Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni. Berlusconi invece non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico, cui nessuno per trent'anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo: è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc); è il figlio naturale dell'incapacità dimostrata nella politica in questo paese di rappresentare gli «interessi generali» e non quelli, inevitabilmente affaristici, anche quando non personalmente lucrativi, di piccoli gruppi autoreferenziali, che pensano solo a se stessi.
Berlusconi, dunque, prima che essere fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione: rappresenta fedelmente la decadenza crescente del pianeta Italia; per forza di cose non sa che governare attraverso la corruzione: la diffonde spontaneamente intorno a sé; crea un vergognoso sistema giuridico per difendersi quando sia stato colto in passato con le mani nel sacco e per continuare a farlo impunemente; modella l'Italia secondo il suo sistema di valori e, man mano che l'Italia degrada, ne viene alimentato.
In un articolo apparso sul Corriere della sera (13 luglio), come al solito intelligente ed acuto, Ernesto Galli della Loggia se la prende con il «moralismo in un paese solo», che sarebbe il nostro e che consisterebbe nel pensare che «L'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino». L'accusa di moralismo astratto e vaniloquente - Galli della Loggia con la sua intelligenza dovrebbe ammetterlo - sarebbe molto meno pungente se la situazione italiana fosse quella da lui descritta. Insomma, il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani). Però alla lunga può diventare ancor più fastidioso che i critici del moralismo non ci dicano se al centro del problema non ci sia la corruzione dominante, e insieme con questa il suo principale rappresentante e beneficiario.
Per corruzione non intendo soltanto, e neanche principalmente, l'appropriazione indebita di denaro pubblico e privato e il culto quasi parossistico del proprio interesse personale: ma la degenerazione del sistema dentro cui il gioco politico, sempre più solo formalmente, continua a svilupparsi: il malcelato disprezzo della Carta costituzionale; l'evidente estraneità alle «forme» (cioè alla «sostanza») della democrazia; la denegazione crescente della separazione dei poteri; l'incapacità dei politici - tutti - di sottrarsi al gioco mortale della pura autoriproduzione; la tendenza in atto a sottomettere tutto a un potere unico. E accanto a questo, la pulsione - per usare una vecchia ma non del tutto inadeguata terminologia - a connotare in senso sempre più ferocemente classista i valori cosiddetti condivisi della morale pubblica e le scelte di politica economica.
È altresì evidente, come giustamente osserva Galli della Loggia, che vedere le cose in questo modo significa mettere all'ordine del giorno anche una riflessione sullo stato attuale della «democrazia rappresentativa» in Italia. Se infatti è per il voto degli elettori italiani che questo scempio può continuare ad ingrandirsi, questo non ci autorizzerà a buttare a mare per intero il sistema ma neanche a giustificare o ignorare lo scempio perché è il voto popolare, fatto in sé astrattamente positivo, a convalidarlo e produrlo. Se, ripeto, le cose stanno così, è evidente che c'è qualcosa (parecchio?) da cambiare o da aggiustare.
Arrivo a una prima conclusione. Io mi sentirei di dire che questo è uno dei momenti della storia italiana in cui «questione sociale» e «questione nazionale» fittamente s'intrecciano, fino a costituire un unico «nodo di problemi» da affrontare insieme. Questo vuol dire che il bisogno di «unità», per quanto tormentato e difficile, è altissimo. Uno degli errori strategici più gravi che si siano commessi nel corso dell'ultimo ventennio è l'essere andati separati - riformisti e radicali - alle ultime elezioni: gli uni, vantandosene come della scoperta del secolo; gli altri, consentendovi con pallida e autolesionistica tracotanza.
Per affrontare questo «nodo di problemi» è fin troppo evidente che le forze politiche dell'attuale opposizione risultano inadeguate. Perché la difficoltà attuale sia superata bisognerebbe che tutte le forze interessate, sia pure da angoli visuali diversi, guardassero fin d'ora a questo traguardo: sto parlando dunque di un processo, non di un arrangiamento fra capi e capetti.
Del Pd non saprei che dire se non che dovrebbe imparare presto a far bene il suo mestiere, che sarebbe quello, se non erro, di un partito moderato che guarda a sinistra (perché se decidesse, da partito moderato, di guardare a destra, il berlusconismo oggi tanto deprecato ci apparirebbe solo una tappa verso precipizi ancora peggiori). Sulla sinistra, che c'è e non c'è, e che in mancanza di altro si dilania, mi sentirei di fare alcune considerazioni di massima.
Il recente congresso di Rifondazione comunista ha avuto il merito di separare più nettamente che in passato i «comunisti» da tutti gli altri. I «comunisti» - per carità, bravissimi compagni, con cui non sarà impossibile mantenere rapporti - vanno per una loro strada, che non porta da nessuna parte. E gli altri? Gli altri dovrebbero porre alla base del loro futuro quel profondo ragionamento critico e autocritico, che finora è mancato e che lo stesso Bertinotti, se si escludono gli ultimi, disperatissimi mesi pre-elettorali, ha accuratamente evitato di affrontare. La cosa riguarda nello stesso modo l'intera galassia di quella parte della realtà politica italiana (che esiste, e come), la quale non s'adatta né alla formula corruttiva berlusconiana né all'opposizione moderata del Pd né alle risposte, piene di pathos, ma programmaticamente e ideologicamente assai deboli del dipietrismo (e di altri fenomeni analoghi ma deteriori).
Se mai ci sarà una Costituente di sinistra (come io mi auguro), mi piacerebbe che i suoi promotori tenessero conto che esistono tre comparti di problemi, uno programmatico, uno strategico e l'altro organizzativo, con cui - quali che siano le soluzioni da proporre - non si dovrebbe evitare di confrontarsi.
Il comparto programmatico è di gran lunga il più importante, ma qui posso evocarne solo il principio ispirativo. Se non si è comunisti, si è riformisti: bisogna accettare l'inevitabilità di questo décalage storico. Ma ci sono molte forme di riformismo: e ciò che le distingue è il programma (di cui non c'è traccia alcuna nei recenti dibattiti, anche quelli congressuali!).
Quella cui io penso è una forma molto radicale di riformismo, che preme su tutti i gangli della vita sociale, va più in là, s'occupa in modo più generale della «vita», delle collettività ma anche di ognuno di noi individualmente inteso, e propone soluzioni che spostano i rapporti di forza. Il cambiamento è in atto da quando lo si inizia, non c'è bisogno di arrivare al risultato finale per conoscerne tutti gli effetti. Dal punto di vista strategico non si potrà fare a meno di comporre in un quadro unitario «questione sociale» e «questione ambientale».
La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la «questione sociale» contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde».
Infine: se qualcuno pensa che la crisi della sinistra si risolva creando un nuovo piccolo partito dei frantumi dei vecchi, farebbe bene a cambiare opinione il più presto possibile. Ciò a cui sembra opportuno pensare è un vasto e persino eterogeneo movimento di forze reali, che sta dentro e fuori i vecchi partiti e per il quale vale la parola d'ordine che l'unica organizzazione possibile è l'autorganizzazione: una rete di istanze e rappresentanze diverse, collegate strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa.
Certo, perché il discorso funzioni è necessario ammettere che tutte le volte in cui in Italia si riaffaccia una «questione morale» - cioè, come ho cercato di spiegare, un problema di degrado e di corruzione della vita pubblica e della democrazia - torna ad affiancarlesi l'ancora più stantia e veramente obsoleta parola d'ordine di una «rivoluzione intellettuale e morale». È questo cui pensiamo quando diciamo che la lotta al berlusconismo è al tempo stesso «questione sociale» e «questione nazionale»? Siamo retro al punto di rispondere tranquillamente di sì a questa domanda. In fondo tutto si riduce a questa semplicissima prospettiva: cambiare i tempi, i modi, le forme, i valori, i protagonisti dell'agire politico in Italia. Il resto verrà da sé.
Parole, gesti, mimica berlusconiani sono materiale clinico. Vedi come reagisce nella Ville Lumière, dove autorità e popolo commemorano il 219° anniversario della Bastiglia espugnata.
Quando gli comunicano l’arresto d’O. D. T., già sindacalista Psi, ora Pd, e alcune persone più o meno limpide al vertice della Regione Abruzzo, sotto l’accusa d’una gestione corrotta della sanità, la cui spesa tocca livelli stellari, sembra ignaro del caso (lo suppongo tale, mentre qualche interessato, stando alle notizie, se l’aspettava), inveisce contro l’ennesimo «teorema». Nome curioso. Nell’Italia rieducata da Mediaset parola e pensiero sono drasticamente ridotti: circola un italiano «basic», vocaboli combinati in sintagmi che l’utente trova prêts-à-dire, senza fatica mentale; glieli forniscono speaker, giornali, politicanti; «teorema» viene da questo fondo, come «gogna mediatica», «assalto allo Stato democratico», «cittadino crocifisso». Quanto più parlano e scrivono, tanto meno dicono: fissa lui la misura del pensabile, pochissimo; e non essendo Erasmo da Rotterdam o Tommaso Moro (glieli avevano nominati dei ghost writers), subisce i limiti che impone, ma l’osservatore attento nota l’emissione verbale coatta; tipico sintomo. Il paziente pensa, dice, fa qualcosa costrettovi ab intra (nel lessico freudiano «Zwang» o l’inglese «compulsion»). Lo sfondo è una paura angosciosa. Freud la studia in due casi famosi, «Il piccolo Hans» e «L’uomo dei topi». Cosa spaventa Sua Maestà? Un’entità astratta, senza viso: in greco, nómos basiléus, la legge, regola sovrana: gl’infesta le notti; la combatte da quarant’anni; l’ha manomessa in mille modi; dallo scempio è nato un impero. L’ormai vecchio nomòfobo vuol chiudere i conti seppellendola. Tale il senso della furia verbale: poiché a Pescara le toghe perseguitano chi merita riguardi, su due piedi annuncia una «riforma radicale della magistratura»; vuol scindere le carriere?; non basta, scaverà a fondo.
Chi avesse dei dubbi, legga l’editoriale milanese. L’autore è un garantista sui generis: due anni fa ventilava l’uso virtuoso della tortura nella prassi antiterroristica; materia da servizi segreti; lavorino tranquilli, senza occhi indiscreti; la legalità penale costa troppo negli stati d’assedio; de facto siamo in guerra, e simili sublimi pensieri. Vestito da Salvation Army, suona il trombone berlusconiano. Non bastava incriminarli a piede libero? E se l’eccellente uscisse «pulito»? Domande profonde. Rispondiamogli. La pena implica un giudizio: che N debba o no essere punito, consta alla fine; se avessimo l’intellectus angelicus o sguardo intuitivo sincrono, le procedure sarebbero puro passatempo; lo specchio giudiziario riflette l’accaduto, fallibilmente visto che non siamo angeli; B. ad esempio, quando non s’aboliva le norme incriminanti o perdeva tempo finché i reati fossero estinti, ha lucrato dei proscioglimenti sulla base d’un dubbio sofistico, poco plausibile. Ma supponendo che vada bene al reo, chi castiga il persecutore? (dipendesse da lui, scudiscio somministrato in pubblico, e come vitupera i manomissori della privacy, salvo ammettere la tortura). Spieghiamogli come stanno le cose: quel pubblico ministero ha delle prove e le sottopone al giudice chiedendo una misura cautelare detentiva; regole codificate impongono stretti requisiti; «gravi indizi» nonché periculum in mora, rigorosamente diagnosticato (che N sottragga o inquini le prove o fugga o commetta delitti d’un dato nome); i provvedimenti coercitivi sono riesaminabili dal tribunale della libertà; da lì in cassazione; l’ingiustamente detenuto ottiene un risarcimento. Insomma, dica ogni male del sistema italiano ma non che l’imputato abbia poche risorse difensive: tra qualche giorno molte cose saranno chiare; intanto stia quieto.
Piuttosto noterei: mette paura l’idea d’un rifiorente malaffare consortile; Deo adiuvante, le procure non dormono né guardano strabiche vedendo solo i misfatti d’una parte. Ma costoro fanno scuola alla sinistra: vuole un futuro governativo?; smetta d’essere «pesce in barile»; difenda l’arrestato eminente; è ora «d’una svolta decisa», solenne e pubblica. La «democrazia liberale» richiede due riforme: abolire la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale; e (punto sottinteso ma fondamentale) procure inquadrate nel potere esecutivo. Bellissimo programma. Muore l’illusione che siamo uguali davanti alla legge: punire o no diventa materia d’una scelta, come nell’autonomia privata; avendo dei crediti, chiedo il pagamento o lascio perdere, affare mio. Lo chiamavamo diritto penale: nel lessico dei dottori, «criminalia», e adesso ordigno adoperabile sui malvisti dal governo; è l’arma che impugna contro chi vuole, se gli torna comodo. I meno ignoranti sanno attraverso quale laborioso sviluppo i quattro codici dell’età unitaria elaborino un controllo dell’inazione: era problema capitale; i meccanismi attuali lo risolvono nel modo meno imperfetto.
Caduto l’obbligo d’agire, regnano prassi legalmente amorfe: l’uomo del ministro colpisce o no, secondo direttive derogabili da ordini ad personam; e perde ogni senso l’altro carattere della domanda penale, l’essere irretrattabile; quando l’attore ministeriale desista, la causa finisce. Adesso vediamo cosa sia la «democrazia liberale» declamata dai pedagoghi: nel caso pescarese il pubblico ministero in sintonia con chi comanda ammonirebbe l’autore della denuncia, «stanco d’essere munto»; se non vuole rogne, porti via quel materiale (fotografie, colloqui registrati, tabulati Telepass, numeri delle banconote ecc.). Che la Regione abbia un debito spaventoso da spesa sanitaria, è questione minore: siamo un Paese ingegnoso; basta scaricarla sulla bestia da soma; non immaginate quanto peso porti. Ha mille forme il fisco occulto. Nella Repubblica del malaffare fisiologico, quindi indisturbato, l’indebitamento significa vita: i portaborse diventano finanzieri; l’animale totem è un pidocchio gigante.
L’happening berlusconiano 14 luglio e le glosse milanesi dicono a che punto siamo nella regressione: fondata da una Destra austera, l’Italia bene o male era paese europeo; presto lo sarà solo geograficamente. Se n’è impadronito un plutocrate ignorante: sotto maschera ilare ha disegni brutali, visibili anche dai fisionomisti meno acuti; governa, dispone delle Camere, comanda la giustizia penale attraverso mani ministeriali. Erano tre i poteri, separati: se li è presi; li confonde semplificando l’ordinamento alla misura minima; Napoleone costruiva dei codici; lui detesta l’astratto; decide, ordina, deroga, paga, promuove, affossa, castiga, grazia. I chierici gli cantano salmi in ginocchio. Valuterei in questa chiave il pericolo dello scudo immunitario al quale Palazzo Madama ribadirà l’ultimo chiodo.
Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani – provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali – possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative.
Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C’è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C’è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l’altro piede». C’è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.
Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere – tranne che in un caso – l’inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l’ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere – contro i custoditi – atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.
È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo – in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.
Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.
Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti – governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune – di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.
I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell’autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».
I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l’ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l’attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c’è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L’invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d’eccezione che lasciano cadere l’ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell’epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.
«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell’«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un’inattesa zona d’indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l’umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.
La Stampa
"Pestaggi, umiliazioni e torture quella vergogna non sarà mai sanata"
di Marco Preve
GENOVA - E´ la memoria la vera condanna per i responsabili dei fatti di Bolzaneto. «Dunque in quei giorni si sono verificati comportamenti nei rapporti tra le Forze dell´Ordine e i cittadini italiani e stranieri, che, se anche dovessero incontrare la prescrizione, tuttavia difficilmente potranno essere dimenticati». Comincia così la parte conclusiva della requisitoria finale dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Nessuno andrà in carcere, le pene verranno cancellate, le richieste di risarcimento si trascineranno per anni. Ma nella monumentale quantità di materiale del processo, i verbali di interrogatorio e le centinaia di testimonianze serviranno a tramandare la storia del carcere speciale. Una prigione che ancor prima che luogo di violenze, abusi e umiliazioni è un luogo di confusione. «Il numero complessivo sicuramente accertato delle persone private della libertà transitate nella struttura di Bolzaneto giunge quindi a 252 persone - scrivono i pm -. Tuttavia deve essere ribadito che la mancata tenuta di un registro d’ingresso nella struttura e l’accertata assenza di un elenco ufficiale dei fermati per identificazione rendono questo dato non sicuro potendo il numero anche essere superiore». Frasi che la dicono lunga sulle capacità organizzative di varie amministrazioni: quella penitenziaria che manda sul campo i propri vertici e i nuclei d’elite; quella delle forze dell’ordine che si dividono la gestione delle varie fasi di registrazione degli arrestati, e quella della magistratura che alla vigilia, consentendo il differimento di 24 ore del colloquio con i legali, non si rende conto di partecipare alla realizzazione di una "mostruosità" giuridica, un buco nero del diritto, dove agli arrestati viene impedito di contattare un avvocato ben oltre i termini previsti, così come di telefonare alla propria ambasciata o ai famigliari, dove i fermati non si rendono neppure conto di quello che stanno firmando. E così capita che nella ricostruzione delle parti civili almeno quattro siano i detenuti fantasma. Giovani manifestanti che non compaiono nel registro dei fermati. Ma le tracce del loro passaggio a Bolzaneto sono state scoperte dagli inquirenti spulciando brogliacci ed elenchi della scientifica o di altri uffici.
Un caos organizzativo in cui gli abusi trovano un humus ideale. Altro che l’invito che il magistrato coordinatore del Dipartimento penitenziario, Alfonso Sabella, racconta di aver rivolto al personale quel 19 luglio 2001, giorno dell’anniversario della morte del giudice Borsellino: «Dovrete essere per i detenuti di Bolzaneto come "i caschi blu dell’Onu». «Non c’è giustificazione» scrivono i due pubblici ministeri. Non c’è per «il taglio di ciocche di capelli per E. Taline, per M. Teresa e per C. Pedro; per lo strappo della mano per A. Giuseppe; per l’umiliazione di B. Marco costretto a mettersi carponi e ad abbaiare come un cane; per il pestaggio di T. Mohamed, persona con un arto artificiale; per le profonde offese ad A. Massimiliano, per la sua bassa statura; per gli insulti razzisti ad A. Francisco Alberto per il colore della sua pelle; per la sofferenza di K. Anna Julia cui alla Diaz per le percosse hanno fratturato la mascella e rotto i denti, persona neppure in grado di deglutire; per il disagio di H. Jens che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non fu consentito di lavarsi; per l’umiliante foggia del cappellino imposto ad H. Meyer Thorsten (un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello); per l’etichettatura sulla guancia per i ragazzi arrestati alla Diaz; per i colpi sui genitali, per molti». Non c’è giustificazione per tutto questo.
Colpevoli o innocenti comunque impuniti
di Paolo Colonnello
Quella sera Massimo Luigi Pigozzi, assistente capo della Polizia di Stato, si fece portare il giovane Giuseppe Azzolina nell’infermeria della caserma di Bolzaneto dopo aver saputo che lo avevano prelevato dall’ospedale San Martino dove era andato a farsi medicare dopo gli scontri di via Tolemaide. Gli altri agenti erano adrenalinici e dicevano che un carabiniere era stato ucciso. Così l’assistente Pigozzi prese l’anulare e il medio della mano del ragazzo e iniziò a divaricarli sempre più forte, finchè tra le grida disumane del giovane, non arrivò a spaccargli le ossa lacerandogli perfino la carne tra le due dita. Azzolina svenne. Si risvegliò poco dopo nella stessa infermeria mentre un medico della polizia penitenziaria lo stava ricucendo senza anestesia. Il giovane si lamentava, chiedeva se potevano dargli «qualcosa». Gli misero uno straccio in bocca e il medico gli disse di non urlare. Ieri Pigozzi è stato condannato, uno dei 15 «colpevoli» (su 45) per gli orrori di Bolzaneto.
Il peggio di questa sentenza non è l’indulto che cancellerà ogni residuo di pena entro gennaio del prossimo anno. E non è nemmeno l’esiguo numero di anni chiesto simbolicamente dall’accusa come condanna per gli imputati, tutti poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici. Il peggio di questa sentenza è che condanna e assolve senza cogliere il vero senso di quanto accadde in quel luglio 2001 nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della Polizia di Stato, meglio nota come «caserma di Bolzaneto». E’ che consegna tutto all’oblio, senza poter riconoscere che anche da noi, nella civilissima Genova, a un passo dall’Autostrada che tutti i week end percorrono frenetici migliaia di milanesi e di torinesi, è accaduto qualcosa che pensavamo potesse succedere solo in America latina, solo nei paesi in guerra o del Terzo Mondo. Bisognerà attendere le motivazioni, ovviamente. Ma in quei tre giorni di autentica follia, nella casermetta in cima alla collina di Bolzaneto, due anni di processo e 326 persone ascoltate, per i giudici hanno dimostrato solo in parte che si consumò uno dei reati più odiosi che si possano concepire contro degli individui: quello di tortura. Che un colpevole vuoto legislativo non contempla nel nostro codice, obbligando i pubblici ministeri a contestare reati da niente, come abuso d’ufficio, abuso di autorità, violenza privata, con l’inevitabile condono e quindi la prescrizione.
Ma quando ti spezzano le dita lacerandoti la carne, quando ti picchiano sui genitali con dei grossi insaccati, ti costringono a dormire tra le tue feci, oppure a rimanere in piedi per ore senza bere nè mangiare, a passare tra corridoi di manganellate, a urlare «Viva il Duce», «Viva Mussolini», a girare nuda o nudo tra nugoli di agenti sghignazzanti, quando ti costringono a tutto ciò e a molto di più, allora non è più soltanto «abuso». Non è più semplice «violenza». E’ tortura, è rinuncia obbligata alla propria dignità umana. E’ degrado, è violazione dell’articolo 13 della Costituzione: «La libertà personale è inviolabile. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà».
E’ quanto hanno ricostruito i pm Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello nella loro requisitoria durata due giorni nel febbraio scorso. Tanto c’è voluto per raccontare quanto accadde tra il 20 e il 22 luglio dietro i muri e le reti metalliche del «centro temporaneo di detenzione» per giovani arrestati durante le violente manifestazioni anti-G8. Ed è bastato appena per restituire almeno con il racconto, con la parola viva, un po’ di giustizia a Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella «non fu in grado di deglutire per settimane»; a Thorsten Meyer Hinrric, costretto a girare nel piazzale della caserma con «un cappellino rosso con la falce e un pene al posto del martello»; a A.F schiacciata con la faccia contro un muro mentre le urlavano: «Troia, devi fare pompini a tutti»; a M. che aveva bisogno di un assorbente e alla quale gettarono giornali appallottolati e che si «arrangiò così» strappandosi un lembo della propria maglietta. Tutti nudi, tutti «perquisiti», insultati, calpestati, minacciati da ufficiali, semplici guardie, poliziotti, carabinieri, medici perfino.
Uomini e donne in divisa che avrebbero dovuto garantire un minimo di legalità e trasformarono invece la caserma in un «Garage Olimpo» argentino. Tutti ancora in servizio, tutti impuniti. E probabilmente ancora convinti di aver compiuto, al massimo, «qualche abuso».
Abusi edilizi a Villa Certosa? Ma neanche per sogno. Irregolare il porto blindato dove accogliere le imbarcazioni dei capi di governo ospiti abituali della principesca abitazione di Silvio Berlusconi? Tutto secondo le norme, così come il bunker sotterraneo che collega il porto alla dimora o i falsi nuraghi costruiti nel parco dove verdeggiano essenze rare raccolte ai quattro angoli del pianeta. Giuseppe Spinelli, l'amministratore delegato dell'Idra immobiliare, la società proprietaria di Villa Certosa, è stato assolto dal giudice del tribunale di Olbia da ben tredici capi imputazione per abusi edilizi e violazioni ambientali. Il giudice Vincenzo Cristiano ha accolto le richieste del pubblico ministero Elisa Calligaris a conclusione di una vicenda giudiziaria cominciata quattro anni fa. Il magistrato ha stabilito il non luogo a procedere nei confronti di Spinelli sia per le violazioni in materia ambientale, in quanto c'erano i nullaosta paesaggistici, sia per i lavori realizzati per i quali erano stati pagati i condoni edilizi. Ieri mattina in aula a Olbia era presente l'avvocato di Berlusconi, Nicola Ghedini, che ha difeso Spinelli. Il processo era cominciato davanti al giudice del il 6 maggio scorso. Ghedini aveva consegnato al giudice i documenti relativi ad ogni intervento eseguito all'interno del parco e le copie delle sanatorie, dei condoni e delle concessioni.
Tutto regolare, insomma, perché tutto coperto da condono. E non perché abusi non siano stati effettivamente compiuti. Anche per questo suonano stonate le dichiarazioni che il presidente del consiglio ha rilasciato ieri pomeriggio a Parigi, dov'era per il gran ballo di gala per il 14 luglio. «Conoscete - ha detto ai giornalisti - l'attuale situazione dell'accusa in Italia. Molto spesso i teoremi accusatori sono quelli che poi alla fine non vengono confermati». Come al solito, Berlusconi semplifica a suo uso e consumo. Più precisamente, le violazioni ambientali non sussistono perché ci sono stati funzionari che hanno concesso i nullaosta; le irregolarità edilizie, invece, sono state commesse e poi sanate dai condoni. «Il premier Berlusconi - chiede infatti il senatore del Pd Roberto Della Seta in un'interrogazione al ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo - ha usufruito del condono edilizio concesso dal suo precedente governo per la sua villa in Sardegna? Risponde al vero, che nella villa del premier sarebbero stati commessi tredici abusi edilizi successivamente azzerati grazie al condono edilizio concesso dal governo Berlusconi nella legislatura 2001-2006? Risponde al vero che il costo dell'utilizzo del condono ammonta a diverse decine di migliaia di euro, segno che non si è trattato di operazioni edilizie di poco conto?»
(co.co)
A emettere il primo acuto è Il Giornale d’Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall’incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono.
Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l’avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L’acuto risuonato sulle colonne del Giornale d’Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l’antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell’agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell’Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l’identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l’asse Roma-Berlino»: l’Italia, specifica l’autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l’iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall’ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D’Andrea.
Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l’ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti».
Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ‘31, si ispirava al più schietto antisemitismo.
Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d’ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all’osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d’istinto, e quasi per l’odore, quello che v’è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime.
In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ‘39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un’abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un’Europa «veramente unita e solidale».
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l’antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ‘39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l’andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l’enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l’America alla guerra, hanno seguito l’istinto e la tradizione della razza».
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot».
Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l’applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l’arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira.
In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l’atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s’arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d’Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall’Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani».
L’articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l’indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ‘38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l’antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l’antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.
Che succede dentro il ministero dei Beni Culturali? Al mattino il licenziamento di Salvatore Settis dalla presidenza del Consiglio Superiore appariva fuori discussione. Il comunicato del sottosegretario Francesco Giro era chiarissimo: «Considero irrimediabilmente lacerato il rapporto fiduciario, ci auguriamo che il professore ne tragga al più presto le dovute conseguenze». In serata l´intervento rasserenante di Bondi, che annuncia «un colloquio di chiarimento» con Settis, nel «grande rispetto per lo studioso» e nella «speranza di continuare la collaborazione». E la veemente sortita di Giro? Su questo, silenzio. I collaboratori del ministro parlano di "un´iniziativa personale" del sottosegretario, certamente non condivisa dal titolare del Collegio Romano. Il quale già sabato aveva replicato a Settis con accenti che non preludevano a una liquidazione. Solo una diversità di vedute tra l´ottimista Bondi e il suo vice furioso, o minacce di guerra di alcuni ambienti del ministero contro il direttore della Normale?
Negli ultimi anni Salvatore Settis è stato protagonista nel nostro paese d´una agguerrita battaglia contro la svendita del patrimonio culturale. Italia Spa è il titolo d´un suo celebre saggio contro l´assalto dei nuovi barbari. L´ultimo articolo di questa campagna è uscito sul Sole 24 ore venerdì scorso, ed è questo l´intervento che ha suscitato l´indignazione di Giro. Conti alla mano, Settis registrava uno stridente contrasto tra le lodevoli intenzioni di Bondi - nella direzione della tutela del paesaggio e del potenziamento delle Soprintendenze - e la politica economica del governo, che di fatto sottrae al ministero dei Beni culturali oltre un miliardo di euro. «Un colpo mortale», scrive Settis. Tagli di tale entità preluderebbero a una definitiva abolizione del ministero, oppure alla sua riduzione a "uno stato larvale", con grande beneficio per le regioni che ne erediterebbero la tutela del paesaggio. Si tratterebbe insomma d´una devolution strisciante e l´obiettivo sarebbe probabilmente il decentramento suggerito da Lombardia e Veneto. Fin qui Settis.
«Apocalittico e irrituale nella forma pubblica», replica Sandro Bondi sul Sole di sabato. "Eccessivo" perché nulla può far temere una liquidazione del ministero e «irrituale perché Settis è stato da me appena confermato presidente del consiglio superiore per i beni culturali». In altre parole, se il professore aveva qualcosa da dire, la sede per dirla poteva essere proprio il ministero. Un intervento in sostanza interlocutorio, che faticosamente tenta di smontare gli argomenti di Settis. Niente che però faccia pensare a una rottura.
