Un filo neanche molto sottile lega l’offensiva del presidente del Consiglio contro La piovra e Gomorra, e il divario crescente che lo separa da Gianfranco Fini. Il filo è costituito dal parlar-vero, sui mali italiani: da quello che Melville chiama, meditando in Moby Dick sul ruolo profetico, il dovere del verbo. Non è la prima volta che Berlusconi attacca La piovra. Lo ha già fatto il 28 novembre («Se trovo quelli che hanno fatto 9 serie sulla Piovra, e quelli che scrivono libri sulla mafia che vanno in giro in tutto il mondo a farci fare così bella figura, giuro li strozzo»).
L’assalto non era impulsivo: venerdì s’è esteso al libro di Roberto Saviano Gomorra. Ha detto testualmente: «(Dalle statistiche) la mafia italiana risulterebbe la sesta al mondo. Ma guarda caso è quella più conosciuta, perché c’è stato un supporto promozionale a quest’organizzazione criminale, che l’ha portata a essere un elemento molto negativo di giudizio per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di 160 Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra...». Se fuori casa appaiamo brutti, la colpa non è della mafia ma di chi fa vedere.
Allo stesso modo gli sono intollerabili le analisi negative sulla crisi economica mondiale, e infine il lavorio che Fini sta compiendo per costruire una destra conservatrice ma non populista, non xenofoba, con un forte senso della legge e soprattutto dello Stato: poiché è la sfiducia nello Stato che alimenta, a Sud come a Nord, la potenza mafiosa. I giornalisti narrano come alle critiche concrete del presidente della Camera, giovedì, Berlusconi rispondesse, macchinalmente, con slogan di piazza o frasi tipo: «Va tutto bene». Lo scisma della destra a Sud è disastroso e la Lega prevarica, osservava il primo, e lui replicava che a Sud la destra vince e che la Lega gli ubbidisce.
Vivo all’estero da tempo e posso certificarlo: se abbiamo ancora prestigio, presso i cittadini e i politici europei, è perché accanto al crimine esiste chi lo denuncia, a voce alta, rischiando la solitudine in patria e a volte la morte. Le sale si riempiono quando dall’Italia giungono Saviano, Travaglio, Tabucchi, descrivendo il regno d’un prepotente che controlla tutte le tv. Nei cinema, Gomorra e Il divo suscitano, oltre che spavento, ammirazione. Il giorno che Saviano visitò il Canada senza guardie del corpo, le giubbe rosse vollero scortarlo loro: per entusiasmo, e gratitudine. Non va dimenticato che la lotta antimafia di giudici e scrittori italiani aiuta molti Paesi ad arginare un crimine fattosi globale. Quando Falcone fu ucciso, nel maggio ’92, il giudice americano Richard Martin disse che mai sarebbe riuscito a smantellare Pizza Connection, senza Falcone. La mafia Usa fu combattuta da un trio composto da Falcone, Martin e Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di Manhattan. I metodi italiani antimafia sono un esempio mondiale. Non è con fiabe edificanti che correggiamo la storia. Fuori Italia, è a causa di Berlusconi che abbiamo problemi. Continuamente dobbiamo spiegare il suo successo, la sua malia, e non tanto lui quanto noi stessi.
Dice Saviano nella lettera al premier, pubblicata ieri da Repubblica, che «accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al Paese non è un modo per migliorare l’immagine italiana, quanto piuttosto per isolare» chi esplora tale potere. Senza narrazione veridica, niente riscatto: «È l’unica strada per dimostrare che siamo il Paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, non il Paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan». Berlusconi non l’ignora: sa quel che dice, e non teme di dirlo in nome di tutti gli italiani. Quando proclamò eroe Vittorio Mangano (ergastolo per due omicidi, appartenenza alla mafia, traffico di droga) fu il silenzio omertoso che esaltò come modello di virtù. L’arma principe contro le mafie - i pentiti, che lo Stato deve tutelare - veniva spuntata.
Infatti è stata spuntata, come spiega il giudice Nicola Gratteri quando evoca la battaglia alla ’ndrangheta. Gian Carlo Caselli sostiene che il discredito gettato sui pentiti - quindi su chi parla - non esisteva nel contrasto al terrorismo, ragion per cui quest’ultimo fu vinto e la mafia no (Le due guerre, Melampo 2009). Sono arrestati molti latitanti, non c’è dubbio: un successo del ministro dell’Interno, ma anche di magistrati e poliziotti non intralciati. In futuro lo saranno. Dice ancora Gratteri che quella sulle intercettazioni è «una legge spaventosa, che costruirà attorno alle mafie una diga di silenzio con il pretesto della “privacy”» (il suo libro, La malapianta, è pubblicato come Saviano da Mondadori, editrice del premier). Il silenzio è un regalo enorme alle mafie.
Anche per questo, perché l’omertà trascolora in eroismo, la mafia non spara come prima. Ma dilaga, specie a Nord. La legge del silenzio e la legge che silenzia: probabilmente è questa la stoffa di cui è fatto il patto politica-mafia, sotto la cui tenda viviamo. Ci ha protetti da attentati. Non ci protegge da una condiscendenza dilatata all’illegalità, dai profitti colossali della ’ndrangheta. Parlando degli elettori berlusconiani, Saviano osserva: «Molti di loro saranno rimasti sbigottiti e indignati dalle sue parole». Gli italiani, non solo di sinistra, si sono appassionati a Gomorra e alla Piovra (il primo film che parli di rapporti fra mafia, politica, finanzieri, massoni). La piovra ha agito sulle coscienze come il serial televisivo Olocausto sui tedeschi, nel 1979, o come sui francesi il film di Resnais sulla collaborazione, Notte e nebbia. Scoprire i propri lati oscuri è parte d’ogni guarigione, individuale o collettiva. È raccontare il proprio Paese com’è, per migliorarlo. Matilde Serao fece vedere che Napoli non era una cuccagna: nel Ventre di Napoli s’aggrovigliavano crimine e povertà. Grazie a lei la medicazione ebbe inizio.
Parlare vero è anche una barriera contro la degradazione della politica, contro i suoi vocaboli edulcoranti, i suoi eufemismi. È qui che il richiamo al dovere del verbo si allaccia alle vicende di Fini. Dell’Utri afferma che la politica gli serve per i processi di complicità con la mafia. Lo ha detto in un’intervista a Beatrice Borromeo, il 10 febbraio sul Fatto: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera». Lo ha ripetuto giovedì, al processo d’appello di Palermo. Ancora non si sa come finirà il conflitto Fini-Berlusconi, ma spegnersi del tutto non può: perché due visioni della destra si scontrano. Perché la contesa ha al proprio centro il dovere del verbo. Perché dall’antichità è con la parola che la politica comincia, o ricomincia. Perché l’attesa che si è creata non è piccola.
È vero: Fini ha inaugurato la sua diversità con il vocabolario e lo stile, prima che con le azioni; con discorsi sempre più affilati su temi decisivi come l’immigrazione, la legalità, la Costituzione. Dicono che qui è la sua debolezza, che mancano le politiche; che tutto è intellettualismo, maniera. «Fini dove va? Sono quattro gatti, sono dei fighetti», dice Berlusconi, e sa di poter contare su molti che la pensano così. Molti detrattori della parola, sospettata di non avere «radici nel territorio»: dunque radici nella paura, come la Lega. La retorica ha una fama cattiva, ma ha nobili tradizioni. Chi voglia riscoprirlo sfogli il periodico online di Farefuturo, la fondazione di Fini: spesso troverà i toni del j’accuse di Zola, che non è roba di fighetti. Il massimo politologo europeo è Machiavelli. È lui a smascherare l’opacità verbale, quando descrive riformatori religiosi come San Francesco: essi «lasciarono intendere che egli è male dir male del male», coprendo per questa via gli uomini della Chiesa. «Così quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono».
Il dovere del verbo non è altro che questo: dire male del male. Su mafia, crisi, sul parto così difficile di una destra non biliosa, equilibrata. Un male non imbellito da telegiornali che rincretiniscono con servizi sulla fine dei chewing-gum masticati, e che diventano - la formula è di Sabina Guzzanti - armi di distrazione di massa. Saremo apprezzati all’estero a queste condizioni. In Italia si dimenticano presto non solo i propri misfatti, ma anche le proprie grandezze e i propri uomini di valore.
Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d'Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt'ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
E’ meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un'espressione ancor prima di divenire il nome di un'organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della 'ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d'affari - cento miliardi di euro all'anno di profitto - un volume d'affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.
Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell'istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera.
Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. "La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere ... non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze".
Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E' mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull'organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.
Eppure la sua non è un'accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un'insana voglia di apparire. Quando c'è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l'allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l'unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l'impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l'Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell'antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell'occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E' drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell'accusa, possiamo cambiare le cose.
Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l'immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l'unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E' l'unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando.
Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall'accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E' da loro che voglio risposte.
Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.
«Sono stufo di vedere la scuola italiana agli ultimi posti in Europa. Sono stufo di vedere i professori depressi a causa di un sistema che non garantisce la qualità». Roberto Formigoni, fresco di quarto mandato come presidente della Regione Lombardia, anticipa la svolta federalista della scuola. Due i principi cardine della riforma. Stop alle graduatorie nazionali con il reclutamento diretto dei professori da parte delle scuole su base regionale. Assoluta parità tra istituti statali e istituti privati grazie al potenziamento della dote scuola. Un modello che ricalca la riforma della sanità del 1997. La Lombardia chiede al governo di fare da apripista e di sperimentare il «nuovo modello».
Presidente Formigoni, più che una riforma sembra una mossa per spiazzare e anticipare la Lega.
«La definirei una proposta formigoniana-pidiellina-leghista in profonda sintonia con il programma del governo e della coalizione».
Una riforma che richiede un cambiamento delle leggi.
«Ne ho già parlato con il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e con il governo. La direzione è condivisa. Siamo all’inizio della legislatura emetteremo con forza sul piatto la nostra proposta».
La risposta?
«Per la sperimentazione non è necessario cambiare le leggi, c’è bisogno di un accordo con il governo. Individueremo delle scuole e ci confronteremo con tutti, senza violenza e senza ledere i diritti di chicchessia. Abbiamo già trovato un terreno favorevole sia con i sindacati sia con i professori».
Su quali proposte?
«Integrare il meglio della scuola pubblica e privata puntando su un elemento: la valorizzazione degli insegnanti grazie all’introduzione del merito. Dopo aver premiato gli studenti vogliamo premiare gli insegnanti esaltando chi vuole continuare a qualificarsi».
Come?
«Deve essere la scuola a scegliere gli insegnanti. Adesso esistono le graduatorie nazionali. Ti iscrivi a quell’elenco, arriva il numero 1826, e la scuola ti deve prendere. Sia che tu sia un premio Nobel sia che tu sia uno che fa il professore perché non ha nulla di meglio da fare».
Con quale strumento?
«Costituendo degli albi regionali. Le scuole pescano in questo albo in base al merito».
Albi riservati ai residenti lombardi?
«No. Chiunque può iscriversi all’albo regionale. Garantendo però alcuni requisiti».
Quali? «Una certa permanenza nel territorio, almeno un ciclo di studio di 5 anni. Per evitare turn over frenetici come succede adesso».
Basta?
«No, bisogna anche premiare. Estendendo la dote scuola anche agli insegnati meritevoli. Con incentivi di natura economica e diversificazione degli stipendi. Come accade in Regione per i dirigenti dove un terzo del loro stipendio dipende dal merito. Non voglio insegnati burocrati, ma insegnanti dirigenti».
Sul versante delle famiglie?
«Bisogna potenziare la dote scuola. E permettere alla famiglia e allo studente di scegliere in massima libertà a quale scuola iscriversi, sia statale, sia privata. E dall’altra parte passare al finanziamento diretto delle scuole. È la scuola che ingaggiando l’insegnante gli garantisce lo stipendio».
Sa quale sarà la critica? La stessa che ha segnato la riforma della sanità. Favorite i privati a scapito del pubblico.
«È il residuo degli ultimi maoisti in Lombardia. L’88 per cento della popolazione lombarda è soddisfatta della nostra sanità. Hanno capito che abbiamo puntato sulla qualità. Non si chiedono se l’ospedale è pubblico o privato, ma se cura o non cura. Lo stesso avverrà con il sistema scolastico».
Lotta alla precarietà e difesa del bene pubblico a cominciare dall'acqua nonché avvio di una seria riflessione sulla crisi - data ormai per definitiva - del centrosinistra.
Qualcuno forse si aspettava che il primo coordinamento nazionale di Sinistra, ecologia e libertà - convocato all'indomani delle elezioni - si sarebbe «limitato» a celebrare la vittoria di Vendola in Puglia chiudendo gli occhi sul disastro abbattutosi nel resto dell'Italia, ma così non è stato. Certo resta grande la soddisfazione per il risultato pugliese ma non è dalla conta dei voti né dal numero dei consiglieri eletti che Sel decide di ripartire. I partiti sono finiti, consumati e inadeguati - aveva già dichiarato Vendola in un'intervista a Repubblica - e ora si apre una nuova fase: quella in cui strutture più leggere si attrezzino per transitare la sinistra verso una nuova rifondazione. E a Bersani risponde: «Sono d'accordo sulla necessità di costruire il cantiere della sinistra, purché sia chiaro che non si tratta di avviare operazioni di restauro. La mia opinione è che bisogna rifondare la cultura, la proposta, il progetto del centrosinistra». Non si tratta insomma di emendare alcuni aspetti ma di «ricostruire il vocabolario dell'alternativa. Noi non abbiamo sbagliato i comunicatori, abbiamo sbagliato il messaggio». La berlusconizzazione dell'Italia - conclude Vendola - è un problema culturale prima ancora che politico, sociale prima che elettorale. Bisogna essere all'altezza della sfida».
Insomma il punto di crisi del centrosinistra «in quanto tale» - nient'altro che una fredda aggregazione di alleanze incapace di dare risposte credibili - è irreversibile. Non i singoli partiti presi uno per uno né la loro sommatoria ma la logica che - anche in queste elezioni - ne ha consentito la (mancata) tenuta: con chi mi prendo, con chi mi alleo?
Di questa logica la Puglia ha fatto piazza pulita ed è questo che dalla Puglia - concordano le diverse anime di Sel presenti ieri alla riunione del coordinamento - va esportato. Prendere atto della crisi, insomma, e immaginare altre costruzioni di cultura sociale. Sel si rivolge a tutti, dal Pd ai partiti della Federazione ma a una condizione: si dialoga solo con chi prende atto che o il centrosinistra ritrova una sua capacità di essere credibile o non si va da nessuna parte. Esportare le «Fabbriche di Nichi» non basta se non all'interno di un progetto più ampio che rifiuti una volta per tutte le logiche partitiche e che faccia saltare in aria l'ormai asfissiante appiattimento della politica sull'organizzazione.
Questa la linea prevalente nell'incontro di ieri anche se Sinistra, Ecologia e Libertà è ancora in attesa di darsi una forma in vista del congresso che presumibilmente si terrà in ottobre. Nel mezzo due date intermedie: gli Stati generali delle Fabbriche e un nuovo aggiornamento previsto per la fine di aprile.
E sulla forma - se snella, meno snella o corpacciosa - certo ci sarà ancora da discutere ma anche qui sbaglia chi crede che all'interno di Sel esistano già due schieramenti predefiniti e con tanto di nomi cognomi: da un lato Bertinotti e Vendola, dall'altro Claudio Fava con tutta Sd. Più complessa e per fortuna meno personalistica è la questione perché le incertezze riguardo alla forma che Sel potrà assumere prima del congresso attraversano in realtà entrambi gli «schieramenti» e sono più legate alle esperienze soggettive delle singole persone che a eventuali atti di fede. «Quello che c'è di positivo - dice qualcuno uscendo dall'incontro - è che oggi anche le soggettività della politica sono venute fuori».
Bello sarebbe mettere la parola fine alle lotte intestine e magari riprendere a dialogare anche con la Federazione e con gli ex (ma non poi tanto) compagni di Rifondazione. Una strada percorribile, forse, se si accetta l'idea che essere una minoranza va bene ma che essere minoritari per vocazione suona ormai come una dannazione.
E se per il momento la Federazione tace - anche a causa di un infortunio che ha bloccato a letto il co-fondatore Diliberto - parla invece Rosi Bindi che non sembra però aver colto appieno il messaggio che arriva da Sel: «Attenzione a sciogliere i partiti per poi rifondarli, è da anni che lo facciamo, dentro una logica tutta interna al sistema politico». Proprio quello che Sel vorrebbe evitare.
