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Stanno nascendo "costituzioni parallele" che, direttamente o indirettamente, mirano a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana quella dei principi, delle libertà e dei diritti – varata esattamente 60 anni fa. Il più noto di questi tentativi è quello che le gerarchie cattoliche perseguono ormai da tempo, affermando la superiorità e la non negoziabilità dei propri valori e denunciando il relativismo delle carte dei diritti, a cominciare dalla Dichiarazione universale dell’Onu del 1948, considerate frutto di mediocri aggiustamenti politici. Ma non deve essere sottovalutato un prodotto di quest’ultima stagione, l’annuncio di "manifesti dei valori" ai quali le nuove forze politiche vogliono affidare una loro "ben rotonda identità". Il mutamento di terminologia è rivelatore. Non più "programmi" politici, ma manifesti, un tipo di documento che storicamente ha valore oppositivo, addirittura di denuncia dell’ordine esistente. E oggi proprio l’ordine costituzionale finisce con l’essere messo in discussione.

Viene abbandonata la politica costituzionale, già indebolita, ma che pur nei contrasti aveva accompagnato la vita della Repubblica, contraddistinto battaglie come quella dell’"attuazione costituzionale", segnato stagioni come quella del "disgelo costituzionale". Al suo posto si sta insediando un dissennato Kulturkampf, una battaglia tra valori che sembra muovere dalla impossibilità di trovare comuni punti di riferimento. L’identità costituzionale repubblicana è cancellata, al suo posto scorgiamo la pretesa di imporre una verità o la ricerca affannosa di compromessi mediocri.

Nel linguaggio di troppi politici i riferimenti alle encicliche papali hanno sostituito quelli agli articoli della Costituzione. Nelle parole di altri si rispecchiano una regressione culturale, una corsa alle risposte congiunturali, più che una matura riflessione sui principi che devono guidare l’azione politica. Ci si allontana dal passato senza la lungimiranza di chi sa cogliere il futuro.

Questo è forse l’effetto di un inesorabile invecchiamento della Costituzione della quale, a sessant’anni dalla nascita, saremmo chiamati non a celebrare la vitalità, ma a registrare la decrepitezza? L’intoccabilità della prima parte deve cedere ai colpi inflitti dal mutare dei tempi?

Ribadito che siamo di fronte a un tema distinto dalla buona "manutenzione" della seconda parte, che disciplina i meccanismi istituzionali, proviamo a saggiare la tenuta dei principi costituzionali considerando proprio questioni recenti, per vedere se non sia proprio lì la bussola democratica, liberamente e concordemente definita, alla quale tutti devono riferirsi. Partiamo dall’attualità più dura, dalle morti sul lavoro, delle quali la tragedia della Thyssen Krupp è divenuta l’emblema. L’articolo 41 della Costituzione è chiarissimo: l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Questa sarebbe una incrostazione da eliminare perché in contrasto con la pura logica di mercato? Qualcuno lo ha proposto, ma spero che la violenza della realtà lo abbia fatto rinsavire. Oggi è proprio da lì che bisogna ripartire, da una sicurezza inscindibile dal rispetto della libertà e della dignità, dalla considerazione del salario non solo come ciò che consente di acquistare un lavoro sempre più ridotto a merce, ma come il mezzo che deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Questione ineludibile di fronte ad un processo produttivo che, grazie anche alle tecnologie, si impadronisce sempre più profondamente della persona stessa del lavoratore. La trama costituzionale ci parla così di una «riserva di umanità» che non può essere scalfita, ci proietta ben al di là della condizione del lavoratore, mette in discussione un riduzionismo economicistico che vorrebbe l’intero mondo sempre più simile alla New York descritta da Melville all’inizio di Moby Dick, che «il commercio cinge con la sua risacca».

Altrettanto irrispettosa della vita è la decisione del Comune di Milano di non ammettere nelle scuole materne comunali i figli di immigrati senza permesso di soggiorno. È davvero violenza estrema quella che esclude, che nega tutto ciò che è stato costruito in tema di eguaglianza e cittadinanza e, in un tempo di ripetute genuflessioni, ignora la stessa carità cristiana. Di nuovo la trama costituzionale può e deve guidarci, non solo con il divieto delle discriminazioni, ma con l’indicazione che vuole la Repubblica e le sue istituzioni obbligate a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (così l’articolo 3). E cittadinanza ormai è formula che non rinvia soltanto all’appartenenza ad uno Stato. Individua un nucleo di diritti fondamentali che non può essere limitato, che appartiene a ciascuno in quanto persona, che dev’essere garantito quale che sia il luogo in cui ci si trova a vivere. Hanno mai letto, al Comune di Milano, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Sanno che in essa vi è un esplicito riconoscimento dei diritti dei bambini? Trascrivo i punti essenziali dell’articolo 24: «I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere… In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente». Di tutto questo, e non solo a Milano, non v’è consapevolezza, segno d’una sorta di pericolosa "decostituzionalizzazione" che si è abbattuta sul nostro sistema politico-istituzionale.

Ma seguire le indicazioni della Costituzione rimane un dovere. Certo, serve una cultura adeguata, perduta in questi anni e che ora sta recuperando una magistratura colta e consapevole, che affronta le questioni difficili del nascere, vivere e morire proprio partendo dai principi costituzionali, ricostruendo rigorosamente il quadro in cui si collocano diritti e libertà delle persone, risolvendo casi specifici come quelli riguardanti l’interruzione dei trattamenti per chi si trovi in stato vegetativo permanente, il rifiuto di cure, la diagnosi preimpianto. Ma proprio questo serissimo lavoro di approfondimento sta rivelando la distanza tra cultura costituzionale e cultura politica. Sembra quasi che, prodighi di dichiarazioni, troppi esponenti politici non trovino più il tempo per leggere le sentenze e le ordinanze che commentano, o non abbiano più gli strumenti necessari per analisi adeguate. Fioccano le invettive e le minacce: «invasione delle competenze del legislatore», «ricorreremo alla Corte costituzionale». Ora, se questi frettolosi commentatori conoscessero davvero la Corte, si renderebbero conto che le deprecate decisioni della magistratura seguono proprio una sua indicazione generale, che vuole l’interpretazione della legge "costituzionalmente orientata": Nel caso della diagnosi preimpianto, anzi, sono stati proprio i giudici a bloccare una pericolosa invasione da parte del Governo delle competenze del legislatore, che non aveva affatto previsto il divieto di quel tipo di diagnosi, poi introdotto illegittimamente da un semplice decreto ministeriale.

La stessa linea interpretativa dovrebbe essere seguita nella controversa materia delle unioni di fatto, al cui riconoscimento non può essere opposta una lettura angusta dell’articolo 29, già superata negli anni 70 con la riforma del diritto di famiglia. Parlando di «società naturale fondata sul matrimonio», la Costituzione non ha voluto escludere ogni considerazione di altre forme di convivenza, tanto che l’articolo 30 parla esplicitamente di doveri verso i figli nati "fuori del matrimonio"; e l’articolo 2, per iniziativa cattolica, attribuisce particolare rilevanza giuridica alle "formazioni sociali", di cui le unioni di fatto sono sicuramente parte. Linea interpretativa, peraltro, confermata dall’articolo 9 Carta dei diritti fondamentali che mette sullo stesso piano famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, per le quali è caduto il riferimento alla diversità di sesso. Che dire, poi, delle resistenze contro una più netta condanna delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, che costituisce attuazione degli impegni assunti con i trattati europei e la Carta dei diritti? Dopo esserci allontanati dalla nostra Costituzione, fuggiremo anche dall’Europa e ci sottrarremo ai nostri obblighi internazionali?

Nella Costituzione vi sono molte potenzialità da sviluppare, come già è accaduto con il diritto al paesaggio e la tutela della salute. Quando si dice che la proprietà deve essere "accessibile a tutti", si leggono parole che colgono le nuove questioni poste dall’utilizzazione dell’enorme patrimonio di conoscenze esistente in Internet. E la rilettura delle libertà di circolazione e comunicazione può dare risposte ai problemi posti dalle tecnologie della sorveglianza e dalle gigantesche raccolte di dati telefonici. Vi è, dunque, una "riscoperta" obbligata di una Costituzione tutt’altro che invecchiata e imbalsamata, che regge benissimo il confronto con l’Europa, che rimane l’unica base democratica per una discussione sui valori sottratta alle contingenze ed alle ideologie. Questo richiede l’apertura di una nuova fase di "attuazione" costituzionale". Chi sarà capace di farlo?

Per Rossana Rossanda è urgente una piattaforma efficace nella scena istituzionale, sociale e delle idee, per il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano, è necessaria una soggettività politica, non autoreferenziale, che individui le dimensioni nodali di una nuova cultura politica. Il 30 novembre su , con alcuni compagni, abbiamo proposto alla Sinistra di costituire una commissione che elabori entro maggio un progetto complessivo e delle proposte per i prossimi Dpef: la sinistra (all'opposizione e al governo) è stata inefficace quando, limitandosi alla denuncia, ha disprezzato la ricerca di soluzioni operative per contrastare concretamente la precarizzazione del lavoro, la finanziarizzazione dell'economia, l'uso speculativo dei beni comuni che caratterizzano l'attuale fase globalizzata del liberismo di mercato.

Per rappresentare il lavoro la Sinistra deve avere un'analisi critica del capitalismo italiano nella globalizzazione. Per creare posti di lavoro stabili e di qualità è necessaria una proposta sul sistema produttivo che ricollochi il paese nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro: decidere cosa produrre, su cosa fare ricerca.

La politica industriale è consistita in incentivi alle aziende per l'occupazione e per il trasferimento tecnologico: nel primo caso, finito l'incentivo, i nuovi occupati sono stati licenziati, nel secondo, le imprese hanno comprato beni strumentali prodotti in Germania o in Francia (dando commesse a imprese tedesche o francesi e quindi lavoro a lavoratori stranieri con risorse italiane). Al Senato un emendamento (quello di Tecce e Mele) contrapponeva agli incentivi automatici dell'articolo 70 della finanziaria un programma nazionale di ricerca e reindustrializzazione per selezionare le filiere produttive generatrici di innovazione e disponibili a trasferire sul piano industriale i risultati della ricerca finanziata. L'emendamento non è passato, poiché secondo i moderati, le imprese per assumere hanno bisogno di liquidità (credito d'imposta, stages pagati dallo stato): niente vincoli di innovazione e incentivi per tutti.

Il Partito democratico è egemone nella gestione delle risorse che dovrebbero finanziare le imprese ma non ha una politica industriale selettiva delle filiere virtuose: non può averla perché le filiere non meritevoli e non più incentivate insorgerebbero. La deregolazione della programmazione pubblica sul piano industriale si è generalizzata, dal 1992, anche nel governo del territorio con i Programmi di intervento: essi, in nome dell'immediatezza attuativa delle proposte della proprietà fondiaria, immobiliare, industriale e commerciale, piegano alle distorsioni congiunturali del mercato la riconfigurazione produttiva e territoriale indotta dalle dismissioni d'uso di ampi comparti di aree: il succube capitalismo italiano globalizzato abbandona i principali settori produttivi industriali.

Chiudere il quindicennio dell'urbanistica contrattata e del liberismo di mercato nelle scelte produttive rappresenta per la sinistra non solo la scelta di ridare voce alle istanze di miglior qualità ambientale e dotazione di servizi pubblici da parte dei cittadini, ma soprattutto quella di indirizzare le scelte di investimento di lungo periodo fuori dal circuito delle funzioni consumistiche egemonizzate dall'effimera novità di immagine mass-mediatica.

La Vas richiesta dalla direttiva Ue/2001 è spesso l'alibi per affossare il ruolo propositivo pubblico rappresentato dalle conquiste storiche del riformismo del centro-sinistra degli anni 60/70 e si riduce ad adempimento burocratico che avalla scelte strategiche altrui: al contrario dovrebbe proiettare quelle conquiste in un più vasto orizzonte di sostenibilità di lungo periodo.

I progetti di riuso dei principali comparti di aree industriali e di servizi dimessi avallati da gran parte dei Comuni italiani grandi e piccoli, di destra o di sinistra (l'ex Fiera e il Centro Direzionale di Milano, ma anche, con identiche densità e procedure, l'ex Fiera di Roma; i grattacieli di Renzo Piano a Torino, ma anche a Sesto San Giovanni, dove ogni forma di produzione innovativa sulle aree ex Falck viene tacciata di non essere qualificante per la città del 2000 e si discute solo di residenza, ipermercati e musei d'arte contesi a Milano), sono l'esempio incontrovertibile dell'esito di questa deriva.

Scrive Francesco Indovina

Mi era sembrato di esagerare nel giudicare l'atteggiamento del il manifesto distratto, se non proprio antipatizzante, per il gli «stati generali della sinistra» (nome pomposo, va bene!), ma l'articolo di Rossanda di mercoledì mi ha fatto capire di non essere il solo ad avere avuto questa impressione.

Ho cercato qualcuno, Valentino Parlato o qualche altro dell'establishment del giornale, tra la folla di sabato e domenica, ma non ho trovato nessuno (ho trovato tanti compagni del Manifesto, movimento), ho pensato troppa gente. Ma leggendo la cronaca di martedì ho percepito che quei due giorni erano stati ... passati sotto gamba. Eppure sono stati due giorni interessanti e densi, sono stati due giorni pieni di entusiasmo, un entusiasmo così contagioso che i quattro «segretari» si sono gasati al punto di esporsi oltre ogni aspettativa verso la prospettiva dell'unificazione.

Certo, come osservava Rossanda, siamo al di sotto delle necessità, eppure un'elaborazione comune, fondamentale per la costruzione di un soggetto politico, è iniziata. Niente di più che un inizio, ma di questi tempi e tenendo conto dello stato anche conflittuale di queste forze non è poco. Il documento di intenti, come carta iniziale di un percorso di lavoro non è male. Per quello che conta ero venuto a Roma speranzoso e scettico sono ripartito ottimista. Con questo non voglio dire che tutto è stato risolto, ci vuol altro, ma i problemi da affrontare sono stati messi in agenda a partire dal riferimento sociale, che si può presumere scontato, ma non lo è (troppo ha lavorato ai nostri fianchi il pensiero prevalente).

Ha ragione Franco Giordano, si è cominciato a lavorare fuori da logiche di nicchia, e questo mi pare molto importante se fosse vero che il «declino» o la debolezza della sinistra va anche colta nella «cultura di nicchia». L'auspicio della costruzione di una nuova strategia della sinistra nel confronto diretto con i soggetti sociali, così indicato ancora da Giordano, implica un «corpo a corpo» con questi soggetti. Un soggetto plurale non è sommatoria, ma riduzione a unità, dove ciascuno ha «lingua», ma anche e soprattutto «orecchie» e capacità rielaborativa; dove le singole soggettività fondate su esperienze di vita e di lotte si misurano e si rapportano a un universo comune. Non è poco, non è semplice, non è certa la riuscita, ma questo ci tocca. Il fallimento di questa prospettiva unitaria sarebbe drammatico per la sinistra, per i lavoratori per i soggetti deboli. Voglio anche dire che i giorni subito dopo gli «stati generali» non sono entusiasmanti; il protagonismo marchiato di egotismo non sembra sconfitto. Quando, chiedo ai quattro «segretari», il «soggetto federato» riuscirà a parlare con un sola bocca e soprattutto con lo stesso contenuto?

Ma a questo punto torniamo al : in questo processo il suo ruolo è quello di osservatore distratto. Così è apparsa la cronaca dei due giorni. Già in un altro mio intervento avevo prospettato che, nella ovvia indipendenza critica del giornale, anzi ci si può aspettare che questa possa essere utilmente più «affilata», questa prospettiva unitaria andava sostenuta. Ma non sostenuta facendo da «megafono», ma accompagnata e aiutata con gli strumenti propri del giornale, impegnando le forze, mobilitando i suoi collaboratori, per alimentare la costruzione di una cultura comune del nuovo soggetto. E detto francamente questa ipotesi di lavoro, ovviamente parziale per il giornale, sarebbe salutare anche per la «cultura» del giornale.

Risponde Valentino Parlato

Caro Francesco,ho letto con attenzione autocritica il tuo articolo. Che cosa risponderti? Posso solo risponderti che hai ragione e che io sono «dalla parte del torto», ma senza l'orgoglio che noi attribuiamo a questa formula. Hai ragione, come ha ragione Rossana Rossanda quando ci (mi) ha scritto di essere meno snob e di dare maggiore attenzione agli Stati generali delle sinistre.

Ci conosciamo da più di quarant'anni e non posso imbrogliarti. Le sinistre, cosiddette radicali, mi lasciano molti dubbi, come la formula del plurale e unitario che mi fa pensare alla santa trinità, uno e trino. Detto tutto questo (sono andato distrattamente sabato) sarei dovuto andare domenica e anche intervenire. Ripeto: faccio severa autocritica personale e anche del giornale, che talvolta mi appare un Sisifo stanco e anche un po' spocchioso. Aggiungo che proprio per questa autocritica ho ringraziato molto sinceramente Franco Giordano, che ci ha mandato l'articolo che tu citi, in segno di amicizia (nonostante noi) e di stimolo.

Bene fatta questa autocritica mi chiedo e chiedo, questo manifesto «quotidiano comunista», che da 36 anni resiste a tutte le sconfitte e a tutte le ritirate della sinistra e che non ha affatto l'intenzione di autodefinirsi «quotidiano democratico» può chiedere, lo chiedo io a Franco Giordano, a Fabio Mussi, a Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio di venire una mattinata qui alla sede del manifesto e dirci (e dirsi) che cosa veramente vogliono fare, quale è il loro obiettivo strategico, non solo tattico, perché - a mio avviso - nella tattica stiamo affogando.

Caro Francesco temo - sono quasi sicuro - che questo mio invito sarà del tutto disatteso. Ciascun leader impegnato nei suoi guai non avrà avuto il tempo di leggere questo mio modesto (forse presuntuoso) invito.

In tutti i modi, caro Francesco, ti assicuro che nonostante tutte le mie autocritiche non ho assolutamente voglia di mollare. E' meglio sbagliare e resistere che avere ragione e mollare. E non solo per snobismo.

Un abbraccio.

Come siamo frettolosi e snob davanti al primo tentativo della galassia delle sinistre di mettersi assieme. Pare che i più scafati manco siano andati a vedere. Eppure non ci sono alternative, o si lascia la sfera politica a Veltroni, e noi ci contentiamo di essere, se va bene, frammenti interessanti e intelligenze o mozioni, o si ricomincia a parlarsi «per». Per fare assieme qualche cosa che freni la deriva alla centralizzazione sfrenata del dominio del denaro e delle merci che ci frantumano ciascuno nel singolo e nei pochi. Raramente in transitorie masse.

Si dirà: ma in fondo da questa parte del mondo ce la caviamo, per lo più abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare, un po' di compassione per gli esclusi. È vero, mettere un freno al meccanismo mondialmente in atto è impellente dove esso produce subito morte, e non è il nostro caso. Non per l'assoluta maggioranza di noi, e delle minoranze miserabiliste chi se ne frega? Così alla cancellazione della Cosa Rossa - espressione cretina - da parte delle maggiori testate (eccezione Rai1) si è aggiunta la freddezza nostra, coperta dai quattro morti della Thyssen, come se un incidente del lavoro di questa natura non fosse un evento messo in conto dal meccanismo oggi dominante.

Non sono d'accordo. Per quel che so, la riunione di sabato e domenica non ha dato che una risposta, la decisione di lavorare assieme, obiettivo minimo non andare dispersi alle prossime elezioni, non molto ma meglio di niente, obiettivo massimo, ma poco interrogato, diventare un partito. Per dir la verità, oggi è lo stesso, e lo sarà fin che manca una elaborazione comune sul punto in cui siamo e un tentativo comune di interpretazione delle diverse soggettività presenti, di quel che ciascuna mette nelle diverse sigle o movimenti, per cui uno o una stanno in questo e non in quello. Ma una cosa è starci come un tassello di un mosaico complesso, sulla cui natura e destino si moltiplicano gli interrogativi, un'altra è starci in soddisfatta autosufficienza. Se questa sembra finita - anche per le insigni zuccate prese - un lavoro assieme può cominciare. Anche con le femministe, che vengono da molto lontano e in questo primo incontro hanno contrapposto a un rituale un altro loro rituale, facendosi rispondere da rituali parole, ma che per pesare davvero dovranno dimostrare come non ci sia cespuglio del paesaggio politico in cui siamo che non sia traversato dal conflitto fra i sessi, anch'esso in via di mutamento. Conflitto che - ha ragione Dominijanni - non va ridotto a preferenze sessuali, che appartengono e devono restare all'individuale libertà. Lasciamo l'elenco al Vaticano. Farne delle figure o tipologie sociali conduce dritti, credenti o non credenti, a qualche Malleus Maleficarum (alias caccia alle streghe).

Per conto mio, la prima urgenza è garantire un'area, un perimetro, una disponibilità dentro alle quali parlarsi, rispondersi, cercar di costruire una piattaforma che conti sulla scena delle idee, su quella sociale e su quella istituzionale. Dei limiti di quest'ultima si può dire molto, ma senza di essa conta di meno, così come ridursi a essa significa tagliarsi radici e canali di alimentazione.

Tema prioritario? Secondo me capire come i soggetti singoli e collettivi siano prodotti o intaccati o condizionati, o resi meno liberi, dal meccanismo economico-politico dei poteri oggi mondialmente dominanti. Meccanismo articolato, in mutazione, produttore di lacerazioni anche interne, ineludibile. Ma a sua volta condizionato dalle soggettività che innesta o con le quali si scontra.

La vecchia storia, Marx sì Marx no, si misura su questo criterio. Non è riconducibile, come si usa, alla «questione del lavoro». Per contro, una soggettività non si misura su un'altra soggettività, ma tutte e due con, per così dire, la pesantezza del mondo.

Non vedo difficoltà per chi sta oggi attorno a Rc o al Pdci, salvo finirla con la negazione o riaffermazione di un «da dove veniamo» (che sarebbe l'ora di guardare in faccia invece che celebrare o esecrare). Né vedrei difficoltà negli ecologisti: come O'Connor, ma anche senza di lui, sanno bene quanto delle razzie contro gli equilibri naturali o ambientali dipenda dal denaro e dalla mercificazione generale.

La battaglia per l'ecosistema non ha avversari diversi da quelle per/contro il lavoro salariato e contro le guerre. Quanto ai movimenti, la loro filosofia rende più semplice aderire a tutto o a questo o a quello mantendo un'indipendenza. Lo stesso vale per la causa delle donne, che peraltro non si esaurirà mai neanche nella più complessa e raffinata delle politiche - il femminimo sa bene che non è «una delle» esperienze, è costituiva della specie umana. Credo infine che anche i nostri giornali dovrebbero mettere a disposizione non la loro autonomia ma le loro teste.

