolini? Sarebbe stato più giusto processarlo». «La guerra civile? Uno scontro feroce che conobbe atti di barbarie da una parte e dall’altra». «L’uccisione di Claretta Petacci? Incomprensibile per due persone che oggi ne parlano in poltrona». Sono dichiarazioni di Massimo D’Alema, intervistato da Bruno Vespa nel suo nuovo libro Vincitori e vinti.

Nell’anticipare il volume, Panorama presenta in copertina il presidente dei Ds, valorizzato per il suo "coraggio"; sullo sfondo i corpi del duce e di Claretta appesi a piazzale Loreto; a fianco, il commento di Berlusconi: «I comunisti hanno cambiato idea, ma continuano a commettere infamie». Claudio Pavone, prima partecipe poi storico della Resistenza, non vuole essere trascinato in una polemica di basso livello che confermerebbe i caratteri peggiori dei tempi in cui viviamo. Preferisce replicare con una citazione attribuita a Franco Fortini. È un articolo dell’Avanti!, uscito all’indomani dell’esecuzione di Mussolini: «Ieri s’è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi. Quale "legalità" avrebbe riparato il torto commesso, l’arbitrio fatto legge, la violenza eretta a norma di vita? Il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno per liberarsi dall’incubo di una offesa irreparabile. Per gli italiani non v’era altra via d’uscita. Era l’unica catarsi possibile».

Professore, D’Alema sostiene che sarebbe stato più giusto processare Mussolini.

«Innanzitutto va ricordato che la condanna a morte del Duce fu decretata dal Cnl dell’Alta Italia, che aveva avuto dal governo di Roma la delega per la gestione politica e militare della Liberazione del Nord. Quindi non si trattò di un atto dovuto all’iniziativa di singole persone o movimenti. Altra cosa è ovviamente la fucilazione della Petacci, che tutti condannarono. Altra cosa ancora l’esposizione certamente orribile in Piazza Loreto dei cadaveri, che furono poi rimossi su decisione dell’autorità resistenziale: non dimentichiamo peraltro che era stata scelta quella piazza perché lì erano stati uccisi per rappresaglia dei partigiani e i loro corpi abbandonati sul selciato secondo un costume inaugurato dalla Repubblica sociale».

La resa dei conti tra fascismo e antifascismo era giunta all’atto finale.

«Sì, questa è una cosa che certo sono in grado di capire "anche due persone che oggi ne parlano in poltrona". L’uccisione di Mussolini fu necessaria per chiudere definitivamente con il fascismo».

Esclude dunque l’ipotesi d’una Norimberga italiana?

«Sui motivi per cui non ci fu, rinvio al libro di Michele Battini Peccati di memoria. Gli apparati dello Stato italiano, per larga parte immutati, non avevano interesse a celebrare un processo. In particolare, la casta militare avrebbe dovuto processare una parte di se stessa. A cominciare da Badoglio».

Un processo imbarazzante anche per gli inglesi.

«In una prima fase gli alleati erano favorevoli a processare anche i criminali di guerra italiani. L’evolversi della situazione internazionale e i prodromi della guerra fredda gli fecero cambiare idea».

Una volta lei mi disse che, se Mussolini fosse stato processato, l’avremmo ritrovato sui banchi della Camera nelle file del Movimento Sociale Italiano.

«Credo che lo si possa dire ancora. Ed aggiungo: il suo fascicolo sarebbe finito nell’"armadio della vergogna", tra gli atti dei processi contro i criminali di guerra insabbiati dai ministri Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani».

Insomma, l’avrebbe fatta franca.

«Questa possibilità è sempre stata presente nei protagonisti della Resistenza. Non si doveva rifare come dopo il 25 luglio, quando a Mussolini e ai fascisti erano stati usati tanti riguardi, e poi loro vollero vendicarsi con la Repubblica Sociale».

Altra cosa fu l’uccisione della Petacci.

«Sì, inaccettabile: così essa apparve anche allora. Ma inaccettabile in senso morale era stato innanzitutto il fascismo. Colpisce che - dalla condanna dell’esecuzione della Petacci - il giudizio dell’onorevole D’Alema sembra estendersi a tutta la guerra civile».

