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Giovanni De Luna, L'insurrezione legale della gioventù del «miracolo»
Cronologia, L'avventura dc e nera del governo Tambroni
Tambroni
Alberto Piccinini, Colonna sonora. La cantata colta di Amodei sui morti di Reggio Emilia

LUGLIO '60
L'insurrezione legale della gioventù del «miracolo»
di Giovanni De Luna

Mezzo secolo dopo è abbastanza facile collocare storicamente il «luglio '60». Basta la cronologia. Basta il confronto con l'anno precedente, il 1959, (quando la lira ottenne l'Oscar per la moneta più stabile da parte del Financial Times), e con quello seguente, il 1961, quando i dati del censimento rivelarono che in dieci anni eravamo diventati la quinta potenza industriale del mondo. Si trattava del «miracolo italiano». Il mutamento non interessò soltanto la struttura economica ma rimbalzò sulle strutture sociali e demografiche, sull'assetto territoriale, sulle caratteristiche professionali della forza-lavoro, sul funzionamento dei servizi pubblici, sull'organizzazione scolastica e su quella assistenziale. Cambiò anche la politica. Il centrismo degasperiano aveva alle spalle un'Italia sessuofobica, bigotta, contadina; la nuova Italia trovò nel centrosinistra la formula governativa per accettare la sfida di una modernizzazione improvvisa e tumultuosa.

Il luglio '60 si inserisce in questa sequenza di eventi, così che Genova con la sua insurrezione contro il Congresso del Msi, Reggio Emilia con i suoi morti sparati dalla polizia (così come Palermo, Licata, Catania), Roma con le cariche dei carabinieri a cavallo a Porta San Paolo, rappresentano oggi nitidamente i luoghi in cui la «grande trasformazione» che aveva investito la struttura profonda del nostro paese si manifestò nelle forme più esplicite del conflitto ideologico e della partecipazione politica.

Senza il boom non ci sarebbe stato il luglio '60. Senza il boom non ci sarebbero stati «i giovani delle magliette a striscie» che ne furono i protagonisti e l'icona simbolica. In quei dieci anni erano diventati produttori (entrando tumultuosamente nel mercato del lavoro), erano diventati consumatori (ci fu allora per la prima volta una loro musica, il rock, un loro modo di vestire, i jeans, il loro percepirsi in una netta discontinuità rispetto alla frugalità delle generazioni precedenti); nelle piazze del luglio '60 scoprirono la politica e l'impegno. Lasciando tutti stupiti. I partiti politici e un'opinione pubblica quasi incredula nei confronti delle «rivelazione» di cosa era maturato nelle pieghe profonde di una «gioventù» che semmai si credeva orientata più verso i valori della destra. Tutti gli osservatori furono allora colpiti proprio da questo tratto della rivolta: «Non sono soltanto i figli che ripetono fedelmente e riprendono la tradizione lasciata dai padri - notava Carlo Levi- sono questi giovani degli uomini autonomi, con caratteri nuovi, differenziati, diversi, sono i ragazzi di Palermo, sono gli operai e gli studenti di Genova, sono i giovani di ogni parte d'Italia che danno un senso nuovo alla lotta sindacale, che affermano la necessità e il diritto dello sciopero politico, sono i giovani senza ricordi di servitù con la volontà di essere uomini».

Il luglio '60 cambiò la storia d'Italia almeno fino al 1992-1994. Fino ad allora, dal 1948 in poi, era stato l'anticomunismo il valore di riferimento della leadership politica del paese. La Costituzione era stata congelata. Codici, leggi, comportamenti politici erano ancora quelli dettati dal fascismo. Era la continuità dello stato che si rifletteva negli organigrammi delle forze dell'ordine, della magistratura, del blocco del potere economico. Con il luglio '60 l'antifascismo si ripropose come elemento fondante del nostro paradigma costituzionale. Non più un «patto sulle procedure» come era stato nel biennio che aveva portato all'approvazione della Costituzione; non ancora un'alleanza tra i partiti dell'«arco costituzionale» come sarebbe diventato dopo, ma un agente della trasformazione sociale, capace di intercettare e di dialogare con i nuovi fermenti alimentati dalla «grande trasformazione». «L'ipotesi più attendibile e più confortante - scrisse allora Passato e Presente - è che in luglio le masse si sono battute per la libertà: per una libertà minacciata, sì, ma certo più per una libertà da conquistare che da difendere. Si è lottato contro la cancrena diffusa nell'organizzazione sociale e politica attraverso l'insolente furfanteria dei politicanti, la corruzione del sottogoverno, la grettezza bigotta della censura, la tracotanza padronale nella fabbrica, l'avvilimento della scuola, l'istituto della raccomandazione sostituito al diritto al lavoro, la retorica nazionalistica sciorinata a coprire le piaghe sociali».

È impressionante notare oggi la vivacità culturale che si ritrova a cavallo delle giornate del luglio '60. Non solo una canzone (come quella di Fausto Amodei sui morti di Reggio Emilia) e l'esperienza liberatoria della musica dei «Cantacronache»; ma anche il cinema (dopo la glaciazione degli anni '50 - con un unico e solo film dedicato alla Resistenza, Achtung Banditi di Lizzani del 1954 - uscirono uno dopo l'altro Il generale Della Rovere, Le quattro giornate di Napoli, Tutti a casa..), la letteratura, l'arte e perfino la televisione che nel 1961, dopo 7 anni dalla sua nascita, mandò in onda per la prima volta un programma dedicato alla Resistenza. Un paese che si trasformava nella sua struttura economica e scopriva la strada della modernizzazione culturale si riconobbe allora pienamente e compiutamente nell'antifascismo.

Tra gli antifascisti, Piero Caleffi parlò allora a proposito di Genova di «insurrezione legale». Era un ossimoro, ma oggi segnala quella che fu allora una percezione diffusa. Venti anni di fascismo avevano introdotto i germi di due fenomeni difficili da smaltire: la violenza era stata utilizzata vittoriosamente per prendere il potere e distruggere le istituzioni dello Stato liberale; l'unica forma di opposizione politica possibile era quella legata alla clandestinità e illegalità. Sviluppatosi contro la dittatura, l'antifascismo era nato nell'illegalità e nell'illegalità aveva trovato l'unico possibile antidoto all'oppressione, approdando alla concezione di una legalità fondata sui principi morali e contro le leggi dello Stato. Questa legalità superiore era diventata legalità tout court con la Carta Costituzionale che vietava la ricostituzione del partito fascista. Gli insorti di Genova si percepirono dentro quella legalità costituzionale e infransero le leggi con la coscienza di chi sa che quella disobbedienza è alimentata dai succhi della democrazia e della lotta per la libertà. Era tutto molto chiaro: «Da una parte - come scriveva allora Francesco Fancello - esiste un categorico divieto della nostra carta costituzionale alla ricostituzione del partito fascista....dall'altra parte l'aspetto giuridico formale del problema è soverchiato da quello derivante dalla carica morale-politica che ha trascinato tanti italiani nel campo dei fuorilegge...durante il tempo del fascismo dominante». Quel tempo era allora vicino, ancora troppo vicino.

CRONOLOGIA

L'avventura dc e nera del governo Tambroni

7 GENNAIO 1960: L'Osservatore Romano definisce inammissibile ogni apertura a sinistra.

21 FEBBRAIO: Il Partito liberale ritira il suo appoggio al governo Segni.

9 MARZO: Segni è incaricato di formare il nuovo governo.

21 MARZO: Segni rinuncia all'incarico.

25 MARZO: Tambroni presenta al presidente Gronchi il suo ministero.

4 APRILE: Tambroni presenta il governo alla Camera.

11 APRILE: Tambroni si dimette.

14 APRILE: L'incarico viene affidato a Fanfani.

22 APRILE: Fanfani rinuncia all'incarico.

23 APRILE: Gronchi invita Tambroni a presentarsi al Senato per completare l'iter costituzionale.

5 MAGGIO: Nasce il governo Tambroni. È un monocolore Dc che si regge con il sostegno preponderante dei voti dei monarchici e

dei fascisti missini

26 GIUGNO: Congresso provinciale del Msi a Genova.

28 GIUGNO: Pertini tiene un comizio a cui partecipano trentamila persone.

30 GIUGNO: Sciopero generale a Genova. Scontri tra cittadini e polizia in piazza De Ferrari.

1 LUGLIO: Sciopero generale a Milano, Livorno, Ferrara.

2 LUGLIO: Il congresso del Msi non viene più tenuto a Genova. I neofascisti lasciano la città protetti dalla polizia.

3 LUGLIO: Grande assemblea unitaria delle forze antifasciste al teatro Duse di Genova. Presenti tra gli altri Longo, Secchia, Terracini, Parri, Antonicelli, Peretti Griva.

5 LUGLIO: Il Senato approva per alzata di mano il bilancio del ministero degli Interni.

A Licata, il primo morto del governo Tambroni.

6 LUGLIO: La polizia carica deputati e manifestanti a Porta San Paolo a Roma. Sciopero generale in tutta Italia.

7 LUGLIO: Strage di Reggio Emilia: cinque morti e decine di feriti tra la popolazione.

8 LUGLIO: Scioperi di protesta in tutta Italia. Strage a Palermo: due morti e decine di feriti. Un morto a Catania.

9 LUGLIO: L'agenzia tambroniana Eco di Roma afferma che «l'ordine e la legalità sono stati ristabiliti in tutto il paese». Centomila persone partecipano a Reggio Emilia al funerale dei caduti.

12 LUGLIO: Dibattito alla Camera: Nenni, Saragat, Togliatti chiedono che Tambroni se ne vada.

14 LUGLIO: Tambroni difende alla Camera l'operato del suo governo e accusa i comunisti di aver mobilitato la «piazza» contro la legalità.

17 LUGLIO: Manifestazioni in tutta Italia contro il governo.

19 LUGLIO: Ultimo Consiglio dei ministri del governo Tambroni.

21 LUGLIO: A Porta San Paolo, grande comizio antifascista di Ferruccio Parri.

28 LUGLIO: Nasce il governo Fanfani.

18 FEBBRAIO 1963: Tambroni muore d'infarto a Roma.

(da «Il luglio 1960», P. G. Murgia, Sugar edizioni»)

TAMBRONI

Un dc «borghese, maschio, virile, antimarxista»

Chi era Fernando Tambroni? Così lo presentava una nota del suo ufficio stampa: «L'onorevole Tambroni appartiene a quella borghesia maschia e virile che si affaccia sui problemi sociali e politici senza infingimenti, ma soprattutto senza paura. È un lavoratore efficiente e metodico in un mondo di pigri, un solutore di problemi legislativi, un difensore strenuo e implacabile di quella invalicabile linea che distingue la nostra etica politica dal marxismo della estrema sinistra». 59 anni, originario di Ascoli Piceno, è cresciuto alla scuola del partito cattolico. Nel '25 è segretario del Partito popolare di Ancona. Chiamato davanti al federale, firma un umiliante atto di sottomissione, riconoscendo «Benito Mussolini come l'uomo designato dalla provvidenza di Dio a forgiare la grandezza di un popolo». Così svolge indisturbato la sua professione di avvocato. Appena si delinea la caduta del fascismo, torna a farsi notare in ambienti cattolici. È sottosegretario alla Marina Mercantile nel governo De Gasperi. Ma è il ruolo di ministro degli interni quello che più gli si confà. Nel 1955 è ministro degli interni del governo Segni, è ancora agli Interni con il governo Zoli e poi nel secondo governo Fanfani nel 1958. Nel suo ruolo crea un «Uffico psicologico», un «Ufficio speciale di polizia politica», impiegando il primo apparato per raccogliere indiscrezioni sulla vita privata di parlamentari, prelati, giornalisti, ministri, finanzieri. Nella sua conduzione Tambroni adopera la maniera forte. Da subito si presenta come difensore delle istituzioni contro la minaccia social-comunista: «Ogni tentativo - dichiara - di minaccia alle istituzioni (l'ho già detto, ma mi pare che nel nostro Paese vi sia molta gente con l'ovatta nelle orecchie), e quindi di pericolo per la libertà, sarà decisamente contenuto e, ove sia necessario, senza esitazioni, e per il bene della collettività decisamente represso».

