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Il diciassette per cento delle famiglie, una ogni sei, arriva alla fine del mese con molta difficoltà. Lo afferma un'indagine dell'Istat, l'Istituto nazionale di statistica. Il dato riguarda la situazione di un anno fa, e mostra un peggioramento rispetto al 15,4 delle famiglie nella stessa condizione rilevato un anno prima. Non occorre un profeta di sventura per immaginare che la povertà di quel tipo abbia raggiunto, alla fine del 2009, ancora più famiglie, ancora più persone: chissà, una ogni cinque, tanto per indicare un possibile obiettivo. Ironicamente, si può indicare l'obiettivo dell'una su cinque al governo, perché possa vantarsene nelle sedi internazionali.

Nel frattempo il governo vanta altri successi: con lo scudo fiscale sono rientrati 95 miliardi di euro, con un gettito di 4,75 miliardi. Il conto non fa una grinza. L'imposta era pari al 5% e ora questi soldi sono liberi, «liberi soldi in libero stato». Quale che fosse l'origine, anche la più depravata, ora sono quattrini come gli altri. Non hanno più peccati: si sono confessati - in privato, dal commercialista di fiducia - hanno fatto la penitenza del 5% e ora sono candidi e pronti a nuove avventure. Il governo ha assicurato che si trattava di un'occasione irripetibile, ma in modo scherzoso, strizzando l'occhio. Infatti l'irripetibilità si è già trasformata in una proroga - con l'aliquota al 6 e al 7% - e tutto lascia pensare che ci saranno altri scudi fiscali; e altri ancora.

Si è aperta una voragine tra quelli che non arrivano alla fine del mese e questi che riportano indietro i soldi a colpi di scudo fiscale. Tra chi non ha di che comprare un abito necessario e chi ha solo il dubbio di scegliere leannate di vini preziosi. Un fossato c'era già, ma non di queste dimensioni. Un paese spaccato in due, a Natale.

Il governo, il partito di maggioranza, l'alleato leghista hanno fatto acutamente il loro dovere. Hanno favorito gli interessi dei loro rappresentati, offrendo molto e chiedendo consenso. Intorno hanno saputo costruire una vasta alleanza di persone spaventate, con poco da perdere ma molta paura di perderlo. E un modello di ricchezza alla portata di tutti, di sfida tra tutti per raggiungerla, di gara continua, che soltanto chi bada ai propri interessi, e basta, può vincere.

Chi invece non arriva alla fine del mese, non ha rappresentanti. I precari, i senza lavoro, le famiglie povere non hanno un partito di opposizione che interpreti i loro interessi. A parole alcuni partiti dicono di farlo, ma sono incredibili. Non riescono a non essere bipartisan: con il popolo e con i profeti liberisti. Protestano per i licenziamenti, ma sostengono le liberalizzazioni.

I poveri sono soli; dalla loro, in parte, la Chiesa. La Chiesa che però li esorta a non ribellarsi.

«Lo Stato è con voi».Con queste parole Guido Bertolaso ha salutato ieri gli alluvionati di Lucca. Chissà se potrà dire lo stesso tra qualche mese, quando sarà operativa la Protezione Civile Spa varata con il decreto milleproroghe (ma non ancora pubblicata in gazzetta)? È quello che gli chiederanno oggi i lavoratori del dipartimento, in un comunicato di fuoco. Ed è quello che tutti i cittadini dovranno chiedersi, d’ora in poi, in parecchie occasioni. Dove va a finire lo Stato con la Difesa Spa inserita in Finanziaria? Dove va a finire con la privatizzazione obbligatoria dei servizi idrici, disposta nel decreto Ronchi? In questo scorcio del 2009 il centrodestra al potere ha realizzato buona parte del suo disegno demolitore dei servizi pubblici.

NUOVO STATO

Ma non sempre lo Stato è «retrocesso ». Anzi. In alcune occasioni si è fatto fin troppo avanti, invadendo campi che non gli sarebbero propri. Èil caso della Banca del Mezzogiorno. Giulio Tremonti avrebbe voluto un’istituzione direttamente dipendente dal Tesoro. Ma la legge lo impedisce, così ha dovuto ripiegare su un comitato promotore «caldeggiato» dal dicastero. Protagonismo pubblico anche nei rapporti (tipicamente di mercato) tra banche e imprese, dove Tremonti ha «benedetto » intese, accordi, concertazioni, solitamente lasciate alle iniziative del business. Così in questi pochi mesi lo Stato ha cambiato forma e funzione: non più garante di servizi universali,maattore in «giochi» economici. Una trasformazione in cui a perdere sono proprio le fasce deboli.

Nella sua lettera d’auguri di fine anno ai dipendenti, Bertolaso parla di «una nuova società destinata a facilitare il nostro lavoro, una diversa struttura per la gestione dei grandi eventi». La Protezione Civile Spa servirebbe a questo: rendere le cose più facili. Non una parola sui rapporti istituzionali con le amminitrazioni locali. Il capo dipartimento parla di «una piccola flotta» di persone, che «al timone avrà gente nostra» (vuol dire competente e addestrata dall’esperienza della Protezione Civile). Ma francamente il senso dell’affiancamento di una «flottiglia» alla «nave madre» non si comprende affatto. Il vero senso resta nascosto: la verità è che se finora lo Stato si faceva garante delle emergenze nazionali, attraverso i canali istituzionali, d’ora in poi si creerà un centro di gare d’appalto che deciderà i lavori da effettuare e le aziende coinvolte.

Non sembra esattamente la stessa cosa. Business e stellette, invece, nella Difesa Spa. Al nuovo organismo, voluto da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto, si affidano le attività di «valorizzazione e gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari ». Questa la vera partita, che fa gola ai vertici del ministero, chiamati a scegliere l’intero board della nuova società senza alcun filtro pubblico. La foglia di fico, propagandata soprattutto da Crosetto, sono i diritti sull’immagine dei simboli militari che d’ora in poi l’esercito potrà pretendere. Saremmo curiosi di sapere quanto pagherà Mediaset per una ipotetica fiction sui Carabinieri o sui paracadutisti.

Tutti da verificare anche i vantaggi economici della privatizzazione dei servizi idrici imposta per decreto agli enti locali. La disposizione è passata grazie alla fiducia, e con parecchi mal di pancia soprattutto della Lega. Nel testo si precisa che la proprietà pubblica del bene acqua dovrà essere garantita (grazie a unemendamentoPd) e che ad andare a gara è soltanto la distribuzione. L'articolo in questione prevede che la gestione dei servizi pubblici locali sarà conferita «in via ordinaria» attraverso gare pubbliche, mentre la gestione in house sarà consentita soltanto in deroga e «per situazioni eccezionali ». Le deroghe alla gara sono soltanto virtuali: lo sanno bene i cittadini che in alcune zone dove il pubblico è efficiente hanno cominciato a protestare. Manon sono stati ascoltati.

I buoni e i cattivi

«Penso che il clima politico sia cambiato in meglio.... e sembra che la stragrande maggioranza degli uomini politici si siano iscritti al nuovo partito che qualcuno, ironicamente, ha chiamato dell'amore» è il dolce prologo di Berlusconi al suo ritorno in campo, e alla promessa di fare «tutte le riforme entro il 2010». Quel qualcuno è il manifesto (16 dicembre) che così titolava la campagna natalizia del presidente del consiglio, alla quale si è affiancato il papa, che cautamente ha fatto una variazione sul tema e ha parlato di «civiltà dell'amore», tanto per non condividere le coloriture hard del partito coniato da Moana Pozzi. Partito inaugurato virtualmente ieri nell'Amelia di Don Gelmini, il prete sotto accusa di pedofilia e ridotto allo stato laico, in teleconferenza con il Cavaliere e davanti ai vari Gasparri e Giovanardi, quello che amorevolmente disse di Stefano Cucchi «morto perché drogato».

Accomunati dallo status di bersaglio per troppa passione, i due leader perdonano entrambi il proprio persecutore, così come il Santo Stefano celebrato dal pontefice, il martire che «non si arrende di fronte al male». Questi appelli rivolti alla nazione per un «rinnovato impegno di amore vicendevole» (il papa) e di sollecitazione a «contrastare tutte queste fabbriche di menzogne, di estremismo e di odio» (Berlusconi) indirizzano lo sguardo pubblico verso soggetti istigatori di violenza, che avrebbero armato menti deboli, contro una chiesa e un governo uniti dai sacri «principi cristiani». Chi critica aspramente sia l'una che l'altro, è dunque catalogato nel novero dei «cattivi».

Il lessico religioso si espande e contagia le parole della politica, ed è tutto un valzer di sentimenti e figure ultraterrene, fino a «il premier è un diavolo» di Di Pietro, preso sul serio nella sua letterina a Gesù bambino, che da genere letterario retorico si trasforma nel titolo di prima pagina del Corriere della sera, dove si registrano le rinnovate sollecitazioni del Pdl al Pd per mollare l'Idv, il «partito dell'odio». Così il fumo dell'incenso oscura la realtà e distrae l'attenzione dall'Italia di fine anno che di aggressori ne conta più d'uno.

Con chi, secondo le esortazioni di un Vaticano pronto a santificare Pio XII, l'opposizione dovrebbe abbracciarsi per agevolare un «clima d'intesa che favorisca il bene comune»? Con la città di Coccaglio che da giorni conduce rastrellamenti tra gli immigrati casa per casa per assicurarsi un «White Christmas»? Con chi permette la dissoluzione del concetto di solidarietà e fa passare le feste ai cassintegrati sui tetti e ai pendolari sui binari resi morti dalla Freccia rossa? Con i legislatori che negano ai bambini nati chez nous di diventare cittadini italiani? Con i responsabili del record di suicidi in carcere (ieri una trans brasiliana si è impiccata nel Cie di Milano)?

C'è un paese colpito da ogni tipo di vendetta sociale, dilaniato nelle sue istituzioni, dal Quirinale alla Costituzione, e al quale viene fatta la predica, state buoni, lasciate lavorare i moderati. Ora, non c'è niente di più violento e cinico del moderato, di chi finge di non vedere la violenza e il cinismo, e accusa gli oppositori di «gesti inconsulti», tutti psicolabili, tutti pericolosi. E se è questo il «partito dell'amore», primi firmatari Ratzinger-Berlusconi, andiamo volentieri all'inferno.

Fermi tutti, è l'anno dell'amore

Alessandro Robecchi

Arriva il 2010: portatevi coperte e panini, non si sa mai, metti che lo fanno gestire alle ferrovie e arriva il 3 febbraio. Secondo Silvio Berlusconi sarà l'anno dell'amore, anche lui ha una certa età, non è che può essere sempre l'anno del sesso, come il 2009: non so che anno cinese sarà il 2010, ma qui il 2009 era di sicuro l'anno del maiale. Bei tempi, il 2009, ricordate? Silvio non era ancora diventato buono e Bondi non era ancora diventato cattivo, questo tanto per dire che razza di 2010 ci aspetta.

Comunque buono a sapersi: uno può rompere i maroni all'intero mondo, insultare tutti, querelare, cercare di fregare la giustizia, affossare il paese, circondarsi di belle pupe, fare un regalo agli evasori, andare a mignotte e poi, di colpo dire, alt! È l'anno dell'amore, fermi tutti, pace! Pace! È comodo. È come avere il Tg5 incorporato: la crisi non c'è, i lavoratori se la spassano. Che problema c'è? Basta mentire, no? Un conto è dire: «cara, non è come pensi, posso spiegarti tutto...». E un conto è avere il Tg5 che dice: «Signora è un equivoco!».

Inizialmente a Silvio 'sta faccenda dell'anno nuovo non gli piaceva, voleva passare direttamente al 2011, ne ha parlato con Ghedini. Poi ha svelato il trucco: era solo uno scherzo, voleva vedere se ci cascavamo. Naturalmente non c'è cascato nessuno. Solo D'Alema e Violante sono ancora lì al bar che dicono, beh, tutto sommato è ragionevole, ci si può mettere d'accordo, fare a meno del 2010 è un male minore. E quindi, ecco che 'sto benedetto 2010 arriva per davvero. Sarà l'anno dell'ottimismo e della positività e si eviteranno conflitti e cattiverie. Tutti con le mutande di ghisa, perché Lui andrà avanti con le riforme. E poi ci diranno dove fare le centrali nucleari, ma questo solo dopo le elezioni regionali, perché essere paraculi non è mica un reato, è proprio uno stile di vita. Auguri.

"Riforma" è la parola passepartout della politica italiana. Non c’è discorso politico che non la contempli. Negli anni della cosiddetta prima repubblica era la sinistra parlamentare che la invocava per marcare la fedeltà alla democrazia costituzionale e un’identità non rivoluzionaria. "Riforme di struttura" era una delle espressioni più spesso pronunciate nel Partito comunista (e per qualche tempo anche in quello socialista): voleva dire portare la democrazia oltre le istituzioni politiche; estendere i metodi elettivi di selezione e controllo nei luoghi di lavoro e nelle scuole; fare politiche di redistribuzioni per dare al maggior numero possibilità concrete di esercitare la cittadinanza. Questa è stata dal 1948 in poi, l’utopia riformatrice italiana. Alcune riforme importanti sono state fatte: gli Anni 70, ci hanno dato il decentramento amministrativo, un sistema sanitario e di previdenza nazionali, la pratica della concertazione tra le parti sociali per risolvere contenziosi sulle dinamiche salariali, le politiche occupazionali e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il termine riforma ha per decenni significato incremento e ampliamento della democrazia.

A partire dalla fine della Guerra fredda e del consenso largo che l’ha accompagnata, "riforma" è diventata una formula sulla quale si sono stabilizzati partiti nuovi o rinnovati nella convinzione che la crisi del sistema politico fosse essenzialmente una questione di ingegneria istituzionale e di tecnica elettorale. La retorica della riforma ha così cominciato a transitare dal sociale all’istituzionale. A partire dai referendum elettorali che si sono succeduti negli ultimi due decenni, le "riforme istituzionali" hanno sostituito nel linguaggio partitico le "riforme di struttura", con una modifica radicale: non solo i partiti di opposizione ma anche quelli di governo hanno preso a dirsi riformatori o riformisti.

Oggi, tutti auspicano, propongono, vogliono riforme, con il risultato che il termine ha perso il significato che nella tradizione politica moderna ha generalmente avuto: realizzare le promesse scritte nella carta dei diritti costituzionali. L’esito è che riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale. Infine, dalla nascita di Forza Italia ad oggi, e con una responsabilità nemmeno troppo velata dello schieramento opposto, la retorica delle riforme ha fatalmente esteso le sue mire sulla Costituzione e il sistema di giustizia. Non c’è settore della vita pubblica sul quale i nostri politici non si dilettino con proposte a volte bislacche e immaginifiche, sempre sollevando lo spettro dell’emergenza. La retorica delle riforme segue i cicli delle fortune politiche di chi la usa, la rilancia o l’atterra. Tutto il paese, noi tutti, dipendiamo da questi cicli e da questi leader guicciardiniani.

Con la recente riorganizzazione del Pd, la retorica delle riforme è tornata a fare da centro magnetico del discorso pubblico. Sul tappeto, non c’è la realizzazione delle promesse della democrazia, ma invece l’urgente bisogno del presidente del Consiglio di tutelarsi da possibili futuri guai giudiziari. L’attacco ai giudici comunisti si sta mescolando, colpevole il recente grave attentato alla sua persona, alla predica buonista della grande riconciliazione: "concordia" è la parola che torna spesso in questi giorni; non perché siamo in clima natalizio e la bontà di cuore è di pragmatica, ma perché si deve riuscire a convincere l’opinione pubblica che senza un intervento urgente per salvare il premier, sarà l’Italia intera a rimetterci. Bisogna far credere agli italiani l’opposto di quel che è, poiché è evidente che non è l’Italia ad aver bisogno di "queste" riforme.

Occorrerebbe aver il coraggio di dire che occorre conservare, non riformare: l’Italia ha urgente bisogno di conservare lo stato di diritto e il governo della legge. Scriveva Massimo Giannini su queste pagine alcuni giorni fa che esiste un condizionamento ferreo per il quale «se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura». In sostanza, la maggioranza non è autonoma; la sua politica è direttamente dipendente dalla necessità di "queste" riforme, e con essa lo è la vita intera del nostro paese.

Questa mancanza di autonomia politica della maggioranza non può essere trascurata dalle opposizioni. Anni fa si cercò con una regìa non dissimile di imbastire una bicamerale. Quale che fosse l’intenzione ragionata, si trattò di una politica improvvida perché ha abituato i politici a usare la nostra costituzione come merce di scambio per creare o affossare alleanze. In quell’occasione, i leader politici (allora al governo) non ebbero l’acume di imbrigliare il potere dell’interlocutore prima di farci compromessi politici. Non fecero caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare perché chi ha un potere sovrastante fa quel che vuole e non onora gli accordi.

Ora si ripropone uno scenario simile, con l’aggravante che quel potere esorbitante governa il paese e l’opinione pubblica. Non si tratta di resistere alle sirene della concordia per ragioni di pragmatismo, una forma nobile di politica che non ha nulla a che fare con il trasformismo ("inciucio" in gergo). E nemmeno di appellarsi alla fiducia nelle buone intenzioni del premier. Il veto viene da un fatto più semplice e che domina l’arena politica con la forza di una legge naturale: chi vuole "queste" riforme non può permettersi di ottenerne altre rispetto a quelle di cui ha urgente bisogno.

I fatti sono questi, e forse li ricorderete. Berlusconi, il 13 giugno, racconta ai giovani industriali riuniti a Santa Margherita Ligure che contro di lui c’è un «progetto eversivo» e invita gli imprenditori a «non dare pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo». Con chi ce l’ha? Il capo del governo lo spiega qualche ora dopo nella notte, al termine di una cena a Portofino con Marco Tronchetti Provera (Pirelli) e Roberto Poli (Eni). Dice: ce l’ho con i giornali «nemici», ce l’ho con Repubblica, quella gazzetta colpevole di fare qualche domanda di troppo, in quei mesi.

Sono subito in luce molte distorsioni in quel discorso. La pubblicità è lo strumento – può esserlo, deve esserlo, dice Berlusconi – per condizionare l’informazione, per indurre a più miti e malleabili scelte un giornale che ritiene di avere buone ragioni per criticare il governo. Nella prospettiva storta del Cavaliere, la pubblicità non è più l’arnese per affrontare la competizione economica, liberamente e con qualche vantaggio. Diviene un bastone per castigare il «nemico» diventato «eversore». Nella primitiva teologia politica inaugurata dal premier, è l’arma da usare – nel legittimo confronto delle idee – per difendere una maggioranza, il cui potere è il Bene, contro tutto ciò che vi si oppone, subito definito il Male. Il presidente del Consiglio esige quindi dagli imprenditori un’energica manomissione delle regole del mercato per punire chi disapprova la politica del suo governo o esamina le sue condotte pubbliche.

