Abbiamo provato a gridarlo in ogni modo che il mostruoso reato d'immigrazione clandestina avrebbe generato crimini «umanitari». Così è stato, purtroppo. L'abbandono e poi la morte dei settantatre profughi eritrei è la prima strage prodotta dal «pacchetto-sicurezza». È, certo, il frutto maturo del trattato con la Libia, siglato dal ministro Amato, rafforzato e reso operativo, cioè criminale, dall'attuale governo. È il frutto, più largamente, dell'Europa-fortezza e dell'adeguamento alla sua politica anche da parte del governo maltese.
Ma inedito è il cinismo di Stato per cui una tale strage non trovi come risposta né l'indignazione corale, né l'incriminazione per strage, appunto, bensì per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. «Senza escludere un'eventuale ipotesi di omissione di soccorso», dicono gli inquirenti. Immigrazione clandestina di cui potrebbero essere imputati i cinque poveri spettri che il fato - lui solo compassionevole - ha voluto sottrarre alla morte. Questo «dettaglio», con l'annuncio della parata che Berlusconi sta per fare il 30 agosto con Gheddafi per festeggiare a Tripoli l'anniversario del trattato, restituisce in modo perfetto il senso del crollo dell'elementarmente umano consumato con le politiche di questo governo.
Politiche disumane generano comportamenti disumani: se nessuno ha sentito il dovere morale di soccorrerli è anche perché leggi criminali producono condotte sociali criminali. Ma non tutto è inedito in questo dramma. Non è vero che con esso «abbiamo toccato il fondo», come si è scritto. Se così fosse, si potrebbe coltivare la fragile speranza che un futuro governo non reazionario e non razzista potrebbe ripristinare forme di rispetto per l'elementarmente umano. Purtroppo non è così. Ce lo dice la strage di 108 profughi albanesi della Kater I Rades, provocata nel 1997 dalla pretesa di un governo di centrosinistra di bloccare manu militari l'esodo albanese. Ce lo ricorda un'altra strage del proibizionismo, quella del 25 dicembre 1996, in cui annegarono 233 migranti: a lungo ignorata dai media - il manifesto fu l'unico giornale ad aprire subito con la tragedia -, sempre negata dal governo di centrosinistra e occultata da una parte dei pescatori di Portopalo. Alla fine fu grazie all'ostinazione di qualche giornalista e di antirazzisti come Dino Frisullo, che il silenzio fu spezzato. Non vogliamo sostenere che il trattamento crudele riservato ai de-umanizzati - coloro che anche da cadaveri sono detti clandestini - sia una lunga notte oscura in cui tutte le vacche sono nere. Ma che per produrre i frutti marci che coltiva il governo in carica, di fatto guidato dall'ideologia post-nazionalsocialista della Lega nord, altri hanno provveduto a spargere i semi avvelenati: quelli del proibizionismo crudele e ad ogni costo. La condizione per tornare a coltivare la speranza sta nella costruzione di una volontà collettiva di superamento del paradigma proibizionista.
Sono arrivati in cinque. Erano ische-letriti, cotti dal sole che martella, in agosto, sul canale di Sicilia. Ma il barcone, era grande: ce ne stipano ottanta, i trafficanti in Libia, di migranti, su barche così. Affastellati uno sull’altro come bidoni, schiena a schiena, gli ultimi seduti sui bordi, i piedi che penzolano sull’acqua. E dunque quel barcone vuoto, con cinque naufraghi appena, è stato il segno della tragedia. Laggiù a 12 miglia da Lampedusa, ai margini estremi dell’Europa, un relitto di fantasmi. Cinque vivi e forse più di settanta morti, in venti giorni di peregrinazione cieca nel Mediterraneo.
Decine e decine di eritrei inabissati come una povera zavorra di ossa in fondo a quello stesso mare in cui a Ferragosto incrociano navi da crociera, traghetti, e gli yacht dei ricchi. È questo il dato che raggela ancor più. Perché in venti giorni, nelle acque della Libia e di Malta, e in mare aperto, qualcuno avrà pure incrociato, o almeno intravisto da lontano quel barcone; ma lo ha lasciato andare al suo destino. Solo da un peschereccio, hanno detto i superstiti, ci hanno dato da bere. Come dentro a una spietata routine: eccone degli altri. E non ci si avvicina. Non si devia dalla rotta tracciata, per un pugno di miserabili in alto mare. Noi non sappiamo immaginare davvero. Come sia immenso il mare visto da un guscio alla deriva; come sia spaventoso e nero, la notte, senza una luce.
Come picchi il sole come un fabbro sulle teste; come devasti la sete, come scarnifichino la pelle le ustioni. Noi del mondo giusto, che su quelle stesse acque d’agosto ci abbronziamo, non sappiamo quale spaventevole nemico siano le onde, quando il motore è fermo, e l’orizzonte una linea vuota e infinita. Non possiamo sapere cosa sia assistere all’agonia degli altri, impotenti, e gettarli in acqua appena dopo l’ultimo respiro. 'Altri' che sono magari tuo marito o tuo figlio. Ma bisogna liberarsene, senza tempo per piangere. Perché quel sole tormenta e disfa anche i morti; e i vivi, vogliono vivere. Noi non sappiamo com’è il Mediterraneo visto da un manipolo di poveri cristi eritrei, fuggiti dalla guerra, sfruttati dai trafficanti, messi in mare con un po’ di carburante e vaghe indicazioni di una rotta.
Ma c’è almeno un equivoco in cui non è ammissibile cadere. Nessuna politica di controllo della immigrazione consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. Esiste una legge del mare, e ben più antica di quella pure codificata dai trattati. E questa legge ordina: in mare si soccorre. Poi, a terra, opereranno altre leggi: diritto d’asilo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano. E invece quel barcone vuoto – non il primo arrivato come un relitto di morte alla soglia delle nostre acque – dice del farsi avanti, tra le coste africane e Malta, di un’altra legge. Non fermarsi, tirar dritto. (Pensate su quella barca, se avvistavano una nave, che sbracciamenti, che speranza. E che piombo nel cuore, nel vederla allontanarsi all’orizzonte).
La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi. Cinque naufraghi sono arrivati a dirci di figli e mariti morti di sete dopo giorni di agonia. Nello stesso mare delle nostre vacanze. Una tomba in fondo al nostro lieto mare. E una legge antica violata, che minaccia le stesse nostre radici. Le fondamenta. L’ idea di cos’è un uomo, e di quanto infinitamente vale.
Tanti sono, secondo la stima della Caritas, gli immigrati in Italia senza permesso di soggiorno. Una cifra alla quale si avvicina quella fatta dall’Ocse che parla invece di 500-750 mila clandestini.
L’ Ocse (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo) stima che nel nostro Paese vivano tra i 500 e i 750 mila immigrati clandestini. Sono l’1,09% della popolazione italiana e il 25,6% di tutti i residenti stranieri. Il dato emerge dal rapporto 2009 dedicato al fenomeno dell’immigrazione. Ed è assolutamente in linea con quanto avviene negli altri Paesi europei (mentre gli illegali negli Usa sono addirittura il 3,94 della popolazione complessiva). Queste sono le ultime cifre «ufficiali» relative al fenomeno che sta infiammando il dibatto politico italiano dopo l’entrata in vigore del nuovo pacchetto sicurezza. Ma le valutazioni sull’impatto che avrà il provvedimento di sanatoria (nel prossimo mese di settembre) per le colf e le badanti aiutano a correggere al «rialzo» il dato. Secondo il responsabile del Dossier statistico della Caritas Migrantes, Franco Pittau, — uno dei massimi esperti italiani di flussi migratori — la stima degli irregolari dovrebbe aggirarsi più realisticamente «intorno a un milione di persone». Perché è presto detto. Secondo Pittau, in questo campo «vale la regola del doppio». E cioè per ogni colf e badante che chiede di «emergere» c’è almeno un altro immigrato irregolare sul territorio. «Ce lo insegna l’esperienza della regolarizzazione della Bossi-Fini del 2002 e dei decreti-flussi del 2006 e 2007».
Le badanti interessate dalla sanatoria dovrebbero essere circa cinquecentomila. Secondo una recente indagine delle Acli-colf, infatti, la metà della categoria lavora in nero. Nel nostro Paese si contano 600 mila lavoratori domestici regolari, ma considerando il sommerso il loro numero arriva almeno al doppio.Anche il Dipartimento Immigrazione del Viminale prevede una regolarizzazione — a settembre — di 500 mila rapporti di lavoro domestico («solo» 300 mila per la Ragioneria generale dello Stato).Ma dal momento che colf e badanti costituiscono almeno il 50 per cento di chi negli anni passati ha richiesto la regolarizzazione (la metà dei circa 700 mila candidati che ha fatto domanda nel 2002, e lo stesso è avvenuto con le 500 mila richieste del 2006 e le quasi 750 mila del 2007), eccoci arrivati — secondo la Caritas — «alla cifra di un milione di immigrati irregolari sul nostro territorio».
Naturalmente si tratta, per la quasi totalità, di persone che un lavoro già ce l’hanno, ma che non hanno potuto ottenere il permesso di soggiorno, a causa di «quote d’ingresso» troppo basse rispetto alle richieste di privati e aziende. Persone che in ogni caso — come ha commentato ieri Giuliano Cazzola — «fanno lavori che gli italiani rifiutano ». Mentre senza di loro interi settori produttivi «non avrebbero personale ».
Il rapporto Ocse evidenzia altri due dati che sfatano luoghi comuni radicati. Primo: la stragrande maggioranza degli irregolari entra in Italia legalmente. Ben il 60-65% sono overstayer , cioè persone che sono entrate in modo regolare e poi si sono trattenute più di quanto consentito dal loro visto di ingresso. Un altro 25% dei clandestini giunge illegalmente da altri Paesi Schengen, approfittando dell’abolizione dei controlli alle frontiere. Soltanto il 15% dell’immigrazione irregolare arriva dal mare e dalle rotte del Mediterraneo. Anche se negli ultimi mesi c’è una nuova crescita degli sbarchi dovuta alla pressione demografica dall’Africa subsahariana e dalle coste meridionali del Mediterraneo dovuta all’aggravarsi della crisi alimentare ed economica.Mediamente, in un anno, però non più di 60.000 persone attraversano il Mediterraneo dirette in Europa.
Secondo l’Ocse, questo «suggerisce che è difficile ridurre l’immigrazione irregolare attraverso misure di solo controllo delle frontiere». La ricerca di lavoro di chi entra magari per turismo è «alimentata dalle richieste del mercato del lavoro non soddisfatte dai canali dell’immigrazione legale», sottolinea il Rapporto. E ancora: «Quando esistono reali necessità del mercato e i datori di lavoro hanno mezzi limitati per reclutare lavoratori all’estero, l’ingresso illegale, seguito dalla ricerca del lavoro e dal protrarsi della permanenza, è una delle strade usate per bilanciare la domanda e l’offerta, sebbene non necessariamente sia la più vantaggiosa per gli stessi immigrati e per il mercato del lavoro del Paese ospitante». I dati mostrano quindi come l’elemento principale per contrastare l’immigrazione illegale dovrebbe essere l’apertura di canali legali d’immigrazione. «Questo è ciò che chiedono i mercati del lavoro nei Paesi Ocse e in Europa — conclude il Rapporto — ma su cui la risposta politica è ancora insufficiente, a partire dal Patto su immigrazione e asilo».
C’è poi il secondo luogo comune sfatato. Non solo non è vero che gli immigrati, regolari e irregolari, «rubano» lavoro, ma addirittura aiutano a creare posti di lavoro. Si prenda ad esempio il caso delle badanti, che ormai esercitano buona parte delle attività degli assistenti domiciliari: il numero di questi ultimi paradossalmente è cresciuto perché essi possono svolgere attualmente mansioni più qualificate di un tempo.
La crisi sta rallentando il flusso, «per la prima volta dagli anni 80». Per quanto riguarda l’Italia, dopo quello dall’Albania, si stanno fermando anche gli arrivi dalla Romania. Trascurabili i nuovi ingressi dei polacchi, mentre sono sempre sostenuti quelli da Moldavia e Ucraina. Pittau però ritiene che «il mercato del lavoro italiano sia comunque sempre appetibile». E cita la teoria delle formichine del demografo Enrico Todisco della Sapienza. «Finché ci saranno anche solo delle briciole le formichine si sposteranno per raggiungerle».
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che la difesa della permanenza dei “clandestini” è generalmente motivata dall’utilità del loro lavoro (sottopagato) per gli italiani, non dall’obbligo morale di difendere anche gli stranieri poveri dalla sottrazione del diritto di cittadinanza. E poi parlano di “valori” e di “princìpi”, parlano di “difesa della civiltà”. É civiltà questa?
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Stupito, irritato, amareggiato. Il Capo dello Stato ha tutto il diritto di esprimere la propria delusione sulla "rottura annunciata" fra la Rai e Sky che priverà l´azienda pubblica di un ricavo di oltre cinquanta milioni di euro all´anno, in seguito al trasferimento dei canali Raisat su una nuova piattaforma satellitare. E in particolare, ha ragione Giorgio Napolitano a lamentarsi delle modalità con cui è maturato il fallimento della trattativa: una decisione per così dire unilaterale che la direzione generale ha praticamente imposto - come un diktat - a tutto il Consiglio di amministrazione.
In quanto custode e garante della Costituzione, il presidente della Repubblica non può evidentemente disinteressarsi di quel servizio pubblico su cui s´imperniano nel nostro Paese principi fondamentali come il pluralismo e la libertà d´informazione, sanciti solennemente dall´articolo 21. Anzi, con tutto il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua persona, è lecito pensare che un intervento più tempestivo sarebbe valso forse a impedire o magari a prevenire un tale esito.
Danno emergente e lucro cessante, avevamo avvertito su questo giornale nelle settimane scorse, mentre già si preparava la rottura. Danno emergente: perché il prossimo bilancio della Rai s´impoverirà di questa cospicua entrata finanziaria e staremo a vedere che cosa avrà da eccepire in proposito la Corte dei Conti. Lucro cessante: perché, oltre a perdere l´audience e quindi la pubblicità raccolta attraverso la pay-tv, ora l´azienda di viale Mazzini dovrà sostenere "pro quota" l´onere della nuova piattaforma di Tivùsat. E tutto ciò, in buona sostanza, per fare un favore o un regalo a Mediaset nella sfida della concorrenza con Sky, come ha riconosciuto – tardivamente – perfino il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Sergio Zavoli.
Si dà il caso, così, che l´ex segretario generale della presidenza del Consiglio, appena trasferito alla direzione della televisione pubblica, non trovi di meglio che confezionare subito un pacco-dono per l´azienda televisiva privata che fa capo allo stesso presidente del Consiglio. Un voto di scambio o una partita di giro, si potrebbe anche dire. Naturalmente, a spese del cittadino contribuente, telespettatore e abbonato alla Rai. Come già a suo carico era stata la multa di oltre 14 milioni di euro inflitta dall´Autorità sulle comunicazioni a viale Mazzini per la nomina dell´ex direttore generale, Alfredo Meocci, insediato alla guida dell´azienda dal centrodestra nonostante la palese incompatibilità con il precedente mandato di commissario nella medesima Authority.
Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset. Un´azienda di Stato, la più grande azienda culturale del Paese, che via via si trasforma in una filiale, una succursale, una dépendance del Biscione. Già omologata al ribasso sul modello della tv commerciale, quella della volgarità e della violenza, delle veline e dei reality fasulli, adesso la tv pubblica si allea e si associa con il suo principale concorrente sotto il cielo tecnologico della tv satellitare.
Sarà verosimilmente proprio di fronte a questo scempio che il centrosinistra, risvegliandosi da un lungo e ingiustificabile letargo, s´è deciso finalmente a riproporre con forza la questione irrisolta del conflitto d´interessi: prima, con una dichiarazione di guerra del segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, il quale ha annunciato bellicosamente che su questa materia (e speriamo anche su altre) il suo partito non resterà più fermo e silente; poi, addirittura, con una proposta di legge presentata da Walter Veltroni e sottoscritta da tutte le opposizioni, sostenuta dal contributo di un esperto costituzionalista come l´ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria. Meglio tardi che mai, dobbiamo ripetere. Ma che cosa avevano fatto nel frattempo Veltroni e Franceschini per risolvere l´anomalia di un presidente del Consiglio che controlla direttamente tre reti televisive private e indirettamente anche le tre reti pubbliche? E pensare che c´è ancora qualche illustre professore che esorta il Pd a emanciparsi dall´influenza di "alcuni giornali" (quanti e quali?), mentre una maggioranza di governo condiziona impunemente giornali, telegiornali e giornali radio.
Nel regno del conflitto d´interessi, la rottura fra la Rai e Sky diventa la prova regina di un´occupazione "manu militari" di tutto il sistema dell´informazione. Un attentato al pluralismo, alla libertà d´opinione. E anche questa, purtroppo, si rischia di apprezzarla solo quando la si perde.
Nei decenni a cavallo del XX e del XXI secolo, la sinistra è stata sconfitta culturalmente. La sua ragion d'essere è stata contraddetta, manipolata, negata, poi mistificata, infine snervata, svuotata e rielaborata e, così contraffatta, inoculata nella testa dei dirigenti, ma non solo. Lo dimostra l'accettazione continuata, mai perplessa, entusiasta e senza riserve, del neoliberismo da parte di tutte le socialdemocrazie (leggasi: Pse) del nostro continente come canone fondante dell'Unione europea, l'entità istituzionale preminente che regola i due terzi dei rapporti interindividuali concreti di 500 milioni di europei.