Dimenticavo la questione del leader. Beh, il leader viene ultimo. E dovrebbe lavorare come lo stato, alla propria estinzione ... è il peggio del famoso partito. Per ora non me ne occuperei.

Appelli che si moltiplicano, seminari sempre affollatissimi che si rincorrono e sovrappongono, dibattiti su singoli temi o su strategie totali, impegnati interventi su tutta la stampa di sinistra, e-mail che a valanga ci raggiungono ogni giorno. Sempre più ampia e sentita è l’attesa per gli Stati Generali dell’8-9 dicembre, data a partire dalla quale le sinistre italiane, finalmente unite, dovrebbero avere una sola parola.

Il fatto era in qualche misura prevedibile. Lo aveva annunciato il popolo del 20 ottobre, e il 24 novembre delle donne, e la Sinistra Europea al suo secondo congresso, appena celebrato a Praga con la presenza attiva (accanto ai diciannove partiti che istituzionalmente la compongono) di una serie di associazioni e gruppi portatori di istanze molteplici. Ma il fervore politico di questi giorni va oltre le attese. Nessuno può oggi negare l’esistenza di una sinistra; o meglio, di una urgente e consapevole domanda di sinistra, e quindi di un forte “potenziale” di sinistra, fatto di persone di provenienza e condizione le più diverse, per lo più estranee ai partiti, che si ritrovano nel rifiuto del mondo così com’è oggi, e chiedono una politica capace di promuoverne il superamento. Persone pronte a partecipare e a impegnarsi. Ma anche a defilarsi, ad arrendersi di fronte a una qualità della politica in cui non si riconoscono. Se i quattro partiti che hanno indetto gli Stati Generali non sapranno cogliere questo enorme potenziale di sinistra, capirne il valore e rispondere adeguatamente, il danno non potrà non essere anche loro.

La prima risposta con più insistenza e all’unanimità sollecitata, come indispensabile premessa di ogni politica utile, è quella di una sinistra unita: che sappia dunque superare difficoltà e problemi immediati, e soprattutto abbandonare personalismi e piccoli interessi di gruppo, per guardare lontano; o provarci almeno, finalmente. Questo è d’altronde ciò che esige il mondo oggi, reso irriconoscibile dagli straordinari mutamenti prodottisi in tutti i campi durante il secolo scorso, e tuttora in atto.

La globalizzazione non è una parola, è un fatto. Il quale - utilizzando ogni passo di uno straordinario progresso tecnologico, e moltiplicando scambi e comunicazioni di ogni sorta - poco o tanto scuote e trasforma l’intera realtà, crea gravi, talvolta gravissimi, nuovi problemi, ma anche modifica profondamente i problemi ereditati dal passato; e a tutti imprime dimensione sovranazionale. Le migrazioni ininterrotte e sempre più folte, il terrorismo in continua espansione, la guerra dichiaratamente promossa a normale attrezzo politico, la finanziarizzazione in costante aumento, la crisi economica che molti qualificati osservatori giudicano strutturale e forse irreversibile, la sempre più drammatica crisi ecologica, sono tutti problemi per loro natura sovranazionali, sono “problemi-mondo”, che solo a livello sovranazionale potranno, forse, trovare soluzione. Ma anche il lavoro in ogni sua forma e il suo sempre più pesante sfruttamento, e così le crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri, l’impoverimento dei ceti medi, l’insicurezza generalizzata, cioè quelli che da sempre sono al centro dell’agenda delle sinistre: tutti sono divenuti problemi-mondo, e difficilmente possono oggi essere affrontati utilmente all’interno di un singolo paese.

Tutto questo non trova però rappresentazione a livello politico. Esiste, e impera, una globalizzazione economica, ma non esiste una globalizzazione politica. Un impegno serio di riflessione in proposito, non si vede nemmeno tra le sinistre, che pure per la loro stessa funzione storica ne avrebbero il compito, dato che sul lavoro soprattutto vengono scaricati i costi di questa “grande trasformazione”, e che sono sempre i più deboli a pagare i costi delle catastrofi ambientali. E questo è un vuoto, che in qualche misura si avverte anche nella vasta e fervorosa sinistra che in questi giorni si confronta.

Certo, a seguire incontri e dibattiti, a cogliere propositi e suggerimenti, è difficile non consentire con quanto si dice: in difesa del lavoro e di una più decente distribuzione del reddito, contro la guerra e le basi militari americane disseminate in Italia e in Europa, per la rivendicazione dei diritti civili e contro la violenza sulle donne, a favore delle energie rinnovabili e contro il nucleare, e così via; tutte cose non solo condivisibili ma sovente proposte con intelligenza e coraggio, e tutte (tranne rare eccezioni) in sintonia con la linea storica delle sinistre. Ciò che si ascolta insomma è, in qualche modo, “il meglio del già detto”. Può bastare?

La Sinistra italiana, che attendiamo veder nascere unita dalle prossime assise, non credo possa esimersi dal riflettere sui grandi mutamenti che agitano il mondo, anche per rileggere alla loro luce i problemi da sempre oggetto prioritario del suo programma. A cominciare dal mercato del lavoro, in cui l’antica equazione “più produzione = più occupazione” è ormai fuori corso, perché delocalizzazioni, invasione di prodotti stranieri a prezzi stracciati, tecnologie capaci di sostituire porzioni crescenti di lavoro umano, masse di migranti, hanno di fatto vanificato le “leggi” pensate per regolarne le dinamiche, e però da nessuno - ch’io sappia - date per decadute.

Ma ciò su cui vorrei soffermarmi con qualche attenzione è la crisi degli equilibri naturali, il più clamoroso “mutamento” impostosi negli ultimi decenni e il più carico di conseguenze negative: problema, come noto, a lungo sostanzialmente ignorato dalle sinistre. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, e Prc in particolare dedica non poco rilievo alla materia. Diversi sono in effetti i passaggi che nei diversi documenti preparatori degli Stati Generali si occupano della questione, di cui non è qui possibile dar conto. Ma ciò che mi interessa rilevare è che le politiche ambientali previste (promozione di energie rinnovabili, razionale trattamento dei rifiuti, opposizione a “grandi opere” di pesante impatto ambientale, ecc.) certamente utili, di fatto rappresentano solo dei correttivi, delle modifiche che non incidono sull’attuale modo di produzione e consumo, e (nonostante volonterose dichiarazioni di “necessario cambiamento del modello di sviluppo”, e perfino di “ripensamento dello sviluppo illimitato”, di assunzione del “concetto del limite”) non raggiungono il “cuore” delle cose. Secondo un approccio non solo lontano dall’assunzione della crisi ecologica in tutta la sua terrificante portata, ma ignaro di ciò che vorrebbe un programma davvero capace di arrestare, o almeno rallentare il tremendo assalto ininterrottamente portato dal nostro sistema economico all’equilibrio naturale.

Che significherebbe rimettere in causa le categorie politiche oggi dominanti, e inaugurare una strategia che vada oltre la (certo necessaria) redistribuzione della ricchezza, per investire non solo i modi ma le ragioni stesse della sua produzione, e creare una cultura capace di interpretare e gestire i radicali mutamenti del mondo contemporaneo. Una cultura che ponga domande esigenti, e apra dubbi sulla ineluttabilità di obiettivi quali efficienza, produttività, competitività, crescita, sulla indiscutibilità di “doveri sociali” quali possesso e consumo di oggetti, sulla quantità come valore in sé; che sollevi interrogativi su vite interamente consumate dal lavoro, nel segno di un capitalismo accettato non solo come ineluttabile presente, ma come “naturale” futuro di tutti.

Oggi, accanto all’antico e irrecuperabilmente disuguale rapporto tra capitale e lavoro, ci troviamo ad affrontare il rapporto tra capitale e natura, anch’esso antico, ma solo di recente rivelatosi in tutta la sua rovinosa rapacità. Sono due problemi che (diversamente da quanto le sinistre hanno tradizionalmente ritenuto) non solo non si contraddicono, ma si completano a vicenda, anzi in qualche misura contengono anche tutti gli altri e possono forse indicarne la soluzione. Solo una sinistra unita può trovare la forza di proporseli come obiettivo. Ma a volte accade anche che un’idea chiara, un obiettivo condiviso, si facciano presupposti di un lavoro comune.

Premessa

In agosto il conto (molto approssimato per difetto) dei morti da effetto-serra è: 3700 nel Sud Est Asiatico e 90 in Sudan causa alluvioni, 51 per tifoni in Centro America, 30 da ipercalore nel Mediterraneo. I profughi sempre da alluvioni in Asia superano i 50 milioni. I politici di tutto il mondo nel frattempo sono impegnati a promuovere grandi opere, crescenti velocità, raddoppi del turismo, frenetiche trivellazioni in cerca dell’ultimo petrolio, spasmodici tentativi di sostituirlo per poter continuare a crescere.

Questa sinistra italiana che si sta federando con la prospettiva di altre ipotesi, altri percorsi politici, da quelli praticati oggi, che idee ha in fatto di ambiente? Quali scelte di governo ritiene necessarie per tentare di prevenire e possibilmente bloccare gli scenari terrificanti che si prospettano? Ne ho discusso con i leader dei principali soggetti che compongono la nuova “alleanza”: Fabio Mussi, Aldo Tortorella, Alfonso Pecoraro Scanio, Franco Giordano.

Avrei voluto che l’intero schieramento fosse rappresentato, ma non è stato possibile. Non tutti, a sinistra, sembrano ancora convinti che il rapporto capitale-lavoro non esaurisce la storia, che un nuovo capitolo è oggi aperto tra capitale e natura, e che proprio alle sinistre tocca scriverlo.

Fabio Mussi

Questo capitalismo è incompatibile con il pianeta Terra

9 settembre 2007

Oggi la prima intervista. Abbiamo iniziato da Fabio Mussi leader di Sinistra democratica.

Ravaioli.Tu hai più volte pubblicamente detto: "Il capitalismo è incompatibile con il Pianeta Terra". E questo ci porta immediatamente nel cuore del problema da affrontare: il governo dell'ambiente.

Mussi. Nella forma attuale, il capitalismo è incompatibile con il Pianeta. Come noto, il capitalismo storicamente ha avuto forme diverse. Quello delle origini era un sistema selvaggio, volto a riprodurre forza lavoro a costi minimi, sostanzialmente in assenza di istituzioni democratiche, un sistema di pura valorizzazione del capitale. Poi sotto la spinta delle lotte operaie, e anche del pensiero liberaldemocratico, si è andato stipulando quel particolare compromesso che è stato il welfare state . Mutamenti verificatisi sotto la spinta di bisogni sociali incomprimibili…

R. Ma la forma del capitale è l'accumulazione, lo è sempre stata. Senza accumulazione il capitale non è. E, come ben sai, è l'accumulazione quella che squilibra l'ambiente.

M. La consapevolezza che accanto al prelievo di plusvalore dal lavoro, esisteva un'altra questione, quella del prelievo di valore dall'ambiente, nasce sulla fine dell'Ottocento. L' impatto del sistema produttivo sugli ecosistemi andava aumentando, ma non c'è una data di questa percezione, anche se qualcuno l'ha avuta precocemente. Ma il fatto che lo sviluppo potesse entrare in conflitto con il secondo principio della termodinamica e produrre crescente entropia, ampiamente trattato dai Georgescu Roegen, i Commoner, i Bateson, i Prigogine, è stato recepito dalla coscienza poltica recentissimamente. Il primo rapporto sul tema, firmato dalla Bruntland nell'87, fu ampiamente contestato e disatteso. Il riconoscimento del problema da parte delle autorità politiche è recentissimo, si colloca dopo il quarto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici, che è di quest'anno.

R. Forse è accaduto un po' prima, con il rapporto Stern, che ha fatto i conti della crisi ecologica, e segnalato il rischio di caduta del Pil…

M. Sì, quando s'è cominciato a calcolare i costi. Problema serio d'altronde.

R. Ma torniamo un momento su quella componente essenziale del capitale che è l'accumulazione, che pertanto non ha una data di nascita. La parola crescita, da tutti ossessivamente ripetuta e invocata, è la prova di questa essenzialità: si deve produrre sempre di più, non importa che cosa e perché, purché si accumuli plusvalore. Non sta proprio in questo quell'incompatibilità con un pianeta di dimensioni ovviamente "finite", che tu hai denunciato, cosa che io ho molto apprezzato e applaudito?

M. Indubbiamente lo sviluppo costante di produzione di merci a mezzo merci, che consuma energia e materia, ha un limite naturale. Ma il limite non è soltanto della quantità "finita" di materia e energia, ma è dei processi entropici che si creano consumando materia e energia, per cui si rischia di cambiare la natura biochimica della biosfera prima di avere esaurito le risorse. E' il secondo principio della termodinamica. Quando l'economia sbatte la testa contro questo principio, se la rompe.

R. Insomma chi parla contro la crescita, ha le sue ragioni…

M. Figurati, io ho incominciato prestissimo a occuparmi di queste cose, addirittura nel '74 in una relazione a Frattocchie ho lanciato l'idea di decrescita… Ero un ragazzino, mi hanno guardato come un matto… Ma, attenzione. Non possiamo dimenticare che c'è chi di crescita non ne ha avuta per nulla, c'è una grossa parte del mondo che ha bisogno di sviluppo.

R. Certo. Ma siamo sicuri che questi popoli troverebbero il benessere percorrendo la nostra stessa strada, visto quello che sta succedendo? Tenendo conto poi del fatto che la crescita non ha affatto diminuito le disuguaglianze…

M. La soluzione esigerebbe una consapevolezza delle autorità politiche a livello istituzionale internazionale, e quindi una cooperazione mondiale… Ma ne siamo ancora molto distanti.

R. Ma, prima di questa concertazione, indubbiamente necessaria ma ancora di là da venire, tu ritieni utile programmare per i paesi poveri un futuro che riproduca la nostra realtà?

M. Questo no. Ma ne sono così lontani …

R. Non tutti però. In Cina, ad esempio, ci sono ancora milioni di poverissimi, ma ci sono anche molti ricchissimi, tra i più ricchi del mondo…

M. Vero. Ma a quei poverissimi, non solo cinesi, ma indiani, indonesiani, filippini, africani, ecc. ecc. a tutti questi dovrebbe essere fornito quanto è a disposizione dell'umanità in stock di informazione e tecnologie…

R. Perdonami, Fabio, qua io debbo rivolgerti una sentita obiezione. Premesso che ti apprezzo molto, innanzitutto perché sei l'unico politico ch'io conosca che è veramente informato su questa materia, che non è poco, poi perché riconosci che il capitalismo non è compatibile con l'equilibrio degli ecosistemi… Però mi pare che tu nutra un'eccessiva fiducia, come dire, nelle "magnifiche sorti e progressive"… Einstein - forse lo sai - diceva che i problemi non si risolvono con le idee di chi li ha creati. Ecco, data l'accelerazione e la vastità del guasto ambientale, data la magnitudine di un inquinamento multiforme, pervasivo, che non risparmia nulla, non so quanto le energie rinnovabili, e tutti i miracoli della tecnologia - cioè l'insistenza nella logica che ha creato il danno - rappresentino la soluzione.

M. La tecnologia da sola certo non risolve. Ma è sbagliato considerare nemica la tecnologia. La crescita di entropia oggi richiede un nuovo compromesso, su un terreno molto più complesso e avanzato di quello costituito dallo Stato sociale. Esso comporta infatti modelli sociali che puntino al risparmio energetico; da questi dipende un'idea diversa dell'economia e del mercato, e anche tecnologie più evolute coordinate a questa nuova idea. I problemi creati anche da un certo sviluppo tecnologico possono essere risolti con un salto: di modello sociale, economico, e di sistemi tecnologici.

R. Certo. Ma il guaio è che di salti non se ne vedono, e i programmi ambientali esistenti, pochi peraltro, puntano esclusivamente sulla tecnologia; e lo fanno al fine di sostenere crescita, Pil, quantità, cioè proprio ciò che Il pianeta non ce la fa a reggere. Mi è capitato sott'occhio un tuo articolo del 1988, nientemeno, pubblicato sull' Unità , in cui tu appunto parlavi di qualità. Non credi che, se vogliamo tentare di salvare il mondo, dobbiamo assumere proprio la qualità come categoria portante del nostro esistere?

M. Non c'è dubbio. Non solo io lo penso da tempo. Anche Berlinguer lo pensava, e lo disse con il suo famoso discorso sull'austerità, del '76, suscitando però reazioni duramente negative. In realtà era il primo ad aver capito che occorreva un nuovo equilibrio tra l'economico e il sociale.

R. Mi sto domandando come ciò che dici si possa tradurre in termini di governo. In che misura anche questo gruppo di sinistre che lavorano per unirsi, siano pronte a lavorare secondo questa logica. Ad esempio, commentando il "Documento di Orvieto" prodotto dall'Ars, tu hai scritto che il capitalismo è in crisi. Cosa che io sottoscrivo, e che d'altronde è convinzione di non pochi osservatori fortemente qualificati. Ma quanti la pensano così? Quanti sarebbero disposti a operare di conseguenza?

M. Quanti, non lo so. Ma anche a sinistra vedo molti ancora concentrati sui contenuti del vecchio compromesso socialdemocratico. Certo, ciò che s'è conquistato va difeso. Ma se non si produce il salto verso il nuovo compromesso, che parta dal problema dell'ambiente e ne consideri tutti gli aspetti, anche il vecchio non regge più.

R. Anche perché la separazione tra economia e società appare sempre più evidente. Il tempo in cui l'espansionismo capitalistico in qualche misura serviva anche gli interessi del lavoro sembra irrimediabilmente chiuso.

M. Non occorre essere marxisti per vedere il divario crescente tra Pil e indicatori dello sviluppo umano. C'è una crescita che provoca una riduzione anziché un rialzo di questi indicatori. Questo è il nodo della questione: tra la difesa del primo compromesso socialdemocratico, il welfare cioè, e la necessità di un secondo compromesso che integri la questione sociale con la questione dei limiti dello sviluppo. Questa è la vera impresa politica che ci aspetta: mettere insieme, integrare, due questioni che ancora pensiamo separatamente. Nei convegni della domenica l'ambiente in qualche modo è presente. Ma tutti gli altri giorni … Però va detto che qualcosa di positivo sta succedendo. Ad esempio in questo "Patto per il clima" di recente proposto dai Verdi, per la prima volta si mette in rapporto svalorizzazione dell'ambiente e svalorizzazione del lavoro. Perché, in quest'ultimo quarto di secolo s'è avuto un enorme aumento del lavoro dipendente salariato, contrariamente a quanto si è detto. La globalizzazione è una tendenza a comprare lavoro a prezzi orientali e vendere merci a prezzi occidentali. Sfruttamento del lavoro che è parallelo al crescente prelievo dalla natura. Oggi la questione lavoro e la questione ambiente possono essere messe in una nuova relazione.

R. Perfetto. Ma su quale base? Perché - permettimi - oggi molti sono impegnati alla ricerca di tecnologie che consentano di risparmiare energia e materie prime. E questo andrebbe benissimo. Solo che tutto ciò, per tutti, è visto come il mezzo per continuare a crescere. Se questo è il progetto politico, il mondo non può che andare a catafascio.

M. E' evidente che i paesi che sono cresciuti di più non possono che muoversi verso quelle che Prigogine chiama "strutture stazionarie" .

R. Dovrebbero. Ma io al momento non ne vedo traccia. Oggi secondo me c'è troppo di tutto, anche di cose buone, libri, musica, spettacoli, eventi, convegni, dibattiti, turismo…Tutte cose che anche loro consumano e inquinano, se non altro con i trasporti dei partecipanti… La maggior parte di quel che si produce è poi destinato a finire in discarica in brevissimo tempo, è programmato per durare sempre meno…

M. Stiamo cominciando a maneggiare la più grande sfida che l'umanità ha mai affrontato. E' una questione nuova, che richiede un enorme aumento di conoscenza e insieme di azione. Perché il problema dovrà risolversi con macroazioni di sistema e insieme con microazioni di miliardi di persone, che via via acquisiscano conoscenza del rischio e dei comportamenti necessari per affrontarlo.

R. Stiamo incominciando nel modo giusto? Io ho l'impressione che si tenda - quando lo si fa - a intervenire sull'esistente. Mentre credo sarebbe necessaria una vera grande rivoluzione. Di tutt'altro tipo ovviamente dalle rivoluzioni che conosciamo, violente traumatiche cruente…

M. Si tratta di trovare nuovi modelli mentali. Di cambiare le coscienze. Ma anche di uso delle tecnologie.

R. Molto bene. E forse una seria politica ambientale incomincerebbe a trovare un qualche consenso tra la gente. Tu che ne pensi?

M. La cosa non è ancora così sicura. Può valere per quanti hanno percepito che sta succedendo qualcosa di enorme, ma fino a un dato punto…Quando s'incomincia a mettere in discussione il loro proprio modo di vita, temo che l'atteggiamento cambi.

R. Forse hai ragione. Ma io credo che ciò si debba anche al fatto che le sinistre hanno colpevolmente trascurato i condizionamenti esercitati, in pratica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dalla comunicazione di massa e in particolare dalla pubblicità. La pubblicità ha una parte importantissima nella fabbrica non solo del senso comune, ma dell'identità delle persone, in pratica riducendola al consumo.

M. La pubblicità è costruzione di senso comune, sì. E' la più potente agenzia culturale. Noi dovremmo riprendere una critica di questo linguaggio. Magari ricordando quanto diceva Adorno, che è stato mio maestro, che notava come in tedesco la parola avesse un doppio significato, di pubblicità come promozione commerciale ma anche come fatto pubblico, spirito pubblico. In tedesco le due cose coincidono, e lui diceva che in questa doppia valenza della parola c'è lo spirito del tempo: la promozione di merce diventa lo spirito pubblico. E noi abbiamo abbandonato le forme critiche mirate a una comunicazione sociale vera. Ci siamo dimenticati che la pubblicità non insegna solo a comperare cose, ma è soprattutto un formidabile sistema di induzione di valori.

R. Tu, capo di un governo di sinistra, che cosa faresti?

M.Il problema è che non c'è una sola cosa da fare. Ce ne sono montagne. Governare vuol dire innanzitutto trasmettere idee, valori, percezioni: che si può fare ad esempio con un provvedimento che ho proposto insieme a Calzolaio per una modifica del calcolo del Pil, che incorpori i costi ambientali nella valutazione economica; e anche fissando indicatori qualitativi (cosa che già l'Onu ha fatto); insomma cambiando i parametri della valutazione economica. E questa è la prima forma di critica al prevalere della dimensione quantitativa. Dopo di che occorre promuovere politiche di risparmio energetico, in cui poi rientra anche la minore produzione di rifiuti; perché energia e materia sono alla fine la stessa cosa…

R. Pensi che questi pezzi di sinistra che dovrebbero assemblarsi siano disponibili a un discorso di questo tipo? Tutti?

M.Be', se non c'è questo, non so di che parliamo.