Bisogna chiedersi però se sia davvero soltanto il capo del governo a parlare a Santa Margherita ligure? È difficile non scorgere nell’obliqua esortazione del Cavaliere un groviglio che attorciglia l’uno sull’altro potere culturale, potere economico, potere politico. Berlusconi è il maggior editore del Paese: dunque, le difficoltà di un suo concorrente nell’editoria diventano un suo personale vantaggio. Berlusconi è anche il proprietario di Publitalia, prima concessionaria multinazionale d’Europa per fatturato nella raccolta pubblicitaria: dunque, meno pubblicità per gli altri, più pubblicità per se stesso. Non c’è dubbio che Berlusconi, come capo del governo, sia azionista – attraverso il Tesoro – dei colossi economici pubblici e semipubblici del "sistema Italia": dunque, Eni, Enel, Finmeccanica, Poste saranno "orientati" dagli ammonimenti del premier nella programmazione delle campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali che potrebbero essere danneggiati dall’ostilità dell’azionista pubblico. C’è chi si sente danneggiato.

Contro le dichiarazioni del presidente del Consiglio il Gruppo Espresso, «nemico» ed «eversore», muove un’azione a tutela della società vedendo violate le norme sulla concorrenza e lesa la sua immagine. Ora – notizia di oggi – è sorprendente che, per evitare ogni giudizio, Berlusconi invochi l’immunità prevista dall’articolo 68 della Costituzione («I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse»). Quell’immunità non è prevista dalla Carta per assicurare un privilegio al deputato, ma per renderlo più libero nella sua attività. Ma qual era l’attività che svolgeva, la veste che indossava Berlusconi a Santa Margherita? Sarà il giudice – e, probabilmente, la Corte costituzionale – a valutare se le parole minacciose del Cavaliere meritino la protezione dell’insindacabilità perché «esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere», ma è fin da ora interessante comprendere come il premier intende declinare l’immunità parlamentare, visto che la questione è di nuovo nell’agenda della politica per una riscrittura che la irrobustisca.

Si sa, Berlusconi si sente primus super pares. Benedetto dalla volontà popolare, egli vuole essere padrone di un potere che non ammette controlli o verifiche. La convinzione, del tutto abusiva, che la sovranità popolare sia così assoluta da essere sovraordinata alla sovranità della Costituzione giustifica la sua irritazione per regole e limiti. Lo induce a respingere, per le sue leggi e iniziative, il vaglio di costituzionalità del capo dello Stato e della Consulta («editto di Bonn»). Lo conferma nell’ostinatissimo disprezzo per il potere giurisdizionale e quel disprezzo gli consiglia di sottrarsi ai processi che lo vedono imputato (con il "processo breve" e il "legittimo impedimento"). Berlusconi sembra credere che la sua immunità debba essere incondizionata, anche quando parla da imprenditore agli imprenditori; da "azionista" al management pubblico; da attore del mercato contro i suoi concorrenti.

"Impadronitosi" della sovranità, interpreta tutte le parti della commedia sociale, economica e politica pretendendo che la sua autonomia e libertà non abbiano limiti. Esige che gli sia riconosciuta un’impunità per qualsiasi atto, anche quando non è compiuto nell’esercizio delle sue funzioni. Dopo l’ultima mossa, si può concludere che il Cavaliere reclama per sé la stessa «irresponsabilità» che la Costituzione assegna soltanto al presidente della Repubblica. È un privilegio che la Carta ancora non gli assegna. Per il futuro converrà vigilare, con i tempi che corrono e i discorsi che si odono.

Una nuova, elementare teologia politica sembra stia sostituendo il discorso pubblico democratico nel nostro Paese. Tutte le forme del conflitto politico e dell’antagonismo sociale sono in via di sparizione. Non ci sono più il concorrente, l’avversario, il nemico esterno, ovvero i simboli in cui prendono corpo le tipologie di lotta (economica e politica) che possono trovare posto e legittimazione nella moderna civiltà liberale, e nella nostra Costituzione. È in via di trasformazione anche la figura novecentesca del nemico interno, ideologico, da osteggiare perché portatore di una visione del mondo che non può trovare collocazione nel nostro stesso spazio politico. Ormai, la politica viene spiegata attraverso un apparato categoriale estremo e rudimentale al contempo, come il confronto mortale tra Amore e Odio.

Questa suprema semplificazione – che ha in realtà radici tanto nelle fiabe e nel repertorio popolare antico e moderno quanto nelle cupe fantasie del pensiero controrivoluzionario, o nella bruciante denuncia del totalitarismo di Orwell in 1984 – non appare oggi nella politica italiana, ma ne è diventata l’epicentro dopo l’aggressione milanese a Berlusconi. Il crimine di uno squilibrato – un atto che è ovvio punire penalmente, come è ovvio solidarizzare umanamente con la vittima – è stato ed è utilizzato per bollare come criminale l’opposizione al premier; una immotivata e folle avversione personale è stata promossa a emblema della lotta politica contro le politiche della maggioranza, il cui potere è stato definito Bene, e Male ciò che vi si oppone.

Oltre la criminalizzazione dell’avversario, siamo alla sua demonizzazione, alla squalificazione non solo etica ma anche ontologica. La dimensione giuridica – che fa sì che un reato sia un reato, mentre una critica è una critica: illecito il primo, lecita la seconda – è risucchiata e annichilita in una teologia manichea che si propone come chiave di lettura onnicomprensiva della dinamiche politiche: tutto si confonde con tutto, tutto deriva da tutto, tutto conduce a tutto; il pensiero e l’azione si trovano sul medesimo piano, inesorabilmente inclinato verso l’abisso: verso il sangue, la violenza, il terrorismo anarchico. Non ci sono distinzioni ma solo gradazioni nel Male: è Male il semplice opporsi al Bene, in qualunque forma ciò avvenga. La metafora del clima (il "clima di odio"), oggi vincente, lo dice: il clima è appunto l’insieme dei fenomeni atmosferici e anche la generica predisposizione verso una certa loro tipologia (clima buono o cattivo). Con una simile concettualità si può rendere chiunque responsabile di qualunque cosa, o almeno si può sostenere la possibile pericolosità, diretta o indiretta, di ogni comportamento non conforme.

Le leggi che limitano la libertà di espressione, i provvedimenti speciali, pendono minacciosi sugli oppositori. Ma tutto ciò è Bene, è la forza dell’Amore.

Del Male c’è però una speranza di perdono: si chiama dialogo, collaborazione parlamentare per rifare la Costituzione. Dissolve il clima di odio e assolve da molti peccati. Il piccolo prezzo da pagare per l’indulgenza, la penitenza dopo tutto mite a cui l’opposizione si deve assoggettare, è di collaborare (o almeno di non ostacolarle efficacemente) ad alcune leggi volte a garantire l’impunità personale al premier (dal legittimo impedimento al Lodo Alfano costituzionalizzato) e il controllo della magistratura all’esecutivo (la separazione delle carriere e la "riforma della giustizia"). Se ciò non avverrà, se il Pd non saprà essere "autonomo" e presterà ancora orecchio alle lusinghe di Satana (Di Pietro, Repubblica), la reazione sarà durissima: il Male sarà condannato senza remissione, e l’intero sistema giudiziario sarà spazzato via dal "processo breve", che non sarà difficile, per chi controlla tutte le televisioni, presentare come giusta risposta all’esigenza di rapida giustizia che accomuna tutti gli italiani.

Non si è tratteggiata una caricatura; e del resto non c’è nulla da ridere. La situazione italiana è davvero questa: la costruzione mediatica di un’egemonia culturale pressoché incontrastata, o comunque subìta, dispiega tutta la propria potenza per creare un mondo artificiale che deve far velo a quello reale, che deve negare l’evidenza, ossia l’esistenza di un’Italia non di destra e non berlusconiana, e neppure terrorista o incline alla violenza, di una società che si sforza di essere libera e che dispiega le proprie capacità critiche in un pubblico dibattito, e quindi anche attraverso i giornali (alcuni) e le case editrici (alcune). L’obiettivo è evidente: delegittimare la base sociale e intellettuale dell’opposizione, tagliare i ponti fra la società e il palazzo, intimidire le forze che costituiscono la linfa vitale del Pd, in modo che questo, nella sua attività politica, sia sempre più isolato nella sua condizione di minoranza parlamentare. E questo isolamento, questo allontanamento dall’opinione della sua base, dovrebbe essere chiamato "autonomia".

Certo, la pressione sul Pd è davvero enorme: se cede verrà punito alle elezioni regionali, in favore di Di Pietro; se resiste rischia di produrre gravi lacerazioni al proprio interno. Eppure è in questo crinale che si deve dispiegare un’azione politica forte: che è non cercare di parlare d’altro (dei "veri problemi degli italiani", come se rifare la Costituzione in queste condizioni e con questi prezzi non fosse un problema di tutti), ma appunto parlare delle medesime cose di cui parla la destra, criticandole e demistificandole senza timidezze. Di fornire una contro-interpretazione della vulgata corrente sul Bene e sul Male, e di provare a inserirsi nuovamente nel discorso pubblico, senza rassegnazioni e anzi con la volontà di rovesciarne i termini. Di affermare la critica contro i miti, la ragione contro le fiabe, la forza della democrazia liberale contro la paura e contro i rischi di una democrazia "protetta".

Tanto tuonò che piovve. Da poche ore il premier Berlusconi ha denunciato al partito popolare europeo, a Bonn, di essere un perseguitato politico in Italia. E chi lo perseguita? L'Alta corte costituzionale, che non è più supremo istituto di garanzia ma organo di parte, e precisamente di sinistra, grazie alle nomine fatte da tre presidenti della Repubblica di sinistra che si sono susseguiti da noi, i noti estremisti Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Non solo: un partito di giudici, clandestino ma efficiente, gli scatena contro una valanga di calunniose vertenze giudiziarie. Stando così le cose, egli ha dichiarato solennemente al Ppe che intende cambiare la Costituzione italiana del 1948 e lo farà con tutte le regole o senza. Già in passato l'aveva disinvoltamente definita di tipo «sovietico».

Il Ppe è rimasto di stucco. Il Presidente Napolitano, di solito assai prudente, ha definito il discorso «un violento attacco alle istituzioni», il premier gli ha risposto con insolenza: «Si occupi piuttosto della giustizia». Il Presidente della Camera, Fini, che aveva preso le distanze, si è sentito ribattere: «Ne ho abbastanza delle ipocrisie».

La reazione del paese è stata nulla. Probabilmente molti hanno scosso privatamente la testa. Come la regina d'Inghilterra, l'Alta corte non risponde ai vituperi che le vengono rivolti, soltanto la Camera potrebbe denunciare il premier per attentato alle istituzioni, ma la maggioranza della Camera ce l'ha lui. Il suo alleato, Bossi, ne ha elogiato «le palle», argomento decisivo per tutti e due. Il Popolo della libertà ha annunciato per domenica a Milano una manifestazione a suo sostegno.

Il presidente Casini ha lamentato che Berlusconi, per essere stato votato dal 35 per cento del paese, crede di esserne il padrone. Il leader del Pd Bersani si è doluto di aver ricevuto, testualmente, un «cazzotto» ma si ripromette di avviare ugualmente assieme a Berlusconi le più urgenti riforme istituzionali. L'ex pm Di Pietro ha gridato con qualche approssimazione: «E che si aspetta per dire che siamo nel fascismo?», non senza aggiungere: «E se succede qualche incidente?». Alcuni giornali parlano di stato d'emergenza, la sinistra della sinistra ha emesso alcune strida o ha parlato d'altro.

Ora, ci rifiutiamo di credere che la metà del paese che non ha votato Berlusconi ne trangugi anche stavolta le escandescenze. Certo una maggioranza non si abbatte che con un'altra maggioranza, ma questa va preparata non essendo affatto detto che ci sarebbe già oggi. E per molti motivi. Perché quando la detta metà ha avuto un suo governo, non ha ritenuto urgente né risolvere il conflitto di interessi né regolare il sistema radiotelevisivo, né darsi una legge elettorale decente - provvedimenti che non sarebbero stati niente di straordinario, soltanto la premessa di un quadro politico decoroso.

Anche per questo la tela della democrazia, faticosamente tessuta nella Resistenza, si è andata sfilacciando, la crisi dei partiti è stata salutata dal più stolto degli entusiasmi, nulla di più affidabile ed efficace essendo stato messo al loro posto, socialisti e comunisti si sono pentiti di essere stati tali e la sinistra della sinistra non ha saputo che frammentarsi. E siamo arrivati a questo punto.

È l'ora di finirla di lamentarsi e di aspettare qualche leader miracoloso. Siamo noi, la gente che cerca di battersi con la Cgil, giovani e precari senza speranza, coloro che sono andati alla manifestazione del Nobday, gli piacesse Di Pietro o no, visto che nessun altro aveva pensato di promuoverla, siamo noi insomma la parte attiva di quella metà d'Italia che incassa botte da troppi anni. Andiamo a chieder conto a chi abbiamo votato fino a ieri di quel che sta facendo o non facendo oggi, senza né astio né affidamento. Proponiamo a chi lo vuole di metterci a discutere subito e a medio termine. Finiamola di lamentarci di non essere rappresentati. Siamo adulti e vaccinati. Rappresentiamoci.

Perché il governo vuole vendere i beni di Cosa Nostra
Sandra Amurri

Con il maxiemendamento del Governo sulla legge Finanziaria arriva Babbo Natale anche per la mafia. Un dono preziosissimo per le organizzazioni criminali segrete che, come si sa, più del carcere (che mettono in conto), temono di perdere i “piccioli”.

Il pacco dono si chiama: vendita dei beni confiscati, all’asta e a trattativa privata per quelli di valore fino a 400 milioni, cioè la maggior parte. Una legge che non garantisce nulla, tantomeno la trasparenza dell’azione dello Stato nella lotta alla mafia lasciando aperta la porta a qualsiasi abuso, e che di chiaro ha solo la finalità: vendere. Per il resto è buio fitto. Il testo non dice che decorsi i termini i beni possono essere destinati alla vendita, bensì che sono destinati alla vendita senza specificare come esempio quelli il cui recupero civico ha un alto valore simbolico.

Significato chiaro anche per un bambino: i beni tolti dallo Stato ai mafiosi saranno riacquistati dai mafiosi. E se è chiaro a un bambino è da escludere che non lo sia per il Governo. Dunque, non resta che prendere atto della volontà di questo Governo di fare un regalo alla mafia con la discutibile, e tra l’altro non veritiera motivazione: vendiamo per fare cassa come se l’emergenza potesse prescindere dal valore della trasparenza e dal rispetto delle regole.

E neppure fare cassa sarà facile considerate le molteplici criticità. La maggior parte dei beni confiscati, infatti, sono bloccati dalle ipoteche poste dalle banche che hanno elargito i mutui. Un esempio per tutti la tenuta del boss Michele Greco, detto il Papa. Affinché lo Stato ne possa disporre, come stabilito dalla giurisprudenza in assenza di una legge, deve dimostrare in sede penale con i tempi e le difficoltà che questo comporta che la banca, nell’elargire il mutuo, non abbia rispettato una serie di indicatori sufficienti a stabilire che la proprietà di quel bene, intestato magari ad un parente o a un prestanome, non fosse mafiosa.

Ultimamente la Cassazione non ha riconosciuto la buona fede del Banco di Sicilia di Palermo, ad esempio, su alcuni immobili confiscati ipotecati e il bene è rimasto allo Stato in quanto l’ipoteca non è risultata opponibile, ma non sempre accade. Mentre spesso si verifica che la Banca abbia venduto i crediti ipotecari a società di factoring e in questo caso tutto si complica. I beni vendibili, l’85% dei quali si trova nelle quattro regioni meridionali con una netta prevalenza della Sicilia (47%), potranno essere acquistati da società quotate in borsa che commercializzano immobili o anche da società a partecipazione pubblica che in seconda battuta li metterà in vendita, senza alcun controllo su chi li riacquisterà. È cosa così difficile da prevedere che ad acquistarli sarà la mafia? Dunque, il bene tornerà al mafioso a cui è stato confiscato e lo Stato dovrà tornare a riprenderselo con uno spreco di risorse pubbliche nemmeno lontanamente paragonabili al guadagno che potrebbe ricavarne con la vendita. Ma l’inganno è consumato.

A ciò, che poco non è, si aggiunge un’altra notizia non ancora ufficiale ma certa e preoccupante: il Governo, alla scadenza del 20 dicembre prossimo non rinnoverà l’incarico di commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati all’ex magistrato della Dda di Lecce ed ex consulente della Commissione Antimafia, Antonio Maruccia, nominato dal Governo Prodi nel 2007, nonostante (o forse proprio perché) abbia fatto un ottimo lavoro anche nel privilegiare l’affidamento dei beni tolti alla mafia alle cooperative e alle associazioni antimafia come Libera per intendersi. E per finire con la nuova legge viene prevista, anche in questo caso in maniera confusa e senza precisare da cosa verrà sostituita, la scomparsa dell’Agenzia del Demanio. Di certo quello che verrà, nonostante il duro colpo inferto con l’arresto dei due importanti latitanti, sarà davvero un bel Natale per Cosa Nostra che potrà brindare con lo champagne anche in carcere, all’idea di riprendersi quei beni che il sudore e la fatica di molti le avevano sottratto.

La parola “fine” alle battaglie di Pio La Torre e di Libera

Nando Dalla Chiesa

Dunque il dono di Natale resterà sotto l’albero. La commissione bilancio della Camera ha respinto tutti gli emendamenti volti a neutralizzare lo sconcio del Senato: la scelta di mettere all’asta (e in certi casi di vendere perfino a trattativa privata) i beni confiscati alla mafia. La quale ringrazia e si agghinda per giungere alle aste con gli abiti della festa: “piccioli”, tanti piccioli in una mano, e minacce agli improvvidi concorrenti nell’altra. Signori si scende. Si chiude un’epoca, da Pio La Torre al milione di firme raccolte da Libera per un uso sociale dei beni confiscati.

Il quadro non si presta a equivoci. É la prima legge in materia di mafia che il governo sforna dopo gli avvertimenti che vengono dalle file di Cosa Nostra. É la dimostrazione che non bisogna farsi intrappolare per tutti i mesi venturi dalle dichiarazioni di Spatuzza e far dipendere da quelle il giudizio sul governo. Il giudizio politico si dà prima di tutto sugli atti politici visibili. Che non sono gli arresti dei latitanti, da anni meritoriamente realizzati da magistratura e forze dell’ordine, indipendentemente dai governi. Ma sono le leggi. I comportamenti delle burocrazie e le circolari. Le dichiarazioni dei ministri e del presidente del consiglio.