E’ diffusa l’opinione, anzi la certezza, che la campagna elettorale appena conclusa sia stata molto brutta: lo ripetono le principali cariche dello Stato, oltre a politici e giornalisti di varia provenienza. I veri temi non sarebbero stati affrontati: quelli che inquietano il cittadino localmente, nelle regioni o nei comuni in cui si vota. Sarebbero stati confiscati da temi non solo falsi ma fuorvianti: l’informazione televisiva, la battaglia su legalità e corruzione.
La Lega in particolare, che ha mostrato in queste settimane la forza del suo insediamento territoriale, vede confermata una tesi difesa da anni: se la democrazia italiana non funziona, è perché la politica e i mezzi d’informazione vedono la realtà attraverso una lente deformante, e non si sono adattati al sistema nuovo, non più centralizzato, del potere. In un sistema federale, competenze e poteri si disseminano, e quando si vota nelle regioni o nei comuni è di regioni e comuni che si deve parlare, non di argomenti generali come informazione e imperio della legge.
Questa forte convinzione potrebbe essere premiata dagli elettori: è probabile che il Nord ad esempio, compreso il Piemonte, condivida il disgusto verso lo spazio che nella campagna hanno preso questioni politiche generali, giudicate importanti a Roma ma non fuori Roma. Le questioni specifiche di cui si sarebbe dovuto parlare (sanità, lavoro, trasporti, effetti della crisi) sarebbero state confiscate da un tutto che col particolare non ha nulla a che fare e che a esso è fondamentalmente disinteressato. L’intera campagna non sarebbe che un immane escamotage, un trucco astratto e furioso usato per eludere le faccende veramente concrete.
Stupisce che analogo fastidio non sia stato suscitato dall’irruzione di temi considerati localmente decisivi dalla Chiesa, come aborto e fine-vita.
Anche se comprensibili, constatazioni così desolate non sono tuttavia giuste, né pertinenti. La perentorietà del lamento somiglia troppo, inoltre, a un ritornello: e sempre i ritornelli hanno un modo di ripetere l’identico che trasforma le verità in pensieri non chiarificatori ma martellati per diffondere conformismi. Il ritornello dice, in sostanza: «In Italia non si riesce più a parlare d’altro» se non di Annozero, di informazione più o meno indipendente, di legge più o meno osservata da governanti e governati. Un fossato si sarebbe aperto intollerabile fra discorsi autentici e discorsi avulsi come l’informazione o la legge. Anche i giornali non si sentono a posto con la coscienza quando non «parlano d’altro».
Il fatto è che quest’altro di cui si vorrebbe non parlare e che addirittura crea rimorsi ha invece rapporti strettissimi con i problemi locali, e non è affatto estraneo al vissuto di ciascuno di noi: cittadino dello Stato o cittadino che chiede i conti a governi regionali o comunali.
Non esiste, la famosa divaricazione tra mali veri e non veri: o si sanano tutti e due insieme, o tutti e due degenereranno infettandosi a vicenda.
Vediamo l’informazione, in primo luogo televisiva visto che i dati lo confermano: sia localmente che nazionalmente, gli italiani si informano soprattutto alla televisione, cosa che spiega d’altronde il rifiuto, più che quindicennale, opposto dal Presidente del consiglio a ogni limitazione del suo potere catodico. Non si tratta di sapere se con la tv si vincono o si perdono le elezioni. In questione è la società: la facoltà che le viene data di formarsi un giudizio conoscendo i fatti, la sua cultura della legalità, della tolleranza, della mente libera da slogan, ritornelli. Impossibile acquisire tale cultura se il cittadino non è bene informato. Se viene tenuto in una sorta di Kindergarten, davanti al quale si recitano giuramenti, e si ripetono aggettivi o parole («una grande grande grande grande riforma») come si fa con i bambini e le filastrocche.
In vari articoli scritti sul sito della Voce, Michele Polo, economista della Bocconi, denuncia questa infantilizzazione e respinge l’accusa, che gli viene rivolta, di sprezzare snobisticamente gli elettori, ritenendoli influenzabili e incapaci di giudizio: «Oggi gran parte dei cittadini si forma una opinione sui fatti principali e sull’operare della politica non già attraverso una esperienza diretta e personale, ma mediante i mezzi di informazione. In Italia, con un ruolo preponderante della televisione». A essere pericolante è il giudizio informato attorno a fatti non tenuti nascosti, ma resi pubblici. E che l’Italia sia più a rischio di altri lo si evince da dati precisi: «Tra le peculiarità italiane scrive Polo c’è una bassa abitudine alla lettura, che fa dei telegiornali di gran lunga la principale fonte di informazione. I due principali telegiornali serali, Tg1 e Tg5, raccolgono in media 6,4 e 5,3 milioni di telespettatori, mentre gli spettatori dei telegiornali sulle sei reti sono circa 19 milioni. I primi 5 quotidiani (Corriere, Repubblica, Sole 24 ore, Stampa, Messaggero) arrivano a circa due milioni di copie, corrispondenti a circa sei milioni di lettori.
In una recente indagine del Censis sulle elezioni europee del 2009 emerge come il 69 per cento degli elettori ha fatto ricorso ai telegiornali per formarsi una opinione in vista del voto, il 30 per cento ai programmi televisivi di approfondimento, il 25 per cento si è affidato ai giornali, il 5 per cento alla radio e solo un coraggioso drappello del 2 per cento ha utilizzato Internet». Proprio Tg1 e Tg5 sono accusate d’aver privilegiato enormemente il Pdl, nella campagna elettorale.
La legalità è il secondo tema apparentemente non essenziale ma invece essenzialissimo a qualsivoglia livello: locale, nazionale, europeo, mondiale. Sono tante le cose che da noi non funzionano per la corruttela epidemica, per l’evasione fiscale che s’estende, per l’impunità di colletti bianchi collusi con le mafie. Chi è fuori da simili «giri» (come li chiama Gustavo Zagrebelsky su Repubblica) non sa come ricominciare vite lavorative, imprese malferme, speranze. È per aiutare gli esclusi e gli onesti che legalità e magistratura vanno difese. L’illegalità alimenta la disuguaglianza sociale e viceversa, l’usura e le estorsioni crescono con la crisi economica e l’accrescono, gli immensi costi dell’illegalità sono pagati da ogni cittadino, come ben illustrato dal giudice Gratteri, impegnato nella lotta alla ’ndrangheta. In alcune regioni del Sud mafia e ’ndrangheta si sostituiscono allo Stato, inerte se non corrivo: ci sono «paesi in cui il mafioso è tutto. Amministra la giustizia nel nome della violenza e offre servizi che lo Stato non è in grado di garantire». Il male oltrepassa da tempo il Sud: «Ormai le mafie hanno aggredito ogni lembo del territorio nazionale» (Nicola Gratteri, La Malapianta, Mondadori 2009)
Parlare di rispetto della legge non è dunque avulso. Né parlare di intercettazioni. Se già valesse la legge che le restringe, mai sarebbero stati arrestati tanti malavitosi. Un limite si dovrà stabilire, alla pubblicità data alle intercettazioni concernenti fatti privati, ma oltre tale limite la pubblicità è giusta: anch’essa ci informa e ci fa giudicare meglio. Anche qui, il cittadino informato è la priorità assoluta: se non avessero letto le intercettazioni sui giornali, tanti ignorerebbero le corruttele italiane e quel che esse ci costano.
Legalità e informazione sono vere emergenze, ed è positivo che abbiano occupato il centro della campagna elettorale. Troppo pericoloso ignorarle in tempi di crisi, come si è visto in Grecia. Un regime corrotto, che truccava le cifre, che allontanava lo Stato dai cittadini, che parlava sempre d’altro: così si è scivolati nella quasi bancarotta. È probabile che anche su questo l’Unione europea sarà più vigile. Onestà delle cifre, lotta alla corruzione, restaurazione del senso dello Stato diverranno criteri base della ripresa greca, così come furono criteri non irrilevanti per i paesi corrotti dal comunismo che entrarono nell’Unione, o per l’Italia che nei primi Anni 90, alla vigilia del Trattato di Maastricht e dell’euro, fu invitata da Kohl a frenare il dilagare delle proprie mafie.
«La prova delle regionali è importantissima. E il Lazio e la capitale sono decisivi per assestare a Berlusconi un colpo di portata nazionale. E poi, oltre a Roma, questi sono i luoghi dove sono cresciuto, spesso in mano a reazionari come a Fondi. Perciò tutti al voto e facciamo vincere la Bonino, che stimo molto. Come del resto Vendola, al cui partito penso di dare il mio voto di lista». Novantacinque anni martedì prossimo e appello al voto. Così ci si presenta Pietro Ingrao, materializzandosi nel suo soggiorno di Via Balzani in Roma, dopo una mezzoretta di ritardo «accademico» e mentre osserviamo un ritratto di Vespignani e una marionetta di Charlot appesa al muro.
Intervista per uno straordinario compleanno: le 95 primavere di un leader che ha incarnato una delle anime chiave del Pci (l’ingraismo) e che ha inventato l’Unità del dopoguerra, come grande giornale di informazione. Figura del dissenso, e della fedeltà a un ideale: il comunismo. Al quale non smette di credere. Come quando gli chiediamo ad esempio: ma tu Pietro la vuoi l’alleanza con Casini? E lui risponde tranquillo: «Per battere Hitler mi sono alleato anche con i monarchici. Tenendo ben chiara la guida e l’asse fondamentale. Dal punto di vista nazionale e della lotta di classe...». Perciò comunista non pentito e togliattiano, a suo modo ovviamente... Sentiamo il «giovane» Ingrao.
Caro Pietro: vittoria della sinistra in Francia e riforma sanitaria di Obama. Due regali che possono allietare i tuoi primi 95 anni, malgrado le tante delusioni?
«Certo, qualcosa si muove nel mondo. Ma in Italia siamo in forte ritardo, rispetto alle novità e alle speranze che ci vengono da un globo ormai da un secolo e più in tempesta. In particolare il ritardo italiano concerne l’assenza di un soggetto collettivo in grado di guidare grandi masse disorientate e in cerca di riscatto. Berlusconi è ancora lì in cima. Anche se l’Italia non se lo meritava proprio uno così».
Molti parlano di un declino di Berlusconi e del suo blocco sociale. Tu che ne pensi?
«Vedo gli inciampi in cui si è cacciato questo reazionario. E però tarda a crescere un soggetto collettivo antagonista. Lui ce la mette tutta a farsi danno, ma non c’è l’avversario a contrastarlo. Troppo debole, malgrado le tante forze generose in campo. E la mancata ripresa sta nella divisione politica e nell’insufficiente radicamento politico nei luoghi nevralgici: i luoghi del lavoro. I miei maestri mi hanno indicato che lì andava cercata la risposta, per cambiare l’Italia che aveva tanto patito sotto la borghesia capitalistica e terriera. E da quel contatto sono venute le fortune della sinistra italiana del dopoguerra: dalle lotte degli anni ’60, all’irruzione dei metalmeccanici nel ’69, alle conquiste civili e sociali degli anni ’70».
Tutto ciò è rifluito per la sparizione dei soggetti sociali del lavoro, o per l’incapacità di continuare a vederli quei soggetti?
«Prima di tutto c’è stata la controffensiva reazionaria, scattata negli anni ’70 e ’80: Agnelli in Italia, e Reagan e la Tatcher sul piano mondiale. Dopo la vittoria sui fascismi, le lotte del secondo dopoguerra e le conquiste degli anni 70, quella controffensiva ha vinto, sul piano internazionale. Da noi, con gli aspetti meschini del craxismo. Chi dice poi che il lavoro è scomparso dice balle. Quel che è cambiata è la geografia delle forze di classe, a partire dagli scenari globali. È mutata in Asia e in Oriente. Pensa alla Cina, o all’India... di lì vengono cambiamenti grandiosi negli equilibri economici del mondo. Quanto all’Italia, ripeto, pesano le sconfitte degli ultimi decenni. Che hanno portato al prevalere del blocco berlusconiano, sulle divisioni sociali e politiche del soggetto antagonista. Gli operai e i lavoratori subalterni ci sono eccome! Sono invisibili e divisi sul terreno della rappresentanza. Vanno reindividuati con un’analisi nuova. E riunificati politicamente».
Il Pd di Bersani, libero dai teodem, più orientato verso il lavoro e le alleanze, al centro e a sinistra, ti lascia sperare in meglio?
«Senza dubbio Bersani è meglio di Veltroni. Tuttavia anche il Pd di oggi resta un partito di centro e non di sinistra. Ci vuole molto di più per rispondere alle questioni sul tappeto. Prima di tutto occorre la costruzione tenace e collettiva di un dialogo tra le forze antagoniste a Berlusconi. Uno schieramento di resistenza. Unito e collegato dall’uno all’altro versante, e ben guidato».
Immagini anche tu una sorta di Cln anti-Berlusconi, tra sinistra e forze centriste e moderate?
«Può sembrare un po’ inattuale. Ma quel che suggerisci nella tua domanda mi pare molto giusto: costruiamolo questo schieramento! Non vedo però la volontà sufficiente, per sedersi attorno a un tavolo a ragionare sulle cose da fare e quelle da non fare. Si tratta di adottare una piattaforma concordata per mettere in movimento una dinamica sociale di massa. E questo non c’è ancora. Ricordo la nostra ossessione unitaria nel ’900, e come quella ossessione si traducesse nel costruire assieme azioni e decisioni. È questo che si è indebolito. Se guardo a sinistra poi, vedo solo frammenti irrilevanti e cose esili... ».
Al tavolo che sogni, la sinistra radicale non potrebbe sedersi. Non c’è più, a parte Vendola. Come mai?
«Non possiamo rifare di nuovo tutta la storia di una sconfitta. Però non è che il mondo della sinistra radicale non esista proprio più. Vendola ha storia e futuro dalla sua parte. È un attore nuovo in campo. Benché senza alleati e consistenza attorno. Non credo che neanche Bersani e Vendola messi insieme ce la possano fare a dare la risposta che occorre a Berlusconi».
Temi contraccolpi pericolosi per la democrazia, tra crisi di Berlusconi e mancata replica antagonista?
«Berlusconi ne sta già combinando tante e non c’è bisogno di paventare altro. Muoviamoci per allestire uno schieramento unitario. E in fretta!».
E ora parliamo tanto di te, in questo compleanno. Nell’altro secolo volevi la luna. La vuoi ancora o ti sei calmato?
«Mi piace ancora molto la luna. E non smetto di guardarla, sognandola per i miei nipoti e pensando a tutta la strada percorsa fin qui, alle battaglie politiche per la liberazione umana. La voglio ancora quella luna, anche nelle sue facce diverse. Quando sono al mio paese, nelle sere d’estate mi affaccio al balcone e vedo uno spettacolo straordinario. Da una cima di montagna spunta quel volto rotondo, col suo alone. Quando lo guardo mi tornano in mente altri tempi e altre parole. Oppure cose indimenticabili, come i versi di Giacomo Leopardi alla luna. Allora la speranza e la fantasia si riaprono. E ricomincia l’esplorazione dell’inedito, il bisogno di ricominciare. A volte chiamo i miei bis-nipoti e da lontano indico loro la luna con la mano. È il mio contributo “educativo”. Poi toccherà a loro volere la luna».
Bertolaso&c, l’affare emergenze ecco la fabbrica degli stipendi d’oro
La Repubblica, 14 marzo 2010
Ci sono eventi e eventi, nell’Italia dell’emergenza continua e delle ordinanze a pioggia. Alcuni calamitosi. Altri che non lo sono per niente. Ma che, per la Protezione civile, erano e sono da ritenersi "grandi eventi". Gare ciclistiche, regate, mondiali di nuoto, beatificazioni, visite pastorali, convegni eucaristici, vertici politici e militari, pellegrinaggi. Per legittimarli, e per assegnare un compenso "aggiuntivo" ai «soggetti attuatori», ai commissari delegati e a quelli straordinari che li gestiscono - quasi sempre Guido Bertolaso - a palazzo Chigi è sempre pronta una disposizione urgente. Che in molti casi stabilisce un gettone: dal 3,75% al 50% del «trattamento economico complessivo in godimento».
Sono 628 le ordinanze straordinarie dal 2001 a oggi. Un diluvio di procedure "ad hoc" che hanno permesso al dipartimento di Protezione civile della Presidenza del consiglio di bruciare, in nove anni, oltre 10 miliardi di euro. Più di un miliardo all’anno. Settanta milioni al mese. Quasi 3 milioni al giorno. Un sistema che ha ingrossato i conti delle centinaia di ditte appaltate a trattativa privata. O con gare-lampo sottratte alle regole di assegnazione e controllo della Corte dei Conti. O - vedi Abruzzo - «sulla base di criteri di scelta di carattere fiduciario».