Ieri mattina l´esternazione del sottosegretario Giro, che annuncia con toni gravi il licenziamento. «La critica dura e sferzante è legittima», premette il viceministro, ma quando «viene esibita con disinvoltura sui giornali da chi ha responsabilità istituzionali» diventa strumentale e pericolosa. Il rapporto è lacerato, «ci auguriamo che il professore ne tragga al più presto le dovute conseguenze». Ci auguriamo, scrive il viceministro. Plurale maiestatis o che altro? Ma no, intervengono in serata i collaboratori di Bondi. Il ministro è ottimista, molto ottimista. Domani alle 11 il chiarimento con Settis. Solo una nuvoletta, passerà presto, rassicurano dal ministero. Chissà se Giro ne è stato informato.=252) refR=refR.substring(0,252)+"...";//-->
Il rapporto fra il Ministero dei Beni culturali e il professor Salvatore Settis, presidente del Consiglio Superiore per i beni culturali, si è "irrimediabilmente lacerato" dopo che Settis, in un'intervista al Sole 24 Ore di venerdì scorso, ha parlato "del 'suo' ministero come di una struttura 'in liquidazione' o 'allo stato larvale' e ne attribuisce le attuali difficoltà al governo Berlusconi e ai suoi recenti provvedimenti economici". Così in una nota il sottosegretario ai Beni e alle Attività culturali Francesco Giro.
"La lettura attenta e priva di alcun pregiudizio politico dell'articolo del professor Settis mi induce ad esprimere la mia piena solidarietà al ministro Sandro Bondi e all'intera amministrazione del suo dicastero", scrive Giro, "il professore è stato appena confermato nel suo prestigioso incarico all'interno del Ministero e meglio avrebbe fatto a proporre e sviluppare le sue critiche nell'ambito delle prerogative che gli sono state affidate e riconosciute nel momento in cui il ministro Bondi gli ha confermato la propria fiducia alla guida del Consiglio superiore".
Per Giro "la critica anche dura e sferzante è assolutamente legittima e benvenuta, ma quando viene esibita sui giornali da chi possiede precise responsabilità istituzionali con disinvoltura e gusto per la polemica, allora questa stessa critica diventa strumentale perchè si tinge di intenzioni e di propositi che non aiutano a porre e a risolvere i problemi che sono tanti e che sono gravi, come dimostra il recente commissariamento dell'area archeologica di Pompei".
"A questo punto considero irrimediabilmente lacerato il rapporto fiduciario, che pure era stato ribadito, fra il Ministero dei beni culturali e il prof. Settis il quale ha rinunciato a confrontarsi con l'istituzione e ad esercitare le prerogative che gli venivano riconosciute: con rammarico ne prendiamo atto e - conclude il sottosegretario - ci auguriamo che ne tragga al più presto le dovute conseguenze".
Chi aveva dei dubbi sui gravissimi rischi per la democrazia determinati dal governo Berlusconi e dai suoi sostenitori è servito. Un autorevole esponente della cultura, cui era stato attribuito e confermato – proprio per la sua autorevolezza – il ruolo di presidente di un organo consultivo dello Stato (dello Stato, non della maggioranza relativa che oggi lo governa) è minacciato per aver criticato, in modo pacato e argomentato come ciascuno può verificare leggendo il suo articolo, la politica economica del governo perché questa ha ulteriormente impoverito la capacità dell’amministrazione dei beni culturali di adempiere ai suoi compiti.
Una ragione di più per partecipare alla protesta contro le leggi canaglia che si svolgerà domani a Roma. Una ragione di più per chiamare alla mobilitazione tutti i democratici, quale che sia il voto che hanno espresso alle elezioni politiche. Una ragione di più per ricordare a tutti che in momenti simili a nessuno à concessa la distrazione, la disattenzione, l’indifferenza.
«Per la componente mainstream della tradizione comunista, il fare (e quindi la politica) non ammette incertezze sui presupposti fondamentali. Si è trattato di una vera e propria fede ideologica nella capacità e possibilità dell'azione umana di fabbricare la realtà, di fare la storia. E l'imperativo del fare poggia sulla certezza delle proprie ragioni e sulla teologia secolarizzata dei fini». Così in passato. Oggi, invece, «Nella disfatta elettorale della sinistra convergono ragioni e processi diversi. Tra questi, l'appannarsi di un pensiero che offra un'autonoma lettura della realtà, e tragga da qui senso ed efficacia dell'agire politico». In altre parole: dall'ideologia basata sulla «certezza dei presupposti» e degli obiettivi a un vuoto di senso sospeso su una base culturale incerta e su una prospettiva opaca. Si può e si deve leggere anche così l'attuale precipitazione della crisi della sinistra - fatta salva l'avvertenza, non secondaria, che la storia della sinistra italiana non coincide con quella della componente mainstream della cultura comunista, né con le sue certezze ideologiche e relativi scacchi. Ed è in questo scarto fra le certezze di ieri e le incertezze di oggi che guarda il testo elaborato da Maria Luisa Boccia, Giacomo Marramao e Aldo Tortorella (Pensare a sinistra. Proposte in forma di appunti) come traccia di discussione per il seminario che si tiene oggi e domani a Firenze. Una traccia aperta, in progress, che ben si addice alla pratica di aggregazione «a rete» propria del laboratorio «Pensare a sinistra». E che si segnala, fra le svariate riflessioni che punteggiano l'elaborazione della sconfitta, per un deciso spostamento dell'ordine del discorso che propone, e per alcuni intrecci che finalmente opera, primi fra tutti quello fra il livello culturale e il livello politico della sconfitta e quello fra la crisi della politica e la crisi del patriarcato e delle relazioni fra i sessi.
Porre in primo piano il livello culturale è tanto più necessario in quanto, come il testo argomenta, la sinistra di oggi non si trova ad avere a che fare con un vuoto, ma al contrario con un eccesso di sapere - «tanti saperi, tante analisi e conoscenze, ricche e competenti» - che però non orienta e non aggrega, e al contrario tende a segmentare e diasporare quello che chiamiamo sinistra: nome peraltro ormai incerto, come tutte le voci del suo vocabolario, da «lavoro, uguaglianza, libertà, differenza, diritti, pace, giustizia» a «capitalismo, democrazia, patriarcato, globalizzazione, laicità, etica, potere» a «comunismo/socialismo, pacifismo, ambientaliso, femminismo, culture glbqt, altermondialismo». Riconoscere che i significati di queste parole sono diventati incerti è già un primo passo per spiegare la «strana miscela di ovvietà ed enigmaticità» che sembra avvolgere oggi i discorsi della sinistra. Il che non comporta, sottolineano Boccia, Marramao e Tortorella, né l'accettazione della cultura del frammento, né viceversa l'evocazione nostalgica di una ormai impossibile sintesi unitaria. Occorre piuttosto salvare la costruzione di senso dando «al pensiero e al liguaggio una forma aperta e radicata nell'esperienza», ritrovando la capacità perduta di lettura della complessità sociale e delle connessoni d'insieme.
Il testo ci prova inoltrandosi nell'analisi di alcuni capitoli cruciali - capitalismo, globalizzazione, proprietà, liberismo, economia della conoscenza, lavoro, desiderio, consumo, violenza, democrazia - e proponendo per ciascuno di essi significative correzioni rispetto alle analisi correnti. Si tratta, ad esempio, di restituire al termine capitalismo il significato marxiano di rapporto sociale, di distinguere l'analisi del capitalismo contemporaneo da quella delle dinamiche storiche e culturali della globalizzazione, di guardarsi dall'assimilare i modi di produzione asiatici al capitalismo occidentale. Di articolare l'analisi del neoliberismo - per più di un decennio parola pass-partout della sinistra critica - rispetto al liberalismo e alla libertà, o meglio al «consumo di libertà», che la governamentalità liberale analizzata da Foucault comporta. Di reimpostare dalle fondamenta l'analisi del lavoro leggendo la sua femminilizzazione non come un particolare aggiuntivo ma come un cambio di paradigma che domanda un cambio di strategia per le donne e per gli uomini. Di riportare al lavoro, e al conflitto nel lavoro, l'attenzione da troppo tempo spostata sulla redistribuzione statale e sul tamponamento per via legislativa delle disuguaglianze. E ancora, di leggere l'egemonia dell'economia politica liberal-liberista in relazione alla mobilitazione e al consumo del desiderio di cui è capace. Di confrontarsi con l'economia della conoscenza con la consapevolezza che «oggi il senso è prodotto da un'industria, e produce plusvalore», il che modifica le analisi del passato sull'egemonia e sulla produzione di ideologia. Di aprirsi a una critica della democrazia che interrompa quella recitazione di sinistra del mantra democratico che non impedisce, come sappiamo dalla cronaca quotidiana, la degenerazione costante della democrazia reale e il capovolgimento delle sue promesse.
Per ciascuno di questi capitoli il testo fornisce una traccia importante di approfondimento. Due tuttavia sembrano i punti di particolare rilevanza per lo spostamento di metodo che suggeriscono. Il primo riguarda l'analisi della «violenza simbolica», ovvero di quella violenza implicita nella norma che garantisce la (relativa) stabilità e l'interiorizzazione dell'ordine simbolico come ordine «naturale»: qui il lavoro femminista sul simbolico torna prezioso, tanto più in un contesto in cui il patriarcato tenta di reagire alla propria crisi (o fine) indotta dalla libertà femminile con un rigurgito di violenza fra gli uomini e degli uomini sulle donne. Il secondo riguarda la scollatura fra dimensione simbolica e dimensione materiale che ha depotenziato il discorso della sinistra dagli anni '70 (ovvero dall'avvento del femminismo) in poi, scollatura da suturare tanto più in un momento in cui la destra marcia precisamente sull'incollatura fra le due dimensioni, come dimostra il suo discorso sull'insicurezza. Ma ricomporre materialità e simbolico altro non significa che ritrovare il nesso perduto fra obiettivi e soggettività, fini ed esperienza, progetto e narrazione. Rimettendo in funzione il circolo prezioso del lingaggio: saper ascoltare, e saper parlare.
«C'è un compito politico che ci impone, nel tempo medio, di chiudere il dopo '89. Che vuol dire superare la dispora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti». Il senso della proposta di Mario Tronti all'Assemblea del Crs di ieri e ai molti ospiti eccellenti presenti in rappresentanza dei vari spezzoni della sinistra, da D'Alema a Bettini, da Mussi a Alfonso Gianni a Cuperlo, si può sintetizzare in questa citazione. E' una proposta politica, che «nel tempo medio» comporta una ristrutturazione del campo, oltre quella divaricazione fra un partito di centrosinistra moderato e un'aggregazione della sinistra radicale che è l'esito attuale del processo iniziato con la svolta del Pci dell'89. Ma è anche una proposta culturale, che fin da subito comporta una tematizzazione di lungo periodo della crisi della sinistra tutt'intera nel contesto storico e internazionale, e uno scatto antidepressivo per uscirne. Malgrado la sconfitta infatti, sostiene Tronti, «questo è un momento favorevole, perché c'è un cambio di fase» che domanda iniziativa. Si è esaurito il ciclo neoliberista, avviato dalla Trilateral nel '73, proseguito con Thatcher e Reagan negli anni 80, con la globalizzazione selvaggia nei '90 e con la rivoluzione conservatrice dei neocons negli Usa di Bush jr. E si è esaurito anche l'esperimento della «terza via» blairiana, «tentativo subalterno» delle sinistre occidentali di competere con l'egemonia liberista facendosi centro. Sul campo, fra le macerie, resta l'esigenza di ricostruire «una sinistra moderna, autonoma, critica, autorevole, popolare» che contrasti la destra «democratica e illiberale», non fascista o autoritaria, sedimentatasi in Italia dal '94 a oggi. Come, Tronti l''aveva già scritto nelle «Undici tesi dopo lo tsunami» del Crs (www.centroriformastato.it) e lo riarticola di fronte all'Assemblea: rilanciando il primato della politica sulla società, puntando cioè a «fare società con la politica» e non a rincorrere populisticamente gli umori e le viscere del sociale, convincedosi che è solo con «l'organizzazione del conflitto sociale, della lotta politica, della battaglia culturale» che si può di nuovo conoscere quella società che il risultato elettorale ci consegna opaca e distante. E ancora: ricostruendo delle elite politiche, contro il populismo di destra e la dequalificazione del ceto politico di destra e di sinistra; riformando rappresentanza e decisione, contro la deriva presidenzialista; associando alla «guerra di posizione» nello scenario nazionale stagnante una «guerra di movimento» nello scenario mondiale in trasformazione.
Resta aperta, per Tronti, l'alternativa tra fare «un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra». Che non è, s'intende, un gioco di parole. L'una e l'altra ipotesi, del resto, sono appunto da «tempo medio» e non sono realisticamente a portata di mano oggi o domani mattina: D'Alema sosterrà che la strada del Pd, «grande partito riformista di centro sinistra», è tracciata, Cuperlo che «la sua implosione sarebbe oggi un danno drammatico», ma entrambi insisteranno su una politica di alleanze a sinistra che archivi le velleità di autosufficienza del Pd, di cui Goffredo Bettini archivia peraltro qualcosa di più, la rincorsa della destra sulla «inciviltà» del mercato senza politica. Prevedibilmente, d'altro canto, risposte positive alla traccia di Tronti arrivano da Mussi e da Alfonso Gianni. Ma aldilà, o forse al di qua, dei passi politici più o meno cauti e felpati, incerti o paralizzati, qualcosa si mette finalmente in moto, e secondo linee non scontate, nella discussione del dopo-sconfitta, se è vero che, come sintetizza Cuperlo, la giornata mette sul tavolo «questioni che da anni abbiamo scelto colpevolmente di rimuovere». E restituisce, come dice Beppe Vacca proponendo un seguito della discussione, «una dimensione temporale, storica e teorica dei problemi che nessuna sede politica da sola è in grado di ordinare». Questione di cultura politica, prima che di agenda politica. Senza la quale, denuncia Alfredo Reichlin, il Pd, nel quale lui pure continua a credere, non fa «il salto di qualità» necessario a uscire dallo «spiazzamento» che lo accomuna alla sinistra europea. Manca qualcosa? Sì, dice Aldo Bonomi, un'analisi sociale della «fabbrica a cielo aperto» che ridisloca sul territorio glocal il conflitto capitale-lavoro. E certo, uno sguardo capace di uscire dal campo limitato del ceto politico della transizione, e di imparare qualcosa dalle esperienze di movimento che - vecchio vizio di partito - tutti oggi, da D'Alema a Bertinotti allo stesso Tronti, trascinano nell'orbita della sconfitta. Ma l'aria riprende a circolare. Non è poco.
