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Tutto rinviato alla settimana prossima. Le Regioni non ci stanno e rifiutano di subire una decretazione d’urgenza che le spogli della sovranità, di recente conquistata, in materia di edilizia. Il primo testo, messo a punto, come le leggi ad personam, dall’avvocato Ghedini è rinviato al mittente. Berlusconi, comunque, ha ripetuto ieri sera che la metà delle abitazioni degli italiani saranno interessate. Che dire? Sembra che, come un soufflé mal riuscito, il piano-casa un giorno si gonfi e l’indomani si sgonfi. Vedremo alla fine cosa ne uscirà: una frittata rimediata con gli avanzi, una maionese impazzita, una torta pasqualina ad alto indice di gradimento? Eppure non è mai stato uno scherzo ma un’idea che ha suscitato, secondo i punti di vista, desolanti angosce paesaggistiche e sfrenate velleità edificatorie.

Ho avuto personalmente il senso di quanto stava accadendo quando un amico architetto mi ha riferito che aveva cominciato a ricevere, dopo il primo annuncio, due o tre richieste al giorno da clienti vecchi e nuovi, interessati a conoscere quali passi intraprendere per moltiplicare spazi abitativi, chiudere verande, soprelevare attici. Anche il felice proprietario di un ultimo piano a piazza Navona si era fatto vivo per sapere come modificare il tetto e costruirvi una terrazza con relativo roof-garden.

Ora sembra che simili attese andranno deluse e che la libertà di ampliamento si spalmerà su 10 milioni di case singole o bifamiliari. Anche se i centri storici saranno risparmiati si tratterà pur sempre di un bombardamento diffuso su gran parte del territorio nazionale, di una esplosione atomica a frammentazione per quanto riguarda l’impatto paesaggistico. Non è detto che questo susciterà proteste di massa.

Piuttosto va analizzata la natura accattivante di una vera e propria provocazione che, proclamando la possibilità di annullare alcuni principi base dell’ordinamento pubblico, si presta a raccogliere un potenziale di consenso di proporzioni difficilmente uguagliabili. Solo affermando la libera noncuranza per ogni regola si poteva, infatti, far lievitare una sicura rispondenza di amorosi sensi tra il leader e il "suo" popolo. Le remore che ha poi incontrato, le obiezioni dei presidenti di Regione, del presidente della Repubblica, di Bossi, anche se costretto a fare buon viso, debbono essergli apparsi qualcosa di vecchio, di conservatore, al limite di incomprensibile. Dalla sua aveva percepito la potenzialità di un arco di consensi che va dai milioni di proprietari di case ai costruttori piccoli e grandi, dai muratori rumeni e italiani, alla ricerca di restauri e ampliamenti di appartamenti agli immobiliaristi liberi di abbattere edifici vetusti e di costruirne di nuovi, dai tanti addetti dell’indotto ai risparmiatori che anelano ad investire nel mattone, dopo il naufragio delle Borse.

Agli effetti della bacchetta magica, foriera di cotanti plausi, vanno aggiunte due prospettive avvincenti: l’avvio di un volano di ripresa economica, sia pure parziale ma, comunque, da non disprezzare con l’aria che tira, e la riprova che, cancellando i pubblici controlli, è possibile rendere veloci le procedure. Se ne derivano danni non resterà che infischiarsene.

Così come se ne sono sempre infischiati sindaci e amministratori regionali disinvolti, palazzinari rapaci, edificatori abusivi, non certo frenati sotto la Prima che la Seconda Repubblica dal timore dello scempio paesaggistico. Agivano, peraltro. contro la legge ma quasi certi di potersi comprare l’immunità e la libertà di devastazione. Spesso in nome del progresso economico contrapposto al conservatorismo delle «anime belle», degli esteti benestanti, degli intellettuali insensibili alle esigenze dello sviluppo. Poi il fatto compiuto avrebbe disarmato il magistrato.

Ma ora il teorema berlusconiano rovescia i termini stessi di questa vecchia dialettica e fornisce la prova scientifica della peculiarità unica dell’avvento di questo singolarissimo personaggio al governo del nostro Paese.

Il tempo trascorso dalla sua discesa in campo si avvicina ormai al ventennio e permette di adombrare il delinearsi di un’epoca storica, a somiglianza di quelle del passato, l’epoca post risorgimentale, l’epoca giolittiana, quella fascista, e, poi, la democristiana e consociativa. Cosa distingue, a mio avviso, l’epoca di Berlusconi da tutte le altre? Il fatto che in tutte le precedenti, fossero ispirate all’assolutismo, al liberalismo, al nazionalismo, al cattolicesimo, al riformismo democratico, in tutte queste epoche, l’operato dei governi esprimeva un livello di mediazione, culturale ancor prima che politica, tendente a raggiungere un equilibrio tra interesse collettivo e quello dei singoli. In definitiva un’idea di una Nazione, ordinata da regole, pur diversamente ispirate od anche esprimenti una egemonia delle classi dominanti, che, tuttavia, aspirava a presentarsi come portatrice di del bene comune.

Così si alternavano i valori - dal nazionalismo imperial rurale del fascismo al solidarismo interclassista con garanzia atlantica del cattolicesimo democratico - ma non veniva meno l’ambizione ad esprimere, attraverso l’arte della politica, le aspirazioni della collettività nazionale.

Al contrario solo con Berlusconi trionfa l’antipolitica come pratica ed ideologia di governo al servizio degli interessi dei singoli e degli aggregati che gravitano attorno all’individuo (famiglia, gruppo di appartenenza, coagulo localistico). Quel che fino a ieri costituiva reato è oggi atto meritorio. Scompare anche il senso di colpa dello speculatore.

Da questo punto di vista la legge edilizia potrebbe segnare un trionfo della filosofia berlusconiana che coniuga l’identità fra l’arte del governare e l’ideologia della piccola impresa padana: se l’impresa è mia è giusto che governi io, che scelga il prodotto di successo, che detti le regole a me più congeniali. Se qualcuno vuole sostituirmi faccia pure, lanci un’Opa, s’impadronisca del pacchetto azionario di maggioranza. Nel frattempo non rompa i c....; non rivendichi equilibri di potere all’interno della "sua" impresa, non caldeggi prodotti alternativi. Il Cavaliere è convinto che tale sia il liberalismo.

Cosa importa, quindi, se si dissolve una eredità culturale che vedeva nella tutela del paesaggio urbano e rurale un valore inalienabile per il presente e per il futuro, se viene cancellata ogni ambizione urbanistica a un disegno di città in cui modernità e tradizione convivessero secondo regole etiche ed estetiche, fossero ispirate da Giuseppe Bottai o da Giovanni Spadolini, da Piacentini o da Piano?

Conta assai di più ciò a cui aspira ogni cittadino come singolo individuo e Berlusconi sa bene di interpretare milioni di singoli cittadini, guidati dal buon senso dell’interesse immediato e non da una ricerca inutile, lenta, dispersiva del bene comune.

Lo ribadirà la settimana prossima ai governatori. Bando alle ciance. Si metta mano al piccone e si dia il via alla colata di cemento. E, visto che si celebra quest’anno il centenario del Futurismo, potrebbe proporre, non più come provocazione ma come manifesto politico, quel proclama marinettiano contro Venezia e il chiaro di luna che vaticinava tra l’altro: «Il tuo Canal Grande allargato e scavato, diventerà fatalmente un gran porto mercantile. Treni e tramvai lanciati per le grandi vie costruite sui canali finalmente colmati vi porteranno cataste di mercanzie, tra una folla sagace, ricca e affaccendata d’industriali e commercianti... Non urlate contro la pretesa bruttezza delle locomotive dei tramvai degli automobili e delle biciclette in cui noi troviamo le prime linee della grande estetica futurista».

Un paese che secoli di sudditanza a una religione controriformatrice e a conquistatori stranieri hanno reso conformista e abituato a cercare soluzioni di ripiego, strade oblique. In un articolo apparso il 12 marzo scorso sulla London Review of Books, Perry Anderson, storico dei movimenti politici di sinistra, ascrive questi vizi alla sinistra italiana, accusandola di aver sperperato un patrimonio di potenzialità a causa di un’endogena disposizione al compromesso. Egli mette sotto processo tutta la sinistra del dopo-guerra, quella comunista, quella socialista e quella radicale, ma soprattutto la prima, le cui mancanze si sono rivelate più gravi perché proporzionate alle più grandi aspettative che aveva destato a partire dalla guerra di Liberazione. Infine, e soprattutto, la sinistra più recente, per quella insistenza autodistruttiva a perseguire la politica della mediazione a dispetto di tutto, e soprattutto della natura dell’avversario, la quale non consente compromessi. Una sinistra dunque senza spina dorsale perché senza coraggio di scelte forti e chiare anche se all’apparenza o nell’immediato impopolari. A mancare non sono state le idealità di giustizia, ma lo stile culturale, quello storicismo paralizzante che cerca la giustificazione ai propri errori e non educa alla responsabilità della scelta; che vuole l’assoluzione e teme il rischio. A mancare non è stata la cultura politica civile e morale, quella ineguagliata educazione alla politica come servizio che la vita dei partiti ha consentito a milioni di italiani, ma invece la struttura anti-democratica e oligarchica dei partiti che si è mostrata non appena la corazza ideologica si è rotta.

La rappresentazione che offre Anderson è impietosa, il giudizio a tratti risentito, a tratti sommario; ma non inutile a chi voglia con mente libera cercare di trarre qualche indicazione che serva alla rinascita dell’opposizione e al suo radicamento nel paese e nella cultura politica diffusa. Almeno tre osservazioni sono meritevoli di riflessione.

La prima riguarda la frattura tra cultura d’élite e cultura popolare, sulla quale si è edificata la fortuna di Mediaset prima e di Forza Italia poi. Questa frattura non è un fatto nuovo nella storia nazionale. L’ha studiata in maniera illuminante Antonio Gramsci, un autore canonico per la sinistra anche se la canonizzazione lo ha reso un mito invece che una fonte di ricerca sociale e una guida pragmatica. Anderson fa perno su questa frattura per spiegare il paradosso di come si sia prodotta una sinistra invertebrata da quella che è stata senza ombra di dubbio la sinistra più importante dell’Europa occidentale, capace di stimolare energie culturali e civili straordinarie, di ispirare la cultura letteraria e quella cinematografica, la storiografia e la filosofia per almeno due decenni. Capace tuttavia di cadere proprio sotto il peso di quella "straordinaria congerie di energie sociali e morali". Il pregiudizio umanista della classe intellettuale della sinistra italiana, innamorata delle "battaglie delle idee" ma poco capace di studiare le trasformazioni prodotte dal consumismo e dalla cultura di massa nella mentalità popolare, ha facilitato la separazione a tratti abissale tra un’élite raffinata e d’avanguardia e un popolo sempre meno acculturato e informato, giudicato dall’alto e spesso disprezzato. Da questa Italia popolare ignota alle élite della sinistra è partita l’ascesa del populismo leghista e dell’anti-civismo berlusconiano. E ancora oggi, a ogni sconfitta elettorale, si rinnova l’incredulità della sinistra per un "fenomeno" che le appare permanentemente strano ed estraneo. La scomparsa dal Nordest è il segno della persistenza nella sinistra di una cultura politica che è insofferente verso la democrazia (non sempre esteticamente attraente), tarda nella comprensione della cultura liberale e della sua tensione con i processi identitari e comunitari, timorosa dell’incontro con culture diverse, e infine non sufficientemente convinta della necessità di avere un sistema informativo nazionale sganciato dalle coalizioni politiche e davvero pubblico.

La seconda osservazione è conseguente alla prima. Essa riguarda il risvolto pratico-politico della cultura idealista e storicista che ha animato molta parte (benché non tutta) della sinistra italiana: la refrattarietà a comprendere e praticare il conflitto politico, e al contrario, la ricerca della mediazione e del consenso. Antagonismo e conflitto come segno di contraddizioni insolute e non invece anche come opportunità per cambiare scenari politici. Eppure, questa prudente radicalità è stata spesso scambiata per populismo o cieco radicalismo. La timidezza dimostrata dalla sinistra nei mesi successivi all’ultima sconfitta elettorale, la sua incapacità a vedere nella politica dell’opposizione, sociale oltre che istituzionale, una forza positiva ha le sue radici in una cultura politica che Sartori ha associato all’abito gesuitico alla mediazione compromissoria. Anderson dice una cosa giusta: la politica, anche quella ordinaria e parlamentare, deve saper usare strategie da "guerra di posizione" e da "guerra di movimento". Ciò significa per esempio che il dialogo a volte deve essere interrotto, che sul conflitto di interessi, su una riforma della giustizia che favorisce gli interessi del capo della maggioranza, sulle leggi liberticide e razziste, sulla distruzione della scuola pubblica, sulla laicità dello Stato non si può transigere, non si può cercare il compromesso. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica tanto quando aiutarlo.

E questo ci porta alla terza osservazione, quella relativa al valore dell’intransigenza in politica, un valore che non si addice con l’essere invertebrati. L’intransigenza non è radicalismo fanatico, ma strategia di coerenza quando è in gioco non tanto o semplicemente l’identità politica di un partito o di una coalizione, ma soprattutto il patto costituzionale, la natura dell’ordine politico, i fondamenti del nostro vivere civile. La Costituzione non è un oggetto di compromesso e sulla sua difesa non si può transigere. La politica costituzionale e l’intransigenza che essa ispira sono la spina dorsale di una sinistra democratica, ciò che la distingue e la oppone alla destra. Libera dalle ingessature dogmatiche, più diretta e chiara nel linguaggio e negli obiettivi, essa è il naturale asse portante di una politica coraggiosa e non invertebrata.