Questa entità ha assunto come suo obiettivo supremo l'economia di mercato aperta ed in libera concorrenza ma «non raggiunge alcuna forma che esprima il livello di legittimazione di una democrazia costituzionale». Ad usare tale definizione non è più solo qualche giurista «estremista» - come da trenta anni chi scrive - ma è il Tribunale costituzionale della Repubblica federale di Germania, grazie ad un ricorso proposto, significativamente e meritoriamente, dal gruppo parlamentare della Linke al Bundestag. Quale concezione della democrazia nutre, propone, propugna la socialdemocrazia europea, se quella cui aderisce per l'Ue è giudicata inferiore alla soglia da raggiungere per potersi legittimare come tale dal massimo organo giurisdizionale della maggiore potenza industriale europea? Quale socialità ha dimostrato a fronte dei costi umani della crisi globale dell'economia globale? Quale socialità dimostrerà tra pochi mesi, come conseguenza di tale crisi, la scelta di un sistema economico che avrà prodotto, in Europa, livelli di disoccupazione mai lontanamente raggiunti prima che l'Unione si formasse e si consolidasse? Concezione della democrazia, concezione del sistema economico. È su questi temi che la sinistra è chiamata a definirsi come tale. E su di essi che ci si può unire o dividere.
Qualche precisazione si impone. Il mercato autoregolato è fallito. Non poteva che fallire. Si configurava, e si configura, come una idiozia assoluta. Perché mai, in base a quale logica, a quale principio, a quale esperienza, le azioni di tutti gli individui della specie umana che producono conseguenze interoggettive devono essere (e sono) regolate e quelle degli agenti di borsa, dei dirigenti di banca, dei possessori di capitali, no, non lo devono? Perché autonomamente, spontaneamente, armonicamente, provvidenzialmente confluiscono a determinare la felicità della dell'umanità intera? Sembra impossibile, ma evidentemente lo si è pensato, lo si è imposto, sancito. La massima parte della normativa europea è stata prodotta infatti per assicurare l'anarchia degli agenti e dei possessori di capitali, la libertà del capitale, questa sopra ogni altra.
La si vuole lasciare intatta, garantire, perpetuare? O si vuole attrarre la finanza, gli investimenti, l'iniziativa economica, la produzione di merci e servizi, i rapporti che vi sono sottesi e quelli che ne conseguono, alla disponibilità, alla regolazione democratica? Quella degli stati? Ebbene, sì. Degli stati, se democratici. A condizione, cioè, che lo siano, potendo disporre di, e regolare, tutti i rapporti umani con la sola ed inderogabile esclusione di quelli che attengono ai diritti universali. A quei diritti, cioè, che possono essere esercitati da tutte e da tutti, che abbiano come titolare ogni persona umana in quanto tale, quei diritti che mai possono implicare subordinazione di un essere umano ad un essere umano, come, ad esempio, il rapporto di lavoro salariato. Una democrazia che aborra la personalizzazione del potere, che faccia della partecipazione la concreta, costante, verificabile e progredente dinamica del potere popolare, che renda la pluralità, perché identifica nella struttura del demos, l'indefettibile composizione di ogni istituzione.
È divenuta fallace la massima "una testa, un voto". Va riformulata: ad ogni testa un voto da esprimere in tante ed in tanti, mai però per istituzioni composte da una persona sola.
Le cifre della strage sono pubbliche, accessibili a tutti. Basta consultare il sito di Fortress Europe per conoscere i numeri della nostra vergogna. Nei primi quattro mesi dell'anno sono stati già 339 i migranti morti annegati nel canale di Sicilia. Erano stati 1.274 in tutto il 2008. E ammontano a 4.099 nel quindicennio che va dal 1994, quando si è incominciato a tenere il conto dei morti sulla base delle notizie stampa, a oggi. Un'altra decina di migliaia di vittime si contano sulle rotte verso la Spagna e le Canarie (4.436), nel mar Egeo, verso la Grecia (1.310), nel nostro Adriatico, dall'Albania (603), o nel deserto del Sahara, lungo «le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato e Libia e Algeria dall'altro» (1.691 morti censiti, ma il numero è sottostimato perché la maggior parte delle tragedie si consuma fuori da ogni vista, senza lasciar traccia né notizia).
Altri sono morti di freddo nel tentativo di attraversare le zone montuose tra Turchia e Grecia. O saltando nei campi minati dell'Evros, in Macedonia (91 persone). O annegati nelle acque dell'Oder, del Sava, del Morava, i fiumi che separano Polonia e Germania, Bosnia e Croazia, Slovacchia e Repubblica Ceca. O assiderati nei carrelli degli aerei dove si erano nascosti per sfuggire ai controlli (41 persone). O soffocati nei container di un tir. O, ancora, caduti sotto gli spari delle diverse polizie di frontiera, a Ceuta e Melilla, l'enclave spagnola in Marocco, in Gambia, in Egitto, in Israele, in Libia, dove sono documentate le feroci torture praticate «nei centri di detenzione per stranieri, tre dei quali sarebbero stati finanziati dall'Italia».
Il totale è agghiacciante: 14.679 morti documentate lungo il perimetro che circonda la civile Europa con un muro immaginario immenso, infinitamente più lungo, alto e terribile di quello stesso Muro di Berlino la cui caduta è stata salutata come una liberazione dai fantasmi del Novecento. Di questi numeri non si è parlato nel G8 dell'Aquila, che pure della tragedia dell'Africa si è fatto ampiamente scudo per nascondere il proprio vuoto. Non hanno turbato lo shopping delle first ladies per le vie di Roma. Né i sonni dei loro augusti mariti nella caserma di Coppito, riadattata in fretta e furia per l'occasione probabilmente con il lavoro di un buon numero di sopravvissuti a quella strage, ora «regolarizzati».
Soprattutto non hanno segnato, col proprio scandalo, neppure una riga dei discorsi ufficiali del cosiddetti «Grandi», detentori di un'estenuata sovranità nazionale che - pur nel proprio anacronismo - non tollera messe in discussione né eccezioni, pronta a rivalersi della propria impotenza verso la forza dei mercati e dei capitali con la segregazione, il respingimento, la chiusura dei confini e il loro presidio, l'ostentazione muscolare nei confronti dei più deboli tra i deboli.
Men che meno, quei numeri - eppure di questo si trattava -, hanno anche soltanto sfiorato la discussione nel nostro parlamento su quel decreto sicurezza che, divenuto legge, trasforma in reato penale la colpa di esser sopravvissuti al viaggio. Tacendo sui sommersi, costituisce in «criminali» i salvati. Il Senato l'ha approvato in un clima dimesso, dopo un dibattito svogliato, come si trattasse di ordinaria amministrazione, con un'opposizione rassegnata, distratta e in una sua parte, almeno, intimamente connivente. E una stampa divisa tra le storie da bordello del premier e la cronaca rosa del summit, un occhio ai letti di palazzo Grazioli e l'altro ai tavoli di Coppito.
Eppure uno strappo, grave - un ennesimo, tanto che ci si è assuefatti - alla nostra civiltà giuridica, e alla più elementare morale pubblica, in quell'atto si è consumato: con l'introduzione del «reato di clandestinità», in una forma che è unica in Europa, si è varcato un limite. Sanzionando penalmente l'ingresso o la permanenza del singolo straniero sul nostro territorio, si individua come fattispecie di reato non un fatto o una serie di «fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale» ma - come è stato autorevolmente sostenuto da un buon numero di giuristi - «una condizione individuale, la condizione di migrante» secondo una logica che assume di per sé «un connotato discriminatorio contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali».
Sul piano pratico gli effetti saranno nulli, o più probabilmente negativi. Chiunque conosca il problema concorda che l'applicazione di quell'obbrobrio è tecnicamente impossibile, metterebbe in crisi l'intero sistema giudiziario. Spaventerà, certo. Rafforzerà le tendenze xenofobe già fin troppo diffuse nei nostri uffici pubblici, nei commissariati di polizia, tra le pieghe della burocrazia. Alimenterà la paura in chi dalla paura, nelle proprie terre, aveva tentato di fuggire. Ma non produrrà certo né più «sicurezza», né più ordine. Anzi. Può darsi che per qualche tempo influenzi la geografia dei flussi, scoraggiando almeno in parte le rotte verso l'Italia, spostandone tuttavia le derive lungo altre direttrici, dalla Turchia alla Grecia, in primo luogo, sui confini orientali dove la pericolosità è maggiore, e la mortalità rischia di crescere.
Un effetto, evidente, la legge ce l'ha, invece, sul piano simbolico. Per il messaggio che lancia. E per l'incultura che rivela. Uno strappo intollerabile, perché di effetti simbolici si nutre oggi la politica e la coscienza collettiva. E di oltraggi simbolici al pudore civile una democrazia muore. C'è da augurarsi che la figura cui spetta in ultima istanza il ruolo di «custode della Costituzione» non avalli un tale strappo. Che lo scandalo di quei numeri, inascoltato negli altri luoghi del potere, varchi almeno i muri del Quirinale.
"Ero straniero e mi avete accolto"
di Michele Smargiassi
CASTEL VOLTURNO (Caserta) - Più conosce l’italiano, più Mary odia quella parola. «Clandestino. Mi fa orrore». Non è solo questione di brutti ricordi, è proprio un odio semantico. «Clan/destino: il tuo destino è il clan, non sarai mai un cittadino vero». L’etimologia di Mary è bizzarra, ma suggestiva. «È l’unica vera parola che troppi italiani hanno per noi. Anche quando dicono regolari, pensano clandestini: restate al vostro posto, nel vostro clan, non siete come noi».
A volte Mary si sente ancora clan/destina come all’inizio. Venne dal Ghana col visto turistico e, quando scadde, restò. Ha avuto fortuna: prese al volo una delle ultime sanatorie. Ora fa l’interprete per un’associazione che assiste i rifugiati politici, ha due figlie, una casa dignitosa e paga un affitto. Ma non ce l’avrebbe mai fatta se un buon samaritano, senza frugarle le tasche in cerca di documenti, non l’avesse ospitata e aiutata. Mary è stata la prima tra le migliaia di immigrati che padre Giorgio ha accolto da quando, tredici anni fa, reduce dalle missioni africane, scelse di farsi missionario nell’Africa nostra, la gran piana dei pomodori e dell’illegalità, il primo girone dell’inferno migrante italiano: Castel Volturno.
E padre Giorgio dov’è? «In stanza». Quella che sulla porta ha una foto di Auschwitz. Bussiamo. Eccolo: barba, camiciona arancione, sta timbrando permessi di soggiorno. Col timbro del Signore. Non può certo usare quello del ministro. «Ma stiamo parlando di dignità umana, no? E allora è chiaro, tra le due, quale sia l’Autorità più Competente». Compila, controfirma il foglio azzurrino: ecco, un altro permesso di soggiorno in nome di Dio è pronto. Lui e i suoi confratelli ne hanno rilasciati a centinaia: protesta beffarda e amara, ribellione simbolica e un po’ goliardica. A prima vista sembrano quelli veri, però è difficile che un questore li prenda per buoni. Ma valgono qualcosa dinanzi a un Giudice più alto.
Per qualcuno, pochi, è un profeta in sandali. Per altri, tanti, è quello che «ci porta in casa i negri». Per se stesso Giorgio Poletti, 67 anni, comboniano e sacerdote, è «un devoto della Legge», occhio alla maiuscola, a costo di sfidare la legge, occhio alla minuscola. «Non denuncerò nessuno straniero senza documenti. Una legge contraria ai diritti umani e all’insegnamento di Cristo, io non la servo. Mi mettano pure in galera. E guardi che io non ho nessuna voglia di andare in galera. Non sono un incendiario. Sono figlio di povera gente che aveva soggezione e rispetto per l’autorità. Quel rispetto ce l’ho dentro. Ma c’era da scegliere, e io ho scelto».
La chiesa di Santa Maria dell’Aiuto è una gabbia di cemento armato tamponata di mattoni, ma dentro è sorprendentemente luminosa. Di fianco all’altare una batteria e un set di tamburi afro. «Le nostre messe durano un paio d’ore. Anche adattare il nostro stile liturgico è accoglienza». Sulle pareti intonacate, affreschi a vivi colori. «Li ha dipinti un ungherese. Non è Caravaggio, ma dà l’idea». Un Gesù biondo lava i piedi a un san Pietro nero. Un Samaritano nero soccorre un viandante bianco. E l’Ultima Cena è una mensa multietnica. È la parrocchia degli immigrati: il vescovo di Capua l’ha affidata a padre Giorgio e ai suoi due vicari, padre Antonio e padre Claudio. Forse è l’unica in Italia a non avere un territorio ma solo un gregge, il più disperso, anonimo e mutevole. Lavorano alla raccolta dei pomodori, nei cantieri, «arrivano, restano un po’, spariscono. Di molti neanche ho mai saputo il nome». Sul sagrato, sotto lo sguardo preoccupato di una madonnina di pietra, due ragazzi color ebano tirano rigori con un pallonaccio giallo. Altri si stanno preparando il giaciglio nel parcheggio, tra panni stesi e vecchi materassi. «Adesso fa caldo, ma quest’inverno li ho fatti dormire in chiesa. Il Signore avrà gradito la compagnia, di notte è sempre solo là dentro».
Quando arrivò a Castel Volturno, nel ‘93, padre Giorgio dovette trovare una mezza dozzina di case d’emergenza. Solo qualche anno fa la Caritas lo ha seguito aprendo un centro d’accoglienza, che però è sempre pieno. Quanti avranno i documenti, di questi? «Io non li chiedo a nessuno. Così evito di sapere chi dovrei considerare un delinquente». Chiediamo a caso: ecco Joe il senegalese, sbarcato a Lampedusa in marzo lasciando in Libia moglie e due figli, arrivato chissà come fin qui a far lavoretti. Carte non ne ha, ma padre Giorgio gli ha trovato un riparo: «Sono un cristiano», dice in un inglese cantilenante, «lo ero anche prima. Ma qui ho capito cosa vuol dire».
L’opposizione alla «legge del dolore», al reato di clandestinità, soffia all’ombra di centinaia di campanili come questo. Il ministro può far arrestare l’istigatore, è molto noto, si chiama Matteo e il suo proclama sta al capitolo 25, versetto 35 del suo Vangelo: «Ero straniero e mi avete accolto». La disubbidienza matura sottovoce dove la porta non si chiude neanche per ordine di legge. «Dovrei chiudere anche questo?»: il cancello dell’asilo dei comboniani immette in un cortile gremito di bambini color cioccolata tra casette di plastica e scivoli. Sono una cinquantina: ben pochi dei loro genitori hanno il permesso di soggiorno. Con la nuova legge sarebbero ignoti all’anagrafe, figli di nessuno. I rari italiani che passano davanti al recinto, sorridono e fanno smorfiette ai bimbi. Allora non siamo tutti malati di cattivismo. «I bimbi africani sono bellissimi», sospira padre Giorgio, «ma hanno un difetto: crescono. E da grandi nessuno li trova più così teneri».
Da grandi sono i clandestini, appunto. Moderna icona della paura, reincarnazione dell’eterno barbaro, del turco predatore. E voi, padre, siete i protettori di quell’icona terrificante. «Mi chiamano ‘il nemico numero uno di Castel Volturno’. Ma mi rispettano, perché sanno che non mangio sugli immigrati». Ma ora il suo aiuto è illegale. «Una condizione anagrafica non può essere un reato». Il reato veramente sarebbe entrare in casa d’altri senza bussare. «Ma cosa credono, i ministri? Che basti alzare il ponte levatoio? Anche se si potesse, che vita sarebbe, chiusi nella fortezza, armati, terrorizzati dall’arrivo dei tartari ogni santo giorno, schiavi dei riti della nostra paura?».
In cornice, una foto con papa Wojtyla che stringe la mano a un irsuto Rasputin in saio nero: era lui, Giorgio, nel 1989, missionario a Beira in Mozambico. «È un’illusione pensare di poter fermare le migrazioni. Le abbiamo coltivate noi. So quel che dico. Ho visto arrivare i televisori con la parabola e il generatore nei villaggi, e scodellare là il nostro finto benessere. Chi può impedire loro di venirlo a cercare? Bisogna regolare l’accoglienza, io dico: organizzare l’ibridazione. Ma vedo solo una gran fretta di organizzare l’esclusione».
Non ce la farete, padre. Vi faranno passare come amici dei delinquenti. «In chiesa io grido contro gli spacciatori di droga. Chi sbaglia, pagherà. Io sono contro l’illegalità. Ma non capisce che è proprio questo il problema? Venga con me». Saliamo in macchina. La via Domiziana è il museo dell’orrore di un sogno balneare abortito. Ventisette chilometri di palazzine cadenti, alberghi chiusi, acquaparchi fatiscenti, cassonetti sventrati, sporcizia, spiagge deserte in pieno luglio: sembra Rimini dopo un bombardamento. Ed ecco la saracinesca, ora chiusa, dietro cui in settembre sei ghanesi furono falciati dalle mitragliette della camorra. «Non c’è quasi edificio che non sia abusivo, perfino quella chiesetta lì. Potrei citarle a quale clan fa capo ogni isolato. Il bene pubblico qui non esiste. In questo scenario, però, gli illegali sarebbero questi uomini che inseguono un sogno di vita migliore. Vuol dire consegnarglieli in regalo, all’illegalità».