E quindi non bisogna mai smettere di ricordare le tre irrinunciabili questioni su cui, sin dalle stragi, Cosa Nostra ha chiesto impegni precisi ai suoi interlocutori (e di cui abbiamo saputo ben prima che Gaspare Spatuzza spuntasse all’orizzonte): confische dei beni, uso dei “pentiti” e carcere duro. Sulle confische dei beni, il più è fatto. Basteranno tre mesi senza destinazione e via con l’asta. Fare scorrere quei tre mesi e poi piazzare sul mercato terre, immobili e imprese per la gioia del primo prestanome, sarà un gioco da ragazzi. Quanto ai pentiti, sta già dichiarando e chiedendo di cambiare la legge Umberto Bossi (è il vecchio consiglio di Vito Ciancimino: certe cose è meglio farle dire da altri). Sul carcere duro è in corso invece un’ambigua finzione: stabilizzato dalla legge ma svuotato dall’interno con ogni astuzia, stupidità o perfidia amministrativa. Su tutte e tre le “sue” questioni, insomma, Cosa Nostra va all’incasso.

Pretende di “far cassa” con le aste anche lo Stato, a beneficio – si dice – di giustizia e sicurezza. Ma è davvero questo lo scopo? Se lo fosse, tornerebbe sfrontatamente l’argomento dei “costi” economici della lotta alla mafia. Quanto costano le indagini, quanto le intercettazioni; quanto costa proteggere i collaboratori, quanto tenersi i beni. Un paese che ragiona così è un paese che si merita la mafia e forse in cuor suo la desidera. Ma il fatto è che lo stesso argomento del far cassa appare debole, debolissimo.

I beni confiscati servono già ora a farci caserme (quanto costano allo Stato i terreni e gli immobili per le nuove?) a farci scuole o pensionati studenteschi (idem), a promuovere iniziative economiche dove non c’è lavoro legale (quanto costa il “trattamento” della devianza sociale? E quanto la disoccupazione?). Alla fine si scoprirà che l’operazione è in perdita, che il far “cassa” per la giustizia è un gioco di prestigio utile a occultare l’altro, più pericoloso gioco che si sta conducendo con un occhio a Torino e l’altro a Palermo.

Quanto alle forze dell’ordine e ai magistrati, prendano pure i latitanti. Tanto non ci vorrà molto a tagliar loro le unghie investigative – dalle intercettazioni ai pentiti, dalla tracciabilità dei movimenti di capitali fino alla benzina – e, naturalmente, a render loro impossibile fare i processi. No, non diventeremo Spatuzza-dipendenti. Non dipenderemo dalle parole di un pluriomicida che ci giungono dai doppifondi della storia. Dipenderemo anzitutto, come è giusto, dagli atti dei galantuomini che governano il paese. Quelli ufficiali. Se poi Spatuzza ha messo l’autobomba per far saltare Borsellino e loro diciassette anni dopo fanno saltare le leggi che Borsellino, Falcone e altri hanno chiesto fino a morirne, questa non è colpa nostra. Noi arbitrariamente, e semplicemente, la chiamiamo trattativa.

O

ramai si dà per scontato, o qua­si, che le demo­crazie vivono nell'immediato e che non provvedono al futuro, ai bisogni e problemi del fu­turo. L'altro giorno Ange­lo Panebianco osservava, per inciso e con la tran­quilla placidità dello stu­dioso che registra un fat­to ovvio, che «la natura del sistema democratico spinge gli uomini politici a occuparsi solo dei pro­blemi del presente. Le grane che ci arriveranno addosso non possono es­sere prese in considera­zione... La politica demo­cratica non si occupa di prevenzione». Panebian­co ha ragione? Per il no­stro Paese sicuramente sì; ma sono oramai parec­chie le democrazie che sempre più diventano cor­to- veggenti e impreviden­ti. Dal che ricavo che sia­mo al cospetto di un pro­blema di estrema gravità.

Io non sono mai stato uno strombazzatore leo­pardiano delle «magnifi­che sorti e progressive» che ci sono state promes­se dai Sessantottini in poi. Ho però sempre stre­nuamente difeso la demo­crazia alla Churchill: che anche la democrazia è un pessimo sistema, «salvo che tutti gli altri sono peg­giori ». In quel detto ho sempre fermamente cre­duto; ma forse oggi va ri­precisato. Intanto va pre­cisato che una cosa è la democrazia liberale co­struita dal costituzionali­smo, e tutt'altra cosa so­no le cosiddette democra­zie populistiche e «diretti­stiche » di finto autogover­no che si liberano dell'im­paccio del garantismo co­stituzionale. In questa chiave io distinguo da tempo tra democrazia co­me demo-protezione (in­tendi: che protegge il de­mos dagli abusi di pote­re) e come demo-potere (che può diventate tutt'al­tra cosa).

Poniamo, in dannatissi­ma ipotesi, che Berlusco­ni mi voglia cacciare in prigione. Potrebbe farlo? No, perché io sono protet­to dal principio dell' habe­as corpus (abbi il tuo cor­po) che è quel cardine del costituzionalismo che ci tutela dall'incarcerazione illegale e arbitraria. Met­tiamo, d'altra parte, che io non voglia essere avve­lenato da «polveri sottili» e dal galoppante inquina­mento atmosferico, che io non voglia restare senz’acqua perché l'acque­dotto pugliese ne perde metà per strada, oppure che Pisa sparisca sott'ac­qua. In questi e consimili frangenti la democrazia descritta da Panebianco farebbe meglio delle non-democrazie? E' lecito dubitarne.

Le grandi civiltà idrauli­che del lontano passato raccontate da Karl Wittfo­gel furono create con stra­ordinaria perizia e preveg­genza dal despotismo orientale; tantissime lacri­me e sangue, ma anche straordinari risultati. Il dispotismo illuminato del '700 fu, appunto, «illu­minato ». Mentre oggi an­diamo alla deriva senza nessuna «illuminazio­ne », con occhi che non vogliono vedere e orec­chie imbottite di cerume. Il detto churchilliano tiene ancora? Sì e no. Sì, se lo dividiamo in due; no altrimenti. La mia pri­ma tesi è che la democra­zia protettiva dell' habeas corpus e del potere con­trollato da contropoteri, è e resta il migliore dei re­gimi possibili per la tute­la della libertà dei cittadi­ni. La mia seconda tesi è invece che il demopotere populistico e direttistico alla Chavez, e purtroppo ambito da Berlusconi, di­venta o può diventare uno dei peggiori sistemi di potere possibili.

Qui di seguito tutte le leggi approvate dal 2001 ad oggi dai governi di centrodestra che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società:

1 Legge n. 367/2001. Rogatorie internazionali. Limita l'utilizzabilità delle prove acquisite attraverso una rogatoria. La nuova disciplina ha lo scopo di coprire i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo "Sme-Ariosto 1" (corruzione in atti giudiziari).

2 Legge n. 383/2001 (cosiddetta "Tremonti bis"). Abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni. (Il governo dell'Ulivo l'aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire).

3 Legge n.61/2001 (Riforma del diritto societario). Depenalizzazione del falso in bilancio. La nuova disciplina del falso in bilancio consente a Berlusconi di essere assolto perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato" nei processi "All Iberian 2" e "Sme- Ariosto2".

4 Legge 248/2002 (cosiddetta "legge Cirami sul legittimo sospetto"). Introduce il "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice, quale causa di ricusazione e trasferimento del processo ("In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice"). La norma è sistematicamente invocata dagli avvocati di Berlusconi e Previti nei processi che li vedono imputati.

5 Decreto legge n. 282/2002 (cosiddetto "decreto salva-calcio"). Introduce una norma che consente alle società sportive (tra cui il Milan) di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali.

6 Legge n. 289/2002 (Legge finanziaria 2003). Condono fiscale. A beneficiare del condono "tombale" anche le imprese del gruppo Mediaset.

7 Legge n.140/2003 (cosiddetto "Lodo Schifani"). E' il primo tentativo per rendere immune Silvio Berlusconi. Introduce ildivieto di sottomissione a processi delle cinque più altre cariche dello Stato (presidenti della Repubblica, della Corte Costituzionale, del Senato, della Camera, del Consiglio). La legge è dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 13 del 2004.

8 Decreto-legge n.352/2003 (cosiddetto "Decreto-salva Rete 4"). Introduce una norma ad hoc per consentire a rete 4 di continuare a trasmettere in analogico.

9 Legge n.350/2003 (Finanziaria 2004). Legge 311/2004 (Finanziaria 2005). Nelle norme sul digitale terrestre, è introdotto un incentivo statale all'acquisto di decoder. A beneficiare in forma prevalente dell'incentivo è la società Solari. com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo "Mhp". La società controllata al 51 per cento da Paolo e Alessia Berlusconi.

10 Legge 112/2004 (cosiddetta "Legge Gasparri"). Riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Introduce il Sistema integrato delle comunicazioni. Scriverà il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi: "Il sistema integrato delle comunicazioni (Sic) - assunto dalla legge in esame come base di riferimento per il calcolo dei ricavi dei singoli operatori di comunicazione - potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20% di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti".

11 Legge n.308/2004. Estensione del condono edilizio alle aree protette. Nella scia del condono edilizio introdotto dal decreto legge n. 269/2003, la nuova disciplina ammette le zone protette tra le aree condonabili. E quindi anche alle aree di Villa Certosa di proprietà della famiglia Berlusconi.

12 Legge n. 251/2005 (cosiddetta "ex Cirielli"). Introduce una riduzione dei termini di prescrizione. La norma consente l'estinzione per prescrizione dei reati di corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio nei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset".

13 Decreto legislativo n. 252 del 2005 (Testo unico della previdenza complementare). Nella scia della riforma della previdenza complementare, si inseriscono norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi.

14 Legge 46/2006 (cosiddetta "legge Pecorella"). Introduce l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento. La Corte Costituzionale la dichiara parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 26 del 2007.

15 Legge n.124/2008 (cosiddetto "lodo Alfano"). Ripropone i contenuti del 2lodo Schifani". Sospende il processo penale per le alte cariche dello Stato. La nuova disciplina è emenata poco prima delle ultime udienze del processo per corruzione dell'avvocato inglese Davis Mills (testimone corrotto), in cui Berlusconi (corruttore) è coimputato. Mills sarà condannato in primo grado e in appello a quattro anni e sei mesi di carcere. La Consulta, sentenza n. 262 del 2009, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.

16 Decreto legge n. 185/2008. Aumentata dal 10 al 20 per cento l'IVA sulla pay tv "Sky Italia", il principale competitore privato del gruppo Mediaset.

17 Aumento dal 10 al 20 per cento della quota di azione proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La disposizione è stata immediatamente utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset.

18 Disegno di legge sul "processo breve". Per l'imputato incensurato, il processo non può durare più di sei anni (due anni per grado e due anni per il giudizio di legittimità). Una norma transitoria applica le nuove norme anche i processi di primo grado in corso. Berlusconi ne beneficerebbe nei processi per corruzione in atti giudiziari dell'avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.

Le scienze della riparazione.

L’esigenza di questo Convegno, il bisogno di una riflessione collettiva sui saperi del nostro tempo, muove da diverse ragioni. Esso nasce innanzi tutto da uno stato di profondo disagio. E’ il disagio che genera l’osservare le tensioni e i mutamenti che attraversano oggi le Università d' Europa. Il processo di unificazione del Vecchio Continente ha investito negli ultimi anni le strutture dell’alta formazione trascinandole in un vortice di innovazione continua. [1]Ma questa non ha interessato la qualità dei saperi, il rapporto fra le discipline, la natura della formazione. E' una innovazione che riguarda le pareti esterne dell’edificio. Un rovello riorganizzativo che punta all' omogeneità e all’uniformità delle procedure, alla misurazione e quantificazione delle prestazioni, di docenti e discenti, alla fissazione dei criteri di valutazione del merito. Il telos di tale incessante processo riformatore è l’adeguamento delle vecchie strutture formative delle Università ai bisogni di efficienza e di capacità competitiva che il sistema economico chiede alla società e al mondo della scienza. Esso domanda un supporto sempre più ravvicinato ai sui ritmi, alle sue necessità e congiunture, e quindi preme costantemente per una più stringente funzionalità strumentale dei saperi, per una loro più plastica aderenza alle necessità della macchina produttiva e dei consumi. [2]

Diciamolo con la schietta chiarezza che l'intera vicenda merita. Negli ultimi 15 anni le classi dirigenti europee hanno chiesto all’Università dei diversi stati di adeguare le loro strutture alle richieste, ai miti, all'ossessione economicistica di una stagione ideologica del capitalismo contemporaneo. Una stagione ideologica - potremmo dire oggi col linguaggio di Popper - “falsificata” senza appello dal fallimento economico e finanziario in cui ha precipitato il mondo. Com'è noto, l’Università, i ceti intellettuali più diversi, il mondo politico, hanno sostanzialmente ubbidito alle sirene di questa ideologia nella sua versione di riforma didattica. Anzi, con poche eccezioni e proteste, hanno aderito alla richiesta con convinzione e perfino con slancio.

Ma nelle innovazioni che hanno investito l' Università – e che ancora la agitano e la tormentano con un flusso interminabile di cambiamenti normativi e procedurali – non è dato rintracciare nessuna interrogazione profonda sullo stato dei saperi nel nostro tempo, nessuna seria preoccupazione sui caratteri e i bisogni delle scienze contemporanee. Né tanto meno sulle questioni relative al loro studio, apprendimento, trasmissione, se non dal lato puramente tecnico e organizzativo. Didattico, come vuole il linguaggio tecnico corrente.

Eppure, proprio questo è oggi il cuore più profondo della questione: quali saperi si impartiscono nelle nostre Università? Qual è il grado della loro presa e rappresentazione del mondo reale? Come si è trasformata e ristretta, sotto le pressioni della macchina economica, la natura della loro utilità sociale? Quale spazio conservano i saperi disinteressati, le conoscenze finalizzate alla formazione umana e spirituale delle nuove generazioni?

Due grandi e drammatiche evidenze rendono oggi più immediatamente visibili le ragioni di simili interrogazioni.La prima riguarda la grave alterazione degli equilibri naturali della Terra e il riscaldamento climatico in corso. Qui si possono misurare le conseguenze della frantumazione disciplinare delle scienze consumatasi nel corso del Novecento. Tutte impegnate a indagare un ambito sempre più ristretto e ravvicinato di realtà, nessuna di essa è stata capace di uno sguardo globale, nessuna si è accorta, se non tardi, degli effetti generali che il proprio separato operare – a servizio della macchina produttiva - ha sugli equilibri generali del mondo vivente.

L’uso industriale dei gas clorofluorocarburi, ad esempio, che lacerano l’ozono atmosferico e hanno portato a minacciare la vita sulla terra[3], costituisce forse la prima e più clamorosa messa in evidenza di questo squilibrio fra la potenza delle singole applicazioni disciplinari e la conoscenza degli equilibri generali della biosfera.

Certo, in questo caso la scienza chimica, responsabile del danno, è poi intervenuta ed è venuta a capo del problema. Ma lo ha fatto in funzione riparatrice, intervenendo dopo la rottura degli equilibri precedenti. Ed è questo, di fatto, il modello del comportamento della scienza oggi: intervenire per riparare le alterazioni che la separatezza e l’unidimensionalità delle discipline applicate all’economia di volta in volta producono. Quale scienza si era accorta , per gran parte dell'età contemporanea , che ciascuna per suo conto, contribuendo allo sviluppo economico, cooperava anche al fenomeno generale del riscaldamento della Terra? Né la fisica, né la chimica, né la geografia, né la botanica, né la geologia né la biologia. Tutte chiuse nel proprio ambito disciplinare, operando ciascuna su frammenti del corpo smembrato della natura, solo sul finire del XX secolo alcune di queste si sono accorte di che cosa stava accadendo all’atmosfera terrestre.

Oggi l’IPCC – l’organismo voluto dall’ONU per studiare il cambiamento climatico e che riunisce migliaia di scienziati di diverse discipline - ubbidisce anch’esso a una logica di riparazione, di intervento post-factum. E tuttavia esso mostra anche un modello utile per un cambiamento di paradigma delle scienze. Il dialogo tra i vari saperi per lo studio di un fenomeno complesso, che abbraccia in equilibri multiformi quella speciale totalità che è il clima, è anche un modello di riorganizzazione possibile del sapere scientifico nel tempo presente. Ma esso deve cessare di essere un modello di emergenza e di riparazione. Deve diventare ex ante una modalità della ricerca, della formazione e della trasmissione del sapere in tutte le nostre strutture formative.

Siamo ovviamente consapevoli che la disintegrazione disciplinare del sapere scientifico non è fenomeno recente. Esso ha origini lontane, nella fondazione stessa della scienza moderna. Come ha ricordato Edgar Morin nel suo tomo I de La méthode, “ La fisica occidentale non ha solamente disincantato l'universo, essa l'ha desolato “.[4] Gli ha sottratto la vita e dunque la totalità delle connessioni che legano inscindibilmente il vivente. Uno dei principi costitutivi del paradigma scientifico moderno- ha ricordato ancora Morin - è il “ Principio di isolamento e di separazione nei rapporti fra l’oggetto e il suo ambiente”[5] E così la scienza ha percorso la strada dell'isolamento e dell'astrazione dei fenomeni per strappare i segreti alla natura, manipolarne i frammenti al fine di poter sperimentare, indagare, scoprire.

Ora non si può certo disconoscere che tale strada sia stata coronata dal successo.L'intera società industriale, con le sue ombre ma anche con i suoi enormi vantaggi sociali, sarebbe impensabile senza quel successo scientifico. La potenza raggiunta dalle scienze contemporanee è, per tanti versi, stupefacente. E tuttavia oggi siamo meno abbagliati dal suo splendore, siamo necessariamente spinti a coglierne i lati oscuri e inquietanti.

E' indiscutibilmente giusto rammentare che per buona parte dell'età contemporanea la scienza, pur al servizio delle classi dominanti, è stata anche portatrice di quel potere emancipatorio che sempre accompagna il diffondersi della conoscenza e le acquisizioni culturali, i progressi tecnici che liberano l'uomo dalla fatica, dalle schiavitù naturali. Ma oggi tale orizzonte di emancipazione universale è scomparso alla vista. Anche la scienza si è come dissolta negli impulsi frammentari e disordinati del cosiddetto libero mercato. Il suo fine sociale generale appare non più visibile, mentre si erge davanti a noi, sempre più inquietante, la dismisura del potere della tecnica sul vivente. La natura è già interamente sottomessa, ma è tale sottomissione che ci tiranneggia con nuove dipendenze. Oggi è l’avanzare di questo dominio la sorgente di tutte le minacce che incombono su di noi.

La tecnica non pensa.