COLONNA SONORA

La cantata colta di Amodei sui morti di Reggio Emilia

di Alberto Piccinini

«Compagno cittadino, fratello partigiano/ teniamoci per mano in questi giorni tristi». Ha scritto Umberto Eco che Per i morti di Reggio Emilia è l'unica canzone che può stare, «per forza di trascinamento, alla pari con la Marsigliese». A cominciare dal quel termine, «cittadino» («Aux armes, citoyens»). «Di nuovo a Reggio Emilia di nuovo giù in Sicilia/ son morti dei compagni per mano dei fascisti». Fausto Amodei compose Per i morti di Reggio Emilia nel 1960, a 25 anni. Faceva parte del gruppo torinese Cantacronache, culla della canzone impegnata italiana. Musicalmente coltissimo, era innamorato pazzo di Brassens e Brel. Indossò le vesti dell'autore «straniato» alla Kurt Weil e alla Hans Eisler per cantare la cronaca dell'eccidio di Reggio Emilia. Scelse un tema in minore, senza le modulazioni cabarettistiche che amava, ispirato ai momenti cantabili di Quadri di un esposizione di Mussorgsky.

«Di nuovo come un tempo sopra l'Italia intera/ fischia il vento infuria la bufera». Dicono le cronache che la sera del 6 luglio 1960, 300 operai delle Officine Reggiane si fermarono a manifestare davanti al Monumento ai Caduti di Reggio, cantando canzoni di protesta. Fu qui che la polizia caricò armi in pugno, lasciandone cinque uccisi a terra. I più anziani di loro, Afro Tondelli, Marino Serri, Emidio Reverberi, erano stati partigiani, e per questo la canzone non solo traccia una linea di continuità tra vecchi e nuovi partigiani, ma mostra in maniera teatrale, brechtiana, la piccola folla che canta prima di essere attaccata dalla polizia. «Uguale è la canzone che abbiamo da cantare» - è il terzo ritornello - Scarpe rotte eppur bisogna alzare». Come un gioco di scatole cinesi Per i morti di Reggio Emilia è perciò una canzone che ne contiene molte altre. Fischia il vento, Bandiera rossa, persino l'Inno di Garibaldi del 1858, che cominciava così: «Si scopron le tombe, si levano i morti/ i martiri nostri son tutti risorti». «A 19 anni è morto Ovidio Franchi/ per quelli che son stanchi o sono ancora incerti» Uno dei motti dei Cantacronache recitava così: «Evadere dall'evasione». Contro le canzonette sanremesi, la musica gastronomica. Amodei incrocia in quel luglio 1960 il soprassalto della prima generazione dei ventenni post-Resistenza, gli stanchi e gli incerti, tentati dalle seduzioni del boom economico. Un'aria di noia e rassegnazione che lo stesso Amodei aveva appena fotografato in una canzone splendida: Qualcosa da aspettare, ambientata in certe domeniche che piove con gli operai e le loro ragazze «dentro i cinema e a ballare», successivamente interpretata da Enzo Jannacci.

«Lauro Farioli è morto per riparare al torto/ di chi si è già scordato di Duccio Galimberti/ Son morti sui vent'anni per il nostro domani/ son morti come vecchi partigiani». Il soprannome di Lauro Farioli era «Modugno», per vaga somiglianza col cantante, la faccia più popolare della nuova canzone italiana. A proposito dei vent'anni, per i Cantacronache Italo Calvino aveva scritto Oltre il ponte, una elegiaca canzone sulla Resistenza che iniziava così: «Avevamo vent'anni e oltre il ponte, oltre il ponte che è in mano nemica, vedevam l'altra riva la vita...». «Marino Serri è morto, è morto Afro Tondelli...». L'elenco dei cinque morti di Reggio Emilia, come se lo leggessimo nella stele del Monumento ai Caduti dove l'azione si svolge, è incompleto per motivi metrici. Il nome di Emidio Reverberi si può ascoltare soltanto nella strofa finale (e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli...), che porta all'ultimo ritornello: morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa/ tutti a cantar con noi bandiera Rossa. Nella versione originale di Amodei la canzone fu interpretata dal solo autore, con lieve arpeggio di chitarra e i vezzi alla Brassens. Furono gli Stormy Six e il Canzoniere delle Lame, più di dieci anni dopo, a consegnarci la versione militante in cui il ritornello è cantato in coro. Fausto Amodei, com'è giusto, lasciò la sua Morti di Reggio Emilia alla tradizione, continuando a scrivere canzoni contro il (neo)fascismo e la Resistenza dimenticata. Una di queste era la parodia del fascistissimo Canto degli Arditi, e si intitolava Se non li conoscete (1972). Curioso che la stessa melodia fosse già stata scelta nel 1960 per raccontare le giornate genovesi delle magliette a strisce in piazza contro il governo Tambroni. «E piazza de Ferrari in un attimo fu presa - recitavano quelle strofette - fascisti e celerini chiedevano la resa/ Poi poi poi ci chiamavano teddy boys». Una voce, forse solo una suggestione, sostiene che le avesse composte nientemeno che Fabrizio De Andrè. Un altro innamorato di Brassens, come Fausto Amodei.

Una sentenza ripete per la seconda volta, in appello, una verità tragica: Marcello Dell’Utri, l’uomo che ha accompagnato passo dopo passo, curva dopo curva, tutt’intera l’avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi è stato un amico dei mafiosi, l’anello di un sistema criminale, il facilitatore a Milano degli affari e delle pretese delle "famiglie" di Palermo, prima del 1980. Dei Corleonesi, almeno fino al 1992 quando cadono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Se sarà confermata dal giudizio della Cassazione, è una "verità" tragica perché ricorda quanto le fortune del Cavaliere abbiano incrociato e si siano sovrapposte agli interessi mafiosi e rammenta come – ancora oggi – possa essere vigoroso il potere di ricatto di Cosa Nostra su chi governa, sui soci di Berlusconi, forse sullo stesso capo del governo. È stupefacente, alla luce di queste osservazioni, il vivamaria che minimizza, ridimensiona, sdrammatizza l’esito della sentenza di Palermo. Come naufraghi al legno, ci si aggrappa – uno per tutti, lo spudorato Minzolini retribuito con pubblico denaro – alla riduzione della pena di due anni. Dai nove del primo grado ai sette anni di oggi, contro gli undici chiesti dall’accusa in appello. La decisione della corte conclude infatti che «dal 1992 ad oggi, il fatto (il soccorso offerto da Dell’Utri a Cosa Nostra) non sussiste». Prima di affrontare ciò che la sentenza esclude, è un obbligo esaminare ciò che i giudici confermano.

Per farlo, è utile riproporre, liberato dal groviglio di gerundi, il capo di imputazione che la sentenza approva e punisce. Sono parole così chiare e aspre che saranno accantonate per prime dal dibattito pubblico e dai ministri del culto di Arcore.

Dunque, si legge nel capo di imputazione: Marcello dell’Utri ha «concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell’associazione l’influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare – a vantaggio dell’associazione – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982».

Di questo parliamo. Di un uomo che, a disposizione della mafia, è stato l’«intermediario» fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. La ricostruzione che la corte approva e condivide è precisa. Marcello Dell’Utri media e risolve, di volta in volta, i conflitti nati tra le ambizioni di Cosa Nostra e la disponibilità di Berlusconi. Anzi, proprio il suo compito di "artefice delle soluzioni" gli permette di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Il ruolo di Dell’Utri va scorto e compreso nella relazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell’Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo’ di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati. Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni, che la mafia scatena per condizionare il Cavaliere, entrare in contatto con lui, "spremerlo", bisogna sovrapporre il lavorio d’ambasciatore di Dell’Utri se si vuole valutarne il ruolo. Organizza l’incontro tra Berlusconi e i "mammasantissima" Stefano Bontate e Mimmo Teresi per "rassicurarlo" dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come fattore, per cementare «un accordo di convivenza con Cosa Nostra». Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l’attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapola, della combriccola il più pericoloso, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa (dopo quell’incontro, non ci saranno più bombe). Sono fatti che oggi, dopo la sentenza di Palermo, devono dirsi documentati (il giudizio della Cassazione è soltanto di legittimità). Il quadro probatorio avrebbe potuto essere più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi («vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni») non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere rifiutando il suo contributo di verità per chiarire – per dire – l’assunzione e l’allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore; i suoi rapporti con Dell’Utri; gli anomali movimenti di denaro nelle casse della holding del gruppo Fininvest in coincidenza con la volontà delle famiglie di Palermo di investire a Milano.

Questa narrazione ha superato ora il vaglio del giudizio di appello (definitivo per il merito dei fatti) e legittima una prima conclusione: la sentenza di Palermo non dice soltanto di Dell’Utri, racconta anche di Berlusconi perché conferma quella sorta di "assicurazione" con la mafia che il Cavaliere sottoscrive ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. Non c’è dubbio che, con questo risultato, Berlusconi paga in Italia e nel mondo un prezzo molto imbarazzante al suo passato. Un onere non giudiziario, ma un costo decisivo, politico e d’immagine. Perché se si assemblano le tessere raccolte in questi anni emerge con sempre maggiore nitidezza, e nonostante l’ostinatissima distruzione della macchina giudiziaria, quali sono il fondo, le leve, le pratiche e i comprimari del successo di Silvio Berlusconi, dove Dell’Utri è soltanto un tassello, una delle concatenazioni oscure della sua fortuna, la più disonorevole forse, ma non la sola. Il puzzle è questo. Il Cesare di Arcore ha corrotto un testimone (Mills) che lo salva da una condanna, anzi da due (prescritto). Ha comprato un giudice (Metta) e la sentenza che gli hanno portato in dote la Mondadori (prescritto). Ha finanziato illecitamente il Psi di Bettino Craxi che gli ha scritto i televisivi decreti leggi ad personam (prescritto). Ha falsificato per 1500 miliardi i bilanci della Fininvest (prescritto). Ha manipolato i bilanci sui diritti-tv tra il 1988 e il 1992 (prescritto). Già potrebbe bastare e invece, alla sua sinistra, agisce (ancora oggi) un avvocato (Previti) condannato per la corruzione dei giudici e, alla sua destra, (ancora oggi) c’è un uomo (Dell’Utri) a disposizione degli interessi mafiosi. Questo è il triste tableau che accompagna Silvio Berlusconi e il malcostume e gli illegalismi che lo circondano – da Scajola a Lunardi, da Bertolaso a Brancher – non ne sono che un ragionato riflesso. I corifei possono anche strepitare e manipolare i fatti. La scena – tragica per il Paese – non può essere temperata o adulterata dalla riduzione della condanna di Dell’Utri di due anni né dalla conclusione della corte di Palermo di considerare l’insussistenza del concorso in associazione mafiosa "dal 1992 in poi". Bisognerà attendere le motivazioni per valutare questa decisione che colora di nero la silhouette del "Berlusconi imprenditore" liberando da ogni dubbio e responsabilità (sembra) il "Berlusconi politico". La contraddizione non può far felice il capo del governo. L’imprenditore passerà alla storia come il boss di una banda di criminali. Il politico dovrà guardarsi da un’incoerenza giudiziaria che stimolerà – più che deprimere – le inchieste sulla trattativa tra Stato e Mafia, avviata con le stragi del 1992 e accompagnata dalle bombe del 1993.