Poiché l’appello per una lista unica della sinistra non è riuscito a convincere tutti coloro che era necessario convincere, partiti e gruppi della sinistra italiana sconfitta e quasi cancellata dallo spazio pubblico nell’aprile scorso stanno presentemente seguendo strade che porteranno loro, e tutti i cittadini e i lavoratori che hanno bisogno anche di loro, a un ulteriore insuccesso. Quei cittadini e lavoratori sono alcuni milioni. Alcuni di questi milioni (prevalentemente giovani, ma molti ormai non troppo) sono lavoratori potenziali cui il sistema vigente dice ogni giorno che non c’è bisogno di loro, di fatto anche come persone. Perciò non hanno le stesse possibilità di permettersi un altro insuccesso come gli autori di articoli, i professori universitari e (sia permesso) molti dirigenti di partito. Siamo tutti responsabili di fronte a loro: autori dell’appello che non sono risultati convincenti finora, aderenti all’appello che forse non sono stati abbastanza numerosi o abbastanza attivi finora, dirigenti politici che hanno detto di no all’appello finora. Possiamo ancora parlarne? Sembra proprio che dobbiamo.

C’è ancora un filo di speranza. Perché non si spezzi è indispensabile affermare che nessuno vuole vincere senza gli altri o contro gli altri, che nessuno vuole misconoscere o negare le differenze, che a nessuno si chiede di rinunciare alle proprie ragioni anche perché veramente ciascuno ha ragione su alcuni punti che non si riesce ancora a tenere insieme (ma non è detto che non ci si riuscirà mai). Bisogna fare qualcosa insieme per il 7 giugno proprio per mantenere viva la possibilità di proseguire ciascun distinto progetto, da confrontare con gli altri e con i cittadini e i lavoratori, dall’8 giugno in poi.

Si presuppone, infatti, che stiamo parlando di diversi progetti per un’impresa comune, non di imprese diverse o, tanto meno, contrapposte quanto agli scopi e ai valori. Se non sapessimo che tutti lavoriamo per una civiltà della pace, del lavoro e della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza, non ci parleremmo (in fondo, non litigheremmo neanche). E in questa situazione eccezionale, con un regime in corso di consolidamento, si tratta di affrontare un passaggio stretto, di scongiurare una comune rovina. La lista unitaria deve essere una lista di garanzia per tutti, che riconosca la pari dignità di tutte le ipotesi in campo per il futuro della sinistra. Per competere fin da ora, dopo tutto, ci sono le anche le amministrative.

Mettere l’accento su ciò che unisce in vista del voto nazionale per il parlamento europeo non significa dunque rinunciare a competere né ad affermare contemporaneamente, ciascuno, tutte le proprie ragioni, le proprie convinzioni circa la via da seguire, i propri simboli. Si può concorrere, sotto i propri simboli e con le proprie ragioni specifiche, a un fronte popolare del lavoro e dei diritti, che offra alla spontanea e diffusa protesta sociale, al diffuso rifiuto di pagare il prezzo della crisi del capitale, un segno di fiducia, di unità e di forza.

Per aderire a quale gruppo parlamentare di Strasburgo? Bisogna domandarsi se una tale questione appassionerà veramente gli elettori, molti dei quali (ma sempre pochi) forse apprenderebbero soltanto durante la campagna elettorale dell’esistenza del Gue (pur importantissimo), e verosimilmente non per affrettarsi a saperne di più. Ma se si dice semplicemente che si va a Strasburgo per dire no a questa labile, fasulla e antidemocratica costituzione europea e alla moneta delle banche che dirige i governi, e per dire sì invece a un governo europeo eletto che metta la moneta e le banche al servizio del lavoro, avremo o sostanzialmente indicato il Gue o comunque eletto persone (scelte, non dimentichiamo, innanzitutto mediante primarie) che lotteranno per questo (in rari casi) anche in altri gruppi, e saranno utili anche là.

Naturalmente questo significa avere fermamente come segno di riferimento il diffuso rifiuto di pagare per la crisi del capitale, cioè sapere che questa crisi è l’occasione per rovesciare l’egemonia culturale degli ultimi trent’anni. In altre parole, per smascherare quell’incompatibilità del capitalismo con la democrazia che fu fondatamente riconosciuta a suo tempo sotto l’impulso dei Reagan, dei Craxi, dei Blair e dei Giddens, e appunto mascherata spacciando per democrazia qualcosa che lo diventava intanto sempre di meno. In America, proprio in America, lo hanno fatto. Ci rendiamo conto di ciò?

Una rinuncia, quindi, certamente s’impone: la rinuncia a concedere spazio e credito a chiunque abbia ancora legami con quei deleteri, fallimentari e decrepiti “nuovismi”. Coloro che insistono sull’ “unità dei comunisti” esprimono in qualche modo questa esigenza innegabile, salvo tradurla in azioni che – nel contesto storico reale, che non sarebbe da marxisti ignorare – non uniscono ma separano, oggi, i proletari in carne e ossa, di antico e di nuovo genere.

Un fronte popolare elettorale per le europee, sostenuto dai partiti nella loro piena e riaffermata identità, ma indicato intanto agli elettori mediante le bandiere rosse del lavoro, unite con quelle arcobaleno dell’amicizia con la natura e tra i popoli, è ancora possibile, ed è soprattutto indispensabile. I milioni di proletari di antico e nuovo genere che scenderanno in piazza il 4 aprile lo meritano.

Se tutto continuerà ad andare come sta andando, ad alcuni milioni di persone, che potrebbero e vorrebbero votare a sinistra nelle elezioni europee di giugno, sarà probabilmente presentata la scelta tra una sinistra unita comunista o una sinistra unita non comunista in concorrenza e in polemica tra loro (e, fino a un momento fa, ciascuna non troppo unanime al suo interno), con il probabile risultato di rendere entrambe meno efficaci. Si tratta delle stesse persone che frattanto avranno dato vita a una delle più intense stagioni di mobilitazione sociale per il lavoro e i diritti nella recente storia italiana, e avranno pertanto largamente meritato molto meglio.

L’appello per una lista unica deve quindi essere sostenuto e rilanciato con forza, fino a quando ci sarà un filo di speranza. Questi cittadini e questi lavoratori non possono continuare a essere delusi. Il regime autoritario di massa che è in corso di consolidamento non aspetta altro che quello al fine di estendere ancora di più la base mista di rassegnazione, risentimento, e micro-conflitto tra interessi immediati e più o meno urgenti, su cui il suo richiamo plebiscitario si fonda.

Dove e perché l’appello per la lista unica non è penetrato, non ha persuaso, ha suscitato reazioni negative forse evitabili? Certo, pretendere che suonasse immediatamente gradevole ai dirigenti e ai quadri di partito, cui si chiede esplicitamente di fare un passo indietro, sarebbe stato troppo. Ma forse non è stato sempre abbastanza chiaro che si può chiedere loro di farlo proprio perché la loro funzione è riconosciuta, le loro qualità intellettuali e morali anche, e proprio perciò è lecito aspettarsi molto da loro. Troppo spesso si è dovuto constatare un forse frettoloso ma forse anche evitabile fraintendimento dell’appello, come se si trattasse ancora dell’ennesima contrapposizione di una qualche società civile a una qualche politica degli “apparati”, o altre simili superficialità. Non così, certamente, è da intendere. E conviene continuare a chiarirlo senza stancarsi.

In realtà, quadri e militanti di partito più o meno a pieno tempo, più o meno volontari o professionalizzati, svolgono nel complesso una funzione preziosa per la democrazia, ciascuno più o meno coerentemente e più o meno bene, ma in ogni caso senza giustificare giudizi liquidatori generalizzati. Semplicemente, non sono superuomini né superdonne e non possono esercitare tutte le funzioni che sono da svolgere.

Queste persone non sarebbero sminuite, ma al contrario confermate nella loro autorevolezza, se contribuissero a sollecitare le innumerevoli energie e le innumerevoli qualità disponibili ad emergere così da rispondere su tutto il fronte alle esigenze precise che sono da riferire all’appuntamento di giugno: costituire una forte e largamente sostenuta rappresentanza dell’Italia del lavoro e dei diritti a Strasburgo, e richiamare al voto una frazione significativa di quella estesa quantità di cittadini che diserta le urne (aumentando finora con regolarità ad ogni elezione) così da cominciare a dare finalmente un segno elettorale in controtendenza rispetto al regime (e alla fantomatica opposizione parlamentare che si concede).

Osservando la curva storica della percentuale dei non votanti, si può concludere che la democrazia italiana ha perduto quasi un venti per cento di sostenitori, ossia di cittadini politicamente attivi, nel corso di poco più di una generazione. La tendenza è in crescita. I due raggruppamenti che si stanno formando separatamente a sinistra mediante trattative tra gruppi dirigenti dovrebbero spiegare come e perché queste loro iniziative abbiano probabilità di cambiarla.

Appare fortemente improbabile che due distinte liste di candidati, inevitabilmente composte secondo complesse operazioni di bilanciamento di gruppi di personale politico tra loro, avrebbero un tale potere. La domanda è: i milioni di cittadini e di lavoratori che si mobilitano nelle piazze da mesi – prima nel movimento di difesa della scuola pubblica e adesso anche nel sempre più ampio movimento di rifiuto a pagare la crisi del capitale – hanno speranza di conquistare qualcosa attraverso una rappresentanza politica frammentata e divisa, o una che sia forte e unita? Meglio ancora: se le domande di giustizia e di diritti che essi pongono in questa crisi hanno qualcosa di comune e di essenziale, perché la loro rappresentanza politica dovrebbe essere divisa? Chi è certo che, se consultati, vorrebbero essere divisi (in particolare, tra comunisti e non)?

Si tratta, appunto, di consultarli: di chiamarli, cioè a formare la lista che andranno a votare – una lista che rappresenti l’intera fortissima opposizione sociale al regime – attraverso elezioni primarie. Dare loro questa possibilità è ciò che appare lecito attendersi da dirigenti politici che tutti conosciamo e stimiamo.

Tutto ciò è qualcosa di meno rispetto alla nascita di nuove formazioni politiche, ma è anche molto di più. Bisogna infine prendere atto che la struttura dell’offerta di rappresentanza politica in Italia (il suo “sistema dei partiti”) è ancora caratterizzata da onde lunghe di assestamento, di durata e di intensità commisurate alla vera e propria catastrofe politica che la sconvolse negli anni novanta del secolo scorso. La lista unica non sarà certo una risposta definitiva a questo processo. È un progetto umile, e proprio per questo può avere una grande efficacia, prefigurando finalmente la casa di tutti coloro che sentono e cercano il lavoro come bisogno, diritto e dovere comuni a tutti, e intendono vivere in amicizia con la natura e con i popoli. Una casa che possa essere riconosciuta come propria da chi chiama tutto ciò comunismo e da chi preferisce chiamarlo altrimenti, in piena libertà e in piena fraternità.

Katciu-martel, un piccheiitio di spunti per ricminciare a pensare

Angelo Del Boca non nasconde la sua delusione. Altro che "giornata della memoria" per le vittime delle imprese imperiali fasciste, come lo storico più importante del colonialismo italiano propone da decenni: nel trattato con la Libia non c’è nemmeno il riconoscimento dei crimini commessi in Africa.

Professor Del Boca, come giudica il trattato di amicizia con Tripoli?

«Ho studiato molto bene il trattato, anche con l’amico Nicola Labanca. Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella "storica". Ho scoperto che c’è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l’Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in trent’anni di presenza in Libia e per i centomila morti provocati, ma nel Trattato non se ne fa riferimento».

Come mai?

«Non so se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza. Ma quest’ultima ipotesi è davvero improbabile. Gheddafi ha sempre voluto sottolineare l’esigenza di conservare la memoria delle vittime dei massacri italiani. Se però è solo un’operazione economica, per il gas, cinque miliardi mi sembrano davvero molti, anzi troppi. Se non c’è la richiesta di perdono, che cos’è tutta questa premura, con i regali personali a Gheddafi?».

Professore, lei vorrebbe da Berlusconi un gesto come quello di Willy Brandt al ghetto di Varsavia?

«Figuriamoci! Non lo credo proprio adatto a gesti del genere. Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza... Non mi meraviglio di questa assenza».

Non crede che un obiettivo importante di questo trattato sia l’intesa sull’immigrazione?

«Potrebbe servire ad accontentare i leghisti, che pensano a come fermare i clandestini. Ma per la verità negli ultimi tempi i libici stanno già mettendo le mani avanti, sostengono - ma è una bugia - di avere sul loro territorio sei milioni di migranti, dicono apertamente che sarà difficile per loro riuscire a controllare confini così vasti».

Gli accordi prevedono anche una partecipazione italiana.

«I due paesi dovrebbero organizzare una flottiglia mista per pattugliare le coste libiche e impedire le partenze, si parla anche di radar volti verso il deserto per controllare gli arrivi. Ma ho molti dubbi sull’operazione».

Che cosa pensa dei centri di detenzione in territorio libico, su cui si sono rivolte le critiche durissime di Amnesty International?

«Sono completamente d’accordo con Amnesty. Da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento. Nel mio ultimo libro (Il mio Novecento, edito da Neri Pozza, ndr) ho riportato diverse testimonianze di chi li ha visitati: Jas Gawronski parla di "inumanità", il prefetto Mori racconta di 650 persone rinchiuse in condizioni terribili dove ne erano previste 100, e così via. Ora mi chiedo: come può l’Italia partecipare alla costruzione di opere del genere?».

Non so perché solo Radio Radicale e Marco Pannella abbiano continuato a denunciare un colpo di mano di Berlusconi che, in apparenza, sembra più piccolo e marginale dei fatti distruttivi di questi giorni. Mi riferisco alle elezioni regionali in Sardegna. Ecco come l’inviato di Radio Radicale riassume, la mattina del 13 febbraio, ultimo giorno utile della campagna elettorale nell’isola, i dati di esposizione mediatica di questa ultima settimana: un’ora e 29 minuti dedicata a ciò che ha da dire Berlusconi e (in parte minima) il suo candidato Cappellacci. Un minuto e 59 secondi per Soru e per il Pd. La denuncia diventa più grave se la colleghiamo con un periodo d’intensa esposizione mediatica del presidente del Consiglio, circondato da quella dei suoi uomini, disposti a tutto quando si tratta di rendere impossibile il confronto democratico.

Se potessimo, dopo aver vissuto questi giorni di caos politico, rivedere la drammatica sequenza appena attraversata con l’espediente cinematografico di allargare l’inquadratura, ci accorgeremmo che, nell’ampio e rapido piano-sequenza che si è appena concluso, il dominio assoluto conquistato da Berlusconi nel quasi silenzio di tutti, in questa campagna elettorale, compare e ricompare come in un flash stroboscopico, accanto alla battaglia, solo apparentemente "ideale" e di "valori", della tormentata sequenza Englaro.