R. Ma buona parte delle sinistre sono ancora fedeli allo sviluppismo…

M.Eh sì…Ma insomma, il mondo è ciò che accade. Io sono stato responsabile ambiente del Pci. E feci cose di qualche significato: come far votare contro il nucleare, prima di Chernobyl, far chiudere l'Acna di Cengio. ..E sempre tra furibonde opposizioni.

R. Io credo anche che bisognerebbe aprire al più presto un discorso mondiale su questo tema.

M. Indubbiamente. Perché mentre il capitalismo nazionale è cresciuto insieme alle istituzioni politiche nazionali, nulla del genere è accaduto con il capitalismo globale, che anzi è cresciuto mentre le istituzioni nazionali si indebolivano. Forse bisognerebbe fare qualcosa di simile al "Progetto Manhattan", quando si misero insieme tutti i migliori cervelli, tutti i fondi disponibili, per fare la bomba e chiudere la guerra. Oggi bisognerebbe fare la stessa cosa, questa volta per disinnescare la bomba ecologica.

Aldo Tortorella

La difesa dell'ambiente deve entrare nella cultura di sinistra»

11 settembre 2007

Ravaioli. Domando a te, comunista storico: perché storicamente l’attenzione dei comunisti per l’ambiente è stata così povera, anzi inesistente?

Tortorella. Lo è stata fino a Berlinguer…

R. Be’, anche dopo non mi pare le cose siano gran che cambiate…

T. Ma dopo Berlinguer i comunisti storici sono finiti….Per quanto riguarda il vecchio partito comunista il perché è chiaro. Il vecchio Pci era figlio dell’idea sviluppista, dell’idea industrialista, del fordismo… l’obiettivo era orientare il processo di accumulazione in modo da distribuire più equamente la ricchezza, ma senza un sostanziale cambiamento del modello. Il grande programma di Togliatti del ’56 era contro l’arretratezza dell’Italia, per lo sviluppo… Nel ‘66, all’XI congresso del Pci, per la prima volta viene avanzata l’idea che è il modello di sviluppo che non funziona. Ad avanzarla fu Ingrao che venne messo in minoranza… Fu poi Berlinguer a riprendere l’idea, nel ’77, con la filosofia dell’austerità, che era critica del consumismo e proposta di uno sviluppo della qualità non della quantità. Ma fu oggetto di attacchi furibondi… Gli stessi dirigenti intermedi puntavano all’immediato miglioramento di condizione delle masse, confrontandosi con il senso comune, che è fatto anche di arretratezze.

R. Eppure si avvertiva già il condizionamento legato alla cultura del consumismo, a quella “colonizzazione dei cervelli” che è il grande motore del mercato….

T. Certo, certo. Ma era una cultura introiettata da buona parte degli stessi dirigenti. La gente voleva la macchina, la casa, le vacanze…Allora ci si stava preparando a quello che fu poi definito “governo delle astensioni”, e parlare di austerità non sembrava la cosa più opportuna.

R. Eppure erano gli anni in cui l’ambientalismo andava mettendo radici, anche in Italia, con Peccei, il Club di Roma, con idee che somigliavano molto a quelle di Berlinguer…

T. Certo. Berlinguer diceva: il Club di Roma ha ragione. E c’era un certo numero di noi che condivideva queste posizioni, io ne ero parte… Ma c’erano anche influenti membri del partito che erano invece ostili, erano favorevoli al nucleare, e in genere allo sviluppo… Berlinguer si reggeva sul suo prestigio personale, ma nella concretezza della direzione del partito era in netta minoranza. Essere in qualche modo al governo significava investirsi di una saggia amministrazione delle cose.

R. All’interno del sistema dato…

T. Eh sì. Eppoi, problemi come l’ambiente erano fuori dalla nostra portata. Un paese da solo - si diceva - non può far niente.

R. Che è anche vero. Però, se il Pci avesse riflettuto che chi pagava di più le conseguenze del guasto ambientale erano i poveri, i contadini che trattavano pesticidi, gli operai che lavoravano su processi tossici, gli alluvionati dal Sud del mondo…

T. Sì, ma dire queste cose comportava una rivoluzione culturale. E questo avrebbe comportato anche un mutamento degli assetti interni al partito. Eppoi c’erano altre cose a cui pensare, lavoro, pensioni… Le stesse posizioni del Club di Roma parevano astratte, da intellettuali. E non solo nel Pci. Per molte persone di tutto rispetto erano farfalle sotto l’arco di Tito. Si son dovuti sciogliere i poli perché si capisse qualcosa. ..E ancora oggi conta solo la miglior gestione dell’esistente. Insomma, io ho concepito l’idea di fondare l’Ars, un’associazione politico-culturale, nel tentativo di ridiscutere i principi fondamentali.

Per esempio con il Documento di Orvieto si cerca di cambiare i fondamenti culturali, di capire quale dovrebbe essere la nostra cultura. Secondo me anche l’idea di aderire ai movimenti è solo in parte giusta, perché colgono solo frammenti di realtà. Si dice no alla Tav, ma che passi pure in Svizzera. L’inceneritore, si metta da un’altra parte. Così la spazzatura.

R. Un momento. I movimenti non sono solo questo. Il problema locale spesso induce una consapevolezza più ampia. Eppoi bisogna distinguere, ci sono movimenti che sanno di cosa parlano quando dicono “ambiente”. Prendi “La Decrescita”: va al cuore del problema, I’impossibilità di una crescita illimitata in un pianeta limitato.

T. Per questo basta il buon senso. Una crescita infinita non è possibile in un mondo finito…

R. Eh no... Non pare proprio così ovvio, se tutti i governanti del mondo non fanno che invocare crescita. E anche nell’Ars, a lungo sono stata sola a parlare di questa clamorosa contraddizione, nel silenzio generale, o addirittura tra sorrisi di compatimento…

T. Noi dell’Ars fin dall’inizio abbiamo tentato di parlare di nuova soggettività della sinistra: proprio perché la sinistra oggi non ha un progetto culturale, non sa che mondo vuole. L’idea di ripensare la cultura della sinistra, considerando problema centrale il rapporto tra quantità e qualità, è ancora adesso qualcosa di molto difficile.

R. Su questo anche nell’Ars c’è stata un’evoluzione positiva. Ma la vera svolta a mio parere è stato il Documento di Orvieto, quello poi fatto proprio anche dalle associazioni “Uniti a sinistra” e “Rossoverde”. Lì vien fuori chiaramente la critica della quantità come elemento di definizione del capitalismo. E però non mi pare che questa consapevolezza venga assunta in tutta la sua portata. La tua stessa relazione, pregevolissima per tanti versi, indicava come temi centrali: pace, lavoro, libertà. Cose sacrosante, per carità. Ma il fatto è che una corretta valutazione del problema ambiente rimette in discussione tutto. Il lavoro, ad esempio, in chiave ecologica andrebbe ripensato radicalmente, e fortemente ridotto. Oggi un’enorme quantità di lavoro serve a produrre cose destinate a finire in discarica in poche settimane, che inquinano soltanto, oltre ad alzare il Pil naturalmente. Ma nessuno pare se ne preoccupi. Come nessuno sembra considerare che il mercato del lavoro è globale, che quel che succede a Napoli può essere determinato da quel che succede a Hong Kong. Le sinistre considerano queste cose?

T. No, per grandissima parte no. Devono rincorrere il consenso, e l’idea di ridurre i tempi di lavoro oggi è dimenticata, le 35 ore sono finite, in Francia si vogliono detassare gli straordinari… La tesi è: chi più lavora più guadagna. Le sinistre, quelle che stanno nelle istituzioni, si adeguano. Poi capiterà che sbatteranno la testa. Ma per ora la corsa al reddito, al consumo, alle vacanze, e quant’altro, nessuno la contrasta. Il mondo sta correndo verso la rovina, con grande diletto, parrebbe. Ora qualche sensibilità si sta destando, per via dei fenomeni sempre più drammatici che si verificano ogni giorno…

R. Ecco, parliamo di oggi. Oggi nessuno più sfotte quando si parla di crisi ecologica. Tutti sanno che esiste. Ma nessuno, al mondo, fa una politica ambientalista seria. Le energie rinnovabili sono l’unico impegno, da parte di tutti. Per poter continuare a produrre, e a crescere naturalmente… E scassare definitivamente il mondo…

T. Tutti la pensano così. Anche i Verdi. In un recente dibattito ho sentito il rappresentante dei Verdi dire: “Noi siamo per un altro modello energetico”. Tutto qui.

R. Ma il fatto che dovunque le distanze tra ricchi e poveri aumentino, nonostante la crescita, possibile che non dica niente alle sinistre? Che non capiscano che la crescita distrugge l’ambiente e socialmente non risolve? Che crisi ecologica e crisi sociale vanno di pari passo?

T. In Europa le sinistre continuano ad essere sviluppiste…Altrove non esistono nemmeno.. E’ un dato di realtà.

R. E questa realtà non si può cambiare?

T. Certo che si può… Ma per ora le sinistre che hanno vinto, contro di me e contro di te, se gli dici che bisogna cambiare la qualità del modello, al massimo ti rispondono: ma sì, parlatene pure… E’ tutto.

R. In questa situazione il tentativo in corso, di aggregazione tra le sinistre italiane, le uniche che ancora si definiscono così, come lo vedi?

T. Non c’è una cultura comune, questo è il punto. Una cosa innanzitutto dobbiamo sapere: noi che vogliamo una nuova cultura, siamo una minoranza, via via più consistente ma assoluta. Gli altri sono preoccupati solo di avere più voti, e inseguono le destre, ammirano Sarkosy che ha vinto perché è più sviluppista di noi.

R. Ma possibile che le sinistre non si rendano conto della gravità del dissesto ecologico, non capiscano che così è impossibile continuare… Oggi la situazione anche a livello di opinione diffusa va cambiando, la minaccia della catastrofe è presente… Non pensi che sarebbe compito delle sinistre assumere il rischio ambiente nella sua reale portata, farne l’asse portante della loro politica? Ma tu non vedi soluzione, mi pare.

T. Io vedo una sola soluzione: insistere sulla battaglia culturale che stiamo conducendo, sapendo che a pensarla così oggi sono molti più di ieri. La sinistra va conquistata, e per farlo non bisogna preoccuparsi troppo dei voti.

R. Daltronde io credo che una politica ambientalista seria, corretta, avrebbe una ricaduta positiva anche sul piano dei suffragi. La gente ormai si sente insicura…

T. Sì, bisogna costruire una opinione almeno europea. Non si può saltare la costruzione delle menti. Mancano i fondamenti, su questi bisogna lavorare. Pensare il mondo in un altro modo.

R. Manca cioè una vera politica. Eppure credo che ci sarebbero i presupposti per una grande vera politica. A partire dalla crisi del capitale. Non so come la pensi tu, ma sono in molti a credere che il capitalismo sia in grave crisi…

T. Non c’è dubbio. Il capitalismo è in crisi. Si salva solo con la guerra…

R. Allora. Le sinistre, quelle poche che restano, non potrebbero cavalcare proprio la crisi economica insieme a quella sociale e a quella ecologica? Perché fino a certo punto l’accumulazione capitalistica, sia pure a costi tremendi, aveva migliorato le condizioni dei lavoratori nei paesi industrializzati: oggi questo processo si è rovesciato, le distanze tra ricchi e poveri aumentano, e la crescita produttiva sta devastando il mondo…

T. Sono pienamente d’accordo. Solo che per far questo occorre che le sinistre escano da se stesse e diventino altre da sé. Perché anche le sinistre che si dicono alternative (e non penso a quelle inserite nel sistema dato, i Democratici, gli Schroeder, i Blair, ecc.) continuano ad essere immerse in quella cultura. Se continuano a porre la questione della eguaglianza come fondamentale senza partire dalla libertà, non capiranno mai la questione dell’ambiente: perché finché vorranno la parità delle condizioni di partenza ciò significherà riprodurre il sistema com’è. Occorre la libertà di ripensare interamente l’impianto del mondo, dei rapporti sociali, dei rapporti col prossimo, non come libertà di competere e vincere sui mercati.

R. Non secondo le regole del liberismo, cioè.

T. Che sono infatti libertà di sopraffare il prossimo, l’animale, la natura, di dominare il mondo… magari richiamandosi alla Bibbia, vai e prenditi la Terra… E’ questo tipo di politica che non mi attira, che non mi consente di stare in Parlamento a occuparmi, che so, dell’età pensionabile; che è importante, certo, ma dovrebbe essere collocata entro un orizzonte politico più ampio…Ad esempio, a me sta benissimo che uno come Al Gore, che ha corso per la Casa Bianca, ora stia combattendo per l’ambiente: ma nel far questo si dimentica di dire che è la stessa idea americana di libertà che non funziona.

R. Infatti dice che l’ambiente non è né di destra né di sinistra. Ora, se c’è una cosa di sinistra, quella è proprio la difesa dell’ambiente…

T. Certo. Sono le categorie mentali che la sinistra – anche quella antagonista, alternativa, ecc. – ha nella sua stessa costituzione. Che in qualche modo è un impoverimento dell’idea originaria, via via rimpicciolita e stravolta nella gestione della realtà. Perché il Manifesto dei Comunisti non finisce con l’eguaglianza, punta alla società dei liberi, e quindi degli uguali: la libertà di tutti come fondamento della libertà di ciascuno.

R. Tu pensi che in questa situazione la sinistra riuscirà trovare l’unità? Parentesi: io la chiamo “sinistra”, e basta.

T. Certo, è l’unica sinistra che c’è in Italia.

R. E, per favore, lasciamo perdere scempiaggini tipo “la cosa Rossa”…

T. D’accordissimo. Dunque, riuscirà a trovare l’unità? Dovrebbe. Almeno d’azione, e almeno su certe questioni centrali. Ma contemporaneamente deve continuare lo sforzo per cambiare quello che hanno dentro i cervelli.

R. Cioè, ribadiamo, occorre cambiare l’intero impianto della politica; che dunque contenga anche un governo dell’ ambiente fondato sulla rimessa in causa del sistema attuale. Su questa base, cioè assumendo l’anticapitalismo come idea centrale, la rivoluzione nel senso che dici tu - che non significa presa della Bastiglia o assalto al Palazzo d’Inverno -non credi che una buona fetta del “popolo di sinistra” potrebbe rispondere positivamente?

T. E’ possibile, sì. Ci sono dei punti che incominciano ad essere comuni, e su cui si può continuare a lavorare.

R. Rifondazione in questo senso ha fatto un buon lavoro. Certo, non sono pochi gli iscritti ancora molto legati ai temi tradizionali, crescita, sviluppo, consumi, ecc., ma sono molti, specie tra i giovani, che hanno capito bene che cosa sta alterando così pericolosamente gli equilibri ecologici e che cosa occorrerebbe fare. Lo stesso Giordano più volte ha parlato pubblicamente della crisi ecologica come prova della necessità di cambiare l’intero sistema economico. Cioè quello che tutti ancora chiamano “modello di sviluppo”, e che a mio parere bisognerebbe lasciar perdere. Perché oggi sviluppo significa crescita. Non sei d’accordo?

T. Certo. Si dovrebbe dire piuttosto “modello culturale”. Perché, insisto, si tratta soprattutto una grossa battaglia culturale.

R. Avremo tempo abbastanza ?

T. Non è facile rispondere, se si considera l’accelerazione dello squilibrio planetario a cui assistiamo… Per questo bisogna darsi da fare.

Pecoraro – Scanio

«Riconvertire economia e stili di vita»

12 settembre 2007

Ravaioli. All’inizio dell’estate avete lanciato un appello intitolato “Un patto per clima”. Sottotitolo: “Per la riconversione ecologia dell’economia e della società”. In qualche modo il mutamento climatico parrebbe indicato non come il fenomeno più vistoso, e anche il più pericoloso, della crisi ecologica planetaria, come in effetti è, ma come la crisi ecologica tout court…

Pecoraro Scanio. Il cambiamento climatico è il paradigma dell’emergenza ambientale, strettamente collegata alla cosiddetta terza rivoluzione dell’economia mondiale. Oggi è necessaria una riconversione dell’economia e degli stili di vita in funzione di una società che non abbia più il culto del consumismo selvaggio, ma quello del benessere e dell’equilibrio nella gestione delle risorse, con un basso contenuto di Co2. Se diamo per giusta l’opinione della comunità scientifica mondiale validata dall’Onu, secondo cui noi entro il 2050 dobbiamo stabilizzare l’emissione di Co2 a 11-12 miliardi di tonnellate, cioè il quantitativo che mondo vegetale e oceani riescono ad assorbire, questo dobbiamo proporci. Non che a questo modo si riuscirà a cancellare il guasto già prodotto, ma si potrà stabilizzare la situazione, e insomma evitare un cambiamento catastrofico del clima. Altrimenti avremo un tracollo del 20% del Pil mondiale, come previsto dal rapporto Stern, con un peggioramento delle economie più deboli e delle condizioni dei popoli già oggi più poveri. In ciò va letto anche un monito contro la globalizzazione iperliberista che conosciamo, per uno sviluppo armonico del pianeta.

R. Come dicevo, il cambiamento climatico è il sintomo più drammatico, ma lo squilibrio ecologico – lo sai bene – è fatto di tante altre manifestazioni, che hanno cause diverse. Pensiamo ai processi tossici usati nelle fabbriche che fanno ammalare chi ci lavora e chi ci abita vicino, e mediante le acque reflue inquinano aria terra acque circostanti; ai pesticidi che si ritrovano nei cibi di ogni tipo e perfino nel latte materno; a tutti i prodotti di sintesi, la plastica in primis che sta ormai soffocando il mondo; pensiamo a tutti i casi di fuoruscita di materiali tossici - fosforo, amianto, rifiuti radioattivi, ecc - durante il trasporto … L’elenco sarebbe infinito. Basterebbe riflettere su ciò che dice John McNeil: che un’automobile nell’essere fabbricata inquina più di quanto inquinerà in dieci anni di circolazione… A me pare che puntare solo sul clima, significhi non affrontare nella sua interezza la questione ambientale.

P. Ma il Patto per il clima è la cornice di una serie di azioni che ci proponiamo: per una cooperazione internazionale, contro il carbone, il nucleare, le nanopolveri, i pesticidi, ma a favore del biologico, dell’eolico, del solare…

R. Appunto, tutti puntate sulle rinnovabili come sul toccasana assoluto. Ammesso che si riesca a perfezionarne il funzionamento in modo da sostituire i fossili in quantità sufficiente (ciò che per ora non è) credi che basterà a coprire la maggiore richiesta di energia necessaria alla continua crescita del prodotto da tutti auspicata? Per fare un esempio, pensiamo al turismo: già oggi ogni giorno volano sul mondo 65mila aerei internazionali. E tutti propongono di raddoppiarlo. Ma lo stesso vale per qualsiasi altra attività: tutto deve crescere. In questa gara tra le rinnovabili e la crescita, chi vincerà? A proposito, come ti poni tu nei confronti della crescita?

P. Io personalmente sarei per una decrescita quantitativa, che significa poi più benessere. In Italia non servono più auto: con meno auto si camminerebbe meglio. Il meno ma meglio funzionerebbe in molti settori. Ma occorre anche cambiare il calcolo del Pil: oggi perfino i terremoti lo fanno crescere… Noi abbiamo proposto una legge in proposito.

R. Anche Fabio Mussi e Valerio Calzolaio hanno fatto una proposta analoga. Questo è molto importante. La gente deve sapere di che cosa è fatta la crescita, il famoso Pil.

P. Noi quando diciamo che la prima fonte di energia rinnovabile è l’efficienza energetica, intendiamo che bisogna puntare prima sul blocco della crescita poi sulla progressiva riduzione dei consumi energetici a parità di benessere.

R. Solo energetici?

P. E’ il primo settore di cui è stato possibile ottenere un riconoscimento nel Dpf. Sai, è difficile far diventare scelte politiche le cose che si dicono nei convegni…

R. Tu dici che è necessario cambiare il modello socioeconomico, come da gran tempo dicono i maestri dell’ambientalismo. Attualmente il nostro sistema economico si regge sulla crescita illimitata.

P. E questo determina quello sviluppiamo industrialista, con cui ci troviamo a fare i conti, anche con i nostri migliori alleati. La cultura di sinistra è industrialista. Certi concetti, come limitare lo sfruttamento della natura, o migliorare l’allevamento degli animali, non passano. Forse si riesce a introdurre la “filiera corta” in agricoltura, cioè il consumo di beni prodotti in loco, mangiare la nostra uva invece che quella importata dall’Argentina.

R. Temo non sia facile finché la crescita è l’obiettivo di tutti: e imballaggi, trasporto, conservazione… è tanto buon Pil…

P. Già, finché usiamo questo metodo arcaico di calcolarlo…Ne ho discusso con Prodi, Bersani, ma vincere la logica sviluppista è difficile.

R. A proposito, il nostro governo ha in programma investimenti infrastrutturali per 120 miliardi. Sono opere a fortissimo impatto ambientale.

P. E per la maggioranza inutili: pura crescita senza strategia. Io non ho votato il provvedimento. E per fortuna non ci sono neanche i soldi. Ma i politici quasi tutti sono per le grandi opere.

R. E però anche tu vanti il fatto che l’industria ambientalista abbia raggiunto il quarto posto nel mondo, con un fatturato di mille miliardi… Non è contraddittorio? Ragioniamo secondo la logica dominante, facendo delle cose che vorrebbero contraddirla.

P. Senti, noi viviamo su questo pianeta, all’interno di un dato sistema economico. Se riusciamo a spostare dei soldi dall’industria petrolifera al solare, per noi è un fatto positivo. Il tanto peggio tanto meglio non ha senso. Cerchiamo piuttosto di introdurre parametri di calcolo diversi.

R. Tutto questo a me parrebbe utile all’interno di una strategia complessiva che puntasse al contenimento della crescita, e possibilmente alla decrescita…

P. Grazie a noi Verdi il governo italiano per la prima volta nel Dpef dice che non si debbono far crescere i consumi energetici.

R. Solo energetici? E’ qui che trovo un punto di debolezza.

P. Ma altri non passano. Non abbiamo aiuti nemmeno dalla sinistra alternativa, incapace di accettare ad esempio l’idea di ridurre le auto circolanti. Oggi l’energia è il centro del problema. Se si risolvesse io mi accontenterei.

R. Ma non significherebbe cambiare il modello, come dite di proporvi…

P. Senti, io faccio il politico. Se no, andrei in montagna, a mettere in piedi una comunità di mille persone che vivano in modo perfettamente ecologico.