«Dopo lo tsunami». Tutti uniti dal Crs, per un giorno
Come si riapre una «prospettiva di ricostruzione di un grande sinistra moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare». Domandone del secolo nuovo, non solo alle nostre latitudini, quello che ha posto il filosofo Mario Tronti. E voglia di ragionare intorno all'argomento, c'è. Per lo meno tra i politici e gli intellettuali che si sono riuniti ieri all'assemblea annuale dal Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato. Parterre d'altri tempi, passati. Qualcuno si augura futuri. Tra gli altri, Massimo D'Alema, Fabio Mussi, Alfonso Gianni, Pierluigi Bersani, Goffredo Bettini, Alfredo Reichlin, Miriam Mafai, Giuseppe Vacca. Tronti, presidente del Crs, ha svolto la sua relazione, quella delle '11 tesi dopo lo tsnunami'(vedi manifesto dell'11 giugno) e ha invitato a «chiudere il dopo '89, superare la diaspora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti». Ora serve, ha detto, «riprendere la strada dritta e lunga. La cosa che lascerei in dubbio è se fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra». Ma il percorso è lungo, e la polemica con il Pd lo sta a testimoniare. Per Fabio Mussi quel partito è «l'ultimo atto della piece della crisi della sinistra», perché «l'idea che si dovesse occupare il centro è stata una idea sbagliata». Quindi, «bisogna lavorare per organizzare nella società e in parlamento una opposizione che si rispetti, poi a modificare il quadro politico per aprire un nuovo spazio per una sinistra moderna, popolare, autorevole». Per l'opposizione Pierluigi Bersani ha invitato a guardare al «tema del progetto, perché se vinci vinci da tutte le parti, anche al centro. Il che però non significa che non sei in un posto. Per me - ha aggiunto - è possibile avere un soggetto politico di una grande sinistra democratica che tolga il trattino del centrosinistra e che dica cose nuove». Alfonso Gianni, Prc, ha sottolineato che «la sinistra è un progetto politico, perché la politica deve parlare alla società, ed è per questo che un progetto politico serve. Ma è strano che chi, invece, dice che la sinistra esiste in natura poi la espelle dal proprio nome». Oggi, ha proseguito - tutti quelli che vogliono un cambiamento del sistema hanno il dovere di creare un nuovo soggetto, sapendo che le forze esistenti, di tutte le cromature, non sono sufficienti».
Della fine dell'illusione dell'autosufficienza ha parlato anche Massimo D'Alema, semnza risparmiare critiche all'indirizzo della prima gestione del Pd. «Non abbiamo avuto la forza di condurre a esito la transizione, il coraggio di fare innovazione politica». Però, visto che la destra è fragile e comunque ben lungi dall'aver vinto la partita, l'opposizione ha ancora più motivi per organizzarsi. «Adesso si sta creando, io spero che si crei, un grande partito riformista di centrosinistra. Ce n'era bisogno in Italia, purché questo non pensi di essere autosufficiente».
Attenzione a non confondersi dietro Berlusconi. L'avvertimento di Mario Tronti arriva alla vigilia dell'assemblea del Crs nel momento in cui torna alto l'allarme di tutta l'opposizione per le iniziative del premier e anche il Pd che si era aperto al dialogo strilla al «ritorno del caimano». Tronti obietta: «Non ci sarà un passaggio di regime. Berlusconi è sempre lo stesso, le sue iniziative fanno molto rumore però poi vengono recuperate nell'andamento lento delle cose, il problema è non confondersi, è capire bene cosa è questa nuova, antica destra che si afferma in Europa».
Non c'è un caso italiano?
In Italia abbiamo di fronte questo personaggio con i suoi interessi personali, ma quando il ceto politico si misura soltanto sulla sua persona ci fa perdere di vista l'analisi di fondo. Berlusconi è un animale politico di una certa capacità intuitiva e ha improvvisamente tagliato i ponti con Veltroni per tornare sul terreno che predilige. Se non ci fosse questo antiberlusconismo enfatizzato fino al limite del dramma italiano la sua figura verrebbe ridimensionata e probabilmente verrebbe fuori un discorso di destra più profondo che potrebbe persino emarginarlo.
Destra italiana senza Berlusconi?
La destra è un dato organico che adesso si trova a una svolta. Il ciclo neo liberista è arrivato a conclusione e torna una destra più tradizionale, neoconservatrice. E la destra italiana si sta compattando. Ha molte delle caratteristiche della destra mondiale, a prescindere da Berlusconi. Una delle spie è la personalità di Tremonti. La destra sociale che pensavamo fosse una piccola porzione post fascista diventa invece una caratteristica della destra nel suo complesso. Di fronte a questa destra profonda c'è una sinistra leggera, dunque non c'è partita.
E gli operai votano Lega?
Su questo ho sentito troppi ragionamenti semplificatori. Come se il problema fosse quello di capire e non di spostare il voto di questi operai. La politica, dicono tutti, deve ascoltare, capire. Seconde me deve soprattutto parlare, dare risposte e intervenire. Se non lo fa la società si autogoverna ed è tanto peggio per chi vuole cambiarla.
Guardare al sociale è però uno slogan molto in voga nella sinistra uscita con le ossa rotta dalle elezioni. E anche il Pd vuole «tornare al territorio».
Il Pd e le formazioni che gli sono alla sinistra hanno peccato della stessa mancanza di iniziativa, sono stati incapaci di far parlare la politica. Sono rimasti chiusi in un'idea passiva della rappresentanza che magari era possibile quando avevi già nella società le grandi classi con una loro sostanza strutturale e dunque grandi interessi. Si possono rappresentare solo i grandi interessi, i piccoli bisogna orientarli e correggerne il particolarismo. Tornare al territorio è una scappatoia nel senso che non si tratta di rispondere ai singoli territori ma di riacchiappare tutto interpretandolo creativamente.
Un partito nazionale che sappia far parlare la politica con un'idea precisa della società. Vasto programma di fronte alle macerie elettorali.
Paradossalmente è un momento favorevole. Sono cadute le due illusioni che hanno dettato l'ordine del giorno della politica di sinistra negli ultimi venti anni. E' caduta l'illusione delle terza via tra sinistra e destra, con il suo ideatore Blair ma anche con il suo epigono tedesco Schroeder. L'idea che la sinistra dovesse farsi centro per gestire il ciclo neoliberista meglio della destra mi pare esaurita anche negli Usa, Obama non è Bill Clinton. Anche lì finisce la competizione al centro e le primarie indicano una polarizzante divaricazione.
Destra e sinistra categorie «emergenti»?
Per questo il partito democratico in Italia è arrivato fuori fase. Quando la fase in cui poteva essere protagonista è già passata e questo è il motivo per cui il progetto non marcia, anzi mi pare di vederlo già al capolinea.
L'altra illusione crollata?
E' finita la fase neomovimentista. Durante la quale l'egemonia culturale nella sinistra radicale era esercitata dal movimento no global. E' finita proprio perché è finita la fase neoliberista e la contrapposizione tra movimenti e grandi organismi economico finanziari mondiali non si ripropone. Anzi, ora c'è di fronte una destra neo conservatrice che torna a fare politica, contesta lei stessa l'autorità di questi organismi internazionali, torna protezionista.
Se è così, e se davvero il Pd è al capolinea, si può ipotizzare una ricomposizione a sinistra?
Si riapre un tema grande. Perché in questo paese non c'è più una forza che si dichiara di sinistra? L'anomalia italiana del più forte partito comunista dell'occidente finisce nel suo contrario. E' un problema che devono porsi tutti, sia quelli che stanno nel Pd sia quelli che stanno alla sua sinistra. La soluzione non può essere rimettere insieme i pezzetti di una piccola sinistra, ma ricomporre una forza politica a vocazione maggioritaria.
Cioè tu dici che dalle elezioni è uscita sconfitta l'illusione del fare da soli, non solo del Pd ma anche della sinistra di alternativa?
La sinistra alternativa non può concedersi il lusso di essere minoritaria. Tra l'altro è contro la nostra tradizione vorrei dire bolscevica. E non serve a fare gli interessi della nostra parte, l'operaio è costretto a votare per la Lega.
Ma l'idea di ricomporre la sinistra con un pezzo del Pd pare fuori dall'orizzonte politico. Anche i meglio disposti tra i democratici - D'Alema è annunciato all'assemblea del Crs - non si spingono oltre l'auspicio di nuove alleanze.
Non è un processo di breve periodo e per il momento credo sia giusto passare da una fase di aggregazione della sinistra, giusto incoraggiare chi ci sta tentando come Vendola dentro Rifondazione. Ma io credo che sarebbe sbagliato considerare questo soggetto unitario della sinistra come autonomo per i prossimi decenni di fronte a un Pd centrista. Questa nuova formazione di sinistra dovrebbe invece avere un ruolo per spostare gli equilibri interni del Pd in modo tale che si riapra il processo. E' una prospettiva, lo ripeto, che non esclude affatto che intanto si componga un soggetto di sinistra. Ma non bisogna considerarlo un approdo definitivo. Sarà quello che è oggi il Pd, una tappa.
Ecco la lettera che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha inviato al presidente del Senato Renato Schifani. Il testo è stato diffuso da Palazzo Chigi.
«Caro Presidente, come Le è noto stamane i relatori senatori Berselli e Vizzini, hanno presentato al cosiddetto 'decreto sicurezzà un emendamento volto a stabilire criteri di priorità per la trattazione dei processi più urgenti e che destano particolare allarme sociale. In tale emendamento si statuisce la assoluta necessità di offrire priorità di trattazione da parte dell'Autorità Giudiziaria ai reati più recenti, anche in relazione alle modifiche operate in tema di giudizio direttissimo e di giudizio immediato.
Questa sospensione di un anno consentirà alla magistratura di occuparsi dei reati più urgenti e nel frattempo al governo e al Parlamento di porre in essere le riforme strutturali necessarie per imprimere una effettiva accelerazione dei processi penali, pur nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali.
I miei legali mi hanno informato che tale previsione normativa sarebbe applicabile ad uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica. Ho quindi preso visione della situazione processuale ed ho potuto constatare che si tratta dell'ennesimo stupefacente tentativo di un sostituto procuratore milanese di utilizzare la giustizia a fini mediatici e politici, in ciò supportato da un Tribunale anch'esso politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria.
Proprio oggi, infatti, mi è stato reso noto, e ciò sarà oggetto di una mia immediata dichiarazione di ricusazione, che la presidente di tale collegio ha ripetutamente e pubblicamente assunto posizioni di netto e violento contrasto con il governo che ho avuto l'onore di guidare dal 2001 al 2006, accusandomi espressamente e per iscritto di aver determinato atti legislativi a me favorevoli, che fra l'altro oggi si troverebbe a poter disapplicare.
Quindi, ancora una volta, secondo l'opposizione l'emendamento presentato dai due relatori, che è un provvedimento di legge a favore di tutta la collettività e che consentirà di offrire ai cittadini una risposta forte per i reati più gravi e più recenti, non dovrebbe essere approvato solo perchè si applicherebbe anche ad un processo nel quale sono ingiustamente e incredibilmente coinvolto. Questa è davvero una situazione che non ha eguali nel mondo occidentale.
Sono quindi assolutamente convinto, dopo essere stato aggredito con infiniti processi e migliaia di udienze che mi hanno gravato di enormi costi umani ed economici, che sia indispensabile introdurre anche nel nostro Paese quella norma di civiltà giuridica e di equilibrato assetto dei poteri che tutela le alte cariche dello Stato e degli organi costituzionali, sospendendo i processi e la relativa prescrizione, per la loro durata in carica. Questa norma è già stata riconosciuta come condivisibile in termini di principio anche dalla nostra Corte Costituzionale. La informo quindi che proporrò al Consiglio dei ministri di esprimere parere favorevole sull'emendamento in oggetto e di presentare un disegno di legge per evitare che si possa continuare ad utilizzare la giustizia contro chi è impegnato ai più alti livelli istituzionali nel servizio dello Stato.
Cordialmente, Silvio Berlusconi».
Postilla
Per chi non lo sapesse, il firmatario della lettera di cui sopra è il Presidente del Consiglio dei ministri e capo del governo italiano, è stato eletto dalla maggioranza degli elettori e ha giurato fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione nelle mani del Presidente della Repubblica
Ho appena comprato un clandestino. Roy, 31 anni, arrivato cinque anni fa come turista dal Bangladesh, costa meno di un pieno di benzina. Chiede 30 euro a giornata per lavorare come muratore. Anche quattordici ore al giorno, dall'alba a sera tardi. Fanno due euro e 14 centesimi di paga l'ora. Una stretta di mano conclude l'accordo. Senza che lui sappia molto di me né io di lui. Ogni mattina presto Roy appare in piazzale Roma, l'ultimo brandello di strada davanti alla laguna di Venezia. E se nessuno lo chiama nella città d'arte, torna ad aspettare alla stazione di Mestre. Alla fine dei lavori potrei anche non pagarlo. Potrei prenderlo a schiaffi: se lui fosse così pazzo da chiamare la polizia e beccarsi l'espulsione, rischierei al massimo sei mesi di reclusione. Potrei rubargli il portafoglio: ammesso che mi voglia denunciare, il furto è punito da sei mesi a tre anni. Potrei fargli credere che gli procurerò un permesso di soggiorno in cambio dei suoi risparmi e truffarlo: non rischierei più di tre anni. Potrei essere lo sgherro di un'associazione a delinquere e sfruttarlo: la mia condanna partirebbe comunque da un anno. Sempre meno di quanto rischierà Roy quando verrà approvato il disegno di legge sul reato di immigrazione clandestina: fino a quattro anni di carcere, per essere semplicemente un muratore.
Perfino una parte autorevole dei vertici di carabinieri e polizia sostiene che è anche colpa della legge firmata nel 2002 da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, se in Italia ci sono tanti clandestini: perché restringe all'infinito le possibilità di ingresso, punisce i lavoratori stranieri non in regola e garantisce sempre una via d'uscita indolore ai datori di lavoro che li sfruttano. È tutto scritto in un rapporto riservato, consegnato al ministero dell'Interno nell'ottobre 2006, all'indomani dell'inchiesta de 'L'espresso' sulla schiavitù e il caporalato in Puglia. L'analisi riguarda le condizioni degli stranieri in tutta Italia. "Sono gli imprenditori, che si avvalgono dell'intermediazione abusiva, i soggetti principali che avviano questo sistema di illegalità", denuncia il rapporto, "incentivati sia dai maggiori profitti derivanti dal lavoro nero, e dunque dalla mancata regolarizzazione delle posizioni lavorative, sia dalla celerità e dalla flessibilità con le quali possono essere soddisfatte le richieste di manodopera".
Lo studio suggerisce di introdurre sanzioni per i datori di lavoro, oltre che per intermediari e caporali. È firmato dall'allora vicecapo della polizia, Alessandro Pansa, diventato poi prefetto a Napoli, che presiedeva la commissione formata anche dal generale di brigata dei carabinieri, Salvatore Scoppa, e dal colonnello Luciano Annichiarico, responsabile del comando carabinieri per la tutela del lavoro. Il dossier è puntualmente scomparso in un cassetto. Prima per l'instabilità del governo di Romano Prodi. Ora per le decisioni diametralmente opposte annunciate da Silvio Berlusconi e dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.