L’Italia che emerge dalle ordinanze di Protezione civile è un paese a rischio ininterrotto. Pronto a sprecare. Calamità naturali, certo. Terremoti, alluvioni, smottamenti. Mettiamoci pure il traffico di una mezza dozzina di città, i rifiuti sotto il Vesuvio, le gondole e i vaporetti che assediano Venezia e «l´eccezionale afflusso turistico» nelle isole Eolie. Ma in un fritto misto di sacralità, agonismo e alta diplomazia istituzionale, a Bertolaso&co sono state affidate anche: le visite pastorali del Papa (800 mila euro stanziati nel 2008 per gli spostamenti di Benedetto XVI, ogni volta che il pontefice supera le sponde del Tevere il governo concede la dichiarazione di "grande evento"); i mondiali di ciclismo di Varese (71 milioni) e quelli di nuoto di Roma (60 milioni); i congressi eucaristici di Bari (2005, 3 milioni) e Ancona (2011, 200 mila euro per ora); le Olimpiadi di Torino e i vertici internazionali come il Nato-Russia del 2002 a Pratica di Mare (5 milioni solo di telecomunicazioni). E ancora: il semestre italiano di presidenza europea, la firma della Carta di Roma, il doppio G8 Maddalena-L´Aquila - quello della "cricca" costato 500 milioni - , la Louis Vuitton trophy. E, trattata come «un evento calamitoso di natura terroristica», l´influenza suina: 24 milioni di vaccini acquistati dalla casa farmaceutica Novartis; ne è stato usato uno solo, gli altri 23 sono andati in malora. In tutto una quarantina di eventi. Almeno tre - secondo le procure di Roma, Firenze e Perugia - hanno prodotto la «gelatina» della corruzione, il reato di cui è ac-cusato il capo della Protezione civile.
Il dipartimento al tempo di super Guido è una macchina del potere. La più veloce, ricca e meno controllata dello Stato. Un pozzo di San Patrizio che in meno di un decennio - da quando nel 2001 Berlusconi ne ha fatto un dipartimento della presidenza del consiglio - si è trasformato in un grande ente appaltatore. In spregio alle norme sugli appalti e le assunzioni. Tutte per chiamata diretta, senza concorso (l´ultima infornata ne ha prodotte 200). Gli stipendi, poi. Dal capo ai funzionari, ce ne sono molti che lievitano grazie alle indennità: non solo per le emergenze e le missioni, anche per i grandi eventi.
È qui il nocciolo del potere della Protezione civile. Decreto varato da Berlusconi il 7 settembre 2001, articolo 5 bis comma 5. La "carta" estende il potere di ordinanza «alla dichiarazione di grandi eventi (...) diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza». Tradotto: una frana è come il G8, il terrorismo in Iraq come il ciclismo in Insubria. La canonizzazione di Padre Pio e Josè Maria Escrivà come i tuffi al Foro Italico e la preregata dell´America’s cup. Risultato: centinaia di milioni che fanno felici gli amministratori locali. E non solo. «È un’anomalia istituzionale - tuona il senatore del Pd Mario Gasbarri - . Le ordinanze le propone Bertolaso, Berlusconi le firma e le emana. In ogni ordinanza si nomina Bertolaso commissario. E in queste ordinanze lui riceve un compenso aggiuntivo. Bertolaso, insomma, decide quanti soldi deve prendere Bertolaso». Il capo della Protezione civile guadagna 236 mila euro (lordi). Più di ogni altro capo dipartimento. La sua retribuzione va in deroga alle leggi vigenti (pubblico impiego e contratto nazionale di lavoro del personale dirigente). Nel 2008 ha dichiarato un reddito imponibile di 1 milione e 13mila euro (quarto più ricco nel governo), a fronte di uno stipendio di molto inferiore. «Emolumenti episodici relativi ad attività svolte negli anni precedenti», ha spiegato in una nota la Protezione civile. Già. Ma qual è il compenso «aggiuntivo» di cui - documenti alla mano - Bertolaso pare aver beneficiato in questi anni? Per quanto Repubblica ha potuto sin qui verificare, ci sono una serie di ordinanze, almeno 12, emanate dalla Presidenza del consiglio tra aprile 2002 e giugno 2009, nelle quali è indicato un compenso extra per il commissario degli eventi. Che risponde quasi sempre al nome di Bertolaso. Lo "scalino" standard ammonta al 3,75%. Da calcolarsi sul «trattamento economico complessivo in godimento».
Esempi. Il G8, il 50° anniversario della firma dei trattati di Roma, il congresso eucaristico di Ancona (in programma l´anno prossimo e già affidato al sottosegretario B.). In altri casi, come per il pellegrinaggio a Loreto del 2007, palazzo Chigi elargisce ai soggetti attuatori un´indennità pari al 50% del «trattamento economico». «Vorremmo capire se il compenso per Bertolaso è cumulativo o se lo è stato - ragiona Antonio Crispi, funzione pubblica Cgil - , lo chiederemo al segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri». È un ginepraio il sistema di ordinanze di Protezione civile. Spesso, a un certo punto, la traccia che indirizza ai cachet si perde. Ecco alcune procedure urgenti. Emergenza terrorismo internazionale (2003, ancora in vigore, «retribuzione da determinarsi con successivo provvedimento del ministro dell´Interno); le frane di Cosenza (dal 2005 al 2010, compenso che Repubblica ha potuto stimare in circa 32 mila euro per il solo 2009 a favore del commissario straordinario); anniversario della firma dei trattati di Roma (2006, 3,75%); G8 (2007, 3,75%); congresso eucaristico di Ancona (2008, 3,75%). «Più ordinanze propone e più Bertolaso guadagna?», attacca Gasbarri.
Che con le ordinanze si sia fatto prendere un po´ la mano, del resto, lo ha ammesso lo stesso sottosegretario. «Forse il ricorso ai poteri di emergenza è stato un po´ eccessivo» ha detto a Panorama il 25 febbraio scorso. «Purtroppo, da servitore dello Stato, ogni volta che mi hanno sottoposto un problema, io sono intervenuto. Mi sembrava il modo migliore per fare andare avanti il paese». 800 dipendenti, una rete di 1milione e 300mila volontari, ultimo bilancio 2 miliardi e 72 milioni di cui 1,2 miliardi destinati ai mutui accesi per i lavori di ricostruzione e solo 31 milioni all´attività di "previsione e prevenzione" (la ragione sociale della Protezione civile). Uno «Stato nello Stato», lo definisce Manuele Bonaccorsi in "Potere assoluto". Con i piedi ben piantati nei grandi eventi. Meno sulla salvaguardia dell´ambiente. «Se non tuteli il territorio non tuteli la vita umana, di cui sei diretto responsabile - dice ancora Antonio Crispi - . Bisogna togliere alla Protezione civile i grandi eventi, cambiare il sistema». Quello che munge milioni allo Stato anche per un pellegrinaggio o una gara di ciclismo. "Emergenze" che per molti funzionari valgono il 30% in più dello stipendio. E altri cotillon. Lo dice chiaro l´ordinanza per i campionati di ciclismo di Varese: «Ai componenti della struttura commissariale», oltre all´indennità di missione, «spettano 100 ore mensili di straordinario forfaittario».
(1 - continua)
Bertolaso, consulenze record 9 milioni per gettoni e assegni
La Repubblica, 20 marzo 2010
Di beffe i terremotati dell´Aquila ne hanno subite abbastanza. Comprese le risate sciacalle della «cricca». Ce n´è una, però, che non conoscono ancora. Va iscritta in quel generoso consulentificio che è la Protezione civile al tempo di Guido Bertolaso. È il 15 aprile 2009. Ad appena nove giorni dal sisma che ha violentato l´Abruzzo provocando la morte di 308 aquilani, ferendone altri 1.600 e lesionando centinaia di edifici, l´ennesimo contributo, 300 mila euro, finisce - con la solita ordinanza ad hoc - nelle casse di una fondazione. Che ha come scopo la prevenzione del rischio sismico. Già materializzatosi 216 ore prima. La fondazione si chiama Eucentre e fa parte della short list (commesse, consulenze, convenzioni) del dipartimento di Protezione civile. Fondata nel 2003, tra gli altri, dalla stessa Protezione, Eucentre è il professor Gian Michele Calvi. Che è pure direttore - con il Consorzio For Case di cui è presidente - del progetto C. A. S. E.. La ricostruzione all´Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti con appalti per 800 milioni. Calvi insegna meccanica strutturale all´ateneo di Pavia, la sua città. Lo considerano un braccio destro di Bertolaso. Dopo l´estate del 2008 il sottosegretario lo spedisce alla Maddalena come «soggetto attuatore» del G8 al posto dello spendaccione Fabio De Santis (ora in carcere), «allontanato» perché stava appaltando a 600 milioni opere che dovevano costarne 300. Peccato che l´ingegner Calvi, figlio d´arte, studio da 30 dipendenti, famiglia vicina all´Opus Dei, un fratello, Gian Luca, che l´anno scorso rileva per 300mila euro la Tecno Hospital di Gianpaolo Tarantini, all´Aquila abbia splafonato e non di poco proprio nella costruzione delle new town. In 11 mesi, dall´aprile del 2009, con la sua task force di 119 tecnici è riuscito a far lievitare i costi del 40%: dai 570 milioni preventivati a 800. Non male per un´emergenza costata finora la cifra record di 1 miliardo e 431 milioni. «Alla fine sarà il terremoto più caro di sempre», dice Teresa Crespellani, già docente di ingegneria geotecnica sismica all´ateneo di Firenze. Dal pozzo di via Ulpiano, a favore di Eucentre, sono usciti 700 mila euro solo per la valutazione di agibilità delle case. Un compito che nell´era pre-Bertolaso era appannaggio dei tecnici del dipartimento. Con un bel risparmio.
All´Aquila tra gli edifici dichiarati inagibili c´è la vecchia sede dell´Anas. Danni modesti, nemmeno puntellata ma si è deciso, d´urgenza, di tirarne su una nuova. Costo: 14,5 milioni di euro (cordata Maltauro di Vicenza, consegna 27 aprile prossimo). A distanza di un anno nessuna costruzione: solo un cratere. «Prima si valorizzavano le risorse interne, oggi è un continuo e oneroso ricorso a soggetti esterni», ragiona Roberto De Marco, fino al 2002 direttore del defunto servizio sismico nazionale. In effetti in Protezione civile, quando si parla di consulenze, i cordoni della borsa si aprono senza problemi. Nel 2007 ne sono state assegnate per 2 milioni e 436 mila euro, record di spesa con 80 consulenti.
I collaboratori. Bertolaso i suoi se li tiene stretti. A Giovanni Bastianini, «consulente per informazione, immagine e divulgazione della cultura di protezione civile», vanno 104mila euro. La cura delle «attività di comunicazione visiva» è affidata a Maurizio Silvestri, e costa 74 mila euro. Prende 6 mila euro in più l´avvocato di Stato Ettore Figliolia, un tempo consigliere giuridico, oggi superconsulente. E´ lui, già capo gabinetto di Rutelli vicepremier, la "mente" creativa delle ordinanze di Protezione civile.
Quanto ci costano i nostri protettori civili e i loro "aggiunti"? Nel bilancio 2009 (2 miliardi e 72milioni) figura la voce «emolumenti accessori al personale interno e distaccato, per gettoni di presenza, stipendi e assegni per il personale assunto con contratti "privati"». In tutto fanno oltre 9 milioni. Normale per un dipartimento che ha quadruplicato le dimensioni della sua struttura (una tendenza inversa ai drastici tagli di tutto l´apparato pubblico centrale). Con un ufficio stampa-comunicazione formato da un esercito di 28 persone (con Franco Barberi erano 8). Persino poca roba se paragonata alle commesse e agli incarichi extra. Tra i "partner" più fedeli c´è Finmeccanica. Specializzata nel settore militare ma alla quale è affidata l´infrastruttura informatica (appalto secretato). Sono targati Selex (società di Finmeccanica) anche i 20 nuovi meteo-radar acquistati nel 2007 per 20 milioni (2,8 milioni a pezzo). Restiamo nei cieli. La flotta delle emergenze, e dei grandi eventi, è tanto fornita quanto costosa: nel 2008 per mantenere i 19 Canadair CL 415, i due aerei Piaggio C 180, i tre elicotteri Agusta e i 6 elicotteri Erickson S63 in appalto, ci sono voluti 158 milioni. Per la sola gestione dei Canadair 43 milioni sono andati alla Sorem: un partner resistente a tutto. Anche alle indagini giudiziarie e a quelle dell’Enav, che nel 2002 denuncia «carenze addestrative e operative». Tra il 2003 e il 2007 si verificano una serie di incidenti, alcuni mortali. Bertolaso ammette «un errore» nella programmazione degli orari di volo, ma Sorem è confermatissima. Come l´Ingv (istituto nazionale geofisica e vulcanologia) di Enzo Boschi. L´ultimo assegno staccato è di 63 milioni, convenzione del 2004. Altri si "accontentano". Legambiente, «protagonista nell´organizzazione di grandi eventi», nel 2006 incassa 694 mila euro. Più del doppio di quanto sono costati (335 mila) i distintivi e le medaglie 2009 della Protezione civile (ma i pompieri che hanno scavato all´Aquila hanno dovuto pagarsele). Meno di un terzo di quanto costa (3,5 milioni all´anno per 9 anni) la sede operativa scelta da Bertolaso nel 2004. Sorge in via Vitorchiano, sulle sponde del Tevere. In una zona che l´autorità di bacino del fiume ha definito "R4". Il massimo livello di rischio idrogeologico.
(2 - continua)
La Parentopoli di Bertolaso: quei figli dei potenti assunti senza concorso
la Repubblica, 27 marzo 2010
Lo «Stato nello Stato» ha imbarcato proprio tutti. Tutti quelli che bisognava imbarcare. Figli e nipoti di: generali, colonnelli, magistrati della Corte dei conti e della Corte costituzionale, cardinali, prefetti, direttori generali del Tesoro (gli stessi che devono controllare le spese della Protezione civile), avvocati di Stato, 007 dei servizi segreti, dirigenti e segretari generali della Presidenza del consiglio dei ministri, ex capi dei vigili del fuoco, dirigenti sindacali. Tutti assunti per chiamata diretta. Senza concorso. Tutti catapultati nel dipartimento-carrozzone più generoso d´Italia. Quello della «procedura straordinaria», della deroga continua a tutto. Anche all´articolo 97 della Costituzione che prevede il concorso per entrare nella pubblica amministrazione. In Protezione civile i posti di lavoro si materializzano su indicazione di Guido Bertolaso. Che di problemi, da questo punto di vista, non se n´è mai fatti.
Avendo piazzato il cognato ed ex socio in affari, Francesco Piermarini - ingegnere in stretti rapporti con uno dei pilastri della "cricca dei banditi", l´imprenditore Diego Anemone - a lavorare in evidente "conflitto d´interessi" nei cantieri del G8 della Maddalena. «L´anomalia istituzionale è mostruosa - dice il senatore Pd Mario Gasbarri - questo è l´unico settore della pubblica amministrazione dove la parola concorso pubblico non esiste e dove si va avanti con assunzioni parentali e amicali in cui la grande assente è la competenza. Alla faccia di Brunetta». Nel mare grande del pubblico impiego, in effetti, l´attuale Protezione civile è un isola del tesoro sciolta dagli ordinamenti dello Stato. Un coacervo istituzionale dove il nepotismo e il clientelismo sono elevati alla massima potenza grazie anche a un "congelamento" delle norme che regolano le assunzioni statali. E dove un posto, una collaborazione, un salto di carriera, un trattamento economico extra moenia, si materializzano sempre. Anche se sei un pensionato di 83 anni (è il caso di Domenico Rivelli, «collaboratore per le problematiche amministrativo-contabili dell´emergenza rifiuti a Napoli»). Anche se di emergenze e calamità hai sentito parlare solo in televisione. Può capitare di essere figli del capo del personale di palazzo Chigi (Giuseppina Perozzi). E così si aprono le porte dell´ufficio stampa del dipartimento. E´ il caso di Eugenio D´Agata, già «collaboratore dell´emergenza eventi avversi» in Calabria, assunto a 24mila euro assieme ad altri 199 con la recente legge 26 che ha trasformato il decreto 195, quello della "Protezione civile spa".
Del mazzo dei fortunati fa parte anche Carola Angioni, figlia del generale Franco Angioni, capo della spedizione in Libano, oggi assunta dopo aver collaborato a tamponare nel 2007 «l´emergenza eventi atmosferici» nel Veneto. I rifiuti di Napoli sono stati il banco di prova di Marta Sica, figlia del vicesegretario generale di palazzo Chigi: arruolata anche lei. Come la nipote del cardinale Achille Silvestrini, come la figlia di Carmen Iannacone, funzionaria della Corte di conti addetta al controllo degli atti di palazzo Chigi. Sono molti i magistrati che hanno prole tra i protettori civili: almeno cinque della Corte di conti, e cioè quello che dovrebbe essere il cane da guardia del dipartimento. Due sono Rocco Colicchio e Marco Conti. Un´altra è la segretaria generale, Gabriella Palmieri. Poi c´è la Corte costituzionale. Giovanni De Siervo, figlio del vicepresidente della Corte, Ugo De Siervo, è in squadra. Si è occupato dell´esondazione del Sarno e ora segue le «relazioni con gli organismi internazionali».