Nella società tribale dei longobardi, tra il servo e l’uomo libero esisteva una categoria intermedia: quella degli "aldi". L’"aldo" era in qualche modo simile al liberto romano, ma con una notevole differenza: il liberto era uno schiavo liberato; in quanto tale aveva l’obbligo non solo morale ma addirittura giuridico di restar fedele alla "gens" cui apparteneva il suo liberatore. L’"aldo" invece non era stato beneficiario d’una vera e propria liberazione: semplicemente non era più soggetto alle limitazioni dei servi, si poteva muovere liberamente sul territorio e poteva anche svolgere affari e negozi in proprio nome, ma doveva fedeltà e obbedienza assoluta al suo padrone, assisterlo, rappresentarlo e battersi per lui e soltanto per lui. La volontà del suo padrone era la sola sua legge.

Queste cose pensavo quando Aldo Brancher è asceso nei giorni scorsi agli onori della cronaca. Chi meglio di lui raffigura l’"aldo" longobardo? Chi più di lui ha rappresentato il suo padrone ed ha stipulato negozi per lui? Negozi di alta politica (snodo di collegamento tra Berlusconi e la Lega) e negozi di sordidi affari (pagamenti in nero destinati a fini di corruzione di partiti, uomini politici, dirigenti amministrativi, imprenditori)?

Dalle accuse relative ad un periodo lontano, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica e tanto più abbisognava di alleanze e coperture politico-affaristiche, Aldo Brancher si era liberato con la prescrizione raccorciata, disposta da una delle tante leggi "ad personam" volute dal Berlusconi ormai capo d’un partito e del governo, nonché con l’abolizione del reato di falso in bilancio, che gli era stato contestato dai magistrati della pubblica accusa.

Del reato di appropriazione indebita per il quale è perseguito in relazione alla scalata della banca "Antonveneta" avrebbe dovuto liberarlo la nomina a ministro varata nei giorni scorsi: nelle intenzioni di Berlusconi avrebbe dovuto consentirgli di valersi del legittimo impedimento disposto pochi mesi fa da un’altra legge "personale" destinata a sottrarre il premier ed i suoi ministri dai rigori processuali in attesa del lodo Alfano già in discussione in Parlamento.

Invece il caso Brancher è diventato un boomerang nei confronti di Berlusconi, del suo governo, delle sue alleanze, della compattezza della sua maggioranza; ha creato un profondo dissapore con Bossi e soprattutto con i leghisti, con Fini e soprattutto con i finiani, con un’opinione pubblica sempre più disamorata e critica. Ma principalmente un dissapore con il Quirinale.

Non era ancora mai accaduto che Napolitano entrasse a piedi uniti in un dibattito costituzionale con risvolti così direttamente politici. Non era mai accaduto che la natura profondamente padronale del potere berlusconiano fosse denunciata politicamente dalla più alta autorità dello Stato con parole che non consentono interpretazioni di sorta.

Ora il "boomerang" ha compiuto la sua traiettoria ed ha colpito non tanto Brancher quanto il suo padrone di cui da 25 anni è l’"aldo". La situazione di crisi che si è aperta è forse la più grave fin qui vissuta dal berlusconismo. Per le ragioni che l’hanno provocata. Per il momento in cui avviene. Per le sue possibili conseguenze sulle crepe sempre più vistose di quello che è stato finora un blocco sociale e politico e che rischia adesso di andare in pezzi molto prima del previsto.

* * *

Travolto dalle accuse (non solo dell’opposizione, ma anche dei suoi alleati), alla fine il neo ministro ha dovuto gettare la spugna, rinunciando allo scudo che il Cavaliere gli aveva regalato. Era il minimo che ci si potesse aspettare dopo il richiamo del Quirinale, imprudentemente attaccato da solerti portabandiera del Pdl. Il presidente della Repubblica non poteva esimersi dall’esternazione pubblica del suo pensiero avvenuta venerdì scorso. Aveva firmato da pochi giorni la nomina di Brancher a ministro senza portafoglio ricevendone il giuramento; aveva chiesto e ricevuto dal presidente del Consiglio le motivazioni che rendevano necessaria (a suo dire) quella nomina per ragioni funzionali. Non era entrato nel merito di esse. Non gli spettava, riposavano sulla valutazione politica del premier che Napolitano ritiene gli sia preclusa, dando semmai al proprio ruolo una configurazione restrittiva.

Ovviamente aveva volutamente escluso che la nomina in questione fosse dovuta a ragioni diverse dalla "funzionalità del governo" invocata dal presidente del Consiglio. Ma a mettere in dubbio quella motivazione erano intervenuti nel frattempo tre fatti: l’infastidita sorpresa di Bossi per quella nomina, manifestata al Quirinale direttamente dal ministro delle Riforme; il cambiamento della delega a Brancher, da ministro addetto all’attuazione del federalismo ad altra mansione tuttora non precisata e quindi non ancora pubblicata in "Gazzetta ufficiale"; infine (e più grave di tutti) la decisione di Brancher di sottrarsi immediatamente all’udienza del processo che lo vede indagato per appropriazione indebita e la richiesta di spostare la prossima data processuale ad ottobre, sulla base del legittimo impedimento.

Di fronte a tre fatti di questa portata era tecnicamente impossibile che il Quirinale restasse silenzioso e non definisse con esattezza la posizione di un ministro senza portafoglio di fronte alle scadenze processuali che lo riguardano. È ciò che ha fatto Napolitano con un’asciuttezza di linguaggio che fa parte dei suoi poteri–doveri di custode della Costituzione.

* * *

Il caso Brancher nella sua esemplarità ci porta ad alzare lo sguardo sul panorama generale che configura il nostro paese. È un quadro niente affatto consolante perché al declino, in sé auspicabile e salutare, d’un blocco di interessi e di potere che controlla e manipola la nostra società ormai da oltre vent’anni, si aggiunge la fine di un’epoca che è sempre solcata – quando avviene – da lampi e tuoni e raffiche e terremoti e marosi che sconvolgono culture e istituzioni, comportamenti e consuetudini, senza ancora essere in grado di proporne di nuovi, guidati da nuovi ideali e fresche speranze.

Ho scritto domenica scorsa del «dopo–Cristo» di Pomigliano e della legge dei vasi comunicanti che opera in un’economia globale percorsa da paurosi dislivelli tra opulenza e povertà. Ed ho osservato che quei dislivelli esistono non soltanto tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all’interno dei paesi ricchi, da un confronto sempre meno accettabile tra sacche di povertà e di mediocre e precaria sostenibilità e fasce di antica opulenza e privilegiati benefici.

Sempre più urgentemente si pone dunque il problema di governare la crisi anche attraverso una redistribuzione del reddito che sia spiegata al pubblico non certo come frutto d’invidia sociale ma come appello all’equità dei sacrifici e alla loro ineluttabilità in una prospettiva più dinamica e più coesa.

Questo è il futuro della sinistra italiana, dei cattolici democratici e del liberalismo laico: libertà e giustizia, coesione sociale, efficienza da offrire e da reclamare.

Io non credo che questa legislatura terminerà il suo corso come previsto nel 2013. Credo che Berlusconi senta il crescente scricchiolio del sistema di potere da lui costruito. Lo senta e ne sia angosciato, ma anche intestardito nel difenderlo con tutti i mezzi.

Sente anche che il solo modo di protrarne l’agonia sia il ricorso alle urne prima che lo scricchiolio divenga schianto. La data probabile è a cavallo tra 2011 e 2012 e comunque al più presto possibile, quando l’informazione sarà stata totalmente blindata e solidamente nelle sue mani, la magistratura umiliata e asservita, le istituzioni di garanzia depauperate.

Il prossimo autunno e l’inverno che seguirà saranno perciò teatro di questi scontri. Come ha scritto Ezio Mauro nel suo intervento di mercoledì scorso, è inutile scommettere sul meno peggio. Non ci sarà un meno peggio perché è il principale interlocutore a non volerlo. Il meno peggio passa necessariamente dalla sua personale uscita dal campo ma questa ipotesi non rientra nella sua natura. Chi lo conosce lo sa: il «meno male che Silvio c’è» è l’essenza d’un carattere che ha evocato gli istinti profondi d’una società desiderosa di lasciare in altre mani il governo di se stessa, fino a quando non sentirà di nuovo l’orgoglio di riappropriarsi del proprio futuro.

Nei prossimi mesi sarà dunque questo il terreno di scontro e di confronto e dovrà esser questo il linguaggio che bisognerà parlare per essere ascoltati, compresi e incoraggiati. Non bastasse il resto, anche le vicende del calcio nazionale ne hanno fornito un’eloquente conferma.

Dai naufragi speriamo che sorga una nuova e creatrice allegria.

Pensiamo ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.

La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.

Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti – se non agli ingenui – che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.

C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo – il Cesare di Arcore – che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.

Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo – chiamatelo come volete – di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli – nel suo potere e volontà – di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma – come per Brancher – in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.

Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.

Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

Cari Compagni,

sì, Compagni, perché è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. È molto più bello Compagni che “Camerata” come si nominano coloro che frequentano stesso luogo per dormire, e anche di “Commilitone” che sono i compagni d’arme.

Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere. Oggi che, come diceva Primo Levi, abbiamo una casa calda e il ventre sazio, ci sembra di aver risolto il problema dell’esistere e ci sediamo a sonnecchiare davanti alla televisione.

All’erta Compagni! Non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza. Meditiamo su quello che è stato e non lasciamoci lusingare da una civiltà che propone per tutti autoveicoli sempre più belli e ragazze sempre più svestite. Altri sono i problemi della nostra società: la pace, certo, ma anche un lavoro per tutti, la libertà di accedere allo studio, una vecchiaia serena; non solo egoisticamente per noi, ma anche per tutti i cittadini. Così nei diritti fondamentali della nostra Costituzione nata dalla Resistenza.

Vi giunga il mio saluto, Compagni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e Resistenza sempre. Vostro Mario Rigoni Stern

Mira (Venezia) 20 gennaio 2007

Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano, vuol dire che lo Stato intende fare a metà la lotta alla camorra? In vista del cda Rai convocato per martedì prossimo l´interrogativo è più che lecito. Soprattutto alla luce delle inammissibili esternazioni con cui il presidente Berlusconi ha accusato lo scrittore napoletano di danneggiare l´immagine dell´Italia con i suoi libri e i suoi articoli contro la criminalità organizzata. È chiaro, comunque, che si tratta di un altro caso di censura preventiva, ai danni della televisione pubblica, dei telespettatori e dei cittadini italiani.

A quanto sembra di capire, sulle quattro puntate previste del programma che Saviano sta scrivendo per Rai Tre con Fabio Fazio, due sarebbero a rischio: una sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e l´altra sullo scandalo dei rifiuti in Campania. Due inchieste di approfondimento, dunque, su due vicende che certamente interessano l´opinione pubblica e hanno una rilevanza civile. Nessuno le ha ancora visionate, e forse non ne ha neppure letto il testo, ma la forbice del censore è già pronta a scattare per impedire a tutti noi di vedere e di giudicare.

Evidentemente, sotto il regime televisivo, siamo condannati ad avere una tv a sovranità limitata. Una tv dimezzata. Una tv con il silenziatore. E il fatto è tanto più grave perché deriva dalla pretesa di un premier-tycoon, un capo del governo che è anche capo del polo televisivo privato in concorrenza diretta con la televisione pubblica. Siamo, ormai, alla censura a reti unificate.

Prima che il presidente del Consiglio smentisca qualsiasi interferenza diretta o indiretta sull’autonomia della Rai, addebitando a chi lo critica l’arte della menzogna di cui è maestro, ricordiamo anche qui i precedenti. Già il 28 novembre del 2009, in un convegno dei giovani del Pdl a Olbia, il premier dichiarò minacciosamente: «Se trovo chi ha fatto le nove serie della Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo». Poi, il 28 gennaio di quest’anno, nel corso di una conferenza-stampa a Reggio Calabria rincarò la dose: «Spero che questa brutta abitudine di fare fiction sulla mafia finisca. Queste fiction hanno danneggiato l´immagine del Paese».