Altro che badanti da salvare. La visione coloniale, secondo cui l'immigrazione da regolarizzare è soltanto la servitù di casa, esclude dalla legalità una parte importante dell'economia italiana. Lavoratori che, pur non essendo in regola con i documenti, partecipano attivamente al nostro prodotto interno lordo. Dati di Unioncamere: il 9,2 per cento del Pil italiano deriva dal lavoro degli stranieri, regolari e irregolari. L'agricoltura che riempie le nostre tavole di frutta e verdura ne è un esempio: il 95 per cento dei braccianti stranieri in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lazio è ingaggiato senza contratto di lavoro e più dell'80 per cento è senza permesso di soggiorno. Lo denuncia il dossier 'Una stagione all'inferno' presentato a metà maggio dalla missione in Italia di Medici senza frontiere. È l'aggiornamento di un'inchiesta pubblicata nel 2005 sull'agricoltura al Sud. "Dopo tre anni", spiega Loris De Filippi, responsabile delle operazioni di Msf, "abbiamo constatato che nulla è cambiato". Pochi giorni fa l'Istituto nazionale di economia agraria, ente di ricerca del ministero per le Politiche agricole, ha quantificato il numero di lavoratori stranieri nel settore: 150 mila, di cui 70 mila al Nord. Nel 1995 erano 30 mila in tutta Italia. Non esistono censimenti sui clandestini e solo queste cifre permettono di stimare il numero di lavoratori non in regola sfruttati nell'agricoltura. Secondo i dati consegnati dai carabinieri al ministero, sui 22 mila 295 stranieri occupati nelle aziende agricole controllate in Italia nel primo semestre 2006, il 24,21 per cento era senza permesso di soggiorno: significa che dalla Sicilia al Friuli i clandestini ingaggiati come braccianti sono più di 36 mila. Così se un giorno il governo volesse eliminare il lavoro irregolare in agricoltura attraverso il reato di immigrazione clandestina, dovrebbe far arrestare 36 mila lavoratori. E trovar loro posto nelle carceri già affollate da 48.600 persone. Senza contare il costo della detenzione e delle espulsioni: servirebbero almeno 103 voli a pieno carico di Boeing 747 per riportare tutti ai Paesi d'origine. Dovremmo poi dire addio più o meno al 24 per cento della produzione agricola italiana. Pomodori e uva marcirebbero sulle piante, i prezzi di vino, formaggi e verdure correrebbero più del petrolio. La carta e l'inchiostro per stampare i permessi di soggiorno costerebbero sicuramente molto meno. "Ma gli imprenditori non rinunceranno alle braccia a basso costo", spiega l'avvocato di Milano, Domenico Tambasco, esperto di diritto dell'immigrazione: "L'economia sostituirebbe gli espulsi con altri lavoratori irregolari. Altri migranti passerebbero le frontiere lungo le rotte più pericolose. E poiché è impensabile l'espulsione di decine di migliaia di persone, la nuova legge spingerebbe i lavoratori a vivere da latitanti, a nascondersi. A essere ancora più schiavi. Ci vorrebbe uno sciopero di tutti gli immigrati: solo così emergerebbe il vero peso dell'immigrazione nel sistema economico nazionale". Il carcere non è comunque una novità: la legge già prevede la detenzione fino a quattro anni per i clandestini sorpresi una seconda volta. "Prima dell'indulto", ricorda l'avvocato di Padova, Marco Paggi, "il 25 per cento della popolazione penitenziaria era composto da stranieri detenuti unicamente per non aver rispettato il decreto di espulsione".
L'edilizia è un altro settore di grande sfruttamento. Il rapporto di polizia e carabinieri consegnato al ministero dell'Interno rivela che su 2943 imprese controllate in Italia nel 2006, ben 2004 avevano violato le norme di assunzione del personale straniero e 45 erano completamente sommerse. Perfino nel Nord-Est, modello dell'economia rampante e xenofoba che piace alla destra nazionale, i clandestini hanno ormai una funzione insostituibile. "La presenza di lavoratori irregolari", spiega Stefania Bragato, del Consorzio per la ricerca e la formazione, "varia dal 24 per cento della provincia di Rovigo, al 22 della provincia di Venezia, al 20 di Verona, scendendo al 15 di Treviso. Una media intorno al 18 per cento".
Certo, colpire i datori di lavoro vorrebbe dire essere disposti ad arrestare decine di industriali nel Veneto leghista dove, secondo dati raccolti anche dalla Cgil, l'impiego di clandestini nella filiera produttiva del tessile sale al 27 per cento. Oppure ammanettare le migliaia di casalinghe anziane che, alla ricerca di una badante, una colf o un muratore per piccoli lavori, non ne vogliono sapere di pagare uno straniero a posto con documenti, assicurazione e bollettini. "Il paradosso è che un clandestino trova lavoro più facilmente di un regolare. Vengono perfino qui a chiedere come fare", dice Leonardo Menegotto, responsabile immigrazione della Cgil di Mestre: "Rifiutano i regolari perché, dicono, vogliono essere messi a contratto. Io rispondo che queste informazioni non le diamo".
La denuncia nel rapporto riservato di polizia e carabinieri è un'accusa senza alibi: "Il lavoro nero e l'economia irregolare, per dimensioni e pervasività, hanno assunto la configurazione di una componente strutturale del sistema produttivo nazionale... Le sanzioni previste dalla legge Biagi sono inadeguate a fronteggiare il fenomeno nel suo complesso... Il ricorso diffuso al lavoro nero rende scarsamente efficaci anche i meccanismi sanciti dalla normativa prevista per i flussi di ingresso di stranieri". Da sempre le quote non rispondono alle esigenze dell'economia. Ma nessun governo, nemmeno di centrosinistra, si è adeguato. Così quest'anno si è toccato un altro record: 758 mila dichiarazioni di assunzione per appena 170 mila permessi stabiliti dal decreto flussi.
Il risultato è catastrofico. Soprattutto al Sud dove la paura e l'insicurezza sono sentimenti quotidiani per migliaia di braccianti. Il 64 per cento vive in case abbandonate senza acqua. Il 62 senza servizi igienici. Il 92 per cento senza riscaldamento. Ad Alcamo, in Sicilia, il Comune ha allestito un dormitorio per i lavoratori stagionali stranieri. Ma la legge impedisce di accogliere clandestini. Mentre gli agricoltori del posto vogliono soprattutto clandestini. "Lo scenario è dei più impressionanti", è scritto nel rapporto di Medici senza frontiere, "il 39 per cento dei lavoratori dorme per le strade cittadine, il 27 in case abbandonate, il resto arrangiato in tende nei campi limitrofi". Una sera di ottobre a Gioia Tauro, in Calabria, viene investito Mamadou, 18 anni, bracciante emigrato dal Mali: dopo un mese con una ferita infetta alla coscia sinistra "al pronto soccorso gli operatori sanitari dichiarano di curarlo a titolo di favore. L'ortopedico non è presente, la gamba è dolorante e gonfia. Il paziente viene dimesso senza aver consultato lo specialista, senza bendatura di supporto e senza terapia".
L'Italia è spietata e cinica anche con chi è in regola. Abdou, 32 anni, laurea in lettere presa in Senegal, parla italiano, francese, inglese e capisce lo spagnolo. Lavora come assistente del direttore commerciale in un ditta a Pordenone. Potrebbe girare il mondo e fare carriera. Nell'aprile 2007 ha chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Data dell'appuntamento in questura, per la foto segnaletica come fosse un delinquente: febbraio 2009. Il permesso lo riceverà dopo altri quattro mesi di attesa: "Spero", sorride, "intanto non posso uscire dall'Italia. Questa è una discriminazione". Abdou chiede di non rivelare il suo cognome. Per paura.
Ogni settimana 22 mila stranieri presentano alle poste la richiesta di rinnovo del soggiorno. E aspettano la convocazione in questura: "Qui a Treviso non rispondono nemmeno perché il sistema informatico non è tarato per fissare appuntamenti nel 2010", avvertono agli sportelli immigrazione in città. Proprio in questi mesi stanno entrando in Italia gli stranieri del decreto flussi 2006. Dopo due anni molti trovano che i loro datori di lavoro sono nel frattempo falliti, si sono trasferiti o sono morti. A loro le prefetture concedono permessi provvisori di sei mesi: verranno convocati tra un anno e mezzo, per ritirare un documento già scaduto da un anno.
Roy, il muratore bengalese, confessa che adesso ha paura di essere buttato fuori di casa. Ha saputo del decreto che da lunedì prevede la confisca degli appartamenti affittati agli stranieri senza permesso di soggiorno: "Dormo con quattro connazionali in regola. Mi hanno detto che devo trovarmi un altro posto". Può essere l'inizio di un assalto che porterà gli squali immobiliari a riappropriarsi a prezzi stracciati di interi quartieri storici. Il decreto non sembra così innocente: negli uffici dei broker di Milano si parla di appartamenti di cinesi, egiziani e peruviani che saranno confiscati e messi all'asta. Mentre migliaia di lavoratori clandestini già si chiedono dove andranno a dormire il prossimo inverno.
Benvenuti all'inferno
La brutalità del 'sistema Italia' non risparmia nemmeno gli immigrati regolari che lavorano nelle fabbriche.
È il risultato di un'indagine su quasi 100 mila operai presentata pochi giorni fa dalla Fiom-Cgil che dedica una sezione ai lavoratori stranieri (www.fiom.cgil.it/ inchiesta/default.htm). Il 20 per cento dei dipendenti con permesso di soggiorno ha subito intimidazioni sul posto di lavoro, il 5,3 violenze fisiche da parte dei colleghi, il 27,6 discriminazioni legate alla nazionalità. Il 7,8 per cento delle donne ha sopportato attenzioni sessuali indesiderate e il 4,7 ha subito violenze fisiche.
Il 35 per cento degli intervistati lavora in Italia da più di dieci anni. Solo il 20 da meno di cinque anni. Il 44 svolge il suo lavoro da almeno sei anni e il 36,8 lavora sempre nella stessa azienda. Il 64 per cento vive con la propria famiglia e nella metà dei casi ha figli piccoli.
Il 10,7 per cento degli operai immigrati ha una laurea, contro lo 0,4 degli italiani. Il 37,9 ha un diploma di scuola superiore (contro il 25,1). Le donne hanno il livello più alto di istruzione: il 21,2 per cento delle immigrate ha una laurea. Ma nella gerarchia del lavoro gli stranieri occupano i livelli di inquadramento più bassi: il 52,1 per cento è al terzo livello, il 14,6 sotto il terzo. In media un immigrato guadagna 1.186 euro al mese. Ma nella metà dei casi si tratta di famiglie monoreddito: il 22 per cento degli stranieri vive con più di cinque persone. Solo il 29,3 per cento ha redditi familiari superiori a 1.900 euro contro il 55,1 degli italiani. Nonostante gli immigrati lavorino più ore degli italiani, più spesso la notte e nel 73 per cento dei casi facciano anche il turno del sabato. Quanto agli incidenti sul lavoro, il 18,2 per cento degli stranieri non ha ricevuto una adeguata informazione sui rischi dovuti agli strumenti o ai prodotti che usa.
Poche righe in cronaca, e nemmeno su tutti i giornali, per l'anziana signora che ha ridotto in schiavitù la badante rumena a Lainate (Milano). A differenza dei delinquenti stranieri (di cui si pubblica nome e cognome), e a differenza dei rapinatori italiani (di cui si pubblicano le iniziali), della signora schiavista non si sa nulla, se non l'età avanzata, 75 anni, e la dignitosa semiricchezza dell'abitazione, una villetta. E così, volendo usarla come metafora, un nome glielo devo trovare io, e la chiamerò Italia. Dunque, la storia: Italia è vecchia. Italia vuole qualcuno che la accudisca essendo i giovani d'Italia incapaci di accudire i vecchi, o svogliati, o scontrosi ed avendo Italia servizi sociali inesistenti. Italia si serve di mano d'opera straniera. Ma Italia fa in modo che questa mano d'opera straniera non conosca i suoi diritti, che sia sfruttata e terrorizzata. Italia non la paga e la ricatta con l'incubo dell'espulsione o dell'arresto. Italia le fa fare la doccia fredda, una volta al mese. Italia le dà da mangiare i suoi avanzi. La rinchiude in un seminterrato. Italia spende poco per pagare la straniera che lavora per lei, ma spende molto in tecnologia per il controllo e la repressione: telecamere a circuito chiuso e addirittura sensori acustici per conoscere i movimenti della sua schiava. Italia usa parole come «serva» e frasi come «è solo una rumena». Italia ha vicini di casa che conoscono la situazione, ma stanno zitti, perché sono italiani anche loro, complici, in qualche modo figli d'Italia. Il capitano dei carabinieri intervenuto ha descritto bene Italia: «Un mix di cattiveria, ignoranza e razzismo». Forse qualche mese fa, osando un po', avrei potuto chiamarla Padania, ma oggi non ho dubbi sul nome da dare alla vecchia schiavista: Italia le sta benissimo, ci canta, per così dire. E non capisco cosa aspettino i governanti d'Italia e la loro melliflua opposizione, a recarsi in blocco fuori dalla villetta di Lainate a intonare qualche canto corale. Per esempio Fratelli d'Italia. Che diamine, un po' di coerenza!
Stimato Sindaco,
io – lo debbo confessare - non sono stato un suo elettore.
Ma lei è il Sindaco della mia città, la città in cui ho scelto di vivere e lavorare e che – a grande maggioranza – l’ha voluta per la seconda volta come Sindaco.
Lei dunque è il mio Sindaco e – oltre alla stima e al rispetto istituzionale – non penso che lei sia un pessimo amministratore, conosco ed apprezzo l’attenzione che ha verso l’Università e la Facoltà di Architettura (attenzione per cui non ho mai mancato di ringraziarla), la conosco come persona garbata e cortese, e poi lei è anche un bell’uomo, il che non guasta.
Le scrivo sul tema dell’antifascismo e della Resistenza; non solo con riferimento alla vicenda - che ha avuto grande rilievo sui media – relativa all’esecuzione di Bella Ciao, ma anche per un’altra, che non ha avuto risonanza, ma a che a me pare molto più preoccupante.
Ma cominciamo dalla questione Bella Ciao; se non capisco male lei sostiene che la decisione di non far eseguire questa canzone dalla Banda Musicale Dalerci non risale a quest’anno, ma al lontano 2003 ed è stata presa da lei personalmente; lei lamenta che solo quest’anno questo fatto sia stato segnalato all’opinione pubblica e sia divenuto oggetto di polemica.
Se posso permettermi la cosa è ancora più grave così: è la sesta volta e non la prima, che – per sua espressa decisione – questa canzone partigiana non viene eseguita: un errore ripetuto sei volte, è peggio che un errore di una sola volta. Il fatto che l’opposizione non se ne sia accorta prima è un fatto anche esso negativo (se così è), ma è positivo che - magari in ritardo – che se ne sia accorta.
Vorrei spiegarle perché ritengo questa scelta un errore.