Non vorrei dare l’impressione di svilire la persuasione di chi si è sinceramente schierato dalla "parte della vita", definizione gravemente impropria però in buona fede per molti. Un atteggiamento di disprezzo di questo genere lo lasciamo a personaggi che, d’ora in poi, resteranno legati a ciò che hanno detto in Senato su "Eluana Englaro morta ammazzata" e sulle "mancate firme" assassine, personaggi come Quagliariello e Gasparri.

Resta il fatto che una prova elettorale essenziale per l’ultimo sigillo di Berlusconi al suo potere ormai solo formalmente democratico, una prova elettorale che, d’altra parte, potrebbe segnare il ritorno di iniziativa del Partito democratico, tale prova si è svolta tra due gravi e preordinati ostacoli.

Uno è stato il gioco abile di impedire l’agibilità della Commissione di Vigilanza cui spetta di dettare le regole mediatiche di un confronto elettorale. Il gioco ha richiesto errori di giudizio e di intervento di molte parti in causa ed è, senza dubbio, un gioco vinto da Berlusconi.

Buio alla Putin sulla campagna elettorale dell’avversario di Berlusconi, anche se quel buio è stato garantito dalla volenterosa collaborazione delle libere fonti di informazione della Rai.

Un altro ostacolo è stata la visibilità che Berlusconi si è assicurato con il suo efficace blitz intorno a un cadavere. La stessa persona che - sullo schermo piccolo - stava sfidando in modo insultante e incontrastato un avversario politico locale (avendo notato, nel suo gioco ben coordinato, l’importanza simbolica di vincere o perdere in Sardegna), quella stessa persona, Capo del governo e leader del partito dominante, ha prontamente interrotto in modo deliberatamente spettacolare l’apparente intesa e armonia con il Quirinale.

Ha interrotto, con altrettanta spettacolarità, ogni finto rispetto per la Costituzione e, nello stesso tempo, si è fatto notare come il candidato unico dei "valori cristiani". Come nei concitati eventi religiosi dell’antico Mezzogiorno italiano, alcuni uomini di Berlusconi sono entrati nella flagellante confusione della mischia accusando Napolitano e Beppino Englaro di essere i "boia" di una giovane donna in coma da diciassette anni.

Come nelle processioni, sono sembrati in preda a raptus emotivo ma in realtà avevano provato e riprovato la scena, misurando tutta la portata intimidatoria e distruttiva di ciò che stavano gridando.

A questo punto è intervenuto il ministro della Giustizia Alfano che ha messo il suo autorevole sigillo alla vicenda. Ha detto, in ora di massimo ascolto televisivo, "Eluana Englaro è morta di sentenza". Il gesto, apparentemente privo di responsabilità e di decoro da parte di un ministro della Giustizia, è stato invece attentamente calcolato come culmine di un controllo mediatico preordinato per dominare un’elezione, occupare in modo dirompente la scena, provocare uno scontro di Istituzioni e segnare un percorso senza ritorno: o guerra distruttiva o resa senza condizioni.

L’arma del delitto è il dominio mediatico finalmente incontrastato. Ammettiamolo: i Radicali, che non hanno mai distolto l’attenzione da questo punto, l’avevano detto.

Ci sono due recenti dichiarazioni pubbliche del premier Berlusconi che servono a capire il personaggio e il suo populismo: che Eluana Englaro dopo diciassette anni di vita artificiale potesse partorire, e che i costituenti italiani del ‘48 erano degli stalinisti che s’ispiravano alla costituzione dell’unione Sovietica. Due dichiarazioni che sono la negazione dell’impossibilità umana di sopravvivere alla morte della coscienza e dell’intelligenza, e la negazione della dittatura come annullamento della democrazia.

Generazioni di comunisti europei hanno saputo benissimo, sin dalla sua promulgazione nel ‘36, che la costituzione staliniana era un sogno e un’impostura per coprire la dittatura, che il socialismo reale era quello dei piani quinquennali e della modernizzazione forzata, ma nella convinzione e nella speranza che quello fosse il solo percorso possibile. Come Togliatti scrisse in risposta alle critiche di Gramsci: «Dobbiamo riconoscere che l’azione del partito comunista russo, la rivoluzione russa sono stati il più grande fatto di organizzazione e di propulsione delle forze rivoluzionarie. Oggi questa propulsione è ancora attiva e crescente nel proletariato mondiale, all’evidenza è ancora attiva nelle classi operaie del mondo, nel mondo intero c’è la convinzione che in Russia, dopo la conquista del potere, il proletariato può costruire il socialismo e sta costruendolo».

Nella generazione dei comunisti dell’era staliniana restava cioè la profonda convinzione che con tutte le sue deviazioni autoritarie Stalin restava nel profondo un socialista, e che la dittatura sovietica, nonostante i suoi spaventosi prezzi, aveva tenuta aperta la via al socialismo, come era stato confermato dalla vittoria contro il nazismo. Siamo cioè di fronte a uno dei grandi paradossi della storia: i comunisti europei sanno che il socialismo in un solo paese si è trasformato in una dittatura spietata, ma pensano che sia ancora possibile riparare l’errore di percorso, costruire un socialismo democratico.

Togliatti è il testimone politico più autorevole di questa ambiguità. Rappresentante del Comintern in Spagna durante la guerra civile, detta i tredici punti di una costituzione repubblicana che entrerà in vigore a guerra vinta contro il franchismo: autonomie regionali, rispetto della proprietà e dell’iniziativa private, e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il franchismo, ingresso della Spagna nella Società delle Nazioni, amnistia per tutti gli spagnoli che hanno partecipato alla guerra di liberazione. In sintesi il progetto di rimettere assieme un paese diviso fra anarchici, socialisti, comunisti e conservatori, un paese, si badi, dove la polizia politica stalinista continuava ad arrestare e fucilare i nemici, presunti o reali.

La costituzione togliattiana fu naturalmente criticata sia dalla sinistra trozkista come un tradimento della rivoluzione, sia dai conservatori come un cavallo di Troia dello stalinismo. Ma essa resta nel 1938 come uno dei punti più alti del rilancio democratico. Aggiungiamo che anche il cinico Togliatti si era illuso sulla possibilità di correggere lo stalinismo: è proprio di quell’anno la svolta machiavellica di Stalin, che cessa gli aiuti alla rivoluzione spagnola per preparare le nuove alleanze con le grandi democrazie minacciate dal nazismo. Sconfitto in Spagna il riformismo togliattiano ritorna nell’Italia democratica dopo il ‘45, e questa volta è l’intero arco costituzionale, dai comunisti ai democristiani ai liberali, in un paese che ha conosciuto la ferocia nazista, a volere una costituzione democratica, di cui Piero Calamandrei può dire "lo spirito della Costituzione deve tradursi in questi caratteri essenziali: la democrazia come sistema politico delle libertà, e il lavoro come sostanza di una libertà non solo formale. In sostanza il programma dei fratelli Rosselli e del movimento Giustizia e libertà". Il progetto spagnolo di costituzione scritto da Togliatti deve adattarsi al mutamento della società italiana: il partito comunista e le sue pretese egemoniche sono state fortemente ridimensionate dalle elezioni, il primo partito italiano è il socialista seguito dal democristiano, il peso dei cattolici nella società italiana è determinante, e il partito comunista ne prende atto facendo approvare anche ai compagni più riottosi l’articolo sette, cioè la conferma dei patti lateranensi che riconoscono alla chiesa una posizione di assoluto privilegio.

Due compagni, La Noce e Terracini, negano il loro voto, ma il partito compatto approva. E qui si chiude il mito del partito della rivoluzione o della "terza ondata", che ancora turba i sogni del nostro premier, e che viene ripetuto sino all’ossessione nella sua propaganda elettorale. La Costituzione repubblicana e democratica non è nata solo da un accordo politico fra i partiti. È nata dalla guerra di liberazione, dalla presa di coscienza che il paese era socialmente imperfetto e antico, che l’Italia regia e fascista aveva compiuto una modernizzazione tecnica e in parte economica, ma non aveva risolto le divisioni sociali, restava una società divisa in cui gli operai, i contadini e in genere i poveri restavano diversi anche nel modo di vestire, di parlare, e persino nel pubblico passeggio, oltre che nella giustizia e nei diritti umani. La guerra partigiana non fu una rivoluzione politica, ma come guerra di popolo, a cui partecipavano italiani di ogni ceto, fu una rivoluzione sociale, per fare finalmente del popolo italiano un popolo unito.

I critici della Costituzione si dividono fra quelli che la giudicano troppo prudente e quelli per cui è troppo avanzata. È difficile però disconoscerne i meriti, essa è stata nel dopoguerra una corazza che ha protetto il paese da cedimenti autoritari, da ipocrisie populistiche e demagogiche, cioè dalle tentazioni cui il nostro premier spesso cede.

Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti.
Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Umberto Eco, Claudio Magris, Guido Rossi, Sandra Bonsanti, Giunio Luzzatto, Simona Peverelli, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca.

L’APPELLO

Rompiamo il silenzio. Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero.

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno.

Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale, che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Sono obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se la voce collettiva di Libertà e Giustizia potrà pesare e farsi ascoltare. Per questo chiediamo la tua adesione.

Firmate sul sito Libertà e Giustizia

Per la prima volta nella vita di questa Repubblica libera, democratica e garantita dalla Costituzione il potere esecutivo, per iniziativa del presidente del Consiglio, ha deciso di abolire una sentenza legittima, definitiva, non modificabile della giurisdizione italiana al suo più alto livello.

Il Capo dello Stato ha fatto sapere al governo che l’atto sarebbe stato incostituzionale, e ciò per ragioni obiettive, palesi, verificabili nella nostra Costituzione e tipiche di ogni ordinamento democratico. Il governo ha deciso di ignorare l’obiezione. Il presidente della Repubblica, in nome della Costituzione di cui è garante, non ha firmato il decreto del governo. Ciò determina una situazione senza precedenti nella vita giuridica e politica italiana.

Il governo Berlusconi ha deciso di aggravarla annunciando che, in luogo del decreto, presenterà una legge, chiedendo al Parlamento di votarla subito. La legge, anche se approvata, avrà la stessa natura anti-costituzionale del decreto. Tutto ciò su una materia immensamente delicata come la condizione di Eluana Englaro , con una violenta invasione di campo nel dolore di una famiglia e nei diritti civili delle persone coinvolte.

Sentiamo perciò il dovere di essere accanto al presidente della Repubblica, custode e garante della Costituzione. Chiediamo agli italiani di unirsi intorno al Capo dello Stato e alla Costituzione in questo grave momento nella vita della Repubblica.

Firma sul sito dell’Unità

Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all´evolversi delle tecnologie.

Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l´attuazione.

Ma il caso Englaro è stato derubricato l´altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.

Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.

Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che «al di là dell´obbligo morale di salvare una vita» egli sente «il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi». Gli strumenti necessari per realizzare quest´obiettivo indispensabile sono «la decretazione d´urgenza e il voto di fiducia»; ma poiché l´attuale Costituzione semina di ostacoli l´uso sistematico di tali strumenti, lui «chiederà al popolo di cambiare la Costituzione».

La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.

Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l´occasione che cercava.

Un´occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull´appello alle pulsioni elementari e all´emotività plebiscitaria.

Qui c´è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l´anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall´altra i «volontari della morte», i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.

Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all´odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.

Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.

Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l´altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.

Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.

* * *

Ci sono altri due obiettivi che l´uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.

Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d´aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto. Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l´occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un´economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l´attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica «La Quiete» dà un po´ di respiro ad un governo che naviga a vista.

Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire «con cattiveria».

Il Vaticano si oppone a quella «cattiveria» ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall´Occidente multiculturale e democratico.

* * *

Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.

Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l´instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.

Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ´22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: «Avrei potuto fare di quest´aula sorda e grigia un bivacco di manipoli».

Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent´anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.

In quel passaggio del 3 gennaio ´25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.

Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.

Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel «rinsavimento» sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l´altro ieri.

E tutto è sciaguratamente avvenuto sul «corpo ideologico» di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce.

Per fortuna, neanche stavolta c'entra il razzismo. Un poliziotto ammazza a fucilate il vicino senegalese a Civitavecchia: è una banale lite di condominio. Tre ragazzi bruciano vivo un senza casa indiano a Nettuno: è una ragazzata, magari quasi omicida, ma si sa, i ragazzi si annoiano e tutti siamo in cerca di emozioni. E davvero, sono quasi tentato di crederci: il razzismo c'entra, ma non è un ingrediente isolabile, un'ideologia motivante; è piuttosto una componente ormai intrinseca e indistinguibile di un senso comune di violenza e sopraffazione che se non è diventato egemonico, poco ci manca.

Coltellate, fucilate, violenze sessuali fanno tutte parte di un'unica grammatica dell'annientamento e dell'umiliazione dell'altro (anche la violenza sessuale è una forma di assassinio, in cui nonostante le strizzate d'occhio del nostro presidente del consiglio il desiderio sessuale non c'entra per niente). E questo senso comune è condiviso tanto dai cinque romeni stupratori di Guidonia o dai tre marocchini che avrebbero violentato una donna (romena) a Vittoria in Sicilia, quanto dall'italiano stupratore di una cilena, dai ragazzetti di Campo de' Fiori accoltellatori di un americano, dal bravo ragazzo violentatore di Capodanno a Roma. E da tanti episodi meno sanguinosi ma diffusi nelle famiglie, nelle strade, negli stadi, nelle scuole, nelle caserme...

La sola differenza - e qui il razzismo c'entra espressamente - è la strategia di depistaggio messa in modo da politici e media. Quando, sempre a Guidonia, nel 2006, fu una donna romena a essere violentata per ore da un italiano la notizia non riempì le prime pagine ma si esaurì in due righe in fondo a un comunicato Ansa e a un trafiletto del Corriere della Sera. Non ci furono ronde di patrioti indignati nei bar e nelle carceri, circondate da simpatia e complicità della brava gente circostante. Perciò far credere che la violenza sia un portato dell'immigrazione, è un modo per parlare d'altri e non di noi - a cominciare dall'altra cosa che tutti questi episodi hanno in comune: il genere maschile degli aggressori e la debolezza delle vittime.