Lo sviluppo della scienza, subordinata sempre di più alle ragioni della produzione capitalistica, ha portato ad un esito oggi evidente. Per dirla ancora con Morin, col tempo si è passati dal “manipolare per sperimentare” allo « sperimentare per manipolare “. Sicché “i sottoprodotti dello sviluppo scientifico – le tecniche – sono diventati i prodotti socialmente principali“ [6]

Occorre infatti riconoscere che all'interno del sapere scientifico opera una tendenza profonda, che è diventata sempre più manifesta e incontenibile nel tratto finale dell'età contemporanea. Tale tendenza è per l'appunto la trasformazione della scienza in tecnica, il trasmutarsi del pensiero in procedure replicabili in laboratorio, la metamorfosi della conoscenza generale e disinteressata in procedimenti che danno vita a dispositivi, congegni, materiali, beni, merci. Tutte le conoscenze generali delle singole discipline – dalla fisica alla botanica, dalla biologia alla genetica – esaurita la fase teoretica di fondazione, o di esplorazione di determinati ambiti, precipitano e “degenerano” in tecnica. Ma si tratta di un fenomeno che è inseparabile dal contesto e dallo svolgimento storico in cui esso si è venuto realizzando. Esso esprime un processo materiale, più volte segnalato da Marx, della scienza che diventa” prodotto intellettuale generale dell'evoluzione sociale”[7], parte integrante del modo di produzione capitalistico, che incorpora nei suoi scopi tutti i saperi generati dalla divisione intellettuale del lavoro e tutte le tecniche che la macchina industriale va accumulando.

Agli inizi del '900 Heidegger aveva colto, dal suo particolare punto di vista filosofico, questo aspetto del modo di essere e di procedere della scienza. Egli aveva finito col definire quest'ultima – con evidente parzialità e forzatura, ma cogliendone la tendenza profonda - “ una modalità della tecnica” [8]Ma ad Heidegger dobbiamo anche una testimonianza esemplare del modo in cui la scienza praticata e insegnata si presentava nelle istituzioni del suo tempo:

Gli ambiti delle scienze sono lontani l'uno dall'altro. Il modo di trattare i loro oggetti è fondamentalmente diverso. Questa moltitudine di discipline, tra loro così disparate, oggi è tenuta assieme solo dall'organizzazione tecnica delle Università e delle Facoltà, e conserva un significato solo per la finalità pratica delle singole specialità. Ma il radicarsi delle scienze nel loro fondo essenziale si è inaridito e spento.[9]

Dove per “fondo essenziale” credo si possa intendere l'unità del sapere, le ragioni profonde e generali dell'umano interrogare.

Ovviamente, la situazione denunciata da Heidegger – che tra l'altro si applicava a uno dei migliori sistemi universitari europei – oggi è profondamente mutata. E non certo in meglio. E' cambiato soprattutto il grado e il modo – per dirla con le parole anticipatrici di Marx – della “sussunzione della scienza al capitale”. Vale a dire il grado di subordinazione del sapere scientifico alle ragioni della produzione industriale.[10] Oggi noi abbiamo di fronte non soltanto il pieno dispiegamento di un fenomeno ben visibile già ai tempi di Marx: le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche che entrano nell'industria , esaltano la potenza produttiva del capitale, emarginano sempre più il lavoro che ha storicamente prodotto quel capitale. Non è soltanto l'impresa che si serve delle conoscenze e delle tecniche prodotte dalle Università e dai centri pubblici di ricerca. Ma è la tecnoscienza che si è fatta impresa. La scienza si è messa in proprio come macchina produttiva diretta finalizzata al profitto .

Siamo di fronte a un fenomeno assolutamente inedito nella storia delle società umane. Molte corporation transnazionali fondano oggi tanta parte della loro supremazia economica sulle scoperte e i brevetti dei propri, autonomi gabinetti scientifici. La ricerca biotecnologica oggi si presenta generalmente come una impresa. Noi assistiamo a una disseminazione privatistica della tecnoscienza senza precedenti, che pone problemi nuovi al potere pubblico, alle forme del diritto, sfida gli assetti tradizionali della democrazia.

Ora, in una breve introduzione non si può procedere che per accenni. E tuttavia, per nella limitata economia di queste riflessioni, non possiamo non gettare almeno un rapido sguardo ad alcuni caratteri per così dire epocali della tecnica nel tempo presente. Noi non possiamo certo tacere, né dimenticare in quale orizzonte di dismisura, di rottura e conflitto con le ragioni della vita, si è collocata la scienza e la tecnica nella seconda metà del '900. A volte per lo squilibrio drammatico tra la potenza manipolativa delle singole tecnoscienze e la conoscenza degli equilibri della biosfera. Ne abbiamo già accennato a proposito del buco dell'ozono e del riscaldamento climatico. Ma la dismisura, il travalicamento dell '“istinto di sopravvivenza”[11] degli uomini è avvenuto ancora prima per scelta deliberata della ricerca scientifica. La costruzione della bomba atomica è la svolta che fa epoca. La possibilità di annientare la vita umana sulla terra che i fisici hanno offerto al potere politico-militare resta un vulnus incancellabile e irriversibile della tecnoscienza contemporanea. Nel suo saggio su La bomba atomica e il destino dell'uomo Karl Jaspers ha descritto con poche e decisive parole questo passaggio drammatico nella storia umana :

In ogni tempo la tecnica è servita per la conformazione costruttiva dell'ambiente, ma in ogni tempo anche per la distruzione. Oggi le possibilità tecniche hanno compiuto il salto, dalle distruzioni isolate alla distruzione totale di ogni forma di vita sulla terra.[12]

Certo, tanta potenza distruttiva non è oggi in mani private. Anche se il fatto che essa sia sotto il controllo dei poteri pubblici non sempre e mai del tutto può rassicurarci. Ma oggi sono in mano private potenze manipolative in campo biologico e genetico che pongono problemi inediti di sicurezza, controllo, trasparenza. Oltre a dischiudere scenari inconsueti su questioni etiche di prima grandezza. Nessuno può infatti dimenticare quel che può oggi la tecnica sui viventi umani, dal momento che siamo entrati nell'“epoca della riproducibilità tecnica della vita”. [13]

L'economia come tecnica della crescita.

La seconda evidenza che sta alla base delle nostre interrogazioni – e dunque al fondo delle ragioni che motivano il presente convegno - riguarda un'altra dismisura della tecnica in età contemporanea.

Ci riferiamo all'economia, alla scienza economica. Siamo sufficientemente informati che questo campo del sapere è oggi attraversato da incursioni e deviazioni dal suo main stream che ne arricchiscono, sia pure ai margini, il pluralismo. Chi non sa che da tempo, ad esempio, esiste anche una environmental economy con diverse scuole e tendenze? E sappiamo bene che non mancano certo i singoli grandi economisti in grado di travalicare l ' unidimensionalità disciplinare del loro mestiere. Ma l'economia che domina il nostro tempo, ispira la condotta dei governi e delle istituzioni internazionali, domina nelle banche centrali, nelle Università, nelle riviste specializzate, nella divulgazione giornalistica ha subìto un mutamento evidente. Essa ha cessato da tempo di essere una scienza sociale. Nelle sue espressioni dominanti l'economia è diventata “ una tecnologia della crescita “. Una pura tecnica dell'andare avanti, dell'incremento senza sosta del PIL. E la tecnica – e qui ci permettiamo di riprendere e modificare Heidegger – “ la tecnica non pensa”.

Ora, lo stato presente di questo sapere trasformato in tecnica, merita una breve riflessione. Oggi è possibile osservare che esso procede verso il suo fine con sempre meno riguardo per ciò che la crescita economica produce nella condizione umana del lavoro, nelle giunture della società, nelle relazioni fra gli individui, negli istituti della democrazia, nella cultura e nelle psicologie collettive, nella vita privata delle persone, nel fondo spirituale della nostra epoca. E' come se esso si fosse ritagliato un ambito iperspecialistico, affidato alla sofisticata strumentazione di modelli matematici, lasciando ad altri saperi il compito riparatore delle distruzioni che compie nel suo procedere. Lo stesso operare post-factum delle altre scienze.

Ma tale modello appare poi in tutta la sua inoccultabile distruttività nei rapporti con il mondo naturale. Tutto il pensiero economico moderno che giunge fino a noi è figlio di un gigantesco meccanismo di rimozione della natura dal processo di produzione della ricchezza. Ancora oggi esso non è disposto se non a vedere nel mondo fisico che “ un potenziale da dischiudere con mezzi tecnici”[14] Un potenziale esterno, un illimitato deposito che di volta in volta appare come utensile, materia prima, energia. Eppure la vita economica, la produzione di beni e merci, altro non è – per dirla con le parole dello studioso che ha più profondamente pensato su questi temi, Hans Immler - che “ il movimento e lo svolgimento di un processo di natura (Naturprozeβ ) “ [15] . Tutto ciò che chiamiamo economia non è, in ultima istanza, che manipolazione del mondo fisico, cooperante insieme al lavoro - fornito da quell'essere naturale che è l'uomo - a produrre i beni circolanti nella società.

Ora, la scienze economiche dominanti sono ancora interamente segnate da questo peccato originale: esse ignorano di fondarsi su un mondo fisico di cui sconvolgono gli equilibri locali e planetari, di operare all'interno di una biosfera che ha sue regole e limiti ancora inesplorati. Esse non soltanto fingono di non vedere la finitezza del mondo, la limitatezza delle risorse disponibili per proseguire nella corsa, ma ignorano di alterare gravemente quella complessa “ eco-organizzazione” del mondo vivente a cui diamo il nome di natura, e a cui sono interamente subordinati anche gli uomini , esseri pur sempre naturali malgrado la loro potenza tecnica.[16]

La rimozione del mondo naturale dal campo visivo del pensiero economico moderno costituisce uno dei più stupefacenti miracoli che l'ideologia capitalistica della rimozione è stata in grado di produrre. Ma oggi essa non può più nascondere lo scacco storico di una scienza. Osserviamo, en passant, che il pensiero economico non è stato ancora in grado neppure di abbozzare una teoria della riproduzione della natura, della rigenerazione degli immensi materiali e beni che produzione e consumo richiedono costantemente. Esso contempla solo la riproduzione di due fattori: il capitale e il lavoro. E invece pensa e rappresenta la natura non come fattore destinato anch'esso alla riproduzione, ma come una cava, un fondo esterno sfruttabile all' infinito. Per questo oggi - di fronte alla compromissione di alcuni cicli riproduttivi delle risorse ( l'acqua, la terra fertile) e al riscaldamento climatico[17] – appaiono con tanta evidenza i fallimenti predittivi di un sapere settoriale e separato, privo di una visione olistica del mondo.

Sotto questo particolare, ma rilevantissimo profilo, ci prendiamo la responsabilità di affermare che l'economia come scienza, è un sapere in buona parte obsoleto, una moneta di pregio, ma fuori corso, una sopravvivenza dell'era industriale finita nel secolo scorso. Allorquando trionfava la grande finzione di un mondo fisico illimitato. E tale giudizio – mi sia consentito rammentarlo - riguarda quasi interamente le culture economiche ufficiali oggi in circolazione, anche quelle ispirate da paradigmi e valori progressisti. Se l'economia non incorpora in un nuovo sistema di pensiero la conoscenza della natura – quella natura che non solo è centrale nel processo economico, ma è al tempo stesso il mondo complesso, fragile e finito che ospita i viventi - rimane un sapere mùtilo, anche se accoglie in sé il vasto spettro dei fenomeni sociali che esso alimenta. Resta pur sempre drammaticamente insufficiente in un'epoca in cui lo sconvolgimento ambientale si pone già esso stesso come fenomeno economico di incommensurabile portata.

Ora, questa scienza non solo soffre della parzialità settoriale che ha limitato per secoli gli orizzonti di tutte le altre discipline. Nel corso della seconda metà XX secolo e ancora oggi essa ha signoreggiato tutti gli altri saperi, subordinandoli ai suoi modelli di plasmazione della vita sociale e di organizzazione del potere e delle istituzioni. Si è guadagnata una sovranità senza precedenti non solo nel mondo del potere economico e finanziario, ma anche, ovviamente, nelle Università, nei centro-studi, nella pubblicistica scientifica, nella stampa, nei media. Mentre l' ossessione della crescita economica l'ha trasformata in una ideologia del dominio, ispiratrice della cultura del breve termine, dei tempi sempre più accelerati del produrre, consumare, inquinare, vivere.

Ma non è tutto. La potenza manipolativa conseguita dalla scienza – o meglio, dalla sempre più rapida utilizzazione tecnologica delle sue scoperte – dà all’industria e in genere alle attività produttive delle società industriali una capacità senza precedenti di alterazione del mondo vivente. Questa capacità, in mano a potenze private sempre più grandi, è ispirata e orientata da un sapere divenuto una tecnica. E' questo dispositivo del produrre e consumare che fornisce oggi all' homo oeconomicus i mezzi per alterare gli equilibri del pianeta come mai era avvenuto in tutte le epoche passate.

Questa disciplina, nata come economia politica all'interno della cultura umanistica nella seconda metà del XVIII secolo, è entrata nel campo delle scienze cosiddette esatte e nella seconda metà del '900 ha sostituito la fisica come Big Science nelle società dell'Occidente. Sempre di più la sua invadenza imperialistica nella società e nelle istituzioni culturali ha sottoposto a severo scrutinio tutti gli altri saperi, ha chiesto ad essi ragioni della loro utilità. Ma non una utilità sociale generale, ma una utilità economica, sempre più immediata, sempre più strettamente subordinata ai tempi stretti e veloci della redditività economica. I saperi umanistici sono stati così messi nell'angolo, costretti a indietreggiare, a giustificarsi, a offrire spiegazioni del proprio operare, del proprio valore di mercato. La filosofia, la storia, la letteratura, l'arte a che servono, quali sono i loro ritorni, a quale mercato del lavoro devono servire? Sono ancora oggi queste le richieste che sentiamo risuonare sulla scena pubblica.

Una nuova centralità dei saperi umanistici

Ebbene, credo che sul piano strettamente teorico e culturale la legittimità di tali richieste sia ormai interamente naufragata. Siamo a un passaggio d'epoca che rende lo scacco storico delle scienze tradizionali non più occultabile. Oggi sono i “ saperi inutili” che devono interrogare. Sono essi che oggi ritrovano nuove e potenti ragioni di critica e di giudizio. Costituirebbe un segnale di grave arretramento di civiltà se oggi non fossero i saperi umanistici ad uscire dall'angolo e a porre essi, all'economia, e a tutte le altre tecnoscienze, domande fondamentali.

Come è stato possibile, nel giro di pochi decenni, trasformare un orizzonte di prosperità crescente, per lo meno nelle società industrializzate, in un avvenire dagli esiti sempre più incerti e inquietanti? Da quali cause discende la trasformazione di un dominio sempre più vasto degli uomini sulla natura in una generale minaccia ai viventi? Per quali ragioni le prospettive globali si presentano oggi come minaccia: dalla qualità del cibo alla continua ricorrenza delle pandemie? Com'è possibile che nelle società più ricche cha mai siano apparse nella storia umana l'ossessione che asservisce le persone è quella di produrre e consumare sempre di più? Che cosa giustifica il fatto che la prosperità dei Paesi ricchi – mentre lascia centinaia di milioni di persone nella miseria e nella fame nel Sud del mondo– non si traduca in accrescimento spirituale, in umana liberazione, in mitezza delle relazioni, ma alimenta rancori, paure, conformismi, conflitti etnici, svuota le democrazie , favorisce torsioni autoritarie nelle gestione del potere?

Potremmo anche porre delle domande più precise e mirate. Perché nelle Facoltà di Economia oggi dominano discipline tutte curvate a servire immediatamente le imprese, i bisogni mutevoli delle tecnologie e del mercato del lavoro, i caratteri più aggressivi dell'economia del nostro tempo? Chi dà uno sguardo ai piani di studio della Facoltà di Economia non può non rimanere stupito della presenza di così tante economie aziendali, di marketing, di matematica finanziaria. E quali economisti vengono plasmati da simili curricula? E che cosa sapranno mai questi giovani economisti europei della società in cui l'economia si svolge, di come essa trasforma le relazioni sociali, di che cosa accade al lavoro umano? Non è il lavoro, ancora oggi, componente essenziale del mondo produttivo e dei servizi? E perché mai è del tutto assente una storia del lavoro, una sociologia del lavoro in queste Facoltà? E da quale disciplina questi giovani economisti apprenderanno mai ciò che l'economia che essi sono chiamati ad alimentare e servire produce nella società dei paesi poveri, sotto forma di mercati asimmetrici, di saccheggio delle risorse naturali, di asservimento del lavoro indigeno, di indebitamento finanziario? E come potranno, questi nuovi cittadini e intellettuali dell'Europa unita, comprendere le cause profonde del sommovimento di popolazione che da vari angoli della Terra si muove verso di noi in cerca di lavoro, di condizioni più umane di vita? Non dovrebbe rientrare tale gigantesco processo in atto nello studio dei fenomeni economici? O lo lasciamo ad altri specialismi, ai demografi, ai sociologi, agli antropologi perché lo studino ciascuno per proprio conto? Ma non è anche da questa frammentazione e divisione dei saperi che procede la presente ingovernabilità del mondo ?

Non dobbiamo dunque chieder conto della sua parzialità e frantumazione conoscitiva a una scienza che ha dominato interamente il corso della nostra società? Non dobbiamo denunciare la sua crescente inadeguatezza a cogliere i fenomeni sempre più interrelati e sempre più globali che dobbiamo affrontare? Eppure la limitatezza di tale approccio, di tale orizzonte di razionalità, appare sempre più evidente. Come ricordava Edgar Morin, con tale procedere:

I grandi problemi umani scompaiono a vantaggio dei problemi tecnici particolari. L'incapacità di organizzare il sapere sparso e compartimentato porta all'atrofia della disposizione mentale naturale a contestualizzare e a globalizzare.

L'intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E' un'intelligenza miope che il più delle volte finisce con l'essere cieca.[18]

Noi l'abbiamo appena visto all'opera questa “intelligenza cieca”. La crisi in cui si dibatte l'intera economia mondiale e la gigantesca perdita di ricchezza che ne è seguita è figlia legittima di questo sistema di razionalità. E' davvero degno di nota il fatto che tutta la raffinata ingegnosità matematica, la costellazione luminosa di algoritmi costruita dai cervelli della finanza internazionale negli ultimi anni, sia stata assolutamente incapace di predire alcunché. E' rimasta cieca davanti alla catastrofe che avanzava. Eppure si tratta di tecniche che fondano sulla previsione, sulla divinazione del futuro, tutte le loro ragioni operative, oltre che la loro superbia intellettuale. Perfetta e completa prova che le più sofisticate creazioni della tecnica economica sono chiuse in gusci specialistici, utensili ciechi destinati al fallimento di fronte all'indomabile complessità del mondo.