Il 25 Aprile si festeggia la Liberazione. La liberazione dell’Italia dal nazifascismo. È giusto dire e volere che tutti si riconoscano in questa festa, al di là della fede politica. Ad un’unica ed ineludibile ed esplicita e dichiarata condizione: che si accetti che la Resistenza è l’atto fondativo della nostra democrazia e della nostra Repubblica, che sul valore della lotta al fascismo e al suo padrone nazista ha costruito il suo onore e la sua speranza di riscatto. Agli altri un Ministro comunista, Palmiro Togliatti, ha restituito la libertà (mi riferisco all’amnistia del 22 Giugno del 1946, provvedimento molto discusso, tra l’altro), sottraendoli al carcere che avevano meritato, ma non il diritto di rivendicare pari dignità per la loro parte.
Può spiacere. Ma la Resistenza l’hanno fatta donne e uomini di tutta Italia di tutte le fedi politiche, comunisti, azionisti, socialisti, democristiani, repubblicani, monarchici e senza partito, l’hanno fatta per l’Italia e contro il fascismo, contro la repubblica fantoccio dei burattini di Hitler, contro il nazismo.
Da quelle fotografie non si possono cancellare i comunisti (non si può togliere Luigi Longo del Partito Comunista Italiano dalla fotografia del 5 Maggio a Milano con Enrico Mattei, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Giovanni Battista Stucchi, Mario Argenton; non si può togliere il Presidente della Costituente Umberto Terracini del Partito Comunista Italiano dalla fotografia del 27 Dicembre del 1947 con Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi per la firma della nostra Costituzione), come sarebbe insensato voler cancellare da quelle foto i democristiani, i liberali, i socialisti, i repubblicani.
Cosa vuole, avvocato Tedde, noi non siamo storici, ma quelle fotografie lì sono; e in quelle fotografie ci sono sì molte parti politiche, non ci sono solo i fascisti.
I partigiani si sono fatti “parte” per riscattare l’Italia, una delle loro canzoni più belle è Bella Ciao, una canzone d’amore, struggente ed un po’ ingenua, una canzone di tutti i partigiani, una canzone di tutti gli italiani.
Qualcuno cantandola, alzerà il pugno chiuso, qualcuno la canterà – come me – con le lacrime agli occhi, altri compostamente ed in modo sobrio. Cosa vuol farci, la gente si esprime a modo suo, per come si sente di esprimersi.
So che, passate le polemiche, lei farà in modo che la nostra magnifica Banda suoni in modo impeccabile al prossimo 25 Aprile la comune canzone degli antifascisti, Bella Ciao, perché penso che lei non sia irragionevole e so che lei non è sciocco. Di questa scelta che auspico, la vorrò ringraziare di cuore.
La seconda questione è – se capisco bene le cose - molto più preoccupante.
Un collega catalano mi ha segnalato la lapide ai caduti della seconda guerra mondiale, che non solo mette insieme soldati di leva, partigiani e soldati della repubblica fantoccio dei burattini di Hitler (la “repubblica sociale italiana”) con la rispettiva indicazione di appartenenza, ma anche li qualifica tutti (se ho ben capito, e così appare) come persone “che donarono la vita perché l’Italia fosse libera e giusta”.
Cominciamo dai fatti. Premetto che si deve pietà a tutti i morti. Si deve rispetto al dolore dei loro familiari ed amici.
Ma i fatti sono che i soldati dell’esercito del Regno d’Italia sino alla data dell’8 Settembre 1943, erano soldati di un esercito aggressore ed invasore (quello della “pugnalata alla schiena” alla Francia) dalle Alpi, ai Balcani, al Don.
Ma i fatti sono che i soldati della repubblica fantoccio dei burattini di Hitler, erano soldati alleati e servi dei nazisti, impegnati nei rastrellamenti di partigiani e nella deportazione di compatrioti.
Ma i fatti sono che per la giustizia e la libertà si sono battuti solo i partigiani e i soldati del ricostituito esercito italiano impegnato a fianco delle armate anglo-americane (le armate del secondo fronte terrestre contro i nazisti, il primo fronte era quello dove stavano vincendo, dilagando verso la Germania, le truppe dell’Armata rossa, dopo gli assedi falliti di Mosca, Stalingrado e Leningrado).
Falsificare la storia non è un bene per nessuno, neppure per i caduti di Salò, la cui morte io ascrivo alla responsabilità dei capi fascisti e che, se hanno combattuto per un’illusione e in buona fede (e credo che per alcuni di loro sia stato così), lo hanno fatto sbagliando, al fianco delle SS e della Gestapo, al servizio dei servi di Hitler; voglio dire dunque che anche della loro morte è responsabile il fascismo.
Lei potrà dirmi che la storia è complicata ed io – che non sono uno storico – le risponderò che è vero; lei potrà dirmi che vi sono controversie e che vi sono stati eccessi ed ingiustizie nelle azioni dei partigiani (e delle truppe anglo-americane - chi ricorda lo stupro di massa dopo la battaglia di Montecassino che possiamo riconoscere nel libro e nel film La Ciociara o, in una dimensione maggiore, ha in mente il bombardamento di Dresda, lo sa; e delle truppe sovietiche – chi ricorda l’estensione degli stupri etnici in Germania ed Austria, o in una dimensione maggiore, ha in mente il massacro di Katyn, lo sa) ed io – che non sono uno storico – le risponderò che è vero.
Ma c’era da prendere parte allora, e la parte giusta, la sola parte giusta, la sola parte della giustizia e della libertà era ed è quella dei partigiani.
Non so per quale pasticcio, disattenzione, sciatteria sia stata fatta una lapide con quella scritta: lei non è irragionevole e non è sciocco, si renderà conto che essa è intollerabile; se fosse stata fatta consapevolmente sarebbe un tentativo mostruoso di stravolgere la storia, una barbarie culturale.
So che le faccio perdere del tempo, ma credo che non sia inutile una discussione tra noi; una discussione che – se lei volesse – potremmo svolgere pubblicamente nelle scuole o in Facoltà: lei sarebbe accolto con cortesia e rispetto, come sempre, ed ascolteremo con attenzione le sue opinioni e accoglieremmo con gioia un suo “ravvedimento”; tra l’altro all’inizio dell’anno del 1948, sessant’anni fa, entrava in vigore la splendida Costituzione italiana: perché non distribuirla a tutti gli studenti a cura dell’Amministrazione?
Rinnovandole i sensi della mia stima, la saluto cordialmente, certo di una sua cortese risposta.
Viva la Repubblica! Viva la Resistenza!
Il sito di Arnaldo Bibo Cecchini
Presidente Scalfaro, si apre un altro 25 aprile di polemiche. La destra contesta alle associazioni partigiane i toni della loro «mobilitazione straordinaria», indetta perché l'Italia «corre nuovi pericoli ed emergono sempre più rischi per la tenuta del sistema democratico». Approva il richiamo alla piazza?
«Non lo condivido e non mi sembra una cosa positiva. Se ogni forza che opera nel Paese mantiene senso di responsabilità e freddezza, rischi non se ne corrono. Credo che, sia pur considerando che la nostra è una democrazia ancora giovane e i cui sviluppi meritano una costante attenzione, un grido d'allarme come quello lanciato con il "manifesto" contestato vada oltre una normale dialettica e suoni onestamente sproporzionato, per quanto spiegabile».
Spiegabile forse con il bisogno di dare una «prova di esistenza in vita» della sinistra dopo il voto?
«Siamo in una fase post-elettorale che ha visto un trionfo inaspettato del centrodestra (inaspettato almeno rispetto alle dimensioni) e una caduta a picco della sinistra, Pd a parte. Risponde dunque a una prevedibile logica il soprassalto di chi ha perso e vuole dimostrare che un antico patrimonio di ideali e valori non è tramontato, che esiste ancora e resta custodito con saldezza. Ma sono convinto che per affermare tutto questo non ci sia bisogno di particolari mobilitazioni. Esasperare i sentimenti degli italiani con proclami più o meno squilibrati non è mai utile e positivo. Da qualunque parte lo si faccia».
Lei, che presiede l'Istituto nazionale di storia della lotta di liberazione, come giudica le reazioni che propongono di abolire la festa del 25 aprile?
«È un contrappunto per alcuni versi inevitabile, rientra in certe manifestazioni di assoluta inintelligenza che abbiamo già visto in passato. Sono convinto che non si debba in alcun modo inseguire le provocazioni di certi agitatori che negano la storia, ciò che è di una gravità eccezionale. Non meritano neppure di essere citati. In fondo rappresentano poco più che se stessi».
Non è proprio così. Berlusconi, ad esempio, non ha mai onorato la Liberazione e sembra aver fatto scuola.
«Quei comportamenti denunciano gravi lacune culturali e rientrano in una strategia di rigetto dei valori fondanti della democrazia repubblicana. Ed è su questo che oggi si impone una riflessione pubblica, della società e non solo del mondo politico. L'insurrezione contro il nazifascismo è un evento storico che va valutato in modo serio, trasparente e imparziale. Insomma: i fatti stanno lì e non possono essere negati perché magari non ci piacciono, né modificati o magari esaltati troppo. Ciò premesso, oltre al doveroso ricordo che dobbiamo dedicare a tutte le vittime di quella dura e terribile stagione, va rianimato l'orgoglio dei sentimenti di coloro che si batterono in prima persona riconquistando l'Italia alla libertà».
Ma come si realizza questa «rianimazione» se perfino chi rappresenta le istituzioni si chiama fuori? Il sindaco di Milano ha annunciato che non sarà presente né alle cerimonie del 25 aprile né a quelle del primo maggio.
«È un problema di trasmissione della memoria, che non può essere amputata o fatta oggetto di un uso politico. Bisogna far entrare nella circolazione del sangue di ogni persona, vecchia o giovane, gli antidoti al totalitarismo. A partire dalla tolleranza, dal rispetto dei diritti e dei doveri, dalla tutela della Carta costituzionale che proprio quest'anno compie sessant'anni. Quanto al sindaco di Milano, non voglio polemizzare con le sue scelte, ma è chiaro che chiunque abbia un incarico di responsabilità deve interpretarlo con atteggiamenti limpidi e sereni, tenendo a fuoco i valori di fondo. Che sono di tutti».
Beppe Grillo ha convocato per oggi a Torino un incontro pubblico che è percepito come una contromanifestazione.
«In un momento di assestamento politico come questo (assestamento anche psicologico per molta gente che è ancora sotto choc, come gli sconfitti dal voto), è indispensabile che chiunque sa di avere una voce ascoltata si ponga qualche remora, qualche limite. L'Italia non ha bisogno di accensioni incontrollate. Servono invece sentimenti positivi, pacatezza, responsabilità, nello sforzo di trovare un denominatore comune. De Gasperi questo sforzo lo fece con passione e ragione, "con intelletto d'amore" come si disse, e gli italiani risposero.
Da capo dello Stato, lei sdoganò i post-fascisti al governo e celebrò i 50 anni della Liberazione con un pellegrinaggio laico attraverso l'Italia.
«Anche da questo punto di vista non fu un periodo facile, il mio settennato. Ci furono diffidenze da superare, in Europa soprattutto, e agitazioni interne da riassorbire. Ce l'abbiamo fatta collaborando nell'interesse comune. Per ciò che riguarda la competizione sulla storia, in quel periodo si alternarono diversi momenti tesi. Che furono però superati, come sempre è avvenuto da quando è finita la guerra. La democrazia, da noi, è più forte di quel che tanti credono. E la sua identità comincia il 25 aprile 1945»
Se si dovesse ridurre ad un nucleo essenziale la filosofia politica del governo Berlusconi, potremmo trovare una sintesi accettabile nella formula « dismissione dei beni pubblici». Precisando però subito dopo che tale espressione, che a prima vista sembrerebbe collocare il governo nel quadro del liberismo internazionale, va intesa ed interpretata con una serie di connotazioni molto particolari e molto italiane.
Infatti, più che ad una liberalizzazione selvaggia ci troviamo di fronte ad un più generale processo di riduzione di tutti i controlli pubblici, alla progressiva, ma continua erosione dell'autorità di ogni soggetto capace di rappresentare gli interessi collettivi e quindi di dettare le regole comuni a tutti. L'erosione dei beni pubblici non è solo una dimensione economico-patrimoniale: essa significa il declino della classe dirigente di un paese, la perdita della sua capacità d'immaginazione politica e di pensare una nozione d'interesse generale e di lungo periodo. Un'idea d'interesse generale vuol dire progettare il futuro, spingere la politica verso una dimensione in cui essa non è semplice riflesso e mediazione degli interessi, ma qualcosa di più, costruzione delle condizioni del progresso dell'intera collettività. Un'idea d'interesse generale del paese vuol dire per esempio non svenderne l'autonomia della politica estera, evitare vassallaggi che si rischia di pagare a caro prezzo.
Quando la politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un'idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole, un paese va incontro al suo declino. Il governo Berlusconi, in modo talvolta furbo e talvolta arrogante, non solo rispecchia tutte le debolezze del paese, ma pensa di usarle a proprio favore, offrendo a drammatici problemi strutturali risposte e rimedi parziali e di breve periodo. Da un certo punto di vista la coalizione che lo rappresenta, pur eterogenea e qualitativamente non di alto profilo, rappresenta in qualche modo il paese. Ma questo rispecchiare il paese (cercheremo di portare qualche esempio) è un rappresentarlo in modo perverso e coincide con la rinuncia a qualsiasi capacità di migliorarlo, con una sorta di resa di fronte ai vizi nazionali e l'abbandono di qualsiasi capacità progettuale.
L'effetto di questo tipo di «governo» è quindi tale da spingere il paese verso un declino forte e drammatico, specialmente se si pensa che, a livello internazionale, il vuoto lasciato da tali debolezze viene riempito dall'iniziativa altrui. 1 momenti migliori dell'era democristiana sono stati quelli in cui quel partito riuscì ad esprimere un'idea d'interesse generale, anche entrando in urto con i settori più chiusi ed arretrati delle classi dirigenti. Ovviamente anche allora questa progettualità spesso finiva per esaurirsi, trasformandosi nella semplice mediazione degli interessi. Ma oggi siamo di fronte ad un dato nuovo, perché si tratta di ben di più che di debolezza dell'azione politica rispetto agli interessi particolari: siamo di fronte ad un'inversione della gerarchia tra essi. Al posto di una politica alta, capace di indicare una strada, gli interessi parziali hanno preso il sopravvento, facendo della dimensione pubblica un luogo che ospita e tutela la loro parzialità.
Il conflitto d'interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio non è quindi un incidente, ma una gigantesca metafora della politica del suo governo. Non dallo Stato al mercato, ma dallo Stato al privato, e soprattutto ad un privato ben poco competitivo, molto protetto e spesso clientelare. […]
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Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d'Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l'astensionismo che oggi significa non l'ennesima protesta ma la prova d'una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.
Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E' un'urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l'ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s'è sostituito in gran parte dell'elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.
Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E' fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E' fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l'altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l'inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell'ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell'umano che è la guerra.
Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall'ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l'altra dal proprio giardino.
Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell'ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l'ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c'è formula in grado di avere un reale impatto.
So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall'interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall'89). Non nell'averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.
Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.
So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c'è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l'amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell'urgenza che ci sta davanti?
Quel che ci ha fatto mettere nell'urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.
Dagli anni ‘80 a oggi - un lungo periodo, quindi - la Costituzione vive essendo oggetto di quotidiano logoramento. Quello che, in origine, si considerava un disegno unitario di vita politica e sociale, ha iniziato a essere scomposto concettualmente in parti diverse e le si è trattate, ora questa ora quella, come materia che potesse essere ri-trattabile a seconda delle esigenze del momento: secondo, diciamo così, opportunità e, qualche volta, opportunismo. Cadeva quello che si disse essere stato fino ad allora il "tabù costituzionale", l’intoccabilità della Costituzione. I pochi che, prima, avevano immaginato cambiamenti erano stati, a loro volta, considerati, dalla communis opinio politico-costituzionale, degli intoccabili. Iniziava un percorso che sembra oggi concluso con un rovesciamento: chi non ha almeno una proposta di riforma, è un conservatore fuori tempo. I risultati, peraltro, a onta dei molti sforzi profusi dai riformatori, sono stati, nel complesso, grandemente deludenti. La Costituzione o ha resistito a chi la voleva cambiare o, dove non ha resistito, è stata cambiata, per generale riconoscimento, in peggio. Onde, il sentimento di frustrazione che nasce dallo scarto tra ciò che si vorrebbe e ciò che si riesce a ottenere. A cui si può aggiungere un altro scarto, assai pericoloso: tra i riformatori stessi e i conservatori costituzionali: i primi più numerosi nel ceto politico; i secondi, tra i cittadini comuni, quelli che, a grande e inaspettata maggioranza, nell’estate del 2006, ha bocciato la progettata riforma dell’intera seconda parte della Costituzione. L’attaccamento dei secondi stride con l’affannarsi dei primi e in ciò sta uno dei non minori motivi di distacco della società civile dalla politica, accusata non del tutto a torto di avere prescelto la Costituzione come capro espiatorio, per dirottare altrove le proprie insufficienze.
Si iniziò più di venticinque anni fa, con la parola d’ordine della "grande riforma", la riforma che avrebbe dovuto spianare la strada alla cosiddetta "seconda repubblica". (...) La democrazia maggioritaria, di cui si iniziò a parlare allora, mirava sì a rafforzare la funzione esecutiva, esaltando la posizione del capo del governo con qualche soluzione di tipo presidenziale che avrebbe depresso la funzione del Parlamento e, in esso, dei partiti politici, a favore di qualche forma di investitura popolare diretta. Democrazia immediata contro democrazia rappresentativa, e semplificazione bipolare della vita politica. Con numerose e divergenti proposte, questa prospettiva è stata coltivata per molti anni, fino a ora, alimentando commissioni parlamentari, dibattiti scientifici, carriere scientifiche e politiche. Non si è tradotta in pratica costituzionale, ma in pratica elettorale. Qualcosa di simile a ciò cui aspirano i riformatori costituzionali è stato infatti ottenuto con le riforme delle leggi elettorali, con risultati discutibili e, sotto certi aspetti, addirittura pericolosi, poiché le istituzioni di garanzia, pensate per un sistema politico a sfondo proporzionale, sono deboli di fronte a un sistema a vocazione maggioritaria. Onde, una pericolosa schizofrenia. (...)
Ciò che colpisce, in generale, è la forza attrattiva delle proposte di riforma costituzionale, una volta che riescano a prendere piede. Sia la democrazia maggioritaria che il federalismo, all’inizio, erano la bandiera di piccole forze. Ma queste bandiere, a poco a poco, hanno guadagnato spazio e proseliti. Le proporzioni, tra i pro e i contro, si sono invertite. La maggioranza larghissima è oggi pro riforma. C’è una logica profonda e naturale in questo mutamento di posizione, quasi una forza invincibile. Lo sapevano bene gli antichi quando circondavano di cautele non solo le deliberazioni costituzionali, ma, prima ancora, le proposte di deliberazione costituzionale. La logica è questa: a ogni opera di costituzionalizzazione segue l’assegnazione di una particolare legittimazione alle forze che vi hanno partecipato, e di delegittimazione alle forze che si sono, o sono state escluse. Il concetto di "arco costituzionale", che tanta importanza ha avuto nella storia dei primi decenni della nostra Repubblica, ne è la dimostrazione lampante. Onde, una gara a star dentro i processi di riforma, affinché ciò che ne possa venir fuori porti anche il proprio segno. (...) Tutti vogliono cambiare la Costituzione, ma tutti hanno idee diverse su come cambiarle: il miracolo costituente d’un tempo è difficile che si rinnovi oggi, quando qualsiasi mutamento della Costituzione si risolve, per gli uni e per gli altri, in un vantaggio o in uno svantaggio, che ciascuno è in grado di calcolare (magari sbagliando i calcoli, ma non è questo che conta). Manca quell’iniziale "velo dell’ignoranza" circa la distribuzione dei costi e dei benefici che, all’inizio di un’epoca costituzionale, induce gli attori, ignari in proposito, ad orientarsi secondo idee generali e non secondo interessi particolari. La riprova sta nel fatto che entrambe le riforme della Costituzione che abbiamo finora avute, la prima compiuta (il federalismo) e la seconda abortita (la seconda parte della Costituzione), non sono state approvate con maggioranze molto più ristrette di quelle amplissime che, in principio, si dichiaravano favorevoli.
La situazione è, oggi, questa. Tutti, quasi, nel ceto politico, si dichiarano per una riforma, salvo dissentire su quale riforma. La conseguenza è che la Costituzione è restata in piedi non per adesione e convinzione, ma per assenza di forza sufficiente a modificarla: una situazione imbarazzante di logoramento, di erosione continua della sua legittimità. È stato così fino a ora, e già si dice che si proseguirà: si spera, ma con limitate speranze, che si giunga presto al termine di questo tempo di costituzione sempre da riformare e mai riformata.
IN TV Nel febbraio del ’43 i militari italiani fecero una rappresaglia nel villaggio greco di Dominikon uccidendo 150 civili. Racconta questa strage il documentario «La guerra sporca di Mussolini» in onda domani sera su History Channel su Sky e poi su Rete4
Domenikon, 16 febbraio 1943. Il piccolo villaggio rurale della Tessaglia, non lontano dal confine greco con la Macedonia, quel giorno vede un’azione partigiana contro gli occupanti dell’Asse. Dalle colline sparano sui convogli italiani, nove militari perdono la vita. La rappresaglia, durissima, si rivolge contro la popolazione civile. Le case vengono incendiate. I maschi, dai 14 anni in su, vengono strappati alle famiglie e fucilati. «Una salutare lezione» dirà il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo. Sono 150 i morti civili di questa Marzabotto greca e il massacro, questa volta, è perpetrato dalle forze dell’esercito italiano. Domenikon nel 1998 è stata proclamata in Grecia città martire ma, ancora oggi, è difficile ricostruire la storia di questa e di altre atrocità compiute dalle forze di occupazione italiane in Grecia nella Seconda guerra mondiale. Sarebbero 1500 i militari che si macchiarono, dal 1942, di crimini contro l’umanità: stupri, uccisioni di massa, incendi, saccheggi.
È questo il tema del film-documentario «La guerra sporca di Mussolini», prodotto da Gioia Avvantaggiato, diretto da Giovanni Donfrancesco, che sarà trasmesso domani alle 21 da History Channel su Sky e, in seguito, da Rete 4. La Rai, invece, non aveva manifestato interesse al progetto. Il documentario si avvale delle ricerche di Stathis Psomiadis, che nel massacro perse il nonno e che si è dedicato alla raccolta delle testimonianze di ciò che avvenne nel suo villaggio di origine. E di Lidia Santarelli, storica italiana, docente alla Columbia University a New York. Nel film i vecchi sopravvissuti rievocano: alcuni che capivano l’italiano, sentendo i militari dire «bruciamo tutto», avvertirono gli altri. «Qui ci ammazzano tutti». Ci fu chi riuscì a salvare un figlio buttandolo in un fosso.
Dice Lidia Santarelli, che ha dedicato molte ricerche alle testimonianze e alla memoria in Grecia negli anni dell’occupazione italiana, che c’è una strana discrasia fra i documenti che riportano le testimonianze immediate sulle atrocità italiane e le memorie degli anni successivi al 1950. «Subito dopo la Liberazione il governo greco sottopose alle Nazioni Unite centinaia di casi in cui i militari italiani erano ritenuti responsabili di crimini di guerra contro l’umanità» ed è documentato, sostiene la storica, che le truppe italiane furono impiegate massicciamente nelle operazioni volte a stroncare la lotta partigiana e a sradicare le organizzazioni della Resistenza nelle aree rurali della penisola. «Esiste la documentazione storica che testimonia che, a cominciare dalla fine del 1942, la politica repressiva degli italiani si trasformò in una guerra condotta contro i civili».
Insomma, anche quella italiana fu, come sono tutte le guerre e particolarmente quelle di occupazione che fronteggiano l’ostilità delle popolazoni civili, una «guerra sporca». In Grecia come nei Balcani, in Slovenia, in Etiopia. E però le denunce non ebbero corso. Per questo, e poiché i crimini di guerra sono sempre perseguibili, il sostituto procuratore militare di Padova, Sergio Dini (presente alla proiezione del film, ieri a Roma alla Casa del Cinema) ha presentato una denuncia formale alla procura militare di Roma, l'unica competente per tali reati commessi da italiani all'estero.
Eppure, le testimonianze successive cambiano, nella stessa Grecia, dove si tende a distinguere fra gli italiani bonari e i nazisti tedeschi. «Italiani brava gente - dice un altro storico intervistato nel film documentario, Lutz Klinkhammer - non è una invenzione ma è falso che questo fosse l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». Klinkhammer cita le fucilazioni italiane in Slovenia che, nella provincia di Lubiana, ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il 20% dei prigionieri. Cosa avvenne? Perché quella discrasia che ancora oggi pesa sulle «macchie bianche» della storia italiana, sulla difficoltà nostra a fare i conti con la storia? Nel 1946 cambia tutto. C’è il roll back, c’è il mondo spaccato in due. La Grecia infiammata dalla guerra civile tra comunisti e monarchici è il primo banco di prova della confrontation nel mondo bipolare. La guerra fredda mette fine alle aspirazioni di giustizia.
In queste giornate nelle quali ci si occupa soprattutto, se non esclusivamente, di liste elettorali, mi sono domandata più volte: perchè? Perché questo desiderio diffuso (chiamiamolo così) di diventare parlamentari, di essere candidati e candidate, di essere comunque proposti per un posto alla Camera o al Senato? Parlo della sinistra, s'intende, cioè del cosmo che un po' , da una trentina d'anni e più, penso di conoscere. E mi è venuto in mente un particolare abbastanza noto (ma rimosso) della vita politica di Enrico Berlinguer: nel '68 e nel '72 l'allora già di fatto leader o dirigente di primissimo piano del Pci votò per ben due volte contro la propria elezione a deputato, la prima volta con successo, la seconda dovendo cedere alla decisione di spedirlo, ad ogni buon conto, a Montecitorio. Oggi un simile comportamento appare fuori dal mondo - già lo era, in parte, nei primi anni '70, quando ancora la pratica del Pci privilegiava nettamente il ruolo dirigente nel Partito su quello o quelli istituzionali, ed, anzi, diventare deputato equivaleva ad una sorta di “premio di pensionamento”. Oggi, a sinistra, desiderano diventare parlamentari quasi tutti coloro che occupano un ruolo dirigente e gran parte di coloro che fanno attivamente politica - quelli che non l'hanno mai fatto come quelli che l'hanno fatto a lungo, i giovani come i “vecchi”, gli inesperti perché vogliono fare questa esperienza come gli “esperti” che vogliono continuarla. Continuo a chiedermi perché. Perché in una fase storica di crisi della politica e di non grande credito delle istituzioni c'è una tale “corsa” a entrare a far parte della così detta “casta”? La risposta non può essere nè univoca nè moralistica, e ci rinvia, come è logico, alla politica, al fare politica oggi, al nostro rapporto con la crisi della suddetta politica. Intanto, ho trovato cinque ragioni, tra di loro spesso intrecciate, che forse ci possono aiutare a capire. Le elenco in ordine crescente (secondo me) di importanza.
La prima è anche la più ovvia e banale: i privilegi materiali a cui il mestiere, pur precario, di parlamentare, dà diritto. Se ne parla molto poco, a sinistra, con imbarazzo, talora con finto pudore e non poche ipocrisie - da sempre, a sinistra, il rapporto con il denaro è un tabu che non si ha il coraggio di rompere. E' innegabile che questa motivazione, magari inconfessata, magari perfino inconsapevole (specie nei maschi, specie nei molti di noi che hanno alle spalle una vita abbastanza miserabile) sia reale. E tuttavia sarebbe fuorviante concluderne che si desidera diventare onorevoli “per i soldi”: non è così, non è questa la pulsione principale, almeno per la gran parte.
La seconda ragione risiede nel privilegio oggi più immediatamente connesso al ruolo di parlamentare: la visibilità, potremmo dire. O meglio: la conquista dell'accesso, di cui anni fa ci parlava Jeremy Rifkin. Accesso mediatico, naturalmente: un parlamentare accede - può accedere - alla Tv, ai giornali, al sistema dell'informazione, là dove un non parlamentare, ancorché dirigente politico di grado elevato (un segretario cittadino o regionale), è generalmente tagliato fuori. Appunto, non accede - “non esiste”, rischia l'invisibilità. Nella società mediatica, questa è la legge - perversa - che si è affermata. Dalle piccolo emittenti locali fino a “Porta a Porta” , l'accesso è garantito, almeno come chance, soltanto se si è “dentro” , se si è interni a determinate caste o corporazioni: oltre agli eletti, appunto, I giornalisti, gli economisti di scuola liberale, gli “esperti” di qualche cosa (criminologia, costume, psicologia, eccetera).
La terza ragione: la conquista di uno status che resta, a dispetto di tutto, invidiabile. Un onorevole è comunque “qualcuno”: agli occhi di sua moglie (se maschio, come in genere è), nella considerazione dei parenti e dei vicini, nel prestigio sociale generale. Anche se si tratta di un “peone”, privo di notorietà nazionale, anche se non riesce a determinare nessuna decisione (ma un emendamento di successo può sempre utilmente scappargli!), anche se non conta nulla nelle gerarchie autentiche del potere (ma vai poi a capire quali esse siano effettivamente), quando torna nella sua città o gira nel suo quartiere questa percezione di status è forte, soggettivamente e oggettivamente. Riscatta dall'anonimato della vita, da mille fatiche mai seriamente ripagate, talora, perfino, da una virtù che è stata fino ad allora soltanto premio a se stessa. Offre vero e propri momenti di ebbrezza dolce. Insomma, se non dà senso alla vita, aiuta a trovarlo - almeno per una stagione.