R. Non è questo che vorrei proporre.

P. Lo immagino. Ma a me interessa incidere anche solo per un 10-20 per cento sui comportamenti di miliardi di persone: è questo che può avere una ricaduta positiva sulle condizioni del pianeta.

R. Capisco. Ma nel fare questo, non sarebbe possibile dire, gridare, che corriamo verso la catastrofe se non riduciamo i consumi, tutti i consumi, non solo quelli energetici? A me questo parrebbe un dovere dei Verdi.

P. Ma noi abbiamo una quantità di avversari, e non possiamo non tenerne conto. E non abbiamo alcun controllo sui sistemi di comunicazione. Dobbiamo evitare di essere troppo catastrofisti, dobbiamo anche ricordare sempre che c’è un Sud del mondo che ha diritto al benessere, ma non può riprodurre il nostro modello, perché occorrerebbero tre pianeti. Dobbiamo saper offrire alternative, proporre il consumo critico, la cultura del riuso e del riciclo, e soprattutto far scendere la produzione di rifiuti almeno del 50%. Zero rifiuti, dovrebbe essere l’obiettivo.

R. Ecco, i rifiuti, un problema sempre meno gestibile. Riciclo, riuso, sono cose forse praticabili. Ma il taglio di tutto ciò che costituisce la gran parte dei rifiuti - contenitori, imballaggi, involucri, sacchetti, scatolette, vassoietti, ecc.ecc. - rappresenta tanta produzione, tanto Pil che consola economisti e governanti, e anche tanto lavoro. Come fare, se non si cambia radicalmente l’impianto socioeconomico del mondo? E se non si cambia la cultura della quantità, del consumo, del possesso, dell’avere? Questo a mio parere i Verdi dovrebbero gridarlo, farlo capire a tutti, a cominciare dai politici…

P. Lo gridiamo, ma la gente guarda la Tv, e in tv preferiscono parlare di vallettopoli. Eppoi io credo più utile intervenire su singoli temi. Ad esempio: ricordiamo che un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all’elettricità. Col fotovoltaico posso dargliela, e questo probabilmente limiterebbe l’emigrazione: fornire gli strumenti necessari costerebbe meno che rimpatriare gli immigrati clandestini. E posso aiutare questi popoli sostenendo il commercio equo e solidale: una rete povera, debole, ma utile, che dimostra l’esistenza di un altro modo di produrre e di scambiare. Per me il mondo si cambia moltiplicando i cambiamenti specifici.

R. Tutte cose utili, sì. Ma non credi che acquisterebbero un'altra forza, una capacità di vero mutamento, all’interno di una strategia mondiale che rimettesse davvero in causa produttivismo e consumismo?

P. Ma non c’è questa strategia a livello mondiale. Solo i Verdi hanno questa strategia.

R. Appunto, tocca a voi…

P. In democrazia occorre il consenso. E trovare consenso su queste cose è difficilissimo. Anche con le sinistre, con i sindacati. Bisogna mediare, almeno trovare un diverso modo di consumo.

R. Un’altra cosa. Tutti quanti si occupano della crisi ecologica puntano soprattutto su innovazione tecnologica, ricerca scientifica. Anche tu. Ora la tecnologia è proprio quella che ha squilibrato l’ecosfera, che sta artificializzando il mondo: ricordi Barry Commoner, “Il cerchio da chiudere”? Non ti pare rischioso puntare troppo sulla tecnica?

P. Io diffido dall’ideologia. Sono contrario a un pensiero unico, anche ecologico.

R: Questa non è ideologia né pensiero unico. Solo mi pare che si punti troppo sulla tecnica per salvare un mondo messo a rischio proprio da un’ipertecnicizzazione.

P. Ma questo è il pensiero industrialista.

R. E “green business”?

P. Be’, se uno fabbrica centrali solari invece che bombe atomiche, a me va bene…

R. E se ad ogni tanto non costruisse niente?

P. Andrebbe bene, ma io non sono in grado di ottenerlo. Io debbo puntare sulle cose che si possono fare. E in questo la tecnologia non risolve tutto, come alcuni credono, ma può aiutare. In genere i Verdi sono radicali nei contenuti, molto fermi nel definire gli obiettivi, ma pragmatici nella tempistica per raggiungerli. Piuttosto che predicare la società perfetta e nel frattempo vivere sempre peggio, cerchiamo di sostenere alcune riforme, di fare il possibile.

R. Abbiamo tempo?

P. Io credo che abbiamo poco tempo, ma che non abbiamo alternative. Sono vent’anni che noi parliamo di effetto serra. Ma né a destra né a sinistra abbiamo trovato ascolto. Né l’una né l’altro metteva in discussione produzione e crescita, anche se certo avevano idee diverse su come distribuirla. Oggi una parte della sinistra si sta convincendo, quanto meno mette in discussione il mito della crescita, pensa alla necessità di un diverso modello economico. Ma solo una parte …

R. Che cosa pensi della politica ambientale dellUnione Europea?

P. Si muove a fasi alterne, secondo me. Prima abbiamo avuto una fase molto buona, con la definizione di una serie di utili normative contro l’inquinamento. Oggi c’è un forte condizionamento da parte delle lobbies: vedi cosa accade con gli Ogm; e come la felice proposta di tagliare del 30% le emissioni di Co2 è stata prontamente abbassata al 20 su richiesta degli industriali. E tuttavia è la sola grande potenza che si mostra seriamente impegnata nella materia a livello internazionale. Usa, Cina, India, Brasile, sono tutti molto meno disponibili a prendere provvedimenti seri. Va detto però che in America c’è una sorta di rivolta in atto. Gli stessi governatori di una ventina di stati stanno facendo proprie le normative europee.

R. L’ambiente è un problema mondiale, che solo a livello sovranazionale può trovare soluzione. Tu pensi che l’Europa potrebbe farsi portatrice della questione, e imporre a tutti l’attenzione necessaria ?

P. Per me è l’unico soggetto politico che possa farlo.

R. Tu di recente hai dichiarato che con la “cosa rossa” non vuoi aver nulla a che fare. Perché non ritieni possibile un patto di azione comune con la sinistra?

P. Azione comune sì, è necessario. Ma ricorda che noi siamo nati proprio perché la sinistra era troppo industrialista. Non ci interessa fare i comunisti oggi. Ci interessa che i comunisti e tutte le sinistre capiscano che la vera sfida oggi è creare una grande alleanza, una vasta area arcobaleno, impegnata a salvare il pianeta.

R. Al Gore ha dichiarato che l’ambientalismo non è né di destra né di sinistra. La pensi così anche tu?

P. Secondo noi esistono tre sinistre: comunista, socialdemocratica, verde.

R. Dopotutto, poiché ciò che squilibra il mondo è la crescita illimitata, e poiché proprio su questo, cioè sull’accumulazione, si regge il capitalismo, se tu per salvare la Terra ritieni xhe sarebbe necessaria una politica contro la crescita, su questa base dovresti concludere che l’ambientalismo vero è di sinistra.

P. Se la sinistra capisce che il senso del limite vale per tutti, che distruggere l’ambiente sia pure per dar lavoro è catastrofico per l’intera umanità, è naturale che l’ambientalismo si allei con la sinistra.

R. E potreste incontrarvi anche sul terreno del pacifismo. A proposito, quando si indica la necessità di produrre meno, ci si sente domandare: da dove si incomincia? Ecco: se si incominciasse dalla produzione di armi… Che non soltanto ammazzano e distruggono, ma inquinano anche, orribilmente: nell’essere fabbricate, trasportate, “consumate”, per così dire… Non sarebbe un a bella idea?

P. Noi abbiamo chiesto una drastica riconversione dell’industria bellica. Dimezzarne la produzione entro due anni, sarebbe già molto per la difesa dell’ambiente.

Franco Giordano

«Il Mediterraneo può essere il terreno di nascita della cooperazione»

16 settembre 2007

Ravaioli. La crisi ecologica planetaria è un fenomeno di cui nessuno più ormai nega la gravità. Come valuti i comportamenti della politica mondiale al riguardo?

Giordano. La verità è che non esiste l’acquisizione della reale drammaticità della situazione, e di conseguenza non esiste una politica capace di intervenire in modo adeguato. Periodicamente scoppiano allarmi che occupano le prime pagine di tutti i giornali del mondo, e non pochi politici sembrano preoccuparsene seriamente, poi tutto finisce, e comunque il dibattito rimane lontano dal terreno della politica economica. Mi impressionano certi grandi quotidiani che in prima pagina danno massima evidenza alle previsioni più terrificanti del mutamento climatico e alle misure in controtendenza che sarebbero necessarie, poi nelle pagine economiche si attengono fedelmente al solito modello di sviluppo. Nessuno sembra avvedersi che i mutamenti climatici una volta erano iscritti in tempi lunghi, che i passaggi di stagione si manifestavano a ritmi regolari, in processi anche personalmente percepibili nei colori, negli odori, nella luce; che nessuna generazione è mai accaduto nell’arco della propria esistenza di vivere o assistere a mutamenti radicali e irreversibili nel nostro rapporto con la natura. Miliardi di persone che non hanno accesso all’acqua, o che fuggono da eventi meteorologici estremi, perdendo tutto… E’ l’aggressione capitalistica all’ambiente, che occorre arrestare. Non farlo sarebbe come accettare che la politica non si occupi della vita, della sua fisicità, della riproduzione della specie... Vien fatto di gridare ancora: “Socialismo o barbarie”.

R. Nessuno sembra avvedersene, dici. Proprio così parrebbe. Ma di che si tratta, secondo te: sottovalutazione, o una sorta di rimozione di fronte a un problema che atterrisce?

G. Sicuramente c’è sottovalutazione. La classe politica non sembra cogliere l’aspetto autodistruttivo di questo modello economico. Ma soprattutto agiscono interessi e profitti da salvaguardare. E se rimozione c’è, è certo funzionale alla loro difesa. Piuttosto che ripensare l’economia globale in termini socialmente e ecologicamente più accettabili, si preferisce armarsi per accaparrarsi acqua o altre risorse in via di esaurimento, per arginare l’emigrazione, per difendere l’opulenza di pochi privilegiati contro le masse degli ultimi. La logica prevalente - e qui penso anche a casa nostra - è tutta interna alle dinamiche di competitività di prezzo, e quindi all’abbassamento della tutela del lavoro e dei livelli formativi; è cioè quella di sempre, tesa ad aumentare i consumi, ad allargare i mercati, invece di pensare a investimenti seri per una produzione meno energivora… Non c’è traccia di ricerca per un nuovo modello che punti sulla qualità, e per una modifica dei consumi e quindi degli stili di vita…

R. Nuovi stili di vita, modifica del consumo finalizzata a maggior rispetto (o almeno minor devastazione) dell’ambiente. Bene. Ma questo non significa ridurre la produzione?

G. Non ho dubbi su ciò. Bisogna ridurre la produzione. E modificare stili di vita significa ridurre i bisogni indotti.

R. Quindi intervenire anche su comunicazione, pubblicità…

G. Cambiare tutto quanto ruota attorno alla proliferazione dei consumi; e quanto è causa dell’ansia di rinnovare incessantemente gli oggetti di consumo, in una sorta di perenne insoddisfazione; e anche quanto sta a monte della dimensione materiale dei prodotti, che va a incidere poi sul temendo problema dei rifiuti. Bisogna ridare centralità ai valori d’uso rispetto ai valori scambio.

R. Una posizione anticapitalistica netta.

G. Sì.

R. Eravamo partiti dalla politica mondiale relativa al rischio ecologico. A me pare che anche dove c’è una buona attenzione al problema, si rilevino poi comportamenti contraddittori fino al paradosso. Facciamo il caso della Merkel, che governa uno dei paesi più impegnati nella difesa dell’ambiente, e che senza dubbio si spende anche personalmente al massimo. A lei si deve la proposta del taglio del 30 per cento delle emissioni di Co2 entro il 2030 (anche se poi prontamente abbassata al 20 per cento di fronte alle rimostranze degli industriali); e non le si può negare di aver fatto il possibile all’ultimo G8 per convincere i colleghi che la questione non è da prender sottogamba. Insomma, nel panorama che ci ritroviamo, è certo una che non trascura la questione. E però anche lei, come tutti, vede la prosperità del mondo solo in termini di crescita, competitività, Pil, proprio quello che – come certo sa benissimo – squilibra irrimediabilmente gli ecosistemi. In fondo anche lei è allineata alla politica di tutti: tentare di sostituire il petrolio con energie rinnovabili allo scopo di poter mantenere attivo il modello economico attuale, che è causa del dissesto del mondo, in quanto si regge su una crescita illimitata del prodotto in un mondo che ha dei limiti precisi.

G. Hai ragione. Però a me è spiaciuto che sia stata la Merkel a indicare l’ambiente come asse portante della politica comunitaria, e che non sia stata un’iniziativa nostra. Questo dovremmo fare, e questo proporremo nella prossima finanziaria.

R. Ottima iniziativa. Non so con quante speranze di riuscita, con un governo che giustamente prevede di aumentare le contravvenzioni a chi inquina, ma lui stesso si propone come massimo inquinatore, varando un programma di infrastrutture ad alto impatto ambientale per 118 miliardi di euro. Comunque val sempre la pena di tentare. Magari portando a sostegno della proposta una frase di Stiglitz - che notoriamente non è un “no global” e nemmeno un ambientalista militante, ma un Premio Nobel per l’economia - il quale scrive: “Produrre inquina. Chi produce di più inquina di più.” Sarebbe una buona pezza d’appoggio, mi pare, per far notare che insistere sulla crescita è semplice follia.

G. Di più. Come tu giustamente fai notare, non basta investire di più su energie rinnovabili, bisogna cambiare modello. Tornando magari a Berlinguer, non solo al suo discorso dell’”austerità”, ma al suo famoso articolo su Rinascita, “Cosa e per chi produrre”. Un pezzo assolutamente da recuperare, quando parliamo di ridurre le quantità di produzione, e insieme di promuovere una modifica degli stili di vita con una riduzione drastica dei consumi. Io credo tra l’altro che noi potremmo ripensare il nostro sistema economico a partire dal Mediterraneo, dalla cultura del Mediterraneo.

R. Ma tu pensi che la dimensione mediterranea sia adeguata a un problema globale come l’ambiente?

G. Certo che l’ambiente è un problema globale. Ma credo che della cultura mediterranea si potrebbe fare una bandiera per il confronto con coloro che si affacciano sull’altra sponda. Tu pensa che cosa è accaduto in questi anni di continue migrazioni, su cui si sono alimentate paure, angosce, minacce, e una sistematica costruzione del nemico, mentre nessuno sembra avvedersi dello scempio che noi stessi abbiamo fatto del Mediterraneo, con metà delle coste cementificate, tra città in continua espansione, moltiplicazione di porti turistici e porti commerciali, aeroporti, raffinerie, impianti di produzione di gas, centrali termoelettriche, e passaggio continuo di petroliere con sversamento di tonnellate e tonnellate di greggio, acque scandalosamente inquinate… Questo è il vero allarme da sollevare per le sorti del Mediterraneo, non l’immigrazione.

R. Cioè, tu vedi il Mediterraneo come la rappresentazione esemplare, addirittura una sorta di metafora, delle contraddizioni del mondo…

G. Secondo me una situazione come quella mediterranea sarebbe la più idonea per provare a sostituire la parola competizione con la parola cooperazione. Dopotutto il Mediterraneo è un centro nevralgico dei più antichi e inestricabili conflitti del mondo: si tratta di tentare di disinnescare questi serbatoi di odio, da tante parti usati come detonatori per lo scontro di civiltà. E questo ci riconduce alla dimensione mondiale su cui sarà necessario operare.

R. Diciamo che un buon contributo a questo sfascio del Mediterraneo lo diamo anche noi italiani…

G. Eh sì. Non si deve dimenticare però che noi di Rifondazione siamo molto impegnati nel tentativo di limitarlo. Abbiamo vinto la battaglia contro il ponte di Messina, e non è poco. Ma siamo presenti in tutte le lotte di base di questo tipo, dalla Tav, a Scanzano, alla base di Vicenza, ecc.

R. Sì, si deve riconoscere che Prc è uno dei partiti più attenti al problema ambiente. Merito anche del vostro giornale, Liberazione, che dà notevole spazio e rilievo alla materia. E nel partito c’è un gruppo di persone molto informate e attive, e avete istituito il Nodo ambientale della Sinistra Europea… E tuttavia, permettimi, non di rado mi pare che anche tra voi l’ambiente resti separato da quella che si ritiene la Grande Politica. Tu stesso, che hai scritto in proposito cose davvero apprezzabili, parlando della necessità di un salto logico, di una nuova razionalità economica; e sostenendo che l’ambiente dovrà assumere un ruolo sovraordinatore, per cui agricoltura industria trasporti energia dovranno essere ripensati di conseguenza. Ecc. E però accade che in ampie interviste a tutto campo, in lunghi interventi al Comitato Politico, in articoli impegnati, l’ambiente nemmeno lo nomini, o ti limiti a sollecitare l’utilizzo di “culture ecologiste”. Non provo nemmeno a citare esempi analoghi riguardanti anche membri di spicco di Prc, per i quali l’ambiente non esiste proprio. Ecco, sei sicuro che l’intero partito sia consapevole non dico della gravità del problema, ma del fatto che nessun momento politico può prescindere dalla dimensione ecologica?

G. Voglio rassicurarti. Anche quando lottiamo contro la precarietà, contro bassi livelli di retribuzione, e simili, tra noi è sempre presente il problema del necessario mutamento di paradigma. Perché ciò che noi combattiamo è funzionale alla competitività di prezzo, che rappresenta il continuo massimo investimento sul terreno della crescita in senso classico.

R. Sei certo che sia sempre così? Ad esempio ora siete impegnatissimi nel problema pensioni. Sacrosanto, per carità, ma non so quanto questo obiettivo isolato sia raggiungibile. Per cambiare il paradigma, non credi che sarebbe necessario ripensare il lavoro in tutti i suoi aspetti - salari, pensioni, ecc - a livello mondiale, e proprio in funzione di un contenimento della crescita riorganizzarne e ridurne i tempi?

G. Sono pienamente d’accordo con te su questo tema, di cui ti sei peraltro ampiamente occupata. Il tempo di lavoro è uno strumento fondamentale per incidere sui modelli produttivi classici. Se oggi io riesco a produrre in minor tempo, perché questo tempo debbo regalarlo alla valorizzazione del profitto e non dedicarlo ai miei interessi e rapporti personali, alla famiglia, all’amicizia, ad altre forme di socialità? Ma il problema sta soprattutto nella crisi della politica, per me dovuta principalmente all’incapacità di mettere in discussione le leggi dell’ economia, proprio quelle che incidono in misura devastante sull’ambiente. E questo alimenta la crescente passività della politica, che diventa fortissima con i deboli (vedi lavavetri e simili) e debolissima con i potenti. E consente anche un uso strumentale del problema ambiente, proposto in chiave di modernizzazione.

R. Oh, finalmente! E’ un pezzo che speravo di sentire qualche leader di sinistra dire queste cose. Non c’è dubbio che occorre cancellare l’asservimento della politica allo strapotere dell’economia…Però forse una parte di responsabilità ce l’hanno anche le sinistre, che sono state, e spesso sono ancora, decisamente industrialiste.

G. Be’, sì, in parte è vero.

R. Ed è anche per questo, credo, che la meritoria attenzione di Prc ai problemi ambientali, nel concreto della politica non ha le conseguenze che ci si potrebbe attendere.

G. Non so quanto ciò sia vero. Perché in tutte le lotte ambientaliste di base, Tav. Scanzano, Civitavecchia, termovalorizzatori, inquinamenti elettromagnetici, ecc. tu trovi la presenza di Prc.

R. Lo so bene. Ma questo è l’humus che, a mio parere, dovrebbe sostenere una grande idea strategica. Perché la crisi ecologica non si risolve a livello nazionale, e nemmeno mediterraneo. Ripetiamolo, è un problema mondiale, da affrontare a livello sovranazionale.

G. Indubbiamente. E il primo a capirlo, a valutare la vastità e la straordinarietà della sfida , è stato il movimento Altermondialista, che non a caso è organizzato su scala globale, con una vastissima rete di rapporti con tutti i movimenti su analoghe posizioni antisistema.

R. Per finire, la domanda da un milione di euro. Se tu avessi carta bianca per salvare il mondo dalla catastrofe ambientale, che cosa faresti? Da che parte cominceresti?

G. La prima cosa che inevitabilmente s’impone è il drastico taglio delle emissioni climalteranti, ma sostenuto da un sistema di controllo rigido e generalizzato. Una nuova Kyoto che, se attuata seriamente, già rappresenterebbe un mutamento significativo del sistema dato, ma che è la premessa per avviare la riscrittura del modello economico e sociale. Un’impresa che rimette in causa innanzitutto una politica geostrategica oggi fondata sulla guerra, e naturalmente la quantità e la qualità della produzione, e la distribuzione della ricchezza, e i modi e i tempi del lavoro; ma anche la tecnologia se, come diceva Marx, la macchina porta iscritto in sé il segno di classe, ciò che riaprirebbe il grande tema della scienza e della sua funzione…E certo gli stili di vita, i modi e il significato del consumo…

R. Un programma da far tremare le vene e i polsi…

G. E il guaio è che il tempo stringe…

R. Certo, anche se nessuno sembra darsene conto. Eppoi tu pensi che la gente sia disponibile a cambiare abitudini ormai radicate? A recepire l’assurdo di un consumismo fine a se stesso?

G. Io credo di sì. E credo che una chiave utile in questo senso sia la battaglia sui beni comuni: che induce la consapevolezza dei limiti delle risorse, e il diritto della collettività a gestirle sottraendole al mercato. Ma il problema rimane formidabile. E naturalmente, come s’è detto, è solo mediante un comune lavoro internazionale che si può tentare.

R. Voi avete dato vita a una Sinistra Europea insieme a Die Linke. Immagino tu pensi all’Europa, e in particolare appunto alle sinistre europee, come a soggetti preziosi per questa impresa.

G. Certo. Ma penso soprattutto necessario, anzi decisivo, ridare potere all’Onu, sistematicamente umiliata e depotenziata dagli Usa. E sono proprio le sinistre che debbono allearsi e muoversi in questa direzione. Una sinistra unita in Italia è il nostro primo immediato obiettivo.