Molti anni fa, il sociologo David Riesman diceva che nella società di massa la fiaba di Pollicino ammazza-giganti si sarebbe trasformata nella fiaba di Pollicino ammazza-nani. Infatti adesso siamo tutti dalla parte di Golia: anche le guerre, dall'Iraq a Gaza, esibiscono e addirittura vantano la sproporzione tra i deboli e i forti.

Essere o sembrare deboli, nella modernità della competizione, della deregolazione, dell'individualismo e del mercato elevati a religione, è una colpa in sé. È una colpa essere donna, è una colpa essere senza casa, è una colpa essere nero. E forse la colpa peggiore di tutte queste minacciose debolezze sta nel fatto che mettono a nudo la debolezza profonda dei «forti», la precarietà del loro diritto, la tranquillità del loro dominio. I potenti non riescono a vincere davvero le guerre, i violenti non fanno che mettere in scena la loro paura, i razzisti non riescono a sentirsi superiori alle loro vittime, la finanza globale va in rovina e porta rovina con sé. La rabbia frustrata di chi si crede forte e si accorge di non esserlo più produce violenza.

Fermarla, o almeno porvi un limite, è un lavoro di profondità e di lungo periodo, una costruzione di socialità nuova, di rapporti civili fa le persone, di politica coraggiosa e anticonformista. Altro che «essere cattivi» con i «clandestini» - cioè, essere come quelli che li bruciano vivi - come vaneggia nella sua frustrazione il povero Maroni. Non la fermeranno certo i poliziotti per le strade, i vigili urbani con la pistola e la licenza di sparare: anzi, saranno un'ulteriore modello di ruolo per i futuri aggressori, un'altra esibizione di forza impotente, e un altro esempio di quella politica bipartitica - quella sì, «cattiva» politica - che alimenta queste paure e se ne nutre.

È stato già detto che la crisi di Lampedusa e gli stupri di Roma sono il segno del fallimento delle politiche del governo. Credo che siano qualcosa di più e di peggio: la prova di un deficit - culturale, prima che politico - nel governo di fenomeni complessi e moderni, come l’immigrazione e la sicurezza.

Sono temi (immigrazione e sicurezza) che, frullati insieme, banalizzati con messaggi ripetuti all’infinito, eccitati con emotività in una campagna elettorale, possono anche annullare ogni pensiero e razionalità. Alla prova del governo, quelle criticità impongono però intelligenza delle cose e delle soluzioni, capacità di costruire condizioni di consenso internazionale e domestico. Concrete e realistiche politiche pubbliche e non pessima pubblicità di un giorno.

Immigrazione e sicurezza, si sa, dovevano essere i cavalli di battaglia del governo. Berlusconi, all’esordio del suo governo, ha presto voluto far sapere di voler «dare risposte all’insicurezza dei cittadini»; di voler «decidere» presto e subito con una rosa di provvedimenti con forza di legge che hanno separato, nei primi cento giorni, lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l’ordine giuridico dalla vita. Si è creato un «vuoto del diritto» che ha sospeso le norme e trasformato il diritto in un dispositivo di governo manipolabile secondo necessità. Da questa cultura dello «stato d’eccezione» è nata una militarizzazione delle città che declina le ragioni dello Stato con l’esibizione, la forza, le armi. E’ da un immaginato e truccato «stato d’emergenza» perenne che è stato partorito il «diritto penal-amministrativo della diseguaglianza» scritto per fronteggiare le ondate migratorie (immigrazione clandestina come reato, impronte ai rom). Le conseguenze di queste scelte le abbiamo sotto gli occhi. Con i numeri: l’ottanta per cento in più di sbarchi.

La realtà della vita, la violenza degli stupratori o la disperazione dei migranti, hanno dimostrato l’inefficacia dell’azione del governo. Berlusconi non se ne cura, come si vede. E’ ancora in campagna elettorale. Questa volta in Sardegna (presto per Europee e amministrative). Minimizza la crisi di Lampedusa e le sue ragioni. Per cancellare gli stupri di Roma, rilancia la militarizzazione delle città moltiplicando per dieci i soldati che vedremo agli angoli delle piazze, nei centri storici delle nostre città (solo lì, li vedi).

La manovra pubblicitaria, buona per i tiggì della sera, non riuscirà a nascondere anche nel breve periodo gli errori culturali, e quindi politici, dell’esecutivo. Lo si osserva ormai anche nelle file della destra quando si confrontano i passi di Berlusconi con le iniziative di Brown, Zapatero, Merkel e Sarkozy. Anche ai settori più liberali della destra appare «incomprensibile la scelta di delegare totalmente alla Lega la gestione governativa dell’immigrazione esercitata solo e unicamente sul fronte dei clandestini e dell’ordine pubblico e totalmente latitante sul fenomeno riformista del modello di integrazione degli immigrati» (Carlo Panella). E’ una politica che mette in rotta di collisione il governo con tutti e, per dirla con le parole dell’Osservatore romano, «accentua tendenze di chiusura autarchica e di arroccamento sociale». Il governo oggi può vantare conflitti con il mondo cattolico e anche con il Vaticano, con l’Europa, con l’Onu, con le organizzazioni umanitarie e la prassi giuridica dei diritti fondamentali dell’uomo (più volte la commissione e il parlamento europei sono intervenuti contro le tracce xenofobe dei provvedimenti di palazzo Chigi). La scelta del governi trascura – con una mossa che sta tra l’arroganza e il pressapochismo – come lo strumento penale (detenzione, carcere, espulsione) può essere soltanto un tassello (spesso non il più rilevante) di una politica migratoria che deve accordare intese sovranazionali, urgenze umanitarie, equilibrio tra flussi migratori e mercato del lavoro, tenuta dell’ordine pubblico, rapporti internazionali con gli Stati di origine. A questo intrigato nodo di questioni, il governo invece sa rispondere (e, a quanto pare, intende ancora rispondere) con la spada, con discipline che producono soltanto irregolarità e la convinzione, tra gli immigrati dell’Africa subsahariana, come sono le migliaia di prigionieri a Lampedusa, che «emigrare legalmente sia impossibile e che l’unica via sia quella irregolare, cui seguirà una sanatoria».

C’è un segno dilettantesco e irresponsabile nell’azione di governo. E’ dilettantesco non comprendere come l’illusione penalistica, gli spot televisivi, lo sfoggio di soldati e di armi, il recinto dei nuovi campi di concentramento chiamati centri di identificazione, oscurino un’Italia multiculturale che è già realtà concreta nelle città, nelle scuole, in fabbrica, nell’economia, nelle famiglie dove gli immigrati, se si contano anche gli irregolari, sono ormai quattro milioni. E’ irresponsabile nascondere al Paese che l’immigrazione è e sarà un fenomeno strutturale. Per tre o quattro motivi che il Berlusconi tace al Paese rinunciando a governarne gli esiti. Si nasce poco. Si vive più a lungo (e il lavoro straniero sostituisce un welfare debole e avaro). La nostra industria è assai poco tecnologica e ha bisogno di braccia che non ci sono. Il mondo, al di là del mare, è così povero e disperato che non saranno né i paracadutisti della Folgore né il codice penale a trattenerlo sull’altra sponda. Sono problemi che impongono una cultura di governo che Berlusconi non mostra di avere. Il mago delle lanterne magiche pensa sempre che una buona pubblicità trasmessa in prime time possa risolvere qualsiasi problema. Se non dovesse essere sufficiente questa routine, si può sempre evocare, a proposito di intercettazioni, «il più grande scandalo dello storia della Repubblica» e correggere l’agenda dell’attenzione pubblica. Ma fino a quando il gioco potrà seppellire la realtà e l’incompetenza?

A proposito di sicurazza: per gli avvenimnenti recenti a Roma vedi l'articolo di Paolo Berdini, per la sicurezza nelle città vedi l'intervento "Paura in città" di Edoardo Salzano

ROMA - "Che vuole che le dica, la situazione è difficile ma bisogna fare di tutto per far sapere come stanno realmente le cose. Chiarire a chi non l'ha vissuto cosa è stato quel periodo storico"

Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale, classe 1915, è amareggiato ma non rassegnato. A lui, arrestato e torturato durante il fascismo, il nuovo tentativo di "equiparare" per legge partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò, proprio non piace.

Per farlo il Pdl ha presentato una proposta che ha come primo firmatario Lucio Barani del Nuovo Psi (schierato con il centrodestra). Un disegno di legge, il 1360, con il quale la maggioranza pretende di istituire l'Ordine del Tricolore, con tanto di assegno vitalizio. Assegnandolo indistintamente sia ai partigiani, sia "ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salò". Un testo che l'Anpi bolla come "l'ennesimo tentativo della destra di sovvertire la Storia d'Italia e le radici stesse della Repubblica"

Presidente Vassalli un'operazione analoga fu tentata anche nelle precedenti legislature, ma venne respinta. Adesso il tentativo riprende vigore. Perché è contrario?

"Perché è assolutamente chiaro che c'è stata la continuità dello Stato anche dopo l'8 settembre e la caduta del fascismo. E non si può riconoscere a chi ha contrastato lo stato italiano sovrano schierandosi con la Repubblica sociale il titolo di combattente. La Cassazione è chiara in merito. Tutte quelle pronunce sono concordi nel definire i repubblichini come nemici".

Postilla

Raccontando l’Italia degli anno Cinquanta e Sessanta, e riferendosi a ciò che era successo nelle città e nelle piazze d’Italia dopo la svolta di destra della DC del governo Tambroni lo storico Paul Ginsborg ha scritto: “Ogni tentativo di svolta autoritaria e ogni attacco alle libertà costituzionali avrebbero incontrato l’opposizione di un grandioso e incontrollabile movimento di massa di cui le forze comuniste sarebbero state una componente importante ma non certo unica” (P.G., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p.348). Un grandioso e incontrollabile movimento di massa.

12 dicembre 2008
L’Italia del leviatano

L’ammalato grave era l’Impero ottomano, poi s’ammala l’absburgico, d’un morbo letale: affondano tutt’e due; da anni versa in allarmante climaterio la Rutulia, paese piccolo, ormai quasi trascurabile (quarantesimo nella graduatoria dello sviluppo economico planetario, dopo Estonia e Thailandia), ma trascina resti d’antiche glorie. «Stylus» (rivista chic, sognata da Edgar Allan Poe) vuol sapere cosa succede, ed ecco le notizie. Cominciamo dal 26 gennaio 1978. L’ambiente soffre d’una tabe organica: la pianta uomo ne produce d’assai dotati; altrove riuscirebbero benissimo; qui soccombono perché ab immemorabili ordiscono la tela consorterie parassitarie, donde micidiali selezioni negative (remote anamnesi chiamano in causa la mancata riforma religiosa e un cinico ateismo clericocratico). Organi vitali risultano guasti: sotto maschera santimoniosa una società segreta criminal-massonica infesta servizi segreti, ministeri, banche, editoria; e quel giovedì riceve un ancora poco noto impresario edile la cui fortuna presenta aspetti bui. I dignitari l’accolgono col solito rituale, spada e guanti bianchi. Chiamiamolo Leviathan, nome d’un coccodrillo. Nel dialogo del Creatore con Giobbe è una meraviglia del creato: veste squame invulnerabili, starnuta fuoco, spaventa gli angeli; impersona una potenza infraumana. Ai caimani, formidabili nell’anima sensitiva, manca l’intellettiva: non ne hanno bisogno, tanto perfetta è la macchina biofisica coordinata alle pulsioni, né patiscono conflitti interni; il loro cervello ignora i valori (vero, buono, bello), nel cui faticoso studio l’animale fornito d’intelletto spende tanto tempo con profitto esiguo o addirittura in perdita.

Questo neofita d’una compagnia losca stava sommerso ed erompe nel mercato delle televisioni commerciali affossando i concorrenti. L’irresistibile ascesa ricorda le mosse con cui l’alligatore avvista, punta, azzanna le prede. Ha tre gole, come il lupo d’una favola, e stomaco senza fondo: parla, ride, canta, stordendo chi l’ascolta; nel suo lessico, «vero», «buono», «bello» significano «roba da inghiottire». Questo meccanismo biologico gli assicura atouts determinanti nelle partite rutule, fuori delle quali i colpi gli riescono male: Satanasso teme l’acqua santa; lui sparisce dove vigano regole applicate sul serio. Indenne da freni morali, percepisce solo bisogni e li soddisfa nella massima misura, al minimo costo: non rispetta nessuno; imbroglia i diavoli; prende Domineddio sotto gamba; se il caso lo richiede, delinque impunito, truccando i giudizi. Definiamolo Napoleone dei lucri mediante furberia, frode, plagio.

Monopolista delle televisioni commerciali, in quasi trent’anni abbassa inesorabilmente i livelli intellettuali e del gusto allevando masse in stato d’ipnosi: confondono reale e virtuale; gli credono qualunque cosa dica; perso l’uso del pensiero, chi l’avesse, ripetono formule elementari somministrate dall’organo d’una manutenzione collettiva dei cervelli; parole-esca scatenano corti circuiti emotivi, ad esempio, la paura degl’inesistenti «comunisti». Sia chiaro: in stregoneria moderna è un capolavoro; e se lo combina nel modo più naturale, sfogando puri riflessi, mentre l’animale pensante, sensibile all’aculeo morale, dubita, esita, soffre, fatica, lungo vie tortuose quanto brevi sono le sue. È una forza essere monco d’alcune costose qualità umane. Tipico animal impoliticum: il politico capisce l’avversario, commisura gl’interessi, coglie i lati delle questioni, scova punti d’intesa, presupponendo che le regole vincolino e violarle sia atto indegno; Leviathan ascolta e vede solo l’enorme Ego. Esce dall’utero d’un regime corrotto: caduto il quale, ne prende il posto, avendo larga riserva elettorale nel pubblico televisivo; schiera uomini dell’azienda, tutti uguali; raccoglie dei superstiti e i soliti cercatori d’ingaggio; viene anche qualche sciabola libera, male accolta perché lì dentro vale uno slogan della guerra civile spagnola («Abajo la Inteligencia», grida José Millan Astray y Terreros, generale necrofilo, in faccia al malinconico umanista Miguel de Unamuno).