Parla di atti di barbarie da una parte e dell’altra.

«Le guerre civili sono sempre cariche di efferatezza. Equiparare le due parti dal punto di vista dell’esercizio della violenza non è corretto. I fascisti della Rsi agivano con una ferocia protetta dalle autorità che allora impersonavano lo Stato, oltre che dagli occupanti tedeschi. I partigiani erano invece ribelli contro quello Stato. Rimproverare ai ribelli di essere tali, cioè rimproverargli il titolo d’onore, rischia di condurre a una equiparazione tra le due parti. Voglio poi aggiungere che la violenza era parte integrante della mentalità e della cultura fascista. Per gli antifascisti fu una necessità. E purtroppo, come sempre accade, anche la violenza esercitata per fini giusti può corrompere alcuni di quelli che la praticano».

In un’altra pagina del libro di Vespa, D’Alema distingue in modo netto tra chi militava dalla parte giusta e chi in quella sbagliata.

«È una distinzione giusta, che l’onorevole D’Alema non può ovviamente non fare. Ma la buona fede non è criterio sufficiente di giudizio nei confronti di nessuno. E, poi, è da dubitare che tutti coloro che aderirono a Salò fossero davvero "in buona fede"».

Mettendo in discussione l’esecuzione del duce, D’Alema ha demolito un caposaldo dell’opinione antifascista. Una concessione al "revisionismo"?

«Non voglio pensarlo. Il cosiddetto revisionismo è un fatto poco storiografico e molto politico, cioè con obiettivi politici».

A quale fine?

«Non tocca a me dirlo. Mi è difficile pensare che un uomo avveduto come D’Alema non abbia riflettuto in anticipo sulle conseguenze che potevano avere le sue parole».

A lei che effetto fa?

«Prima stupore, poi dispiacere».

Il dissenso dell´Anpi

«L´esecuzione di Benito Mussolini fu un atto di giustizia, deliberato ed eseguito nel corso della guerra di Liberazione nazionale dagli organi che erano anche istituzionalmente i legittimi rappresentanti del governo italiano nell´Italia occupata: il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia e il Comando generale del Corpo volontari della Libertà». Con queste parole l´Anpi esprime il suo «fermo dissenso» da quanto affermato dal presidente dei Ds Massimo D´Alema nell´intervista del libro di Bruno Vespa.

PECHINO - La delocalizzazione non esporta solo posti di lavoro. Per la prima volta un’azienda italiana è al centro di una dura battaglia operaia in Cina, accusata di gravi abusi contro i diritti umani. La DeCoro, produttrice di divani con una fabbrica nella zona industriale di Shenzhen, è denunciata per lo sfruttamento e perfino le violenze commesse da manager italiani sui dipendenti locali. Il presidente dell’azienda smentisce tutto e grida al complotto, ma la protesta finisce con grande rilievo sulla stampa indipendente di Hong Kong. Secondo questa versione è dopo un’aggressione contro tre leader operai, finiti all’ospedale lunedì, che tremila dipendenti della DeCoro hanno abbandonato la fabbrica e hanno manifestato bloccando l’autostrada di Pingshan.

Gridavano «fermate la violenza, vogliamo giustizia e protezione dei nostri diritti». È intervenuta la polizia anti-sommossa e li ha dispersi a manganellate. La ribellione, esplosa mercoledì mattina, si è conquistata così l’attenzione del South China Morning Post. Il quotidiano di Hong Kong, che non è sottoposto alla censura del governo cinese, ha una vasta rete di informatori nella regione meridionale del Guangdong dove si trova Shenzhen. È dal Guangdong che negli ultimi mesi filtrano notizie sempre più frequenti di scioperi e lotte operaie. Il boom economico che ha fatto di questa provincia di 83 milioni di abitanti la zona più ricca della Cina, fa esplodere le rivendicazioni salariali e la conflittualità sociale. Quando sono sotto accusa delle imprese occidentali lo scandalo è maggiore: contestate nei propri paesi perché trasferiscono l’occupazione all’estero, queste aziende rivelano in Cina dei comportamenti inaccettabili (oltre che illegali) a casa loro.