Fino al 2004 i dipendenti della Protezione civile erano 320. Oggi sono 800, di cui 150 "comandati" (provenienti già da altre amministrazioni). Cinquecento assunti in cinque anni. Gli ultimi 200 Bertolaso li ha chiamati a corte a fine febbraio: da co.co.co. a contratto a tempo determinato. In attesa di essere stabilizzati. Ovviamente senza concorso. Altri 16 dirigenti a contratto (con ordinanza) diventeranno in questi giorni dirigenti dello Stato, stipendio da 3 mila euro netti. L´elenco dei neo protettori è una specie di manuale Cencelli. Puoi trovare la figlia del prefetto Anna Maria D´Ascenzo, già capo del dipartimento dei vigili del fuoco; quella del colonnello Roberto Babusci che dirigeva il centro operativo aereo della Protezione civile; la nipote dell´ex presidente della Rai Ettore Bernabei e il figlio di Mario Ferrazzano, segretario generale del sindacato della presidenza del consiglio Snaprecom. Un dipartimento fidelizzato. E la fede con Bertolaso paga. Nel "cerchio magico" ci sono Agostino Miozzo, Marcello Fiori e Bernardo De Bernardinis. Tutti e tre sono stati nominati (da co.co.pro che erano) dirigenti generali della Presidenza del consiglio con norme ad personam. Infilate nel decreto rifiuti del 2008. Guadagnano 170mila euro. Quando nel 2001 sono stati assunti, i primi due erano estranei alla pubblica amministrazione. Facevano solo parte della squadra di Rutelli al Giubileo. Da oggi a vigilare sull´operato della Protezione civile, «a difesa dell´equità di trattamento dei lavoratori», c´è una consulta permanente creata dalla Cgil. Basterà?
(3.fine)
L’altra sera, girovagando fra i canali, mi sono imbattuto in un volto ispirato che, dal palco di una piazza, inneggiava all’amore e urlava: entro il 2013 vogliamo vincere il cancro. Giuro, diceva proprio così. Vo-glia-mo vin-ce-re il can-cro. Non la disoccupazione. E nemmeno lo scudetto. Il cancro, «che ogni anno colpisce 250 mila italiani». Sulle prime ho sperato fosse il portavoce del professor Veronesi e ci stesse annunciando uno scoop mondiale. Così ho telefonato a uno dei 250 mila, un caro amico che combatte con coraggio la sua battaglia, e gli ho dato la grande notizia. Come no?, ha risposto, adesso però ti devo lasciare perché sono a cena con Vanna Marchi.
Ho degli amici molto spiritosi. Mi auguro che tutti i malati e i loro parenti la prendano allo stesso modo. E anche tutti i medici che in ogni angolo del pianeta si impegnano per raggiungere quell’obiettivo. In Italia con qualche problema in più, dato che il governo che entro tre anni intende vincere il cancro ha ridotto i fondi per la ricerca scientifica. Vorrei sorriderne, come il mio amico. Ma stavolta non ci riesco. Ho perso i genitori e tante persone care a causa di quel male. E allora: passi per le barzellette, le favole e persino le balle. Fa tutto parte del campionario di iperboli del bravo venditore e il pubblico ormai è assuefatto allo show. Ma anche a un’alluvione bisogna mettere un argine. Bene, per me il cancro rappresenta quell’argine. Non è: un milione di posti di lavoro. Non è: meno tasse per tutti. Il cancro è una cosa seria. E lui, che lo ha avuto e lo ha vinto, dovrebbe saperlo.
Oggi non è solo all´Aquila che si deve sgombrare il terreno dalle macerie. Quelle che segnano i luoghi istituzionali del Paese sono diventate così tante da cancellare il profilo del nostro orizzonte di riferimento e da diffondere un sentimento generale di ansia e di smarrimento. Per questo fa bene il Presidente della Repubblica a segnalare che il valore della Costituzione resta ancora un punto di riferimento fondamentale per l´opinione pubblica.
È dall´altezza di questo osservatorio che bisogna misurare la gravità della situazione. Oggi il documento votato all´unanimità della prima sezione del Consiglio Superiore della Magistratura mette sotto gli occhi di tutti lo spettacolo del disastro provocato dagli attacchi violentissimi del presidente del Consiglio dei ministri alla magistratura. Ne abbiamo letti quasi uno al giorno per anni. Qualcuno li considera intemperanze caratteriali su cui poi esperti mediatori dal sorriso facile e dalla parola morbida si occupano di versare mielate rassicurazioni. Si rischia di abituarsi allo spettacolo: una variante italiana dei costumi politici, con tanto di sesso, barzellette e canzoni napoletane. Non così pensano i magistrati della prima sezione del Csm. Si tratta secondo loro di una denigrazione e di un condizionamento della magistratura assolutamente inaccettabili perché mettono in pericolo l´equilibrio tra poteri e ordini dello Stato. Senza questo equilibrio non si dà un ordinamento civile capace di tutelare i diritti di ognuno. Lo sappiamo. Dovremmo saperlo. È un dato elementare, semplicissimo, un pilastro fondamentale del sistema democratico.
Ma i magistrati non si limitano a condannare. Il loro documento rivolge «un pressante appello a tutte le istituzioni perché sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell´intera magistratura». Oggi la magistratura è accusata nientemeno che di sovversione. E non si è trattato solo di parole. Le accuse del premier si sono tradotte in gravissimi episodi di diffamazione e aggressione all´immagine e alla dignità di singoli magistrati, vere e proprie esecuzioni in effigie. Questo documento del Csm segna una svolta storica nella lotta politica italiana: segnala una situazione di emergenza e invita a scelte adeguate. Scuote un torpore politico e morale che è frutto di una corruzione radicata in profondità. Quando si cominciano ad accettare certe cose in silenzio, quando si decide di smorzare i toni della reazione e a far finta di niente non si è contribuito al buon andamento della cosa pubblica come qualcuno può pensare: di fatto si è già accettato di vivere nella «Repubblica del Male Minore». È quello che sta accadendo da tempo.
È un fatto che appartiene al peggiore costume del nostro passato, a forme di corruzione morale e di indifferenza per le regole che ha avuto tanti nomi ma che ha una sola sostanza. Di secolo in secolo si sono usati nomi diversi: «nicodemismo»,«dissimulazione onesta», «familismo amorale». Diversi i fenomeni storici, legati però da un minimo comune denominatore morale che si è fissato nel costume di casa: il chiudere la porta e la finestra sul mondo degli altri, il conservarsi indifferenti alla cosa pubblica , il tollerare le lesioni ai diritti individuali in nome del tranquillo vivere dei più, il considerare ovvio che chi dispone del potere faccia straccio dei diritti di chi non gli obbedisce. Da questo costume sono nate le vergogne e gli errori della storia italiana: è questo che permise al popolo italiano nel suo insieme di accettare senza reagire l´immane vergogna delle leggi razziali, salvo poi addossare questa colpa al solo pontefice regnante come unico titolare della coscienza collettiva.
Ma quello della violenza contro i magistrati non è che il fenomeno più evidente prodotto da un leader politico che disprezza la giustizia come norma e come istituzione e si fabbrica le leggi e le sentenze su misura. Altre rovine sono state seminate un po´ dovunque da quella che oggi anche i commentatori più moderati e più filo governativi si rassegnano ormai a riconoscere come una congenita incapacità di Silvio Berlusconi di affrontare le responsabilità del governo di una grande nazione. Un sistema di potere personalistico ha fatto continuamente leva sul principio rozzo e intrinsecamente dittatoriale di interpretare una vittoria elettorale come una investitura plebiscitaria a comandare. I suoi attacchi alle istituzioni hanno superato da tempo ogni limite tollerabile in un sistema fondato sulla divisione dei poteri. Per disgrazia del Paese il comando è caduto nelle mani di una persona determinata a servirsene per tutelare e accrescere i suoi beni e per risolvere i suoi problemi con la giustizia. Da qui l´invenzione a getto continuo di norme e decreti «ad personam»: mentre scriviamo è in atto l´ennesima affannosa corsa del Parlamento per poter definire legittimo il fatto che un imputato non si presenta in tribunale. E non è certo la prima volta che quel potere legislativo che il popolo ha affidato al Parlamento viene confiscato e distolto dai problemi del Paese per togliere un privato cittadino che è anche per caso il presidente del Consiglio dagli impicci con la giustizia. Ai problemi del Paese si è data finora una risposta sbrigativa considerandoli come emergenze da affidare a strutture sottratte alle leggi ordinarie. Ma la politica dell´emergenza sta crollando sotto una valanga di scandali. E la vicenda delle liste elettorali segna il fallimento clamoroso di un sistema che ha concepito le elezioni non come un modo per far emergere una classe di governo dal consenso dei cittadini ma come l´imposizione agli elettori di candidati scelti su altri e ben diversi parametri da quelli della capacità e dell´onestà nel servire gli interessi del Paese.
Un fatto è certo: comandare non è governare. Una cultura di governo deve conoscere e rispettare le regole. Questo governo le ignora a tal punto che ha visto ridicolizzato da un tribunale amministrativo per insipienza e approssimazione il recente decreto «interpretativo», cioè l´ennesimo tentativo di sanare le malefatte col solito decreto tappabuchi. Questo governo? Diciamo pure quest´uomo: l´uomo che oggi tace. Il suo silenzio è più di una confessione. La voce arrogante che ha aggredito e sbeffeggiato istituzioni e ordini fondamentali del sistema democratico, dalla magistratura alla presidenza della repubblica, oggi è assente da uno scenario dove si aggirano smarriti e balbettanti i suoi cortigiani. Spettava a lui, se fosse stato quello statista che non è, prendersi la responsabilità del pasticcio combinato dai suoi e chiedere alle altre forze politiche e al Paese di risolvere insieme il problema: che è un problema di tutti se è vero che il diritto al voto è l´incancellabile principio base della democrazia. Diritto di tutti: di ogni partito, non solo del più grosso come tende a dire la poco democratica petulanza dei portavoce della maggioranza. Ma se i diritti di tutti non sono difesi con la durezza e l´intransigenza necessaria, se si continua ad accettare una violenza eversiva sfacciata e uno spettacolo di conclamata immoralità e corruzione accettando di abbassare la protesta in un sussurro, forse non ci accorgeremo nemmeno quando dalla Repubblica del Male Minore ci avranno trasferito armi e bagagli nel territorio della confinante Repubblica della Giustizia assente.
"Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.
Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).
Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro - e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura - le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche - giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora - dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994.
Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente - ci hanno detto - era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.
Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società.
Discutere di corruzione - ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria - vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.
A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese.
Un casinò da aprire sul dolore dell'Abruzzo. Una sala da gioco autorizzata da una postilla, infilata dentro uno dei decreti per la ricostruzione. Questo stavano progettando gli amici di Guido Bertolaso, 60 anni, capo della Protezione civile e uomo immagine del governo. È l'ultima trovata della banda della maglietta, come la t-shirt dal bordo tricolore che indossa il vicere delle emergenze. Diego Anemone, 39 anni, il costruttore tuttofare arrestato il 10 febbraio, voleva trasformare il Salaria sport village di Roma in una piccola Las Vegas. Poker e slot machine di ultima generazione. Quelle in cui infili i numeri della carta di credito o del bancomat e vai avanti a giocare fino a quando il conto è prosciugato. Erano sistemi vietati. Poi Silvio Berlusconi ha firmato il decreto, convertito il 24 giugno 2009 nella legge 77. E via, con la scusa di finanziare la rinascita a L'Aquila grazie a una tassa una tantum di 15 mila euro a macchinetta, ecco inventata una nuova fonte di guadagno.
C'è sempre un provvedimento d'urgenza, un'ordinanza pronta quando qualcuno della banda si fa prendere la mano dalle deroghe o dagli abusi. È davvero straordinario il sottosegretario Bertolaso, come i suoi poteri che la Procura di Firenze ha ora messo sotto inchiesta. Sembra che in Italia non ci siano più alternative al suo modo spaccone di gestire gli appalti, i cittadini, il codice civile e quello penale. Se ne sta lì in mezzo al sistema solare della Tangentopoli 2. Praticamente intoccabile. Protetto dall'affetto di Gianni Letta e Francesco Rutelli. Amato nel Pdl, nel Pd e in Vaticano. Cercato, riverito da questa drammatica corte di imprenditori, massoni, paramafiosi, progettisti e puttanieri che stanno spolpando le casse dello Stato. Come hanno fatto in Sardegna, a forza di prezzi gonfiati e ritocchi in corso d'opera: quanto sarebbero utili i soldi sprecati alla Maddalena, oggi che da Porto Torres a Cagliari aumentano i disoccupati e nessuno sa come riaccendere l'economia. Dalla scuola dei sottufficiali dei carabinieri a Firenze ai laboratori con i virus letali dell'Istituto Spallanzani a Roma, finiti in una interrogazione in Senato: "Sono state rispettate le norme antisismiche?", chiede pochi mesi fa Domenico Gramazio (Pdl). Perché se crolla, scappano i virus.
E lui, il Guido nazionale, può beatamente dire che va tutto bene, che non si è accorto di nulla. Può perfino permettersi, senza perdere il posto, di negare la partecipazione della Protezione civile a una esercitazione internazionale, finanziata dall'Unione Europea: l'unica organizzata in Calabria negli ultimi anni, in una delle regioni sismiche più pericolose al mondo. Quando la Commissione europea viene a sapere che i soccorritori di Bertolaso non ci saranno, annulla l'esercitazione. Una figura pazzesca per l'Italia. A tutt'oggi nessuno ha mai più valutato se le prefetture, i Comuni, gli ospedali calabresi siano in grado di gestire l'emergenza dopo una catastrofe. Niente male per l'uomo che pochi giorni fa è volato ad Haiti e dalla capitale rasa al suolo dal terremoto ha accusato di incapacità il governo degli Stati Uniti.
Il viaggio nel mondo infallibile di Guido Bertolaso, fresco di riconferma, può cominciare proprio da qui: via Miraglia 10, prefettura di Reggio Calabria. Nel 2008 si celebra l'anniversario del terremoto del 28 dicembre 1908: 80mila vittime a Messina e provincia, 15mila a Reggio. Da duecento anni la terra sullo Stretto trema dopo un secolo di silenzio sismico. Il dipartimento di Bertolaso dovrebbe per legge verificare la preparazione di Comuni, Regioni e prefetture, coordinare le esercitazioni, aiutare gli enti locali a predisporre i piani, correggere le lacune. Il 27 luglio 2007 il professor Mauro Dolce, direttore per la Protezione civile dell'Ufficio prevenzione e mitigazione del rischio sismico, spedisce in Calabria lo 'scenario di danno', nel caso si ripetesse oggi una catastrofe come quella del 1908. I dati vengono ricavati dal Sistema informativo per la gestione dell'emergenza, un archivio che tiene conto della qualità degli edifici. Il bilancio è terrificante: 325.247 persone coinvolte dai crolli, 335.699 senzatetto. Un altro calcolo, tenuto nei cassetti degli uffici di Bertolaso, prevede 112.312 morti.
L'anno successivo è il momento delle commemorazioni storiche. Ed è anche l'occasione per verificare il sistema dei soccorsi: viene messa in agenda l'esercitazione Ermes 2008. La Commissione europea sceglie il progetto di Reggio per collaudare su vasta scala l'integrazione internazionale tra i diversi corpi di protezione civile. Si fanno riunioni a Bruxelles, si firmano accordi. Il prefetto, Antonio Musolino, però deve insistere con Bertolaso. E lui il 6 agosto 2008 gli risponde con una lettera di ghiaccio: "Nel comunicarti che questo Dipartimento non prenderà parte alle successive attività organizzative ed operative, non mi resta che augurarti un proficuo avanzamento dei lavori... previsti dal progetto, che mi auguro possa avere la giusta rilevanza in ambito locale", scrive Bertolaso. Ambito locale? E la Commissione europea? Il capo dipartimento se la prende con il prefetto Musolino "per il quadro economico progettato dalla tua struttura, che non risulta modificabile". Questione di soldi. Il capo della Protezione civile nazionale vuole essere al centro dell'organizzazione.