Più recentemente, il 16 aprile scorso, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito il concetto che serial tv come La Piovra e libri come Gomorra fanno una cattiva pubblicità all´Italia nel mondo, promuovendo la mafia. Su questa scia, pochi giorni dopo il direttore del Tg 4 Emilio Fede ha sbottato: «Basta, Saviano non è un eroe. Non se ne può più!». E da ultimo, perfino il calciatore milanista Marco Borriello, napoletano di origine, s’è sentito in diritto di dichiarare che Saviano «è uno che ha lucrato sulla mia città», salvo poi pentirsi, esprimere il proprio rammarico e infine ammettere che «il problema è più grande di me».

Ecco, la conclusione del giocatore del Milan può valere anche per il patròn del Milan, per i suoi fans e ancor più per i censori della Rai. Lasciate stare: il problema, effettivamente, è più grande di voi. Non è il libro, il film o la trasmissione di Saviano che fanno una cattiva pubblicità all’Italia. Sono i problemi, i fatti, le situazioni che lui ha il coraggio di denunciare a non fare una buona pubblicità al nostro Paese. E sono le censure a danneggiarne l’immagine nel mondo, a farci fare una pessima figura.

C’è, al fondo di queste insulse reazioni, un’interpretazione puramente mediatica del potere; una visione esclusivamente propagandistica della politica. Come se tutto si riducesse a un maxi-spot, a una campagna promozionale o pubblicitaria, per nascondere i problemi reali, attirare masse di turisti ignoranti o creduloni e magari valorizzare, al di là delle bellezze naturali, le gambe delle nostre segretarie o gli attributi delle nostre escort. Un Carosello permanente al posto della lotta alla mafia.

Dice bene il sito della Fondazione Fare Futuro, presieduta da Gianfranco Fini: «Tagliare la trasmissione di Saviano significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline». È il modello della tv di regime, rassicurante e consolatoria, compiacente e servile, falsa e bugiarda. Eppure, sappiamo tutti che all’interno della Rai non mancano né la competenza, né la professionalità né tantomeno il senso di responsabilità: quelle risorse, cioè, che giustificano e legittimano il ruolo della televisione pubblica.

Da Saviano a Santoro, da Floris a Dandini, da Ruffini a Busi, per citare solo i protagonisti o le vittime degli ultimi casi, questa funzione non si difende però a colpi di forbici. Si difende con l’impegno a fare informazione, intrattenimento o spettacolo, al servizio dei cittadini piuttosto che al servizio del potere.

La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà.

Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l´impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.

Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.

L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire. È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.

Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.

Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato». I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.

Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi. La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.

Il testo finale della manovra di governo per la stabilizzazione finanziaria ha rinunciato a espropriare il ministero dei Beni culturali della competenza sui tagli agli istituti culturali, e ne ha ridotto la portata. Buone notizie? Certo.

Ma, lo ha detto Mario Draghi nella sua importante relazione alla Banca d’Italia, «la correzione dei conti pubblici va accompagnata con il rilancio della crescita», e su questo punto capitale il decreto-legge Tremonti offre ben poco.

La relazione Draghi martella cifre non eludibili: nel biennio 2008-09 il Pil è calato di 6 punti e mezzo, la metà della crescita dei 10 anni precedenti; calano redditi, consumi, esportazioni. Cresce la disoccupazione dei giovani, calano i salari iniziali, crollano le nuove assunzioni, quasi sempre precarie, e «la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani».

A fronte di una situazione tanto drammatica, scrive Draghi, i tagli del governo «si concentrano sui costi di funzionamento delle amministrazioni pubbliche», e ciò proprio quando è necessario «aumentare la produttività della pubblica amministrazione». Secondo il presidente del Consiglio, le dichiarazioni del Governatore sono in piena sintonia con la manovra del Tesoro: ma questo embrassons-nous tanto ottimista non può esser preso sul serio.

La relazione Draghi contiene passaggi assai duri e severi, che danno dell’Italia un’istantanea assai più fedele di quella del governo. Nella situazione presente, «i costi dell’evasione fiscale e della corruzione divengono ancor più insopportabili». In particolare, ricorda Draghi, il 30% della base imponibile dell’Iva viene regolarmente evaso, per oltre 30 miliardi di euro l’anno, cifra che sale vertiginosamente (oltre i 100 miliardi) se si aggiunge l’evasione di altre imposte, come Irpef o Irap. Se tutti pagassero le tasse, non ci sarebbe alcun bisogno di manovre come quella che l’Italia dovrà ora subire.

«L’evasione fiscale è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga e riduce le risorse alle politiche sociali».

È la «macelleria sociale» di cui Draghi ha parlato commentando a braccio il proprio testo scritto: il taglio di oltre un miliardo e mezzo nel biennio al Servizio Sanitario Nazionale è un pezzo, e non il solo, di questa "macelleria".

Fra le vittime della "macelleria sociale" che affligge il Paese, non dimentichiamo il paesaggio, prezioso bene comune che la "manovra" e altre leggi di questa stagione consegnano al saccheggio indiscriminato di speculatori d’ogni sorta, cancellando il Codice dei Beni culturali con norme incostituzionali sul silenzio-assenso, rimaste tali e quali nella versione finale del decreto (si vedano i dati su Repubblica del 31 maggio).

Non dimentichiamo le nostre città in preda a una frenesia costruttiva che non riflette i bisogni di una crescita demografica che non c’è, ma un "investire nel mattone" che vede in prima fila mafie e riciclatori di denaro sporco: cioè i protagonisti di quelle «relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, favorite dalla criminalità organizzata» di cui parla Draghi.

Non dimentichiamo infine il Mezzogiorno, che la manovra del governo (art. 43) consegna legato mani e piedi alla condizione derogatoria di «zona a burocrazia zero» dove non esiste più la pubblica amministrazione, e «i provvedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto avviati su istanza di parte» con riferimento a qualsivoglia «iniziativa produttiva» vengono decise ad arbitrio di un Commissario di governo (e non più dei prefetti, come nella bozza di pochi giorni fa).

Sarà questo il modo di combattere la camorra e la ‘ndrangheta?

E se i 15 miliardi di tagli (nel biennio) a Regioni ed Enti locali sono fatti «ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica» (art 14), come mai la «burocrazia zero» riguarda solo metà dell’Italia? Saranno i Commissari di Governo a risolvere l’annosa questione meridionale imbavagliando le procedure di legge dell’amministrazione ordinaria?

Nella manovra Tremonti e nella relazione Draghi si fronteggiano due Italie ben diverse. L’una e l’altra vogliono, a ragione, la correzione dei conti pubblici. Ma l’Italia di Draghi individua lo strumento primario nella lotta all’evasione e alla corruzione, l’Italia di Tremonti preferisce l’olocausto della pubblica amministrazione (additata al ludibrio come "burocrazia"), il taglio delle risorse a Regioni ed enti locali che possono rimediarvi svendendo il territorio, la promozione di condoni edilizi ed altre misure derogatorie.

L’Italia di Draghi richiede «che l’Unità si celebri progettandone il rafforzamento e garantendone la vitalità», quella di Tremonti mette l’austerità e il sacrificio di tutti al servizio di un federalismo spendaccione e del separatismo leghista.

L’Italia più competitiva che il Governatore della Banca d’Italia ha disegnato richiede una pubblica amministrazione più efficiente, rinsanguata da nuove assunzioni di giovani scelti per competenza e per merito. Richiede la lotta senza quartiere alle mafie e ai loro complici, agli evasori e a chi vi cerca serbatoi elettorali. Richiede di capovolgere la "macelleria sociale" mediante una politica di investimenti sulle nuove generazioni, sulla scuola, l’università e la ricerca. Pretende di non limitarsi a quello che Keynes chiamava «l’incubo del contabile», di mettere sì a posto i conti (partendo dalla lotta all’evasione e alla corruzione e non borseggiando i cittadini), ma con in mente un progetto per un Paese migliore.

Sono state usate le parole giuste e forti per denunciare quel vero attentato all’ordine democratico rappresentato dalle nuove norme sulle intercettazioni. Un’opinione pubblica si è manifestata, ha occupato la scena politica e ad essa soltanto si deve quel mutamento di linea del governo che, pur essendo del tutto inadeguato, mai sarebbe venuto se ancora una volta avessero prevalso gli spiriti deboli e i cultori della moderazione sempre e ovunque. Ma un grave danno culturale è stato comunque provocato. Quando ho visto in piazza Montecitorio un cartello che proclamava "Non ho nulla da nascondere. Intercettatemi", sono stato preso da un vero scoramento, mi sono chiesto il perché di quella protesta estrema e mi è sembrato subito evidente che la nostra fragile cultura della privacy è a rischio proprio a causa di una legge che proclama di volerla proteggere.

Non è un esito paradossale. È il risultato di una riflessione sociale. Un’opinione pubblica sempre più larga si è resa conto che quella non era una legge a tutela della riservatezza delle persone, ma uno scudo protettivo per un ceto di cui si scoprivano l’immoralità civile, i mille traffici, la corruzione come regola. Da qui la reazione estrema, "intercettateci tutti", che ricorda il grido disperato dei ragazzi di Locri dopo l’ennesimo delitto della ‘ndrangheta, "ammazzateci tutti".

Ma questa esasperazione ci porta nella direzione sbagliata. Dico per l’ennesima volta che l’"uomo di vetro" è immagine nazista, è l’argomento con il quale tutti i regimi totalitari vogliono impadronirsi della vita delle persone. Se non avete nulla da nascondere, non avete nulla da temere. E così, appena qualcuno vuole rivendicare un brandello di intimità, diventa un "cattivo cittadino" sul quale lo Stato autoritario esercita le sue vendette.

È un argomento, dunque, da non usare mai, così come mai si deve ricorrere al suo opposto, all’uso strumentale della difesa della privacy per occultare comportamenti illegali o socialmente inaccettabili, per negare la trasparenza e la controllabilità dell’esercizio d´ogni potere. Entrambi questi atteggiamenti screditano la privacy agli occhi dei cittadini e occultano la realtà. Una realtà che, in questi anni, ha conosciuto gravi limitazioni della privacy dei dipendenti pubblici e il capovolgimento dell’impostazione con la quale si era cercato di mettere le persone al riparo dai disturbatori telefonici che invadono con pubblicità sgradite la sfera privata. Dopo aver ridotto la privacy di milioni di persone, ora la maggioranza si fa paladina di quella di un ceto indifendibile, cercando di cancellare quanto già è scritto nell’art. 6 del Codice sull’attività giornalistica: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza. E la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sottolineato con forza che questa essenziale esigenza democratica può rendere legittima anche la pubblicazione di notizie coperte dal segreto. L’opposto di quel che si cerca di fare in Italia.

La privacy, dunque, conosce diversi livelli di protezione. E non corrisponde alla realtà dei fatti sostenere che la tutela ha funzionato solo a favore dei vip. Prima di fare affermazioni del genere bisognerebbe dare un´occhiata all´attività passata e presente del Garante e si scoprirebbe che i casi riguardanti i cosiddetti vip sono una percentuale davvero minima e che l´attività nel suo insieme è volta a garantire proprio la "gente comune". Un lavoro sempre più difficile, che non può essere screditato con qualche sprezzante formula liquidatoria, ma che dovrebbe essere accompagnato da una attenzione che dia alle persone la consapevolezza dei loro diritti.

La privacy non è più soltanto il diritto d’essere lasciato solo, di allontanare lo sguardo indesiderato. È sempre di più uno strumento essenziale perché non si debba vivere in una società del controllo, della sorveglianza, della selezione sociale. Servono, dunque, strategie adeguate per contrastare la bulimia informativa di poteri pubblici e privati, per sottrarsi allo "tsunami digitale" che si sta abbattendo sulle persone.