Ora, per concludere, ritorniamo al centro del nostro tema con qualche considerazione di prospettiva. Anche se le istituzioni universitarie tardano a prenderne atto, è fuor di dubbio che oggi le scienze sono attraversate, grazie soprattutto all'ecologia, da una tensione al dialogo fra di esse sempre più significativa[19]. Sapere delle connessioni che intercorrono fra i viventi e fra questi e il loro habitat, l'ecologia non può più essere ignorata da nessuna disciplina. Nessuna di esse può più isolare i fenomeni strappandoli dal contesto complesso in cui essi si svolgono. Si tratta di una conquista del pensiero umano da cui non si torna indietro. E senza dubbio tale dialogo apre nuove prospettive di collaborazione con le culture umanistiche, con la filosofia, innanzi tutto, ma anche con la psicologia, con la storia, l'antropologia. Nuovi scenari possono dischiudersi per la ricerca, nuovi e diversi interrogativi possono porsi le scienze stesse, grazie all'innesto e al dialogo con saperi che hanno percorsi, tradizioni, obiettivi diversi d'indagine. E ciò non solo per una normale ricerca di nuove strade di esplorazione conoscitiva, ma sopratutto per una ragione fondamentale: una ragione che segna una svolta radicale rispetto alle scienze che abbiamo ereditato dal XX secolo.

Oggi non abbiamo più alcuna ragione di perpetuare e accrescere il dominio sulla natura. I bisogni dell'umanità presente e futura vanno in altre direzioni. Ciò che l'interesse generale dei popoli della terra chiede alla scienza è un rapporto di cura e di conservazione degli equilibri naturali, dai quali dipende l'avvenire economico delle nuove generazioni e le possibilità stesse della vita futura. La scienza deve procedere sulla strada della ricerca e della conoscenza secondo un'etica di responsabilità, capace di contenere la dismisura della potenzialità distruttiva che essa ha raggiunto.

Allo stesso modo noi dobbiamo chiedere alle scienze economiche di incorporare nei propri orizzonti conoscitivi e nei propri fini una nuova cultura degli equilibri naturali, della complessità del mondo vivente. Oggi abbiamo sempre meno bisogno di mettere l'intelligenza, la cultura, l'umana creatività alla servizio della crescita economica. Occorre poter affrontare problemi complessi, incrementare il benessere collettivo, migliorare la qualità del vivere sociale. E non può certo più essere l'accrescimento continuo di beni e servizi il fine dominante dell'economia, ma un obiettivo più ambizioso, richiesto dalla presente epoca planetaria:la distribuzione della possibilità di vita per tutti i popoli della terra, una vita degna, ovviamente, in equilibrio con i limiti delle risorse esistenti, in accordo e non in conflitto con la casa comune che ci ospita. Una casa che sarà sempre più affollata nei decenni a venire.

Sono dunque questi i problemi che devono fare il loro ingresso dirompente nelle aule delle nostre Università. E' il mutamento di paradigma dei saperi, l' organizzazione della loro cooperazione e del loro dialogo il vero fronte riformatore che occorre mettere in piedi. E su questo terreno le culture umanistiche possono tornare a giocare un ruolo di prima grandezza. Innanzi tutto perché esse sono in genere portatrici di visioni universali. Costituiscono il più salutare antidoto alla frantumazione specialistica delle scienze novecentesche. E al tempo stesso sono promotori di utilità generali. Pensiamo al ruolo che deve avere il diritto, la sociologia, la politologia. l'antropologia in tutte le questioni globali che abbiamo di fronte, nella formazione di una nuova cittadinanza universale, nella costruzione del cosmopolitismo del nostro secolo.

Ma non meno rilevante è il peso e il rilievo che occorre dare ai saperi disinteressati. Ad essi, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, alla musica, all'arte, ai grandi patrimoni spirituali della nostro civiltà, alle fonti della consolazione dell'uomo sulla terra spetta un grandissimo compito: contrastare la razionalità strumentale che ossessiona la nostra epoca, risvegliare le nostre società dal sonno dogmatico di un utilitarismo cieco e devastatore. Occorre costruire una razionalità che rappresenti e governi non una fase di regresso nella storia umana, ma una nuova pagina di civiltà.[20]

Ma le culture umanistiche, in Europa, oggi hanno anche il compito di formare una gioventù non più chiusa in una visione eurocentrica della storia umana, ma aperta e preparata al dialogo interculturale, capace di arricchire il proprio patrimonio universale con l'universalità delle altre culture.

Ma questo fine – lasciatemelo dire in conclusione - è irraggiungibile senza che le Università vedano confermata e accresciuta la loro natura pubblica. In un'epoca in cui così tante tecnoscienze particolari e disperse sono in mano privata è ancor più necessario che l'Università pubblica abbia un profilo dominante, capace di rappresentare l'interesse generale nelle scelte strategiche della ricerca e della formazione e in grado di orientare lo sviluppo dei vari saperi. Senza di essa, d'altra parte – com'è facile intuire – l'autonomia e la libertà stessa della ricerca e dello studio appaiono gravemente compromesse e a rischio.

In questi ultimi mesi di tracollo economico-finanziario tutti abbiamo potuto vedere che cos'è, in ultima istanza, lo stato. Che cosa diventa il potere pubblico nel momento del pericolo, allorché l'azione predatoria dei privati ha portato sull'orlo del baratro l'intera architettura economica e finanziaria del mondo. Che cos'è dunque il potere pubblico? In simili casi, esso non è che l'interesse generale in forma di potere. E dunque tale interesse deve valere solo come argine di ultima istanza? Deve intervenire solo quando è prossima la catastrofe? Deve limitarsi anch'esso, come le scienze, a svolgere un ruolo post factum e riparatore? O deve ex ante coordinare l'insieme degli interessi privati, piegarli al suo fine superiore e universale ?

[1] Cfr. C. Lorenz, L'Unione Europea e l'istruzione superiore: economia della conoscenza e neoliberismo, in « Passato e presente>>, 2006, n.69

[2] Per gli USA, ma all'interno di una politica incomparabilmente più generosa in termini di risorse, S.Aronowitz, Knowledge factory.Dismantling the corporate university and create true higher learning, Beacon Press, Boston,, 2000, p. 160 e passim

[3] Cfr. T. Flannery, I signori del clima. Come l'uomo sta alterando gli equilibri del pianeta, Corbaccio, Milano 2005, p.255 e ss.

[4] E.Morin, La méthode.Tome I.La Nature de la Nature, Edition du Seuil, Paris, 1977, p. 365.

[5] Cfr. M.Ceruti e E.Laslo (a cura di ) Physis: abitare la terra, Feltrinelli Milano, 1988, p.18

[6] La Nature, cit. p. 366

[7] K.Marx, Il Capitale.Libro I. Capitolo VI inedito. Presentazione, traduzione e note di B.Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 89

[8] M.Heidegger, Meditazione sulla scienza (giugno 1938) in Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910-1976), A cura di H.Heidegger, ed. it. a cura di N.Curcio, il melangolo, Genova 2005, p.315

[9] La frase è un'autocitazione di Heidegger dalla Lezione inaugurale di Friburgo (1929) contenuta nel Colloquio con Martin Heidegger(17 settembre 1969), in Discorsi, cit. p. 624

[10]« Allora l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza nella produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa.>> (K.Marx,Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Presentazione, traduzione e note di E.Grillo,La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399.) Ma, com è noto, questo tema è presente in tutta l'opera matura di Marx. Si veda ora per questi aspetti il saggio di S.Aronowitz, Post-work.Per la fine del lavoro senza fine, Derive Approdi, Roma 2006, pp 131-177.

[11]A proposito della bomba atomica e della costruzione delle dighe in India Arundhaty Roy, ha scritto: « Si tratta di emblemi del ventesimo secolo, che marcano il punto in cui l'intelligenza umana è andata oltre il suo stesso istinto di sopravvivenza>> ( La fine delle illusioni, Guanda Parma, 1999, p. 87)

[12]K.Jaspers, La bomba atomica e il destino dell'uomo (1958), il Saggiatore Milano 1960, p 290

[13] M.De Carolis, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollatti Boringhieri, Torino 2004

[14]H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie,Westdeuscher Verlag, Opladen,1985, p. 18

[15]Id, Vom Wert der Natur. Zur Ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Westedeutscher Verlag, Opladen 1990, p 33

[16]E.Morin, Il pensiero ecologico(1980) Hopeful Monster, Firenze 1988, p. 11 e ss.

[17]Fra tanta pubblicistica ricordiamo una testimonianza recente, C.Flavin e R.Engelman, La tempesta perfetta.in Worldwtch Institute, State of the world 2009. In un mondo sempre più caldo. Rapporto sul progresso verso una società sostenibile. Edizione italiana a cura di G.Bologna, Edizioni Ambiente, Milano 2009, p 39 e ss.Più in generale va almeno ricordata l'opera di Vandana Shiva, di cui rammentiamo qui, Il bene comune della terra, Feltrinelli, Milano 2006.

[18]E.Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 43

[19]E. Morin, L'anno I dell'era Ecologica. La Terra dipende dall'Uomo che dipende dalla Terra. Seguito da un dialogo con Nicolas Hulot, Armando Editore, Roma 2007, p. 36

[20]Su questi temi si vedano le riflessioni di S.Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati - parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia - profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».

In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.

Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).

Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.

Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti - nel regime, nei giornali - interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.

Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).

Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».

Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».

Paese meraviglioso l’Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e – in un canto – fatti che, al contrario, meritano molta luce e l’attenzione dell’opinione pubblica. La disciplina del «processo breve» ce l’abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e imbonitori. Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berluscone non rende i processi rapidi (è una cristallina scemenza). Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e improvvisa come un fulmine che uccide. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile – e leale con i suoi cittadini – si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di efficienza e buon senso.

Più grave è il reato, minore è il tempo per giudicarlo. I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d’ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali, bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato italiano.

Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma – statene certi – non potrà mai lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di quel «salvacondotto» per levarsi dai guai.

Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra: l’Italia è il solo Paese dell’Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, economicamente tranquilla. Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.

Il silenzio su questo aspetto decisivo della "prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse, non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l’anima per dare competitività al «sistema Italia». Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti. Come se questo progetto criminofilo non parlasse di sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale, legittimità delle istituzioni, trasparenza dell’azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e pagherà domani, con l’ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato, quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino della Repubblica, neonati inclusi. Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca. È una condizione che corifei e turiferari, vespi e minzolini, occultano all’opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede al «colpo di Stato giudiziario», alla finalità tutta politica dell’azione delle procure, favola ancora in voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere. Quando Mani Pulite muove i suoi primi passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l’anno, con un indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi.

L’abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta. Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi, per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento. Non c’è dubbio che, in quegli anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di Maastricht. Di quegli anni – 1993/1994 – è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai livelli del 1991, quelli antecedenti all’emersione di Tangentopoli. Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla governance) chiudono il cerchio e una stagione.

Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e giudicare un progetto che può spingere l’Italia, nell’interesse di uno, in prossimità di una condizione da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della corruzione. Tirarsene fuori è una necessità in quanto c’è – non è un segreto, anche se è trascurato dal discorso pubblico e dai cantori dell’Egoarca – una simmetria perfetta tra la corruzione e le criticità per la società e il Paese. Mercati dominati da distorsioni e «tasse immorali» (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all’entrata, troppi rischi di investimento).

Non c’è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che sono il nocciolo duro della nostra economia reale. Infatti, le piccole e medie imprese – si legge nella relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell’Onu contro la corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 – , «oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti». La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di investimento. Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per l’entrata nel mercato, così come possono causarne l’uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza personale, tutela ambientale.

Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta priorità nell’agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione «equivale a una tassa di mille euro l’anno per ogni italiano, neonati inclusi». Secondo Trasparency International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il 44 per cento degli italiani crede che la corruzione «incide in modo significativo» sulla sua vita personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il 85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi anni la corruzione sia destinata a non diminuire.

Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali. È di questi giorni il rapporto del Consiglio d’Europa sulla corruzione in Italia. Il Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l’arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (Greco) ha inviato all’Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l’interruzione dei processi) normative (nuove figure di reato).

La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale – che appena al G8 dell’Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell’Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente voluto da Tremonti) – è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta". La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell’economia italiana. Non è la tossina che avvelena il metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un grattacapo del capo del governo. Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per l’Italia intera. Dove sono in questo piano inclinato «gli uomini del fare» che credono nella loro impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?

L’egemonia berlusconiana ha significato il trionfo del populismo, che è la base di ogni fascismo. Le democrazie vivono di dubbi e verifiche, di libera circolazione di notizie e di teorie complesse. Le ideologie liberali, come quelle socialiste, pur opposte, attribuiscono entrambe il cattivo funzionamento della società al sistema e non ai singoli individui. Il populismo abolisce la complessità, vive di certezze, di controllo dell’informazione e di teorie semplici. Attribuisce ogni problema a una causa umana, alla presenza di un gruppo di nemici e traditori infiltrati nel sistema e responsabili di ogni problema. Il populismo è una sequela infinita di pogrom contro l’ebreo di turno. Nella fase finale del populismo di Berlusconi, i pogrom mediatici si sono intensificati fino al parossismo: gli immigrati, i magistrati indipendenti, i giornalisti disfattisti, gli insegnanti, i "fannulloni", i cattolici dissidenti e così via.

L’egemonia culturale del berlusconismo, proprio nel senso classico gramsciano, è confermata dal successo di questo modo di ragionare, o di non ragionare, attraverso teorie del complotto, anche in vasti settori dell’opposizione. Il populismo di sinistra (?) diffonde teorie del complotto che spiegano il berlusconismo come l’avvento di una banda di malfattori piovuti da Marte nel cuore dello Stato. Il giornalismo di sinistra (?) spiega ogni problema con la presenza di una o più caste, politici o magistrati, industriali o sindacalisti, infiltrate al comando a dispetto della sana volontà popolare. La stessa lotta alla mafia prescinde dal sistema per concentrarsi su questo o quel clan, su questo o quel boss o padrino, meglio se assai pittoresco, analfabeta, in giacca di fustagno e lupara a portata di mano.

Il successo della grande semplificazione di Berlusconi, accettata come metodo anche dagli avversari, ha prodotto una perdita collettiva di senso e di memoria. Siamo ridotti come il paese di Macondo, che dovrà un giorno rinominare gli oggetti. Nel trionfo generale della teoria del complotto, si è persa la distinzione fra vero e falso, o meglio, fra realtà e finzione. Svanita la patina di modernità degli inizi, il berlusconismo ha portato nella società italiana una ventata di reazione che si manifesta in uno stato di panico permanente nei confronti di ogni novità del mondo moderno. L’elenco è lungo: l’immigrazione, il crescente ruolo delle donne, le scoperte della medicina, la globalizzazione dell’informazione attraverso la rete, l’integrazione europea, la rivoluzione ecologista, la fine del bipolarismo e il successivo tramonto dell’impero americano.

Ciascuna di queste opportunità è diventata fonte di paura per l’italiano medio, da esorcizzare con i peggiori luoghi comuni reazionari. La reazione più sguaiata è diventata pensiero unico, ma con l’astuzia di presentarsi come folgorante intuizione di modernità e addirittura coraggiosa tesi minoritaria, accompagnata da lagne vittimiste. Gli storici dilettanti sedicenti revisionisti che rilanciano la vecchia proposta dei governi Scelba di equiparare i repubblichini di Salò ai partigiani hanno l’improntitudine di proclamarsi perseguitati dalla defunta "egemonia culturale della sinistra". L’intero dibattito pubblico è del resto orientato dai media sulla centralità delle tesi più regressive, o anche di pure e semplici idiozie. Per avere la certezza di conquistare la ribalta mediatica ormai basta sparare una fesseria qualsiasi, purché molto reazionaria, e si scatena un’infinita discussione sul nulla. Ed è questo che colpisce all’estero: non tanto le vicende di Berlusconi, quanto la regressione dell’Italia intera in una visione premoderna.

Giuseppe Chiarante, La fine del PCI. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo Congresso (1979-1991), Carocci, Roma 2009. Fa seguito a Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta (2006) e a Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (2007), con lo stesso editore.

[…] Cominciava in sostanza a far breccia, anche nel Partito comunista italiano o almeno in settori rilevanti del partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che negli anni Ottanta – favorita sia dal precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa occidentale – si sviluppò con tanto impeto in Europa come in America, nei paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest. È in questo modo che andò maturando per la sinistra, anche nella realtà italiana, una grave sconfitta che era e sarebbe stata culturale e ideale ancor prima che politica.

Mi sembra opportuno richiamare almeno altre tre questioni (se non altro a titolo esemplificativo) per mettere in luce come in pochi anni, anche in un paese come l'Italia, questa offensiva abbia modificato in modo radicale idee e convinzioni diffuse nell'area dell'opinione democratica, compresa buona parte della sinistra di opposizione, con conseguenze negative che presto si sarebbero manifestate anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici.

In primo luogo, raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi comunisti dell'Est europeo, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilità di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del libero mercato. Non a caso l'idea di riaffermare o ricostruire un "punto di vista di sinistra" in economia (a partire, per esempio, dai problemi della cooperazione col Sud del mondo o da quelli della tutela ambientale e dell'affermazione di una diversa gerarchia di priorità e finalità nella produzione e nei consumi, come aveva proposto Berlinguer nel discorso sull'austerità) incontrava difficoltà via via più estese e anzi veniva rigettata quasi pregiudizialmente, nell'opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra stava nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi di categoria, il rispetto dei vincoli "oggettivi" delle regole di mercato e delle compatibilità finanziarie e monetarie.

È comprensibile che il diffondersi di simili posizioni, anche al di là dell'area moderata - tanto più in una fase di intense ristrutturazioni che già tendevano a ridurre o rendere più precaria l'occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione -, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale. Non per nulla si è potuto parlare, appunto a partire da questi anni, dell'affermazione di una sorta di "pensiero unico" di ispirazione neoliberista. Si ponevano così le basi di quell'«eutanasia della sinistra» (riprendo questa espressione dal titolo di un recente libro di successo[1]) che avrebbe portato all'affermazione della destra politica ed economica e al successo del berlusconismo.

In secondo luogo, non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti dí larga parte dell'opinione pubblica, l'insistente campagna sulla "crisi" e anzi sulla "morte" delle ideologie. È quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi. Ma è un fatto che essa finì con l'essere largamente accettata, anche a sinistra, non solo come critica dei "partiti ideologici" (e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati, in Italia, la Democrazia cristiana e il Partito comunista), ma anche e soprattutto come negazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica.