Il 3 settembre Hervé Martin, capo unità della Commissione europea, prende atto che senza gli uomini di Bertolaso l'esercitazione non sarebbe più realistica: "La Commissione comprende la perdita di tempo risultata dalle negoziazioni senza successo con il dipartimento di Protezione civile...", scrive Martin. Bruxelles cancella la partecipazione dei Paesi della Ue. E pure i finanziamenti. La prova viene rinviata dall'estate a dicembre. Ma resta limitata alla catena di comando locale. Niente mobilitazione sul campo dei soccorritori italiani e stranieri. Niente coinvolgimento dei cittadini, delle scuole, degli ospedali. Nessun piano di emergenza condiviso.
Nel 2008 Bertolaso lascia scadere anche il protocollo di prevenzione tra il suo dipartimento e la Regione Abruzzo. E, mentre nei mesi successivi la terra trema, nessuno ricorda che uno studio ha inserito la prefettura a L'Aquila tra gli edifici a rischio sismico. Infatti il 6 aprile 2009 la prefettura crolla, paralizzando per ore la catena dei soccorsi. Sempre nel 2008 il commissario delegato per il G8, una delle tante cariche che Romano Prodi e Silvio Berlusconi affidano a Bertolaso, deve soprattutto predisporre i cantieri sull'isola della Maddalena. È la grande abbuffata di soldi pubblici che il 10 febbraio porta in cella con l'accusa di corruzione quattro uomini della 'banda della maglietta'.
Oltre all'amico Diego Anemone, gli altri sono: Angelo Balducci, 62 anni, nel 2008 coordinatore delle strutture di missione e poi presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Fabio De Santis, 47 anni, prima soggetto attuatore per il G8 e poi provveditore ai Lavori pubblici a Firenze, e Mauro Della Giovampaola, 44 anni, ingegnere cresciuto tra le imprese di Diego Anemone, diventato poi controllore degli appalti di Diego Anemone alla Maddalena e, forse proprio per l'efficacia dei suoi controlli, nel 2009 confermato alla presidenza del Consiglio e nominato responsabile delle opere per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Balducci e De Santis vengono nominati negli appalti della Protezione civile su proposta di Bertolaso. Quella di Mauro Della Giovampaola è invece una carriera tutta di corsa. Quando sull'isola della Maddalena 'L'espresso' gli chiede al telefono come possa conciliare il suo passato di socio della famiglia Anemone con il presente di controllore dei lavori e delle spese degli Anemone, l'ingegner Della Giovampaola si appella all'etica professionale. Poi chiama Angelo Balducci e lo aggiorna della telefonata. I carabinieri del Ros li registrano.
Nel dicembre 2008 'L'espresso' con uno stratagemma entra nei cantieri del G8 coperti dal segreto di Stato. È la prima inchiesta giornalistica sulla rete Bertolaso-Balducci-Anemone. A Roma piove da giorni. Il Tevere è in piena. La sera di venerdì 12 il capo della Protezione civile si fa intervistare dalle tv. Sullo sfondo le luci della capitale si riflettono nel gonfiore del fiume. Alcuni ponti sono chiusi da ore dopo che i barconi-ristorante si sono incastrati sotto le arcate. "La grande criticità", dice Bertolaso, "non è rappresentata dalla piena del Tevere, che passerà nel corso della notte in maniera controllata, ma da alcuni imbecilli che non hanno ancorato bene i barconi sul fiume".
Il capo della Protezione civile sa bene che il Tevere, come tutti i fiumi, ha bisogno di zone di espansione. Servono a rallentare le piene, a evitare che l'acqua allaghi le città. Una di queste aree di protezione è all'ingresso di Roma, quartiere Settebagni. Anzi era. Perché quello è il terreno vincolato a uso agricolo su cui Diego Anemone ha costruito i nuovi impianti del Salaria sport village, sfruttando le ordinanze proposte a Berlusconi dall'amico Bertolaso per i mondiali di nuoto 2009. La palazzina, la piscina olimpionica coperta e la sala del futuro casinò sono ora sotto sequestro. Ma nel dicembre 2008 i muratori lavorano ancora giorno e notte. Tranne nei giorni della piena: il cantiere finisce sott'acqua.
Bertolaso è socio del Salaria sport village. È lì quasi ogni settimana a farsi massaggiare la schiena. È perfino un pubblico ufficiale con obbligo di denuncia. Il suo amico Diego Anemone sta violando tutte le norme urbanistiche e paesaggistiche. Italia nostra e il circolo locale del Pd denunciano da mesi gli abusi. Il vicepresidente del quarto municipio di Roma, Riccardo Corbucci, 31 anni, tra i più impegnati e informati nella battaglia di quartiere, qualche mese dopo verrà addirittura pedinato e filmato da due persone in scooter. Un modo per provare a spaventarlo e fermare i ricorsi al Tar, che invece vanno avanti. Eppure l'attento Guido nazionale non vede nulla di irregolare tra gli affari dei suoi amici. Anzi il 30 giugno 2009, sei giorni dopo la conversione in legge del decreto per l'Abruzzo e per le nuove slot machine, Bertolaso propone e Berlusconi firma l'ordinanza 3787 della presidenza del Consiglio. Gli amici sono salvi: gli impianti privati vanno equiparati a quelli pubblici e gli abusi, se approvati dal Comune di Roma, diventano legali. Molte strutture, compresa quella di Anemone, restano sotto sequestro dopo le prime perquisizioni chieste mesi fa dalla Procura di Roma. Ma almeno le piscine possono essere usate per gli allenamenti durante i mondiali. Ci sono gli affitti e i compensi della federazione da incassare.
Passata la piena del Tevere di fine 2008, il 23 dicembre Bertolaso sale a Parma per una scossa di terremoto. Il 24 torna a Roma e incontra Balducci per decidere come rispondere all'inchiesta giornalistica de 'L'espresso' uscita il giorno prima. "Il dottor Guido Bertolaso", fa scrivere qualche ora dopo il capo all'ufficio stampa della Protezione civile, "ha ricevuto dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese impegnate nella realizzazione delle opere". Bertolaso ovviamente non dice di avere concordato con Balducci una menzogna.
È quello che scoprono poco dopo i carabinieri del Ros quando sentono Balducci spiegare la soluzione a Diego Anemone e a Fabio De Santis: "Nel corso dell'incontro tra il Balducci e il Bertolaso è stato concordato di far predisporre al commercialista Gazzani" una falsa dichiarazione: dovrebbe scrivere una nota da cui risulti inattiva la Erreti film, la società che lega negli affari le mogli di Balducci e di Anemone. Stefano Gazzani, 48 anni, è il commercialista delle due famiglie. Forse proprio in cambio di questo favore Gazzani viene inserito nella commissione di collaudo delle opere alla Maddalena. Un commercialista messo a verificare lavori di ingegneria? La notizia circola da tempo nei cantieri.
Quando per verificarla 'L'espresso' chiede alla Protezione civile l'elenco dei collaudatori, c'è una sorpresa: il commercialista di Balducci non compare. La presenza di Gazzani nella commissione di collaudo emerge soltanto adesso dalle intercettazioni di Mauro Della Giovampaola. Anche i compensi per i collaudi sono un affare. E in quell'elenco, tra i tanti nomi, c'è un'altra storia da raccontare. Quella di Roberto Grappelli. È segretario generale dell'Autorità di bacino del Tevere quando il 31 marzo 2008 firma il parere positivo al progetto di Diego Anemone per l'ampliamento dello Sport Village sul terreno di espansione del fiume. Così, mentre Claudio Rinaldi, altro amico di Balducci e commissario delegato per i mondiali di nuoto, dà il via libera ai lavori nel Salaria sport village, Grappelli cambia vita: collaudatore per il G8 e presidente della metropolitana di Roma.
Il casinò è l'ultima frontiera della banda della maglietta. Sport, massaggi, ristorante, gioco. E tanti ospiti famosi. Come l'amico Guido Bertolaso. Qualche settimana fa la pratica finisce sul tavolo di un concessionario di Lottomatica. L'idea è di installare le Vlt, le macchine mangiasoldi collegate online. "È come connettersi a Internet, si può vincere fino a mezzo milione", spiega uno dei rappresentanti contattati da 'L'espresso': "Abbiamo fatto un sopralluogo con il dottor Travasi, un concessionario di Lottomatica. Il problema è che in uno spazio sotto sequestro non si può aprire un casinò. Nemmeno un minicasinò. La legge non lo consente". Questo no, almeno per ora.
È un piccolo evento culturale il libro La storia negata, il revisionismo e il suo uso politico: ha venduto in pochi mesi, nonostante l'argomento, più di novemila copie. Ne parliamo con il curatore, lo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca, appena trascorse due celebrazioni, il «Giorno della memoria» di fine gennaio e il «Giorno del ricordo» di mercoledì scorso. «Come sta andando il libro, con i contributi così importati che hai raccolto?», «Sta andando magnificamente - ci risponde - nel senso che è un libro non del tutto facile, non è un romanzo, ma tra poco verrà stampata la seconda edizione perché c'è molta richiesta. Questo mi ha molto stupito, vuol dire che ha riempito un vuoto».
Sono da poco passate la «Giornata della Memoria» e il «Giorno del ricordo». Si potrebbe dire «finita la festa gabbato lo santo», perché ogni volta ci si trova di fronte ad un rito dentro la deriva della politica ufficiale?
Indubbiamente queste giornate della Memoria sono molte, c'è una specie di inflazione. Perfino io ho fatto l'errore di aggiungerne un'altra che però non è stata accettata e che riguardava i 500.000 africani uccisi da noi, nelle nostre guerre coloniali. Avevo proposto il 19 febbraio perché è la giornata in cui dopo il tentativo di uccidere Graziani e il federale Cortese, i fascisti italiani lanciano la caccia all'africano ad Addis Abeba: una strage con 5-6mila vittime attendibili. Un bagno di sangue. Bisognava sentire la descrizione dei testimoni che hanno avuto il coraggio poi di raccontare la caccia con i manganelli, con le spranghe di ferro, cadaveri portati via dai camion, inceneriti. Poi hanno bruciato metà Addis Abeba. Così questa ritualità celebrativa, spesso dimenticata il giorno dopo, non ha neanche una grande funzione. Visto però che in Italia si tende veramente a dimenticare il passato, a rimuovere soprattutto le nostre colpe, l'insistenza sulla memoria ha la sua importanza e la sua incidenza.
La scia delle commemorazioni strumentali da parte della destra del Giorno del Ricordo, non è ancora finita. In più, il presidente della repubblica Napolitano ha polemizzato con Slovenia e Croazia accusandole di «disattenzione». Eppure proprio i suoi discorsi commemorativi del 2007 e del 2008 che non citavano mai le responsabilità del fascismo nelle terre slave, provocarono le reazioni di Lubjana e Zagabria insieme ad una dura presa di posizione dello scrittore italiano di origine slovena Boris Pahor che accusò: «Silenzi insoppportabile sugli eccidi del Duce»...
Una prima cosa che voglio dire è che ci si dimentica nel Giorno della memoria sempre dei rom e dei gay, oltre che dei deportati politici. Inoltre per il Giorno del ricordo, sul «confine mobile» dobbiamo ricordare che in realtà noi avevamo avuto l'Istria e la Dalmazia in seguito alla vittoria della prima guerra mondiale, ed erano territori che non erano «etnicamente» italiani, e su questo noi abbiamo «giocato», cercando proprio di snaturalizzare con la violenza queste popolazioni. Quindi era un confine dal punto di vista strategico, non dal punto di vista etnico, tanto è vero che durante la guerra di Etiopia migliaia di giovani della zona passarono quel confine e andarono a rifugiarsi in Jugoslavia. È un fatto che viene assai poco ricordato e che io stesso ho scoperto da poco dalle informazione di una storica slovena. La grande tragedia è cominciata proprio dall'occupazione nel '42 della Slovenia e di Lubiana, è da lì che comincerà la revanche di sloveni e croati naturalmente quando l'Italia sarà sconfitta.
E inoltre le prime foibe furono opera dei fascisti contro gli insorti slavi, come ha ricordato lo scrittore Predrag Matvejevic. Ora c'è uno storico, Ferruccio Tassin, che solleva la questione di Visco, piccolo comune in provincia di Udine governato dalla destra, che sta decidendo di smantellare l'area della caserma Sbaiz, l'ex campo di concentramento di Visco. C'è una petizione di storici, ha aderito anche Boris Pahor, perché il luogo diventi monumento nazionale a ricordo dei crimini del fascismo contro gli sloveni...
Esattamente. E va ricordato che oltre al campo di concentramento di Visco, di dimenticati ce ne sono altri 60 di campi di concentramento del fascismo solo in quel «confine mobile» - furono 200 in tutta Italia. Campi come quello di Arbe-Rab: su questa piccola isola erano state confinate 20mila persone e ci sono dei racconti (che io ho raccolto nel mio libro) sui bambini che quando l'acqua saliva non avevano neanche la possibilità di proteggersi perché erano sotto tende improvvisate: era un lager perché la «concentrazione» aveva come scopo solo la morte dei deportati. È stata una delle pagine peggiori della nostra storia nazionale.
Nel libro denunci che il revisionismo è diventato una sorta di mestiere culturale...
È una marea che sale e che può travolgerci. Il filone che tirava è cominciato una ventina d'anni fa. Lo stesso Giampaolo Pansa, che rivendica questo mestiere nel suo libro «Il revisionista», fino a 10 anni fa scriveva a favore della Resistenza. E poi all'inizio del 2000 cambia. Perché cambia? Forse ispirato da Pisanò che già aveva fatto questo revisionismo sfacciato, ma almeno Pisanò era uno della Rsi, tirava l'acqua al suo mulino. Ma Pansa no, è cresciuto nella Resistenza, con tesi di laurea sulla resistenza nell'Alessandrino. Fatto oltremodo singolare, l'affermazione di Berlusconi in Israele: «La Resistenza ha riscattato le leggi razziali del '38». Ma perché va all'estero per raccontare queste cose e in Italia invece si fa di tutto contro la Resistenza. Tra l'altro, da quando c'è la destra al potere anche gli Istituti storici della Resistenza hanno perso molte possibilità: gli insegnanti, che sono poi i direttori degli istituti, erano all'inizio 61, adesso sono molti di meno, soprattutto sono di meno i comandati, ogni anno ce ne portano via 5 o 6 con scuse risibili. Meno male che come presidente c'è Scalfaro. Berlusconi oltre alle belle parole pensi anche a mantenere in piedi questi istituti che «ricordano» ogni giorno, non in modo rituale, e che lavorano sul piano scientifico e non sul piano dei Pansa.
I più importanti storici italiani: le falsificazioni del revisionismo
«Negli ultimi dieci anni - scrive Angelo Del Boca nell'introduzione a «La storia negata» (ed. Neri Pozza, pp. 383 euro 20) - l'uso politico della storia, che nulla ha a che fare con la ricerca storiografica, non ha risparmiato nessuna delle grandi questioni della storia nazionale. È la più vasta e subdola offensiva tesa alla totale rimozione dei crimini commessi in Italia, Africa, Balcani, Urss, un tentativo di riscrivere la storia contemporanea in Italia e in Europa, relativizzando gli orrori del nazismo e della soluzione finale, depenalizzando il fascismo e la sua classe dirigente, delegittimando la Resistenza e demonizzando il comunismo». Nell'all'antologia: Mario Isnenghi: «I passati risorgono. Memorie irriconciliate dell'unificazione nazionale»; Nicola Labanca: «Perché ritorna la "brava gente". Revisioni recenti sulla storia dell'espansione coloniale italiana»; Nicola Tranfaglia: «Il ventennio del fascismo»; Giorgio Rochat: «La guerra di Mussolini 1940-1943»; Lucia Ceci: «La questione cattolica e i rapporti dell'Italia con il Vaticano»; Mimmo Franzinelli: «Mussolini, revisionato e pronto per l'uso»; Enzo Collotti: «La Shoah e il negazionismo»; Aldo Agosti: «La nemesi del patto costituente. Il revisionismo e la delegittimazione del Pci»; Giovanni De Luna: «Revisionismo e Resistenza»; Angelo D'Orsi: «Dal revisionismo al rovescismo. Resistenza (e Costituzione) sotto attacco».
Con tutto il rispetto dovuto - fino a prova contraria - a Guido Bertolaso e con tutto il dispetto generato dalla nuovissima concezione della legalità a percentuale di Silvio Berlusconi («se uno opera bene al 100 per cento e poi c'è l'uno per cento discutibile, quell'uno va messo da parte»), lo scandalo della Protezione civile non può essere liquidato con le promesse eroiche del super-commissario, prontoa «dare la vita» per convincere gli italiani che non li ha ingannati, e nemmeno con gli insulti rituali del premier ai magistrati: «Si vergognino, Bertolaso non si tocca».