Forte dell’ordigno con cui entra nelle teste, vince, perde due anni dopo, rivince, governa male, perde ancora d’una minima misura, infine rioccupa i luoghi del potere, risoluto a goderselo almeno diciannove anni (ne ha settantadue); e subito si proclama immune dalla giurisdizione penale, qualunque sia l’ipotetico delitto, passato o futuro. Nel mondo evoluto la Rutulia è l’unico paese dove potesse accadere. Leviathan regola l’anima ai sudditi con le lanterne magiche che gli portano soldi a palate: vanta un patrimonio illo tempore stimato in ventimila milioni d’euro; ed è impossibile che questa lunga coda non s’insinui nelle decisioni governative. Stravaganze da Nave dei Folli: i Rutuli gliele concedono; nei sei anni dei loro governi gli attuali oppositori stavano col cappello in mano davanti all’Impero. Era prevedibile che Leviathan governasse male: non è il suo mestiere; l’arte dell’arricchirsi in frode alle norme istupidendo armenti umani ha poco da spartire con la scienza laboriosamente praticata da Cavour, Giolitti, De Gasperi. I mangiatori del papavero via etere pensavano che, così abile nel coltivare i suoi interessi, beneficasse tutti: nossignori, diventa ancora più ricco provvedendo a se stesso; il resto va secondo le lune. Ne sopravviene una nerissima nella notte della recessione planetaria. Qui appare inetto in forme sbalorditive. Dapprima nega il pericolo: mandino al diavolo i beccamorti predicanti sventura; le cose vanno bene; «siete ricchi, giovani, belli» (nel suo vangelo i vecchi hanno diritto a chiome finte e dentiere scintillanti, ma sinora i soli beneficiari del favore governativo sono scuole confessionali e gl’insegnanti di religione nella scuola statale). Quando la res publica corre pericolo, gli statisti chiedono sforzi collettivi. Agl’Inglesi rimasti soli contro Hitler, Winston Churchill prospetta lacrime, sudore, sangue. Leviathan lancia un appello edonistico ai consumi: siamo sotto le feste; l’importante è spendere; «dipende da voi rimettere in moto la macchina». Almeno avesse detto: «chi può spenda»; l’enciclica mobilita anche i poveri e gli ormai quasi tali, sono tanti. Viene in mente Maria Antonietta, stupita che i popolani tumultuino: «non hanno pane, Maestà»; «mangino brioches». Non è temerario supporre che s’arricchisca anche sulla recessione.

Occhiate dal parterre studiano il corpo del re, in cerca d’indizi: commette frequenti gaffes; parla, disdice, nega quel che milioni d’occhi hanno visto e orecchie udito; bofonchia contumelie («imbecilli», «miserabili», «imparino il mestiere», «vadano a casa»). Affiorano fondi sinistri. Ad esempio, va in provincia: i devoti se lo bevono; raccoglie suppliche; corre seminando quelli del sèguito; e quando un paralitico in carrozzella chiede aiuto, risponde beffardo; non gli basta avere una bella moglie? Suona come l’aneddoto d’un nero vangelo apocrifo. Lo scenario clinico appare molto interessante. Nella prossima lettera a «Stylus» esporrò qualche ipotesi prognostica.

20 dicembre 2008

La metamorfosi monarchica dell’Italia

Nella prima lettera raccontavo come sia emerso Leviathan, impresario dei piccoli schermi, ora regnante sui Rutuli: regno sui generis, perché le monarchie superstiti adempiono funzioni rituali vuote d’ogni potere effettivo; lui li vuole tutti, insofferente d’ogni pluralità ed equilibrio; tollera appena una commedia parlamentare, finché ve lo costringa l’attuale carta. Liberti sans gêne gliene scrivono una su misura. Ecco tre segni della metamorfosi monarchica ancien régime: s’è proclamato penalmente immune; l’officina leguleia studia i meccanismi d’una giustizia controllata dal governo, qual era sotto Re Sole; e postulandosi intoccabile, definisce vilipendio ogni rilievo critico; presto rischierà la galera chi canta fuori del coro, poi verrà il turno dei pensieri, perché i delitti vanno spenti in embrione (l’unico delitto da punire, contro la santa Persona; gli altri sono veniali, molto perdonabili, se uno lo merita, essendo il regime largamente criminofilo sotto insegna garantista). L’unico precedente europeo novecentesco è il Terzo Reich d’Adolf Hitler: vengono dal niente tutt’e due, fulminei nel puntare l’obiettivo; a modo loro sono dei geni nei rispettivi campi, con un punto molto debole; operano come fossero onnipotenti. Entrambi dispongono d’arnesi forti: l’ex caporale austriaco, già abulico pittore d’acquarelli, ha sotto mano un apparato bellico senza eguali, industria, tecnologie, masse obbedienti; tra i più ricchi del pianeta, Re Lanterna comanda gli ordigni televisivi (cosa combinerebbe quel diabolico dottor Ioseph Goebbels); armi cospicue ma essendo il mondo uno scacchiere molto complesso, prima o poi soccombe chi vuol dominarlo iniquamente in spregio ai dati obiettivi. La prospettiva egomaniaca è pensiero paranoide, poco raccomandabile. Ad esempio: gli Usa eleggono il presidente; l’incauto monarca rutulo, pedina irrisoria della politica mondiale, stava dalla parte opposta; dovendo dire qualcosa del vincitore, scherza sul colore della pelle, trivialmente; insulta chi rileva la gaffe; infine, offre dei consigli al nuovo eletto volando alto, aquila nel cielo politico.

Sua Maestà ha una corte. Qualche conoscitore lamenta che vi manchi l’equivalente del Titus (o secondo Tacito, Gaius) Petronius, detto Arbiter perché regola il gusto nel milieu neroniano: quale intenditore d’«eruditus luxus», insegna cosa sia «amoenum et molle» ossia l’arte del divertirsi secondo date forme, finché l’odioso Gaio Ofonio Tigellino, praefectus Praetorio, se ne disfa mediante false prove d’un suo feeling nella congiura pisoniana, e lui previene l’ira imperiale svenandosi, esteta anche in exitu; anziché dissertare sull’immortalità dell’anima, recita o forse canta «levia carmina et faciles versus», canzoni leggere e versi frivoli, avendo spedito al tiranno una lettera testamentaria enumerante le turpitudini della corte, nomi inclusi; e lascia uno straordinario romanzo, Satyricon, del quale abbiamo pochi frammenti. Nella reggia rutula manca l’arbiter elegantiarum né il sire lo sopporterebbe: parole, mimica, gesti sanno d’incoercibile volgarità; ai suoi cultori piace così; una persona fine, come le chiamavano una volta, non sarebbe lì; s’allevava gli elettori somministrando fescennini, lazzi, farsa (chi guardi bene sotto la maschera ilare vede il caimano). I favori regali piovono dal cielo imprevedibilmente, pura grazia: dipende tutto da lui; una tale diventa ministro perché il giardiniere ne ha parlato bene; ed è inutile dire quanto stridano i denti nelle risse tra cortigiani. Peccato che tra costoro non vi siano memorialisti paragonabili al duca Saint-Simon. In compenso fiorisce una subletteratura sui fasti del sovrano, con alto spaccio nei luoghi della villeggiatura d’una sinistra chic.

Salito alla cancelleria nel gennaio 1933, Hitler occupa tutti gli spazi del potere in forma più o meno legale, adeguando a sé le strutture preesistenti (Gleichhaltung). Lo fa anche Leviathan ma sopravvivono pensieri dissidenti. Me ne sono accorto l’altra sera guardando un talk-show d’argomento provocatorio: la fiera delle vanità nella Rutulia quasi monarchica; il corpo del re presentato al pubblico; come lo glorificano i preti del nuovo culto; dubbi tentativi d’un ringiovanimento alchimistico; cosa dicono parterre, palchi, loggione; la corsa al carro del fieno, ecc. Uno degl’interlocutori partiva da lontano. Vista in superficie, la vanità non sembra vizio pericoloso: un plutocrate fonda premi letterari, pagando sotto banco, per farseli assegnare; Benito Mussolini scia a torso nudo, va a cavallo, guida l’aereo, batte il passo romano; esistono anche vanità tristi e faticose, vedi l’agonista della penitenza e chi vuol essere l’uomo o la donna più infelici del mondo. Pose fatue ma sotto pulsa l’Ego, abominevole perché si mette al centro dell’universo (Pascal); ed è vorace; il lattante prosciugherebbe il seno (Melania Klein). L’armatura dell’Ego sta nel non vedere le sue miserie (La Rochefoucauld). Marziale racconta d’un Gauro, il cui nome significa vanesio, borioso, gonfio. Ma questo difetto percettivo, costituente difesa organica, è schermo debole: vuol essere ammirato (desiderio d’un desiderio) e «il se voit misérable»; qui scoppia «la plus criminelle passion» che sia immaginabile, un odio mortale della verità insopportabile (ancora Pascal). Siamo entrati nel girone dell’invidia: sentimento rabbioso verso chi possiede quel che l’invidioso non ha (M. Klein); se potesse, annienterebbe possessore e cosa posseduta. Furiose dispute trinitarie, il Terrore 1794, le purghe sovietiche da Trockij a Bucharin: è casistica clinica d’una malattia; gli antagonisti sostengono dei partiti, ossia pretese verità, ma quel che dicono maschera impulsi viscerali; invertite le insegne, sarebbero altrettanto feroci. Ora, l’Io ipertrofico genera un’industria e mercato del falso: i talenti sono l’ultima ruota del carro, falsificabili a man salva; intese consortili operano selezioni perverse, orientate al peggio, con terribili costi sociali.

Discorsi simili offendono l’establishment. Scatta puntuale l’esorcismo nel giornale d’un fratello del re, noto alle cronache penali come imprenditore dei rifiuti e relative discariche. Il columnist turpiloquo deplora i «dieci minuti dieci» dedicati a Pascal e La Rochefoucauld; lagne simili richiedono un avviso sovrimpresso alle immagini: «guardare solo su prescrizione medica perché può indurre sonnolenza». Tale essendo l’esprit de finesse cortigiano, la Rutulia scenderà ancora dal quarantesimo posto nella graduatoria dello sviluppo economico: il malaffare in colletto bianco arricchisce dei pirati e sfama i loro clienti (Marziale li evoca arrancanti dal primo mattino in cerca della sportula) ma frode, corruzione, plagio depauperano l’ambiente; gli effetti, già evidenti, saranno enormi tra una o due generazioni; l’autentica fortuna economica richiede testa, midolla, nervi ossia serietà, odiata dai ciarlatani rutuli.

Il comune di Visco, 800 abitanti a poca distanza da Palmanova, cerca investitori per la valorizzazione di un’area di 130.000 metri quadrati. Per quanto sia una dimensione enorme per un comune che, con i suoi 3 chilometri quadrati, è uno dei più piccoli d’Italia, se si trattasse “solo” dell’ennesima ipotesi di cementificazione, la notizia potrebbe restare inosservata.

Ma sull’area in questione sorgeva un campo di concentramento nel quale, fra il 1942 ed il 1943, vennero rinchiusi 3000 civili jugoslavi, rastrellati a colpi di lanciafiamme durante la campagna per “bonificare la provincia italiana di Lubiana” e ”neutralizzare gli elementi pericolosi per l’ordine pubblico”.

Per trasformare il campo in un mobilificio, un “centro logistico per la sedia e del mobile”, o comunque un complesso per attività produttive e commerciali, il comune ha già approvato cambi nelle destinazioni d’uso previste dal piano regolatore ed ha demolito le torrette ed il corpo di guardia, perchè la loro presenza “allontana gli investitori”.

Il Corriere della Sera del 17 settembre riporta le dichiarazioni del vicesindaco, nelle quali, alle motivazioni finanziarie - “mantenere quella roba sono un sacco di soldi che pesano sui contribuenti” - si mescola il disinteresse, se non il disprezzo, per “quello che poi non era un lager, ma solo un campo di concentramento”.

L’intenzione di distruggere il campo ha suscitato reazioni contrastanti. Accanto a manifestazioni di sdegno per quello che viene interpretato come il tentativo di cancellare, assieme alle tracce materiali, il ricordo di una vergogna nazionale, non sono mancate le espressioni di sostegno ai progetti dell’amministrazione e le esplicite rivendicazioni di fierezza neofascista.

Ed è per questo che la vicenda dovrebbe indurci a una riflessione sui cosiddetti luoghi della memoria,partendo dall’ormai classica distinzione fra lieux et milieux de mémoire, introdotta da Pierre Nora nel 1984 e attorno alla quale si è poi sviluppato un ricco dibattito.

Riassunta molto schematicamente, l’idea di Nora è che i luoghi della memoria non esistono di per sé, ma devono essere prodotti intenzionalmente per sostituire la scomparsa degli ambienti (modi di vita, condizioni materiali, organizzazione sociale) che si vogliono ricordare. La loro funzione è quella di “luoghi di compensazione alla perdita della memoria”, dove il tempo viene artificialmente fermato al momento che si intende sottrarre all’oblio. In altre parole, per poter ricordare, è innanzitutto necessario che ci sia la volontà di ricordare. Altrettanto importante, però, è che nella consapevolezza la memoria, in quanto esperienza collettiva e soggettiva, può essere deformata, manipolata, appropriata, si mantenga viva la dialettica tra memoria e storia.

In quest’ottica, il caso di Visco assume un significato che va oltre la dimensione locale. Di luoghi della memoria si parla in occasione di cerimonie e commemorazioni ufficiali, non esenti da retorica se non da rozze forme di spettacolarizzazione dell’orrore, ma non si assiste a una deliberata creazione di luoghi che consentano il confronto tra memoria/e e storia .

La mobilitazione delle associazioni italoslovene, e di quanti chiedono venga bloccato il progetto del comune di Visco, va in questa direzione e merita il più ampio e convinto sostegno da parte di tutti noi.

Su alcune delle cose che andrebbero ricordate si veda, su eddyburg, questa nota dell'ANPI e, più in generale, la cartella Italiani rava gente.