Nella polemica corrente, alle "finalità" e ai "finalismi" - e al loro retroterra ideologico - veniva sempre più di frequente contrapposta la vera o presunta "concretezza" dell'apertura al nuovo, al moderno, all'innovazione, sino a giungere all'assunzione ideologica del "nuovismo" come criterio di commisurazione della validità dell'iniziativa politica. Non c'è bisogno di ricordare quale peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio dal Pci al Pds, cioè dal vecchio "partito ideologico" alla "cosa" di cui non si conosceva né il nome né il programma, e neppure le finalità o i contenuti, e che non a caso non avrebbe mai neppure raggiunto una effettiva consistenza politica.

Va rilevato, infine, come la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito nel corso di quel decennio, anche in settori via via più estesi del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno: sino a porre capo non più a una domanda di "rinnovamento della politica" - così come era stata formulata da Berlinguer - ma a una proposta di mutamento del solo "sistema politico" (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata la strada alla deriva decisionista. In particolare, all'idea che bastasse "sbloccare" il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico chi doveva compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in discussione se stesso, ponendo fine al "partito diverso", omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del partito comunista italiano.

Si tratta soltanto di alcuni esempi. Ma sono esempi significativi per porre in evidenza come il declino del PCI nella seconda metà del decennio abbia avuto come fondamento una debolezza culturale e ideale ancor prima che politica. Il che trova riscontro, del resto, nella crisi delle idee di sinistra, che si estende in quegli anni anche sul piano mondiale. Basti pensare al collasso dei regimi comunisti dell'Est, alla crescente afasia delle grandi socialdemocrazie, all'involuzione pressoché generale dei movimenti progressisti e indipendentisti dei paesi del Terzo Mondo.

[1] R. Barenghi, Eutanasia della sinistra, Fazi, Roma 2008

Berlusconi ripete spesso che "la maggioranza degli italiani è con me". Ma forse pensa che quando parla di donne la totalità degli italiani (uomini ) è con lui. Il silenzio protratto di molti, troppi uomini su come il premier tratta e descrive le donne, sembrerebbe provare che egli rappresenta davvero il costume di una gran parte dei maschi. Anche alcuni leader dell´opposizione, quando si cominciò a sapere di escort e festini, dissero che erano affari privati e che la politica non doveva infilarsi sotto le lenzuola. Poi però si seppe che spesso le lenzuola vennero usate come trampolino per poltrone, affari e clientele e allora la tesi giustificativa del "privato" non tenne più.

Naturalmente, il ricorso al privato é ancora l´arma più brandita dal leader e da chi lo sostiene anche con la strategia del dileggio contro chi la mette in discussione. E tutto viene liquidato con l´accusa dell´invidia, la quale è un vizio privato non giustificabile; é un vizio e basta.

La donna, dice il Signor Berlusconi, è il più bel dono che il creato ci (leggi: a noi uomini, non al genere umano) ha dato. La logica è vecchia come il mondo ma sempre nuova: noi siamo state create ed educate per alleggerire il peso di chi ha potere e responsabilità. Noi siamo solo privato. Se proviamo a essere noi, né doni né veline, allora siamo niente, oggetto di offesa e di attacco: brutte, vecchie, e via di seguito. Anche in questo caso l´accusa di invidia viene usata per squalificare le nostre ragioni: perché, presumibilmente, se fossimo giovani e belle non ci offenderebbe essere trattate come un dono. Se ci offende, ecco la conclusione della filosofia dell´invidia del signor Berlusconi, è perché nessuno ci vuole più come un dono. Risultato: a bocca chiusa siamo accettate sempre, da giovani o vecchie, se belle o brutte; ma se usiamo il cervello siamo offese sempre: se belle perché pensare non si addice alla bellezza, se brutte perché pensare è germe di invidia.

La logica é chiara: il leader del nostro paese usa le armi del maschilismo più trito per azzerare nelle abitudini la cultura dei diritti e dell´eguale dignità che generazioni di donne e di uomini hanno con durissima fatica costruito. Si potrebbe dire che la sua è una logica controrivoluzionaria da manuale, una truculenta reazione contro una cultura che ci ha consentito di essere cittadine uguali fra cittadini uguali. Con una precisazione importante: non è la presenza nel pubblico che ci viene tolta; molto più subdolamente, è l´autonomia, la scelta competente di poter essere parte del pubblico che ci si vuole togliere (le poche ministre del governo sono lì perché sono gradevoli al capo, per ragioni tutte private e soprattutto per volontà altrui). È anche per questo che la distinzione tra pubblico e privato oggi non tiene: perché questa distinzione ha valore solo se riposa su un presupposto di eguaglianza di dignità; diversamente il privato è un serraglio e il pubblico uno spazio dispotico e di fatto un´estensione del privato, dei suoi interessi e delle sue pulsioni.

Viviamo un tempo in cui i diritti dell´eguaglianza sono sotto attacco: dall´istituzione della carta di povertà, alla demolizione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale, al trattamento di privilegio rispetto alla legge che i potenti pretendono: tutto va nella direzione di una maggiore diseguaglianza. E l´offesa che subiscono le donne – l´insulto alle ragazze veline, a Rosy Bindi e a tutte noi–è la madre di tutte gli arbitri e di tutte le diseguaglianze. E per troppo tempo questo fenomeno è stato digerito come cibo normale, come se, appunto, il Signor Berlusconi fosse davvero rappresentativo della mentalità generale di tutti gli italiani. è vero che troppo spesso si vedono platee di convegni o di eventi pubblici popolate di soli uomini, come se il genere femminile non contemplasse anche studiose oltre che intrattenitrici. Ed è vero che purtroppo è quasi sempre solo l´occhio delle donne a vedere questa uniformità al maschile. Certo, è bene non generalizzare. Tuttavia non é fuori luogo ricordare anche a chi lo sa già che la dignità violata delle donne è dignità violata per tutti, anche per gli uomini. I quali, in una società compiutamente berlusconiana non sarebbero meno subalterni e più autonomi delle loro concittadine.

La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento.

di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il Pci dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm.

Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel Pci negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel Pci molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il Pci ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato. Togliatti e Longo ordinano il ritorno al lavoro. Il furore di quella massa di operai è qualcosa che chi l'ha vissuta non scorderà: non era la conclusione di una protesta ma la dura introiezione d'un limite che non si sarebbe potuto superare. Togliatti lo subiva o ne profittò? I fatti militano per la seconda ipotesi. Perché su di esso - obbligato dai rapporti di forza mondiali, e confermato dall'infelice guerriglia greca - fondava la scelta del partito nuovo e lo innestava del «genoma gramsciano».

E' il tema della prima parte del volume; l'analisi di Magri è persuasiva. Anche se si può discutere su Gramsci, e non per le speculazioni sulla prima edizione delle opere che - Magri ha ragione - rese accessibili i «Quaderni», ma per la curvatura del gramscismo assunta dal partito, la lunga sottovalutazione della «sovrastruttura» avendo indotto all'offuscamento della «struttura», sbrigativamente definita «economicismo». E si potrebbe discutere sul governo interrotto nel 1947, che Magri non conobbe se non per quanto si rifletteva nella Democrazia cristiana, alla quale oggi l'Istituto Gramsci preferirebbe che il Pci si fosse alleato da subito - ipotesi fantasiosa. E sulla Costituente, nella quale le scelte comuniste sull'art.7 fecero chiasso, mentre sulla pochezza delle proposte sul terreno economico non si sollevò sopracciglio alcuno.

L'interpretazione che Magri ne dà nel 2009 è, grosso modo, quella che il Partito dette di sé con alcune sfumature critiche. Ne esce rafforzata, rispetto al giudizio che formulammo negli anni '70, la figura di Togliatti nella costruzione di un partito diverso da quello leninista, mirato a un rivoluzionamento dei rapporti sociali e «utilmente costretto» alla legalità. Non è un paradosso. Soltanto un punto non mi persuade: Magri considera obbligata e positiva l'adesione incondizionata all'Unione Sovietica, questione che, a distanza e visto l'esito, andrebbe discussa più che egli non faccia, salvo la nota (che è anche la più seria di François Furet): il leninismo non ha «lasciato eredità».

Su quel legame ci sarebbe molto da chiedersi. Non se schierarsi dall'altra parte o restare neutrali nella guerra fredda; lo spazio di Tito in Italia non c'era. Ma si poteva mantenere - almeno dopo la svolta all'est del '48 - uno sguardo critico che, riannodando con gli anni Venti e con il pensiero di Lenin sullo stato, tenesse aperta una problematica che già presentava i suoi conti. Peggio di come è andata non poteva andare; Togliatti era un uomo accorto, non era scomunicabile, il suo partito era il più forte d'occidente e aveva frontiere strategiche. È che sperava ancora nell'Urss, come Isaac Deutscher, ma sbagliava, come Deutscher. Il 1956, conseguenza del '48-'49, segnava una spaccatura irrimediabile, non solo nell'estate polacca e nell'insurrezione ungherese (forse meno diverse di quanto Magri ritenga) ma nell'impossibilità di Gomulka o Kadar di riannodare un qualsiasi filo con le loro società.

È vero che una critica al modello dell'est traspariva attraverso Gramsci, ma anche a Gramsci dovettero sfuggire le dimensioni del disastro fino al '34, quando Piero Sraffa poté parlargliene senza testimoni. Di quel che si dissero non sappiamo nulla. E non appare gran che, a distanza, la famosa intervista di Togliatti su Nuovi Argomenti e tragico il suo «non sapevamo, non potevamo sapere». Avrebbe aperto il discorso soltanto nel 1964, andando più a fondo di Berlinguer nel 1981, nel memoriale che voleva discutere con Krusciov. Ma in quegli stessi giorni morì. Il solo che ebbe il coraggio di pubblicare il memoriale fu Longo. Poi tutto si richiuse. E a Longo fu spesso informalmente vicino Magri negli anni seguenti - quando la sua testimonianza diventa diretta e, per così dire, interna corporis.

Al centro stanno gli anni Sessanta. È allora che si decide la successione a Togliatti, e soprattutto che cosa deve essere il Pci quando il dopoguerra è finito, Kennedy sembra allentare la guerra fredda, la Chiesa si spalanca al Vaticano II, l'avanzata del Pci nel 1963 fa piangere Moro, la crescita è trainata dall'edilizia, le automobili e gli elettrodomestici, il paese ha cambiato composizione sociale con le grandi migrazioni e l'entrata delle donne nell'industria, mentre radio e tv sono ancora più mezzo di comunicazione che di spappolamento. E tutto questo in un crescere di popolo convinto di avere dei diritti e deciso a conquistarli con le sue braccia, il suo sindacato e il suo partito. Di questa, che è la vera egemonia dei comunisti, è prova la proletarizzazione dei contadini che vanno al nord. Sono loro a formare l'«operaio massa», sul quale disquisiremo assieme ai francesi André Gorz e Serge Mallet, la Cfdt più che la Cgt, agli inizi del decennio.

Nel 1962, al Convegno sul capitalismo italiano del Gramsci si evidenziano due ottiche, quella di Amendola e quella di Trentin e Magri, appoggiata da Longo. Oggi Magri sottolinea i limiti delle posizioni difese anche da lui, ma è un fatto che per la prima volta viene contestata la tesi amendoliana di un capitalismo italiano torpido e tendenzialmente fascista. Così mentre la Dc capisce la dimensione del cambiamento, si apre al Partito socialista, e si affiderà d'ora in poi più a La Malfa che alla Coldiretti, il vertice del Pci si limita a constatare «bene, ora passano i socialisti, domani passiamo noi».

Così mi accolse Botteghe Oscure nel 1963, e mi parve un umore delirante (se formalmente contavo più di Lucio, ne sapevo di meno, salvo qualche colloquio mattutino con Togliatti, che non era uomo da dire mezza parola più che non volesse. E che mi calò un fendente quando intervenni contro Amendola su «Rinascita»). Ma, per grezze che fossero, le critiche alla linea amendoliana non cessarono più e si andarono aggregando - Magri lo descrive esattamente - in modo informale attorno a Ingrao, che è tutto fuorché un capocorrente. Ad ogni modo il Pci al centrosinistra non aderisce e non sabota. Ma Togliatti si è appena spento che Amendola propone di cancellare l'errore del congresso di Livorno e unificare Pci e Psi.

Inimmaginabile Togliatti vivente. Il Partito sobbalza, il gruppo dirigente non approva ma non attacca. Amendola non pagherà alcun prezzo. Da allora all'XI Congresso, due anni, il partito è determinato a distruggere qualsiasi alternativa al centrosinistra nel quale punta a inserirsi da una posizione forte: Ingrao, che non non è d'accordo, è il bersaglio. Al congresso Ingrao oppone all'unificazione fra Pci e Psi un coinvolgimento delle sinistre dei partiti e dei sindacati e i movimenti sociali nonché la breccia aperta, più che nella Dc, fra i cattolici - solo possibile blocco storico delle «riforme» di struttura. E termina con il diritto al dissenso, accolto da un'immensa ovazione della sala e da un immenso gelo della presidenza. Seguirà un fuoco di contestazioni, il suo isolamento e la diaspora dei sospetti di ingraismo. Magri, non difeso da cariche elettive, viene scaraventato fuori.

Oggi egli considera che è stata la domanda di legittimare il dissenso a riuscire indigeribile per le Botteghe Oscure. Ne dubito, il dissenso più clamoroso era venuto da Amendola, e senza conseguenze per il reo. La resistenza più spessa, come diranno gli anni seguenti, è di linea. E comporterà il progressivo perdere di peso di Longo.

Sul quale cadono due sessantotto, quello degli studenti e quello cecoslovacco. Non è vero che il Pci abbia favorito il primo, non fosse che per la differenza radicale di cultura, ma è vero che non lo ha attaccato. Amendola e Sereni obiettano, ma le federazioni si sono aperte agli studenti e Longo li riceve. L'anno seguente, quando esplode l'«autunno caldo» in contenuti e forme del tutto fuori dalla tradizione del partito e del sindacato, il Pci è occupato nel cacciare «il manifesto», pratica che il segretario avrebbe volentieri evitato. Già l'anno prima si erano dovuti registrare molti voti contro le Tesi del XII congresso, in centro e in periferia, e il districarsi malamente dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Ed è con questo pretesto che il manifesto viene fatto fuori. E' di Magri l'editoriale «Praga è sola» nel settembre 1969 e saremo radiati in capo a tre comitati centrali.

Magri spende poche parole sul «manifesto», ma senza di lui non sarebbe nato, come senza Pintor non avremmo il giornale. Non credo per le divisioni e amarezze che conoscemmo nel tempo: sono passati quarant'anni da quando fummo messi fuori dal Pci e una trentina da quando alcuni di noi separarono il giornale dal Pdup. Anni che non hanno risparmiato nessuno. La verità è che gli iniziatori del «manifesto» sono stati sconfitti nell'essenziale: non ci è mai bastata la buona coscienza, volevamo cambiare il corso delle cose, e la strada più percorribile sembrava quella di costringere, da dentro o da fuori, il Pci a elaborare i fermenti del '68 e del '69; insomma indurvi un cuneo profondo. Questo avrebbe salvato il comunismo da pesanti continuità e salvato dalla fragilità e dalle derive le spinte del '68 e del '69. Magri sperò che saremmo stati per il Pci come il Vietnam per gli Stati Uniti, Pintor puntò sul quotidiano come la forma politica più capace di penetrazione, i compagni spinsero per mietere un trionfo nelle elezioni del '72. Non mietemmo trionfi, non dividemmo il Pci, non costruimmo fuori di esso una grossa alternativa. Oggi Magri riconosce le ragioni di Natoli, che si oppose a ogni accelerazione, insistendo perché lavorassimo sui tempi lunghi. Concordo. Ma avremmo dovuto essere assieme più compatti ed aperti. Magri vide via via nel manifesto delle concessioni all'estremismo che avrebbero impedito ogni ascolto nel Pci, io vedevo nel Pci un ostinato chiudersi alle forze che dovevano esserne il blocco sociale moderno. Minacce di intervento esterno erano ormai da escludere.

Sta di fatto che dagli anni Ottanta il Pci tracolla, nessuna sinistra fuori di esso riesce a durare, il manifesto scivola verso la figura attuale di libero giornale di diverse opinioni.

Poteva non andare così, sostiene Il sarto di Ulm. Anzi per quanto riguarda il Pci, forse non è andata così fino alla morte di Berlinguer. Che aveva accumulato molti errori, specie con il compromesso storico e la politica dell'unità nazionale, ma nel 1979 tentò una svolta di 180 gradi, e ne fu impedito dalla maggioranza del gruppo dirigente. Magri rifiuta la tesi che fa delle Brigate Rosse l'artefice del suo destino: uccidendo Moro avrebbero precluso al Pci la strada al governo. Moro - egli ritiene - al governo non ve l'avrebbe portato, né andarvi gli avrebbe evitato la crisi, che veniva dal non intendere il mutare delle condizioni interne e internazionali. I fatti parlano: se la scelta del '73 a lungo covata (e Il sarto di Ulm lo documenta) era già «senza avvenire», l'astensione del 1976 al governo Andreotti è uno sbaglio rovinoso. Come la sordità ai movimenti sociali, anche più convulsi: per inaccettabili che fossero i gruppi armati, bisognava chiedersi perché si fossero formati allora. E che senso aveva gettare sul '77, che rovinoso non era, l'accusa di diciannovismo?

Più grave è nel Pci di allora la ormai insufficiente attrezzatura intellettuale e il dubbio su di sé. Se si aggiunge che le scelte diventano interamente di vertice e affidate a diplomazie segrete e snervanti, è chiaro che Berlinguer cerca di cambiar rotta fuori tempo massimo.

Volere o no una riflessione seria riporta al '64 e al '66. E il metodo seguito da Magri - l'attenzione ai mutamenti internazionali, macroscopici dal 1974 in poi, e alle condizioni interne, sociali e di governo - lo porta a prenderne atto.

L'89 segna una conclusione, non un capovolgimento. Anche se egli cerca fino all'ultimo i margini che eviterebbero la catastrofe: il documento del 1987, in appendice al volume, poco prima della caduta del Muro, è ancora una proposta. Che non trova portatori, come non li troverà la sua relazione ad Arco, sulla quale Ingrao scarta. E comincia male la vicenda di Rifondazione comunista.

La domanda che il suo lavoro induce è fino a quando c'era realmente tempo e se il materiale, di cui era fatta la proposta di cambiamento non era logorato. Lo era, risponderei oggi al compagno ed amico di tanto lavoro e tante zuffe. E a me stessa. Magri no, pensa che non tutto era giocato, anche se il suo giudizio su Berlinguer è non meno definitivo del mio. Specie sugli anni '70 e i guasti che vennero dal compromesso storico, al quale non si oppose nessuno, salvo un Longo inascoltato, e c'è chi lo difende ancora. Il gruppo dirigente che bloccò il tardivo cambio di politica del segretario nel '79 ne è un frutto. Berlinguer che va ai cancelli della Fiat, in appoggio a un movimento destinato a perdere, pare a me l'immagine di una solitudine. Sbagli, oppone Magri, era determinato; e non aveva con sé Lama ma la base popolare del partito. E la leva giovane? Gli Occhetto? Obietto. Così continua fra noi la discussione di una vita.