Quarto: il sistema di relazioni nel quale ogni parlamentare viene immesso e di cui può usufruire, più o meno intelligentemente. Nel fare politica, come è noto, le relazioni sono fondamentali - lo sono davvero, specie quando si perseguono obiettivi buoni, “nobili”, e si ha bisogno come il pane di alleanze, convergenze, sostegni. E' vero che il Palazzo è lontano dalla società reale, un mondo “a sé” malato di autoreferenzialismo. Ma è anche ricco di opportunità e di occasioni, oltre che fonte di notizie - e sede di un “sapere” specifico, anzi di saperi acquisibili solo per pratica diretta, compresenza, appartenenza.
Quinta e ultima ragione: il potere. Uso questa parola con prudenza, giacché, come ho scritto qualche riga fa, deputati e senatori (e Parlamento) di potere effettivo ne hanno ben poco. Eppure - parlo sempre della sinistra - questa è una verità parziale, che vale in riferimento alle gerarchie della politica o dell'establishment , non rispetto alla società reale. Mille parlamentari saranno pur troppi, come si dice nel dibattito corrente - e non valgono molto in confronto al centinaio dei loro omologhi della capitale dell'Impero, i senatori Usa. Ma costituiscono una élite “che può fare infinitamente di più di quello che è consentito alla “common people”. Un gruppo ristretto “che può” determinare scelte che hanno conseguenze sulla vita di tutti, là dove i più non possono nulla.
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Se queste considerazioni hanno un fondamento, forse è più chiaro il meccanismo che spinge molti compagni (e compagne) verso la carriera di parlamentare: perchè ormai, anche a sinistra, anche e soprattutto nei partiti di sinistra, la coincidenza tra il far politica “a tempo pieno” e i ruoli istituzionali si è fatta stringente. Quel che si è drammaticamente rotto, nel corso di questi decenni di crisi, è l'idea (l'ideale, se volete) della comunità politica: il Partito (ma anche l'associazione o il movimento) non solo come “alterità”, rispetto all'esistente sociale e politico, ma come mescolanza paritaria di idee e vissuti, bisogni e competenze, ruoli e pratiche. Il partito di sinistra o comunista o ecologista come sede di un'altra politica, dove non tutti sono eguali, ma tutti hanno eguale dignità, perché il fondamento della dignità non sta nei singoli, nelle loro “carriere” o nei loro “successi”, ma nella forza dell'insieme - nella politica che si inventa e si pratica. Se non ci fosse stato questo fondamento, come avrebbe potuto il Pci diventare quel “paese nel paese” di cui tanto si è parlato? Se non lo ritroviamo, come facciamo ad evitare che l'unico riconoscimento possibile, per tanti militanti, sia quello di perseguire la strada dell'elezione?
Ma allora il problema che abbiamo di fronte è proprio quello di ricostruire - o di provare a ricostruire - una dignità piena della politica e degli strumenti di cui questa politica può dotarsi: dove un dirigente o una dirigente diventano tali , e sono riconosciuti tali, anche se non si candidano alle elezioni, non fanno un comunicato al giorno, non rilasciano un'intervista a settimana, non improvvisano proposte spettacolari o convegni ad hoc una volta al mese. Un problema gigantesco, certo. Forse una missione impossibile. Ma bisognerà pure cominciare a discuterne - a provarci. Anche in Rifondazione, dove la “fatica delle liste” si è rivelata più improba del solito. Ma dove, intanto, andrebbe apprezzata una novità: per la prima volta nella storia di questi anni, i criteri di selezione delle candidature sono stati presentati alla discussione in termini chiari e trasparenti, senza infingimenti o ipocrisie, e senza tacere dei costi dolorosi che essi in parte comportano. Non è detto che quei criteri siano “assolutamente giusti”, o perfetti. Ma l'atto di onestà politica, anzi di incipiente risanamento politico, è innegabile - e inverte una pratica “antica”. Forse, se si vuole fare una nuova sinistra (o una sinistra nuova), si può cominciare anche da queste “piccole cose”.
Il Pd è una grande barca in cui si vorrebbe tenere insieme tutto, il più visibile tra i padroni e il meno invisibile tra gli operai, per avere a bordo chi regge il timone e chi sta ai remi. Qualunque sia il giudizio politico sul nuovo partito, un merito al sindaco d'Italia va ricosciuto: Veltroni ha mosso una pedina importante che ha modificato l'andamento del gioco. Forse non riuscirà a dare scacco al re, ma sicuramente ha costretto il resto della politica a seguirlo, modificando le strategie di avversari ed ex alleati e terremotando tanto il centrodestra quanto il centrosinistra. Per restare al nostro campo di gioco, la sinistra, si potrebbe controbattere che non è una buona scelta quella di aggiustare le proprie strategie sulle scelte altrui. D'altro canto, non tutti i mali vengono per nuocere.
La caduta del governo Prodi e la scelta di Veltroni costringono le forze di sinistra ad accelerare un processo di unità che negli ultimi mesi sembrava avere perso molto del la sua spinta propulsiva, quanto meno offuscata dalla difesa settaria di microidentà dei soci promotori. Primum vivere, deinde philosophari, dice il vecchio saggio. Alle condizioni date, la sopravvivenza delle 4 formazioni di sinistra non è data: o si cambiano il passo e la prospettiva, oppure si finisce in un angolo, anzi in tanti angoli. Il caso francese insegna. La scelta (obbligata) dei gruppi dirigenti del Prc, Pdci, Verdi e Sd di presentarsi uniti alle elezioni sotto un unico simbolo era la sola comprensibile a quel pezzo di società italiana che non ritiene archiviati, dalla nascita del Pd, la sinistra e il conflitto. Un pezzo di società ferito, in parte deluso e frantumanto che pure rappresenta, oltre a una resistenza allo smottamento della cultura e della democrazia, timidi embrioni di società alternativa.
Eppure questa scelta non convince tutti i promotori de La Sinistra L'Arcobaleno. L'intero Pdci e un settore di Rifondazione - la cui pubblicità appare oggi in una pagina di questo giornale - non digeriscono la scomparsa della falce e martello dal simbolo. Per motivi identitari (si cancella la storia del movimento operaio) e di mercato (altri partiti minori se ne approprieranno rubandoci voti). Preoccupazioni legittime, ma a nostro avviso sbagliate. E non per il motivo che in una trattativa tra diversi bisogna rinunciare a qualcosa, se si persegue il fine dell'unità. Al contrario, perché se quel che è in gioco è l'esistenza di una sinistra nel panorama politico italiano, capace di cogliere una domanda sociale e di rappresentarne le sue anime, allora non ci si può fermare a un patto elettorale destinato a durare una primavera. Se si vuole costruire un progetto per il futuro non ci si può far deviare dalla difesa arroccata di identità già terremotate da una crisi le cui ragioni non sono solo esogene. Non è con un simbolo novecentesco disegnato con attrezzi oggi in disuso che si salvaguardano i valori forti, fondanti, attuali che stanno nella storia del movimento operaio, ma con le scelte concrete della politica, i suoi contenuti, le pratiche di quei valori, arricchiti dal confronto e persino dal conflitto tra di essi: il lavoro e l'ambiente, lo sviluppo e il suo limite, l'uomo e la donna. Sennò, di quale nuova sinistra, di quale nuovo modello sociale andiamo parlando?
Siamo di fronte a un disastro ampiamente annunciato. La scelta del Pd di spezzare la coalizione di centrosinistra rompendo a sinistra per andare da solo alle elezioni, quale che fosse la legge elettorale, ha accelerato la caduta del governo e, a legge elettorale invariata, ha già praticamente consegnato il paese alle destre. Non voglio seminare scoraggiamento ma è inutile nascondere che andare divisi contro una coalizione che si è ricompattata è una gara assolutamente impari. Il che chiede non minore ma maggiore volontà e passione. Nella campagna elettorale bisognerà cercare di mettere tanto più impegno quanto più grave è il rischio non solo per la sinistra - che si vuole miniaturizzare - ma per il paese. Sono in discussione e in pericolo i principi fondamentali con una «legislatura costituente» annunciata da una destra in maggioranza estranea o ostile alla Costituzione stessa. Sotto attacco è stato ed è quel minimo di equità sociale e di autonomia nazionale che il centro-sinistra aveva programmato e sia pur stentatamente iniziato ad attivare.
La rottura a sinistra da parte del Pd è formalmente motivata dalla incoerenza delle coalizioni coatte. Lasciamo stare il fatto che coloro che oggi denunciano il sistema delle coalizioni coatte sono gli stessi che le hanno create con i vari sistemi maggioritari, determinando questo pasticcio chiamato pomposamente seconda Repubblica. Guardiamo, per capire, quale sia la «coazione» che si vuole togliere di mezzo. Il governo è caduto da destra, ma il Pd rompe con la sinistra, incolpandola della fragilità della alleanza. E' vero il contrario. La sinistra, sebbene con difficoltà e sofferenza, ha tenuto sino in fondo e nessuna delle sue rivendicazioni si è scostata dal programma pattuito. Si accusa la sinistra di avere protestato e di essere scesa in piazza. Semmai bisognerebbe ringraziarla per aver cercato di tener viva l'attenzione sulla condizione operaia, sul precariato, sull'estendersi della povertà, sul dramma della guerra; e criticarla, piuttosto, per non averlo fatto abbastanza o con sufficiente capacità di analisi e di proposta. In troppi, al centro, hanno aspettato la strage di Torino per ricordarsi, quando se ne sono ricordati, che lo sfruttamento non è una escogitazione ideologica. E non c'era bisogno di attendere gli ultimi dati della Banca d'Italia per sapere che i salari sono fermi e profitti e rendite galoppano da gran tempo.
Tanto più dopo queste conferme sulla condizione del lavoro il Pd poteva (e potrebbe ancora) scegliere la via di un confronto serio con tutta la sinistra, con l'obiettivo di presentare agli elettori una coalizione veramente nuova perché priva di ambiguità, con cambiamenti veri, testimoniati da scelte precise, di comportamenti politici, istituzionali, economici e morali capaci di contendere alla destra i troppi voti da essa conquistati tra le classi lavoratrici e i ceti popolari.
Il fatto che a questa scelta sia stata preferita quella opposta fa vedere meglio la natura sociale della crisi. Sia i ricatti prima, e poi il voltafaccia dei gruppetti alla destra (i Dini, i Mastella) sia la rottura del Pd con la sinistra corrispondono al rifiuto della maggior parte degli strati sociali più favoriti e dei gruppi dominanti di accettare il compromesso relativamente equo tra capitale e lavoro accennato dal programma originario dell'Unione. Non si tratta solo delle resistenze, vittoriose, contro la tassazione a livello europeo delle rendite finanziarie o delle lotte corporative di gruppi privilegiati ma di una mentalità di vecchia origine ripresa e rinvigorita dalla nuova destra: il fisco come sopruso, il falso in bilancio come colpa lieve, il controllo di legalità come intralcio e angheria. E, poi, il lavoro come pura merce, il salario come unica variabile dipendente, la sacralità di profitto e rendita, il sindacato come pezzo della impresa ma non come soggetto autonomo.
Dietro la crisi e la rottura a sinistra c'è anche - e sarebbe sbagliato non vederlo - il bisogno di corrispondere a un fastidio non sempre diplomatizzato, della amministrazione degli Stati uniti per alcune scelte del governo Prodi (il ritiro dall'Iraq, il rifiuto, almeno formale, di mutare il carattere attuale della missione militare in Afghanistan) oltre che per l'ascolto dato dalle sinistre a movimenti popolari come quello avverso all'estensione della base militare di Vicenza.
Tuttavia è inutile rimproverare al moderatismo di essere tale. Chi si ritiene di sinistra (come anche chi scrive) ha come primo dovere di guardare i difetti propri e di chiedersi se ha fatto tutto quanto poteva per frenare la deriva neocentrista e di destra. E' certo vero che all'origine dello slittamento del senso comune verso il centro e verso la destra vi è la sconfitta storica delle sinistre tradizionali. Ma vi è tuttavia una forte opinione e voglia di sinistra cui la sinistra che c'è non sa corrispondere. Non solo perché è divisa, ma perché una parte delle sue parole sono ormai incomprensibili e altre suonano contraddittorie con i comportamenti concreti.
Non è stato sbagliato vedere che nei nuovi movimenti (la critica alla globalizzazione, il femminismo della differenza, l'ecologismo, il pacifismo) vi è la potenzialità di una sinistra nuova, capace di leggere anche la contraddizione tra capitale e lavoro con la forza di una più compiuta visione della realtà. E non è stata un'impresa inutile cercare di raccordare il bisogno di soluzioni globali qualitativamente nuove per cui battersi, ma difficili e lontane, con la necessità di rispondere ai bisogni immediati, qui ed ora. E' un compito arduo, ma sarebbe un errore rinunciarvi per rifugiarsi nel sogno di reami inesistenti. Quale che sia la collocazione parlamentare una sinistra degna del suo nome deve porsi sempre dal punto di vista di chi vuol risolvere i problemi concreti in modo corrispondente ai valori per i quali dichiara di scendere in campo. Questo vuol dire una «cultura di governo»: ma meglio sarebbe dire una cultura della realtà. In essa non c'è contrapposizione tra la necessità di riappropriarsi di grandi temi abbandonati alle destre (la idea di libertà, la costruzione dell'individuo, la valorizzazione della creatività) con il bisogno assoluto di aderenza ai compiti immediati e concreti. Non ha senso una sinistra incapace di portare via la spazzatura. E ne ha ancora meno una che si proclami alternativa e abbia comportamenti non dissimili da quelli di tutti gli altri gruppi politici. Sarebbe un errore e una colpa per piccole logiche di gruppo evitare di corrispondere al dovere di accelerare i tempi per una sinistra nuova - unitaria, plurale - capace di pensiero alternativo e di attitudine al governo, che si presenti con una voce sola. Ne ha bisogno, insieme alle molte e ai molti che lo aspettano, la democrazia e il paese.
Quarant’anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Legion d’Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E’ il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c’era un grande capace di scrivere in un’altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.
Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l’oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio.
Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c’è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l’Autore - scrive Magris - è uscito dall’inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita».
Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent’anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose».
Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà.
Durante l’esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com’è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent’anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi».
Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all’infinito isolamento della natura e dell’universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell’angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero».
Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l’ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l’odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi.
Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell’Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l’istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero».
«Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l’alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe.
Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all’occhio di Medusa.
Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un’ondata di calore, quasi un’ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c’erano nomi di città che «sorsero all’improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell’attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido.
Quella foto italiana è forse l’unica deroga all’inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L’istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue.
Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l’Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell’uomo standardizzato». L’Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L’uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».