La prima mossa riguarda l’osservanza del principio che limita la raccolta delle informazioni personali a quelle strettamente necessarie per raggiungere una determinata finalità. Una indicazione importante viene dal programma del nuovo governo britannico, che ha scelto una strada del tutto opposta a quella che, negli ultimi anni, stava trasformando l’Inghilterra in una società della sorveglianza. Ecco allora lo stop alla carta d’identità e al passaporto biometrico, alla creazione di banche dati del Dna senza garanzie adeguate, alla raccolta delle impronte digitali dei bambini senza il consenso dei genitori, alla videosorveglianza a tappeto, alla conservazione generalizzata dei dati riguardanti l’accesso a Internet e la posta elettronica, a tutte le misure restrittive introdotte con il pretesto della lotta al terrorismo. I nostri garantisti a corrente alternata daranno un’occhiata a queste pagine, significativamente intitolate "libertà civili"?

La privacy assume così le sembianze di altri specifici diritti. Diritto all’oblio, dunque a ottenere la cancellazione di dati che non debbono seguirci per tutta la vita (un diritto particolarmente importante nel tempo delle reti sociali, di Facebook). Diritto di "rendere silenzioso il chip", vale a dire potere individuale di disconnettersi da una serie di apparati tecnologici di controllo. Diritto all’anonimato, che può essere essenziale per la libertà di espressione, come ha appena sostenuto la Corte suprema di Israele scrivendo che esso offre una tutela importante per chi vuole esprimere opinioni non ortodosse.

Uno sprazzo di questa consapevolezza tecnologica si ritrova persino nell’orrendo testo in discussione al Senato, dove si prevede che, per ottenere i tabulati telefonici, sia necessaria la stessa autorizzazione richiesta per le intercettazioni. Una scelta corretta. Infatti i tabulati, pur non fornendo i contenuti delle conversazioni, rivelano una serie di informazioni (nome del chiamante e del chiamato, luoghi dove questi si trovano, durata della conservazione) che consente di ricostruire l´intera rete delle relazioni personali, politiche, economiche, religiose di tutti. E, mentre si può contestare il contenuto di una intercettazione, liberandosi così dal sospetto, questo diventa più difficile, o addirittura impossibile, quando i dati conservati registrano solo il nudo fatto dell’aver telefonato ad una persona.

Queste sono alcune delle strade da seguire se davvero si vuole tutelare la privacy delle persone, ormai identificata con la libera costruzione della personalità, con il potere di controllare chiunque usi le nostre informazioni, con il rifiuto di sottostare a pretese ammantate di sicurezza o efficienza del mercato. Qui si gioca la vera partita. Anche per questo dobbiamo uscire dalla trappola allestita da chi vuole trasformare la privacy in difesa del nudo potere.

Chi ha protetto la cricca degli appalti aveva un compito preciso: costruire una rete di altissimi dirigenti di governo in grado di sopravvivere ai cambi di coalizione. Questo emerge dalle indagini. Dopo Mani pulite, che negli anni Novanta aveva spazzato via boiardi e faccendieri, qualcuno ha voluto ricostituire la squadra. E soprattutto riconquistare il controllo su soldi pubblici, contratti e imprese. Così è successo. Una struttura parallela dentro e fuori i ministeri. E, se necessario, dentro e fuori la legge. Qualcosa che puzza di massoneria o almeno di accordi stretti al di sopra dello Stato. Un'entità in grado di determinare i costi e gli indirizzi della politica. Un'ombra che ha indotto perfino il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, a firmare inconsapevolmente atti contrari alle norme.

I soldi di Diego Anemone serviti a comprare appartamenti di lusso ai familiari dei grand commis Ercole Incalza e Angelo Balducci e al ministro dimissionario Claudio Scajola: quei soldi potrebbero essere soltanto i rivoli di un fiume carsico di denaro e potere.

L'espresso" ha provato a ripercorrerlo controcorrente. Ed è risalito a un anno chiave: il 2001. In quel periodo l'allora ministro alle Infrastrutture, Pietro Lunardi, sostituisce tre capidipartimento dei Trasporti con tre funzionari dei Lavori pubblici, nonostante la differente specializzazione. E un collega nel governo, Franco Frattini, in quegli anni ministro per la Funzione pubblica e per il Coordinamento dei servizi di intelligence, prova a fermarlo. Ma il suo tentativo viene spazzato via. L'imprenditore dei grandi appalti prestato alla politica, Lunardi, vince sull'esponente di Forza Italia. E in una lettera del 10 ottobre 2002, scoperta da "L'espresso", Frattini esprime "serio disappunto" (la lettera è sul nostro sito www.epressonline.it).

Da allora nessuno ha più fermato la cricca. Nemmeno il successivo governo di centrosinistra. Con i ministri Antonio Di Pietro e Francesco Rutelli: già nel 2007 il leader dell'Idv rimuove Balducci dal posto di presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e in due settimane Rutelli gli inventa un incarico al ministero dei Beni culturali e del Turismo, in via della Ferratella a Roma, che presto diventerà quartier generale del partito del malaffare. Perché nessuno avverte Rutelli? Il Consiglio dei ministri doveva essere già bene informato sull'esistenza della banda.

Nel gennaio 2007 il ministro Di Pietro riceve infatti l'ennesima denuncia di alcuni imprenditori su presunte irregolarità nel pagamento di un appalto, per opere affidate come commissario al capo della Protezione civile, Guido Bertolaso: per quei lavori l'alter ego di Balducci, Claudio Rinaldi, e altri funzionari avrebbero proposto compensi con assegni privati. "Anche per questo ho spostato Balducci e Rinaldi", dice Di Pietro a "L'espresso". Nonostante l'esposto e la rimozione, però, Balducci rinasce subito grazie a Rutelli. E nel marzo 2008, un anno dopo, il premier Romano Prodi concede per decreto a Bertolaso la possibilità di mettere proprio Balducci a capo dei super appalti per il G8 sull'isola della Maddalena. Ed è quello che avviene. Bertolaso sceglie da solo? La riconversione dell'Arsenale è il fiore all'occhiello dell'operazione. Ma si trasformerà in uno scempio di denaro pubblico. Spese folli e nomine sospette che, come hanno scoperto le procure di Firenze e Perugia, proseguiranno sotto il successivo governo di Silvio Berlusconi e il controllo di Gianni Letta.

La lettera di Frattini, attuale ministro degli Esteri, è indirizzata a uno dei capidipartimento sostituiti da Lunardi nel 2001. "Egregio ingegnere", scrive Franco Frattini in poche righe su carta del ministero, "comprendo bene il suo fondato rammarico. Lei sa bene che sono intervenuto personalmente, senza risultato positivo, e ciò evidentemente ha determinato un serio disappunto".

"L'espresso" ha rintracciato l'ingegnere: Bruno Salvi, ora in pensione. Salvi ha fatto parte della commissione tecnica ministeriale sull'incidente di Linate dell'8 ottobre 2001 ed era capo del dipartimento per l'Aviazione civile. Prima di andarsene dall'amministrazione, il dirigente generale ha vinto la causa contro il decreto di revoca del suo incarico. Revoca firmata dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmata da Berlusconi e Lunardi, in quegli anni assistito dal capo di gabinetto Claudio Gelati. Il presidente della Repubblica non ha competenza diretta. Ma qualcuno al Quirinale gli ha presentato il fascicolo per farglielo siglare. Atto che poi il Tribunale del lavoro ha giudicato irregolare tanto da stabilire il reintegro e il risarcimento di Salvi.

C'è un altro provvedimento di Lunardi che incrementa il potere di Balducci e il guadagno dei suoi affiliati. È il 17 febbraio 2006 e il ministro con una firma ordina un nuovo ribaltamento delle regole del ministero. Da quel giorno le gare di appalto che riguardano caserme, uffici e infrastrutture della Guardia di finanza non verranno più sottoposte al controllo dei provveditorati regionali. Verranno tutte gestite dal provveditorato di Lazio, Abruzzo e Sardegna. Cioè dall'ufficio del pupillo di Balducci, Claudio Rinaldi. Sempre Lunardi, cambiando le norme in vigore, dispone che anche le opere di importo inferiore ai 25 milioni siano sottoposte al parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Cioè Balducci.

Sarà un caso ma proprio quei contratti per le caserme della Guardia di finanza faranno incrementare di decine di milioni in pochi anni i bilanci delle imprese di Diego Anemone, che ormai si muovono e incassano in simbiosi con Balducci. Lunardi firma il provvedimento due giorni dopo la riunione di coordinamento con il presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, il direttore Valeria Olivieri che dovrebbe controllare l'ufficio di Rinaldi e, sentite un po', l'allora sottocapo di Stato maggiore della guardia di finanza, il generale Paolo Poletti, attuale vicedirettore dell'Aisi. È il servizio segreto interno, nel quale lavora l'altro generale della finanza, Francesco Pittorru, destinatario con la figlia Claudia di assegni del giro Anemone. Le coincidenze sono sempre più interessanti. Perché negli stessi anni Lunardi compra dal Vaticano una palazzina in centro a Roma, in via dei Prefetti, di proprietà di Propaganda Fide di cui Balducci è "consultore", cioè amministratore immobiliare. E affida ad Anemone i lavori di ristrutturazione di cui, sostiene l'ex ministro, ha le fatture. Per essere completamente trasparente Lunardi potrebbe ora mostrare pubblicamente gli estratti conto da cui risultano i pagamenti.

Nell'enigmatico elenco dei lavori personali eseguiti da Anemone, risulta invece un "Poletti-via Ofanto". Se fosse il generale amico di Balducci, potrebbe comunque essere un appalto istituzionale visto che si tratta della casa del numero due del servizio segreto. Tra le tante coincidenze, "L'espresso" ha invece chiesto a Di Pietro come mai non abbia avvertito Rutelli e Prodi dei suoi sospetti su Balducci. E su Rinaldi, poi nominato commissario delegato per i Mondiali di nuoto 2009: un piano di finanziamenti e deroghe di cui ha beneficiato il Salaria sport village, il circolo di proprietà Anemone e Balducci, frequentato da Bertolaso e vip della politica. Di Pietro sostiene che il suo ruolo di testimone nell'inchiesta gli impedisce di rispondere.

Ricorda invece bene quei giorni del 2001 Bruno Salvi. "Avvenne una rivoluzione e una espropriazione", racconta Salvi: "La rivoluzione determinò l'eliminazione dei tre capi dipartimento del settore Trasporti. Due diedero le dimissioni per conservare le competenze accessorie per la pensione. Io chiesi un consiglio all'allora ministro per la Funzione pubblica, che era Frattini e che tuttora ringrazio con rinnovata stima. Il ministro mi suggerì di non andare via perché, cito le sue parole, nessuno si sarebbe potuto privare della mia esperienza in materia di trasporto aereo. Risposi: obbedisco". Frattini, però, non riesce a fermare Lunardi. "Tutti i capidipartimento furono rimossi per assegnare le funzioni a dirigenti, alcuni promossi nell'occasione, dell'ex ministero dei Lavori pubblici", continua Salvi: "L'epurazione proseguì con la rimozione del direttore del personale.

Ma fu anche politica. Il viceministro Mario Tassone fu collocato all'Eur, lontano dalla sede del ministero. L'operazione si estese alla costituzione del gabinetto del ministro che registrò l'assenza di personale qualificato dei Trasporti civili. Ne fecero parte il generale dell'aeronautica Andrea Fornasiero, il dottor Vito Riggio poi nominato presidente dell'Enac e l'ingegner Ercole Incalza". Fornasiero, estraneo alle indagini in corso, è conosciuto per la sua stretta amicizia con il costruttore Salvatore Ligresti. I contatti di Riggio con la cricca emergono dalle telefonate tra il coordinatore del Pdl Denis Verdini e l'imprenditore Riccardo Fusi. Di Ercole Incalza, l'attuale ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli ha da poco respinto le dimissioni: l'alto funzionario, già indagato durante Mani pulite, le aveva presentate dopo la scoperta che il marito della figlia avrebbe comprato un appartamento con l'aggiunta di 520 mila euro girati dall'architetto di Anemone, Angelo Zampolini.