Giorni fa Marco d'Eramo scriveva su questo giornale che Obama si è aggiudicato le elezioni presidenziali quando è riuscito a convincere gli elettori che il cambiamento, il futuro, stavano dalla sua parte. La sua stessa candidatura era di per sé il simbolo del cambiamento. Su queste basi è riuscito a costituire un movimento di milioni di persone, che si sono mobilitate, anche contribuendo finanziariamente alla campagna elettorate. Invece la nostra sinistra dà un'idea di vecchio, di ripetitivo, mentre un partito autoritario come Forza Italia non ha perso l'attrazione del nuovo. Per tornare a parlare con il paese, per tornare a vincere, la sinistra deve comunicare un forte segnale di discontinuità con le pratiche politiche del passato, e incominciare a sperimentare un modo diverso di fare politica, al di là delle attuali divisioni.

Le prossime elezioni europee sono una necessità stringente di rivincita e anche un'occasione unica; ma per coglierla la sinistra deve rinnovarsi, attirando l'attenzione degli italiani, prima ancora che sui programmi, sul suo modo di procedere. Deve fare qualcosa di mai tentato in Italia, che stupisca, che attiri attenzione, simpatia e interesse, che faccia venir voglia di partecipare anche a tutti coloro che sono disgustati «da riti congressuali, notabili, conteggi di tessere, quote alla Cencelli per correnti, sottocorrenti e gruppi, e di tutte quelle pastoie da casta politica». Solo se la sinistra cambia profondamente se stessa, rompendo i ponti con le prassi del passato, riuscirà a presentarsi in modo credibile come un soggetto politico davvero capace di cambiare profondamente questo paese.

È incominciato in questi giorni il dibattito politico sulla presentazione delle liste alle elezioni europee, e il tema che attira di più l'attenzione è come si aggregheranno i vari partiti e movimenti che costituiscono la sinistra. Penso che questo sia un falso problema. Sono convinto che sia destinata alla sconfitta qualsiasi soluzione - con uno, due o più raggruppamenti - che, dopo trattative ai vertici produca liste aventi in posizioni dominati segretari di partito, ex parlamentari... L'inserimento di qualche faccia nuova non cambierebbe di molto il risultato finale.

Se la sinistra non riesce a far vedere agli elettori che il cambiamento sta dalla sua parte, ha perso. Il problema centrale del dibattito dovrebbe essere come formare liste della sinistra il più possibile unitarie, dando vita a un processo partecipato, che non abbia quell'odore di cartello elettorale, di spartizione delle poltrone tra i partiti, che aleggiava attorno all'Arcobaleno. Vorrei contribuire al dibattito con una proposta esplicita per la formazione di una lista, appoggiata dai vari partiti e movimenti della sinistra, basata sui seguenti punti:

1. non possono candidarsi alle elezioni europee tutti coloro la cui fonte principale di reddito in questi ultimi anni proviene da attività politiche o sindacali, per esempio ex Deputati o Senatori, assessori regionali, provinciali o di grandi comuni, funzionari di partito.

2. Non possono candidarsi alle elezioni europee i membri delle direzioni nazionali dei movimenti o dei partiti della sinistra.

3. Fatte queste eccezioni, le candidature sono aperte a tutti coloro che condividono il programma elettorale, indipendentemente dal fatto se siano iscritti o no a partiti o movimenti della sinistra. Le candidature (accompagnate da un curriculum di attività politiche che verrà reso pubblico) saranno vagliate da un comitato di garanti, col mero scopo di verificare la coerenza con gli ideali del programma.

4. Successivamente i candidati verranno scelti mediante primarie (includendo quote riservate per ciascun sesso) e verranno messi in lista in ordine alfabetico. Ovviamente se venisse abolito il voto di preferenza, l'ordine non sarebbe alfabetico, ma frutto delle primarie.

5. Il programma deve essere molto sintetico e basato su proposte oncrete e valori condivisi (per esempio avere una legislazione europea in accordo con i principi della nostra bella Costituzione). Ci si può concentrare su qualche punto chiave come l'intervento pubblico per garantire un reddito minimo a chi perderà il posto a causa della crisi, o lo sviluppo delle energie rinnovabili (ricerca e nuove tecnologie). Le primarie stesse possono anche essere utilizzate per determinare le priorità dei punti chiave.

Vorrei essere molto chiaro. Io penso che i politici di professione siano una grande risorsa per la sinistra, ma non sono l'unica. Trovo disgustosi, e segno di imbarbarimento, gli attacchi che sono stati fatti recentemente in televisione a Vendola, al quale va tutta la mia solidarietà. Ho una grande stima per le persone che ho qui proposto di escludere dalle liste (alle quali io stesso appartengo): il loro contributo è cruciale e non possiamo pensare di fare a meno della loro esperienza anche tecnica.

Tuttavia in queste elezioni è in gioco la capacità della sinistra di dimostrare di essere in grado di finirla con le pratiche di spartizione pesate dei posti di potere, e di riportare la scelta dei candidati nelle mani del popolo della sinistra. Bisogna far arrivare a tutti gli italiani il messaggio che lo si sta facendo già in queste prime elezioni dopo la catastrofe. Le primarie da sole non bastano: un dirigente politico partirebbe troppo avvantaggiato rispetto a chi fa politica al di fuori dei partiti.

Per uscire da una grave crisi di rappresenza la sinistra deve dare adesso un segno chiaro. In successive elezioni le liste si potranno fare differentemente, con una ponderata combinazione di politici di professione e di coloro che fanno politica nella società. Ma il primo appuntamento nazionale dopo la sconfitta delle politiche deve testimoniare la capacità della sinistra di fare politica in maniera nuova, per recuperare tutti coloro che le hanno voltato le spalle alle elezioni precedenti. In questo modo si otterrebbe anche il vantaggio non trascurabile di spazzare via tutte le discussioni e trattative in atto sull'organizzazione delle liste per le europee, discussioni che rischiano di avvelenare il clima politico e - anche se finissero con una lista unitaria - lascerebbero l'amaro in bocca.

Il metodo che propongo, se fatto adeguatamente conoscere, avrebbe una forte risonanza: le candidature aperte, le primarie con risultato non precostituito, la partecipazione di tutta la società, le discussioni politiche a ampio spettro, tutti questi fattori attirerebbero l'attenzione sulla sinistra, che potrebbe giustamente e orgogliosamente dimostrare di essere sostanzialmente diversa dagli altri partiti. Molti la voterebbero, anche al solo scopo di incoraggiare la politica italiana a muoversi con modalità nuove. Sarebbe una campagna elettorale che potrebbe mobilitare un gran numero di persone; non so se sarebbe il punto di partenza per nuove aggregazioni politiche, tuttavia sarebbe almeno l'inizio di un nuovo modo di fare politica. In un momento in cui i partiti della sinistra stanno riflettendo sul loro futuro, conviene a tutti fare un passo indietro e far entrare nell'arena della politica nazionale energie nuove.

Recentemente il movimento degli studenti ha mostrato come la richiesta di cambiamenti di metodo continui a essere forte e come sia possibile organizzarsi con grande successo senza ripercorrere pedissequamente le tracce dei precessori; la sinistra dovrebbe ispirarsi al loro esempio.

Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?

Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.

«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.

Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.

Erano due percezioni di sé e del mondo su piani affatto diversi, che di comune hanno soltanto la contemporaneità (sulla quale varrebbe la pena di riflettere) e lo sfondamento rapido di un minoritarismo; risuonavano immediatamente sul reale. E non si aggiungevano al movimento operaio, lo accusavano di averle ignorate pretendendo la sola sua centralità; l'uno nega le altre e viceversa, inclinando ciascuno a porsi come «la» contraddizione principale.

Attaccate nella loro base sociale dall'offensiva liberista, incerte nel cogliere l'evolvere dell'organizzazione capitalista della proprietà e del lavoro, colpevolizzate dall'accusa di non avere inteso i nuovi conflitti, le soggettività di origine operaia o si sono irrigidite o hanno dubitato delle proprie ragioni. Tutti i filosofemi sul Novecento, per quanto diversamente conditi, affermano la fine della loro ragion d'essere. Paradossalmente il capitalismo si è esteso, è il sistema unico dominante, l'ineguaglianza dentro alle singole società e fra paesi dominanti e dominati, nord e sud, non sono mai state così grandi e percepite, ma i motivi di opporvisi non ci sarebbero più. O almeno non gli stessi. Addio al proletariato scriveva una ventina di anni fa un amico scomparso, André Gorz.

Qualcosa di analogo si può dire per le molte ricerche sulle innovazioni che sarebbero intervenute nel capitalismo rendendo obsoleto il conflitto di classe; ancora di recente uno dei nostri più stimati compagni, Marcello Cini, è tornato a insistere sul «luogo» di accumulazione del capitale, negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro, ma scordando che non è sul dilemma di dove si formi ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale. E questa mercificazione si è estesa, se mai, ben oltre il secolo scorso e il fordismo, sull'insieme della produzione, materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani.

In Italia il problema è esploso su Rifondazione comunista dopo il disastro delle elezioni. Già era del tutto scomparso dall'orizzonte del Partito democratico, che neppure più si definisce di «sinistra» e non certo perché il termine è diventato equivoco, ma perché al conflitto sociale ancora in qualche modo allude. Del dilemma che ancora agita i socialisti francesi, ancorarsi alla questione sociale o al centro, il Pd ha scelto il secondo corno fin nella sua composizione. Mentre è diventato dirompente in Rifondazione. E non poteva non esser così per un partito che si era proposto di «rifondare» il comunismo, recuperando lo spazio che il Pci aveva lasciato deserto, ma non superava mai una soglia assai minoritaria di ascolto e di colpo non ne raggiungeva, istituzionalmente parlando, più nessuna.

Al Congresso di Chianciano, la vecchia robusta minoranza è diventata maggioranza accusando la dirigenza di Bertinotti e poi la mozione Vendola di dismettere ogni lotta sociale con la prospettiva di finire prima o poi nel Pd; mentre la mozione Vendola accusava la linea Ferrero-Grassi di arroccarsi su una inerte ripetitività del passato. Negli articoli di Paolo Ferrero e Nichi Vendola sull'ultimo numero di «Alternative per il socialismo» (che, per essere stati scritti a settembre, non percepiscono le mutazioni della scena internazionale, né la crisi apertasi nel capitalismo) le posizioni restano immutate. Ferrero, preso dall'angoscia che tutti conosciamo, del venir meno d'una soggettività sociale punta a ricostruirla «in basso e a sinistra», cioè come esperienza diretta degli individui ora atomizzati attorno a un bisogno ravvicinato da affrontare assieme. E insiste sui simboli, nome del partito e falce e martello come salvagente per non precipitare in grembo al Pd. Vendola, nell'appassionata mappa dei conflitti e sofferenze del presente - con la sensibilità umana rara e che gli è avvalsa la vittoria in Puglia - stenta a dare una collocazione alla lotta di classe, una delle molte ferite della società. E anche lui insiste, in altra direzione, sulla priorità del simbolico. Ora il simbolico, quando venga assunto a sua volta come piano principale o unico, può essere devastante del «materiale reale». I due piani o si tengono stretti, diciamo così, per il bene e per il male, o si mutilano.

Adesso Bertinotti interviene affermando, con ragione, che non esiste sinistra senza il conflitto sociale, mentre il movimento degli studenti gli suggerisce, ed è discutibile, che può darsi il contrario. Nega sia l'autonomia del sociale sia quella del politico. La proposta di Ferrero è povera, quella di Vendola stenta a individuare i nessi, conclude chi legge, che aveva individuato già, in una sua più vasta analisi della disaggregazione delle soggettività, Maria Luisa Boccia (in sintesi anch'essa in «Alternative per il socialismo»).

In verita tutta Rifondazione comunista si dibatte, da quando esiste, sul bandolo dal quale afferrare la matassa dopo il 1989. Esponendosi agli scacchi: alcune affermazioni che egli ora giustamente discute sono derivate dalla sua iniziativa. Non penso tanto alla scelta di stare o non stare nella maggioranza di governo, quanto all'aver puntato sulla Sinistra Arcobaleno come a qualcosa di più che una coalizione elettorale, il nucleo di un partito «plurale». Che una opposizione al berlusconismo e al centro raccolga culture e sensibilità differenti mi pare d'obbligo, ma che la stessa possa costituire un partito nel quale il conflitto di classe sarebbe un optional è un altro paio di maniche.

Ne sono derivate reazioni opposte e assai dubbie, come il disinvolto articolo sul comunismo di Rina Gagliardi su Liberazione e, all'opposto, l'accusa di liquidatore indirizzata a Vendola.

Le tesi di questi giorni dovrebbero far giustizia delle battute avventate e costituire una trama sulla quale lavorare. Esse hanno dovuto aggiornarsi sulla realtà aperta negli ultimi mesi; che modifica le carte del mondo come si presentavano un anno fa. Danno fin troppo ragione a chi si opponeva alla «fine della storia» e all'autosufficienza del mercato come ordinatore dell'economia e della società.

Ma, nuovo paradosso, gli apologeti dell'una e dell'altra, davanti alla cui protervia non si poteva aprir becco senza essere dileggiati, chiedono affannosamente aiuto all'intervento pubblico, mentre la sinistra non sa che dire davanti alla crisi, non solo «finanziaria», nella quale il capitalismo si dibatte. Noi, sinistre critiche, sembriamo un gatto nella notte, abbacinato dai fari d'un camion di cui preconizzavamo l'arrivo ma che ci prende di sorpresa.

C'è molto da rivedere nella nostra cassetta degli attrezzi e anche nelle nostre rivendicazioni. Come avanzare un piano o un partito del «lavoro», quando è il sistema che sta traballando? Certo non possiamo attardarci nelle beghe fra noi. La rivoluzione non è all'ordine del giorno ma un corto circuito del liberismo è in corso. Non dovremmo avere qualcosa da dire? Almeno sulle misure di intervento, quante, come, destinate a chi e da parte di quale «pubblico»?

Se non l'abbiamo, la nostra scomparsa da contingente rischia di diventare definitiva.