Si tratta semplicemente di capire cosa sta succedendo nell'ombra gigantesca e secretata delle Grandi Opere e delle Grandi Emergenze, dove sembra affiorare - grazie all'annullamento di tutti i controlli e di ogni regola - un sistema di corruzione e di appalti pilotati compensato all'italiana con una girandola di favori personali ai funzionari statali: pagati ben volentieri e con larghezza di mezzi dalle imprese che ricevevano i lavori pubblici con scelte totalmente discrezionali, sottratte alla legge e a ogni sorveglianza. Tutto ciò impone un'operazione di trasparenza, davanti ai cittadini. Nell'interesse di Bertolaso, del governo e dei contribuenti, deve cadere il velo che occulta metodi e procedure della Protezione civile, coperti dallo stato permanente d'emergenza.
Un'emergenza che diventa eccezione, dicono i magistrati, e che ha generato un meccanismo di scambio perfetto, dove imprese private e funzionari pubblici maneggiano corruzione, appalti e favori, in una «gelatina» di Stato coperta dalla Grande Deroga berlusconiana.
I fatti, (raccolti nell'ordinanza da un gip che a Milano archiviò l'inchiesta sul Lodo Mondadori, salutato con entusiasmo da Berlusconi: «finalmente c'è un giudice a Berlino») sono semplici: tre pubblici ufficiali incaricati dalla Presidenza del Consiglio di gestire i cosiddetti Grandi Eventi dei mondiali di nuoto, del G8 alla Maddalena e dell'anniversario dell'Unità d'Italia, «hanno asservito» la loro funzione pubblica con risorse e poteri enormi «in modo totale e incondizionato» agli interessi di un imprenditore interessato. Almeno cinque grandi appalti sono stati pilotati e l'imprenditore ha ringraziato con 21 benefit regalati ai funzionari statali infedeli, ai loro amici e ai grand commis circostanti per rispondere ad ogni loro esigenza privata, dalle auto alle colf, alla ristrutturazione delle case, ai favori sessuali, ai viaggi, agli alberghi, alle assunzioni di figli e cognati. Una «gelatina», appunto, «di ordinaria corruzione», una ragnatela che ha portato a quattro arresti, tra cui il presidente del Consiglio Superiore per i Lavori Pubblici, per corruzione continuata e a quaranta indagati, compreso Guido Bertolaso: l'ordinanza sottolinea «i rapporti diretti» dell'imprenditore beneficato dagli appalti pilotati con il Super-commissario, gli incontri «di persona» in previsione dei quali l'impresario «si attiva alla ricerca di denaro contante, tanto che gli investitori ritengono fondato supporre che detti incontri siano stati finalizzati alla consegna di somme di denaro a Bertolaso».
C'è solo da sperare che gli indagati dimostrino che le accuse non sono vere, non ribellandosi alla giustizia come Berlusconi consiglia a Bertolaso, ma aiutandola a chiarire in fretta. Intanto, purtroppo, sono vere le risate da sciacalli degli imprenditori che pregustano con certezza gli appalti statali per la tragedia dell'Aquila, e poche ore dopo la scossa raccontano al telefono: «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro il letto». Ma se questo è il quadro dell'inchiesta, qual è la cornice istituzionale che lo circonda? Si dovrebbe parlare di potere, più che di istituzioni, se si vuole capire.
La Protezione civile, che Berlusconi sta trasformando in Spa, è infatti uno straordinario esperimento politico di Stato d'eccezione, con un ramo operativo del governo libero da ogni controllo e sciolto dalla legge. Questo vale naturalmente per le grandi sciagure, le calamità nazionali, le vere emergenze per cui è nata la Protezione. Ma poi, il governo ha esteso lo stesso sistema ai Grandi Eventi, dai giochi del Mediterraneo all'anno giubilare paolino, ai viaggi del Papa in provincia, ai mondiali di nuoto, all'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, alla Vuitton Cup.
Nel solo 2009 le opere d'emergenza sono state 78, dal 2002 addirittura 500, con una spesa di 10 miliardi di euro.
Questa emergenza continua, che si estende ovunque, è sottratta per legge al controllo della Corte dei Conti e a quello dell'Autorità per i lavori pubblici, e la Protezione civile può agire in deroga ad ogni disposizione vigente. Libertà totale: dalle leggi sulla trasparenza, sui requisiti dei contratti, sulla concorrenza, sugli appalti, sulla pubblicazione dei bandi, sugli avvisi, sugli inviti, sulle verifiche archeologiche, sulle varianti, sui termini, sulla selezione delle offerte, sull'adeguamento prezzi, sulla progettazione. È un sistema che, portato fuori dai confini del pronto intervento d'emergenza per le sciagure nazionali, non ha alcun senso nell'equilibrio tra i poteri dell'amministrazione statale. Acquista però un senso politico e istituzionale fortissimo nel disegno di riordino gerarchico che Berlusconi persegue, e che chiama «riforma». Il Presidente del Consiglio ha dimostrato più volte di non accettare controlli e bilanciamenti tra i poteri, ritenendo se stesso, in pratica, una deroga vivente alla Costituzione repubblicana, in quanto investito di quel consenso popolare che lo scioglie da ogni regola e ogni consuetudine, sovraordinandolo rispetto al potere giudiziario e agli organi di garanzia.
Le stesse leggi ad p e r s o n a m c h e stanno bloccando il Parlamento per sottrarre il Premier al suo giudice, sono nello stesso tempo un gesto disperato di fuga e la fondazione di un nuovo ordine, dove la legge nonè più uguale per tutti, perché il potere supremo può salvarsi decretando per se stesso l'eccezione, e su questa eccezione fondare una nuova gerarchia istituzionale di fatto.
In questa visione che contiene la sfida suprema e necessitata del berlusconismo, Bertolaso e la Deroga permanente in cui vive e opera rappresentano un test istintivo e naturale, su vasta scala, impiantato su un meccanismo emergenziale fatto di emozioni, dolori e spettacolarità, perfetto per un'interpretazione politica carismatica e populista. Con la Protezione civile che diventa Spa,e sta per usufruire di una speciale immunità presente, futura e retroattiva, la Deroga va al governo:e il modello Bertolaso prefigura la dimensione finale del moderno populismo di destra, con la politica ridotta a pura ideologia interpretata dal leader magari insediato al Quirinale, la partecipazione popolare ridotta a vibrazione periodica di consenso, la forma di governo resettata sul puro tecnicismo elevato a massima potenza. Il governo come solutore di problemi (proprio mentre si rifugge dallo Stato), signore delle leggi in nome di un'emergenza permanente: che rende ogni intervento pubblico octroyée da uno Stato compassionevole e propagandistico, tra gli applausi dei cittadini divenuti spettatori di un discorso pubblico tramutato in format di Grandi Eventi.
Ecco perché l'inchiesta sulla Protezione Civile colpisce il cuore del berlusconismo. Il Cavaliere ha fretta, procede per immunità e scorciatoie, riduce la politica a prospettiva di pura forza che travolge anche ogni orizzonte di riforma costituzionale condivisa. La Grande Deroga è già un cambio materiale della Costituzione, in atto, mentre qualche autorevole esponente dell'opposizione chiede ancora ogni giorno in un'intervista quando si comincia con le riforme.
Ma oggi, la Grande Deroga produce con tutta evidenza la gelatina di Stato della corruzione. E dunque diventa esemplare, dimostrando a chi non vuol capire che l'esercizio del potere fuori dai principi costituzionali che lo costringono dentro forme e limiti sfocia facilmente nell'arbitrio, nella disuguaglianza e nell'esclusione, in quell'abuso che è la vera cifra complessiva di questa destra al governo. Non solo: pregiudica quella «modernizzazione» che vive solo nella propaganda del governo ma di cui il Paese ha bisogno, negando il mercato e la concorrenza, come denuncia apertamente la Confindustria contestando la totale discrezionalità degli appalti, senza trasparenza. Riproduce un'Italia del malaffare che premia la corte e i peggiori, rimpicciolendo le opportunità dell'intero sistema.
Per queste ragioni, il governo oggi dovrebbe vergognarsi di porre la fiducia blindando il decreto che vuole far nascere la Protezione civile Spa. E l'opposizione dovrebbe sentire l'importanza della sfida, la sua portata, ed esserne all'altezza. Dopo che l'inchiesta squaderna la realtà dei Grandi Eventi, della finta emergenza, il parlamento dovrebbe diventare il luogo della trasparenza, non della militarizzazione di una decisione politica che rivela i suoi buchi neri. Questo per rispetto dei cittadini e dello stesso Bertolaso, che deve spiegare se è colluso come pensano i magistrati o se è incauto nello scegliere i suoi collaboratori, e incapace di sorvegliarne l'operato: da questo e solo da questo si capirà se deve dimettersi o può restare al suo posto, chiedendo scusa e cambiando metodo. Noi non diremo mai «diteci che non è vero», come ripetono in molti davanti alla realtà dell'inchiesta: diteci quel che è vero, piuttosto. Diteci la verità.
I morti non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
“Chi protegge il mercato dalla protezione civile?” Gli architetti romani hanno girato questa domanda ad Antonio Catricalà, presidente dell’autorità Antitrust. Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine degli architetti di Roma ha scritto infatti una lettera al garante per segnalare “un nuovo provvedimento legislativo profondamente lesivo della concorrenza nell'ambito del mercato della progettazione architettonica in Italia”. Il riferimento è al decreto legge che dovrebbe permettere la trasformazione della Protezione civile in una società per azioni. Allargando di fatto il suo campo d’azione e soprattutto diminuendo i livelli di trasparenza negli appalti in nome della rapidità invocata nelle situazioni di emergenza. Almeno questo è il rischio paventato da più parti. Di certo Guido Bertolaso, capo della protezione civile ormai agli sgoccioli della pensione e forse in procinto di diventare ministro, non assisterà agli effetti di questo terremoto giuridico.
LEGGI SPECIALI
“In Italia assistiamo continuamente alla creazione di leggi speciali: tutto è emergenza e caso eccezionale” spiega Schiattarella al Fatto Quotidiano “ciò determina un'alterazione del libero mercato e della concorrenza. E’ come se noi avessimo paura di affrontare la via ordinaria in favore delle scorciatoie. Cos’è l’emergenza? La costruzione delle opere per l’Expo di Milano o per gli stadi del nuoto a Roma? O magari le Olimpiadi? Ogni volta si devono inventare meccanismi particolari, invece di seguire le norme già esistenti”. Nella lettera si dà conto della battaglia che l’Ordine degli architetti da anni conduce contro tutte quelle “società in house” che per conto delle pubbliche amministrazioni “svolgono vere e proprie funzioni da società di ingegneria di proprietà pubblica, sottraendo ulteriori spazi di libera concorrenza sul mercato della progettazione delle opere pubbliche e contribuendo, in molti casi, ad abbassare il livello complessivo di qualità del progetto”.
GLI APPALTI
Il decreto prevede la costituzione di Protezione Civile spa, una società pubblica di proprietà della presidenza del Consiglio che avrà tra le sue competenze “la progettazione, la scelta del contraente, la direzione lavori, la vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali, nonché l'acquisizione di forniture o servizi rientranti negli ambiti di competenza del Dipartimento della protezione civile”. Non sarà un po’ troppo? E’ la domanda che si pongono in molti. “Nulla di personale con Bertolaso che conosco e stimo” affermava qualche giorno fa in un’intervista al Sole 24 Ore Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori “ma la Spa della protezione civile è un altro segnale della volontà di procedere negli appalti pubblici con procedure straordinarie ed emergenziali in deroga alle regole ordinarie. Una cosa del genere non può passare con un decreto legge senza che si svolga un ampio dibattito”.
E Buzzetti si spinge anche più in là affermando che “il decreto legge presenta profili di incostituzionalità. Lo dicono anche autorevoli esponenti della maggioranza. Torniamo ai tempi dello Stato costruttore. Incredibile”. Gli architetti hanno scritto anche a lui, in quanto rappresentante dell’Ance. “Quando ho letto le sue dichiarazioni in quell’intervista ho ritrovato le mie stesse preoccupazioni” prosegue Schiattarella “e giusto una decina di giorni fa il problema della protezione civile era stato sollevato durante l’assemblea nazionale dei presidenti dell’Ordine degli architetti. Il punto è che la ricostruzione post terremoto non ha a che vedere con l’emergenza. Riportare in vita il centro storico de L’Aquila è un’operazione culturale, che coinvolge il rapporto tra antico e moderno. È giusto affidarla a due pensatori o non è piuttosto un argomento di dibattito sociale, d discussione collettiva? Inoltre non capisco chi farà da controllore degli interessi generali se un unico soggetto è finanziatore, progettista ed esecutore”.
L’EMERGENZA
In Italia, si sa, il concetto di emergenza, che dovrebbe motivare il ricorso alla Protezione Civile spa, è quanto mai esteso. Su questo è d’accordo Stefano Riela, professore dell’Università Bocconi, direttore scientifico della Fondazione ResPublica ed esperto di tematiche antitrust: “Secondo le regole dell’Unione europea si possono sospendere le regole del mercato interno in caso di problemi per la sicurezza dei cittadini, si può derogare solo in casi eccezionali. Però va detto che il trattato di Lisbona entrato in vigore mesi fa ha declassato la concorrenza da obiettivo a strumento”. Il punto è che il concetto di emergenza non è definito da nessuna parte e bisogna valutare caso per caso. “Sono decisioni politiche, è difficile decidere oggettivamente cosa è emergenza e cosa non lo è. Però ricordiamoci che in Francia il presidente Nicolas Sarkozy utilizza ampiamente questa disapplicazione delle regole di concorrenza in settori considerati strategici come trasporti, difesa e telecomunicazioni. Per minimizzare il rischio di opacità la protezione civile dovrebbe giustificare ogni qualvolta una decisione viene presa senza effettuare una gara pubblica, ad esempio”. Ora non resta che aspettare per conoscere l’opinione del Garante. “Se Catricalà ravviserà degli estremi per convocarci” conclude Schiattarella “andremo a raccontare le nostre ragioni”.
La Protezione civile Spa trasforma la tutela del territorio da diritto a servizio a pagamento. Su
il manifesto
Haiti è l'occasione giusta per mostrare al mondo l'ultimo gioiello del made in Italy, la neonata Protezione civile Spa. Forte della fresca nomina a «Sottosegretario incaricato del coordinamento degli interventi di prevenzione in ambito europeo ed internazionale rispetto ad interventi di interesse di protezione civile» (come recita il decreto legge istitutivo della Spa), Guido Bertolaso è già all'opera per esportare brand e know how della sua creatura.
Un modello messo a punto in otto mesi di sperimentazione dopo il terremoto dell'Aquila: «Siamo pronti a mettere a disposizione di tutto il mondo, e degli haitiani in particolare, - ha annunciato il nostro "uomo della provvidenza" all'indomani della tragedia caraibica - l'esperienza nell'ambito della ricostruzione che abbiamo acquisito in Abruzzo».
La campagna pubblicitaria per lanciare sul mercato la Società in house, già preposta per legge a produrre «utili netti» dalle operazioni di protezione civile, è cominciata: Bertolaso, nel suo doppio ruolo politico e amministrativo, ieri era in Giappone, a Kobe, a illustrare «l'esperienza italiana nella gestione dell'emergenza e della ricostruzione collegate al terremoto del 6 aprile». Nel frattempo, in Italia, l'annuncio dato e subito ritirato dal ministro Ignazio La Russa circa l'invio ad Haiti di una nave d'appoggio italiana, da scegliere tra la San Giusto, anfibia della Protezione civile, e la portaerei militare Cavour, è stato letto da alcuni dirigenti della Protezione civile come il risultato dello sgomitamento tra il Dipartimento e la Difesa per conquistarsi la massima visibilità sul campo.
La pubblicità, d'altra parte, è l'anima del mercato necessario alla Società per azioni che, ai sensi dell'articolo 15 del decreto legge 195 pubblicato in Gazzetta ufficiale il 30 dicembre 2009, diventerà una centrale privata di appalto dei lavori pubblici, ma che potrà lavorare anche per i privati e all'estero. Da noi lo farà in deroga a tutte le leggi e i piani regolatori vigenti e potrà agire sotto l'impulso di ordinanze emanate per ogni tipo di evento trasformato in stato d'emergenza, esautorando non solo le funzioni del parlamento, ma anche gli enti locali. Esattamente come è avvenuto a L'Aquila. Basta ricordare la frase di Berlusconi pochi giorni dopo il 6 aprile: «Per governare questo paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile».