La vera, segreta speranza di padre Giorgio «è l’ipocrisia del potere. Che sia solo una esibizione di muscoli per propaganda, che non stiano davvero per rastrellare migliaia di poveri. Perché allora bisognerebbe fare qualcosa di più eclatante». Sicuro che Dio voglia questo, padre? «Gesù di Nazaret fu ammazzato per aver amato gli ultimi. Se il Padre somiglia al Figlio…».
Quando un forestiero bussa alla porta
di Enzo Bianchi
«Ero straniero e mi avete ospitato», oppure no? È questo l’interrogativo che non cessa di risuonare da quando l’evangelista Matteo l’ha posto in bocca a Gesù nella sua descrizione del giudizio finale, descrizione che non mira tanto a raccontare quanto accadrà alla fine dei tempi, ma piuttosto a plasmare l’atteggiamento quotidiano dei discepoli e a fornire loro un criterio di giudizio sul proprio e l’altrui comportamento. Del resto, fin dall’Antico Testamento, la categoria dello straniero era quella che meglio raffigurava il bisognoso: lontano dalla propria casa, lingua e cultura, privo dei diritti legati all’appartenenza a un popolo, sovente lo straniero finiva per cadere ben presto nelle altre situazioni di emarginazione e sofferenza: malato, carcerato, affamato..., condizioni non a caso citate anch’esse da Gesù nel suo racconto sul giudizio. Nella tradizione veterotestamentaria la cura e il rispetto per lo straniero si fondavano su una memoria esistenziale prima ancora che storica: l’invito «amate il forestiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Deuteronomio 10,19) risuona pressante e attuale anche per generazioni ormai da tempo insediate nella terra promessa. A questa consapevolezza si aggiunge nei Vangeli l’inattesa identificazione di Gesù con lo straniero che attende accoglienza e che incontra rifiuto: ciò che si fa o non si fa al «più piccolo», al più indifeso, è dono elargito o negato a Gesù, come se egli fosse presente e recettivo ogni giorno al nostro agire.
In questo senso un dato complementare emerge con forza dalle pagine del Nuovo Testamento: Gesù stesso, il Gesù storico che ha abitato tra gli uomini come uno di loro, è percepito e narrato come uno straniero, in quanto ha vissuto «altrimenti», manifestandosi come «altro» agli occhi di chi lo ha incontrato e ne ha poi raccontato l’esistenza. Dall’infanzia come profugo in Egitto alla sua provenienza dalla Galilea, tutto lo rendeva marginale nell’ambito di Gerusalemme, cuore culturale e religioso di Israele: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? [...] Non sorge profeta dalla Galilea!» (Giovanni 7,41.52). Inoltre, il suo essere dotato di un’autorità carismatica fuori dell’ordinario suscitava una dura opposizione sia da parte dei sacerdoti che governavano il Tempio, i quali lo consideravano pericoloso, sia da parte dei maestri della Legge, invidiosi della sua conoscenza della Scrittura.
Gesù, con la sua missione e la sua esperienza di estraniamento che lo accomuna ai profeti, assume il volto dell’«altro»: altro rispetto alle attese del suo maestro Giovanni Battista, altro rispetto alla famiglia che lo giudica «fuori di sé» e vorrebbe riportarlo a casa con la forza, altro rispetto alla sua comunità religiosa che lo considera «indemoniato» (cf. Marco 3,21 e 22). Egli è altro anche rispetto ai suoi concittadini di Nazaret: è significativo che proprio là dove dovrebbe attivarsi il meccanismo del riconoscimento e dell’accoglienza, nella sua patria, avviene il rifiuto, e Gesù diviene estraneo, fino ad essere nemico. L’incomprensione di questa alterità conoscerà il suo culmine quando il Figlio sarà «ucciso dai vignaioli» - quelli a cui era stato inviato - «e gettato fuori della vigna»!
Paradigmatica è la presentazione di Gesù quale straniero fatta da Luca nell’episodio dei discepoli di Emmaus (cf. Luca 24,13-35): il Risorto, con i tratti di un viandante, si accosta a due discepoli e cammina con loro, mentre essi parlano con tristezza della morte del profeta Gesù di Nazaret. Alla sua domanda sull’oggetto del loro discorrere, ribattono: «Tu solo sei così forestiero da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni?»: egli è lo straniero che cammina con gli uomini, che resta nascosto fino a quando, invitato a tavola, viene riconosciuto nel gesto di condividere il pane. Sì, nella condivisione del pane, nello stare a tavola insieme, nel conversare, nel fare memoria di ciò che si è vissuto, avviene il riconoscimento e lo straniero si rivela.
Forse possiamo allora cogliere meglio tutta la pregnanza di un ammonimento come quello che Gesù rivolge ai suoi discepoli: se egli può identificarsi con lo straniero fino a considerare come rivolta a se stesso ogni cura prestata - e ogni offesa arrecata - a uno straniero nel bisogno è perché ha voluto vivere nella carne l’esperienza di estraneità, il venire in mezzo ai suoi e non essere riconosciuto, il vedersi negata quella dignità fondamentale di ogni essere umano. Perché, come ha ben ricordato papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, «ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione». Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora, di questo rispetto un giorno verrà chiesto conto a ciascuno.
Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.
Dopo l'approvazione della legge, presa di posizione di padre Alex Zanotelli. Che definisce il provvedimento razzista e xenofobo. Che si vergogna come italiano, cristiano e missionario. E che chiede una reazione forte.
«Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano. Non avrei mai pensato che un paese come l'Italia avrebbe potuto varare una legge così razzista e xenofoba. Noi che siamo vissuti per secoli emigrando per cercare un tozzo di pane (sono 60 milioni gli italiani che vivono all'estero!), ora infliggiamo agli immigrati, peggiorandolo, lo stesso trattamento, che noi italiani abbiamo subito un po' ovunque nel mondo.
Questa legge è stata votata sull'onda lunga di un razzismo e di una xenofobia crescenti di cui la Lega è la migliore espressione. Il cuore della legge è che il clandestino è ora un criminale. Vorrei ricordare che criminali non sono gli immigrati clandestini ma quelle strutture economico-finanziarie che obbligano le persone a emigrare. Papa Giovanni XXIII° nella Pacem in Terris ci ricorda che emigrare è un diritto.
Fra le altre cose la legge prevede la tassa sul permesso di soggiorno (gli immigrati non sono già tartassati abbastanza?), le ronde, il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e matrimoni misti, il carcere fino a 4 anni per gli irregolari che non rispettano l'ordine di espulsione ed infine la proibizione per una donna clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio o di iscriverlo all'anagrafe. Questa è una legislazione da apartheid, che viene da lontano: passando per la legge Turco-Napolitano fino alla non costituzionale Bossi-Fini. Tutto questo è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e mendicanti. Questa è una cultura razzista che ci sta portando nel baratro dell'esclusione e dell'emarginazione.
«Questo rischia di svuotare dall'interno le garanzie costituzionali erette 60 anni fa - così hanno scritto nel loro appello gli antropologi italiani - contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle leggi razziali». Vorrei far notare che la nostra Costituzione è stata scritta in buona parte da esuli politici, rientrati in patria dopo l'esilio a causa del fascismo. Per ben due volte la Costituzione italiana parla di diritto d'asilo, che il parlamento non ha mai trasformato in legge.
E non solo mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno anche di essere cristiano: questa legge è la negazione di verità fondamentali della Buona Novella di Gesù di Nazareth. Chiedo alla Chiesa italiana il coraggio di denunciare senza mezzi termini una legge che fa a pugni con i fondamenti della fede cristiana.
Penso che come cristiani dobbiamo avere il coraggio della disobbedienza civile. È l'invito che aveva fatto il cardinale R. Mahoney di Los Angeles (California), quando nel 2006 si dibatteva, negli Stati Uniti, una legge analoga che definiva il clandestino come criminale. Nell'omelia del Mercoledì delle Ceneri nella sua cattedrale, il cardinale di Los Angeles disse che, se quella legge fosse stata approvata, avrebbe chiesto ai suoi preti e a tutto il personale diocesano la disobbedienza civile. Penso che i vescovi italiani dovrebbero fare oggi altrettanto.
Davanti a questa legge mi vergogno anche come missionario: sono stato ospite dei popoli d'Africa per oltre 20 anni, popoli che oggi noi respingiamo, indifferenti alle loro situazioni d'ingiustizia e d'impoverimento.
Noi italiani tutti dovremmo ricordare quella Parola che Dio rivolse a Israele: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d'Egitto" (Esodo 22,20)».
Ronde e clandestini, sì alla legge Berlusconi esulta: l´ho voluta io
di Alberto Custodero
Bagarre al Senato, il Pd attacca: danno al Paese - Don Ciotti: non è sicurezza ma crudeltà. Appello degli intellettuali: no a leggi razziali
Il ddl sulla sicurezza è da ieri legge dello Stato dopo l´ok definitivo del Senato giunto in tarda mattinata con il voto di fiducia. L´approvazione (157 voti favorevoli di Pdl, Lega, Mpa, 124 no e 3 astenuti) ha scatenato a Palazzo Madama una bagarre: i senatori dell´Idv hanno alzato cartelli con scritto "Governo, clandestino del diritto" e "I veri clandestini siete voi", e a loro hanno risposto i leghisti - cravatte e pochette verde Padania - alzandosi in piedi, sorridenti, le mani in segno di vittoria.
Nella maggioranza, fra Lega e Pdl è tutta una gara per accaparrarsi i meriti della legge. Berlusconi dall´Aquila se ne assume la paternità: «L´ho voluta fortemente - dice il premier - per dare sicurezza ai cittadini». Ma a rivendicare la primogenitura del ddl è ovviamente la Lega, che le ronde in particolare le ha da anni nel proprio Dna. «Sono molto soddisfatto per l´approvazione del dll sicurezza che completa un anno di lavoro», commenta il ministro dell´Interno, Roberto Maroni. Ma anche gli ex An usano toni trionfalistici. Il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri si dice «orgoglioso». «È un passo avanti nell´impegno preso con gli italiani» dice il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che annuncia l´impiego di altri 1250 militari nelle città.
Al compiacimento della maggioranza si contrappongono le critiche dell´opposizione. Per il segretario del Pd Dario Franceschini, il ddl «è il prezzo che il governo paga alla Lega, ed è un danno per il Paese». Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, lo giudica «un pugno sbattuto sul tavolo senza efficacia per la sicurezza dei cittadini». Il capogruppo dei dipietristi in Senato, Felice Belisario, boccia il provvedimento che «paralizzerà la giustizia, toglierà fondi alle forze dell´ordine e legalizzerà le ronde». Emma Bonino, radicale, definisce «aberranti» le nuove norme, mentre per il presidente dei senatori Udc, Giampiero D´Alia, «sono il frutto di paura e suggestioni». Contro il pacchetto sicurezza si è espresso anche il fondatore del Gruppo Abele, don Luigi Ciotti: «Non è sicurezza - dice - ma crudeltà». Il coro di voci indignate è nutritissimo. Comprende il commissario per i diritti umani del Consiglio d´Europa, Thomas Hammarberg («Le misure sull´immigrazione e l´asilo produrranno un aggravamento del clima xenofobo»), l´Ordine dei medici («Contrari a denunciare gli irregolari»), i sindacati dei funzionari di polizia, l´Unione delle Camere penali («Provvedimento propagandistico»), l´Alto commissariato Onu per i rifugiati Unhcr («Si avalla l´equazione immigrazione uguale criminliatà»). Un gruppo di intellettuali - da Camilleri alla Maraini a Fo - hanno firmato un appello su Micromega. net «contro il ritorno delle leggi razziali in Europa che rischiano di sfigurare il volto dell´Europa». Il testo ha provocato la reazione di Maroni. Secondo il ministro dell´Interno, «l´appello si fonda su falsità», perché non è vero - afferma una nota - che la nuova legge vieti i matrimoni misti e impedisca alle donne in stato di irregolarità di riconoscere i figli.
Il Vaticano boccia il giro di vite "Norme che porteranno molto dolore"
di Orazio La Rocca
«È una legge che criminalizza e demonizza i tanti stranieri che arrivano qui chiedendo solo di essere aiutati». È severa ed immediata la bocciatura del mondo cattolico sul disegno di legge che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Tra i primi richiami, quelli della Cei, che col portavoce del cardinale-presidente Angelo Bagnasco, monsignor Domenico Pompili, ricorda - «senza entrare nel merito della nuova legge» - che proprio all´assemblea Cei di maggio Bagnasco «ha parlato del dovere dell´accoglienza per chi invoca aiuto e del diritto di emigrare in cerca di un´esistenza migliore e di chiedere asilo politico. Ma sempre nel rispetto della legalità». Principi - avverte Pompili - «validi in qualsiasi momento e in ogni circostanza».
Il vescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio dei migranti, esprime, invece, «tristezza» e «preoccupazione» e accusa la legge di «ignorare i diritti umani» e di «mettere a rischio l´integrazione» e per questo «porterà solo dolore». Secondo il presule - ma fonti della Segreteria di Stato dicono che «parla a titolo personale» - «il reato di clandestinità porterà solo alla criminalizzazione degli irregolari...». Anche il presidente dello stesso dicastero vaticano, il vescovo Antonio Maria Vegliò, in un editoriale scritto per il mensile dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, chiede che «non vengano demonizzati o criminalizzati gli stranieri».
Irregolari processati ed espulsi per identificarli 6 mesi di detenzione
Pene più severe per i writer. Torna l´oltraggio a pubblico ufficiale
di Mauro Favale
La clandestinità diventa reato. Le ronde di volontari potranno circolare nelle città segnalando alla polizia situazioni di pericolo. Si inasprisce il regime di "carcere duro" per i mafiosi. I Cie - Centri di identificazione ed espulsione - sostituiscono i Cpt, acronimo che stava per Centri di permanenza temporanea. Sono queste alcune delle principali novità del disegno di legge approvato ieri definitivamente dal Senato. Le norme sono suddivise in tre "sezioni": immigrazione clandestina, criminalità organizzata e sicurezza pubblica.
Sarà dunque reato entrare o soggiornare in Italia senza permesso: il clandestino sarà punito con un ammenda dai 5 ai 10 mila euro e verrà immediatamente espulso dopo un processo davanti al giudice di pace. Pene dure per chi favorisce l´ingresso dei clandestini. Solo un po´ più lievi per chi affitta appartamenti agli irregolari. All´interno dei Cie, gli immigrati senza permesso potranno rimanere fino a 180 giorni in attesa di identificazione. Finora, la detenzione massima era di due mesi.
Sul versante criminalità organizzata, il regime di 41bis per i boss mafiosi verrà rinnovato ogni quattro anni e non più ogni due. Gli imprenditori saranno obbligati a denunciare le richieste di pizzo che subiscono, pena l´esclusione dalla possibilità di partecipare alle gare d´appalto.
Per la sicurezza pubblica, la legge istituisce le ronde, riconoscendo le associazioni di "volontari per la sicurezza", che potranno operare disarmati. Via libera alla vendita dello spray al peperoncino per l´autodifesa. Pene più severe per graffitari e vandali: la legge prevede carcere fino a 3 mesi per chi imbratta monumenti di interesse artistico o storico. Ripristinato anche il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, che era stato abrogato 10 anni fa.
La diagnosi dello stato della politica in Italia è semplice: metà dei cittadini si è astenuta alle elezioni, e al ballottaggio e al referendum molto di più. Il quadro è simile in tutta Europa. I socialisti hanno perduto ovunque, il parlamento europeo è largamente di centro destra. Le sinistre radicali sono più deboli del previsto, quelle italiane sono scomparse di scena. In Italia è assente una socialdemocrazia, indebolita altrove. Dovunque spunta o si rafforza una destra estrema. Il segnale è opposto a quello venuto dagli Stati uniti, infatti in Europa per nulla raccolto.
In Italia Berlusconi non supera, come sperava, il 35% ed è meno forte di un anno fa. La Lega va al 10, sono inseparabili. Fini gioca un gioco suo. Se questo porterà a una crisi di governo, sarà prodotta e gestita dalla maggioranza (e appoggiata dal Vaticano, via Casini). La minoranza è divisa fra un Pd in calo, diviso e confuso e una sinistra radicale in briciole. Neanche i Verdi sembrano fuori dalla crisi, malgrado che Obama negli Usa e molti in Europa vedano nell’ecologia un investimento necessario e un valore-rifugio. L’opzione bipartitica che era stata comune a Berlusconi e Veltroni è caduta.
Se su questo quadro sintetico siamo d’accordo, resta da vedere se si condivide il perché di questo esito.
1. A mio avviso per l’Italia esso va cercato lontano, nell’arco della mia generazione, che d’altronde non è più di un momento storico. Infatti il disastro di oggi appare tanto più grande in quanto la sinistra del dopoguerra è stata più forte che altrove. Essa non è mai stata maggioranza, come ha osservato Norberto Bobbio, ma anche perché era rappresentata, in un paese tenuto fuori dal crogiuolo degli anni venti e trenta in Europa, da comunisti e socialisti e da un forte sindacato, che hanno schiacciato, fra se stessi e la Dc, una interessante terza forza (Giustizia e Libertà).