Le denunce più clamorose finora hanno colpito grandi multinazionali che appaltano la produzione a fornitori locali senza scrupolo. La Repubblica ha documentato nei mesi scorsi casi di sfruttamento minorile o abusi dei diritti umani in cui sono state accusate aziende cinesi che lavorano «in conto terzi» per Walt Disney, Timberland, Puma. Ora invece per la prima volta è sotto accusa una piccola azienda tutta italiana, coinvolta in modo diretto e non tramite il giro dei subappalti a produttori locali. Il South China Morning Post pubblica la foto di due operai, Chen Zhongcheng e Liang Tian, ricoverati in ospedale con gli occhi tumefatti e alcune fasciature. Liang ha raccontato che i dirigenti italiani lo hanno picchiato, insieme a due compagni, il 31 ottobre. Secondo lui, erano andati a lamentarsi dai capi dopo che l’azienda aveva cercato di tagliare del 20% i loro salari. Di fronte al rifiuto degli operai la DeCoro ne avrebbe già licenziati ottanta a settembre. Il salario medio in quella fabbrica è di 250 dollari al mese. «Mi hanno preso a pugni nello stomaco - ha raccontato Liang - ho perso conoscenza per qualche secondo. Mi hanno calpestato il viso quando ero a terra. Era umiliante». Un altro operaio, Li Fangwei, ha riferito che le violenze sono frequenti: «Picchiano regolarmente gli operai cinesi. Sono come dei lupi. Sono razzisti e ci trattano da schiavi». Secondo un compagno la polizia non li ha difesi: «Dopo il primo episodio di violenza abbiamo fatto denuncia ma la polizia non ha fatto niente. Non ci fidiamo più delle autorità. Vogliamo proteggerci da soli». Interpellato da Repubblica in Italia, ieri sera il presidente della DeCoro, Luca Ricci, ha smentito di aver chiesto tagli salariali del 20%. Ha smentito anche di aver scritto una lettera di scuse ai tre operai ricoverati in ospedale (dettaglio riportato dal South China Morning Post). «Ci sono stati degli italiani che hanno picchiato degli operai cinesi, ma non è vero che questo è avvenuto durante una disputa sulla riduzione dei salari. Gli operai erano stati licenziati per motivi che riguardano il loro comportamento sul luogo di lavoro, poi sono rientrati abusivamente in azienda. Non credo che siano stati gli italiani a picchiare per primi, ma credo che l’abbiano fatto per reazione». Ufficiosamente gli italiani si descrivono come vittime, evocano manovre contro di loro, magari organizzate da concorrenti locali. L’esperienza indica che il governo cinese, pur essendo inflessibile nel reprimere i conflitti sociali, qualche volta si mostra più tollerante se il bersaglio delle proteste operaie è un’impresa straniera. In particolare se i padroni sono giapponesi, taiwanesi, o (più raramente) americani: in quei casi scatta un riflesso nazionalista che legittima perfino gli scioperi, normalmente vietati. Quando sulla stampa di Pechino affiorano notizie di proteste contro salari bassi e sfruttamento, quasi sempre si scopre che dietro c’è una multinazionale, non un’azienda cinese.

Questo non significa però che le rivendicazioni siano inventate dalla stampa, o manovrate dal potere politico. In quelle aziende straniere che pagano salari superiori alla media cinese e che offrono condizioni di lavoro umane (ci sono anche quelle, e ne ho visitate), sarebbe difficile convincere i dipendenti a scioperare o a manifestare. Se i dirigenti della DeCoro hanno la coscienza in regola, per dimostrare la loro correttezza c’è una soluzione. Il presidente Luca Ricci inviti a visitare la fabbrica di Shenzhen le sue rappresentanze sindacali italiane, assistite da interpreti forniti dall’Ufficio internazionale del lavoro, o dalle organizzazioni umanitarie con sede a Hong Kong. Una visita aperta anche ai giornalisti italiani, con ampia facoltà di intervistare gli operai cinesi, sarebbe la prova della buona fede dell’azienda. Nell’attesa, l’unica versione dettagliata dei fatti è quella uscita sull’autorevole e indipendente quotidiano di Hong Kong.

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