All'estero, invece, agirà sul modello americano della Fema, la Federal Emergency managment agency, che dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e l'uragano Katrina del 2006 ha acquisito dal Congresso sempre più poteri tanto da essere definita «il governo segreto degli Stati uniti». E come la Fema, il cui brand impreziosisce ormai un particolarissimo merchandising dell'emergenza - aerei, elicotteri, prefabbricati in legno, ecc - commercializzati nel mondo, «anche la Spa di Bertolaso si prepara ad esportare il marchio del Biscione», per usare le parole di Antonio Crispi, segretario nazionale Fp-Cgil per la Protezione civile. La Spa, con un capitale iniziale di un milione di euro prelevato dal fondo della Protezione civile, acquisirà tutte le «funzioni strumentali» (non i compiti) del Dipartimento controllato dalla Presidenza del consiglio dei ministri, ossia subentra nella gestione di tutti i mezzi a disposizione del Dipartimento, centri funzionali, risorse tecnologiche, flotta aerea e quant'altro, tutto ciò che serve a seconda dell'evento che si dispone ad affrontare.
E quando Ionta annuncia che per costruire le carceri si servirà della Spa, dice semplicemente che i soldi per far fronte all'emergenza penitenziaria andranno a rimpinguare le casse della Società (che per il momento non può essere quotata in borsa). «Il fatto che la Spa possa accumulare utili ci dice che si passa dal concetto costi-benefici al concetto costo-ricavi - aggiunge Giovanna Martini, funzionaria di Protezione civile e coordinatrice del circolo Pd della Presidenza Cdm - la tutela della vita e del territorio diventano a pagamento». «Non sappiamo più se saremo funzionari pubblici che hanno giurato fedeltà alla Costituzione - lamenta Francesco Geri, ingegnere del Dipartimento - o procacciatore di affari per la Spa». «Qualsiasi intervento sul territorio, qualsiasi lavoro necessario alla prevenzione di qualunque tipo sono nelle mani della Spa. Che se entra in contenzioso con gli enti locali, per esempio, può avvalersi dell'avvocatura dello Stato», afferma Giovanni Ciancio, responsabile Cgil del settore emergenze della Protezione civile. «Per Silvio Berlusconi è il modo più semplice - conclude - per ottenere subito una sorta di premierato».
Habemus dominum dall’ugola d’oro. Ogni sillaba luccica: lunedì 11 gennaio, a proposito delle leggi con cui vuol salvarsi dai tribunali, le chiama «ad libertatem», indovinando la desinenza; manca solo un gerundio, «libertas delinquendi». Suona meno bene l’italiano, se "Repubblica" lo cita esattamente: «Mi indigna soltanto a sentirle certe cose»; lo stile è suo. Resta nella memoria acustica una frase storica scandita mercoledì sera 7 ottobre 2009; era furente contro la Consulta, avendo appena perso l’immunità: «Queste cose a me mi caricano, agli Italiani li caricano ...». Qui apostrofa la Cassazione: annulli la condanna inflitta all’avvocato Mills da Tribunale e Corte d’appello milanesi; se no, va su tutte le reti televisive a dire che «la magistratura è molto peggio della mafia» (ivi). In quarantott’ore dà sicuro un forte alleviamento fiscale (due sole aliquote Irpef) e se lo rimangia. Alla rentrée romana esegue una delle sue frequenti mosse da joker: gliele studiano maghi insonni, fallendo ogni volta l’obiettivo, ma bene o male sinora hanno scongiurato probabili condanne; e l’effetto riesce devastante. Ormai l’abbiamo nel codice genetico. Stavolta prendono le mosse da Corte costituzionale 14 dicembre 2009 n. 333: invalidamente l’art. 517 c.p.p. ignorava l’eventuale giudizio abbreviato quando l’accusa fosse accresciuta nel dibattimento; «urge» quindi sospendere i relativi processi affinché gl’imputati optino in quel senso, se vogliono; li iberna un decreto. I beneficiari sono Mister Mills e chi lo pagava: è il ventesimo abito cucito addosso; era decreto urgente anche il favore resogli da Craxi venticinque anni fa (dl 16 ottobre 1984), ripristinando l’etere selvatico dove fondava un piratesco impero televisivo.
Poche frasi congelano i dibattimenti pericolosi finché sia votata l’invereconda legge-spegnitoio che estingue i processi alla scadenza d’un termine. Follie simili avvengono nel mondo d’Alice in forma lieve e giocosa, mentre da noi è farsa sinistra. Actum est, annunciano i quotidiani mercoledì 12 gennaio: l’interessato voleva una sospensione lunga tre mesi; il Quirinale gliene accorda uno e mezzo; combineranno tutto stamattina. Ore 9, la conferma viene dal TG1, voce del padrone, ma abitiamo un mondo fluido e poco dopo, quel decreto svanisce: era superfluo, spiega il guardasigilli; siccome l’accertamento d’incostituzionalità non richiede complementi normativi, l’art. 517 vale nei termini stabiliti dalla Corte; i dibattimenti quindi saranno sospesi affinché l’imputato scelga un nuovo giudizio, se vuole. Discorsi analoghi risuonavano sulla nave dei matti col berretto a sonagli, un tema ricorrente nella pittura didascalica quattro-cinquecentesca (vi mette il bulino anche Dürer). Il giudizio abbreviato conta ventun anni: con l’assenso del pubblico ministero l’imputato chiede d’essere giudicato nell’udienza preliminare, sulle carte del fascicolo, escluso ogni nuovo atto istruttorio; hanno ingresso solo dei documenti; l’eventuale pena scende d’un terzo. L’idea nasceva da calcoli d’economia: tagliare i dibattimenti con un giudizio monocratico, rigorosamente cartolare, in camera di consiglio, mediante l’accordo tra le parti; lo promuove l’imputato con poche chances perché se fosse sicuro del fatto suo, sceglierebbe un contraddittorio pieno. La metamorfosi, suggerita dalla Consulta, sopravviene nella l. 16 novembre 1999: cade il veto istruttorio; l’instante può subordinare la richiesta all’acquisizione delle prove che offre o indica; l’udienza preliminare diventa dibattimento a porte chiuse, lungo e complesso; ogni imputato dal destino dubbio vi salta dentro assicurandosi lo sconto, se fosse condannato, a costo zero, visto che gioca quante mosse istruttorie vuole.
Resta da vedere come l’art. 517 nuovo sia applicabile nei procedimenti in corso, supponendo che pendano in cassazione: è il caso Mills; sarà discusso giovedì 25 febbraio, davanti alle Sezioni unite. L’imputato ha il diritto riconosciutogli da Corte cost. 14 dicembre 1999 n. 333: chiedere l’abbreviato; ma cosa significa? Escludiamo, ipotesi assurda persino nella sfrenata cabalistica berlusconiana, l’annullamento della condanna e regressione ad ovum, ossia all’udienza preliminare, dove il reato morrebbe estinto dal tempo (tale il teorema difensivo, l’unico prospettabile, parrebbe, visto quanto pesano le prove d’accusa): le misure rescindenti presuppongono invalide sequele d’atti, mentre qui l’iter appare impeccabile (la Consulta ha interloquito post eventa), né il ricorrente può dolersi d’uno svolgimento meno garantito; era l’optimum; giostrava davanti a tribunale e corte d’appello spendendo ogni risorsa disponibile. Concedergli congrua stasi perché mediti se chiedere o no «un nuovo giudizio?». Sono parole del guardasigilli e quanto poco valgano, lo vedono studenti alle prime armi. Non esistono "nuovi giudizi". Mister Mills risulta giudicato nell’unica forma possibile e c’è poco da meditare: sono lontani i tempi in cui l’imputato soppesava profitti e rischi, dovendo optare tra decisione sulle carte e contraddittorio perfetto; les jeux sont faits: a occhi chiusi, quindi, chieda l’abbreviato lucrando lo sconto sulla pena, se esce perdente. Affare suo, nonché dei difensori, come lo sarebbe stato nell’udienza preliminare: se ha gusti meditabondi, il tempo non gli manca; quando sia chiamata la sua causa, saranno passati settantatre giorni dalla decisione «additiva» (così le chiamano gl’intenditori). La Corte vaglia i motivi del ricorso: ritenendoli fondati, annulla con o senza rinvio; altrimenti riduce la pena d’un terzo e lì finisce il processo, superfluo essendo rinviare, perché gli ermellini sanno l’aritmetica (art.620, lett. l).
La procedura penale era materia dal passato equivoco, misconosciuta, quindi distorcibile, ma ancora vent’anni fa nessuno immaginava il guignol quotidiano sub divo Berluscone: tre leggi sul telaio (processo breve, legittimo impedimento, terzo lodo d’immunità) offrono materia d’estremo interesse al giuspatologo; l’analisi politica ispira profonda tristezza.
"Se la politica italiana fosse un film, questo inizio di 2010 lo intitolerei Le conseguenze dell’amore. Il regime c’è da tempo. Ma ora si sta consolidando e inasprendo alla maniera classica dei totalitarismi: introducendo nella politica la categoria del sentimento per cancellare qualunque normalità democratica, qualunque ordinaria dialettica fra maggioranza e opposizione, fra governo e poteri di controllo e di garanzia. Il Capo pretende di essere amato, anzi adorato e, dopo l’attentato di Piazza Duomo, gioca sui sentimenti dei cittadini per ricattarli: ‘Chi non è con me è contro di me. Chi non mi adora mi odia’". Barbara Spinelli non si è mai sottratta alle regole ferree del dizionario: ha sempre chiamato "regime" il berlusconismo. Ma ora vede un’altra svolta, una cesura estrema, un salto in avanti verso il baratro.
Qual è precisamente questa svolta di regime nel regime?
Nella testa di Berlusconi l’attentato di Piazza Duomo ha creato un prima e un dopo. Dopo, cioè oggi, nulla può più essere come prima. Si sente in guerra, anche se combatte da solo. E con il dualismo amore-odio crea una situazione militare: l’immagine del suo volto sfregiato e insanguinato, riproposta continuamente in tv e sui giornali, è per lui l’equivalente dell’attentato alle due Torri per Bush. Stessa valenza, stessa ossessività, stesso scopo ricattatorio. Con la differenza che, dietro l’11 settembre, c’era davvero il terrorismo internazionale. Dietro l’attentato a Berlusconi c’è solo una mente malata e isolata.
Qual è la conseguenza politica?
L’attentato al premier ha ancor di più narcotizzato la stampa italiana, che ha rapidamente interiorizzato il ricatto dell’amore e dell’odio. E il Pd dietro. Viene bollata come espressione di odio da neutralizzare, espellere, silenziare qualunque voce di opposizione intransigente. Cioè di opposizione. Tutti quei discorsi sul dovere del Pd di isolare Di Pietro. A leggere certi quotidiani, ci si fa l’idea che il vero guaio dell’Italia degli ultimi 15 anni non sia stato l’ascesa del berlusconismo, ma quella dell’antiberlusconismo. Quanti editoriali intimano ogni giorno all’opposizione di non odiare, cioè in definitiva di non opporsi! Come se l’azione isolata di un imbecille potesse e dovesse condizionare l’opposizione. Un ricatto che si riverbera anche sugli articoli di cronaca.
A che cosa si riferisce?
Alla strana indifferenza con cui si raccontano alcune scelte mostruose, eversive della maggioranza che inasprisce il suo regime senza più critiche né opposizione. Penso alle tre o quattro leggi ad personam fabbricate in queste ore nella residenza privata del premier. Penso all’orribile apposizione del segreto di Stato sugli spionaggi illegali scoperti dalla magistratura in un ufficio del Sismi e nell’apparato di sicurezza Telecom. A salvare con gli omissis di Stato gli spioni accusati di avere schedato oppositori, giornalisti e magistrati sono gli stessi che un anno fa creavano il mostro Genchi, dipingendolo come una minaccia per la democrazia, trasformando il suo presunto ‘archivio’ in una centrale eversiva.
E Genchi operava legalmente per procure e tribunali, al contrario delle barbe finte della Telecom e del Sismi.
Appunto, ma nella smemoratezza generale, facilitata dalla narcosi della stampa (per non parlare della tv), nessuno ricorda più nulla. Nessuno è chiamato a un minimo di coerenza, né di decenza. I sedicenti cultori della privacy che strillano a ogni legittima intercettazione giudiziaria tentano di controllare addirittura il cervello e i sentimenti del comune cittadino col ricatto dell’‘odio’. Fanno scandalo le intercettazioni legali, mentre lo spionaggio illegale viene coperto dal governo. Così il segreto di Stato diventa un lasciapassare preventivo a chiunque volesse tornare a spiare oppositori, giornalisti e magistrati. 'Fatelo ancora, noi vi copriremo', è il messaggio del regime. 'Le operazioni illegali diventano legali se le facciamo noi': un avvertimento per quel poco che resta di opposizione e informazione libera. E il Pd e i giornali ‘indipendenti’ non dicono una parola, soggiogati dalla sindrome di Stoccolma.
Che dovrebbe fare, in questo quadro, l’opposizione?
Vediamo intanto che cosa dobbiamo fare noi con l’opposizione: smettere di chiamarla opposizione. Diciamo ‘quelli che non governano’. Gli daremo la patente di oppositori quando ci diranno chiaramente che cosa intendono fare per contrastare il regime e cominceranno seriamente a farlo. Se è vero che Luciano Violante segnala addirittura al governo le procure da far ispezionare, se Enrico Letta difende il diritto del premier a difendersi 'dai' processi, se altri del Pd presentano disegni di legge per regalare l’immunità-impunità a lui e ai suoi amici, chiamarli oppositori è un favore. Li aspetto al varco: voglio sapere chi sono e cosa fanno.
Ellekappa li chiama "diversamente concordi".
Appunto. Non si sono nemmeno accorti dello spartiacque segnato dall’attentato nella testa di Berlusconi, fra il prima e il dopo. Non hanno neppure colto la portata ricattatoria dell’ultimatum del premier perché le nuove leggi ad personam vengano approvate entro febbraio, altrimenti 'le conseguenze politiche non saranno indolori'. Nessuno ha nulla da dire contro questo linguaggio da mafioso ai vertici dello Stato? Perché nessuno fa dieci domande su quella frase agghiacciante? E’ il Partito dell’Amore che si esprime così?
Che dovrebbe fare l’opposizione per essere tale?
Rendersi graniticamente inaccessibile a qualsiasi compromesso sulle leggi ad personam. Evitare di reagire di volta in volta sui piccoli dettagli, ma alzare lo sguardo al panorama d’insieme e dire chiaro e forte che siamo di fronte a una nuova svolta, a un inasprimento del regime. E respingere pubblicamente, una volta per tutte, questo discorso osceno sull’amore-odio.
Tabucchi invita le opposizioni a coinvolgere l’Europa con una denuncia che chiami in causa le istituzioni comunitarie.
Sull’Europa non mi farei soverchie illusioni: basta ricordare i baci e abbracci a Berlusconi negli ultimi vertici del Ppe. Io comincerei a dire che con questo tipo di governo non ci si siede a nessun tavolo, non si partecipa ad alcuna ’convenzione’, non si dialoga e non si collabora a cambiare nemmeno una virgola della Costituzione. Oddio, se vogliono ridurre i deputati da 630 a 500 o ritoccare i regolamenti, facciano pure: ma non è questo che interessa a Berlusconi. Come si fa a negoziare sulla seconda parte della Costituzione con chi, vedi Brunetta, disprezza anche la prima, cioè i princìpi fondamentali della nostra democrazia? Anziché dialogare con Berlusconi, quelli del Pd farebbero meglio a guardare a Fini, provando a fare finalmente politica e lavorando sulle divisioni nella destra, invece di inseguire, prigionieri stregati e consenzienti, il pifferaio magico. Spesso in questi mesi Fini s’è mostrato molto più avanti del Pd, che l’ha lasciato solo e costretto ad arretrare.
Perché, con la maggioranza che ha, il Cavaliere cerca il dialogo col Pd?
Anzitutto per un’irrefrenabile pulsione totalitaria: lui vorrebbe parlare da solo a nome di tutto il popolo italiano, ecco perché l’opposizione dovrebbe dirgli chiaramente che più della metà degli italiani non ci sta. E poi c’è una necessità spicciola: senza i due terzi del Parlamento, le controriforme costituzionali dovrebbero passare dalle forche caudine del referendum confermativo: e l’impunità delle alte cariche o della casta, per non parlare del lodo ad vitam di cui parlano i giornali, non hanno alcuna speranza di passare. Dunque è proprio sulla difesa della Costituzione e sul no a qualunque immunità che il Pd dovrebbe parlar chiaro. Invece è proprio lì che sta cedendo.
L’ha soddisfatta il discorso di Napolitano a Capodanno?
Mi ha impressionato più per quel che non ha detto, che per quel che ha detto. Mi aspettavo che, onorando i servitori dello Stato che rischiano la vita, non citasse solo i soldati in missione, ma anche i magistrati che corrono gli stessi rischi anche a causa del clima, questo sì di odio, seminato dalla maggioranza. Invece s’è dimenticato dei magistrati persino quando ha elencato i poteri dello Stato, come se quello giudiziario non esistesse più.
Perché, secondo lei, tutte queste dimenticanze?