Questa forma presa dalla sinistra dalla Resistenza al 1956 è alquanto diversa dalle altre in occidente. I socialisti e i comunisti, liberi dalle contese degli anni trenta coperte dal fascismo, sono ancora uniti e i comunisti appaiono - salvo che alla dc e al ”partito americano” - abbastanza svincolati dall’Urss (percepita peraltro anch’essa non come un pericolo incombente). Così dopo il 1956 e la divisione con il Ps, il Pci supererà gradualmente in quantità e qualità di ascolto il già più forte Pcf, facendo propria una larga frangia d’opinione. E’ difficile separare da esso la messa a fondamento del senso comune repubblicano, costituzionale, antifascista; e questo, perlopiù, colorato di un'ombra di concezione classista (vivissima nella resistenza anche in Giustizia e Libertà e poi nel cattolicesimo di Dossetti e della corrente di Base della Dc).
2. Il quadro muta negli anni sessanta-settanta, in corrispondenza con la grande modernizzazione del paese nella composizione sociale, produttiva e culturale. Il Psi ha mutato fronte, nel Pci si apre un dibattito, il sindacato cresce e muta la sua struttura di base, un’area di sinistra radicale comincia a apparire separata dai comunisti, che però crescono di peso.
Il corto circuito è determinato dal movimento del 1968. Diversamente dal resto d’Europa, esso si verifica in presenza di un forte partito comunista che non lo attacca frontalmente, ma del quale esso chiude l’egemonia.
Il 1968 ha in Italia una coda lunga un decennio, come in nessuna parte altrove ha modificato diversi parametri della cultura, ha prodotto la densa politicizzazione dei gruppi extraparlamentari – diversa da quella del movimento comunista - ha indotto un vasto associazionismo di base e professionale che si vive come controcultura e contropotere. E' una seconda e tumultuosa modernizzazione del paese che si colloca a sinistra del Pci ma non riduce la sua forza nell’opinione di massa, anzi. I comunisti arriveranno a un terzo dei voti, il sindacato è forte, l’intellettualità è come non mai politicizzata e diffusa. Il “movimento” critica Pci e Cgil ma trascina l’appartenenza al sindacato (il più modificato) e il voto al Pci: le elezioni del 1975 danno alla sinistra tutte le grandi città.
Questa tendenza non sembra intaccata dal compromesso storico (1973), poco percepito a livello di opinione . E’ come se soltanto l’astensione comunista del 1976 verso il governo Andreotti ne rivelasse il vero senso. E’ in quella estate che si spezza ogni speranza delle minoranze di movimento, il movimento stesso si divide e una piccola parte di esso (non occorrono molti per sparare) va davvero sulle armi (omicidio di Coco a Genova).
Tuttavia l’elettorato sosterrà sempre maggiormente il Pci fino alla morte di Berlinguer: il quale peraltro compie, negli ultimi anni e isolato dal resto del gruppo dirigente, una virata a sinistra. Tardiva. Sul piano mondiale il 1968 non è sfuggito alle classi dominanti, che si riattrezzano. Il Pci non ha compreso il senso dell’abolizione del gold standard, né quello della crisi dell’energia del 1974 e tanto meno i mutamenti strutturali del capitale e delle tecnologie in atto e la ricomposizione delle strategie che ne conseguono (la Trilateral).
Né ha capito realmente le soggettività che si dibattono contro di esso. Non intende neppure, se non in un breve sussulto concernente le donne, la rivoluzione passiva che si compie fin dall’inizio fra generazioni, nei rapporti familiari e d’autorità. Non capisce la portata ideale dell’anticonsumismo del movimento.
Del tutto estraneo gli è il 1977 italiano, assai reattivo ai mutamenti del lavoro ma errato nella previsione, come non aveva capito prima il formarsi dell’estremismo, delle Brigate rosse e Prima Linea, di cui non vede che il pericolo che costituiscono per il suo accreditamento come forza di governo. Berlinguer pratica duramente l’emergenza inseguendo Moro, anch’egli incerto e isolato nella Dc.
Negli anni ottanta il salto tecnologico è avvenuto, specie nell’informazione e quel che ne deriva per il movimento dei capitali e la finanziarizzazione, ma i comunisti leggono solo in termini di politica antisovietica la restaurazione di Thatcher e Reagan, sottovalutano la stagnazione dell’Urss di Breznev, non capiscono il tentativo di Andropov, esitano su Solidarnosc in Polonia come avevano esitato su Praga; la berlingueriana “fine della forza propulsiva” del 1917 arriva quando la decomposizione del Pcus è ormai avanzata e tutti i rapporti con il dissenso ancora di sinistra dell’est sono stati mancati. Così fino a Gorbaciov.
Con Craxi e poi con la morte di Berlinguer è gia andata molto avanti, anche se non in termini elettorali, la crisi del Pci; e comincia quella della Cgil. La fine della prima Repubblica è soprattutto la fine loro.
3. Negli anni ottanta il movimento del 68 si chiude del tutto, abbattuto assieme alle Brigate Rosse, con le quali pur non aveva avuto a che fare, il radicalismo e anche l’estremsimo essendo una cosa, passare alle armi un’altra. Si forma e struttura, di nuovo, soltanto il filone del secondo femminismo.
Con il 1989 la crisi del Pci semplicemente si compie, la ”svolta” induce un altro partito, idealmente e organizzativamente, e si fa senza una rivolta di base. Rifondazione nasce come un ritorno a ieri e si dibatterà senza pace sul come diventare una chiave per il domani; né il Pds né Rc fanno un bilancio storico, né del comunismo né della loro stessa funzione in Italia. Quella che era stata l’intera area della sinistra resta fra disincanti e fibrillazione mentre precipitano socialisti e comunisti.
Bruscamente va in pezzi quel che era parso per venti anni senso comune, il rifiuto del “sistema”. Le sinistre si restringono in piccoli gruppi, alcune si affinano, non riusciranno o forse non vorranno più unificarsi. Da allora una perpetua discontinuità produce spezzoni di movimento puntuali e perlopiù incomunicanti. Il sussulto di quello enorme per la pace e poi del sindacato al Circo Massimo non daranno luogo a una ripresa costante, anche per il senso di impotenza che deriva dalla nullità del loro risultato.
4. L’89 è tutto gestito dalla ripresa del capitale, nella sua forma prekeynesiana. L’ideologia dei Fukujama e degli Hutchinson – fallimento ab aeterno del socialismo e inevitabile scontro di civiltà – colpisce a fondo la sinistra storica, che patisce i fallimenti dei socialismi reali, non li affronta e si arrende; le socialdemocrazie altrove e gli ex comunisti in Italia praticano con zelo e pentimento le politiche liberiste.
Ma anche le culture diffuse delle sinistre radicali galleggiano a fatica. Molte percezioni del 68 si rovesciano su se stesse nel risentimento verso quel che il movimento operaio, già venerato, non ha compreso: ha sacrificato la persona alla collettività, l’individuo al partito, il conflitto dei sessi all’ “economicismo”, la terra allo sviluppo devastatore. Ha sottovalutato la dimensione del sacro, dell’etnia, dei cicli. Ha glorificato la ragione contro l’emozione, l’occidente contro le diversità, l’avvenire rispetto al presente. Il postmoderno ha dato una mano. Questa è la tendenza maggioritaria. Restano, ma molto minoritari, alcuni movimenti. La trasmigrazione verso l’ecologia è il piu forte.
La precipitazione della politica nella corruzione e nella bassezza, l’emersione di Berlusconi non trovano freno. L’area già comunista e socialista non tenta neppure un ripiegamento verso la solcialdemocrazia. La spoliticizzazione segue alla delusione; si vive nell’oggi perché è dannata la memoria del passato e non si sa che cosa volere per il futuro. Incertezza, risentimento, paura. Protezionismo degli ancora occupati davanti a una crisi che non intendono. Mai, per parafrasare Guicciardini, la gente italiana è stata così infelice e così cattiva.
5. Se “sinistra” ha avuto un senso nel XIX e XX secolo, era libertà, eguaglianza, fraternità, declinate nell’eredità della rivoluzione francese. La prima nell’idea di democrazia, la seconda da Marx, la terza (diversamente dal senso che aveva avuto nel 1789) come solidarietà fra gli umani. Esse percorreranno fra le tragedie tutto il XX secolo.
Il loro rifiuto non significa che sia avvenuta una rideclinazione; significa il ripiegamento dalla libertà all’individualismo e il volgere il bisogno di appartenenza verso categorie metastoriche (religioni, nazionalismi, etnie e altre presunte origini). Significa negare l’eguaglianza di diritti (e non solo né tanto nella interpretazione che ne dà parte del movimento delle donne) e fare dell’affermazione del più forte il principio e motore della società. Significa affogare la fraternità nell’odio e nella paura dell’altro e del diverso. Berlusconi e Bossi sono inimmaginabili negli anni ’60.
Questa è oggi la metà dell’Italia che parla. L’egemonia è passata a destra. La sua affermazione segnala una rivoluzione antropologica prima che politica. La degenerazione della politica ne è concausa e conseguenza. Almeno se politica significa, non marxianamente ma arendtianamente, “preoccuparsi del mondo”.
Di questo rozzo tentar di delineare il quadro, vorrei discutere.
Con molti altri ho provato per ben tre volte a mettere insieme la sinistra: la prima volta nel 2003-4 con Gian Paolo Patta e «Lavoro e società» della Cgil; la seconda nel 2004-5 con Alberto Asor Rosa e la Camera di Consultazione della sinistra, la cui storia è stata riassunta in modo impeccabile da Asor Rosa stesso su queste pagine (19 giugno); la terza volta con la Sinistra Arcobaleno del 2007-2008. In quest'ultima occasione non dimenticherò mai la discrepanza tra le promesse dei leader di aprire una vera fase costituente e innovatrice e la squallida realtà successiva del loro blindare tutte le scelte - le candidature per le elezioni in primo luogo - in una disperata ricerca di auto-conservazione.
Ora non ci provo più. Mi sembra più facile convincere i bambini piccoli a mangiare spinaci che persuadere la sinistra italiana a stare insieme. Di fronte a un comportamento reiterato, che privilegia sempre gli elementi di distinguo a scapito di quelli dell'unità, non bisogna fare finta di nulla o continuare a provarci. Piuttosto bisogna cercare di spiegare perché tutto questo è successo, per poi trarne le conseguenze.
Perché la sinistra italiana, invece di conservare e rinnovare la profonda cultura di sinistra del paese, è riuscita finora solo a sperperare? Una prima spiegazione va cercata nella mancata analisi del rapporto tra partiti e società civile. Norberto Bobbio scrisse nel 1983 che «nel gioco politico democratico ... gli attori principali sono dati, e sono i partiti». Ma la realtà storica di questi ultimi 30 anni è quella di una progressiva atrofia dei partiti e una costante invenzione di forme di organizzazione politica promosse dai cittadini stessi - laboratori, comitati, social forum, gruppi di difesa ambientali e territoriali. L'atteggiamento dei partiti di sinistra verso queste forme di auto-organizzazione è sempre stato strumentale e sospettoso: sono un pericolo, possiamo penetrarle, incorporarle, guidarle, distruggerle? O addirittura renderle in istanze metafisiche ('il movimento dei movimenti') che misteriosamente dettino la linea più conveniente al particolare partito o gruppo.
Dietro tali atteggiamenti risiede la consueta forma della politica, l'agire dall'alto attraverso un centralismo democratico riverniciato. Al livello identitario, l'individuo-militante rimane fortemente legato alla sua formazione politica che può anche offrirgli possibilità di impiego e di carriera. I comportamenti personali verso quelli che non fanno parte della formazione (o corrente) sono spesso aggressivi, perfino incontinenti. Il nemico è vicino. La sinistra è stata incapace di elaborare un codice di comportamento nella sfera pubblica che premi il rispetto reciproco, la collaborazione, l'uguaglianza al posto della competizione, del predominio maschilista, del disprezzo.
Quest'insieme di fattori - atteggiamento strumentale verso la società civile, competizione tra piccoli gruppi politici portatori di carriere individuali, assenza di una cultura di pace praticata a casa e non solo predicata per l'estero - sono alcuni degli elementi più pregnanti per spiegare il fallimento storico della sinistra.
E le conseguenze? Mi concentro qui solo sull'aspetto organizzativo, ovvero sulla forma della partecipazione. Ci sono due possibilità, tutte e due di grande rottura rispetto a un passato fallimentare. La prima sarebbe davvero di ricominciare daccapo. Cioè, di invitare tutte e tutti a procedere a un'assemblea costituente, basata sul principio di una persona un voto; preparare l'assemblea attraverso un lungo lavoro territoriale, scrivere decaloghi di intenti programmatici e di comportamento individuale nella sfera pubblica. Bisogna capire che un nuovo soggetto politico, radicalmente diverso dal passato, ha necessità di tempo per crescere e di radicarsi prima di portare frutti. Durante il processo occorre rispettare le scelte di altri che optano per una strada diversa, ma cercare costantemente punti di contatto e condivisione. Lavorare tra i ceti popolari colpiti dalla crisi ma anche tra i ceti medi spesso dimenticati dalla sinistra, e accompagnare il lavoro sociale e culturale con una costante attenzione all'elaborazione teorica.
La seconda possibile scelta è diametralmente opposta alla prima e si basa sull'ammissione che l'attuale sinistra italiana è semplicemente incapace di inventarsi qualcosa di nuovo. Meglio allora abbracciare il Pd e cercare di portare un contributo di sinistra dentro un partito che ha molte anime e pecche ma rappresenta il perno di qualsiasi opposizione al regime di Berlusconi. In questo caso si cerca di difendere la democrazia e al contempo di rinnovarla, dentro e fuori il partito, introducendo temi e culture che, pur sembrando all'inizio troppo radicali, con il tempo possano diventare cultura comune. In questo caso si tratta di agire senza illusioni, sapendo della necessità di compromessi, riconoscendo il pericolo storico di venire più facilmente cambiati dal partito che cambiarlo. Molti grideranno (come sempre) al «tradimento». Non la vedo necessariamente così.
Idealmente, sono attratto dalla prima opzione; anagraficamente, e perché siamo in un'emergenza democratica, dalla seconda. Chiedo solo una cosa : di non ballare il vecchio minuetto per la quarta volta.
La discussione a sinistra, dopo il risultato delle europee, non poteva incominciare in modo peggiore. Rifondazione e i suoi alleati ora brandiscono il vessillo dell'unità a sinistra per sventolarlo non contro la destra ma contro una possibile ricostruzione di un nuovo centrosinistra, senza nemmeno un briciolo di autocritica rispetto al fatto che nel corso di quest'anno quella unità ha contribuito più volte ad affossarla. Gli esponenti di Sinistra e Libertà per lo più alzano steccati a sinistra in nome del rinnovamento, proclamano orgogliosi la loro autosufficienza, affermano che quel 3,1% è tutta la nuova sinistra e da lì bisogna ripartire, mentre malignamente gli altri più o meno apertamente insinuano che molti di loro sarebbero ormai pronti a passare armi e bagagli al Pd.
Se l'Italia e l'Europa non fossero, come le europee hanno messo in luce, in una situazione drammatica, in cui la pochezza delle risposte dei governi dell'Unione di fronte alla crisi, e soprattutto l'assenza di una comune politica, lasciano libero sfogo alle paure e alle reazioni xenofobe, ci sarebbe di che sorridere. Sembra di essere alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando socialdemocratici e comunisti impegnati in una lotta fratricida senza quartiere non videro che il fascismo, con l'imminente avvento di Hitler al potere in Germania, si accingeva e diventare un fenomeno europeo. Solo che quando la storia si ripete da tragedia si trasforma in farsa.
Ha ragione quindi Fausto Bertinotti, quando intende suggerire che se si vuole ricostruire la sinistra in Italia e in Europa bisogna avere uno sguardo più largo che vada oltre la sua attuale configurazione e rivolgere l'attenzione all'intero sistema politico e alle sue dinamiche. Ma egli stesso rischia di alimentare equivoci e contribuire allo smarrimento imperante a sinistra, quando oscilla tra l'attesa passiva di un'implosione del nostro sistema politico e la ricerca di un'improbabile confluenza in un unico soggetto di un arco di forze che va da Rc ai radicali, passando per l'Idv e il Pd.
Mi chiedo: perché non è possibile, per rifondare la sinistra, partire dalla società italiana, dalle sue contraddizioni e problemi, e da una rinnovata centralità del lavoro, invece che da noi e le nostre dispute? Perché per rifondarsi la sinistra non punta a una riforma dell'agire politico e della rappresentanza per contribuire a rilegittimare la politica democratica, che rischia di essere affossata dal discredito prima che dalle manovre e dalle intenzioni eversive di Silvio Berlusconi?
Insomma, l'Italia ha bisogno di una sinistra che sappia rimettere al centro la costruzione di un'opposizione efficace alla destra e quindi di un'alternativa di governo. Non c'è contraddizione tra autonomia della sinistra e politica delle alleanze tesa alla costruzione di una nuova coalizione democratica. Chi si sottrae al secondo compito, per timore che il primo ne sia compromesso e chi, in nome del secondo obiettivo, è disposto a sacrificare il primo, ambedue condannano alla sconfitta sia l'una che l'altra prospettiva.