Gli appalti aeronautici sono un altro settore di grande interesse. Negli anni '90, durante l'ampliamento di Fiumicino, Salvi paga il suo rifiuto a gonfiare le spese con il carcere, grazie a un'accusa di concussione smentita durante il processo e completamente inventata da un imprenditore che voleva toglierselo di mezzo. Altre gravi irregolarità emergono durante l'inchiesta sull'incidente di Linate e il mancato funzionamento del radar di terra. E anche qui sono in gioco appalti segretati, come quelli gestiti dalla coppia Bertolaso-Balducci per il G8. "La segretazione non serve per nascondere l'appalto, ma chi lo fornisce", dice Salvi: "In quei giorni si indagava sull'Enav, l'ente di assistenza al volo. Il pm di Milano mi aveva chiesto una relazione sull'effetto della segretazione sui costi. La differenza tra i prezzi di mercato degli stessi apparati rispetto a quelli sostenuti dall'Enav, riferita a 41 impianti, superava i 130 miliardi di vecchie lire". Proprio in questi giorni sull'Enav ha aperto un'inchiesta la Procura di Roma. Riguarderebbe l'allontanamento di un manager addetto al controllo dei conti e l'assunzione in ruoli chiave dei soliti amici degli amici. Tra i nomi, Luca Iafolla. Chi è? Il papà si chiama Claudio. È il capo di gabinetto del ministro Matteoli. Sempre la solita coincidenza all'ombra della cricca.

Era già tutto scritto in un romanzo, «Nelle mani giuste», uscito nel 2005, nell’indifferenza generale. Nonostante fosse il seguito del capolavoro di Giancarlo De Cataldo, «Romanzo Criminale». C’era già tutto, con precisione impressionante: le trattative fra Stato e mafia, le bombe il «papello», perfino il misterioso «signor Franco».

Come poteva sapere, De Cataldo? Intuito di romanziere, esperienza di magistrato o qualche «gola profonda»?

«Letture e logica. Non ho avuto fonti privilegiate. Mi sono documentato sui giornali dell’epoca, con gli atti del processo di Firenze, dove c’era già quasi tutto, con il libro «La trattativa» di Maurizio Torrealta e il fondamentale rapporto del Copaco del 1995, scritto dal senatore Massimo Brutti dei Ds, che è la più completa inchiesta sui servizi deviati mai fatta. La verità è che molti dei misteri del ‘92 e ‘93 non sono poi tali. Tutto si svolse sotto gli occhi di tanti, per non dire di tutti: soltanto che nessuno volle o seppe vedere»

Chi non volle e chi non seppe vedere?

«Non vollero vedere molti apparati dello Stato. Non seppe vedere la sinistra. L’aspetto che mi ha più sconvolto, nei mesi di ricerca per scrivere il romanzo, erano le molte e dettagliate "profezie" su quanto stava per accadere. Il 6 marzo ‘92 Elio Ciolini, personaggio legato ai servizi deviati e alla P2, annuncia che ci sarà un assassinio politico e si darà la colpa alla mafia. Nessuno lo prende sul serio, ma sei giorni dopo uccidono Salvo Lima. Tutti tornano da Ciolini e lui rincara la dose: ora ci saranno altri botti. Ma non è il solo. Anche Vittorio Sbardella parla di "un bel botto", negli stessi giorni. Gli attentati del ‘93 sono le stragi più annunciate nella storia delle stragi».

Chi doveva ascoltare gli avvertimenti, i governi Amato e Ciampi, la sinistra?

«A sinistra c’era un’euforia da vittoria sicura. È incredibile quanto si sia sottovalutata la minaccia dei vecchi apparati»

Nel suo romanzo c’è un personaggio della prima repubblica che avverte il senatore di sinistra Argenti: non crederete che vi lasceremo vincere senza inventarci nulla?

«È un episodio reale, che mi è stato raccontato dal senatore Brutti. Ma quando parlo di sottovalutazione da parte della sinistra, non mi riferisco soltanto ai politici, ma anche alla cosiddetta società civile, compresi noi magistrati democratici. Non avevamo capito nulla delle stragi di Falcone e Borsellino. Diciamo la verità, molti di noi pensavamo che Sciascia avesse ragione quando li identificava nei professionisti dell’antimafia. A molti di noi sembravano malati di protagonismo. Non avevamo capito che Falcone e Borsellino avevano scoperto qualcosa di enorme, erano andati al di là della nostra immaginazione»

Torniamo all’invenzione per fermare la sinistra, all’entità, al «nuovo assetto politico» di cui parla il procuratore Grasso. A Berlusconi e a Forza Italia, insomma.

«Sì, certo, ovvio. L’invenzione è Berlusconi. Non il miliardario solitario e geniale, ma l’espressione di un gruppo di potere della prima repubblica in cerca di una figura moderna e simbolica in cui incarnarsi. Questo però non significa che Berlusconi c’entri con le bombe. Diciamo che hanno lavorato delle sinergie».

Perché cominciano e perché finiscono le stragi?

«Per rispondere a questa domanda bisogna capire che cos’è davvero successo intorno all’ultimo attentato fallito, quello all’Olimpico, nell´ottobre del ‘93, che doveva fare strage di un centinaio di carabinieri».

Gli atti dicono che il timer non ha funzionato.

«Sì, ma perché allora la mafia non lo replica? Perché non si sono mai trovati né l’auto né l’esplosivo? La spiegazione più ragionevole è che la mafia abbia ottenuto ciò che si proponeva con le stragi, o quello che si proponevano i suoi alleati politici»

La banda della Magliana gioca un ruolo importante nei misteri italiani. Dopo tanti anni, che idea s’è fatto di questo ruolo?

«Nel ‘93 la banda non c’è più, ma il mistero continua. De Pedis seppellito a Sant’Apollinare, il rapimento di Emanuela Orlandi. Che cosa c’entrava una banda di criminali romani con tutto questo e con le stragi, l’assassinio di Rosone compiuto materialmente da Abbruciati, l’affare Moro e tanto altro? È la stessa domanda che circonda gli attentati del ‘93: chiunque si sia occupato nella vita di mafia sa che è impossibile per gente come Riina e Provenzano anche soltanto immaginare un attentato agli Uffizi o al Velabro se non sulla base di uno scambio di favori con qualche entità esterna».

Secondo la sua esperienza di magistrato e scrittore, si può scoprire ancora qualcosa sulla strada dell’inchiesta?

«No. Magistrati e giornalisti hanno scoperto tutto quanto si potesse scoprire, hanno fatto un grandissimo lavoro. L’unica possibilità di arrivare alla verità ultima è che si muova la politica: Ci vorrebbe una commissione parlamentare».

Ma una commissione parlamentare non ha gli stessi poteri della magistratura?

«Penso a una commissione parlamentare come quella sull’apartheid in Sudafrica, che accerti la verità senza il potere sanzionatorio. In questo modo molti, garantiti, oggi si metterebbero a raccontare. È certo penoso rinunciare a fare giustizia. Ma qui bisogna scegliere se fare giustizia o conoscere tutta la verità. E ormai, persa la prima speranza, non rimane che la seconda».

Quanto costa a' funtana? chiedeva a Totò l'emigrante rimpatriato. Oggi la finzione comica diventa realtà: perché quella stessa domanda la stanno facendo sindaci di comuni grandi e piccoli di fronte al federalismo demaniale. Solo che, adesso, al posto di Totò e Nino Taranto ci sono Giulio Tremonti e Roberto Calderoli, e invece della Fontana di Trevi si tratta sul prezzo di caserme abbandonate, fabbriche dismesse, terreni incolti, aeroporti, moli in disuso. Nonostante le apparenze, un ricchissimo buffet da 3,2 miliardi di euro. E mentre nei Comuni tirano fuori le calcolatrici, in Regione i governatori si scervellano per un'eredità più impegnativa: laghi, fiumi, monti, spiagge e miniere. Da oggi toccherà a loro capire cosa farne.

Di primo acchito un fiume può sembrare un affare, e una caserma abbandonata una fregatura. In realtà nelle mani dei Comuni è stato consegnato un vero e proprio tesoretto. Perché grazie alla formula magica del "cambio di destinazione d'uso" al Catasto, una zucca può diventare una carrozza, o per meglio dire una vecchia polveriera senza futuro può diventare un esclusivo resort da gestire, o da rivendere. "I tre miliardi in beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore", spiega Luca Antonini, presidente della Commissione tecnica per l'attuazione del federalismo fiscale. Lo sanno bene gli amministratori locali, tanto che - nonostante il menu dei beni da passare agli enti locali non sia ancora pronto - al Demanio già vanno a batter cassa.

Come a Napoli, dove l'assessore al Patrimonio Marcello D'Aponte vorrebbe mettere le mani su uno dei simboli della città: Castel dell'Ovo. "Lì abbiamo già parecchi uffici per i quali paghiamo un fitto salato. Tutti soldi che potremmo risparmiare se tornasse a noi". A meno che qualcuno a Palazzo San Giacomo non ci voglia poi lucrare sopra. Secondo voci che girano al consiglio comunale, infatti, ci sarebbe già un potenziale acquirente: niente meno che Quentin Tarantino, il regista italoamericano, pronto a fare un'offerta in nome delle sue radici. A Roma, invece, Gianni Alemanno si frega le mani in attesa di vedersi assegnare le caserme di cui pullula la città. Soprattutto quelle di Prati, zona fra le più prestigiose della capitale: qui le case si vendono dai 6.500 agli 8.500 euro al metro quadro. Ma anche più in periferia i progetti del sindaco non mancano. A Tor di Quinto - se la città si aggiudicasse le Olimpiadi 2020 - un bel pezzo di zona militare potrebbe finire per ospitare il villaggio olimpico. Ancora, a Ferrara la vecchia caserma di Cisterna del Follo è pronta a diventare il parcheggio della zona medievale. A Brescia, il vicesindaco leghista Fabio Rolfi per la nuova vita dell'ennesima caserma (la Randaccio) ha in mente un campus universitario.

Il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari. Perché spesso i sindaci, quando si tratta di far soldi, preferiscono affidarsi a un privato. Sempre a Napoli, ad esempio, al comune fa gola il vecchio Hotel Londra di piazza Municipio (anche se poi toccherebbe sfrattare i magistrati del Tar): "Io lo farei tornare un albergo, per darlo in gestione a un privato", confessa D'Aponte. Ma quando li vogliono maledetti e subito, fiaccati dai tagli tremontiani di ieri, oggi e domani, ai nostri sindaci non resta che vendere.

Ed è qui che il federalismo demaniale si fa più opaco. "Noi attribuiamo beni del patrimonio statale ai Comuni e alle Regioni, che poi potranno venderli o fare accordi con gli immobiliaristi", avverte Bruno Tabacci di Alleanza per l'Italia, "il che si presta ad ambiguità già viste, come le cricche, le cerchie di amici, il sistema protezione civile". Per ogni palazzinaro che ci guadagna, però, c'è anche un fondo immobiliare che si sente tagliato fuori dal business. Loro credevano che si sarebbero visti affidare edifici e terreni ex demaniali per tradurli in finanza. Ma Tremonti ha chiuso loro la porta in faccia in favore di una creatura di sua invenzione: il fondo immobiliare chiuso a prevalente capitale pubblico. Ossia tanti piccoli fondi immobiliari dove ci sarà spazio solo per i soldi degli enti locali, e un po' per quelli di banche e fondazioni. In alternativa, toccherà rivolgersi al feudo tremontiano della Cassa depositi e prestiti.