Esce nelle sale il film di Spike Lee sull'eccidio di Sant'Anna di Stazzema. Enrico Pieri, allora bambino e sopravvissuto alla strage, ne parla con noi, con il regista e alcuni storici

Aveva dieci anni Enrico Pieri (più o meno come Angelo, il protagonista del film di Spike Lee), quella mattina del 12 agosto 1944. Era a Sant'Anna di Stazzema, località I Franchi, nel casalone dove abitava con i suoi: due sorelline, la mamma, il babbo, minatore figlio di emigranti in Svizzera (un nonno morto costruendo il tunnel sotto il Giura, nel 1914), ora a cavar ferro a Montarticcio in Lunigiana, e perciò rimandato a casa dal fronte, il minerale era più prezioso di un soldato. Accanto, nella casa del nonno materno e in quella dello zio Alfredo, c'erano gli sfollati della piana versiliese, ammucchiati alla meglio, assieme alle bestie che si erano portati dietro.

«All'alba - racconta mentre pranziamo dopo il mini-convegno con gli storici che presenta il film a Firenze - al casale era venuto il macellaio per aiutare a scorticare la vacca appesa in cucina: ammazzata senza permesso per sfamare tutta quella gente. Ma non se n'era fatto niente, perché aveva consigliato di andar via in fretta, che stavano per arrivare i tedeschi».

«Il babbo aveva paura soprattutto per via della vacca, ma, come gli altri, aveva detto di no, che non sarebbe scappato, restavano tutti lì. Che i tedeschi arrivavano e non arrivavano si diceva da quasi un anno: dall'8 settembre, quando erano suonate le campane per l'annuncio dell'armistizio e tutti si erano riuniti in cucina a festeggiare. Ma il babbo aveva detto, 'va bene oggi, domani chissà'. Da allora i ragazzi di leva, per sfuggire al bando che minacciava la fucilazione a chi non si fosse presentato (quello famoso firmato da Almirante), erano andati in montagna e poi si era formata una banda partigiana, «I cacciatori delle Apuane», diretta da un tenente d'aviazione, Gino Lombardi. Poi di bande se ne erano organizzate altre e i primi scontri non erano stati coi tedeschi ma con quelli della X Mas. La prima vittima, a S. Anna, alla fine del '43, c'era stata proprio per mano di italiani. Ora, con la linea gotica a due passi, gli allarmi erano diventati continui».

«Questa volta, però, i tedeschi arrivarono davvero. Erano le sette del mattino e ci fecero uscire tutti, fra noi e i Pieroni si era una quindicina. I tedeschi non più di quattro o cinque. Ci avviamo, ma dopo nemmeno 50 metri cambiano idea e ci riportano a casa, stipati nella cucina del nonno, già piena di materassi che spazio con gli sfollati non ce n'era. Non eravamo nemmeno entrati tutti che comincia la sparatoria. La Gabriella Pieroni, due anni più di me, mi piglia per il braccio e mi tira dentro un ripostiglio, nel sottoscala. L'inferno dura poco e c'è un grande silenzio. Usciamo dal nascondiglio tenendoci per mano, ma c'è tanto fumo, perché i tedeschi hanno buttato dentro la paglia e il pavimento di legno sta prendendo fuoco. Lentamente, però, perché le fiamme sono rallentate dalle pannocchie ancora attaccate. C 'è sangue dappertutto e non riusciamo a vedere niente, anche perché non abbiamo coraggio di guardare. Si intravedono i corpi dei nostri uno sull'altro, il sangue che ancora cola, immobili. Ci raggiunge una vocina, è la sorellina piccola di Gabriella che si è salvata nascondendosi nei letti sfatti. Sull'aia c'è un gran cumulo di fagioli e ci nascondiamo tutti e tre dentro, impietriti dalla paura».

Sommersi e salvati

«Sotto i fagioli restiamo fino alle cinque del pomeriggio, trattenendo il fiato. Da fuori ci arrivano gli ululati delle bestie, il rumore degli spari, il boato dei crolli, il crepitare degli incendi. Quando andiamo fuori brucia infatti, al di là della strada, la cascina dei Bartolucci e dei Marchetti, poco più in là, le case della Vaccareccia, dove poi furono trovati 70 morti. Un vero incendio, con i corpi dentro, perché lì hanno usato il lancia fiamme. Tremiamo, ma decidiamo di scappare, io conosco un sentiero che scollina senza passare per S. Anna. Stremati arriviamo all'altra valle e i contadini ci danno latte e rifugio in una grotta: siamo in parecchi e ci raccontano che davanti alla chiesa, in paese, ne hanno ammazzati a centinaia, tutti, una montagna di corpi. Al mattino non resisto e da solo riscavalco il monte per tornare a casa. Ma poi non ce la faccio a entrare nella cucina dove so che ci sono i cadaveri dei genitori, delle sorelline, dei nonni, degli zii. Ma l'incendio non è divampato e riesco a spegnere, prendendo l'acqua dall'acquaio, col vaso da notte del nonno, i mozziconi che bruciano. Così ho salvato la casa, che è ancora lì».

E poi, Enrico? «Poi, poi. Mi hanno affidato a una zia a Castello Carducci, quindi in collegio e appena finite le elementari a lavorare nei cantieri di Viareggio. Alla fine sono andato anche io in Svizzera. Ci sono restato 32 anni e sono tornato solo nel '92, con la pensione. Di S. Anna per anni non ho più voluto saper niente, ancora adesso di notte mi sogno che scappo. Però non volevo che mio figlio, in Svizzera, andasse alla scuola tedesca, non potevo sopportare che parlasse quella lingua. Poi mi sono detto, adesso c'è l'Europa, siamo sicuri, che vada pura dai crucchi».

Enrico Pieri, uno dei rari sopravissuti ai 560 massacrati di S. Anna di Stazzema, di quel che è accaduto è tornato a parlare. E' anzi presidente dei «Martiri di S. Anna». E ogni giorno, dice, «salgo su da Pietrasanta dove ora vivo. Ma lì non abita più nessuno, deserto». Parliamo del film, all'inizio un po' diffidente, perché si tratta del . «Tu però prima diffondevi l'Unità come me, che ne ho vendute a milioni, anche quando ero in Svizzera, fra gli emigrati» - mi dice quasi a rimproverarmi l'antico abbandono. Ma poi prevale la complicità dei vecchi comunisti e parliamo a lungo della polemica che ha accompagnato il film di Spike Lee.

Il film «conteso»

Della pellicola è per certi versi un po' deluso. Ma non perché parla male della Resistenza, o, peggio, come ha indecentemente scritto Peppino Caldarola su Il riformista, perché Spike Lee avrebbe vendicato Gian Paolo Pansa. Pieri non condivide il duro attacco mosso al film dall'Anpi locale. Spike in effetti fa vedere che la popolazione non denuncia i partigiani, tace anche a fronte delle minacce dei tedeschi. E poi mostra i partigiani che combattono e cadono a fianco dei soldati americani. Quanto al traditore... traditori si sa che ce ne sono in ogni formazione. Un po' deluso, piuttosto, è perché «Miracolo», sebbene racconti di un bambino che avrebbe potuto essere lui stesso, non è un film sulla Resistenza in senso proprio, e in qualche modo nemmeno sull'eccidio, come si aspettava. E' invece un film sui soldati neri nella guerra dei bianchi, che nella loro epopea incrociano i massacri nazisti e gli abitanti della Toscana. E dell'Italia racconta quello che ne avevano capito i ragazzi della 92ma Divisione Buffalo decimata nell'attraversamento del Serchio. L'Italia è uno sfondo, dipinta con maestria emozionante, ma la straordinaria forza polemica sta nella denuncia - per la prima volta esplicita - della condizione dei militari neri nella guerra mondiale.

Lo hanno detto anche Leonardo Paggi e Paolo Pezzino, i due storici che hanno parlato al mattino, correggendo con garbo gli errori storici di Spike Lee e dello scrittore del libro, McBride, che nel corso del dialogo molto informale, quasi un botta e risposta mediato dal presidente della Cineteca Toscana Di Tullio, hanno finito per capire cose che non sapevano e hanno finalmente interloquito. Ripetendo per ogni buon conto a ogni passo che dei neri americani come loro due non possono che stare dalla parte dei partigiani.

Paggi, che ha scritto in particolare sull'eccidio di Civitella in Chianti, dove lui stesso ha perduto il padre, spiega che in Toscana non c'era il «noi della Resistenza» e i «loro che erano contro», c'era «una comunità partigiana» di cui tutti - salvo una minoranza di fascisti armati - facevano parte. C'erano casomai differenziazioni nel resistere: chi lo faceva con le armi, chi, correndo rischi enormi, fornendo i viveri e l'asilo, chi semplicemente opponendo a fascisti e nazisti una compatta omertà.

McBride ha ancora dubbi, sulle responsabilità dei partigiani che con le loro azioni avrebbero esposto alla vendetta popolazioni inermi. E tira fuori copia di un manifesto affisso nel '44 nei paesi della Lunigiana e ritrovato una decina di anni fa negli archivi della V Armata. «L'ho fornito io stesso all'Archivio del Museo di S.Anna - spiega Pezzino, che è stato l'esperto che ha aiutato il pm di La Spezia nel processo contro i responsabili del massacro che si è concluso solo l'anno scorso con la condanna, ormai solo formale, dei responsabili tedeschi: morti o vecchi, comunque mai estradati dalla Germania. Un processo che ha tardato più di mezzo secolo, perché i documenti furono tenuti nascosti dai Comandi militari italiani nel famoso «armadio della vergogna».

«E' vero - dice Pezzino - che in molte zone manifesti tedeschi che imponevano l'evacuazione dei paesi vennero sostituiti di notte da manifesti partigiani che incitavano le popolazioni a resistere e a ribellarsi, affermando che loro erano accanto al popolo. Ma non si trattava di offerta di garanzie, bensì di messaggi politici. Del resto abbiamo tutte le prove che i massacri non avvenivano per rappresaglia ma perché nei manuali dell'esercito nazista era scritto che sulla linea del fronte bisogna con qualsiasi mezzo liberare il territorio della popolazione, fare terra bruciata attorno ai 'banditi'». E infatti i massacri dopo S. Anna si ripetono in crescendo: Valla e Bardine di S.Terenzo, il 19 agosto; Vinca, dal 24 al 28 agosto ( lì le Ss furono coadiuvate dalle Brigate nere di Pavolini); Fosse del Frigido, vicino a Massa, il 16 settembre; Bergiola Foscalina, vicino a Carrara, nello steso giorno. Poi il «metodo» viene applicato in Emilia, su scala più larga: a Marzabotto gli assassinati furono quasi 800, il più grande eccidio commesso nell'Europa del sud e occidentale occupata dai tedeschi. Che, quelli impegnati sul fronte italiano, si erano comunque allenati, con stermini anche più efferati, sul fronte sovietico.

Massacri infiniti

«Questa storia delle 'colpe' dei partigiani cominciò a venire fuori già alla fine dei '40, con la guerra fredda, alimentata dalla destra - dice Pieri. La Lucchesia, poi, è zona bianca! A S. Anna non c'era più nessuno che potesse contestare: senza strade e senza luce elettrica, e dopo quei morti, era stata abbandonata. S. Anna è stata dimenticata per decenni. E' stato merito di Ciampi ritirare fuori la nostra storia, quando venne qui, nel 2000. E del lavoro fatto dalla regione Toscana sulla memoria». E' qui che Spike ha buon gioco: «Mentre giravo in Italia ho chiesto a tanti cosa sapevano di S. Anna di Stazzema. Sette su dieci non l'avevano mai sentita nominare. Il film, almeno, avrà il merito di far conoscere a tutti la storia». Dicono i due bambini del film, Angelo e Arturo, in realtà già morti: «Queste sono cose succedevano quando eravamo bambini». Purtroppo succedono anche oggi. Giustamente Paggi ha concluso dicendo: alla fine il massacro ha una sua dinamica propria, al di là delle specifiche ideologie. E infatti si ripete. In tutto il mondo. Oggi anche più di ieri.

All’appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l’Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell’argomento è scoperto, ingenuo.

«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell’ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all’autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell’Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell’antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell’immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.

Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l’idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un’opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.

La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l’Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l’immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l’importanza della scuola per l’attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l’Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un’efficienza insolite.

Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov’erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l’efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.

Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall’università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d’uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.

Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un’ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l’unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l’antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell’ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall’alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.

E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell’intolleranza e dell’ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.

Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall’intolleranza niente toglie all’urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com’è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com’è fragile davanti ai cattivi maestri... ».

A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro".

Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana. L’ultimo caso di inedito razzismo all’italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l’altra più generale.

La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all’aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all’immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d’Europa, sono l’inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell’economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l’Emilia.

I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l’emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c’erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico".

L’altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell’urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L’Italia è l’unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all’emergenza. L’altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l’aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all’estero.

Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell’immensa paura che gli italiani provano da vent’anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l’odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".

Postilla

Ma i sindaci sono spesso come li descrive Maltese perché sono i più vicini alla “gente”. La tragedia è questa: la “gente” italiana è diventata così. E la domanda è: perchè?

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950

Postilla

Nel sistema politico della fase berlusconica non c’è bisogno di una scuola di partito. Anzi, c’è già: è costituita dal monopolio massmediatico, che è da qualche decennio la vera scuola degli italiani. Basta ridurre via via il peso della scuola pubblica. Ci sono vicini, se non ci opponiamo.

Se non sapete chi è Piero Calamandrei, cercate con google.

Non c’è molto da rallegrarsi della prima festa «democratica» organizzata dal Pd a Firenze. Questa manifestazione è subentrata alle tradizionali feste dell’Unità, che hanno sempre rappresentato momenti importanti per il Partito comunista italiano: i militanti prestavano la loro opera per assicurarne il successo, i simpatizzanti affluivano numerosi, i discorsi dei dirigenti venivano ascoltati con attenzione. Era un rituale politico grazie al quale i comunisti si ritrovavano tra loro proclamando la propria identità, davano prova di coesione, affermavano la loro forza e attingevano nuove energie. La prima festa del Pd avrebbe dovuto mobilitare gli iscritti, dare visibilità al partito e rilanciarne l’attività politica.