Il 26 giugno a Bologna coloro che avevano promosso l'appello per una lista unitaria alle europee propongono di collocare la ricostruzione della sinistra politica nel quadro di una discussione che anteponga l'analisi dei problemi e delle condizioni reali di economia e democrazia nel nostro Paese a formule politiche astratte. E lo fanno senza frapporre limiti e steccati. Sono gli stessi che avevano dato vita all'incontro di Firenze del luglio scorso, dove era stata lanciata la manifestazione unitaria della sinistra, tenutasi poi nell'ottobre.
La proposta di presentare un'unica lista alle europee, lungi dall'essere un anacronistico omaggio a vecchie concezioni dell'unità della sinistra, come sembrano credere alcuni esponenti di Sinistra Democratica, era la maniera per realizzare l'ipotesi di Gabriele Polo che la sinistra «saltasse un giro», in modo da non sottoporre al vaglio del raggiungimento della soglia di sbarramento le diverse prospettive strategiche in campo, per affidarle alla verifica di un tempo più lungo. È sinonimo di vecchia politica l'idea che i gruppi dirigenti debbano brandire come verità assolute le proprie convinzioni, perché ciò rassicurerebbe il corpo dei militanti e lo ricompatterebbe, quando i tempi che attraversiamo consiglierebbero che esse fossero vissute e fatte vivere con spirito critico e senso del limite. Non dobbiamo nascondercelo: la formazione delle due liste ha costituito una sconfitta politica per quelli che hanno tentato di evitarla soprattutto perché era facilmente prevedibile che dopo le elezioni la discussione si sarebbe ulteriormente avvitata su se stessa. Vi sono le condizioni per invertire la rotta? Le vicende di quest'anno inducono al pessimismo. Quel che è certo è che questa inversione di rotta costituisce l'unica prospettiva per cui vale la pena lottare.
L’articolo ci è stato segnalato e tradotto da Dario Predonzan
Il successo dei Verdi, in Francia, alle elezioni europee non dev’essere né sopravvalutato, né sottovalutato. Non dev’essere sopravvalutato, perché deriva in parte dalle carenze del Partito socialista, dalla scarsa credibilità del MoDem e delle piccole formazioni di sinistra. Non dev’essere sottovalutato perché testimonia anche il progresso politico della coscienza ecologica nel nostro Paese.
Quella che però resta insufficiente è la coscienza del rapporto tra ecologia e politica. Certo, molto giustamente, Daniel Cohn-Bendit parla in nome di un’ecologia politica. Ma non basta introdurre la politica nell’ecologia; bisogna anche introdurre l’ecologia nella politica. Infatti, i problemi della giustizia, dello Stato, della disuguaglianza, delle relazioni sociali, sfuggono all’ecologia. Una politica che non inglobasse l’ecologia sarebbe mutilata, ma una politica che si riducesse all’ecologia sarebbe ugualmente mutilata.
L’ecologia ha il merito di portarci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni rispetto alla natura. Certo, questa modificazione è lungi dall’essere compiuta. Alla visione di un universo di oggetti che l’uomo è destinato a manipolare ed asservire non si è ancora davvero sostituita la visione di una natura viva di cui bisogna rispettare le regole e le diversità.
Alla visione di un uomo “sopra-naturale” non si è ancora sostituita la visione della nostra interdipendenza complessa con il mondo vivente, la morte del quale significherebbe la nostra morte.
L’ecologia politica ha in più il merito di condurci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni sulla società e su noi stessi.
Infatti, ogni politica ecologica ha due facce, una rivolta verso la natura, l’altra verso la società. Così, la politica che punta a sostituire le fonti energetiche fossili inquinanti con fonti energetiche pulite è nel contempo un aspetto di una politica della salute, dell’igiene, della qualità della vita. La politica del risparmio energetico è nel contempo una politica che evita gli sprechi e che lotta contro le intossicazioni consumistiche delle classi medie.
La politica che fa indietreggiare l’agricoltura e l’allevamento industrializzati, disinquinando in questo modo le falde freatiche, disintossicando l’alimentazione animale corrotta da ormoni e antibiotici, l’alimentazione vegetale impregnata di pesticidi ed erbicidi, sarebbe nel contempo una politica dell’igiene e della salute pubblica, della qualità degli alimenti e della qualità della vita. La politica che punta a disinquinare le città, avvolgendole con una cintura di parcheggi, sviluppando i trasporti pubblici elettrici, pedonalizzando i centri storici, contribuirebbe fortemente ad una riumanizzazione delle città, la quale comporterebbe inoltre la reintroduzione della promiscuità sociale sopprimendo i ghetti sociali, compresi quelli di lusso per privilegiati.
In effetti, c’è già nella seconda faccia dell’ecologia politica una parte economica e sociale (di cui fanno parte le grandi opere necessarie allo sviluppo di un’economia verde, compresa la costruzione di parcheggi attorno alle città). C’è anche qualcosa di più profondo, che non si trova ancora in nessun programma politico, cioè la necessità di cambiare le nostre vite, non soltanto nel senso della sobrietà, ma soprattutto nel senso della qualità e della poesia della vita.
Questa seconda faccia non è però ancora abbastanza sviluppata nell’ecologia politica. Innanzitutto, quest’ultima non ha ancora assimilato il secondo messaggio, di fatto complementare, formulato nella stessa epoca del messaggio ecologico, agli inizi degli anni ’70, quello di Ivan Illich. Questi aveva formulato una critica originale della nostra civiltà, mostrando come un malessere psichico accompagnasse il progresso del benessere materiale, come l’iperspecializzazione nell’educazione o nella medicina producesse dei nuovi accecamenti, come fosse necessario rigenerare le relazioni umane in quella che lui chiamava la convivialità. Mentre il messaggio ecologico penetrava lentamente nella coscienza politica, il messaggio di Illich ne restava escluso.
Il fatto è che il degrado del mondo esterno diventava sempre più visibile, mentre il degrado psichico sembrava appartenere alla sfera privata e restava invisibile alla coscienza politica. Il malessere psichico aveva ed ha a che fare con medicine, sonniferi, antidepressivi, psicoanalisi, psicoterapie, guru, ma non è percepito come un effetto della civiltà.
Il calcolo applicato ad ogni aspetto della vita umana occulta ciò che non può essere calcolato, cioè la sofferenza, la felicità, la gioia, l’amore, in breve ciò che è importante nella nostra vita e che sembra extra-sociale, puramente personale. Tutte le soluzioni proposte sono quantitative: crescita economica, crescita del PIL. Quando dunque la politica prenderà in considerazione l’immenso bisogno d’amore della specie umana sperduta nel cosmo?
Una politica che integri l’ecologia nell’insieme del problema umano affronterebbe i problemi posti dagli effetti negativi, sempre più importanti in confronto agli effetti positivi, degli sviluppi della nostra civiltà, tra cui il degrado delle solidarietà, il che ci farebbe capire che l’instaurazione di nuove solidarietà è un aspetto capitale di una politica di civiltà.
L’ecologia politica non dovrebbe isolarsi. Essa può e deve radicarsi nei principi delle politiche emancipatrici che hanno animato le ideologie repubblicana, socialista e poi comunista, e che hanno alimentato la coscienza civica del popolo di sinistra in Francia. In questo modo, l’ecologia politica potrebbe entrare in una grande politica rigenerata e contribuire a rigenerarla.
Una grande politica rigenerata s’impone, tanto più che il Partito socialista è incapace di uscire dalla sue crisi. Esso si rinchiude in un’alternativa sterile tra due rimedi antagonisti. Il primo è la “modernizzazione” (cioè l’allineamento alle soluzioni tecno-liberali), mentre la modernità è in crisi nel mondo. L’altro rimedio, lo spostamento a sinistra, è incapace di formulare un modello di società. Il sinistrismo oggi soffre di un rivoluzionarismo senza rivoluzione. Denuncia giustamente l’economia neoliberale e lo scatenamento del capitalismo, ma è incapace di enunciare un’alternativa. Il termine di “partito anticapitalista” tradisce questa carenza.
Se l’ecologia politica porta la sua verità e le sue insufficienze, i partiti di sinistra portano, ciascuno a modo suo, le loro verità, i loro errori e le loro carenze. Dovrebbero tutti decomporsi per ricomporsi in una forza politica rigenerata che potrebbe aprire delle strade. La strada economica sarebbe quella di un’economia plurale. La strada sociale sarebbe quella della diminuzione delle disuguaglianze, della sburocratizzazione delle organizzazioni pubbliche e private, dell’instaurazione delle solidarietà. La strada pedagogica sarebbe quella di una riforma cognitiva, che permettesse di collegare le conoscenze, più che mai spezzettate e disgiunte, al fine di trattare i problemi fondamentali e globali del nostro tempo.
La strada esistenziale sarebbe quella di una riforma della vita, in cui verrebbe alla coscienza ciò che è oscuramente sentito da ognuno, e cioè che l’amore e la comprensione sono i beni più preziosi per un essere umano e che l’importante è vivere poeticamente, cioè nell’illuminazione di sé, nella comunione e nel fervore.
E se è vero che il corso della nostra civiltà, diventata globale, conduce verso l’abisso e che dobbiamo cambiare strada, tutte queste strade nuove dovrebbero poter convergere per costituire una grande strada che conduca più che ad una rivoluzione ad una metamorfosi. Perché, quando un sistema non è capace di trattare i suoi problemi vitali, o si disintegra, o produce un metasistema più ricco, capace di trattarli: cioè si metamorfosa.
L’inseparabilità dell’idea del cammino riformatore da quella di una metamorfosi permetterebbe di conciliare l’aspirazione riformatrice e l’aspirazione rivoluzionaria. Essa permetterebbe la resurrezione della speranza senza la quale nessuna politica di salvezza è possibile.
Non siamo neppure all’inizio della rigenerazione politica. Ma l’ecologia politica potrebbe innescare e animare l’inizio di un inizio.
(traduzione di Dario Predonzan)
Questa fotografia è stata ripresa a Berlino qualche giorno fa. Il testo del manifesto è il seguente
“Fate attenzione! Chi vota Merkel vota Berlusconi.
Nel parlamento europeo la CDU della Merkel ed il partito populista di destra “Popolo delle libertà” di Berlusconi appartengono ad un’unica formazione, il Partito Popolare Europeo. Solo per pro-memoria: Berlusconi è il boss delle costruzioni e dei media che ancora una volta governa l’Italia calpestandone i diritti democratici”.
É un modo per gli italiani di contribuire alla campagna elettorale europea, tramite la Gioventù socialista tedesca.
A destra la fotografia del manifesto in corso di affissione
Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».
Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.
Quando nell'aprile 2005 si tratta di fare un passaggio decisivo, - quello che consiste nel «mettere in comune» un certo numero di temi da discutere e di decisioni da prendere («dichiarazione d'intenti»), - nel corso di un'animata riunione presso la Casa delle culture di Roma, Fausto Bertinotti, improvvisamente e calorosamente, se ne chiama fuori. Una gentile signora, sua fedelissima, abbandonando la sala, mi passa accanto e affettuosamente mi sibila: «Bella come esperienza intellettuale ma la politica è un'altra cosa».
Mi rendo conto, naturalmente, che ognuno che abbia preso parte, attivamente e convintamente, ad una qualche esperienza, sia spinto ad attribuirle un'importanza eccessiva. Mi pare però che, obiettivamente, sia legittimo, a partire da questa, anche personale, disfatta, porre almeno due domande: 1) Quale altro serio tentativo di perseguire l'«unità della sinistra» è stato fatto successivamente? (spero che a nessuno venga in mente di tirar fuori l'aborto elettoralistico dell'Arcobaleno, che è esattamente il contrario di quel che io pensavo si dovesse fare); 2) è mai possibile che ci si ripropongano di volta in volta gli stessi problemi e non ci si chieda mai quale esperienza ne abbiamo già fatto, positivamente o negativamente, nel (talvolta immediato) passato? (sicché non si sa mai bene di chi e di cosa si parla).
La scelta bertinottiana, giusta o sbagliata che fosse (a me pare, naturalmente, che fosse drammaticamente sbagliata), consisteva nello scegliere senza esitazioni le «ragioni del Partito», del «suo» Partito, ovviamente, che, in base al sacro principio dell'autoreferenzialità del ceto politico italiano (di qualsiasi colore esso sia), coincidevano con quelle sue personali. I risultati delle elezioni del 2006, cui egli guardava, sembrarono perfino dargli ragione. Ma su di un periodo appena un po' più lungo, sono risultate catastrofiche.
Cercherò di dire ora, a scanso di equivoci, perché lo schema logico-politico della «Camera di consultazione», così nostalgicamente richiamato nelle righe precedenti, non sia più oggi riproponibile. Quello, in realtà, era un semplicissimo schema binario: bisognava costruire una sinistra radicale unitaria da affiancare in maniera tutt'altro che subalterna ad una sinistra moderata altrettanto unitaria, allo scopo di governare decentemente il paese, arginando la possente ondata berlusconiana.
Oggi le cose rispetto ad allora si sono estremamente complicate, da una parte come dall'altra (ha ragione Parlato a farlo rilevare). Lo schema binario non regge più, se non nei termini assolutamente generali della coppia «progresso-reazione» (sulla quale tuttavia tornerò più tardi). Le ragioni mi sembran queste: 1)fra le due componenti più consistenti (si fa per dire) della sinistra radicale le divergenze sono strategiche, e dunque incomponibili; 2)le forze che hanno dato vita alla lista «Sinistra e libertà» promettevano all'origine di rappresentare una seria alternativa riformista al, presunto, riformismo della cosiddetta sinistra moderata; da come stanno andando le cose, rischiano di fungere solo, al centro come, soprattutto, in periferia, da gambetta di sinistra del Pd; 3)il Pd non è, come dichiarava di voler essere, il partito della sinistra moderata, o di un centro-sinistra moderato o di un moderato riformismo: è invece un qualcosa che rischia sempre più di sparire come tale per la sua organica incapacità di darsi una fisionomia e un'identità, quali che siano; contemporaneamente, non è più neanche in grado di egemonizzare la sinistra (?) moderata (crescita del dipietrismo); 4)l'autoreferenzialità del ceto politico della sinistra - tutto - è cresciuto in misura feroce in ragione diretta della lotta che esso conduce per la propria sopravvivenza.
Contestualmente, il caso italiano, da «anomalo» qual era, rischia di diventare, come è accaduto altre volte nella storia, «esemplare» a livello europeo. La deriva di destra del Vecchio Continente, che rappresenta la sua patetica ma dura e inquietante risposta ai rischi e alle incertezze, contemporaneamente, della globalizzazione e della crisi (in controtendenza, e questo ne costituisce un ulteriore motivo di debolezza, con le scelte americane), dovrebbe costituire attualmente il vero tema di riflessione per la costruzione di una «nuova sinistra» in Italia e in Europa. Anzi, più esattamente: cosa s'intende per «programma di sinistra» oggi in Italia e in Europa? Come si organizza e «si rappresenta», al di là di ogni ulteriore qualificazione, una «forza di sinistra» oggi in Italia e in Europa?
La domanda è così radicale (e io desidero consapevolmente che lo sia) da riguardare nella stessa misura, anche se con modalità diverse, forze di sinistra moderate e forze di sinistra radicali: i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli, i laburisti inglesi, i democratici (?) italiani; e la Link in Germania, i verdi in Francia, i «comunisti» e tutti gli altri in Italia. Insomma, nel suo insieme, il «blocco» politico e sociale di forze cui è affidata in Europa la possibile alternativa (qui torna alla fine, naturalmente molto semplificato per ovvii motivi, lo schema binario, che però, lo ribadisco, in questa parte del mondo è ineludibile).
È chiaro che s'apre in questo modo un orizzonte sconfinato di problematiche e di riflessioni, frutto, oltre che della complessità dei problemi, anche dell'immenso e disastroso ritardo con cui vengono affrontati (ammesso che, ora, lo siano). Io penso seriamente che i milioni di astenuti a sinistra si astengano esattamente perché non hanno una risposta a queste domande. C'è un'alternativa già oggi operante, che sostituisca alla lenta e seria fusione una qualche miracolosa formula alchemica? Fatemela vedere, e cambierò opinione.
Le polemiche sulla visita di Gheddafi hanno fatto perdere di vista il significato della foto che portava sul petto, quella di Omar al Mukhtar catturato nel 1931 dai militari italiani. Una finestra sulla nostra storia, che il Partito democratico e l'Italia dei Valori si sono precipitati a chiudere. Forse perché ancora di scottante attualità.
Agli inizi del Novecento l'Italia di Giolitti decise di occupare la Libia, parte dell'impero ottomano che si stava sgretolando. Dietro vi erano gli interessi della finanza, soprattutto quella vaticana già penetrata in Libia attraverso il Banco di Roma, e dei grossi industriali, che volevano una guerra perché aumentasse la spesa militare. Precedute da un bombardamento navale, le truppe italiane sbarcarono a Tripoli il 5 ottobre 1911. L'occupazione fu accompagnata da una forte propaganda. Mentre nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d'amore», sui giornali cattolici si scriveva «il nostro diritto su questa colonia è stato affermato col cannone» e nella chiesa pisana dei Cavalieri, addobbata di bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Pietro Maffi benediceva i fanti italiani in partenza per la Libia, esortandoli a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle e redimere così l'Italia, la terra nostra, di novelle glorie».