Se a qualcuno venisse in mente di ricostruire una sinistra in Italia saprebbe da dove cominciare. Sabato a Roma, una folla enorme ha detto a tutti che a forza di accontentarsi del meno peggio si può finire nel peggiore dei modi: assomigliare sempre più a chi si combatte. Cosicché, alla fine della corsa, potrebbe succedere di aver sprecato energie e speranze a tutto vantaggio dell'avversario. Una strana eterogenesi dei fini. Le centinaia di migliaia di uomini e donne che sabato hanno manifestato avevano un nemico comune: la precarietà nel lavoro; la precarietà della vita decuplicata dall'essere entrata la guerra nella normalità delle cose; la precarietà degli ultimi, i migranti e di tutti i penultimi che li precedono e che li si vorrebbe in guerra contro gli ultimi per consentire lunga vita allo stato di cose esistente. La precarietà è un dramma collettivo, ancora più pericoloso di Berlusconi perché non si riesce a sfrattarla dal governo del paese, chiunque lo governi.

Sabato abbiamo tirato un sospiro di sollievo, e non soltanto noi del manifesto che con altri uomini e donne di buona volontà abbiamo contribuito al successo di un appuntamento decisivo per chiunque abbia a cuore un futuro per la sinistra e, prima ancora, per una società solidale: tutte e due da ricostruire, partendo però da quel che non si è piegato al pensiero unico, nel sociale come nel politico. E non tutto quel che si muove a sinistra, non tutti quelli che sono convinti della possibilità di costruire un altro mondo, erano in piazza a Roma. Bisognerà tornare a parlarci e ad ascoltarci per riprendere un cammino comune. In Italia non c'è soltanto la post-democrazia plebiscitaria, ci sono persone, movimenti, esperienze politiche utili, non residuali, non necessariamente settarie e divise. Quel popolo sofferente ma potente più di quanto esso stesso non creda dev'essere ascoltato, deve ottenere risposte materiali e politiche. Non c'è molto tempo a disposizione.

Tutto bene, allora? Superate a colpi di slogan, bandiere e striscioni le difficoltà e le divisioni di ieri? Certamente no, quella data sabato in piazza alla politica italiana era tutt'altro che la spallata finale. Era un inizio, importantissimo ma pur sempre un inizio. Ci saranno resistenze, ostilità, persino nel nostro campo. Forse anche dentro quelle forze politiche che con generosità hanno contribuito alla riuscita del 20 ottobre. Figuriamoci poi se non ci saranno difese corporative nel ceto politico che vive ogni respiro della società - di quella società che ha consentito di rimandare a casa Berlusconi - come un problema, un rischio da scongiurare, una critica da silenziare con ogni mezzo. Allora, che il governo cada come vuole la destra del paese e della maggioranza o che riesca a passare la nottata, la difesa della strada aperta sabato non può essere delegata a nessuno.

Quel milione di persone, e i tanti che hanno scelto di guardare le immagini in tv, devono mettersi in testa che il destino è nelle loro mani.

I segnali negativi non mancano. Il primo è arrivato ieri dal direttivo della Cgil che invece di tuffarsi in un mare più navigabile e conferire al processo di rifondazione della sinistra idee, cultura e organizzazione, ha aperto il processo al dissenso interno, a chi più ha mantenuto un rapporto con i lavoratori percependone la precarietà, la delusione, la solitudine. Con la motivazione che bisogna salvare il governo e impedire ogni modifica del protocollo, ogni miglioramento essendo impossibile, pena produrre squilibri a una maggioranza traballante: brutto segnale, rischia di accelerare la frattura tra lavoratori e sindacati che l'esito della consultazione ha solo nascosto. Non è un attacco solo contro la Fiom e chi si è battuto contro il protocollo, ma contro tutti noi. Che però, da sabato, siamo meno soli. E abbiamo un compito in più: aiutare la Cgil a salvarsi, anche da se stessa.

Nelle sabbie mobili dell'insicurezza percepita - che è cosa differente dai dati materiali dell'insicurezza reale - si sta giocando una partita di assoluto rilievo che riguarda la politica, la cultura diffusa, le forme della convivenza in una società sempre più complessa e sempre più inquieta.

I lavavetri sono «eroi del nostro tempo», piccola umanità che la globalizzazione sbalza negli spigoli dei nostri marciapiedi: all'ombra dei nostri sospettosi semafori, armati di secchio e spugna, attentano alla nostra quiete borghese. La guerra ai lavavetri somiglia troppo a tutti i fenomeni di criminalizzazione dei poveri che hanno accompagnato le epoche di transizione: all'alba della modernità europea l'accattonaggio e il vagabondaggio vennero perseguiti come reati. Ognuno può inventarsi la propria idea di insicurezza, il proprio fantasma, il proprio capro espiatorio: con l'accortezza di non soffermarsi su ciò che è più pericoloso, ma su ciò che più infastidisce. La quiete, appunto, e l'estetica, e il sentimento dell'ordine.

Il lavavetri merita più accanimento criminologico del grande inquinatore, del piromane, dell'usuraio, dell'evasore fiscale. Il graffitaro sporca più di qualsiasi palazzinaro. I clandestini sono tutti in agguato sui nostri pianerottoli. E gli zingari comunque «rubano» i nostri bambini, e poco importa che i loro bambini possano essere molestati dai piccoli Klu klux klan leghisti o possano ardere vivi nelle nostre povere periferie.

Quando si sgombera il campo da qualsiasi analisi differenziata di fenomeni distinti e peculiari quali la criminalità, la devianza e il disagio sociale, si imbocca un vicolo cieco. Che non ci spianta solo dai valori della sinistra, ma dai valori minimi della cultura liberal-democratica. E l'ossessione della governabilità s'impenna nella prospettiva di un nuovo blocco d'ordine: questa sembra la svolta che i sindaci di Firenze e Bologna propongono al nascente Partito Democratico. Si tratta di una vera fascinazione per il «sorvegliare e punire», assunto come antidoto darwiniano alla propria crisi, cioè alla crisi di quel «riformismo rosso» che seppe fare del governo delle città un laboratorio collettivo di incivilimento.

L'ideologia securitaria insegue la morte della politica (la politica intesa come autoeducazione e solidarietà) e veste come una panciera elastica l'Italia del basso ventre, dei rancori corporativi e delle fobie; insegue la destra lungo i dirupi delle semplificazioni superstiziose, predispone il terreno per l'edificazione di tanti dissimulati apartheid. Non porta più sicurezza, offre una droga potente che ci fa dimenticare le nostre banali e prosaiche insicurezze quotidiane: quella di 5 morti sul lavoro tutti i santi giorni, quella della precarietà che rimbalza dal mercato del lavoro al mercato della vita, quella di periferie degradate e degradanti, quella di una tv-spazzatura che ha surrogato tutte le agenzie formative, quella delle mafie finanziarie internazionali che da internet precipitano nella locride o nella megalopoli napoletana o nelle campagne pugliesi abitate da antichi schiavi e moderni caporali.

La legalità è il contrario delle rincorse emergenziali e degli stati di «eccezione», non puoi impastarla con la farina del diavolo pensando che venga un buon pane. Se questi pensieri mi fanno essere inadeguato alle funzioni di governo, poco male. Di «radicale» nella nuova sinistra vorrei portare soprattutto il sentimento dell'inviolabilità della vita e della dignità di ciascun essere umano.

Definizione fascinosissima, quella di «una sinistra unita e plurale». Solo che per utilizzarla senza farla diventare uno slogan rassicurante ma falso, non ci sono scorciatoie. Bisogna coraggiosamente percorrere nuove strade, ma ancor più coraggiosamente analizzare quelle già percorse, anche di recente. Affrontare quella che un padre nobile della sinistra come Aldo Tortorella riassume con «la questione del dove abbiamo sbagliato».

Quali valori e quali forme per una sinistra unita e plurale è il tema di una tre giorni di dibattiti organizzati qui a Firenze dall'omonima vitalissima associazione. Coordinatore del primo appuntamento, il professor Paul Ginsborg, che ha messo intorno a un tavolo intellettuali di estrazione diversa ma non distante. Marco Revelli, Aldo Tortorella, Tana De Zulueta, Maria Luisa Boccia, Giovanni Berlinguer e Alberto Asor Rosa.

La richiesta dell'ospite fiorentino era di parlarsi in modo franco e fuori dai denti. E i relatori lo hanno fatto, senza troppi riguardi, tenendo inchiodate sulle poltroncine del Teatro Rifredi più di trecento persone per due abbondanti ore di dibattito. L'unità della sinistra oggi è una necessità storica, perché, ha spiegato Ginsborg c'è da riempire «un grande vuoto, sempre più evidente con lo spostamento al centro del Partito democratico». «E' come se fossimo saliti su una barca - dice De Zulueta - e tutti quelli che stavano seduti da una parte improvvisamente si siano spostati da un'altra: si rischia di cappottare».

La propria sopravvivenza, quella delle idee comuni, a sinistra, è di per sé una ragione per provare a stare uniti. Ma non basta. Bisogna parlare uno stesso linguaggio valoriale, confrontare le tante e diverse pratiche politiche.

Non farlo espone al rischio che la federazione della sinistra sia, come dice Berlinguer, «un ottimo coordinamento di gruppi parlamentari». Ma alla fine «il quartetto» - così qui chiamano, con affetto ma non troppo, i segretari di Prc, Pdci, Sd e verdi che oggi pomeriggio discuteranno con questa stessa platea - resta solo un quartetto, mentre l'ambizione è quella di fare un'orchestra, polifonica ma orchestra. «La manifestazione del 20 ottobre a Roma - dice Tortorella - nasce proprio dal desiderio di interpellare il nostro popolo», di farlo ascoltare dal governo Prodi ma anche dal «quartetto» che sta per convocare gli Stati generali della sinistra. Che non si esauriscono certo in tre partiti e un movimento.

C'è persino un'aggravante. E' che non si parte da zero, ma da alcuni smaglianti fallimenti. Qui Alberto Asor Rosa ricorda l'esperienza che poco più di due anni fa venne chiamata «camera di consultazione della sinistra». Asor Rosa è implacabile nell'accusare Rifondazione di averla fatta fallire «perché desiderava che nessuno influenzasse la sua condotta elettorale». Diciamocela tutta, insiste, «unita e plurale significa, in politichese, unita e divisa». Colpa del ceto politico che nella sinistra radicale non è poi tanto radicalmente diverso che altrove, prosegue. Ed è «impermeabile ai contributi della società civile. Un conto sono le parole, un conto è la condivisione del potere». Il nodo dei politici e dei partiti non si elude, qui la platea non è grillina, ma non per questo è meno severa.

Per la femminista Maria Luisa Boccia (senatrice per Prc-Sinistra europea) non è così: uniti e plurali non è un ossimoro, non c'è altra strada che non sia la politica, ovvero il luogo della mediazione che a sua volta è il frutto di un conflitto. La mediazione che «consente la convivenza di pluralità e differenze non ridotte né riducibili a una sola identità». Va avviato quindi un percorso costituente, una rifondazione, un'altra.

«Stiamo assistendo alla fine della sinistra politica. Viene da lontano, da un lungo processo di disgregazione sociale. Ma alla fine si fa più veloce», dice il sociologo Marco Revelli. Una sinistra stritolata dalla scelta fra i rapporti istituzionali e la sua fedeltà sociale. L'ordinanza contro i lavavetri, qui a Firenze, è un sintomo-simbolo di quello che sta accadendo. Usare i lavavetri per dire che gli ultimi sono un fastidio è un atto simbolico, la liquidazione dello zoccolo duro dell'identità della sinistra. La ricostruzione è un processo lunghissimo, e chissà per quante federazioni passa. Ma è già molto che il «quartetto» si accordi per rallentare il processo «mettendo un piede nella porta che si sta per chiudere». Il corteo del 20 ottobre, per Revelli, ha questo senso. «Vorrei che un pezzo d'Italia si facesse vedere e dicesse che non è d'accordo. E che è ancora in grado di parlare».

Caro Corrado Augias, giorni fa, parlando di Costituzione, lei si è mostrato sorpreso che nel 1947 i costituenti avessero previsto e inserito nel testo (all'articolo 9) la «salvaguardia del paesaggio». L'Italia in quegli anni era molto povera ma perfetta nel paesaggio e certo non si poteva immaginare l'orrore dell'urbanizzazione selvaggia degli anni sessanta e successivi.
A proposito di questo suo stupore, volevo raccontarle del mio quando, leggendo su argomenti di tutela del Patrimonio, ho trovato alcune righe prese da un intervento di Gustavo Giovannoni, architetto urbanista che lavorò alla legge «Bottai» del 1939, legge in cui si parla di difesa non del Paesaggio ma delle «Bellezze naturali».
Giovannoni scrive: «Occorre anche la formazione di piani regolatori paesistici per prevedere ciò che sarà la campagna quando la fabbricazione si estenderà, o come appendice della città, o come sviluppo di un centro di villeggiatura. Tutto ciò veduto in tempo, e in tempo precisato e comunicato agli interessati». Negli anni Trenta aveva previsto come sarebbe andata!
Nel nostro Paese, come noi ben sappiamo, non mancano le persone capaci di prevedere e progettare per il bene comune, ma il problema è che non vengono ascoltate mentre le leggi sono fatte male e non vengono rispettate. Speriamo che questo nuovo governo abbia voglia e coraggio di occuparsene
Rita Cassano

Queste capacità di previsione vengono non da speciali doti profetiche ma dallo spirito con il quale ci si pone al servizio di un testo di legge, specie se fondamentale come la Costituzione. Gli uomini che hanno scritto la Carta entrata in vigore il 1° gennaio 1948 avevano notevoli qualità ma erano soprattutto animati, pur nella diversità delle rispettive tradizioni politiche e culturali, da uno spirito all'altezza delle circostanze.

Fu questo a fargli inserire nel testo la tutela dell'ambiente appaiato (art. 9, II comma) all'eredità storica di cui siamo fruitori: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ernesto Bettinelli (diritto Costituzionale a Pavia) ha pubblicato per la Rizzoli un volumetto dal titolo "La Costituzione della Repubblica" (213 pagg. 7,00 euro) che fortemente consiglio specie in questa vigilia referendaria: un prezioso vademecum. Illustrando i 'valori' di cui la nostra carta fondamentale è portatrice scrive: «I valori dovrebbero evocare cose, situazioni misurabili, anche dal punto di vista materiale ed economico; si riassumono nelle condizioni essenziali per rendere possibile l'esistenza in generale e l'umanità in particolare: la convivenza, appunto».

Lì è la forza di un testo destinato a durare. Passo all'attualità per postillare che trovo invece insultante la modifica di un testo costituzionale nelle condizioni in cui è stata fatta dal passato Parlamento. Quei cambiamenti, voluti e quasi imposti dalla Lega a un presidente del Consiglio indifferente, cambiano 52 articoli ne aggiungono 3, stravolgono il testo a soli fini elettorali. Un vero assalto che Pietro Ciarlo (diritto costituzionale a Cagliari) ha definito frutto di «un potere arrogante e un servilismo diffuso, pseudo-federalisti uniti in un patto populistico». Meritano tutto il nostro convinto 'No'.

Fioriscono le iniziative per il rinnovamento della sinistra, e suscitano speranze, da ciascuno orientate nella direzione che gli è più congeniale. Per quanto mi riguarda – ma credo di poterlo scrivere a nome di eddyburg – mi piacerebbe che la politica recuperasse, secondo le migliori tradizioni della sinistra italiana, un impegno autentico per i problemi della qualità della vita quotidiana, la qualità sociale, come la definì Giorgio Ruffolo, ripetutamente ricordato da Eddy Salzano nei giorni scorsi. Mi riferisco in particolare alla condizione urbana, alle città strozzate dalla rendita fondiaria come e peggio che negli anni del dopoguerra, questioni gravissime, però da molti lustri cancellate dall’agenda della politica nazionale, anche di sinistra, e ridotte a fatti locali o, peggio, a storie di bassa macelleria.

L’ultima grande occasione nella quale questi temi furono al centro di un’importante iniziativa nazionale fu a proposito della variante Fiat Fondiaria, quando Achille Occhetto intervenne per bloccare la posizione assunta dal Pci di Firenze a favore dell’urbanistica contrattata. Protagonista fu Fabio Mussi al quale perciò, per quanto possa valere, va la mia fiducia, la mia stima, la simpatia. La speranza che si possa ricominciare. E si possano evitare gli errori di Firenze, dove la variante, dopo lunghe e complesse vicende, fu recuperata e ha generato la squallida espansione di Novoli, sovrastata dalla sagoma deforme del nuovo palazzo di giustizia.

Il nostro sito dà conto puntualmente dei disastri che si susseguono, e si deve a eddyburg e a pochissimi altri benemeriti se alla fine della scorsa legislatura non è stato definitivamente approvato dal Senato il micidiale disegno di legge Lupi che prevedeva la totale privatizzazione dell’urbanistica. Quel disegno di legge, alla Camera, nell’estate del 2005, raccolse significativi consensi anche da parte di deputati del centro sinistra. Spero che non succedano più cose del genere. Nella nuova legislatura sono stati presentati al Parlamento, accanto alle proposte della destra, due disegni di legge, uno di Rifondazione comunista e altri (che fa propria la proposta eddyburg messa punto all’inizio del 2006); e un altro (Ds e Dl) che non ha ceduto al richiamo della foresta neo liberista: insieme potrebbero convergere verso un testo ampiamente condiviso e, dal nostro punto di vista, finalmente soddisfacente. Ma mi pare che il veliero della legge urbanistica faccia rotta verso l’isola che non c’è, per dirla con Michele Serra.

Intanto, a Roma, come quasi dovunque, gli scempi continuano. Non mi soffermo su numeri e dati, che Paolo Berdini ci fornisce con crescente e drammatica puntualità. Ma chi percorre il Grande raccordo anulare sa che ormai i più diffusi elementi costitutivi del paesaggio romano sono le gru dei nuovi cantieri. Solo il diavolo sa quante sono. La città è sempre più estesa, più faticosa da vivere, congestionata, avvelenata dal traffico. Chi va in treno a Fiumicino, vede che restano solo pochissimi brandelli di campagna abbandonata, il resto sono asfalto, cemento e rifiuti. Sono tornate anche le baracche e un abusivismo miserabile e indisturbato. L’Agro Romano è ormai a rischio di estinzione. Lo hanno scritto un centinaio di archeologi e architetti della Soprintendenza archeologica di Roma in un documento trasmesso al ministro dei Beni culturali e ripreso dalla stampa.

Si sta costruendo un numero spropositato di nuove abitazioni, mentre gli abitanti di Roma continuano a diminuire e mentre decine di migliaia di famiglie, di giovani, di studenti, di immigrati sono senza casa. La residenza pubblica è stata criminosamente cancellata. Siamo agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda gli investimenti in edilizia sociale. Come negli anni Cinquanta e Sessanta detta legge la rendita fondiaria. Gran parte della politica romana (e nazionale) è incapace di sottrarsi alla forza di persuasione – chiamiamola così – del mondo dell’edilizia e della valorizzazione immobiliare, al quale si deve la crescita vertiginosa e unidirezionale dell’economia romana. Un tempo non era così, la lotta senza quartiere alla rendita fondiaria fu uno dei caratteri distintivi della sinistra romana (e qui vanno almeno ricordati Aldo Natoli, Piero Della Seta, Luigi Petroselli, Antonio Cederna solo alcuni degli autorevoli esponenti della politica e della cultura di sinistra e progressista di Roma che hanno legato il loro nome alla lotta alla rendita).

In altri paesi europei l’impegno pubblico per la qualità sociale è praticato con convinzione. La Germania, la Gran Bretagna, la Francia stanno attuando da anni politiche di rigoroso contenimento delle espansioni. Anche le istituzioni europee affrontano l’argomento con determinazione. La proliferazione urbana – si legge in un documento dell’UE del 2004 – aumenta la necessità di spostamento e la dipendenza dal trasporto privato, che a sua volta provoca una maggiore congestione del traffico, un più elevato consumo di energia e l’aumento delle emissioni inquinanti. Da noi l’argomento è ignoto all’azione di governo. In verità, c’è un cenno nel programma del governo Prodi (a pag. 146) dove si propone una nuova legge quadro per “evitare il consumo di nuovo territorio senza aver prima verificato tutte le possibilità di recupero, di riutilizzazione e di sostituzione”. Un intervento risolutivo in proposito sta nel citato disegno di legge eddyburg – rifondazione e, un po’ meno efficace, nel testo Ds - Dl.

Concludo sperando che non sia considerato eretico quanto segue: ci dobbiamo riprendere il primo centro sinistra. Nel senso che abbiamo bisogno di ricostruire una fiducia forte nelle riforme. Non nel riformismo, parola verso la quale ho sempre diffidato, che ormai va bene a tutti, anche a Berlusconi, e non significa più niente. Per fiducia nelle riforme intendo quella che animò la prima stagione del centro sinistra, quella doc, dell’inizio degli anni Sessanta. La nazionalizzazione dell'energia elettrica, la riforma scolastica, l'istituzione delle Regioni, la legge urbanistica: era questa la lista delle riforme di oltre quaranta anni fa. Alcune furono realizzate, altre trovarono applicazione soltanto parziale, altre infine restarono inapplicate quando rapidamente si esaurì l’originaria tensione riformatrice. Quella tensione, secondo me, oggi va ripresa e resa attuale, contrastando chi vuole sostituire al welfare il mercato anche in materie nelle quali il mercato si è rivelato storicamente incapace di affrontare i problemi. Non può sfuggire che la casa, i servizi, i trasporti, l’uso corretto e lungimirante del territorio, il miglioramento della condizione urbana per tutti i cittadini sono una componente essenziale del welfare e del suo rinnovamento.

Scritti di Giorgio Ruffolo sono inseriti nella cartella Scritti su cui riflettere. A Roma è dedicata un'apposita cartella, in cui sono contenuti numerosi articoli di Paolo Berdini. Una cartella è dedicata anche alla Legge Lupi e alle iniziative di contrasto. Le proposte di legge per il governo del territorio citate nell'articolo sono nella cartella intitolata alle proposte di legge in materia di urbanistica.

C'è la retorica dello scontro - di quelli che lo fanno e di quelli che lo riducono a prima notizia - e c'è il succo politico di una giornata, che fa meno sensazione ma più senso. Il succo politico della giornata di ieri, al di là dei minuetti diplomatici fra il capo dell'Impero e i governatori della provincia, è che per quella che in Italia ama definirsi «sinistra radicale» si apre una stagione tutt'altro che semplice.

Anche qui, c'è la retorica e c'è il succo politico. La retorica del corteo, secondo la quale l'amministrazione Bush e il governo Prodi sono fatti della stessa identica pasta, dice una cosa sbagliata e non veritiera. Il succo politico del corteo dice invece alcune una cosa vera e giusta, questa: c'è una sinistra di movimento che si sta radicalmente autonomizzando dai piani istituzionali e partitici della sinistra «di governo e di lotta», e che prende la sua strada prescindendo allegramente dall'etichetta di palazzo, dal darsi di gomito e dalle gomitate dei leader, dal narcisismo e dal bilancino dei ruoli, dai pensamenti e dai ripensamenti sui nuovi partiti e le novelle federazioni a venire. Un'altra cosa giusta e veritiera la dice, anche qui al di là della retorica, il sit in di Piazza del Popolo: continuando con l'etichetta di palazzo, i rapporti avariati fra i leader, il narcisismo, il bilancino e la malinconia dell'eternamente irrisolto che fare, la sinistra radicale istituzionale perde precipitosamente il contatto con la sua base di riferimento.