Che ne è dell'intellettuale novecentesco nell'era dei massmedia e nell'evo di Berlusconi, quando si rompe il rapporto fra politica e cultura e il capitalismo postfordista cancella operai e borghesia.

«Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo». Così Alberto Asor Rosa il 4 giugno 2008 su questo giornale, non senza scandalo. Quel giudizio e le sue ragioni ricompaiono ora ne Il grande silenzio, la sua lunga intervista sugli intellettuali che Simonetta Fiori ha raccolto per Laterza (giocando, va subito detto, un ruolo tutt'altro che secondario nell'andamento del discorso). Ai tre criteri di misura che in quell'articolo motivavano quel giudizio - senso dell'unità nazionale, rapporto fra cittadini e istituzioni e fra presente e tradizione - se ne aggiunge dunque un altro, lo stato in cui versa la questione degli intellettuali nell'«evo berlusconiano», stato che a sua volta riporta all'analisi della «civiltà montante» massmediatica e globalizzata in cui viviamo. La diagnosi del presente è l'approdo e non l'inizio dell'intervista, che per tre quarti procede lungo un asse di ricostruzione storica della questione nella vita della Repubblica; ma è lecito partire da qui, credo, e poi andare a ritroso, perché Asor Rosa è l'incarnazione della funzione intellettuale incardinata sul rapporto fra politica e cultura che nel libro mette a fuoco, e dunque è il problema tutto politico del «che fare oggi» che lo muove e lo tormenta, pur mentre di quella funzione dell'intellettuale politico decreta l'estinzione.

Che fare dunque oggi, e com'è fatta la «civiltà montante»? A fronte della nitidezza della panoramica sul passato, qui lo sguardo si fa più esitante, e perciò più stimolante. Non per quello che riguarda il giudizio politico su Berlusconi, che è nettissimo: «il prodotto finale di una lunga decadenza del sistema liberaldemocratico», che persegue, facendo tabula rasa della storia nazionale dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione, «un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico», forte della «devastante anomalia» che unisce in lui «il padrone dell'immaginario collettivo e il dominus della cosa pubblica». L'esitazione riguarda piuttosto l'epoca che al berlusconismo fa da cornice, la «civiltà montante», appunto, dei massmedia. Della quale, dice Asor, «mi rendo conto di essere portato a cogliere più gli aspetti negativi che quelli positivi», e tuttavia «il grande dilemma è se il nuovo Moloch porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è in grado di cogliere».

Totalitarismo democratico

Proviamo dunque ad addentrarci nel dilemma a partire dagli aspetti negativi: omologazione intellettuale, appiattimento dell'immaginario, prevalenza del criterio commerciale su quello culturale; metafisica dell'apparire contro l'essere; rappresentazione della realtà secondo il gradimento dell'audience; assolutizzazione della verità contro il giudizio critico, che invece «non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo»; epidemia dilagante di quella «peste del linguaggio» che Italo Calvino denunciava nelle sue indimenticabili Lezioni americane. Lucidamente Asor Rosa ne trae le conclusioni per i destini non solo dell'intellettuale - «la funzione intellettuale tradizionale, fondata su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica, appare inesorabilmente destinata al tramonto» - ma della stessa democrazia: «E' una fenomenologia non immune da inclinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze, seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi, non sono dissimili dall'appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità dei consumi». La diagnosi è giustamente spietata, in linea con altri contributi (Tronti, Cacciari, Badiou, Rancière, Nancy) che sfidano il fondamentalismo della fede nella democrazia oggi imperante strappando all'homo democraticus la maschera di sovranità e autodeterminazione che ne copre dipendenze e manipolabilità. Ma Asor Rosa diffida delle sue tentazioni catastrofiste, e di fronte a queste derive del presente vorrebbe piuttosto ritrovare la capacità marxiana («sono forse l'unico al mondo che ha letto tutto Marx e tutto Dante, virgole comprese») di cogliere non solo la distruttività ma anche la carica innovatrice dell'ingranaggio capitalista, per capire come smontarlo e come sovvertirlo. Eccoci dunque al dilemma di poco fa: dove trovare nel Moloch della «civiltà montante» le valenze positive su cui fare leva per il «che fare»?

Lasciamo sospesa la domanda e procediamo all'indietro, sulle tracce di quella figura dell'intellettuale novecentesco che oggi rischia l'estinzione come , scherza Asor, i dinosauri che pretendevano di restare uguali a se stessi in presenza di un mutamento ciclopico del clima e dell'ambiente. Con ogni evidenza, nel ritratto che Asor Rosa ne traccia, l'intellettuale novecentesco è figura del rapporto fra politica e cultura. Di un rapporto non organico - Asor conferma qui la sua distanza da Gramsci - bensì critico, ma comunque strettissimo e imprescindibile. Fuori da questa posizione schierata, partigiana e militante, quella figura svanisce o nell'isolamento individualista dell'uomo di cultura o nell'opportunismo degli «apoti», quelli che oggi come nell'Italia prefascista e fascista non si schierano né di qua né di là, avallando di fatto il potere costituito. Invece, «da Max Weber fino a Bobbio l'intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e lo usa come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l'antropologia circostante». Presente sia a destra che a sinistra, a destra l'intellettuale viene cancellato dal totalitarismo fascista e nazista, mentre a sinistra sopravvive in forme eretiche al totalitarismo comunista. La sua storia è intimamente intrecciata quindi con la storia della sinistra.

Di questo inteccio Asor Rosa fornisce un resoconto completo e convincente, ripercorrendone tutti gli snodi princiali: il trauma del '56 e la crepa che aprì nell'ortodossia comunista, il riformismo del primo centrosinistra, il ciclone degli anni Sessanta («il deprezzamento del '68-'69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni»), la stagione del consenso intellettuale più vasto, ancorché tutt'altro che compatto, al Pci berlingueriano fra il '72 e il '78, il «dramma» del '77 (organizzare la visita di Lama alla Sapienza fu «un clamoroso errore»), il terrorismo e l'assassinio di Moro, la «mutazione morfogenetica» del Psi craxiano in macchina di potere, infine la svolta del Pci nell'89. L'impronta spiccatamente autobiografica aggiunge verità al racconto, punta su alcuni momenti peculiari (l'esperienza delle riviste operaiste negli anni Sessanta, quella di Laboratorio politico negli Ottanta), ne chiarisce altri (la rottura fra Asor, allora direttore di Rinascita, e Occhetto, non tanto sul che cosa quanto sul come della svolta: «La verità è che mi sentii tradito. L'operazione di Occhetto, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme»), invita a un confronto con vissuti e giudizi diversi su altri momenti ancora (il '77, ad esempio). Ma più che insistere sulla storia dei decenni passati, è sul suo esito che il libro ci sospinge, e ci inchioda.

Sull'esito - il «più del fascismo» da cui siamo partiti, e al suo cospetto «il grande silenzio» degli intellettuali italiani o di ciò che ne resta - gravano tre processi incrociati. In primo luogo l'impoverimento della politica, dagli anni Ottanta sempre più autoreferenziale e incapace di ascoltare l'apporto di specialismi e voci critiche. In secondo luogo il cambiamento della composizione di classe della società: se l'intellettuale novecentesco si definisce nel suo rapporto con la borghesia o, dove questo spostamento si è dato o è stato tentato, con la classe operaia, un rapporto dello stesso tipo non pare ad Asor ripetibile nel panorama sociale senza classi del postfordismo. In terzo luogo, la furia di cancellazione delle radici storiche e delle tradizioni politiche che imperversa - coltivata da ondate successive di revisionismo - su tutta la scena pubblica italiana: a destra, dove vige «l'ideologia onnivora del presente» di Berlusconi, ma anche a sinistra, dove dopo l'89 hanno trionfato o una autocritica liquidatoria della tradizione (tanto più zelante proprio negli intellettuali che le erano stati più organici) o una sua riaffermazione acritica.

Zone di resistenza

Ma se è così, è dall'interno di questa stessa diagnosi che si possono trovare i punti di leva per il «che fare» che Asor Rosa lascia aperto. Lasciamo perdere l'appello a una qualche riforma o a un qualche risveglio della politica ufficiale, che il ceto politico attuale non sembra in grado di recepire, e guardiamo piuttosto alle «zone di resistenza» da cui lo stesso Asor invita a ripartire, indicandone una nella scuola pubblica e nell'università, a suo giudizio corrose ma non distrutte dalla decadenza degli ultimi decenni. In questa ricerca delle zone di resistenza può essere proprio il panorama sociale postfordista di cui Asor Rosa diffida a venirci in soccorso, se è vero com'è vero che uno dei suoi tratti distintivi è proprio la crescita esponenziale di una intellettualità diffusa, diversa per composizione sociale dall'intellettuale novecentesco, priva delle (e distante dalle) sue forme di mediazione politica nonché linguistica, e tuttavia non riducibile all'omologazione conformista prevalente nella «civiltà montante». Non per caso, del resto, il neo-operaismo di oggi vede nel lavoro intellettuale postfordista potenzialità analoghe a quelle che l'operaismo degli anni Sessanta vedeva nella classe operaia di fabbrica. E non per caso è nelle pieghe dell'ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, che si combatte ogni giorno e ogni minuto quella battaglia sul senso e l'interpretazione del presente un tempo affidata - ma anche delegata - alle grandi ideologie.

Vero è invece che anche questa battaglia minuta, diffusa e quotidiana rischia di farsi fagocitare dall'«ideologia onnivora del presente» che non è solo un tratto del berlusconismo, ma è inerente alla forma stessa della razionalità massmediale della nostra epoca. E vero è dunque che anche questa battaglia si gioverebbe assai di quel recupero del senso della storia a cui Asor Rosa ci richiama. In questa direzione, il dialogo fra lui e Simonetta Fiori ha un valore esemplare. In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell'estinzione dell'intellettuale novecentesco è l'elaborazione di un lutto: l'ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l'intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c'è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui farsi eredi. E infatti, malgrado la sua denuncia sulla pochezza dei tempi in corso, Il grande silenzio riesce a farci sentire a fine lettura non più deprivati, ma più ricchi di chi ci ha preceduti.

Il socialismo nasce in Europa, ha un’infanzia difficile in Russia e raggiunge la maturità in Cina. Nel sessantenario della fondazione della Repubblica popolare cinese, a Pechino si celebra in gran pompa il successo di un’ideologia agonizzante in casa nostra. Ma il Sol dell’Avvenir in Europa sta calando da vent’anni e a contribuire a questo lunghissimo tramonto è stato, paradossalmente, proprio il partito comunista cinese. Più che il crollo del muro di Berlinosono i fatti diTienanmen ha mettere in moto un processo inarrestabile, che porta alla disintegrazione della sinistra europea. Nell’immaginario collettivo occidentale il sangue degli studenti trasforma la Cina nel nuovo nemico dell’umanità.

Sommersi dalle macerie sovietiche i partiti socialisti non hanno più un punto di riferimento reale. Nessuno osa guardare alle riforme di Den Xiaoping e al modello cinese - infinitamente più flessibile rispetto a quello sovietico ed anche a quello nostrano - come un esempio di marxismo che si adatta alla globalizzazione prendendo in prestito dall’economia di mercato ciò che serve per mantenere in vita il socialismo. Piuttosto osservano le metamorfosi del partito laburista britannico.

TonyBlair lo reinventa abbracciando il nuovo dogma:il neo liberismo. E così sposta l’asse completamente al centro e s’impossessa della retorica della signora Thatcher. Trasforma l’Inghilterra nel paradiso fiscale dell’alta finanza e si allea con i neo-conservatori di Bush in una guerra ingiusta. Attira voti grazie ad un benessere economico fittizio, che poggia sull’indebitamento. Oggi tutti lo sanno e il Regno Unito paga lo scotto di questa politica più degli altri. È infatti tra i pochi paesi occidentali dove non si intravede alcuna ripresa economica, con una contrazione del PIL del 5.5%.

Eppure è il modello edonistico di «New Labour» che gran parte della sinistra storica europea abbraccia. Blair è infinitamente popolare tra quella classe media allargata che si pensa sia ormai il nocciolo duro dell’elettorato del vecchio continente.

Così il socialismo si spoglia delle sue origini operaie. In Germania e Italia, dove un tempo esisteva una sinistra operaia, va a braccetto con i «venture capital», le banche d’affari e gli «hedge funds». L’operazione funziona per qualche anno, fintantoché la bolla finanziaria distribuisce ricchezza a tutti. Uniche voci fuori dal coro la Spagna, la Norvegia e il Portogallo, dove ancora oggi il socialismo resiste, ma il club degli amici di Blair le snobba. Poi tutto improvvisamente cambia.

Alla fine del 2006 l’economia mondiale inizia a rallentare per entrare in recessione l’anno dopo. Il socialismo «alla Blair» è la prima vittima. In Inghilterra tornano alla ribalta i conservatori che nel 2009 sconfiggono «New Labour» nelle elezioni amministrative. In Francia e in Italia sale la destra che si accaparra la maggioranza anche alle elezioni europee. L’Europa torna conservatrice, titolano i giornali questa settimana quando riportano la vittoria della Merkel in Germania, come sempre nei momenti di crisi, pensano tutti. Ma in realtà a rivitalizzare la destra non è la crisi quanto l’essersi appropriata di quei valori che il socialismo, quello vero, ha sempre difeso: la protezione del cittadino, il suo benessere, la cura dell’ambiente in cui lavora e vive e così via.

Forse è vero che la lottadi classe è «passé» ma le classi esistono e sono più che mai distanti tra di loro. E la destra lo sa bene. Il reddito reale di quella media è oggi più basso che negli anni 70, ed è di questo che la Lega parla, non certo degli indici di borsa, quando fa propaganda politica nelle ex zone rosse dell’Italia. Dall’altra parte del mondo il socialismo cinese trionfa perché ha mantenuto il contatto con la propria base e ne ha fatto gli interessi. Il partito ha decentralizzato il proprio potere economico facilitando la crescita economica e il benessere. Mentre ai paesi del blocco sovietico era applicata la terapia d’urto, e cioè la trasformazione da un giorno all’altro in economie di mercato, la Cina comunista faceva piccoli passettini e li faceva da sola. Ed ecco i risultati in poche cifre: negli ultimi 60 anni la popolazione è crescita da 542 milioni ad un miliardo e 300 milioni, l’età media è salita da 35 a 73 anni, il PIL per capita è passato da 51 a 2770 dollari, le riserve bancarie da quasi zero a 2 mila miliardi di dollari (le più alte al mondo), gli studenti universitari da117 mila a 20 milioni, la mortalità per parto da 1.500 ogni 100 mila nascite a 34. La democrazia è solo dietro l’angolo. Il socialismo in Europa sarà anche morto ma l’ideologia vive. Se vogliamo vedere la sua versionemoderna possiamo andarla a cercare in Cina dove ancora sorge il /sol dell’avvenir/.

Il farfallone amoroso gode del suo giorno dell’orgoglio e si riabilita - sempre che ne avesse bisogno - vestendosi e rivestendosi come Leopoldo Fregoli. Occhi lucidi e respiro lungo: tutti felici.

La concorrenza, si sa, non c’è: motivi tecnici. Ballarò spostato a domani, Matrix alla prossima settimana, sono questioni di palinsesto e, dicono da Mediaset, di difficoltà organizzative; la Champions, dove Pippo Inzaghi collabora alla restituzione della grandeur, è confinata in pay e tutto il mondo televisivo - disinteressato agli ultimi giorni di Adolf Hitler su RaiTre - può assistere al trionfo del presidente del fare.

Fregoli, dicevamo: il presidente giardiniere illustra le qualità terapeutiche del fieno steso sul manto erboso; il presidente ingegnere dettaglia sulle costruzioni antisismiche, le doppie piastre, gli «assorbitori di potenza»; puntando gli indici, il presidente architetto deraglia nella plastificazione poiché il quartiere Bazzano, ricostruito a cinque chilometri dall’Aquila, è stato edificato di modo che le case sembrino di epoche diverse, e non «artefatte», e di conseguenza artefatte sono; il presidente designer guida la visita dentro alle case di legno che saranno consegnate con gli armadi - «anche con gli attacca-abiti» - e apre i frigoriferi delucidando sui requisti dell’ultimo modello; il presidente anglofono dice: «People first»; il presidente pater familias ha una pacca per tutti.

E mille e mille presidenti, il presidente anticomunista, il presidente imprenditore che nega le correzioni delle sue reti per favorire gli ascolti del gran ritorno di Porta a Porta, il presidente San Sebastiano trafitto dai dardi della tv pubblica. E infine (per modo di dire) il presidente Tafazzi che non guarda più la tele. Ma in fondo è la serata squillante del governo del fare - non della ciàcola, non della lascivia - in un’elencazione di record che avrebbe mandato in tilt anche un Rino Tommasi, e il terrore sale quando il premier sfodera l’elenco delle opere compiute.

Record, record e record: due mesi per l’asilo Giulia Carnevali (dal nome della giovane progettista morta nel terremoto, e il padre in studio, dignitosissimo, invita a guardare avanti), record; quattro mesi per le casette, record; entro settembre tutti fuori dalle tende, record; i giapponesi, gli americani e gli australiani ci invidiano le tecniche e i tempi, record; Nancy Pelosi che dice a Berlusconi: «Un’impresa del genere per noi negli Stati Uniti sarebbe stata impossibile», record; ho governato più di Alcide De Gasperi, record; ho governato meglio di De Gasperi, record.

E poi la gente, il people, e gli operai, i men at work, che dalla cima delle gru chiamano il presidente a braccia levate: «Silvio! Silvio!». L’uomo vecchio e stanco e barbuto che entra nella casa appena ricevuta e non resiste a un singulto di commozione. La donna col bimbo in braccio che sull’uscio dell’asilo sente la vita che ricomincia. I terremotati in piazza che si guardano attorno e dicono: è un miracolo, un miracolo. Faremo di più, faremo meglio, dice Berlusconi: abbiamo un know how che riproporremo per costruire le carceri, le centodieci città dove le giovani coppie troveranno l’abitazione che non trovano oggi, basta infilare tre turni di otto ore al giorno per ridurre i tempi di due terzi.