L'invasione della Cirenaica e della Tripolitania, con un corpo di spedizione di oltre 100mila uomini al comando di 24 generali, suscitò l'immediata resistenza della popolazione. La repressione fu spietata: furono fucilati o impiccati circa 4.500 arabi, tra cui donne e ragazzi. Molti altri furono deportati a Ustica e in altre isole, dove morirono quasi tutti di stenti e malattie. Iniziava così la lunga storia della resistenza libica, che sfidò la sempre più dura repressione soprattutto nel periodo fascista. Nel 1930, per ordine di Mussolini e dei generali Badoglio e Graziani, vennero deportati dall'altopiano cirenaico 100mila abitanti, poi rinchiusi in una quindicina di campi di concentramento lungo la costa. Qualsiasi tentativo di fuga veniva punito con la morte. Per ordine di Mussolini e di Italo Balbo, l'aeronautica impiegò anche bombe all'iprite, proibite dal Protocollo di Ginevra del 1925. La Libia fu per l'aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la luftwaffe di Hitler: il terreno di prova per armi e tecniche di guerra più micidiali.
I partigiani libici, guidati da Omar al Mukhtar, si batterono fino all'ultimo. Nel 1931, per tagliare loro i rifornimenti fu fatto costruire da Graziani, sul confine tra Cirenaica ed Egitto, un reticolato di filo spinato lungo 270 chilometri e largo alcuni metri. Individuato da un aereo, Omar al Mukhtar venne ferito e catturato. Fu impiccato il 16 settembre 1931, all'età di 73 anni, nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati costretti ad assistere all'esecuzione, per «il reato più grave, quello di aver preso le armi per staccare questa Colonia dalla Madre Patria».
Sul petto di Muhammar l’immagine del leader della resistenza anti-italiana, al fianco suo figlio «Il leone del deserto» fu vietato perché «danneggia l’onore dell’esercito». Questa sera è su Sky
Quella foto in bianco e nero appuntata sul petto ha attirato subito le attenzioni di tutti i presenti sulla pista di Ciampino. Ma quel vezzo un po' pacchiano, in realtà, è l’ultima provocazione del dittatore libico. Perché ritratto in quella foto, in ginocchio e incatenato fra i soldati italiani, c’è Omar Al Muktar. «Il leone del deserto» che fra il 1923 e il 1931 guidò la resistenza libica contro l’esercito colonialista del Duce. Considerato uno dei “padri della patria libica”, Omar Al Muktar, dopo anni di guerriglia contro gli uomini del generale Rodolfo Graziani, venne catturato e su ordine di Mussolini fu impiccato il 16 settembre del 1931 dopo un processo sommario nel palazzo littorio di Bengasi. E così, nel giorno dell’accoglienza in pompa magna, Muammar Gheddafi ha sbattuto in faccia all’Italia il suo passato colonialista portando con sè nella delegazione ufficiale anche Mohamed Omar Al Muktar, il figlio dello “shaykh dei martiri” della tribù dei Minifa. Ormai ottantenne l’uomo ieri ha sceso lentamente i gradini della scaletta mettendo piede in quel paese con cui, come disse ad Al Jazira in occasione della visita in Libia di Berlusconi, non avrebbe mai avuto a che fare perché «odia il popolo libico e odia Omar Al Mukhtar».
Ma la vendetta morale per la morte del leader anticolonialista, evidentemente, deve essere una questione di principio per Gheddafi. Che infatti nel 1981 impegnò ben 35 milioni di dollari per la realizzazione del film “Il leone del deserto” affidato al regista Moustapha Akkad. Nel cast anche Anthony Quinn (interpretava l’eroe libico), Rod Steiger (nei panni del Duce), Raf Vallone e Gastone Moschin. La pellicola uscì in tutto il mondo nel 1982, tranne che in Italia dove fu censurato dal governo dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti in quanto «danneggia l’onore dell’esercito». Ad imporre il veto sulla distribuzione del film fu l’allora sottosegretario agli Esteri (fino a domenica scorsa presidente della Provincia di Cuneo per il Pdl) Raffaele Costa. ma il film, che finì persino sotto processo per vilipendio alle forze armate, in Italia circolò clandestinamente per anni. Nel 1987 alcuni pacifisti organizzarono una proiezione a Trento, ma furono bloccati e denunciati dalla Digos. L’anno successivo la pellicola venne mostrata per la prima e unica volta in Italia nel corso del festival Riminicinema.
E la situazione di clandestinità de “Il Leone del deserto” non è mai cambiata: tanto che nel 2003 il ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani rispondendo a un’interrogazione parlamentare in cui si intendeva promuovere la revoca della censura, dichiarò: «Nel caso del film in questione, si segnala che lo stesso non è corredato del prescritto nulla osta ai fini della sua circolazione interna ed internazionale, in quanto i soggetti interessati non hanno mai presentato la relativa istanza». Nonostante questo, però, il film questa sera sarà proiettato alle 21 sul canale SkyCinema Classic. Moustapha Akkad, però, non potrà rallegrarsene: un attacco kamikaze di Al Qaeda, infatti, l’ha ucciso assieme a sua figlia nel novembre 2005 di fronte all’Hotel Grand Hyatt di Amman.
Perchè quell’immagine
«La foto di Al Muktar è come la croce che alcuni di voi portano: il simbolo di una tragedia». Così Gheddafi ha risposto a chi gli chiedeva perché quella foto appuntata sul petto al suo arrivo a Roma. «La foto è quella dell'esecuzione, l'impiccagione di Omar Mukhtar, mentre ufficiali fascisti che assistevano ridevano e lo deridevano, nel sud di Bengasi dopo avergli fatto un processo farsa che lo ha condannato come un semplice ribelle».
Gheddafi ha ricordato che anche molti «italiani sono stati impiccati da quello stesso governo di allora che poi è finito con l'impiccagione, ma a piedi in giù, di Mussolini». Ha ripetuto che quell'esecuzione è stata una «tragedia» per il popolo libico. «È come l'uccisione di Gesù Cristo per i cristiani: per noi quell'immagine è come la croce che alcuni di voi portano», ha detto il leader libico sottolineando che è il «simbolo di una tragedia».
Ormai è chiaro, la campagna elettorale il governo la fa così. Con l’ostentazione pubblicitaria dei respingimenti. Con l’evocazione impudica dell’apartheid. Con l’esibizione della durezza “senza se e senza ma” – anzi, con l’invito esplicito a essere “cattivi” - contro i migranti. Insomma, mettendo in gioco quella risorsa potentissima sul piano emotivo e pericolosissima su quello civile, costituita dalle “retoriche del disumano”. E spingendoci così sempre più giù su quel piano inclinato della civiltà e dei diritti lungo il quale ormai da anni, ma in fine velocior, l’Italia sta cadendo.
C’è dentro ognuno di noi, e nella coscienza collettiva, un confine impalpabile ma fondamentale, che distingue il modo di guardare l’Altro come “uno di noi” (diverso ma, almeno in qualcosa simile), o come una “natura estranea”. Appartenente a un altro “regno”: “animale”, “vegetale”, “minerale”. O semplicemente al Nulla. Le “retoriche del disumano” lavorano su quella linea di confine. La spostano “in qua”, riducendo l’area degli inclusi nella dimensione di “uomini” e allargando l’esercito dei “non-uomini”. Dei non-riconosciuti. Non degli “invisibili”, si badi. Bensì di coloro che si vedono ma non hanno importanza. Possono essere indifferentemente usati o abbandonati a se stessi. Accolti (se, e fin quando, servono) o respinti (come cose inutili o dannose). “Salvati” o “sommersi”, a seconda dell’interesse del momento.
Questo sta facendo il ministro dell’interno Maroni. Con la rozzezza che lo distingue. Ma anche con assoluta spregiudicatezza, spostando i confini della politica oltre un limite mai varcato finora, per lo meno nell’Italia repubblicana, da nessuna forza di governo: fin dentro al delicato intreccio che lega la dimensione del biologico a quella del senso morale. La natura dei rapporti “genericamente umani” e l’esercizio del potere pubblico. Si può ben comprendere quanta terribile efficacia possa avere, in una società che si va impoverendo rapidamente, e in cui strati sempre più ampi di popolazione avvertono il rischio imminente del proprio declassamento e della perdita di posizioni faticosamente conquistate, una retorica di questo tipo: quale devastante potenziale di mobilitazione negativa abbia un meccanismo fondato sulla creazione di una porzione, limitata, di umanità esplicitamente privata per via statuale, attraverso lo strumento universale della Legge, dello status di uomini.
Esso permette un apparente, ma psicologicamente efficace, “risarcimento” dei “penultimi” – di coloro che hanno perduto buona parte dei propri diritti sociali -, attraverso l’esibizione della deprivazione più radicale degli “ultimi”, di coloro che sono del tutto senza diritti. Gratifica chi ha perduto (quasi) tutto, o teme di perderlo - lavoro, casa, reddito, salute… – ma ha mantenuto lo status di “uomo” grazie alla sua appartenenza territoriale, mostrandogli in chiave pubblicitaria lo spettacolo di chi di quella prerogativa è stato destituito. E può essere pubblicamente dichiarato “fuori”. Dunque “sotto”.
E’, non possiamo nascondercelo, un meccanismo politicamente “irresistibile”. Mettendo al lavoro un sentimento ambiguo, ma incendiario, come l’”invidia sociale”, nell’epoca della conclamata impossibilità di realizzare efficaci politiche redistributrici e di sfidare in modo credibile chi “sta in alto”, esso si rivela capace di “sfondare” in aree sociali estese, e potenzialmente immense. Spesso negli insediamenti tradizionali della vecchia sinistra. Diventa, una volta accettato di varcare quel confine morale da parte di imprenditori politici spregiudicati, per usare un eufemismo, una risorsa decisiva. Infatti Berlusconi e i suoi ci si sono buttati a pesce, nel momento in cui la priorità sembra quella di vincere la “guerra psicologica” della crisi (e, cosa non secondaria, di “dimenticare Veronica”…). E bene ha fatto Franceschini a denunciare, con forza, l’uso propagandistico della nuda vita offesa, ma già l’immediata, e davvero improvvida, contromossa di Fassino ci dice quanto fascino, o imbarazzo, esercita, su tutti i fronti politici, l’entrata in gioco di quella nuova perversa risorsa. E quanta difficoltà ci sia a contrastare, se ci si attiene al piano strettamente politico, dei nudi rapporti di forza, il processo di pietrificazione delle coscienze che esso comporta.
Se una resistenza può nascere oggi, credo che non possa che costituirsi su un fronte per così dire “impolitico”. Tale da operare sui registri trasversali della morale, della memoria, del senso di dignità e su residui di cultura, che non si misurano sui rapporti di forza, sulle regole della ragion di stato o di partito, sui machiavellismi dell’azione utile e di quella efficace.
L’effetto principale delle “retoriche del disumano” è quello di disumanizzare per primi coloro che le condividono. Occorre mettere insieme chi continua a non voler rinunciare alla propria residua umanità. E intende difendere quel brandello di condivisione del proprio stato di uomini con tutto il resto del genere umano.
Nessuna pietà per le donne incinte, disidratate e prossime alla gravidanza. Nessuno scupolo su eventuali bimbi a bordo. Tutti i 227 migranti naufraghi, intercettati e abbandonati per un giorno nelle acque del Canale di Sicilia perché infuriava l’ennesimo bisticcio tra Malta e Italia sul salvataggio, alla fine sono stati deportati a Tripoli. Un respingimento collettivo senza precedenti, al di fuori di ogni regola consolidata. L’Onu gela l’Italia: «Il cambio di politica è un errore. Il principio internazionale del non respingimento vale anche nelle acque internazionali». Da qui l’appello alla retromarcia affichè questa prassi non si ripeta più. Allibite tutte le organizzazioni umanitarie. Protesta anche la Cei: «Migranti a rischio».
L’italia e Malta hanno deciso nella notte di risolvere la questione sbarchi nel Mediterraneo, avvitandosi nelle pratiche di negazione del diritto e brindando alla «svolta» storica. E invece la prospettiva che attende i migranti è una sola: le carceri libiche. Ma all’Italia come a Malta questo non interessa. Anzi, sono state proprio tre motovedette italiane a consegnare i naufraghi immigrati, stanchi e provati dalla lunga traversata, nelle mani dei soldati del colonnello Gheddafi. E senza alcuna verifica preventiva su chi fossero quelle persone disperate: da quali paesi scappavano o quali torture e persecuzioni si erano lasciate alle spalle. A nessuno è stato consentito riposare sulla terra ferma neppure un minuto. Tutti, sono stati trasbordati dai barconi alle navi e rispediti in tutta fretta in Libia. Un paese che non ha firmato la Convezione di Ginevra sui rifugiati e non ha alcuna cultura sull’asilo.
Violazione dei diritti
Prima Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, poi Antonio Guterres (Unhcr) in persona, sottolineano che «l’incidente mostra un radicale mutamento nelle politiche migratorie del governo italiano e rappresenta una fonte di grave preoccupazione». La mancanza di trasparenza dell’operazione ha fatto sì che Maroni quasi coniasse un principio dell’esternalizzazione dell’asilo che non sta scritto da nessuno parte, se non nell’accordo segreto tra Italia-Libia. Da qui l’invocazione Onu: «Malta e l’Italia continuino ad assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale pieno accesso al territorio e alla procedura di asilo nell’Unione Europea». Fra le persone respinte in Libia ci potrebbero essere dei profughi dell’Africa sub sahariana. E protesta anche la Cei: «L’effettivo trattamento di chi viene mandato in Libia va verificato», ha detto Giandomenico Gnesotto, direttore dell’Ufficio pastorale della Fondazione Migrantes dell’episcopato italiano.
Allibite tutte le organizzazioni umanitarie. Mentre il commissario europeo Jacques Barrot, esprime soddisfazione per il salvataggio dei migranti ma tace sul respingimento dell’Italia.
SCHEDA
Già condannati all’Europa per quei rimpatri forzati
Tra il 2004 e il 2005 il governo inaugurò le espulsioni collettive Il provvedimento violava la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Era già successo cinque anni fa, a partire dall’ottobre del 2004 e fino al 17 marzo del 2005. Quel giorno, per decongestionare Lampedusa, il governo (presidente del Consiglio Berlusconi, ministro dell’Interno Pisanu) aveva autorizzato il rimpatrio forzato in Libia di 180 cittadini stranieri. L’operazione era stata subito denunciata dall’Alto commissariato delle nazioni unite e dal Consiglio italiano dei rifugiati. Quindi un gruppo di europarlamentari aveva presentato una risoluzione che il 15 aprile del 2005 era stata approvata. Una risoluzione di condanna. «Il Parlamento europeo - c’era scritto - ritiene che le espulsioni collettive di migranti verso la Libia costituiscano una violazione del principio di non espulsione e che le autorità italiane siano venute meno ai loro obblighi internazionali omettendo di assicurarsi che la vita delle persone espulse non fosse minacciata nei loro paesi d’origine».
Il metodo adottato dal governo italiano violava non solo l’articolo 10 della Costituzione (quello che prevede il diritti d’asilo) ma anche la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati (che esige un esame caso per caso dei provvedimenti) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta le espulsioni collettive). L’orientamento espresso dal parlamento di Strasburgo fu confermato, nel mese di maggio, dalla Corte europea che accolse un ricorso contro le espulsioni.
Il «respingimento» nel porto di Tripoli dei 227 migranti intercettati nel Canale di Sicilia ha, dal punto di vista formale, una diversa natura: i migranti non hanno messo piede nel territorio italiano ma sono stati messi nell’impossibilità di raggiungerlo. Sul piano sostanziale, tuttavia, i rilievi del 2005 valgono integralmente. La condanna dell’Italia si fondava anche sul fatto che la Libia «non offre garanzie efficaci dei diritti dei rifugiati e pratica arresti, detenzioni ed espulsioni arbitrari». La risoluzione inoltre sottolineava le «deplorevoli» condizioni di vita dei reclusi nei campi libici. Dei lager dove i prigionieri vengono spesso sottoposti a violenze. Sorte toccata anche a molti degli espulsi dall’Italia.
L’intervento dell’Europa nel 2005 era stato accolto con grande soddisfazione dalle associazioni umanitarie. La speranza era che il forte richiamo al dovere di rispettare le norme internazionali avrebbe spinto il governo italiano a interrompere le espulsioni sommarie. Nessuno, allora, poteva immaginare che il metodo condannato dall’Europa sarebbe diventato la regola.
C’è un rapporto inversamente proporzionale fra la popolarità di Silvio Berlusconi e la libertà d’informazione nel nostro Paese. E non dev’essere una coincidenza del tutto occasionale.
Mentre il premier-tycoon rivendica pubblicamente - ultimi sondaggi alla mano - di aver raggiunto (per ora) il 75,1 per cento dei consensi e di aver superato così anche il presidente americano "bello e abbronzato", Barack Obama, proprio dagli Stati Uniti arriva la notizia che l’Italia viene declassata per la prima volta da Paese "libero" (free) a "parzialmente libero" (partly free). Siamo l’unico caso nell’Europa occidentale, preceduti di una sola posizione dalla Grecia che però mantiene la valutazione "free". Né può confortare la constatazione di ritrovarci allineati, in questa assai poco edificante classifica, alla Turchia.