E' a causa di questa già avvenuta perdita di contatto che gli organizzatori di piazza del Popolo avevano potuto ritenere che il corteo di Piazza Esedra sarebbe stato minoritario, estremista e violento. Errore madornale: è stato un corteo pieno, denso e tranquillo, abitato da molti militanti (in primis i giovani Prc) dei partiti i cui vertici sonnecchiavano a Piazza del Popolo (o tentavano «ponti» in extremis, come alcuni Verdi), e perdipiù tutt'altro che confinato nel perimetro del no alla guerra: un corteo che annuncia un'opposizione giovanile importante che si farà sentire a breve su altre questioni, a cominciare dall'istruzione e dal lavoro. Non solo il Prc, Sinistra democratica e gli altri partiti della sinistra radicale, ma anche la Fiom - per la prima volta dal 2001 separata dal movimento, fatta salva la presenza di Cremaschi in testa al corteo - faranno bene a pensarci in fretta. Allargando al messaggio che arriva dalla giornata di ieri la ruvida analisi dello stato delle cose già imposta dalla recente prova elettorale.

Non è questione di strette organizzative. Nessuna nuova sigla e nessun patto d'azione riuscirà a modificare questo quadro senza uno scatto di analisi, di idee e di inventiva, che sappia fare dell'esperienza di governo non un feticcio ma una fonte di sapere su quello che la società italiana, e non solo italiana, sta diventando, e su quali domande ineludibili sta maturando.

Un altro primo ministro è disoccupato. Come Margaret Thatcher, Blair è stato licenziato dai colleghi di partito, che sperano di migliorare le loro sorti politiche senza di lui, invece che essere sottoposto al giudizio dell'elettorato, come sarebbe dovuto accadere. Ma anche se sotto molti aspetti il programma di Blair è stato una versione eufemistica, anche se più sanguinaria, di quello della Thatcher, lo stile con cui i due se ne sono andati è molto diverso. Il licenziamento della Thatcher da parte dei suoi colleghi conservatori fu una rappresentazione drammatica: l'annuncio dato davanti alla piramide di vetro del Louvre, durante il Congresso di Parigi che annunciava la fine della guerra fredda; le lacrime; una Camera dei Comuni affollatissima. L'uscita di scena di Blair avviene di malavoglia, su uno sfondo di autobombe e carneficine in Iraq, con centinaia di migliaia di persone uccise o mutilate dalle sue politiche. E Londra bersaglio primario di attacchi terroristici. I sostenitori di Thatcher, in seguito, si definirono orripilati da quello che avevano fatto. Persino i maggiori adulatori di Blair confessano invece un senso di sollievo nel vederlo andare finalmente via.

La premiership di Blair non sarebbe potuta esistere senza quella di Thatcher. Il New Labour emerse all'inizio degli anni '90 all'interno di un paesaggio sociale da lei trasformato. La tradizionale supremazia della City si era grandemente estesa, i servizi privatizzati, i sindacati ridotti a una nullità, le industrie del carbone e dell'acciaio cancellate. Privatizzazione e deindustrializzazione avevano visto una migrazione massiccia della popolazione dal nord verso il sud delle periferie e dei servizi, e un palese trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi. Il Labour Party fu anch'esso rimodellato. Dopo la sconfitta della sinistra nelle battaglie ideologiche degli anni '80, Neil Kinnock impose modifiche strutturali per eliminare l'influenza degli attivisti e avviò le campagne ispirate al New Democrat - cieli azzurri, bambini e una scipita promessa di «cambiamento«. Completavano il programma un rigido impegno all'austerità fiscale da parte del cancelliere ombra John Smith, e la promessa di graduali riforme per attrarre alleati.

Blair e Brown, nel succedere alla leadership nel 1994, dopo la morte di Smith. confezionarono il tutto in una forma più giovane, telegenica e manifestamente neoliberista e promisero di spingere il libero mercato fino ai confini dell'Ue e oltre. Se la Thatcher era trattata con rispetto e timore nella carta istitutiva del New Labour del 1996, «The Blair Revolution», una deferenza ancora maggiore era riservata alla Casa Bianca. Blair e Brown erano stati sostenitori accaniti del circuito di Washington sin dall'inizio della loro carriera. Mentre erano ancora all'opposizione, chiesero il sostegno unanime del governo ombra laburista ai bombardamenti di Clinton in Iraq del 1996. Anche se ora gli ammiratori di Blair presenti nel Guardian e nella London Review of Books parlano di «delusione» nei confronti del New Labour, il suo programma di militarismo neoliberista, confezionato a Chicago e a Washington, era noto ben prima della vittoria elettorale del '97.

I frenetici tentativi di Blair, una volta divenuto premier, di restare all'avanguardia dell'avanzata militare americana in Eurasia - sollecitando l'invasione di terra nei Balcani, contraffacendo fax sull'uranio «yellocake», creando falsi dossier sulle armi di distruzione di massa con i missili di Saddam in grado di raggiungere l'obiettivo in 45 minuti - si sono basati su una fredda logica politica.La City e le multinazionali britanniche hanno tutto l'interesse a sostenere l'espansione del libero mercato, e Blair si è affrettato a proporsi come cappellano militare dell'unica superpotenza la cui dotazione di armi poteva garantire tale espansione. In base alla «dottrina della comunità internazionale», scritta per lui nel 1999 da Lawrence Freedman, gli attacchi preventivi dell'America, l'occupazione di stati sovrani, potevano essere guidati da «un mix più sottile di interesse reciproco e proposito morale», le cui nobili ragioni avevano la precedenza sul diritto internazionale. Questo offriva una foglia di fico ai bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, che ignoravano l'esistenza stessa del Consiglio di sicurezza dell'Onu. E potrebbe anche fornire una giustificazione retrospettiva al bombardamento anglo-americano del 1998-99, l'Operazione Desert Fox.

Con l'11 settembre, Blair è diventato un fanatico sergente reclutatore della guerra al terrore, inneggiando ai valori occidentali mentre le cluster bomb piovevano sui campi afghani. Già nell'aprile 2002 Brown aveva stanziato 3 miliardi di sterline per finanziare la forza di invasione britannica in Iraq. Si dice che Blair e Colin Powell abbiano osteggiato molto il piano iniziale di Rumsfeld, che prevedeva un attacco chirurgico alla leadership Ba'ath e un rapido ritiro, lasciando intatto il grosso dell'amministrazione statale irachena. La posizione di Blair, favorevole a una occupazione militare a lungo termine per ristrutturare l'Iraq secondo le esigenze «umanitarie» del libero mercato, ebbe il sopravvento. Bush sostituì Garner con Bremer, e la discesa nel caos sociale iniziata con l'invasione precipitò nell'incubo attuale. Secondo i suoi consiglieri, il vantaggio di Blair sul palcoscenico mondiale stava nella sua capacità di rassicurare gli americani circa la «nobiltà» della loro missione imperiale. Le elezioni Usa di mid-term, nel novembre 2006, hanno scavato la sua fossa politica.

In patria, la peculiare inconsistenza dell'egemonia di Blair negli ultimi dieci anni ha potuto contare sull'assenza di un'opposizione. Mentre Thatcher doveva vedersela con l'ostilità di settori importanti dei media, nel 1997 e nel 2001 Blair ha goduto dell'appoggio di tutti i giornali di Murdoch (Times, Sun, Sunday Times) più il Guardian, l'Independent, il Daily Express, il Daily Mirror, l'Economist e il Financial Times. Sotto questo unanimismo c'era lo sfinimento post-thatcheriano dei Conservatori. Il successo elettorale che il Labour ottenne nel 1997 si basava solo sul 31% dell'elettorato totale. L'astensione di massa degli elettori Tory fruttò a Blair una maggioranza storica - 413 seggi su 650, con i Conservatori ridotti a 166. Da allora, il voto laburista è diminuito ad ogni tornata elettorale - fino al 24% dell'elettorato nel 2001, e al 20% scarso nel 2005 - ma il perdurante insuccesso dei Tories ha favorito il governo laburista.

Fatalmente, per ogni speranza di rinnovamento politico radicale, Blair non è stato messo in discussione dalla sinistra. Almeno in Inghilterra (la Scozia è un caso un po' diverso), i liberal di sinistra che rifiutavano la rivoluzione liberista di Thatcher sono rimasti in silenzio mentre il Labour proseguiva sulla stessa strada - tagliando gli aiuti per i genitori single, aumentando le tasse universitarie, appoggiando gli affaristi del settore privato in progetti di istruzione e di salute pubblica. Ai poveri furono lasciate poche briciole, come i crediti fiscali o i sussidi per i centri per l'infanzia, a testimoniare la compassione di Brown. In nome della guerra al terrore, la sinistra Labour ha fatto approvare leggi da stato di polizia per trattenere i sospetti senza accuse o sottoporli agli arresti domiciliari. Solo 12 parlamentari laburisti hanno votato a favore di un'indagine sull'invasione. Leali a Blair, i sostenitori del Labour hanno appoggiato la guerra più dei Conservatori. L'enorme manifestazione contro la guerra che si è svolta a Londra nel febbraio 2003 si è risolta in niente, una volta iniziata l'invasione. Storicamente, questo è stato il maggior risultato per Blair: conciliare i critici «left-liberal» con l'ordine neoliberista e le sue guerre.

Nella stampa liberale, commentatori ed editorialisti hanno allegramente rimosso le prove della corruzione nel New Labour. Quando una donazione di un milione di sterline del presidente della Formula Uno produsse come risultato una speciale esenzione dal divieto di publicizzare il tabacco nelle gare automobilistiche, e un contributo di tre milioni di sterline al Millennium Dome del governo fu seguito dall'immediato rilascio del passaporto britannico al trafficante indiano di armi Srichand Hinduja, in fuga dal suo paese per accuse di corruzione, il columnist del Guardian Hogo Young scrisse: «Se la perfezione morale è lo standard, presto non ci saranno più leader».

Gli elogi a Blair hanno registrato un crescendo ad ogni nuova impresa militare. L'Economist lodò la sua «scioltezza emotiva» sull'Afghanistan, il Guardian elogiò «la sua abilità» nel presentare il falso dossier sulle armi di distruzione di massa irachene alla Camera dei Comuni». La piaggeria è andata a braccetto con l'accettazione di una nuova cultura di corruzione politica. Ben pochi hanno protestato quando Blair ha licenziato il presidente e il direttore generale della Bbc per avere mandato in onda un servizio che avanzava dubbi sull'esistenza delle armi di distruzione di massa irachene, o quando il direttore del Daily Mirror, contrario alla guerra, fu licenziato: era caduto in una trappola e aveva pubblicato fotografie taroccate di atrocità britanniche in Iraq, a quanto pare messe in scena con la connivenza delle forze armate.

Ricchi uomini d'affari hanno comprato posizioni politiche con sfrontata impunità. Una donazione di un milione di dollari al Labour fruttò all'imprenditore del bio-tech Paul Drayson un titolo nobiliare, un contratto da 32 milioni di sterline in vaccini con il servizio sanitario nazionale e un posto nel governo. Ora Drayson è indagato per un appalto di armi del ministero della difesa. Un'indagine sulle tangenti per vendite di armi all'Arabia Saudita è stata chiusa da Blair «nell'interesse della sicurezza nazionale». Persino l'Mi6 ha protestato, facendo notare che l'interesse nazionale non era in gioco.

L'autocompiacimento del New Labour è stato puntellato dall'effetto ricchezza della bolla immobiliare durata un decennio nel sud dell'Inghilterra, gonfiato dal ruolo della City come terreno deregolamentato per la finanza globale e dal boom dei consumi basati sull'indebitamento. Ma i tassi di crescita nel settore dei servizi nascondono una lunga recessione nell'industria manifatturiera e l'aumento di disuguaglianze regionali. L'occupazione è cresciuta grazie a lavori a tempo determinato o part-time: sì e no un terzo dei lavoratori britannici ha un lavoro permanente e a tempo pieno. Le fortune della classe media si sono divise, con il settore pubblico in declino mentre hanno prosperato le vendite e il marketing. Una working class desindacalizzata e deindustrializzata è stata riassorbita nel commercio, all'ingrosso e al minuto: il consolidamento in chiave blairiana del sogno di Margaret Thatcher.

Lo pseudo cambiamento di regime che vede l'ascesa di Gordon Brown non modificherà queste coordinate.

L’autrice è Editor della New Left Review. Traduzione M. Impallomeni

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Compatibilità. Amico Silvio 1.0 si interfaccia perfettamente e senza problemi con tutti i programmi. Gli va bene quello del Partito Democratico, gli piace l'ipotesi di una federazione con Fini, è predisposto per dialogare via mail persino con Casini. Soprattutto, per la prima volta, Amico Silvio 1.0 si sente riconosciuto dagli altri programmi che cominciano a pensare a lui come un software affidabile.

Manuale Utente. Un consiglio. Tenete installato Amico Silvio 1.0. sul vostro computer finché non si parla seriamente della legge Gentiloni. Per allora uscirà il nuovo programma Silvio Si Incazza Di Nuovo 1.0, oppure reinstallate il vecchio Conflitto di Interessi 2.0. Per ora, però, usate questo Amico Silvio 1.0. Un programma di enorme successo. Molti ci stanno già cascando. Gli stessi che per ben tredici anni non hanno mai usato l'antivirus.

Sono stato fortemente contrario al Partito democratico, e lo sono ancora, ma adesso, arrivati allo scioglimento dei Ds, dico: bene. Bene perché ci siamo liberati di un equivoco, cioè di una formazione che continuava a dirsi di sinistra, mentre era solo di centro e di un centro pencolante a destra.

Ha perfettamente ragione Fabio Mussi quando dice: "Con il Partito democratico, l'asse del centro sinistra, e dunque della politica italiana, sarà inesorabilmente più spostato al centro". E un centro che ritiene di avere la sua base di forza nel governo piuttosto che nella società. Non dimentichiamo che il Partito democratico è un prodotto dell'attuale governo, ove questo governo cadesse il nuovo Partito democratico perderebbe il suo fondamento più forte.

Il Partito democratico è la fine di un equivoco e così, di fronte alla verità, molte sono le forze che prendono le distanze da questo nuovo prodotto della politica politicamente. Innanzitutto importanti sindacati della Cgil (metalmeccanici, agroalimentare, funzione pubblica e altri ancora). Il discorso di Epifani a Firenze conferma questa presa di distanza. Poi c'è il correntone di Mussi (che non è poca cosa) e poi, ancora ci sono le formazioni della cosiddetta sinistra radicale (Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e altro ancora).

A questo punto (e già i primi segnali arrivano) c'è la corsa a dire uniamo tutti i resistenti e diamo vita a una nuova e reale forza di sinistra. Capisco le motivazioni di queste espressioni di buona volontà, e sono positive, ma non mi convincono. Avremmo un assemblaggio eteroclito, rissoso e per di più ricattato dal timore di fare cadere il governo in carica e riaprire la via al cavaliere Silvio. E tutto questo - eccezionalmente condivido le preoccupazioni di Toni Negri espresse su il manifesto di domenica 22 aprile - con la minaccia di nuove forme di autoritarismo. A chi dice, "facciamo subito l'unione dei resistenti alla deriva del Partito democratico", replico citando il vecchio proverbio, «la gatta frettolosa fece i gattini ciechi». Mi dispiace dirlo, ma una rapida fusione dei "resistenti" avrebbe molte analogie con quella del Partito democratico: unione di stati maggiori, con tutto quel che segue.

La questione è - sempre a mio insicuro parere - che non si può ricostruire la politica, attualmente in quarantena, senza una diagnosi della crisi attuale, cioè senza un'analisi dei mutamenti nella società e senza individuare le cause e i caratteri del fallimento del comunismo, più precisamente del comunismo reale. Direi subito che non possiamo spiegare tutto con l'autoritarismo, il quale ultimo molte volte funziona. Direi che dovremmo rifare un'analisi della guerra fredda, della politica Usa e della rottura tra Urss e Cina, rileggerci il dimenticato Memoriale di Yalta e i cenni al policentrismo. E poi dovremmo chiederci ancora: quella sconfitta è la fine della storia, non si può andare oltre i confini della rivoluzione francese e della borghesia? Insisto, la sconfitta del comunismo è la fine della storia? Dovremmo tentare una risposta, positiva o negativa che sia, ma una risposta. Dobbiamo dire che se le speranze di cambiare il mondo, di realizzare gli obiettivi di eguaglianza, libertà e fraternità sono solo illusioni infantili delle quali dobbiamo liberarci per rassegnarci a continuare a vivere come viviamo e come la grande parte degli abitanti di questo mondo vive. La questione non è di poco conto, pensiamoci. Se proprio non c'è niente o assai poco da fare allora rassegnamoci a essere uno stimolo rispettoso al nuovo Partito democratico.

La seconda questione è l'analisi delle attuali contraddizioni (ci sono ancora) della nostra società. Cerchiamo di capire e mettere in evidenza quali sono oggi le forme dello sfruttamento, che ancora persiste. Cerchiamo di capire dopo il supposto tramonto delle classi (salvo quella dei capitalisti) come, con quale politica (non basta più il solo sindacato) si può ottenere il miglioramento delle condizioni di vita delle moltitudini che stanno sotto, dei giovani che non hanno prospettive di migliorare la loro condizione di vita, delle donne che continuano a essere il lato debole della nostra società.

Ripeto senza un serio approfondimento (la crisi della sinistra è anche, e forse soprattutto, culturale) sulla caduta del comunismo (perché, e se definitiva o meno) l'unione delle varie componenti che rifiutano il Partito democratico sarà pur sempre utile, ma senza prospettive.

Ma non vorrei che queste mie considerazioni fossero intese come un consiglio ad aspettare. Tutto il contrario, proprio perché i problemi sono grandi e difficili, bisogna muoversi al più presto - come ci ha raccomandato Rossana Rossanda - e anche il manifesto dovrebbe - come si dice a Roma - darsi una mossa.

Ps. Massimo D'Alema ha voluto ricordare la discussione con Fabio Mussi sull'opportunità o meno, nel 1969, di aderire all'iniziativa del gruppo de il manifesto.

Da parte di D'Alema è stata una gentilezza e ricordo che Fabio Mussi, giovanissimo e appena entrato nel Cc del Pci, votò contro la radiazione de il manifesto. Quel ricordo mi suscita un tardivo interrogativo: se allora, venti anni prima della caduta del muro di Berlino, il gruppo dirigente del Pci avesse accettato o almeno dato legittimità alla critica radicale che il gruppo de il manifesto muoveva al socialismo reale invece di attardarsi in una fedeltà (peraltro malcerta) a Mosca oggi potremmo avere in Italia e in Europa una situazione diversa, di più forte tenuta della sinistra e delle ragioni del socialismo? So bene che dare ragione a quelli de il manifesto avrebbe comportato scontri e divisioni nel Pci. Mosca avrebbe reagito pesantemente. Ma, ripeto, a conti fatti dare ragione nel 1969 a il manifesto avrebbe evitato non solo abiure poco dignitose, ma anche la totale dissoluzione di quella grande forza che era allora il Pci e avrebbe dato oggi le basi più credibili alla lotta per il socialismo.

E' solo un interrogativo, ma non mi si dica che la storia non si fa con i se. I se corrispondono alle scelte che ciascun soggetto fa nel corso della sua storia. Ricordo poi che una volta, per avere scritto che la storia non si fa con i se fui duramente rimbrottato da Cesare Luporini, che di storia e filosofia ne sapeva più di me.

Naturalmente come si dice in questi casi, bisogna attendere le motivazioni della sentenza.Ma già dal dispositivo della II sezione della Corte d’appello di Milano nel processo Sme-Ariosto qualcosa si può arguire. DunqueSilvio Berlusconi «non ha commesso il fatto». O, meglio,non ci sono prove sufficienti che lo abbia commesso. Questo vuol dire infatti il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale. Il fatto però c’è, tant’è che gli altri imputati - gli avvocati Previti e Pacifico, e il giudice Squillante - furono condannati in primo e secondo grado per corruzione (semplice per i due legali, giudiziaria per l’ex magistrato), salvo poi salvarsi in corner grazie alla sentenza della Cassazione che l’anno scorso, smentendo se stessa, decise di spedire il processo a Perugia perché ricominciasse da capo. Anzi, non ricominciasse affatto perché, mentre le carte viaggiavano dal Palazzaccio verso Perugia, è scattata la prescrizione. Qual è dunque il fatto? Il bonifico bancario di 434.404 dollari (500 milioni di lire tondi tondi) che il 5 marzo 1991 partì dal conto svizzero Ferrido della All Iberian (cassaforte estera di casa Fininvest, alimentata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria) e in pochi minuti transitò sul conto svizzero Mercier di Previti e di lì al conto svizzero Rowena di Squillante. Un bonifico molto imbarazzante per Berlusconi, che di Squillante era amico (si telefonavano per gli auguri di Capodanno, Squillante lo inquisì e lo interrogò e poi lo prosciolse nel 1985 in un processo per antenne abusive, poi il Cavaliere tentò di nominarlo ministro della Giustizia e gli offrì pure un collegio sicuro al Senato). Tant’è che l’allora premier tentò di sbarazzarsi delle prove giunte per rogatoria dalla Svizzera (legge sulle rogatorie, 2001), poi del giudice Brambilla che lo stava giudicando in primo grado (trasferito nel gennaio 2002 dall’apposito ministro Castelli), poi direttamente del processo (lodo Maccanico-Schifani del 2003 sull’impunità per le alte cariche dello Stato). Fu tutto vano. Ottenuto lo stralcio che separava il suo processo da quello a carico dei coimputati, Berlusconi fu poi processato da un altro collegio e ritenuto colpevole per quel fatto. Ma si salvò per la prescrizione, grazie alla generosa concessione (per la settima volta) delle attenuanti generiche. Contro quel grazioso omaggio, la Procura ricorse in appello affinché, spogliato delle attenuanti, il Cavaliere fosse condannato. A quel punto l’imputato, tramite il suo onorevole avvocato Pecorella, varò una legge che aboliva i processi d’appello dopo i proscioglimenti di primo grado: per esempio, il suo. La legge fu bocciata da Ciampi in quanto incostituzionale. Lui allora prorogò la legislatura per farla riapprovare tale e quale. Poi la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale, e l’appello ripartì. Ieri s’è concluso con questa bella sentenza.