Ma in questo mese di settembre il Pd ha varie ferite aperte da curare dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile, e molte preoccupazioni per il suo futuro. Lungi dal mostrare l’unità del partito, la festa di Firenze ha esposto in piena luce le discordie tra i suoi dirigenti, venuti a saggiare la propria popolarità e a posizionarsi nella competizione interna. La piccola guerra tra i capi deprime gli elettori di sinistra e lascia indifferente la maggioranza degli italiani, i quali d’altra parte si rendono conto che la crisi di leadership del Pd ne cristallizza molte altre.

Innanzitutto, una crisi di strategia: l’opposizione contro il governo va fatta con intransigenza, o in maniera più morbida, in vista di un dialogo? E una crisi delle alleanze: con quali forze il Pd deve trovare un accordo? Con un alleato scomodo e intransigente come l’Italia dei valori? Con la sinistra radicale, che ha subito un tracollo ed è scomparsa dal parlamento? Con l’Udc, tuttora inaffidabile?

Una crisi d’identità e di progetto, contrassegnata dall’interrogativo posto fin dalla sua nascita: cos’è il Pd? Quali sono i suoi riferimenti, la sua cultura, il suo disegno?

Infine, una crisi organizzativa del partito: come strutturarlo e farlo vivere? Come assicurare un rinnovamento non solo degli iscritti, ma anche dei dirigenti?

In verità il Pd, nato dalla volontà di superare le frontiere classiche della sinistra, non è il solo a trovarsi in cattive acque. I problemi che sta affrontando sono gli stessi della sinistra europea nel suo insieme. In quest’inizio della stagione autunnale, la sua situazione è del tutto simile a quella del partito socialista francese, che si sta inabissando nella lotta tra i capi. Sulle questioni di fondo non vi sono divergenze insormontabili tra Ségolène Royal, Bertrand Delanoë, Martine Aubry e Pierre Moscovici, che però se le inventano, per controllare il partito e in vista delle prossime presidenziali. Allo stesso modo, il Pd e il Partito socialista mettono in scena contrasti sorprendenti. Da un lato, queste formazioni dispongono di un vero capitale elettorale: reti di simpatizzanti, grandi riserve di talenti e dirigenti locali e regionali di qualità; ma dall’altro si rivelano politicamente impotenti, con lacerazioni ai livelli più alti e l’incapacità di proporre un progetto attraente. E soprattutto, rimangono muti davanti a una domanda fondamentale che si pone oramai sia in Francia e in Italia che nel resto d’Europa: perché mai la destra ha la meglio nel momento stesso in cui tutto ? la crisi del capitalismo finanziario, l’esaurirsi delle ricette liberali, il deterioramento del potere d’acquisto, l’aggravarsi delle disuguaglianze d’ogni tipo, il radicato attaccamento al welfare degli italiani e dei francesi così come della grande maggioranza degli europei ? dovrebbe spingere gli elettori verso sinistra? La spiegazione va ricercata soprattutto nella capacità della destra di intercettare e sfruttare politicamente altre dinamiche di fondo delle nostre società: l’individualismo crescente, le paure reali o immaginarie suscitate dall’immigrazione e dall’insicurezza, le ansie per il futuro, la diffidenza nei confronti delle istituzioni politiche, gli interrogativi sul divenire dell’Europa, l’angoscia davanti alla globalizzazione, un forte bisogno di identificazione collettiva, la ricerca di valori e di senso. I discorsi politici più popolari e diffusi si nutrono delle argomentazioni della destra su questi temi.

Ecco perché il periodo attuale è di una gravità estrema per la sinistra, in particolare in Italia e in Francia; tanto più che si presenta con caratteristiche di lunga durata. In questi due Paesi, dal 1947 in poi la sinistra è stata per lo più minoritaria in termini elettorali, a causa di molteplici fattori che in parte sono comuni ai due Paesi: l’influenza del cattolicesimo (più accentuata in Italia, dato che la Francia ha una robusta tradizione laica), il retaggio della cultura rurale, l’importanza della proprietà privata, un forte anticomunismo nei due Paesi che hanno avuto i maggiori Partiti comunisti del mondo occidentale, l’incidenza dell’individualismo, ancorché concepito in maniera diversa da un Paese all’altro. Esistono però anche fattori specifici: in Italia, il peso e le strutture della famiglia, una frontiera in comune con un Paese comunista per quasi mezzo secolo, la forza di alcuni ceti, come i piccoli imprenditori, i commercianti e gli artigiani, il ruolo della Dc. In Francia, per molto tempo la figura di De Gaulle e le istituzioni della quinta Repubblica hanno tenuto la sinistra sulla difensiva.

Tutto ciò non significa affatto che la sinistra sia condannata a restare all’opposizione. Nulla, in politica, è ineluttabile. Alle attese degli elettori la sinistra ha già dato risposte adeguate per vincere. In Francia, ad esempio, negli anni ‘70 e ‘80 François Mitterrand ha saputo rifondare il Ps con una nuova dinamica, unendo a una programmazione economica contrassegnata da un arcaismo marxistizzante una serie di proposte sociali e culturali libertarie e «moderne», in un mix capace di sedurre sia il mondo operaio che quello dei dipendenti pubblici e del terziario.

Dal 1996, per uscire dal suo isolamento, la sinistra italiana si è alleata con una parte del centro. Questa formula ha consentito di battere Berlusconi a due riprese, ma si è rivelata fragile e inefficace per governare.

Oggi più che mai, il compito prioritario della sinistra è dunque quello di portare a buon fine i cantieri della sua rifondazione. E di analizzare, per comprendere infine la natura del radicamento profondo dei suoi avversari ? il sarkozysmo in Francia e il berlusconismo in Italia ? le complesse mutazioni della società, cogliendo le attese reali degli elettori per elaborare proposte chiare e ricostituire un corpus di valori mobilitanti.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Siamo a uno dei punti più bassi della nostra storia: Alberto Asor Rosa ha ragione. Siamo a una crisi intellettuale e morale degli italiani - metà dei quali hanno votato per la terza volta una banda di affaristi ex fascisti e separatisti e l'altra metà si è divisa. Occorre dunque, scrive Asor, un soggetto politico nuovo, pulito e con un'idea di nazione che guardi a sinistra e non insegua fisime comuniste. Nel documento del Crs, Mario Tronti diceva qualcosa di analogo precisando che deve essere una grande forza popolare.

Non che mi piaccia essere una fisima, ma pazienza. Però, allo stato delle cose, non vedo dove questa forza politica sia. Veltroni direbbe: ma come, quella forza sono io, e il Pd. Abbiamo il 34 per cento dei voti, non siamo una combriccola di affaristi, abbiamo un'ipotesi riformista e una moderna icona morale in Robert Kennedy, abbiamo chiuso con ogni tipo di comunismo. Già, solo che l'opposizione a Berlusconi il Partito democratico non la sta facendo. Solo che raramente si è veduto un partito di sinistra così monocratico e poco popolare, se per democratico e popolare si intende un minimo di democrazia partecipata. Solo che, per dirla tutta, che cosa sia il Pd non si è capito ancora: gli avevano dato vita la Margherita e i Ds, ma della Margherita mancano ormai Prodi e Parisi, e Rosi Bindi sembra tenere più per coerenza che per persuasione. Neanche i Ds sembrano un blocco: D'Alema giura per il Partito democratico ma la sua fondazione ha accenti alquanto diversi da quelli di Veltroni. Chi può giurare che al primo congresso questa chimera diventi un animale affidabile?

Fuori del Pd le cose non vanno meglio. La frettolosa coalizione della sinistra Arcobaleno è stata addirittura espulsa dal Parlamento, il suo proprio elettorato avendole giurato vendetta per essersi fatta trascinare nell'avventura di governo. La Sinistra democratica di Mussi ha perduto qualche foglia invece che guadagnarne. I Verdi lo stesso. Rifondazione si è spaccata in due tronconi che neppure si parlano: la maggioranza di Ferrero punta tutto sul conflitto sociale dal basso, la minoranza di Niki Vendola su una raccolta di aree radicali fra le quali quella comunista potrebbe essere una cultura fra le altre, dell'ambientalismo che è più vasto dei Verdi, del femminismo, dei movimenti.

Non vedo perciò, allo stato dei fatti, un soggetto in grado di fare fronte alla slavina di destra. Vedo una quantità di orfani che vorrebbero questo soggetto ma sui quali da diversi anni passano grandinate che li disperdono vieppiù. Ma qual è la causa delle grandinate? Sta soltanto nella risolutezza e la sfacciataggine di Berlusconi? Non credo. La banda che ci governa ripete esattamente forme, metodi e misure di tutti gli esecutivi europei dagli anni '80: la potente spinta alla disuguaglianza, all'arricchimento di pochi, all'impoverimento dei più, cioè l'ondata neoliberista che ha seguito i «trent'anni gloriosi». È una ripresa della linea che era già stata sconfitta in Europa e negli Usa dopo gli anni '20.

Ma ora, osserva Asor, essa è già arrivata a un punto morto. Vero, ma non per la forza della sinistra. È nei guai con se stessa. Dal liberismo si oscilla al protezionismo, dal mercato unico alle guerre commerciali simili a quelle del XIXmo secolo - ecco dove stiamo ritornando. Gli Stati uniti hanno l'egemonia militare ma non più economica; questa gli è contestata dalla Cina e dall'India in poderosa crescita. E l'arroganza di Bush ha infilato la sua supremazia militare nella trappola del Medio oriente, mentre l'Europa è insabbiata in una moneta relativamente forte, in un'economia debolissima e in un'iniziativa politica pari a zero.

Questo è il quadro cui siamo davanti. Crediamo davvero che si potrà batterlo con i conflitti sociali dal basso o con l'adunata dei renitenti al veltronismo? Non lo penso. Se vogliamo non solo battere Berlusconi ma dirci dove l'Italia può andare, su quali basi si può ricostruirne una fisionomia intellettuale e morale bisognerà pur passare dalle proteste divise e poco comunicanti a un progetto capace di credibilità, persuasione e mobilitazione. Per questo non serve il Partito democratico, che del liberismo condivide gli orizzonti, né bastano le due anime di Rifondazione: la vastità dell'impegno implica una raccolta di forze che vada molto oltre la sinistra Arcobaleno e la natura dell'impresa implica una dimensione del conflitto che non si risolve dal basso. Del resto, qual è il basso della globalizzazione?

E qui torna la mia fissazione: se siamo, come credo, una tessera di una tendenza mondiale, prima di tutto ad essa dobbiamo dare un nome e di essa definire la mappa. Il nome è il capitalismo dall'ultimo quarto del Novecento agli inizi del Duemila. La mappa è quella dell'intero pianeta. Finiamo di balbettare che tutto è cambiato e perciò niente si può dire, e cominciamo a precisare che cosa questo capitalismo è diventato. Non ci sono più vittorie puramente locali contro di esso. Come i dipendenti di una fabbrica non possono battersi da soli contro la delocalizzazione dell'azienda così un paese europeo non può battersi da solo contro la recessione, quali che siano le pensate protezioniste di Tremonti. Ma quando alla crisi delle classi dirigenti si somma il caos della sinistra il rischio è di essere trascinati via tutti.

Può questo rischio trasformarsi in occasione? Questa è a mio avviso la domanda vera. Credo che sì, per l'ampiezza dei soggetti coinvolti e per la profondità non solo materiale e pecuniaria del disastro ma appunto intellettuale e morale - non è per caso che all'apatia culturale dell'Occidente ormai non si oppongano che nazionalismi o fondamentalismi.

Ma nel medio termine temo che non si possa dare una parola d'ordine rivoluzionaria, almeno nel senso che abbiamo dato a questa parola fino a poco tempo fa: l'esito del '68 dimostra quanto eravamo già arretrati e quel che è seguito all'89 impedisce anche ai più ostinati di sognare una riedizione dei socialismi reali. Ma la sofferenza sociale e l'ampiezza delle ineguaglianze sono diventate così forti da rendere fragile la stessa tenuta e coesione di ogni singolo paese. Non è con le riforme istituzionali che si può aggiustare la baracca. Potrebbe essere aggiustata, per difficile che sia, con una inversione di tendenza: un intervento che restituisca il primato alla politica piuttosto che ai meccanismi dell'economia, che dia luogo a linee di sviluppo, incluso uno «sviluppo di decrescita», che ridistribuisca la ricchezza a sfavore delle zone forti e a favore di quelle deboli, che decida il taglio dei privilegi sociali, il rilancio su un piano mondiale dei mercati interni (l'impossibilità di procedere del Wto parla chiaro).

Non sarà un'operazione indolore, ma può non essere impossibile. Chi non si ritroverebbe in questo progetto? Soltanto i boss delle stock option d'oro. Non sarà la rivoluzione, ma oggi come oggi sarebbe certamente una rivoluzione culturale.

Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E’ la massima fondamentale del mondo dell’informazione: quel che è abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave – una tentata strage – che però non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedì 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell’area industriale di un piccolo centro toscano. L’atto criminale è rimasto solo potenzialmente assassino perché la molotov non è scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilità di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su del 30 luglio, sezione Firenze, pag. 7), è affondata immediatamente nel silenzio.

Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli è per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si è dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante più o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell’aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarietà evidente con gli autori dell’attentato, ostilità verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omertà e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio è rapidamente calato sul caso . E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile.

L’enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell’attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c’erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarietà collettiva . Chi conosce la banalità del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d’occhio l’episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso è stata una mancata tragedia. Ne è stata teatro una regione – la Toscana – che è d’obbligo definire «civile». Non si sa bene perché. «Civile» appartiene all’esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignità e di diritti tra i suoi membri, la civiltà si definisce dall’assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell’educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d’arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumprà", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta è tanto più pericolosa quanto più dall’alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobiltà la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non basterà il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettività come «uno di noi»: noi in lotta contro loro – i diversi, i senza diritti.

Un’ultima osservazione: l’ostilità nei confronti dei nomadi, degli zingari, è antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E’ un salto di qualità senza precedenti, il gradino più alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno più notizia. E una cosa è evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze «aliene» – zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunità («extracomunitari»). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilità di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall’alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di libertà in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia.

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