Il tesoretto federalista, però, non è per tutti: il Comune grande prospera alle spalle del piccolo. Lo dimostrano i dati ottenuti dal senatore Marco Stradiotto, l'unico che sia riuscito ad ottenere la lista dei beni che il demanio trasferirà alla sua regione, il Veneto. Qui, su 581 Comuni, appena 103 riceveranno qualcosa. Ma la parte del leone la farà Venezia con la sua Provincia, che assorbirà 146 milioni in immobili e terreni, ossia più della metà di tutta la regione. Fra questi spicca l'antichissima ex caserma Guglielmo Pepe del Lido, che a Ca' Farsetti sognavano da tempo - già valutata, così com'è, 24 milioni e mezzo di euro. Ai ricchi tutte le fortune: a Cortina D'Ampezzo potranno andare a pescare dalla lista demaniale addirittura uno dei loro gioielli, il Monte Cristallo, valutato - incredibilmente - poco più di 250 mila euro. "Per me federalismo significa equità, e questo federalismo demaniale non è equo", lamenta Stradiotto: "Ci vorrebbe un fondo perequativo a livello centrale, per aiutare i Comuni svantaggiati". Anzi, la manna diventa mannaia: i tagli di Tremonti colpiscono in egual misura chi ha avuto tanto e chi niente. Il che è vero in ogni regione, ma è ancor più vero nel confronto fra Nord e Sud. Se infatti si leggono le stime del Demanio, ne emerge che le regioni settentrionali più il Lazio si prenderanno il 65 per cento dell'intero tesoro. Agli altri le briciole. Ad altri ancora, zero: i Comuni in stato di dissesto non potranno partecipare al banchetto. Come Taranto, Enna o Velletri.

"Abbiamo provato in tutti i modi a offrire una compensazione ai Comuni più sfortunati", racconta l'onorevole Enrico La Loggia, presidente della bicamerale sul federalismo, "ma c'era un problema tecnico insuperabile: alla fine sarebbero arrivati loro solo pochi euro. Per questo abbiamo chiesto al governo di trattenere una parte di quanto gli spetta (il 25 per cento di ogni euro incassato per la vendita d'immobili e terreni) per rendere questo federalismo più solidale".

Il federalismo non tocca solo i primi cittadini. Anche i presidenti delle Regioni possono contare sui gentili omaggi della politica romana, seppur in modo diverso: a loro andranno i beni demaniali, quelli che si possono solo gestire e non vendere per far cassa. A partire dalle spiagge, scrigno di quei preziosi canoni che i lidi pagano per montare cabine e ombrelloni. "Con la gestione diretta da parte dei governatori", spiega Riccardo Borgo, presidente del Sib, il sindacato dei balneari, "mi aspetto che le regioni possano farsi concorrenza fra loro, giocando sulla leva dei canoni e la durata delle concessioni". Previsione che già si sta rivelando azzeccata. Se il governatore ligure, Claudio Burlando, fa saper di voler venire incontro agli imprenditori turistici riducendo il canone il più possibile (in questo seguìto a ruota dal collega veneto Luca Zaia), l'assessore al Turismo laziale, Stefano Zappalà, non ha timore nel preannunciare un aumento.

Per Zaia, spiagge lo sono anche le sponde del Piave. Il fiume che mormorava, oggi acclamato primo fiume federalista, sembra destinato a grandi cambiamenti: "Bisogna realizzare le infrastrutture necessarie a rendere l'offerta turistica competitiva", sostiene Zaia, "la "spiaggia dei trevigiani" sarà un volano economico importante per il territorio". Peccato che l'economia del Piave, e il fiume stesso, siano già segnati dalle centrali idroelettriche e dai sistemi d'irrigazione, che se lo risucchiano, rendendolo poco più di un rivolo quando scende nella sua parte bassa. "Nessuno controlla i minimi di flusso vitale", denuncia Guido Trento, ex consigliere Pd, "quindi questo Piave è un fiume fantasma. Prima di fare proclami, Zaia dovrebbe occuparsene". Ma per farlo dovrà fare i conti con i soldi delle concessioni idroelettriche che adesso inizieranno a fluire nelle casse della sua regione. Anche a Biella l'acqua è sinonimo di affari: "Oggi lo Stato ci guadagna10 mila euro", osserva Marco Giovanni Reguzzoni, presidente dei deputati leghisti, "ma solo imbottigliando bibite alla provincia calcolano che si potranno ricavare sei milioni l'anno. Questo è il valore aggiunto che Roma da lontano non capisce". Che il lago di Garda sia importante, invece, lo capiscono tutti. Bisognerà vedere se Veneto, Lombardia e Trento sapranno trovare un accordo per gestirlo tutti insieme.

Nel decreto varato dal governo c'è posto anche per la devoluzione degli aeroporti. Non tutti, però. Si parla di quelli a carattere regionale, mentre quelli d'interesse nazionale sono esclusi. Una distinzione ragionevole, che però di fatto blocca il passaggio di mano dei piccoli scali. Come ammettono all'Enac, l'Ente per l'aviazione civile, la lista che divide i piccoli dai grandi ancora non è pronta. Lo sarà solo dopo aver completato il piano nazionale degli aeroporti. Quindi, almeno per ora, il federalismo dei cieli è una chimera. A meno che non si voglia prendere un criterio di distinzione molto empirico, suggerito dalle autorità europee: sotto i 5 milioni di passeggeri all'anno sei marginale, sopra sei strategico per il paese. Sulla base dei dati di traffico, si potrebbe fare una scrematura dei 47 scali commerciali italiani. Ebbene, potrebbero finire nel patrimonio delle regioni più di una trentina di piste, fra cui aeroporti di una certa importanza come quelli di Pisa, Cagliari o Genova.

E i beni scartati? Restano a casa

colloquio con Mauro Renna

Scelte troppo discrezionali lasciano spazio ad accordi poco trasparenti. Senza contare che i beni rifiutati resteranno in carico al Demanio

"Cambiare la destinazione d'uso di un bene oggi sarà più facile. Ma il rischio cricca è dietro l'angolo", avverte Mauro Renna, ordinario di Diritto amministrativo all'Università dell'Insubria e partner dello Studio legale Leone-Torrani e Associati, il quale ha studiato pregi e difetti del nascituro federalismo demaniale.

"Sono state introdotte procedure semplificate", spiega, "ma siccome c'è molta discrezionalità, le scelte compiute saranno poco controllabili. Il pericolo è che in alcune realtà le trasformazioni vengano fatte avendo già bene in mente i soggetti che poi potrebbero essere interessati all'acquisto".

Fiumi e laghi a parte, a sindaci e governatori viene lasciata assoluta libertà su cosa scegliersi e cosa scartare dal menu del demanio. I beni e terreni rifiutati resteranno allo Stato. L'ennesima "bad company"?

"È proprio così. Alla fine uno richiede solo i beni interessanti. Quindi i beni patacche, quelli per nulla valorizzabili o sui quali bisogna investire troppo, tenderanno a restare dove sono. Si sarebbe potuto imporre agli enti di prendere l'intero pacchetto o nulla. Così come stanno le cose, invece, tutti gli "scarti" finiranno nel freezer del Demanio, nella speranza che un giorno i sindaci cambino idea".

Il tesoretto demaniale è stato presentato come un regalo, ma non è proprio a costo zero...

"I trasferimenti in sé sono "gratuiti", ma i fondi statali che spettano a regioni ed enti locali verranno diminuiti in misura corrispondente alla riduzione delle entrate dell'erario post-trasferimento. Quindi parlare di gratuità è improprio, perché una ricaduta ce l'avrà, non è a costo zero. Bisognerà vedere se gli enti locali, costretti a guadagnarsi da soli il pane, saranno più bravi dello Stato nel farli fruttare. Ma non sono così ottimista che questo sia possibile in tutto il Paese".

Galapagos

Come si gestisce una crisi? Draghi non ha dubbi: con la condivisione. E, a proposito della crisi del 1992, a suo giudizio «ben più seria di quella che oggi hanno davanti alcuni paesi europei», ha ricordato che fu varata una manovra enorme, da 95 mila miliardi di lire, ma l'Italia e non chiese alcun aiuto alle istituzioni internazionali e, grazie anche alla svalutazione, riuscì a uscire dal gorgo nel quale stava affogando. Con questa affermazione (la «condivisione») il governatore sembra aver fornito un jolly al governo (soddisfatto della relazione) che accusa l'opposizione di non collaborare. Ma Draghi ribatte: «la crisi ci ha ricordato in forma brutale l'importanza dell'azione comune, della condivisione di obiettivi, politiche, sacrifici», ma anche equità, possiamo aggiungere. Su questo c'è divaricazione, tra le opposizioni e un governo che persegue una politica di classe.

Il governo sostiene: con questa manovra non abbiamo fatto «macelleria sociale», ma Draghi pur lodando il rilancio - tardivo e modesto - dell'azione anti evasione, afferma che sono gli evasori fiscali a fare «macelleria sociale», sottraendo risorse a chi le tasse le paga. Una cifra: tra il 2005 e il 2008 solo con l'evasione dell'Iva sono stati sottratti 30 miliardi di euro l'anno. L'evasione è questione seria e se combattuta seriamente potrebbe fornire risorse per ridurre la pressione fiscale e per rilanciare lo sviluppo, grande assente nella manovra del governo. In questo il giudizio di Draghi è simile a quello di Confindustria e Cgil: loda l'intenzione di ridurre le spese correnti (fortemente aumentate da Berlusconi) ma non vi trova elementi di rilancio dell'economia. In una fase oltretutto pericolosa perché la contemporaneità delle azioni di rientro di molti stati rischia di impaludarsi nelle scarse prospettive di crescita già minata, nei dieci anni precedenti la crisi odierna, da una scarsa crescita della produttività (3% contro il 14 dell'area dell'euro) da un incremento del Pil del 15% contro il 25% dei paesi dell'area, da un tasso di occupazione di 7 punti più basso e da un tasso di disoccupazione molto superiore soprattutto per quanto riguarda giovani e donne (12 punti in più).

E' «naturale» che le ricette di Draghi non portino al socialismo (come auspica Paolo Ferrero, unica voce critica) ma solo a un sistema economico forse meno iniquo. In particolare è deludente l'analisi della crisi. Già nelle «Considerazioni» dello scorso anno era assente; ieri l'amnesia è proseguita: tutto viene ridotto agli eccessi finanziari, a quelli di liquidità a un indebitamente eccessivo delle famiglie Usa, senza spiegare da dove è nato il bisogno di indebitarsi. Non c'è alcun riferimento alla crisi del welfare, alla pessima distribuzione dei redditi, all'esasperata ricerca del profitto con una mostruosa flessibilità.

Belle, invece, le bacchettate alla Lega riguardo alle nomine nelle Fondazioni bancarie nelle quali gli uomini di Bossi vogliono mettere le mani. Sacrosanto il richiamo che le grandi banche devono muoversi sul territorio come banche locali. Un ultima curiosità: la rivalutazione del diritto a fallire sia per le imprese che per gli stati. Ovviamente in un quadro regolamentare diverso. Le regole, però, non le fanno i lavoratori, ma i grandi della terra che dopo aver coperto d'oro le banche ora chiedono sacrifici ai cittadini.

Prosegue alacremente il cantiere di smontaggio dello Stato. Sotto l’etichetta di "federalismo demaniale", passano a Regioni ed enti locali 19.005 unità del demanio dello Stato, per un valore nominale di oltre tre miliardi.

Mente Calderoli quando afferma (La Padania, 7 maggio) che i beni trasferiti «demaniali sono e demaniali resteranno». Il demanio non è una forma di proprietà, ma servizio pubblico nell’interesse generale di tutti i cittadini, per questo è inalienabile. Al contrario, i beni trasferiti possono essere «anche alienati per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali», o saranno versati in fondi immobiliari di proprietà privata; la legge incoraggia anzi i Comuni a produrre varianti urbanistiche che ne consentano non solo la mercificazione, ma la cementificazione, sigillata e garantita dai ricorrenti condoni edilizi (l’ultimo disegno di legge, presentato dal Pdl, sana con un sol colpo di spugna tutti i reati contro il paesaggio e l’ambiente commessi o da commettersi entro il 31 dicembre 2010).