Sull’altra parte della barricata resta un povero Stefano Pedica, coordinatore laziale dell’Idv di Antonio Di Pietro, che fa picchetto all’ingresso della sede Rai di via Teulada, ma tanto Berlusconi entra lo stesso. E dentro il sindaco dell’Aquila, Stefano Cialente, cerca soltanto di attutire lo scoppio dei mortaretti. Qualche giornalista propone dei distinguo travolti dall’energica e fluviale parlantina del presidente del Consiglio. Piero Sansonetti si prende la briga di dirne due o tre. Bruno Vespa abbozza un paio di bisticci rapidamente sedati. E’ l’occasione buona per regolare i conti, da presidente pompiere, e per il resto rimangono negli occhi le casette di legno che casette non sono, dice Berlusconi, semmai ville dove a tutti noi piacerebbe abitare. Anche a lui, sembra, al farfallone amoroso che si autodichiara dittatore, scherzando, il narcisetto, ora che non più andrà notte e giorno d’intorno girando delle belle turbando il riposo.

Il voto tedesco di domenica - che ha visto una perdita oltre il previsto della Cdu e la spettacolare crescita della Linke in due laender dell'est e, ben più sorprendente, anche in uno dell'ovest (sia pure patria del proprio Leader Oskar Lafontaine - si presta a qualche considerazione più generale.

La prima, che ci riguarda più da vicino: quanto in Italia non è riuscito ai gruppi a sinistra del Pd (che pure è assai peggio della Spd), in Germania ha funzionato. Eppure le tradizioni culturali, e anche la collocazione sociale, delle due principali forze che l'hanno costruita, la Pds, erede diretta della certo non gloriosa Sed che ha governato per quasi mezzo secolo la Repubblica democratica, e la sinistra di un partito socialdemocratico (la Spd) e di un sindacato fortemente anticomunista, non avrebbero potuto essere più lontane, ben più di quelle che in Italia hanno cercato di dar vita all'Arcobaleno, quasi tutte originariamente provenienti dal Pci. Espressione, l'una, di un elettorato insediato all'est, e, l'altra, di un pezzo di movimento operaio radicato nelle grandi fabbriche dell'Occidente. Sono riuscite, certo non senza travagli, non solo a costruire un'alleanza elettorale, ma addirittura un partito che ha ormai vinto più di una sfida negli ultimi anni.

Varrebbe la pena che da noi il fenomeno fosse meglio studiato e forse si vedrebbe che lì hanno giocato, diventando forza, elementi che da noi sono debolezza: una generale e più radicata identità di sinistra e, che al di là di storiche e tragiche divisioni, nessuno - per la verità neppure la Spd - si è mai sentito di liquidare con faciloneria in nome di abbagli nuovisti; un'attenzione centrale ai problemi sociali del lavoro dipendente; l'impegno posto nel costruire assieme una nuova cultura comune, un compito affidato essenzialmente alla Fondazione Rosa Luxemburg, che conta ormai molte sedi anche all'estero, e che svolge un ruolo prezioso nello stimolare nuove analisi e nuove riflessioni collettive, un lavoro che somiglia assai poco a quello delle proliferanti omologhe italiane.

Certo non mancano neppure nella Linke settarismi, idiosincrasie, bisticci, tensioni fra chi sta al governo, come nel land di Berlino, e chi all'opposizione. Inevitabili quando a lavorare assieme si trovano vecchi quadri sindacali, giovanissimi no-global (specie nella ex Pdf), anziani abitanti della Repubblica democratica, vittime della colonizzazione occidentale. Ma, fin d'ora, l'esperimento ha retto alla grande.

La seconda considerazione riguarda la Spd che ha continuato a perdere ovunque, sia pure senza che si verificasse il crollo che tutti si attendevano. E però la crisi di questo partito non potrebbe apparire più grave. Il suo leader Frank-Walter Steinmeier, vice della Merkel nel governo di coalizione e a questa formula particolarmente affezionato, l'uomo che ha sostituito il precedente presidente del partito, liquidato per aver manifestato qualche apertura nei confronti di una possibile alleanza di governo con la Linke in Assia, si trova ora a gestire una situazione nella quale brandire il no a ogni eventuale contaminazione coi «comunisti» gli sarà molto più difficile. Ieri ha cantato vittoria, in nome di questa perdita che, sebbene minore del previsto, resta pur sempre sostanziosa. Ma è ormai chiaro che adesso non potrà fare a meno di fare i conti con la nuova sinistra, cresciuta nonostante ogni tentativo di delegittimarla, compiuto anche a costo - come è accaduto in Assia - di mandare in rovina la Spd di questo Laender, imponendole di rinunciare al governo pur possibile e così di aprire la strada alla rivinciata conservatrice.

Le elezioni di domenica hanno reso esplosivo lo scontro già aperto nel partito, anche se - a un mese dalle elezioni politiche federali - tutti si guarderanno bene dal renderlo pubblico. Ma è quasi certo che nella Sahr, nonostante gli anatemi del centro, il leader della locale Spd finirà per fare un governo con Verdi e Linke; che in Turingia, invece, questa coalizione non si farà perché è la Linke che avrebbe eventualmente il diritto alla presidenza del land perché forte del 10 per cento di voti in più dei socialdemocratici. Ed è facile che, qui come in Sassonia, si scelga alla fine l'impopolare riproduzione della Grosse Coalition al potere a Berlino.

Questo zig-zag non indebolisce solo il prestigio della Spd, la espone a una brutta avventura nelle elezioni del 24 settembre: a livello federale più che un voto di scelta partitica conta il voto per un'alternativa possibile. La Merkel, pur bastonata dall'elettorato, nonostante i suoi tentativi di smarcarsi dal conservatorismo del proprio stesso partito, un'alternativa ce l'ha: la coalizione con i liberali che hanno aumentato considerevolmente i propri voti. Non è una certezza, ma un'ipotesi credibile sì. È la Spd che non sa che dire se rinuncia a priori a un progetto che unisca anche Verdi e Linke. La conseguenza sarà che, di fronte alla posta in gioco del governo federale, una bella fetta dell'elettorato tutt'ora rimasto fedele alla Spd, e che però non vuol sentir parlare di una nuova edizione dell'allenza con la Cdu, privo di ogni altra scelta, finisca per non recarsi alle urne. Da trent'anni la proporzione delle astensioni corrisponde in Germania a quelle che misurano la crisi interna alla Spd, le sue incertezze e i suoi opportunismi. Gli elettori socialdemocratici non tradiscono, ma si arrabbiano.

Da noi, com'è noto, tutto è meno lineare. Ma anche in questo le elezioni tedesche di domenica sono istruttive.

Lui, l’inventore del Partito Democratico, quello vero e non uno dei tanti epigoni, si chiama Walter Veltroni e non spera neanche più nel Sol Levante. La sua massima aspirazione è quella di trarre un film dalla sua ultima fatica letteraria, per il resto si accontenta di quel che passa l’Italia. Gli altri, quelli che hanno contribuito a costruire, mantenere, e anche un po’ a distruggere il Pd, guardano al Giappone come alla Terra Promessa. Certo, a voler essere cattivi, si può dire che i Prodi e i Fassino che inneggiano alla vittoria del centrosinistra versione asiatica si stiano attrezzando a un’opposizione lunga 55 anni, perché in Giappone è andata proprio così: ci è voluto più di mezzo secolo prima che i democratici vincessero in quel di Tokyo. Ma sarebbe ingeneroso. Come sarebbe oltremodo capzioso sottolineare il non ottimo gusto di quanti nel Pd nostrano inneggiano allo tsunami democratico provocato da quelle elezioni visto che in Asia il maremoto ha provocato distruzione e morte e augurarsi un cataclisma per far fuori Silvio Berlusconi appare francamente eccessivo. Ma queste, tutto sommato, sono disquisizioni che riguardano il costume in voga presso i nostri politici, i quali amano dipingere le altrui vittorie come le loro e soffrono di nostalgia per l’Ulivo mondiale di clintoniana memoria. Quel che stupisce — e fa riflettere — è che dopo la sconfitta delle europee la classe dirigente del centrosinistra continui non a gettare il cuore oltre l’ostacolo ma, piuttosto, a buttare il pallone fuori campo. Spargere centinaia di parole sul Giappone rischia di essere un modo per non misurarsi con i veri problemi del Paese. Forse sarebbe bene se Fassino e soci ricordassero che dopo Obama per il Pd c’è stata la sconfitta elettorale delle europee. E dopo il successo di Yukio Hatoyama, che ci sarà? Potrebbe esserci sul serio l’onda lunga democratica invocata da Prodi. Ma il pericolo è che, alla fine, ci sia la presa d’atto dell’incapacità, da parte del Pd, di costruire una forza politica in grado di governare l’Italia e non di limitarsi a sognare l’«altrove».

La legge 94, del 15 luglio 2009, è un capolavoro di xenofobia e incongruenze. È sciatta e farraginosa, formata da soli 3 articoli suddivisi in una miriadi di commi e subarticolazioni. È dispendiosa, costerà tagli per 166 milioni. È piena di assurdità, scrivere sui muri diventa più grave del falso in bilancio

Sia da un punto di vista formale, sia da un punto di vista dei contenuti, l'ennesimo «pacchetto sicurezza» (legge 15 luglio 2009, n.94) sconta in maniera preoccupante per le ragioni di uno stato di diritto, il suo essere opera di una convulsa attività legislativa di tipo emergenziale, espressiva più di emozioni, poco accreditabili sul piano della stessa civiltà, che non di una razionale politica criminale.

Sotto il profilo formale, la tecnica di redazione è connotata da farragine e sciatteria: siamo lontanissimi dall'esigenza di chiarezza che, secondo la fondamentale lezione illuministica sulla legalità, deve contrassegnare, nello stato di diritto, la normativa penale: essa pretende, di regola, per le violazioni alle sue disposizioni anche il sacrificio della libertà individuale. Ed invece, nel pacchetto sicurezza farragine e sciatteria sono la regola: si consideri solo che la legge 94/09 è formata da tre soli articoli - privi di rubrica, cioè di un titolo illustrativo dei contenuti - che risultano suddivisi, rispettivamente, il primo in trentadue commi, il secondo in trenta commi ed il terzo in ben sessantasei commi; inoltre, la gran parte delle norme contiene ulteriori subarticolazioni, con defatiganti rinvii, anche plurimi, ad altre norme, e con frequenti interpolazioni di queste ultime. In queste disposizioni risultano allineate in modo confuso o, addirittura, intrecciate ipotesi di reato, circostanze aggravanti, cause di maggiore o minore punibilità e tutta una gamma variegata di norme non penali che, tuttavia, finiscono con l'incidere drammaticamente sui diritti fondamentali delle persone, come le norme in tema di centri di identificazione ed espulsione.

Se c'è una lettura difficile anche per un penalista esperto - figuriamoci per il semplice consociato, il destinatario delle norme - è certo quella di questi tre articoli: impegna realmente per ore!

Furia cieca

Dal punto di vista dei contenuti, la caratteristica del complesso malassortito delle tante disposizioni è data dal loro essere espressione di bisogni, spessissimo indotti, di rassicurazione dell'opinione pubblica, soprattutto in rapporto ad immigrazione ed ordre dans la rue, con un occhio alla mafia ed entrambi gli occhi serrati rispetto alla criminalità del ceto politico-amministrativo, imprenditoriale e finanziario.

I rimedi adottati sono riassumibili nello slogan: più repressione, più carcere, più controllo, di polizia e non. Sulla scia di precedenti, improvvidi provvedimenti normativi si mette in scena una coazione a ripetere repressiva, che, connotata da inquietante populismo, criminalizza e rinchiude gli outsiders, oppure li scheda (registro nazionale dei vagabondi, art.3 co.39) e li vessa in vario modo (vedi la tassa da 80 a 200 euro sul permesso di soggiorno, oppure il sistema a punti, con perdita del permesso per lo straniero che non raggiunge certi «obiettivi» previsti dall'«accordo di integrazione», art.1 co.25), per assecondare senza scrupoli le pulsioni xenofobe di una minoranza tanto rumorosa quanto incivile. Si arriva così allo stato di polizia: controllo ossessivo - anche attraverso sorveglianti «parapoliziali», le ronde -, marchi sui vagabondi e campi di internamento.

Una legge costosa

Considerando i prevedibili effetti della legge n.94 in chiave di carcerizzazione e di internamenti nei centri d'identificazione ed espulsione (Cie), appare manifesto che il governo ed il legislatore si comportano in modo ciecamente repressivo ed irresponsabile, dato l'insostenibile sovraffollamento carcerario; e tutto ciò avviene deliberatamente e platealmente a spese di ben più efficaci ed auspicabili interventi in chiave di sviluppo economico-sociale, anche all'estero, dal momento che, come illustra la tabella 1 allegata alla legge, per costruire nuovi Cie si stabiliscono tagli ai fondi ministeriali che gravano soprattutto sul ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, per quasi 90 milioni di euro in tre anni (!), e poi sul ministero degli affari esteri, per circa 49 milioni, e su quello dell'economia e delle finanze, per più di 14 milioni, su un totale di tagli di 166 milioni.

Monumento all'inefficacia

Guardando ai singoli contenuti, in materia di immigrazione si staglia il nuovo reato di soggiorno illegale, un vero e proprio monumento di inefficacia, al di là di ogni altra dolorosa considerazione. Nessun extracomunitario illegale potrà mai pagare la prevista ammenda da 5000 a 10000 euro - per la quale viene arbitrariamente esclusa l'applicabilità della comune disciplina dell'oblazione -; né si capisce a cos'altro serva mai questa figura di reato, dal momento che l'autore denunciato può essere immediatamente espulso o internato nel Cie, il che poteva già avvenire in via amministrativa secondo la disciplina vigente. Dal punto di vista funzionale era sostanzialmente equivalente il reato di inottemperanza all'ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato - sanzionato, a seconda dei casi, con la reclusione da un anno a quattro o a cinque anni (o da sei mesi ad un anno in caso di permesso scaduto) - che viene «ritoccato» rispetto alla disciplina risultante dal pacchetto sicurezza dell'anno scorso (d.l. n.92, conv. in l.n.125/08). E come il reato di inottemperanza, anche la nuova fattispecie si presenta priva di legittimazione in uno stato di diritto conforme ai principi costituzionali del sistema penale.

Infatti, si può legittimamente punire una persona solo se abbia leso o messo in pericolo un bene giuridico, in altri termini un tangibile interesse o diritto di una o più persone; non si può sanzionare penalmente taluno per la mera disobbedienza ai comandi dell'autorità (nullum crimen sine iniuria). Ora, l'extracomunitario senza permesso di soggiorno, o che non si allontana, con ciò solo non fa male proprio a nessuno; ritenere che solo per il fatto di essere sans papier sia pericoloso è espressione di pura xenofobia.

Ma ciò, evidentemente, non importa ai pretesi fautori del pragmatismo efficientista e della tolleranza zero, come non importa loro che l'unico vero effetto della nuova disciplina possa essere quello di far scoppiare i Cie, in attesa che si realizzino quelli nuovi, moltiplicando così i campi di internamento disseminati nel territorio nazionale. Va considerato infatti che, in ultima analisi, il reato di ingresso illegale ha come vera sanzione l'internamento nel Cie, ossia, al di là delle etichette, una pena detentiva fino a sei mesi.

In questo contesto si segnalano anche altre gravi discriminazioni e stranezze, come l'aumento da sei mesi ad un anno dell'arresto previsto (oltre all'ammenda) per lo straniero che rifiuta di esibire i documenti, art.1 co.22 lettera h, mentre il cittadino che realizza un fatto analogo è punibile solo con l'arresto fino ad un mese (e un'ammenda dieci volte inferiore), art.651 c.p.; o le modifiche alla norma incriminatrice del dare alloggio o cedere anche in locazione un immobile ad uno straniero originariamente o successivamente divenuto irregolare, laddove è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni, a fronte dell'ammenda prevista per lo straniero irregolare. Una incongruenza veramente singolare.

Ma forse è nell'art.3 e negli altri contenuti «stravaganti» del pacchetto sicurezza che più traspare la sua natura emergenziale; nuove incriminazioni e soprattutto aumenti di pena del tutto superflui assecondano in ordine sparso, al di fuori di una visione sistematica coerente, le ansie repressive spesso indotte dai mass-media. Qualche esempio: innanzitutto, il restyling del reato di oltraggio, un omaggio allo strisciante neofascismo, oggi tanto in voga. Si pensi inoltre alla gran messe di aggravanti introdotte con la legge n.94: è giusto contrastare fatti di bullismo ed in genere fatti contro la persona in danno di minori, ma allo scopo non serve, ed anzi è miopemente arbitrario, prevedere un'aggravante se il fatto è commesso «all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione», art.3 co.20: perché, in discoteca è meno grave o meno pericoloso? E per strada?

Considerazioni analoghe potrebbero svolgersi per le nuove aggravanti del furto e della rapina, di cui all'art.3 co.26-27, consistenti, rispettivamente, nella commissione «all'interno di mezzi di pubblico trasporto» - non è aggravata, però, la rapina appena scesi alla fermata in periferia... - oppure al momento in cui la vittima preleva denaro o l'ha «appena» prelevato: una sorta di istigazione indiretta a seguire la vittima, per rapinarla dopo, lontano dalle guardie e dalle telecamere... Non parliamo poi dell'aggravante - da un terzo alla metà della pena - prevista per la guida in stato di ebbrezza o stupefazione se commessi dalle 22 alle 7; sinceramente credevamo fosse più grave e/o pericoloso guidare ubriachi in pieno giorno, quando e dove c'è più gente in giro.

Il decoro urbano soprattutto

Per finire, si diceva che questo pacchetto sicurezza riduce la sicurezza ad ordre dans la rue; in effetti, il decoro urbano, o la sua fruibilità dalle persone «perbene», sembra ormai essere più importante non solo delle libertà di circolazione e soggiorno degli altri, ma anche della stessa libertà personale. Viene introdotta la pena della reclusione, in alternativa alla multa, per chi imbratta (senza danneggiarli) immobili o mezzi di trasporto. Nei casi di recidiva anche semplice, la pena massima è raddoppiata a due anni di reclusione: più grave del falso in bilancio.

Su tutto questo ed altro ancora, vigileranno le famigerate ronde. Tra tanti rischi di abusi in chiave squadrista, di conflitti con altri gruppi e con le forze dell'ordine, e così via, forse il rischio maggiore consiste nel fatto che la sorveglianza di strada dei «cittadini perbene» possa perpetuare una visione «a senso unico» della sicurezza, orientata ad una certa criminalità o mera illegalità di strada. E così, magari, l'imprenditore che picchia l'operaio rumeno in azienda non viene segnalato, ma potrebbe esserlo l'operaio che, appena uscito in strada, gli imbratta l'auto; così come sarà facile prevedere la segnalazione per il giovane ubriaco che di notte fa troppo chiasso nella movida o in qualche periferia che non quella dei poliziotti che, giunti sul posto, come pure avviene, perdano la testa e lo picchino a sangue.

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