Insomma la condotta berlusconiana non somigliava proprio a quella di un imputato innocente. «Mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca», commentò efficacemente Daniele Luttazzi. Tant’è che ieri, alla notizia dell’assoluzione (per quanto dubitativa e ancora soggetta a un possibile annullamento in Cassazione), il più sorpreso era proprio lui, il Cavaliere. Era innocente o quasi, ma non lo sapeva. O forse non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi.

In attesa delle motivazioni, che si annunciano avvincenti, la questione è molto semplice. Cesare Previti è stato definitivamente condannato a 6 anni per aver corrotto un giudice, Vittorio Metta, in cambio della sentenza Imi-Sir del 1990 (tra l’altro, la sentenza che lo dichiara pure interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, è del 4 maggio 2006, ma a un anno di distanza l’onorevole pregiudicato interdetto è ancora deputato a spese nostre). Due mesi fa la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a un altro anno e 8 mesi per aver corrotto lo stesso giudice Metta in cambio della sentenza che, due mesi dopo di quella Imi-Sir, toglieva la Mondadori a De Benedetti per regalarla a Berlusconi (che, processato come mandante di quella mazzetta, è uscito da quel processo grazie alle attenuanti generiche e alla conseguente prescrizione). Restava da definire il ruolo di Berlusconi in quel versamento estero su estero a Squillante, risalente a un mese dopo la sentenza Mondadori: marzo 1991. Tre tangenti giudiziarie in 5 mesi, tra la fine del 1990 e l’inizio del ’91. Se Previti, com’è irrevocabilmente accertato, pagò Metta per conto della famiglia Rovelli per vincere la causa (altrimenti persa) dell’Imi-Sir; se Previti pagò Metta per conto di Berlusconi per vincere la causa (altrimenti persa) del lodo Mondadori; ecco, se è vero tutto questo, per conto di chi Previti pagava Squillante? E perché Squillante, nel 1988, al termine della causa Sme vinta da Berlusconi e Barilla e persa da De Benedetti, ricevette 100 milioni estero su estero tramite Previti e Pacifico da Barilla, cioè dal socio di Berlusconi che non conosceva né Pacifico, né Previti, né Squillante? Questi erano i termini della questione che ieri i giudici dovevano risolvere. Hanno stabilito che, per i 100 milioni di Barilla a Squillante, «il fatto non sussiste»: sarà stato un omaggio a un giudice che stava particolarmente simpatico al re della pasta (che però non lo conosceva). Quanto ai 500 milioni della Fininvest a Squillante, Previti avrà fatto tutto da solo. Pur non essendo coinvolto personalmente in alcun processo (all’epoca, almeno), pagava il capo dell’ufficio Istruzione di Roma con soldi di Berlusconi, ma all’insaputa di Berlusconi, che non gli ha mai chiesto conto dei suoi quattrini (ma adesso lo farà, oh se lo farà: andrà da Previti, presso la comunità di recupero per tossicodipendenti dove sta scontando la pena, lo prenderà per il bavero e lo strapazzerà a dovere, per avergli causato tanti guai con la giustizia). O almeno non c’è la prova, nemmeno logica, che Berlusconi lo sapesse. Squillante, quando gli telefonava per gli auguri di Capodanno o negoziava il suo seggio al Senato, non gli parlò mai di quei generosi bonifici in Svizzera. Che so, per ringraziarlo. Invece niente, nemmeno una parola gentile. Che ingrato.

«Codesto solo noi sappiamo quel che non siamo, quel che non vogliamo». I versi di Montale calzerebbero benissimo salvo il rispetto, alla penosa vicenda del Partito democratico, che doveva essere un inizio epocale ed è finora un interminabile diniego. In settimana, i congressi di scioglimento della Margherita e dei Ds diranno quel che non vogliono più essere, ma non è chiaro quel che sarà il nuovo partito che dovrebbe nascere in autunno. Lo vogliono «grande» e «riformista» senza ulteriori precisazioni. Fassino si duole che i giornali diano spazio alle battute, non sempre amichevoli, scambiate fra dirigenti - ma a che altro attaccarsi? Scalfari propone che anche i dirigenti si dissolvano, lasciando la parola a un paese che non sta scalpitando per prenderla. D'altro canto quale aggregazione esprimerebbe un'Italia che, come si legge sullo stesso giornale nelle analisi di Ilvo Diamanti, è un guazzabuglio di interessi che chiamar corporativi è già molto, e precisa d'Avanzo, incattivita da lunghi servaggi?

E' in questo silenzio che si cercano lumi nell'inventario dell'eredità del Novecento (quali padri mettere nel Pantheon e quali mandare alle discariche), cui questo o quel leader si dedica un giorno sì e uno no. L'ultima dei Ds è che mettono fuori Berlinguer e dentro Craxi: della loro storia non hanno nulla da salvare. La Margherita si tradisce meno, sia per virtù sia per reticenza. In confronto, Sdi e Udc brillano di chiarezza: il primo vuol rifare il Partito socialista italiano, raccogliendone i resti dovunque si trovino, il secondo si propone di fare lo stesso con l'ex Democrazia cristiana. Né Boselli, né Casini si attardano sui padri, non sia mai che si urti qualche suscettibilità. Boselli con il nuovo Psi raccoglie le bandiere laiche lasciate cadere dai Ds, Casini niente meno l'idea di un moderatismo cattolico che si scioglierebbe da Berlusconi - mentre il costituendo Partito democratico si ispirerebbe, secondo Veltroni che ne è un araldo, a Bill Clinton, senza radici dalle nostre parti.

Il convitato di pietra di tutta la storia, quello che è stato ucciso e si spera sepolto, è la radice socialista della sinistra. Il socialismo è stato declinato in molte maniere, ma un'idea forte aveva alla base, l' insopportabilità politica, alla luce della modernità, di un modo di vivere e di produrre inuguagliante e strumentale come quello capitalistico, non regolato se non dal mercato. Sul come rimediarvi, se per riforme o per rivoluzione, è stato l'oggetto del contendere fra socialisti e comunisti, ma che quel «sistema» fosse intollerabile, per l'illibertà sostanziale che esso comporta per la grandissima maggioranza degli uomini (tutti coloro che non detengono mezzi di produzione), era luogo comune. Ma a fine del secolo proprio quel sistema è diventato mondiale, governa non solo attraverso gli stati ma gli stati medesimi, e ha comportato una crescita di disuguaglianze in proporzione sconosciuta rispetto al Novecento. Già Debord diceva: mai l'ingiustizia è stata così enorme, e mai si è protestato di meno.

Questo è il «nuovo» di quella che si definisce sinistra modernizzata, della quale il Pd sarebbe il maggior esponente. Essa è rassegnata alla priorità dei capitali su ogni finalità politica, su ogni idea di società, su ogni altro diritto della persona o di un popolo. E' pentita di aver creduto e lottato per una società dove il capitale fosse abbattuto o addomesticato o quanto meno sottoposto a un controllo. E' questa rinuncia che si definisce modernizzazione, è la consegna al mercato come regolatore unico. «Tutto è cambiato», è la litania dei Ds, intenzionati a lasciare ogni aggettivazione non solo comunista ma «socialista» e «di sinistra». Ma con questo lascia anche la sua base sociale storica, quella dei lavoratori dipendenti, salariati, non solo operai e impiegati, ma le figure di quel che Gramsci chiamava «blocco storico della rivoluzione italiana», oggi i declinanti contadini e i crescenti addetti ai servizi e alla produzione immateriale, e gli intellettuali.

Quando ci si duole della crisi della politica sarebbe d'obbligo analizzare di chi e da quali masse avviene il distacco (si preferisce dire «dalla gente», «masse» e soprattutto «classe» essendo ormai termini innominabili). Eppure è agli ineguali interessi e ideali delle diverse fasce della popolazione che rispondono i partiti con i loro diversi programmi. Il Pci, e poi Pds e Ds si sono rivolti, a dire il vero con sempre minore determinazione, al lavoro e ai lavori diversamente dipendenti - sola forma di accesso al reddito e quindi alla possibilità di vivere - o alla forza di lavoro in formazione come i giovani e gli studenti. E mentre si erano battuti contro ogni tentativo di ridurne i diritti, prima di ogni altro all'occupazione e alla sua forza contrattuale, oggi considerano che essi debbono essere subordinati alla competitività dell'impresa, esponendoli al dumping che preme dalle zone dell'Europa e del mondo dove il lavoro è pagato di meno. E accettano che lo stato, e in genere la sfera politica, non possa più intervenire nella delocalizzazione delle imprese verso queste zone, lasciando indifesa la manodopera, braccia e cervelli che aveva conquistato maggiori diritti e compensazioni nelle zone socialmente più avanzate. L'Italia è stata fino agli anni '80 fra queste. Dopo di allora, anche per il Pci, Pds e Ds il diritto al lavoro e i diritti del lavoro sono passati in secondo piano rispetto alla competitività dell'impresa, che significa produrre a migliore qualità e a minor prezzo -, in Italia praticamente a minor prezzo data la scarsa propensione delle nostre imprese a investire sulla qualità. Il declino dei grandi partiti di sinistra viene prima di tutto dalla perdita di fiducia dei lavoratori nella loro capacità e volontà di difenderli. E se si obietta che, data la globalizzazione, difenderle è impossibile, il risultato è il medesimo o getta nel disorientamento e nella disperazione.

Non è questa la sede per approfondire il discorso, basti segnalare che nessuno è così sciocco da non saperlo, che su questo è caduto il progetto di costituzione europea e che su questo il futuro Partito democratico tace anche per imbarazzo. Difficile infatti scorgere nelle scelte qualche cosa che lo distinguerebbe da un centro moderato. Inclusa la rinuncia a qualsiasi politica economica: in queste settimane sono passati sotto il naso del governo e di quasi tutta la sua opposizione due operazioni supermiliardarie compiute l'una dall'Eni e dall'Enel - nate e cresciute con i soldi pubblici - che si sono comprati pezzi della russa Yukos per conto della russa Gazprom, e l'altra dalla Telecom, che doveva finire in mani messicane e statunitensi, lasciando sul gobbo dello stato oltre 80 mila dipendenti, che si dovrà in qualche misura assistere. Il Pd non esistendo ancora non poteva dir parola, ma i suoi genitori, ancorché in atto di chiudere i battenti, hanno trovato che era bene così, che al mercato la politica non si può opporre. Sostanzialmente che non può più esserci una politica economica e sociale. Politica addio.

Ma intanto i capitali impazzano, hanno scoperto il modo di crescere comprando e rivendendo se stessi, giganteschi tulipani di Galbraith, humus di razzie da parte di predatori feroci quanto transitori. E esistono i lavoratori dipendenti, anche coloro che si credono autonomi ma dipendono dai marosi sollevati dalle proprietà cangianti. E accanto a loro c'è un quarto della popolazione costituita da disoccupati, lavoratori precari e esclusi dal mercato del lavoro, diventati nuovi poveri. Chi li rappresenterà? Soltanto il sindacato, oltre e malgrado il governo e le ex sinistre?

Si intende che uno come il segretario della Fiom, Rinaldini, spieghi che, lui nato nel Pci, al Pd non potrà aderire. Ma avrà una grossa forza politica alle spalle o no? Perché non è ancora affatto chiaro se le sinistre che si pongono alla sinistra del futuro Pd, sia che provengano dai Ds sia da tempo fuori, intendono assumersi il compito di una rappresentanza aggiornata del lavoro, cioè quanto meno l'orizzonte di un capitalismo regolato, che è proprio il minimo dei minimi. Nessuna di esse, singolarmente, può riuscire in questa impresa, che comporta un'analisi in profondità del presente, delle figure che assume il salariato diretto o indiretto in seguito alle tendenze dei capitali mondiali, incrociati con gli interessi della sola superpotenza ereditata dal '900, gli Usa, e delle nuove che emergono nel terzo millennio, prima di tutte la Cina. Nessuna di esse da sola, senza coinvolgere le altre e i sindacati e i movimenti in Europa, potrà avere un peso qualsiasi su scala mondiale.

Che cosa aspettano per darsi questo ordine del giorno? E che aspetta - se posso avanzare un'opinione del tutto personale - il manifesto a fare di questo tema l'asse della sua campagna attuale? Perché ad esso si collegano, in forme inedite e mai esaminate dal movimento operaio del secolo scorso, i nuovi bisogni e le nuove soggettività che sono venute emergendo dopo il 1968, anche se non sembrano accorgersene, e i movimenti no-global. Si tratta di ben altro che misurarsi con le polizie, terreno sempre arretrato e perdente, cui finisce con il rivolgersi la nostra attenzione più emotiva. Si tratta di fare i conti con la gigantesca espansione del liberismo che pareva essere stato spiazzato alla metà del secolo scorso, e proprio in Europa. Senza contare troppo sulle sue contraddizioni, le quali - come dice giustamente Wallerstein - più che a guerre commerciali non possono portare, rialimentandosene sempre sulla pelle dei popoli.

Molti propongono cantieri, e alcuni - come il compagno e amico Pierluigi Sullo - si dolgono che il nome inventato da Carta gli sia stato sottratto. Ma se vuol dire che ci si deve mettere al lavoro in tanti, non me ne lamenterei. Se si intende invece che è ancora da discutere che cosa vada costruito, se ci può essere o no, e se sia augurabile, una via d'uscita dalle forme attuali della globalizzazione, se ci sia e chi ne sia il soggetto dirompente, se il «lavoro» sia ancora da difendere o se, come mi è capitato di sentire in un'università, non interessa più a nessuno, se insomma ogni sigla dice di aprirsi ma in concreto difende il proprio giardino, ci meritiamo in anticipo l'egemonia del Partito democratico nascituro, cioè, ben che vada, una delle fasi più noiose della storia d'Italia.

Non sapevo che a metà degli Anni Settanta l'Italia fosse in guerra. So per certo che in quel tempo - sindaco di Torino - ogni giorno correvo da una parte all'altra della città dove era stato consumato un attentato, un omicidio, un gambizzato (terribile neologismo coniato proprio negli anni di piombo). Ora Piero Fassino, in riferimento al Caso Moro, ci dice a trent'anni di distanza, che "in tempo di guerra si tratta con il nemico". Dunque l'Italia era in guerra con le Brigate Rosse e affini? Cioè con un branco di esaltati assassini, per altro vigliacchi (cioè, privi di coraggio) perché era troppo facile uccidere un poliziotto, un avvocato, un giornalista sparandogli alle spalle. In nome di che cosa? Di una fantomatica rivoluzione proletaria di loro invenzione?

Non mi sorprende l'ultima sortita di Piero. Lo chiamo amichevolmente così perché ero presente il giorno del suo incontro con il segretario della Federazione Torinese del PCI, Adalberto Minucci, quando venne a ringraziarci perché avevamo partecipato noi comunisti al funerale di suo padre, stimato partigiano delle Formazioni Autonome. Quella nostra presenza lo aveva colpito. Fu in quell'occasione che Piero manifestò interesse per la politica e l'intenzione di aderire alla Federazione Giovanile.

In questi anni ci ha abituati a sorprendenti "folgorazioni". Nel suo libro "Per passione" ci fa sapere, attraverso una metafora del gioco degli scacchi, che Berlinguer ha preferito morire un minuto prima dello scacco matto onde evitare l'impatto con la crisi della sua strategia politica. Berlinguer aveva sbagliato tutto, Craxi aveva ragione.

Poi presentando il suo libro con Romiti ha detto che nell'Ottanta (35 giorni di sciopero, marcia dei 40 mila) tutto sommato la Fiat non aveva tutti i torti e che i sindacati (che avevano respinto i quindicimila licenziamenti) non avevano capito praticamente niente dei cambiamenti in atto. Adesso è la volta di Moro. Pazienza. Aspettiamo il prossimo ripensamento prima della nascita del Partito Democratico.

Ma se il comportamento di Piero è un po' stucchevole, con queste sue piroette tendenti ad una legittimazione, non si sa bene da parte di chi, leggere oggi sul "Corriere della Sera" ciò che ha dichiarato Pietro Ingrao, sempre sul Caso Moro mi ha riempito di amarezza. Cosa vuol dire: "si doveva trattare per liberare Moro", e che ciò "non avrebbe impedito di riprendere il giorno dopo la lotta al terrorismo"? Il giorno dopo avrebbe significato un altro rapimento e, dopo un'altra trattativa, un altro rapimento e così via. Pur rimanendo validi tutti gli interrogativi che Ingrao si pone sul Caso Moro, stare al gioco dei terroristi avrebbe voluto dire protrarre la "lunga notte" chissà per quanto tempo ancora, ringalluzzendo i fautori della lotta armata, creando attorno a loro non il vuoto (come è accaduto) ma un terreno fertile per il reclutamento. Questa vocazione della sinistra all'autoflagellazione, all'insegna di "abbiamo sbagliato tutto", che traspare anche dall'ultimo libro di Ingrao, non solo è preoccupante ma rattrista.

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Oggi il mondo (afferma la Fao, che non è un organismo antisistema) produce cibo ampiamente sufficiente a sfamare tutti i suoi abitanti. Ma, come noto, nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” quasi un miliardo di persone è gravemente sottonutrito, e ogni sei secondi un bambino muore di fame. Mentre in Occidente è una malattia sociale l’obesità da iperalimentazione.

La ricchezza continua ad aumentare in tutto il globo. La società attuale sarebbe in grado di sconfiggere la povertà. Ma circa metà della ricchezza prodotta viene accaparrata dal dieci per cento della popolazione, mentre un miliardo e mezzo di persone vivono con due dollari al giorno. L’impoverimento da anni è un fenomeno costante e diffuso anche tra i ceti medi e nei paesi più affluenti. Lo testimoniano tra gli altri Stiglitz, Fitoussi, Giddens, Lutwack, che non sono dei no global.

Le tecnologie oggi disponibili potrebbero consentire di produrre il necessario a una vita agiata per tutti, e anche una buona quota di superfluo, lavorando tutti un tempo limitato: la profezia di Keynes (tre ore al giorno, ricordate?) potrebbe avverarsi. Di fatto il mondo del lavoro contempla masse di disoccupati e di precari, masse di gente costretta a orari massacranti più straordinari imposti sotto ricatto, masse di sfruttati come ai tempi del più spietato protocapitalismo.

A questo modo si producono quantitativi enormi e crescenti di merci sempre più scadenti, che è sempre più difficile vendere, nonostante prezzi sempre più ridotti, e liquidazioni, saldi, rateazioni senza interessi, facilitazioni di ogni tipo: merci per la gran parte destinate in tempi brevissimi a finire in discarica. Possibile e forse vicina crisi da sovrapproduzione, dicono gli esperti. Incontenibile bulimia di un capitalismo avviato a una seria crisi sistemica, dicono le teste più lucide dell’economia critica, Gorz, Wallerstein, Chomsky, Shiva, Bello, ecc.

La gravissima crisi ecologica che va mettendo a serio rischio il futuro della specie umana è diretta conseguenza del sistema economico oggi dovunque attivo, affermano concordemente gli scienziati di tutto il mondo. E’ conseguenza cioè di un modo di produzione distribuzione e consumo, del quale è obiettivo primo la crescita illimitata: in contraddizione insanabile con i limiti dello spazio in cui opera, cioè il Pianeta Terra.

Non sto dicendo cose nuove. Sono cose che però di rado mi pare vengano adeguatamente considerate, soprattutto nel loro “tenersi” reciproco, nel quadro complessivo di una realtà evidentemente incapace di quella soluzione di tutti i problemi che le destre promettono, e che anche parte non piccola delle sinistre continua a ritenere possibile battendo le strade di sempre. Per “affrontare le sfide imposte dalla crisi del neoliberismo”, come l’invito al “Dibattito” propone, credo innanzitutto si debba tener presente che il mondo in cui il “cantiere” si troverà a lavorare è proprio il mondo tutto intero, dove politiche locali e politiche globali si orientano e vincolano a vicenda, in una inevitabile reciprocità di determinazione. Credo cioè necessaria una cognizione piena della crisi attuale, per tanti versi non comparabile a nessuna crisi del passato, e insieme la coraggiosa consapevolezza del nostro vivere in una situazione estrema, che solo una netta discontinuità storica, una nuova razionalità economica e politica, possono impegnarsi a superare.

E dunque temo che non solo manchino le risposte, ma che si debbano ancora porre molte domande. Mi limito a suggerirne due. La prima riguarda quella sorta di inversione di marcia imboccata da qualche decennio dal sistema economico dovunque operante: perché il capitalismo che per più di un secolo, sia pure tra sfruttamenti e iniquità, è andato oggettivamente migliorando le condizioni delle classi lavoratrici dei paesi industrializzati, oggi crea insicurezza, impoverimento, più pesanti disuguaglianze? Che cosa è cambiato per cui fino a ieri un padre poteva sperare per i suoi figli una vita migliore, e oggi accade l’opposto? Forse a questo proposito le sinistre dovrebbero rileggere criticamente la propria storia, e chiedersi se strumenti in passato utili, spesso anzi portatori di grandi vittorie, possano risultare ancora efficaci; e dunque che cosa significhi oggi lo “sviluppo” ancora tenacemente perseguito.

La seconda domanda muove in realtà da una diversa motivazione della prima. Ci siamo resi conto che i meccanismi dell’ accumulazione capitalistica, quelli che a lungo hanno migliorato vita e speranze di tanti (ma ora non più), sono gli stessi che duramente vanno dissestando gli equilibri naturali, seminando morte (soprattutto tra i più poveri, ciò che alle sinistre non dovrebbe essere indifferente), e moltiplicando crisi disastrose e forse irreparabili? E più che mai, anche in questa prospettiva, tra le sinistre dovrebbe premere il dubbio sull’utilità di una politica ancora imperniata su sviluppo e modernizzazione, e insieme imporsi un severo ripensamento della propria tradizionale politica (non-politica?) ambientale.

Sarebbe assurdo pretendere dal “cantiere” risposte pronte e men che mai definitive a domande come queste, che riguardano il mondo. A cui però non si sottraggono i problemi interni di ogni paese. E dunque tenerle presenti, in ogni momento dell’agire politico, è oggi dovuto. Perché, come dice Etienne Balibar (il manifesto 28 marzo) oggi non esiste politica utile che non sia mondiale, e ogni scelta politica locale, in qualsiasi materia , “implica una scelta ‘cosmopolitica’ e viceversa”.

Sembra averlo capito molto bene Sandro Curzi quando parla (27 marzo) dei “mali diffusi e profondi di questo sistema di sviluppo, sia nella sua versione globale sia in quella domestica”; e quando coglie la valenza rivoluzionaria del problema ambiente. Ma perché il suo intervento non sta dentro il “Dibattito”?