A dirlo, non sono però i soliti giornali di sinistra che riescono a ingannare nell’intimità familiare perfino la signora Veronica Lario in Berlusconi. Per ironia del destino, il giudizio sul governo del Popolo della libertà reca l’imprimatur di "Freedom House", la Casa della Libertà, l’organizzazione autonoma americana che esamina dal 1980, cioè da prima della fatidica "discesa in campo", lo stato dell’informazione in 195 Paesi di tutto il mondo. Si tratta, dunque, di una retrocessione su scala planetaria che relega l’Italia al settantatreesimo posto, dopo Benin e Israele.
Qual è esattamente la motivazione? Ecco il testo dell’inappellabile sentenza: "Nonostante l’Europa occidentale goda a tutt’oggi della più ampia libertà di stampa, l’Italia è stata retrocessa nella categoria dei Paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell’eccessiva concentrazione della proprietà dei media". Sono più o meno gli stessi argomenti che fanno scandalo quando li pronuncia Sabina Guzzanti dal palcoscenico, nel suo provocatorio spettacolo di satira e denuncia politica intitolato "Vilipendio".
A conferma poi del fatto che questa non è una mania nostrana né tantomeno un’ossessione, il verdetto di "Freedom House" cita esplicitamente la "concentrazione della proprietà dei media" e quindi la mai abbastanza vituperata legge Gasparri con cui il precedente governo Berlusconi introdusse norme che - secondo l’organizzazione autonoma americana - favoriscono l’azienda televisiva del medesimo Berlusconi. La conclusione, già ampiamente nota ai lettori di questo giornale, è che il nostro presidente del Consiglio possiede Mediaset e, attraverso il governo, controlla anche la Rai.
Per completezza dell’informazione, dobbiamo aggiungere che su un universo di 195 Paesi solo 70 sono classificati "free", pari a poco più di un terzo; 61 sono "parzialmente liberi", come noi; e 64 "non liberi". La situazione è particolarmente peggiorata, oltre che in Italia, nell’Est asiatico, a cominciare dalla Cambogia. Mentre nell’Europa occidentale, a giudizio di "Freedom House", i Paesi più liberi risultano - nell’ordine - l’Islanda al primo posto, poi al secondo la Finlandia e la Norvegia, seguiti da Danimarca e Svezia.
In attesa ora che la crescente popolarità di Berlusconi conquisti anche il residuo 24,9 per cento dei consensi, converrà magari programmare un viaggio verso Nord, ai confini della realtà, per verificare in loco le condizioni effettive della libertà di stampa. Chi vuole, eventualmente, può staccare il biglietto di ritorno anche dopo.
In Rutulia sta diventando un lusso dire le cose come stanno, chiamandole col loro nome: ad esempio, che Leviathan, alias Caimano, abbia circuiti mentali, stile, gusti, look, spiriti animali del gangster; molti lo pensano ma la frase non risuona, così cruda, nei luoghi della parola politica, sebbene sia obbligo morale dirlo quando de re publica agitur, la res publica su cui mette le mani. Stavolta il corrispondente dello «Stylus» racconta discorsi sans gêne colti in privato. S’è fatto consacrare immune, nota uno dei causeurs: qualunque delitto commetta, non è perseguibile; e aveva accumulato enorme fortuna con affari oscuri, campagne piratesche, frode, falso, corruzione. Buttava sul tavolo 20 miliardi d’euro: una briciola rispetto ai profitti lucrabili da chi comandi spesa pubblica, politica monetaria, leva fiscale, azione penale, macchina legislativa; «credete che dica il rosario nel Palazzo o progetti le sue esequie come Carlo V a Yuste?». S’è talmente infiltrato nell’economia rutula da manovrarla come bottega sua, solo che voglia. Può lucrare su tutto, tale essendo l’unica operazione in cui riesca, da maestro. Qui salta fuori uno splendido disegno satirico, dove veste l’abito talare: stola al collo, sorride aprendo mascelle d’alligatore; il berretto d’arciprete è una poltrona. Sarebbe il colmo dell’antinatura, continua l’analista, se a settantatré anni diventasse servitore asceta del bene pubblico, avendo sotto mano un paese da spolpare impunemente. «Guardatelo, che enorme fagocito, compra i colonnelli d’un partito e lo ingoia». Poi l’entretien passa al versante psichico: egomania, loquela enuretica, ipertrofia d’un Io priapesco, autocompianto, deliri; inveisce contro i giudici, chiamandoli malati mentali (meno i corrotti beninteso), o li paragona ai poliziotti assassini della Uno Bianca e invoca verdetti plebiscitari; prende pose da re taumaturgo e consolator afflictorum; nei consessi planetari gode la fama del sinistro buffone. C’è chi perde l’olfatto o l’udito: lui non ha mai posseduto l’organo che discerne vero e falso, né sa cosa significhi decenza; e se acquisisse tali facoltà, perdendo l’impeto mistificatorio, sarebbe la fine dell’impero. Dati i precedenti non stupiscono i gesti criminofili: garantisce l’impunità dei colletti bianchi, purché stiano dalla sua (vedi come assolve i falsari in bilancio o difende gl’impresari edili che frodavano su cemento e ferro in terra sismica); ma chiede poteri abnormi a tutela dell’ordine e appena abbia rimosso le ultime resistenze, lo imporrà pro domo sua, l’ordine che regna a Varsavia, cominciando da pensiero e parola.
Il punto interessante è come gente sveglia nel calcolo degl’interessi abbia potuto assuefarsi allo stato servile in cui la tiene costui. «Codice genetico», risponde l’interlocutore bibliofilo, aprendo un raro incunabolo: Tractato di Frate Hieronimo da Ferrara [...] circa el reggimento et governo della città di Firenze, senza note tipografiche ma l’ha stampato Bartolomeo de’ Libri, 1498; e spiega come sia nato, libello politico in una congiuntura cruciale. L’autore, in rotta con la Corte romana e sotto scomunica, scrive a richiesta dell’ultimo governo bimestrale amico: gli restano poche settimane; è un fondamentalista collerico; formidabile atleta del pulpito, ha commesso degli errori e li aggrava barando; perderà ogni credito ma intellettualmente e in levatura etica soverchia gli avversari. Le venti carte (41 facciate) contengono tre opuscoli. Il capitolo II del secondo è un ritratto del tiranno, sotto vari aspetti attuale.
Il nome indica l’«uomo di mala vita [...] che per forza sopra tutti vuole regnare», gonfio dentro, quindi invidioso. «Gran fantasie, tristizie, timori [...] lo rodono»: ha bisogno d’un divertissement (concetto chiave delle Pensées pascaliane, edite 172 anni dopo); infatti, «rare volte o forse mai» vediamo «tiranno che non sia lussurioso»; e siccome i divertimenti costano, «inordinatamente appetisc[e] la roba, onde ogni tiranno è avaro e ladro», da cui segue che «abbia virtualmente tutti li peccati del mondo». Iracondo, vendicativo, sospettoso, «molto vigilante»: versa in uno stato «che è difficile, anzi impossibile» mantenere indefinitamente, «ed essendo il fine cattivo», lo sono anche i mezzi; atti casualmente buoni conservano «quel perverso stato». In politica segue tre massime: «prima, che li sudditi non intendano cosa alcuna»; seconda, li vuole discordi, «et etiam» i ministri, consiglieri, familiari, così «favorisce una delle parti, la quale tiene l’altra bassa e [lo] fa forte»; terza, non tollera «uomini eccellenti». Gli viene comodo un popolo dalle teste spente, perciò fornisce «spettacoli e feste». «Onora gli adulatori» e «ha in odio chi dice la verità»: coltiva «le amicizie de’ signori e gran maestri forestieri, perché li cittadini reputa suoi avversari e di loro ha sempre paura». Allunga le mani negli affari giudiziari. Col denaro pubblico edifica palazzi e templi, dove appende le sue insegne. Tiene a corte «cantori e cantatrici». S’alleva degli adepti pescando in basso. Espropria campi e case promettendo «il giusto prezzo e poi non ne paga la metà»: lesina la mercede alla servitù; paga i satelliti «con roba d’altri». Formandosi delle solidarietà, «esalta li cattivi uomini» che altrimenti «sariano puniti». Non c’è nomina in cui non metta becco, «insino alli cuochi del palazzo e famigli de’ magistrati». «Tutte le buone leggi» corrompe «con astuzia» e ne «fa continuamente a suo proposito». Ha spie e suggeritori dovunque sia esercitato qualche potere. «E chi sparla di lui, bisogna che si asconda perché lo perseguita [...] insino nelle estreme parti del mondo». Dà «udienza breve e risposte ambigue»: «vuol essere inteso a cenni»; spesso «schernisce gli uomini dabbene». «Vale più un minimo suo polizzino» o la parola d’uno staffiere «che ogni iustizia». Infine, dissemina «ruffiani e ruffiane». «Insomma, sotto il tiranno» non esiste «cosa stabile», dipendono tutte dalla sua volontà. Qui i conversanti discutevano: fin dove l’attuale padrone rutulo sia riconoscibile nel ritratto dipinto da fra’ Girolamo; e quanta impronta servile resti nell’eredità etnica.
Spero non vi stupirà che io parta, in questa mia riflessione, da un racconto personale. Sono in effetti convinto che non sia superfluo ricordare – anche col contributo di chi può darne testimonianza – di quale storia sia figlia la nostra democrazia repubblicana, e quella Costituzione che ne rappresenta insieme lo spirito, l’impalcatura e la garanzia. Non è superfluo vista la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia un’acquisizione sofferta collocandola nel grande solco del pensiero e del progresso liberale e democratico dell’Europa e dell’Occidente.
Parto dunque dal racconto personale.
Avevo appena compiuto diciott’anni quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini. Imprevedibile anche nella forma, che aveva un sapore di rito antico, da lungo tempo dimenticato: accettazione, da parte del Capo dello Stato, delle dimissioni del Capo del governo. Si seppe poi che il dimissionamento di Mussolini era stato provocato dal fatto, anch’esso inaudito, di un voto di sostanziale sfiducia adottato, con sorprendente procedura democratica, dal massimo organo dirigente del Partito al potere, di cui Mussolini era sempre stato arbitro assoluto. Al fondo di quei pur imprevedibili eventi vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell’andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione. Di questo ero stato anch’io testimone e partecipe vivendo l’odissea dei cento bombardamenti che avevano colpito la città di Napoli.
La notizia della caduta di Mussolini e del suo governo suscitò perciò un immediato senso di liberazione: dal fascismo e, ci si illuse, dalla guerra. Torno con la mente alla sera del 25, e ancora ricordo come condivisi con l’amico che mi era più vicino quel momento di eccitazione e di euforia. Avevamo già da tempo maturato, insieme con altri della nostra generazione, non solo la più radicale contrapposizione al fascismo ma anche la convinzione, cui pure non era stato facile giungere, che la salvezza per l’Italia potesse venire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate. E in effetti fu determinante l’avvicinarsi delle forze anglo-americane, dalla fine del 1942, al territorio italiano fino ad invaderlo e percorrerlo a partire dal Sud, dalla Sicilia.
Le posizioni cui ero venuto aderendo da quando nel primo semestre del 1942, frequentando l’ultimo anno di liceo a Padova, avevo scoperto la politica e l’antifascismo, potei ritrovarle e approfondirle nel gruppo di giovani di cui entrai a far parte iscrivendomi all’Università di Napoli. Ma quelle posizioni non potevano abbracciare le conseguenze che avrebbe avuto il ritiro dell’Italia sconfitta dalla alleanza con la Germania nazista. All’indomani della liberazione di Napoli dal terrore tedesco e dell’arrivo delle truppe alleate alla fine di settembre del 1943, ebbi la percezione più diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, chiamata a vivere, dopo la liberazione, l’esperienza dell’occupazione americana: un’esperienza caotica e febbrile, per il “saltare del coperchio” – secondo il ricordo e la descrizione dell’allora giovanissimo scrittore Raffaele La Capria – per il cessare della lunga “costrizione (parole, sempre, di La Capria) del regime, della guerra, dei bombardamenti quotidiani, della paura, della fame, dell’isolamento.”
La realtà del paese era questa – non facile oggi da immaginare per chi non ne abbia personale memoria come me, e perciò ho voluto rievocarla – ed era quella della guerra che (lungi dal concludersi secondo le speranze del 25 luglio) continuava a flagellare il resto dell’Italia rimasta nel cerchio dell’oppressione nazista, da Roma in su, lasciando dovunque un’eredità di lutti e di macerie.
Fu dunque da una realtà disperante che si dové partire per rifondare la democrazia in Italia. Valgano le scarne, drammatiche frasi annotate nel suo diario, il 15 dicembre 1943, da un grande intellettuale antifascista, Benedetto Croce, identificatosi da studioso con la causa dell’unità italiana e con la storia dello Stato unitario :
“Sono sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, è distrutto. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire, senza più guardare indietro, frenando il rimpianto.”
In effetti, quelle forze ideali si manifestarono nello stesso non breve tempo dell’occupazione tedesca nel Centro-Nord – in una Italia “tagliata in due” – attraverso lo sviluppo della Resistenza in armi e di una generosa mobilitazione di popolo in nome della libertà, dell’indipendenza, della dignità della patria italiana.
Ma, finita la guerra, l’avvenire andava affrontato avviando la ricostruzione materiale del paese paurosamente sconvolto e immiserito, e ripristinando condizioni essenziali di governabilità democratica. E questa prima tappa fu percorsa sotto la guida dei governi di coalizione antifascista che si succedettero tra l’aprile del 1944 e il 1945 a Liberazione dell’intera Italia ormai conclusa. Le tappe successive furono quelle che scandirono un impegno di ricostruzione, non meno necessaria e vitale, sul piano politico e statuale. Con la creazione della Consulta nazionale si diede vita a un organismo rappresentativo – ancorché non elettivo – del risorto pluralismo politico. Con l’istituzione del Ministero per la Costituente si gettarono le basi di quella che avrebbe dovuto essere la missione di un’Assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare una Carta Costituzionale. Infine, con il riconoscimento del diritto delle donne a votare, e ad essere elette, già nelle prime libere elezioni amministrative, si predisposero le condizioni perché le decisive prove del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente si svolgessero finalmente, per la prima volta nella storia d’Italia, a suffragio universale.
Così rinacque la democrazia in Italia, su basi più ampie e solide che mai nel passato; e rinacque in pari tempo con il ricostituirsi dei partiti, dei sindacati, di altre organizzazioni sociali e libere associazioni, di organi di stampa indipendenti e rappresentativi di una pluralità di opinioni; rinacque con il crescere di una partecipazione senza precedenti dei cittadini alla vita pubblica. Non voglio, sia chiaro, suggerire un’immagine idilliaca di quegli anni da cui sarebbero scaturite la scelta della Repubblica e la Costituzione; l’acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata; e dinanzi al rinascente ruolo dei partiti sorse anche un movimento per contestarlo, (il cosiddetto “Uomo Qualunque”) e non senza successo. Ma non c’è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall’alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l’elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l’avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall’antifascismo – della Costituzione repubblicana.
Il confronto in Assemblea Costituente e il suo approdo finale, il testo votato da una maggioranza del 90 per cento il 22 dicembre 1947, furono, certo, profondamente segnati dalle dure lezioni del passato – il crollo dello Stato liberale, l’avvento di una dittatura personale e di partito, la scelta fatale delle guerre di aggressione. Ma essi rispecchiarono nello stesso tempo il tendenziale dinamismo della società italiana in condizioni di ritrovata libertà, e lo slancio popolare verso un nuovo e più giusto ordine economico e sociale, verso un assetto autenticamente democratico.
La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere. Essa fu preparata da indagini a tutto campo e cospicue pubblicazioni del Ministero per la Costituente, che esplorò tra l’altro le Costituzioni e le leggi elettorali dei principali altri paesi, mettendo a confronto le esperienze altrui e le condizioni del nostro paese. La Carta che scaturì dall’Assemblea Costituente, nacque dunque guardando avanti, guardando lontano: essa seppe – partendo da esperienze drammatiche, di cui scongiurare ogni possibile riprodursi – dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell’Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche; quelle prospettive furono affidate a uno sforzo sapiente, nelle formulazioni e negli indirizzi della Carta, per tenere aperte le porte del nuovo edificio alle imprevedibili evoluzioni e istanze del futuro.
I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola.
Principi cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati; diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili.
Questo è un punto sul quale vale la pena di insistere. La Costituzione non è una semplice carta dei valori. Essa ha certamente una forte carica ideale e simbolica, capace di ispirare e unire gli italiani. Ma i suoi ideatori mirarono a farne un corpo coerente di principi e norme che avessero, senza eccezione alcuna, “un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione per il giudice”. Con quelle parole si espresse il Presidente della Commissione dei 75 che in seno all’Assemblea Costituente aveva predisposto il progetto di Costituzione; e la prima sentenza della Corte Costituzionale istituita nel 1955 stabilì che anche le disposizioni cosiddette programmatiche contenute nella Costituzione avevano rilevanza giuridica.