È una lunga storia...Chi è stato comunista a quei livelli non ha mai interiorizzato a sufficienza i valori della legalità, della giustizia, dei diritti umani. Quando poi i comunisti italiani, caduto il Muro, hanno cambiato nome, sono diventati socialisti, e all’italiana: cioè perlopiù craxiani. Mentre la cultura socialista europea ha sempre difeso la legalità e la giustizia, il socialismo italiano degli anni ’80 e ‘90 era quello che purtroppo conosciamo. E chi, da comunista, è diventato craxiano oggi non può avvertire fino in fondo la violenza di quanto sta facendo il regime.
Ora si apprestano a celebrare il decennale di Craxi.
Mi auguro che il presidente della Repubblica non si abbandoni a festeggiamenti eccessivi. E non ceda alla tentazione di associarsi a questa deriva generale di revisionismo e di obnubilazione della realtà storica sulla figura di Craxi. Anche perché la riabilitazione di Craxi non è fine a se stessa: serve a svuotare politicamente e mediaticamente i processi a Berlusconi e a tutti i pezzi di classe dirigente compromessi con il malaffare. Riabilitano un defunto per riabilitare i vivi. Cioè se stessi.
Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali scatenate nell´assalto agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati, rappresentano una vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa morale.
Di quale tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent’anni l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia si regge economicamente sull’impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d’assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale?
Ora non li vogliono più, s’illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l’umanità. Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell’ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l’importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?
Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la "caccia al nero": disordini razziali che evocano scenari di un’America d’altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell’agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un’opera di civilizzazione che mal si concilia con l’offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d’ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un’azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire – con la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un’area rimasta povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla ‘ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non c’entra un bel nulla. L’Italia dell’economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che restiamo l’unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un’informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.
Sulla scia di un’analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l’idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: "24h senza di noi". Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l’intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l’inciviltà dei pogrom è contagiosa.
Dal capitolo 6 del libro: Piero Della Seta, Edoardo Salzano,
L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma 1993.
Il cuore di Tangentopoli
Sebbene i confini di Tangentopoli restino ancora da tracciare con una più precisa descrizione, il suo cuore, il suo “centro direzionale”, crediamo comunque di averlo individuato. Esso sta nella politica. Più precisamente, nell'aver ridotto la politica a gioco per il potere, e aver reso il potere fine a se stesso: nell'aver ridotto il potere a unica finalità, rovesciandone e negandone così il valore di strumento per un fine d'interesse collettivo.
Non a caso, benché la componente statisticamente più consistente degli indagati dall'inchiesta Mani pulite appartenga all'area del Psi, e benché il craxismo costituisca in qualche modo l'ideologia e la professione di fede di Tangentopoli, la radice politica da cui la malavita politico-affaristica è germinata è quella del doroteismo: tipica figura politica (più e prima ancora che “corrente”) di una Democrazia cristiana che veniva perdendo ogni sia pur discutibile finalità generale. Si può anzi sostenere che proprio il contagio operato con l'estensione del doroteismo alle altre formazioni politiche (in primo luogo al Psi, ma anche al Pci, entrato con il consociativismo nell'anticamera del potere e con le cooperative nella “cupola” degli appalti) abbia costituito la precisa matrice politica di Tangentopoli. Sebbene non si possa sottovalutare il deciso “salto di qualità” (se così possiamo chiamarlo) avvenuto nel passaggio dal doroteismo di marca democristiana a quello di stampo craxiano. Mentre il primo conservava le apparenze della rispettabilità e si nascondeva dietro il manto dell'ipocrisia (ma l'ipocrisia, diceva Chateaubriand, è in fin dei conti “l'omaggio che il vizio rende alla virtù”), il doroteismo degli anni 80 esibisce invece, presentandole come virtù, i suoi vizi di furbesca arroganza, di rampante arrivismo, di potervo sprezzo per le regole comuni.
Il successo di Di Pietro nella sinistra si deve al fatto che lui soltanto, e il suo bizzarro partito, esprime la protesta di quella metà degli italiani che vede Berlusconi chiedere con prepotenza di essere esentato dai processi che ha in sospeso. Perché questa elementare decenza non gli viene chiesta anche da quel Pd che si dice di opposizione, anzi pretende di rappresentarla quasi tutta? Onestà e legalità sono il minimo che si esige da chi esercita una carica pubblica e se il Pd non lo fa si deve pensare o che si comporterebbe esattamente come il Cavaliere, o che, come lui, pensa che il consenso elettorale valga più della legge, o che tenda a mettere le mani assieme a lui sulle riforme istituzionali. Né servono a fugare il sospetto i perpetui richiami del Presidente della Repubblica a ritrovare un accordo tra le parti per procedere più presto.
Ma quali riforme si potrebbero fare con un leader dalla cui filosofia, più volte espressa, esula qualsiasi simpatia per la repubblica parlamentare che abbiamo voluto essere? Che le camere gli diano solo fastidio lo ha detto a chiare lettere, farebbe più e meglio senza di esse, e queste potrebbero ridursi a cinque o sei portavoci. Che la divisione dei poteri gli sia concetto estraneo, al punto di vedere nei suoi istituti un nemico personale da abbattere, è altrettanto chiaramente dichiarato. Quali riforme si farebbero dunque con lui? Sarebbe come se la Repubblica di Weimar avesse proposto al nazismo di concordare una costituzione che gli andasse bene.
Ma, mi si può obiettare, Berlusconi non è Hitler, non ne ha né la ferocia né l'ideologia. È soltanto un padrone, convinto che se potesse dirigere l'Italia da solo tutto andrebbe meglio. E chi lo vota pensa lo stesso. Stupisce che il Pd non si ponga questo problema, quasi che assumesse questa mentalità aziendale come un contributo alla modernizzazione del paese.
In questo senso l'opposizione non solo non indebolisce Berlusconi ma indebolisce il Pd medesimo. A chi possono guardare i suoi seguaci? A Casini, disposto a sbarazzarsi del Cavaliere solo se il Pd si sbarazza di quel che resta di Sinistra e Libertà, di Rifondazione e dei Verdi? Non gli resta che affidarsi a Di Pietro, piaccia o non piaccia stare alle falde di un ex pubblico ministero incline a vedere ogni problema in chiave di guardie e ladri.
Che sia questa l'inclinazione, converrà anche Revelli. La democrazia non si identifica con il codice penale, come Marco Bascetta ha seriamente argomentato. Pretende molto di più ed è meno punitiva. Di più, perché ha esigenze di metodo e costume che il codice non contempla e non vorremmo che contemplasse. Esige cultura e stile che il Cavaliere non ha. Farsi portare una ventina di ragazze a Palazzo Grazioli e sceglierne una o due con cui andare a letto, non è proibito dalla legge: fa soltanto del premier una figura fra ridicola e maniacale, indicativa del suo modo di considerare gli uomini e le donne.
Lo stesso indicano le battute sessiste in tv, di cui si vanta. O l'imbarazzo in cui ha messo i partiti popolari europei sulle persecuzioni che subirebbe in Italia. Essere chiamato da un tribunale non è una persecuzione; Andreotti, che è uomo di altro spessore, non s'è mai sognato di dirlo.
Non lo è neanche l'essere colpito in volto da un modellino del duomo tirato da un infelice disturbato, incidente che perfino lui, ci è parso, tendeva a ridurre di peso, prima che i suoi consiglieri lo inducessero a parlare di sé come neanche di Aldo Moro.
Il solo argomento politico che il Cavaliere agita con ragione è che Di Pietro e non solo preferirebbero liberarsi di lui con lo strumento giudiziario piuttosto che con quello politico. Pd incluso. Non era del tutto normale imporgli di rinunciare alle sue reti televisive, come succede negli altri paesi? Ma non lo si fa. Non sarebbe stato del tutto normale permettere al Parlamento di fare una opposizione ribaltando una legge elettorale definita dal suo stesso promotore una porcheria? Ma non lo si è fatto.
La forza di Di Pietro viene da quel che il Pd non fa. Non si tratta di ridurre la conflittualità, ma di civilizzarla. Non è un affare di tribunali, ma di democrazia pura e semplice.
Massima apertura e massima fermezza. Questa potrebbe essere la sintesi della linea adottata dal presidente della Repubblica nella materia, delicatissima, non solo e non tanto delle riforme istituzionali, ma del contesto costituzionale all’interno del quale deve sempre muoversi la politica. In questo senso, il discorso tenuto davanti ai rappresentanti delle istituzioni è molto esplicito e, più che essere considerato una novità, deve essere letto come un forte chiarimento di una linea da lungo tempo perseguita.
Grande è la confusione sotto il cielo d’´Italia ma, a differenza della conclusione di uno dei "pensieri" del presidente Mao, la situazione è pessima. Più che venir considerata oggetto della attenzione riformatrice, la Costituzione sembra essere evaporata, scomparsa, lasciando una pagina bianca sulla quale esercitarsi liberamente. Proprio contro questo modo di vedere, che si è venuto diffondendo e rafforzando nell’ultimo anno, si leva il monito di Giorgio Napolitano. La sua analisi del funzionamento delle istituzioni è spietatamente realistica, ma in essa non si coglie nessuna tentazione di presentarsi come unico "custode della Costituzione", luogo dove si determina una progressiva concentrazione di poteri secondo la versione di quella formula data da Carl Schmitt.
Vi è, invece, un imperioso richiamo alla responsabilità costituzionale di tutte le istituzioni, e al suo obbligo di vegliare perché non sia stravolta la forma di Stato, perché sia garantito l’equilibrio tra i poteri. Esattamente l’opposto della concentrazione di poteri intorno all’esecutivo divenuta la caratteristica istituzionale di questa legislatura, che il presidente della Repubblica critica nella sua portata e nelle sue conseguenze e che, invece, sembra costituire l’ispirazione di troppi "riformatori". Si apre così una questione capitale: disponiamo di una cultura capace di sostenere una impresa tanto impegnativa quale è sempre una riforma costituzionale?
Affrontando questo tema si devono tener presenti tre punti sottolineati da Napolitano: l’abuso del riferimento alla "costituzione materiale"; la nascita di sistemi "paralleli" rispetto a quelli disegnati dalla Costituzione; la necessità di concentrarsi solo «su alcune, essenziali e ben mirate proposte di riforma». E, in tempi di strumentali esorcismi della violenza, è bene non dimenticare che il presidente della Repubblica giustamente definì "violento" dal punto di vista istituzionale il contenuto del discorso tenuto a Bonn dal presidente del Consiglio.
Parlar di "costituzione materiale" ha sempre avuto una forte ambiguità. Vi è una sua versione descrittiva di prassi più o meno diverse o integrative rispetto a quelle definite dalla costituzione formale. Vi è la sottolineatura della opportunità di razionalizzare il funzionamento di alcune istituzioni sulla base dell’esperienza. E vi è la pretesa di legittimare una "contro costituzione", emergente nella realtà grazie alla nuda forza della politica. Questi slittamenti progressivi spingono verso l’appiattimento della costituzione sulle esigenze del sistema politico, sì che la nozione stessa di Costituzione viene travolta dall’uso tutto congiunturale che se ne fa. Non a caso Napolitano ha citato Leopoldo Elia, che metteva in guardia contro l’«illusione ottica di scambiare per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico», aggiungendo però «o del sistema elettorale».
Questa integrazione è assai significativa, perché nell’ultimo periodo si è insistito assai sul fatto che ormai proprio le norme elettorali, prevedendo ad esempio l’indicazione sulla scheda del leader della coalizione, avrebbero dato un segnale inequivocabile nel senso del rafforzamento della posizione del presidente del Consiglio, la cui investitura diretta da parte dei cittadini avrebbe sostanzialmente privato di vero significato sia l’incarico conferito dal presidente della Repubblica, sia la stessa fiducia parlamentare. Ai futuri riformatori della Costituzione, quindi, spetterebbe soltanto il compito di registrare questo dato materiale, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. Napolitano ci ricorda che non è così, che il rapporto tra governo e Parlamento rimane il «cardine dell’equilibrio costituzionale».
Questa linea è rafforzata dalle considerazioni riguardanti la compressione del ruolo del Parlamento. Uso fluviale dei decreti legge, maxiemendamenti sui quali viene posta la questione di fiducia hanno determinato «evidenti distorsioni negli equilibri istituzionali e nelle possibilità di ordinato funzionamento dello Stato», privando il Parlamento della libertà di discutere e della stessa libertà di voto. La denuncia di questa perversa costituzione materiale, di cui Napolitano ricorda la lunga incubazione, si traduce così nella indicazione di un preciso limite alla eventuale revisione della Costituzione (e pure dei regolamenti parlamentari) che, inoltre, non potrebbe legittimare il "sistema parallelo" di produzione normativa tutto centrato sul governo, che ha finito con il «gravare negativamente sul livello qualitativo dell´attività legislativa e sull’equilibrio del sistema delle fonti».
Il punto è chiaro. La controcultura che ha via via definito la Costituzione come "ferrovecchio", "minestra riscaldata", residuo "sovietico", retaggio d’un passato ormai cancellato è in manifesto contrasto con il «risoluto ancoraggio ai lineamenti essenziali della Costituzione del 1948», già richiamato da Napolitano nel suo messaggio di insediamento. Questo non vuol dire che la Costituzione sia intoccabile: significa che la sua revisione non può determinare un cambiamento di regime. Emerge così un punto oscurato dalla discussione di questi tempi. Non è vero che si siano confrontati in passato e si confrontino oggi innovatori lungimiranti e chiusi conservatori. Il confronto è stato e rimane tra chi sostiene la "buona manutenzione della Costituzione", che ne rispetta fondamenti e principi, e chi vuole imboccare una strada che è legittimo definire "eversiva" perché proprio da quei fondamenti e principi vuole prendere congedo.
Non è un caso, ancora una volta, che Napolitano parli di «essenziali» e «ben mirate proposte di riforma» e che ricordi il referendum con il quale, nel 2006, sedici milioni di cittadini (il 61,32% dei votanti) bocciarono la riforma costituzionale approvata dal centrodestra. Di questo è bene avere memoria. In tempi in cui il consenso popolare viene impugnato da Pdl e Lega come una clava per screditare le istituzioni, per promuovere campagne contro ogni forma di garanzia, è almeno singolare che questi stessi soggetti dimentichino che la loro linea venne clamorosamente sconfessata proprio da un voto popolare. E in questa apparente contraddizione si coglie un altro tratto della "costituzione materiale" che si vorrebbe proiettare nel futuro.
Un assetto costituzionale "escludente", dove hanno voce e legittimità solo coloro i quali si riconoscono nella logica personalistica, autoritaria, e che accettano una deriva populista che li priva di autonomia critica e li accetta solo se pronti a tributare un applauso al leader. Vera riforma istituzionale è quella che può liberarci da questi rischi, già sperimentati, e che, rifiutando la riduzione del governo a logica aziendalistica, restituisca alle istituzioni quella dignità che possono riguadagnare solo se tornano ad essere davvero interlocutori affidabili e continui dei cittadini.
Siamo fortemente preoccupati per il presidente (nientemeno) dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. Avendo scritto su questo giornale, in un inciso, che l’ex sacerdote Pierino Gelmini è stato “rinviato a giudizio per abusi sessuali”, ha sparato una raffica di contumelie. Sentite qua: “La notizia è falsa e sia Emiliani che l’Unità si confermano privi di credibilità. Emiliani è noto per la faziosità, la scarsa professionalità. E’ giustamente accompagnato da una diffusa e più che giustificata disistima. Come il giornale che pubblica le sue bugie”. Firmato, il Presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri. Il tutto lanciato (improvvidamente?) dalla sola AGI nel pomeriggio del 27 scorso col titoletto perentorio “don Gelmini non è stato rinviato a giudizio”.
Ora, tutti sanno, tranne Gasparri, che risale addirittura al 2008 il rinvio a giudizio nei confronti di Pietro Gelmini detto Pierino, ex “don” perché ridotto allo stato laicale dopo le note accuse. V’è di più: da mesi è in corso un regolare processo presso il Tribunale di Terni (dal quale, ovviamente, potrà uscire colpevole o innocente). Di che straparla dunque il sen. Gasparri? Di quali notizie false? Di quali disistime e faziosità? E’ vero, forse è un po’ appannato, dategli almeno uno straccio di assistente che telefoni alla Procura di Terni, o a qualche redazione, per aggiornarlo. Fra l’altro è giornalista professionista, ha co-firmato, sia pure anni fa, il libro (non molto attuale, pare) “L’età dell’intelligenza”. Insomma, non si può abbandonare così, alla deriva, un politico “di servizio”, un intellettuale vero, una mente pacata (sì, ho scritto pacata). Non si può lasciarlo sprofondare nel ridicolo. Ci pensi Berlusconi, o almeno Bonaiuti.