L´ordine venne impartito quasi in sordina, in calce alle direttive che il Gran Consiglio del fascismo emanò nella sua riunione del 9 marzo 1937, indetta per «potenziare sempre più la coscienza imperiale della Nazione». In una dozzina di parole si disponeva che «tutti i dipendenti delle Amministrazioni dello Stato» fossero «iscritti nelle Associazioni fasciste», delle quali nello stesso comunicato si sintetizzava la potenza numerica. Tra Fasci di combattimento, Fasci giovanili e femminili, Gruppi Universitari Fascisti e vari organismi collaterali il partito poteva contare, in quell´anno XV dell´Era littoria, su oltre nove milioni - per la precisione 9.251.989 - di militanti «inquadrati» con regolare tessera.

Fuori del lusinghiero calcolo restavano, fino a quella mattina di settant´anni fa, solo i «ministeriali». Una categoria che si riteneva attardata su residue posizioni liberali o tutt´al più «opportunistiche», legata a inattuali riti pantofolai: assai più romanesca (si deplorava) che romana imperiale. L´esemplare tipico della specie era appunto quel burocrate di genere eticamente «profano», quell´individuo appartenente al «limbo», che - secondo lo scrittore Emilio Radius, autore nel 1964 di un saggio sugli Usi e costumi dell´uomo fascista - veniva trattato dagli squadristi o dai camerati di antico fusto «come i soldati trattano in caserma i borghesi». Il modo di registrarne la presenza quando qualcuno di loro s´affacciava nei corridoi di un Gruppo Rionale - «c´è qui un borghese» - era già una denuncia. In linguaggio littorio significava: «Eccolo lì, è un non iscritto al partito».

Ora l´anomalia, già da tempo oggetto di segnalazioni e parziali «reprimende», è ufficialmente sanata. Si sa che la gran massa dei tesserati è in realtà estranea all´attività e alla vita fascista. Ma l´inclusione dei ministeriali nei ranghi conta in quanto lezione. Il renitente borghese (è ancora Radius a descriverlo) mette piede «nelle case del fascio come un cristiano entra in una moschea». Dopo una breve attesa viene interrogato con drastica petulanza attraverso una serie di moduli. I questionari indagano sulla sua biografia: «Gradi rivestiti nell´esercito? Campagne compiute? Decorazioni guadagnate? Detenzione di armi, e quali?». Spesso il compilatore dello stampato è pacifico, inerme e tendenzialmente apolitico, e non se la sente di negarlo. Il suo arruolamento, comunque, risponde all´esigenza di «ripulire gli angolini», scovando i potenziali fascisti «deboli» o addirittura «ex democratici». Non sarà mai possibile trasformarli in una falange di arditi; ma essi faranno numero, contribuendo all´espansione di tre elementi cari alla liturgia nazionale: distintivo, camicia nera, saluto romano.

Il primo membro della triade - il distintivo - potrà essere assunto, quando se ne faccia un uso negligente, in funzione disciplinare. Nell´ottobre del ‘41, quattro anni dopo il reclutamento coatto dei «ministeriali», la rivista Gerarchia segnalava con severità: «E´ ora di sfatare la leggenda che taluni fascisti, non portando il distintivo del Partito all´occhiello, compiano un atto di indisciplina o di semplice menefreghismo. Compiono invece un atto di vera e mera viltà, inquantoché nel contempo non rinunciano, e non rinuncerebbero per la pelle, al possesso della tessera che loro serve egregiamente per il posto, per la tranquillità e per ogni opportunissima evenienza». Ed ecco che la segnalazione del malcostume diventa minaccia e sarcasmo. Si ironizza ruvidamente sul fattore-disattenzione. «Quanta brava gente perde involontariamente il suo distintivo! Bisognerà che i sarti si decidano a ridurre le misure delle asole nei risvolti delle giacche. Con queste asole di grosso calibro i distratti vanno incontro a un´infinità di seccature».

Principale sinonimo di distintivo diventò un termine di successo: la cimice. Lo scrittore Alfredo Panzini era stato il primo a registrarne l´uso come «espressione di dileggio con cui i nemici del regime indicano l´emblema fascista che si porta all´occhiello», segnalando che dopo essere stato di forma ovoidale fino al 1926, il distintivo - o cimice - era diventato quadrangolare. In Romagna, segnalava Panzini, si preferiva designarlo con un nomignolo a sua volta sgradevole: «bagherozzo». Più tardi Vitaliano Brancati avrebbe così descritta l´adozione del distintivo da parte di un suo personaggio memorabile, l´impiegato comunale Aldo Piscitello, protagonista del racconto Il vecchio con gli stivali ed emblema dell´italiano piccolo-borghese degli anni Trenta, fascista per necessità alimentare e per estenuazione psicologica: «Sulla sua giacca nera s´era posato come un maggiolino il distintivo col fascio, ed egli di tanto in tanto lo guardava torcendo gli occhi all´ingiù».

Accanto al distintivo principale, che connotava l´iscrizione al Fascio, ne nascevano altri "d´occasione", celebrativi di singole imprese del Regime. Al punto da indurre nel 1930 Giuseppe Bottai, allora ministro delle Corporazioni, ad opporre un suo "no" all´istituzione di un nuovo distintivo in onore dei fascisti feriti negli scontri "squadristici". Al ministro la trovata parve inopportuna. «I fascisti feriti» fece rilevare «sono in numero irrilevante dopo dieci anni!».

E tuttavia la produzione di distintivi non si arrestò. Essi adornavano non solo le giacche ma anche i copricapi che gli atelier governativi andavano inventando e perfezionando senza sosta. In un suo saggio Antonio Spinosa ricorda una vibrante pagina che Piero Calamandrei dedicò a un negozio di capelli ubicato a Roma in corso Umberto: «Una sua vetrina tutta addobbata in nero», raccontava il giurista, mostrava «una ventina e più di cappelli di parata» di cui alcuni erano «grigi, ma i più neri: e su quel nero spiccavano, come coltri funeree, argenti ed ori di galloni e distintivi. Alla base di ogni piolo un cartellino bianco indicava il grado del gerarca al quale era destinato il copricapo fornito di quello speciale distintivo: «segretario generale», «segretario federale», «ministro», «segretario del partito»; col salire delle gerarchie crescevano i luccichii delle lasagne». Al centro della vetrina «una specie di gigantesco tegame» dominava «tra i tegamini satelliti», con in cima un fierissimo uccellone d´oro. E il suo cartello spiegava: DUCE. I passanti guardavano dentro la vetrina in silenzio: e non osavano guardarsi fra loro».

Potevano sottrarsi all´adozione della cimice (bagherozzo, maggiolino o tegamino che fosse) soltanto i possidenti. I quali, in qualche caso specialissimo, formulavano efficaci obiezioni al regime che quegli emblemi imponeva: nel Piccolo Dizionario borghese che lo stesso Brancati pubblicava, insieme a Leo Longanesi, sul settimanale Omnibus, sotto la voce dedicata a Benedetto Croce si leggeva: «Può farlo perché è ricco».

I non benestanti, se in cuor loro avversi all´ideologia ufficiale, venivano dilaniati dal doppio binario sul quale doveva adagiarsi la loro coscienza. Lo storico del medioevo Ernesto Sestan (1898-1986) racconterà più tardi che cosa aveva rappresentato per lui il dover diventare ufficialmente fascista, quando l´obbligo della tessera, già imposto nel 1931 ai docenti universitari di ruolo, venne esteso anche a coloro che volevano diventarlo, figurando fra i requisiti determinanti per partecipare ai concorsi. Allievo di Gaetano Salvemini e di Gioacchino Volpe, collega ed amico di un altro storico di grande avvenire, Federico Chabod, Sestan dedica alla costrizione, cui soggiacque, accenni molto dolorosi nelle sue Memorie di un uomo senza qualità: l´evento, ricorda, «ha inciso in me molto nel profondo e mi lascerà dell´amaro finché vivrò». E subito dopo racconta: «Se ne discusse non so quante serate con Chabod, resi perplessi, angustiati, indecisi. Né lui né io si era sinceramente fascisti: avevamo accettato passivamente il fascismo, perché era il governo che ci governava e ci dava da vivere, e rispetto al quale non si professava nessuna, nemmeno lontanissima alternativa».

La gente semplice associava l´esistenza di molti organismi "di supporto" inventati dal regime alle più umili necessità quotidiane dei cittadini. Per fare un esempio: appena fondato, l´Istituto di Mistica fascista subì a livello popolare una modifica della sua ragione sociale: la parola mistica diventava «mastica». Istituto di mastica fascista. Un motto che può far sorridere. Ma gronda anche desolazione, rinunzia civile.

A giudicare dalla stampa slovena e croata che arriva a Trieste, i discorsi pronunciati in Italia per la «Giornata del ricordo», da quello del Capo dello Stato agli altri in centinaia di località, hanno destato interesse ma anche preoccupazione negli ambienti politici e nella popolazione della Slovenia e della Croazia, soprattutto in Istria. In questa regione, teatro degli eventi ricordati per le foibe e l'esodo, proprio in questi primi giorni di febbraio le associazioni della Resistenza e le famiglie delle vittime delle stragi fasciste e naziste, hanno commemorato le vittime di alcune stragi compiute nel febbraio 1944 dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti repubblichini italiani al loro servizio - militanti nella X Mas, nella Milizia Territoriale, nei reparti armati del Partito Fascista Repubblicano e in altre formazioni.

La «Giornata del Ricordo» del 10 febbraio, coincide dunque con anniversari altrettanto tragici e tristi per le popolazioni italiane, slovene e croate dell'Istria che, dopo una breve parentesi «partigiana» (dal 9 settembre ai primissimi giorni di ottobre 1943) conobbero l'occupazione nazista, l'annessione all'«Adriatische Kunstenland» tedesco e - soprattutto nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1943 - un'interminabile serie di massacri di civili, di incendi di villaggi e di deportazioni. Con l'aiuto dei fascisti italiani i tedeschi diedero la caccia agli «infoibatori», ai combattenti della Resistenza, ai cosiddetti «badogliani» e a tutti coloro che gli si opponevano, massacrando nel giro di pochi mesi oltre 5.000 civili italiani e slavi e deportandone 12.000 nella sola Istria. Un'altra ondata di stragi e di distruzioni si ebbe nel febbraio-marzo-aprile 1944, sempre con la complicità e il sostegno dei fascisti italiani. Quello che la stampa slovena e croata rimprovera agli uomini politici italiani è il fatto che «la memoria italiana è una memoria selezionata»: è giusto rievocare le tragedie delle foibe e dell'esodo, ma perché - si chiedono il Novi List di Fiume, il Vjesnik di Zagabria, la Slobodna Dalmacija di Spalato, il Delo di Lubiana ed altri - non si ricordano i venti anni di persecuzioni fasciste contro gli slavi in Istria e le stragi in Montenegro, Dalmazia e Slovenia sotto l'occupazione dell'esercito italiano dall'aprile 1941 all'8 settembre 1945? Perché non si ricordano le vendette compiute «dopo le foibe del settembre 1943», nel litorale adriatico?

Il pubblicista e storico zagabrese Darko Dukovski, intervistato dal Novi List ha duramente condannato i «crimini della rivoluzione» riconoscendo che «la storia delle foibe è strettamente collegata alla storia dell'esodo degli italiani dall'Istria e da Fiume», aggiungendo che «una delle conseguenze delle foibe fu l'esodo e, quindi, lo stravolgimento della fisionomia etnica dei territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia col trattato di pace. Il che non significa, però, che fascisti e non fascisti furono gettati nelle foibe per stravolgere la fisionomia etnica della regione». Anche perché, sloveni e croati che pure finirono nelle foibe furono dieci volte più numerosi degli italiani. «Si offende la verità - continua lo storico - quando da parte italiana, oggi, si parla di genocidio e di pulizia etnica. Si tratta del tentativo di falsificare la verità storica, di presentare il movimento resistenziale croato e sloveno come criminale». Dukovski cita - senza però relativa data - un documento fascista: il tenente della Mvsn Domenico Motta che in una relazione segreta alla questura di Pola affermò che gli insorti istriani, nella prima metà di settembre 1943 avevano «liquidato» per lo più segretari del Fascio, podestà ed altri gerarchi insieme a innocenti vittime di vendette personali. E Conclude il suo intervento (due paginoni del quotidiano) difendendo le posizioni del presidente croato Stjepan Mesic. Affermando che «la vendetta delle foibe posta in atto dagli insorti-partigiani istriani» nel settembre 1943 ma anche nell'immediato dopoguerra, «non giustifica i crimini: le foibe restano un crimine ingiustificabile»; infine afferma che, «le ricerche devono continuare e bisognerà continuare a trattare questa tematica ma con obiettività, restituendola agli storici; purtroppo - sono certo che la verità e l'obiettività continueranno ad essere calpestate dai politici fino a quando le foibe e l'esodo serviranno a raccogliere consensi politici e voti. Il crimine non può essere dimenticato, deve essere ammonimento alle future generazioni, ma bisogna ricordare i crimini compiuti da ambo le parti».

Più o meno questa è la posizione degli osservatori croati e sloveni: sarebbe ora che i responsabili politici in Croazia e Slovenia riconoscessero apertamente, pubblicamente, le stragi compiute in Istria nel settembre 1943, a Zara e Fiume, a Trieste e Gorizia e dintorni nell'immediato dopoguerra da parte delle truppe jugoslave; non si deve però parlare di odio anti-italiano, perché migliaia di soldati italiani furono aiutati dai partigiani e civili croati e sloveni a salvarsi dai tedeschi. Gli eccidi che portarono alla morte o alla scomparsa si circa diecimila fascisti e non fascisti furono crimini e basta, non prodotto di odio anti-italiano. Al tempo stesso sloveni e croati chiedono che anche da parte italiana, e al più alto livello, ufficialmente, vengano riconosciute e condannate le stragi compiute dai fascisti e dall'esercito italiano in Montenegro, Dalmazia, Croazia e Slovenia dall'aprile 1941 all'inizio di settembre 1943, e le stragi dei repubblichini al servizio dei nazisti dall'ottobre 1943 a fine aprile 1945 sul «Litorale Adriatico». Solo così si potrà costruire una memoria condivisa.

Una cronaca in presa diretta di avvenimenti storici avvolti in un dramma. Lo sfondo è insolito. Il tempo è quel decennio che va dall’ottobre del 1935 - data d’inizio dell’ultima conquista africana dell’Italia, che si concluse l’anno dopo, in maggio, con la proclamazione dell’Impero - alla metà del decennio successivo. Il punto di vista della narrazione è quello dei vinti. Il libro s’intitola Memorie di una principessa etiope (Neri Pozza, pagg. 256, euro 16,50, con prefazione di Angelo Del Boca) e lo firma Martha Nasibù, figlia di un aristocratico etiopico, Nasibù Zamanuel, braccio destro e fedele consigliere dell’imperatore Hailè Sellassiè, ex «degiac», cioè sindaco, di Addis Abeba e, durante la guerra, comandante dell’«armata Sud» del suo paese. Una lettura interessante, come testimonia il fatto che, in breve tempo, quest’autobiografia (che viene oggi presentata a Roma, alle 17,30, nella sala della Protomoteca in Campidoglio) è già arrivata alla seconda edizione.

Nel lungo esordio del suo libro l’autrice, classe 1931, riferisce episodi che non poté vivere in maniera cosciente, perché troppo piccola, e infatti informa il lettore di essersi documentata con l’aiuto di sua madre. Il paesaggio, l’ambiente, i personaggi si sciolgono in una sorta di mimesi dell’infanzia. Ne risulta un quadro estatico, popolato dall’aristocrazia etiopica degli anni Trenta: i palazzi nei quali essa viveva, il sentore di privilegio che ne accompagnava atti, modi, linguaggio, frequentazioni. Di queste realtà, noi italiani non avevamo affatto sentore. Quelli che all’epoca già leggevano qualche giornale, vedevano il Negus effigiato come un vecchietto che avanzava a piedi nudi nel deserto portando per la cavezza un cammello, con un piccolo seguito di diseredati armati tutt’al più di lance. Figure da presepio. Erano queste le immagini che la propaganda fascista riservava al nemico, proprio per rafforzare l’ipotesi che l’Italia fosse accorsa in quelle contrade per liberarle dalla barbarie.

Qui, invece, le figure «di vertice» del mondo etiopico riacquistano l’originaria dignità storica. Le circonda un popolo animato da quella millenaria religiosità copto-ortodossa, che ne fa un’enclave cristiana nel cuore dell’Africa. Gente orgogliosa delle proprie attitudini guerriere, devota all’Imperatore.

Culturalmente progressista all’interno di un mondo feudale, ras Nasibù è insieme il dio e l’eroe di un simile Olimpo. Lo affianca la sua seconda moglie (madre di Martha e dei suoi quattro fratelli): giovane, bella, poliglotta, è la figlia di un aristocratico russo, diventato etiopico per elezione. La sontuosità ariosa del ghebì, cioè della dimora principesca dove Martha è nata e vive, gli ottanta servitori, le istitutrici che addestrano i bambini, i giardini nei quali essi scorrazzano: voci, profumi, cerimonie, giochi, aneddoti, figure statuarie che s’intravedono fra i visitatori del capo-famiglia: ecco gli scorci di questo contesto «prodigioso» (così lo definisce Del Boca). Nel tessuto di quel mondo a noi noto, all’epoca, attraverso un’ottica in buona sostanza denigratoria, s’intrecciano dei fili che fanno capo anche all’Italia e ai suoi remoti deliri imperiali.

A un certo punto, ecco che la fiaba interpretata dalla piccola Martha si tramuta in elegia. È scoppiata la guerra, uno dei più tremendi conflitti coloniali del secolo. Il generale Nasibù è un pilastro nella difesa dell’Impero. Difesa resa vana dalla disparità delle forze in campo oltre che dall’impiego di strumenti di guerra, come i gas, che le convenzioni internazionali proibiscono. L’Etiopia è sola. L’Europa le volta le spalle. Le sanzioni contro l’Italia, decretate dalla Società delle Nazioni, sono una farsa. I familiari del ras, moglie e cinque figli, si rifugiano in una piantagione di proprietà del nonno russo-etiope, e lì arrivano dal capofamiglia notizie frammentarie. Echi d’un eroismo vano. Da ultimo, giungono le voci che parlano di un’Addis Abeba nella quale i «ferenj» - cioè gli stranieri bianchi - marciano al seguito del loro condottiero Pietro Badoglio «con enormi scarponi chiodati ai piedi, facendo un grande rumore, cantando a squarciagola inni di vittoria e urlando: Duce! Duce!».

I ghebì del Negus e quello del suo braccio destro vengono assaliti e saccheggiati. Le strade si colmano di cadaveri. Il papà dell’autrice, costretto alla ritirata, ripara in Europa insieme all’Imperatore, di cui fiancheggia gli ultimi tentativi per alleviare i tormenti inflitti al suo popolo; poi muore a Davos, in Svizzera, a quarantadue anni, per i postumi dell’aggressione chimica dei gas. Un figlio che egli ha avuto dal primo matrimonio, Keflè Nasibù, cadetto della scuola militare di Olettà, è stato fucilato per ordine del generale Rodolfo Graziani.

Si apre per Martha e per i suoi un lungo periodo di esilio. Trasferimenti insensati, in Italia e fuori, che obbediscono a volte a logiche interne al regime fascista, per il quale la famiglia del capo etiopico rappresenta un nemico, benché sconfitto, da tenere a bada e dal quale (assurdamente) si può temere qualche iniziativa di rivincita. Prima un soggiorno a Napoli, dove Martha, fra i suoi compagni di giochi nella villa Comunale accanto al mare, conosce Francesco Tortora Brayda, che sarà assai più tardi suo marito. Poi trasferte a Rodi, per due volte a Tripoli dove la famiglia scampa alla morte in una delle periodiche «punizioni dei vinti», predisposte da Graziani. E ancora Napoli, Firenze, le Dolomiti. Non si contano le peripezie affrontate dai familiari di quel Ras che era stato potente.

Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel giugno del ‘40, il destino di questi aristocratici africani è di nuovo stravolto. Si vedono coinvolti in eventi bellici che non dovrebbero riguardarli. Ma nel maggio del ‘41, il Negus Hailé Selassié ritorna sul trono, recuperando il titolo d’Imperatore che gli era stato sottratto e che il fascismo aveva regalato a re Vittorio Emanuele III. Ecco che allora lo «stato civile» dei Nasibù diventa surreale. In quanto cittadini d’un paese tornato sovrano, non possono più considerarsi prigionieri della potenza ex-occupante. Restano esuli, ma perché? Lucrano un magro sussidio, che l’intervento di qualche amico italiano vale un po’ a rimpolpare. Così vanno avanti.

Ben presto è di scena la disfatta dell’Italia. Percosse dai bombardamenti anglo-americani, le città si sfollano. Piccoli villaggi si gremiscono di profughi: gli «sfollati», appunto. La penisola è percorsa da eserciti stranieri che vi si combattono fra mille atrocità. Una potenza che s’era dipinta come imperiale assume i colori patetici della sconfitta. Il razzismo - che pure, a tratti, durante l’esilio, ha angustiato l’autrice e i suoi familiari, ma che sempre è stato attraversato da oasi di tolleranza - si attenua. La razza dominante, se pure c’è, non è ormai più quella italiana.

La famiglia Nasibù torna in Addis Abeba. Ma la diaspora è cosa compiuta per sempre. Martha sposa prima un funzionario del ministero degli esteri etiopico, Immirù Zelleke, parente dell’Imperatore, e si stabilisce successivamente in vari paesi d’Europa. Poi, nel ‘64, si unisce in matrimonio (come abbiamo visto) con il marchese Francesco Tortora Brayda di Belvedere, «quel bambino», sono sue parole, «con cui avevo giocato nel parco della villa comunale di Napoli» e con il quale «ci eravamo incontrati per caso durante una mia permanenza a Zurigo».

Questa, però, è un’altra storia, che si prolunga nell’oggi. Lontana dagli splendori, dai bagliori e dalle ingiustizie d’un secolo terribile.

Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Paolo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di Ankober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.

Si tratta di un’immensa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani combattenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.

Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plotone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, impiegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tuttavia, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per eliminare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italiani, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.

L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etiopia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stragi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale distruzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo della presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le operazioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerriglia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruente. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.

L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, come la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal governo imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facendo riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.

Tuttavia, i morti etiopici accertati non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fascista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campagne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della morte di 500mila africani.

L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».

In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di istituire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della nostra iniziativa.

La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo – e unico – capo del governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la colpa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tutti i costi.

Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.

Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e 1’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva.

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegiare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.

È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà. C’è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Eh, lo so anche io, ci sono… Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perchè questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…

Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…

E quando io leggo nell’art. 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell’art. 11: «L’Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie… ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!

O quando io leggo nell’art. 8:«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour!

O quando io leggo nell’art. 5: «La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo!

O quando nell’art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!

E quando leggo nell’art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani…

Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove fuorno impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.

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