Insomma, la Costituzione repubblicana non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte; ma nemmeno si limitò a formulare valori nazionali, storico-morali, unificanti. La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata: applicata non una volta per tutte, ma in un processo inesauribile di adesione a nuove realtà, a nuove sensibilità, a nuove sollecitazioni. Così l’hanno intesa ed applicata governi e Parlamenti della Repubblica, così l’ha intesa, e ha vegliato sul suo rispetto, la Corte Costituzionale.
E’ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito e viene “disciplinata” la stessa volontà sovrana del popolo (Fioravanti 2009). Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l’elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone. Questa è caratteristica essenziale della moderna democrazia costituzionale, quale si è voluto fondarla in Italia, con il più ampio consenso, alla luce delle esperienze del passato e con l’occhio rivolto ai modelli dell’Occidente democratico. Comune a quei modelli, pur nella loro varietà, è il senso dei limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.
Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa: ben al di là di una superficiale e generica attestazione di lealtà. Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell’espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.
Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l’affermazione della sua intoccabilità. Ho già detto delle potenzialità che presentano principi e indirizzi introdotti nella Costituzione repubblicana in termini tali da tenere le porte aperte al futuro: è perciò giusto e possibile avere della nostra Carta una visione dinamica, scavare in essa per coglierne tutte le suggestioni attuali. Si deve così far vivere la Costituzione: come in sessant’anni si è già, attraverso molteplici contributi, teso concretamente a fare.
Nello stesso tempo, va ancora una volta ripetuto che gli stessi padri Costituenti vollero prospettare possibili esigenze e precise procedure di revisione della Costituzione. Il testo entrato in vigore il 1° gennaio 1948 è stato d’altronde già toccato, già riveduto in decine di articoli, qualcuno dei quali, in anni recenti, di notevole rilievo, e in un intero Titolo della Seconda Parte. E su ulteriori revisioni il discorso è non solo pienamente legittimo, ma per generale riconoscimento obbiettivamente fondato. Ad una revisione più ampia della Costituzione si lavorò concretamente in Parlamento nel 1993-94, nel 1996-97 e nel 2004-2006, sulla base di procedure esse stesse integrate rispetto a quelle segnate nell’art. 138.
Nessuno di quei tre tentativi di riforma – relativi alla seconda parte della Costituzione, e cioè all’“ordinamento della Repubblica” – è, in diverse circostanze e per diverse ragioni, andato a buon fine. Ma le forze politiche presenti in Parlamento convergono largamente sulla necessità che quell’“ordinamento” richieda di essere riveduto e adeguato in più punti. Non si può solo denunciare il rischio che esso sia stravolto. Si ricordi che se ne postulò, nel modo più autorevole già dopo le elezioni del 1992, una revisione che incidesse “nell’articolazione delle diverse istituzioni”: ridefinendone i caratteri, le prerogative, il modo di operare dell’una o dell’altra, e ridefinendo gli equilibri tra esse.
Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo – nell’esercizio del ruolo attribuitomi dalla Costituzione – esprimere indicazioni di merito, suggerire ipotesi di soluzione, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata “stagione costituente”. Non c’è da ripartire da zero; non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, da tendere a conflittualità rischiose e improduttive; occorre che da tutte le parti si dia prova di consapevolezza riformatrice e senso della misura.
Non c’è da ripartire da zero, anche perché sia attraverso revisioni parziali della Carta del 1948, sia attraverso innovazioni nelle leggi elettorali e nei regolamenti parlamentari, nonché in rapporto a cambiamenti prodottisi nel sistema politico, i termini di diverse questioni sono già sensibilmente mutati. E’ in corso una visibile evoluzione – in senso regionalistico federale – della forma di Stato; e in quanto alla forma di governo, pur essendo essa rimasta parlamentare, non trascurabili sono le nuove modulazioni che ha già conosciuto.
Nell’ambito della forma di governo parlamentare, che è quella di gran lunga prevalente in Europa, sono possibili, e in effetti si sono espressi, equilibri diversi tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e potere legislativo, e anche tra questi due poteri e quello giudiziario. La Costituzione italiana del 1948 fu certamente contrassegnata da un’accentuazione delle prerogative del Parlamento rispetto a quelle del governo. Le esigenze di stabilità e di efficienza decisionale di quest’ultimo rimasero allora in secondo piano. Ma molte cose sono via via cambiate, già negli anni ’80 con le riforme dei regolamenti parlamentari, e sempre di più a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare (in un suo recente scritto) “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.
E allora, è del tutto legittimo politicamente, ma partendo da questi dati di fatto, e dunque senza cadere in enfasi polemiche infondate, verificare quali concreti elementi di ulteriore rafforzamento dei poteri del governo, e di chi lo presiede, possano introdursi sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti.
Quel che è risultata, anche di recente, condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale. Ne scaturirebbe anche una razionalizzazione del processo legislativo, e con essa quel “legiferare meglio” che viene giustamente sempre più spesso invocato.
Vorrei però a questo punto allargare la visuale della mia riflessione per cogliere – al di là dello specchio spesso deformante delle dispute politiche strettamente italiane – questioni e dilemmi che attraversano, e già da tempo, il discorso sulla democrazia in Occidente. Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche: nelle quali, a una crescente complessità dei problemi e a un tendenziale moltiplicarsi delle domande e dei conflitti, non corrispondono capacità adeguate di risposta, attraverso decisioni tempestive ed efficaci, da parte delle istituzioni.
Nell’affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all’inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia “il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza”, esso stava finendo per assumere un segno opposto, “non l’eccesso ma il difetto di potere”. E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie”. Un monito, quest’ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.
Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull’altare della governabilità, in funzione di “decisioni rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.
Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare. Grande è certamente la difficoltà del governare in condizioni di pluralismo sociale, politico e istituzionale, e ancor più in presenza, oggi, della profonda crisi che ha investito le nostre economie. Ma non c’è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l’apporto della rappresentanza.
E a ciò non si sfugge nemmeno nei sistemi politico-istituzionali che sembrano assicurare il massimo di affermazione del potere di governo affidato a una suprema autorità personale. Mi riferisco naturalmente a sistemi e modelli autenticamente democratici come quello presidenzialista degli Stati Uniti d’America: dove, al di là del mutare o dell’oscillare, nel tempo, dell’equilibrio tra Presidente e Congresso, a quest’ultimo, cioè alla rappresentanza parlamentare, nella sua netta separazione dall’esecutivo, viene riservata sempre un’ampia area di influenza e di intervento – e in definitiva l’ultima parola – nel processo deliberativo. Anche nei momenti, aggiungo, di emergenza e urgenza nazionale, come ci dicono le recenti vicende del complesso rapporto – sul terreno legislativo – tra il nuovo Presidente, la nuova Amministrazione americana, e il Congresso degli Stati Uniti.
Si parla da tempo, e spesso, di crisi della democrazia rappresentativa, in riferimento all’indebolirsi delle sue istituzioni e della fiducia che in esse ripongono i cittadini. Ma da più parti si sono venute positivamente proponendo concezioni più ampie, che vedono – si è scritto – “la rappresentanza come processo che connette la società e le istituzioni”, che affidano alla politica le responsabilità di un legame operante “tra l’interno e l’esterno delle istituzioni politiche”, l’attivazione di una “corrente comunicativa” – espressione che a me pare molto felice – “tra società civile e società politica” (Urbinati, 2006). E in questo senso si è in effetti venuto aprendo il campo di ricerche e proposte interessanti per giungere a forme concrete di democrazia partecipativa e deliberativa diffusa: forme concrete sperimentabili in particolar modo attraverso il raccordo tra assemblee elettive regionali e locali e realtà associative e canali di consultazione e di coinvolgimento dei cittadini in trasparenti processi decisionali. Non una datata contrapposizione ideologica, cioè, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ma uno sforzo d’integrazione tra istituzioni, nell’esercizio delle loro funzioni e prerogative, ed espressioni di un più vasto moto di partecipazione democratica a tutti i livelli.
L’esigenza di suscitare la vicinanza e l’adesione, non passiva ma vigile e propulsiva, dei cittadini alle istituzioni democratiche, l’esigenza di evitare un fatale indebolimento di queste ultime per effetto di tendenze al distacco, alla sfiducia, all’indifferenza da parte dei cittadini, appare complessa come non mai nell’attuale fase storica – ed è questo l’ultimo punto che vorrei brevemente toccare.
E’ in atto da tempo un passaggio dalle dimensioni nazionali della sfera decisionale a dimensioni ultranazionali, europee e globali: e c’è da chiedersi se sia praticabile in questo nuovo contesto quella che si è venuta costruendo in Occidente come democrazia rappresentativa. Questa si impose – ha osservato un eminente studioso dei sistemi democratici, Robert Dahl – con il passaggio storico dalle città-Stato agli Stati nazionali: si è ora in presenza di un “cambiamento altrettanto importante per la democrazia” per effetto del passaggio delle decisioni pubbliche a dimensioni transnazionali.
Vengono di qui interrogativi di fondo sulla possibilità di controllare democraticamente le organizzazioni internazionali, le decisioni prese a quel livello. E questi interrogativi stanno assumendo – appare chiaro – una stringente attualità. Sulle risposte ipotizzabili il dibattito è aperto in tutta la sua complessità. Ma io desidero richiamare l’attenzione su un processo che è già in atto e che può rappresentare un approccio fecondo al discorso sul governo della globalizzazione: parlo del processo delle integrazioni regionali, continentali o sub-continentali, che si è concretamente prodotto in Europa ma tende a prodursi anche fuori d’Europa.
La Comunità e quindi l’Unione Europea hanno rappresentato forme originali, da oltre cinquant’anni a questa parte, di esercizio condiviso della sovranità al livello sovranazionale. Ed è peraltro un fatto che alla crescita di questa esperienza, dai primi Trattati tra i sei paesi fondatori in poi, si è accompagnata la preoccupazione di un deficit democratico, in quanto le decisioni si concentravano in istituzioni come la Commissione e il Consiglio che sembrarono a lungo sfuggire a un controllo democratico. A differenza, si diceva, delle istituzioni tradizionali degli Stati nazionali. Ma essendo un fatto irreversibile la perdita da parte di questi ultimi di quote crescenti della loro sovranità, imponendosi sempre di più – e mai come oggi questa ci appare un’esigenza imperiosa – decisioni e politiche comuni al livello europeo, non poteva non sorgere la questione del dar vita a istituti e forme corrispondenti di democrazia sovranazionale.
Ebbene, questa esigenza dopo essere rimasta, per non breve tempo, largamente insoddisfatta, ha via via trovato sbocco nel rafforzamento dell’investitura e del ruolo del Parlamento europeo. Non si può certo dire che ogni insufficienza, ambiguità e contraddizione, sia stata risolta. Ma passi in avanti decisivi sono stati compiuti, dall’elezione diretta, a suffragio universale, del Parlamento europeo all’attribuzione, che gli è stata sempre più riconosciuta, di poteri determinanti nella formazione delle leggi dell’Unione, e anche di più incisive funzioni di indirizzo e di controllo nei confronti dell’esecutivo, identificato nella Commissione di Bruxelles. Il Parlamento europeo si sta dunque affermando come l’istituzione sovranazionale per eccellenza e come garante della legittimità democratica dell’Unione: dovrebbero esserne consapevoli gli elettori chiamati di qui a poco a votare per il Parlamento di Strasburgo.
Nello stesso tempo, con il Trattato costituzionale poi abortito ed egualmente, però, con il Trattato di Lisbona di cui si sta completando la ratifica, si sono aperte nuove possibilità di cooperazione e sinergia tra istituzioni europee, segnatamente il Parlamento europeo, e i Parlamenti nazionali; e nuove possibilità di comunicazione e di dialogo strutturato tra istituzioni europee e società civile. Non a caso dunque l’esperienza dell’integrazione europea viene ormai assunta come riferimento – anche sotto il profilo della governabilità democratica – per gli analoghi processi che si avviano in altri continenti e per le strade da intraprendere sul piano globale.
L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta. Per consolidare, far vivere e crescere la democrazia in Italia e in un mondo in così impetuosa trasformazione, bisogna non solo “presidiare” la Costituzione, tutelare e riaffermare i principi e i diritti che essa ha sancito alla luce di dure lezioni della storia; bisogna di continuo calarla nel divenire della società italiana e anche della società internazionale.
Sappiamo quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese: orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano via via nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.
In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane – vere e proprie, preziose riserve di energia – su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale. Se ne può trarre, io credo, un buon auspicio anche per il manifestarsi, più in generale, di quella sensibilità democratica e di quell’impegno dei cittadini, a sostegno dei principi e degli indirizzi costituzionali, di cui ho appena indicato la necessità. Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri – perciò, oggi, di lì ho voluto partire – si è mostrata capace. L’occasione per mostrarcene ancora capaci è data dalla crisi profonda che ha investito, in un contesto mondiale nuovo e complesso, l’economia e la società italiana. L’appello è ad esserne, ciascuno di noi, pienamente all’altezza.
Fai ricorso al Tar? Se perdi paghi milioni di euro di «risarcimento danno».
È il destino che potrebbe toccare alle associazioni ambientaliste se passasse la proposta di legge del Pdl, primo firmatario l'onorevole Michele Scandroglio, presentata alla Camera lo scorso 10 marzo. I parlamentari del Popolo della Libertà, pur ammettendo che «le istanze ecologiste hanno contribuito alla crescita di una diffusa attenzione al territorio di riferimento», vedono in questi ultimi anni inaccettabili proteste contro «scelte infrastrutturali sviluppate da soggetti pubblici e privati, tali resistenze sono conosciute con l'acronimo Nimby». E attaccano gli «strumentali» appelli alla magistratura per «fermare i lavori». Insomma, le opere volute dal governo devono andare avanti. A qualsiasi costo. Senza considerare il volere dei cittadini, l'impatto ambientale e le ricadute sulla salute della popolazione.
Per questo la proposta di legge propone la modifica all'articolo 18 della legge numero 349 (quella che regola i diritti delle associazioni riconosciute dal ministero dell'Ambiente) con due commi. Il 5 bis recita: «Qualora il ricorso al Tar sia respinto, ai soggetti soccombenti che hanno agito o resistito in giudizio con malafede o con colpa grave si applicano le disposizioni dell'articolo 96 del codice di procedura civile». Ovvero risarcimento del danno materiale e morale, le spese della sentenza e l'apertura di nuovo procedimento davanti ad un giudice per capire l'entità della "lite temeraria" (in poche parole un'altra sanzione). Poco più blando il 5ter che prevede solo un «risarcimento del danno oltre alle spese del giudizio, qualora il ricorso sia respinto perché manifestamente infondato». La costruzione in Italia di rigassificatori, inceneritori, discariche, alta velocità, discariche e mega-ponti deve avvenire il più presto possibile. «In nome della modernità», per il Pdl.
Intanto gli ambientalisti insorgono vedendo nella proposta di legge presentata un «attentato alla democrazia», una «scelta autoritaria» e «terrorismo per imbavagliare il dissenso». Centinaia sono i ricorsi presentati, molti dei quali vinti: l'ultimo qualche mese fa sull'alta velocità sul tratto Bologna-Firenze, con la condanna dei vertici della Caveat. Altri però vengono persi, come quello di Legambiente che si era appellata al Tar per l'alluvione di Sarno del '98 accusando l'amministrazione di «cattiva gestione». «In quel caso quanti soldi avremmo dovuto tirar fuori?» si domanda un membro della segreteria, Nunzio Cirino, che vede nel governo «tratti dispotici» e auspica «una ferma opposizione parlamentare».
Opposizione nella quale non crede Ciro Pesacane del Forum Ambientalista, che ricorda come già in passato «Berlusconi abbia provato ad imporre le sue infrastrutture con l'invio di militari e la nomina di super-commissari: scelte antidemocratiche che calpestano le volontà popolari». Decisioni "muscolari" per affrontare l'egoistica sindrome Nimby, secondo l'esecutivo. Non la pensa così Cinzia Bottene dei no-Dal Molin. «È un pretesto - accusa - la nostra lotta parla di partecipazione e difesa dei beni comuni ed è in connessione con molte altre realtà nazionali. Nessuna difesa del nostro orticello». Tra l'altro a Vicenza stanno aspettando la sentenza del Tar per un ricorso presentato da Legambiente, Unione consumatori e singoli rappresentanti del comitato. Stessa musica per il ponte sullo Stretto di Messina con Italia Nostra, Wwf e sempre Legambiente che hanno fatto appello per «rivedere» la procedura d'impatto ambientale dell'opera. «La proposta di legge presentata - spiega Daniele Ialacqua dei no-Ponte - è incostituzionale perché discrimina determinati soggetti». Al momento è così: solo le associazioni ambientaliste riconosciute «nazionalmente o almeno in 5 regioni» rientrano nel progetto del Pdl alla Camera ma presumibilmente sarà esteso, in futuro, anche alla decina di comitati territoriali esistenti. A quel punto i ricorsi coinvolti sarebbero migliaia. Per Vanessa Ranieri, presidentessa del Wwf Lazio, il governo «in maniera illegittima toglie uno strumento fondamentale in questi anni per gli ambientalisti».
E di questo è consapevole la maggioranza che va diritto come un treno, forse ad alta velocità, verso le maxi-infrastrutture, imbavagliando qualsiasi opposizione. Comunque le associazioni e i comitati pensano di organizzare «un'azione comune» contro la proposta di legge, nel caso dovesse passare, e di «non farsi intimidire: andremo avanti coi ricorsi».