La manovra Tremonti, approvata sulla parola e senza il testo finale da un Consiglio dei ministri assai ubbidiente, aggraverà lo stato delle finanze locali, strangolando ulteriormente Comuni Province e Regioni. Il taglio previsto, quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12 (4 miliardi ai soli Comuni), obbligherà i Comuni ad alienare l’alienabile, e a concedere licenze di edificazione a occhi chiusi, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione, un tributo che, contro la ratio originaria della norma Bucalossi (1977), si può ora utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità. Ai sacrifici richiesti ai cittadini (basti ricordare la riduzione imposta al Servizio sanitario nazionale: 418 milioni nel 2011, 1.132 milioni dal 2012 in poi) si aggiungerà dunque l’ecatombe delle nostre città, del nostro paesaggio. Le disposizioni in materia di conferenze di servizi (art. 49 della bozza), che riprendono il disegno di legge Brunetta-Calderoli sulla cosiddetta "semplificazione della pubblica amministrazione", vanificano gli argini posti dal Codice dei Beni Culturali. Secondo la nuova norma, ogni volta che il Codice richiede l’autorizzazione di interventi edilizi che incidano sul paesaggio, «il Soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza di servizi in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza»; la sua eventuale assenza dalla conferenza dei servizi equivale al pieno consenso del Soprintendente.

Viene in tal modo riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, un istituto che sin dalla legge 241 del 1990 non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Invano il ministero dei Beni Culturali, che aveva ottenuto la soppressione di analoghe norme almeno due volte (nella Finanziaria 2008 e nell’abortito decreto-legge sul "piano casa"), ha richiamato il governo al rispetto della legge. Ma la tutela del paesaggio imposta dall’art. 9 della Costituzione richiede che, in una materia così sensibile, il previsto giudizio di compatibilità degli interventi edilizi con il valore culturale del bene venga formulato espressamente e dopo attenta valutazione: il silenzio o l’inerzia non può in alcun modo sostituire l’attivo esercizio della tutela, che l’art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha espressamente dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino contro l’inerzia della pubblica amministrazione, non può diventare un trucco per eludere la legge col sigillo di una norma anticostituzionale.

Ma c’è di peggio, e lo ha ben visto Eugenio Scalfari (Repubblica, 30 maggio), che ha lucidamente disegnato la «prospettiva raccapricciante» di un’Italia a due velocità: «Federalismo al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud». La "manovra Tremonti" è anche troppo esplicita: prevede (art. 43 della bozza) che «nel Meridione d’Italia possono essere istituite zone a burocrazia zero». Burocrazia zero significa che per tutte le nuove «iniziative produttive» (non meglio definite) ogni procedimento amministrativo di qualsiasi natura viene «adottato esclusivamente dal Prefetto ovvero dal Commissario di Governo», e diventa operativo dopo 30 giorni. Non senza raccapriccio, immaginiamo dunque, domani o dopodomani, un’Italia con il Nord governato dalla Lega e il Sud dai gauleiter della Lega.

Sotto la maschera bugiarda di un federalismo democratico, nuove forme di centralismo spuntano per ogni dove. Definanziando decine di istituti culturali (cito fra gli altri la gloriosa Scuola archeologica di Atene, a Napoli l’Istituto Croce e quello di Studi Filosofici, e così via), la manovra Tremonti sottrae ogni possibile finanziamento futuro di queste istituzioni al ministero dei Beni Culturali, e ne sposta la responsabilità alle Finanze e a Palazzo Chigi: una forma di commissariamento che espande ed esaspera, per contrappasso, quello che i Beni Culturali hanno fatto, dando Pompei a un commissario della Protezione Civile senza la minima competenza archeologica. Le centinaia di pensionamenti dell’alta burocrazia ministeriale, propiziati se non imposti dalla stretta pensionistica della manovra, decapitando numerosi uffici in tutto il Paese, favoriranno inevitabilmente un continuo ridisegnarsi delle competenze, in cui il diktat del ministero delle Finanze avrà sempre più peso, e agli altri ministri non resterà che rassegnarsi al silenzio-assenso.

Se tutto questo fosse fatto, come vuole la party line diffusa anche in quella che fu la sinistra, per contrastare la crisi e avviare la ripresa, potremmo provare a farcene una ragione. Ma incombe su questa interpretazione più d’un sospetto. Perché la devastazione del paesaggio e l’offesa alla Costituzione dovrebbero alleviare la crisi economica? Che cosa guadagna in coesione e in forza economica il Paese col "commissariare" l’intero Sud, riducendolo a una colonia a "burocrazia zero", cioè governata dai prefetti? Perché, se le casse sono vuote al punto da dover ridurre i finanziamenti alla sanità (mettendo in forse il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione), dovremmo ostinarci a voler costruire il ponte sullo Stretto? Il «tesoretto di Giulio», come qualche leghista ha affettuosamente chiamato i risparmi che la manovra dovrebbe mettere da parte, non servirà proprio a promuovere un federalismo i cui costi nessuno si attarda a calcolare? Lo smontaggio dello Stato serve ad assicurare la stabilità della moneta e il benessere dei cittadini, o ad accelerare la disgregazione del Paese voluta dalla Lega e dai suoi complici d’ogni colore, a velocizzare il saccheggio del territorio e la spartizione del bottino?

«Comprendo lo scoramento di Gerardo Marotta e sposo in pieno la causa dell’Istituto di Studi Filosofici e dell’Istituto Croce che insieme alla scuola di Alta Matematica sono centri di cultura dei quali non si può fare ameno».

Salvatore Settis, direttore dimissionario della «Normale» di Pisa, ha tenuto ieri pomeriggio una lezione sulla «tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e archeologico» nell’ambito del ciclo de «I venerdì della politica».

Salone affollato, una rumorosa presenza di una delegazione di giovani studenti di una scuola di Altamura che, se si arrivasse all’azzeramento dell’Istituto, non avrebbero più la chance di uscire dall’isolamento e confrontarsi con esperienze in grado di formarli meglio.

Malinconiche considerazioni mentre su palazzo Serra di Cassano grava una cappa di angoscia; Settis, dal suo canto, non ha di certo contribuito a diradare le nubi. Anzi, ha affondato il coltello nella piaga. «Sono sicuro, ha detto, che la scure dei tagli colpirà senza pietà perché questo governo a differenza di quanto hanno fatto Sarkozy e la signora Merkel che non sono certo di sinistra, ritiene che la cultura sia un fascio di rami secchi. In Francia, in Germania e in America, invece, hanno deciso di incrementare i fondi destinati alla ricerca e alla scuola perché sanno che dalla crisi si esce puntando sulla qualità».

Che è poi, con parole diverse ma con la stessa intensità di denuncia, la posizione del sindaco Rosa Russo Iervolino che, in attesa della versione definitiva della manovra, prende una posizione drastica: «La riduzione dei finanziamenti per i più significativi centri di cultura napoletana che proprio attraverso essi esprime il meglio di se stessa».

La psicosi dei tagli, insomma, ha contagiato tutti e si ha notizia che sta per essere reso pubblico un fortissimo documento che sarà firmato da una cordata di intellettuali a sostegno di Palazzo Serra di Cassano e di palazzo Filomarino, ma anche del Cira, dell’Istituto di Paleontologia del Sannio e di tutte le postazioni minacciate. Alla stesura del documento sta lavorando Biagio De Giovanni e tra i firmatari, oltre l’accademico di Francia Marc Fumaroli e Settis, ci saranno Aldo Masullo e, forse, il Cardinale Crescenzio Sepe che è stato interpellato.

Nel mare di pessimismo si fa largo, però, unica e isolata, una voce di speranza, quella di Sergio Vetrella, ex presidente del Cira e ora assessore regionale alle attività produttive, che si dichiara ottimista sul futuro dell’Ente di ricerca aerospaziale. «Si è trattato di una distrazione, sono sicuro che si potrà recuperare. Mi sento di assicurare tutti i lavoratori sulla soluzione positiva della vertenza». Che dire? Speriamo che abbia ragione, ma, intanto, c’è da rilevare che l’assessore parla solo del Cira. E gli altri centri? Speriamo che trovino altri difensori, non di ufficio, e che anche per loro si possa dire che il Governo si è «distratto».

Nonostante questa flebile luce, però, il professor Settis non cambia idea e resta decisamente pessimista «perché — dice — i nostri governanti di ieri e di oggi hanno smarrito la strada della lungimiranza».

A cattivi pensieri induce anche l’avanzata del federalismo: «La nostra classe politica — aggiunge — è sotto ricatto della Lega e la sinistra sa solo dire di avere un progetto di federalismo migliore. Sarà pure ma di fatto inseguono il Carroccio e continueranno a perdere».

L’analisi di Salvatore Settis si fonda soprattutto sui costi del Federalismo «che ha già avuto costi altissimi e io sono convinto che questi tagli alla cultura servono per pagare un nuovo centralismo regionale e non a formare una nuova generazione».

Previsioni infauste e una stagione di rinunce che impoverirà culturalmente il Paese: «I costi dell’estensione del federalismo verranno sopportati, cioè pagati, dai cittadini e nessuno— dice ancora l’ormai ex direttore della Normale — ha ancora fatto i conti su quanto costerà globalmente questa operazione. Dovrebbe farli l’opposizione, ma è debole e sfilacciata e fa temere il peggio perché un paese senza opposizione non è democratico».

La conversazione di Settis è stata molto apprezzata dall’uditorio, anche per le preoccupate considerazioni sulla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e archeologico.

Questo capitolo, tra l’altro, ci ha offerto lo spunto per chiedere allo studioso un commento sulla decisione del Commissario straordinario degli Scavi di Pompei di inaugurare una pista ciclabile e una ludoteca per bambini. A tutti sono sembrate decisioni che vanno nel segno di aumentare l’affezione dei visitatori per gli scavi, ma Settis è di tutt’altro avviso: «È giusto controllare l’impatto di queste installazioni, ma di primo acchito mi viene da dire che si tratta di un altro passo verso la barbarie». O, se più aggrada, di una ennesima profanazione del tempio.

Presidente dell´Istituto Gramsci, intellettuale ex comunista e poi convinto sostenitore della svolta, Beppe Vacca non riesce a prendere sul serio Silvio Berlusconi. Soprattutto quando fa riferimenti storici. «Il Duce non aveva potere? Ha ragione. Infatti i partigiani che lo fucilarono non capivano niente».

Lei scherza, ma non è prima volta che il premier usa la storia del fascismo in maniera distorta e perlomeno singolare.

«Direi che stavolta c´è un salto di qualità. Mi incuriosisce il fatto che Berlusconi usi Mussolini per parlare di sé».

Poteva fare altri esempi?

«Se avesse un po´ a cuore la storia del socialismo avrebbe potuto citare Nenni. Il leader del Psi, quando entrò a Palazzo Chigi, disse: "Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni ma non li ho trovati"».

È giusta la citazione del Duce, sul piano storico?

«Non saprei dire con esattezza. Ma era proprio come spiega Berlusconi: Mussolini non aveva alcun potere. Fu un errore gravissimo dei partigiani la sua fucilazione. Loro pensavano di ammazzare un dittatore, un uomo onnipotente invece fecero fuori un passante qualunque che non aveva nessun potere. Eppure in televisione e adesso anche in qualche dvd distribuito con i quotidiani si vede Mussolini che arringa la folla a Piazza Venezia e che dichiara guerra al mondo. Lui che non aveva potere».

Il suo sarcasmo sembra un gioco intellettuale. Non è grave l´accostamento con il Duce?

«Nulla di quello che dice Berlusconi è grave. Quando Benedetto Croce accettò di scrivere per Laterza, all´editore spiego così i motivi della sua scelta: "Perché voi avete il coraggio di pubblicare cose gravi". Grave è quindi un aggettivo importante, non si può accompagnare alle dichiarazioni di Berlusconi».

Ecco le parole del Presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Silvio Berlusconi (da la Repubblica, 28 maggio 2010)

«Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, magari qualche volta quando ero imprenditore. Oggi invece tutti mi possono criticare e magari anche insultare […] Ho letto i diari di Mussolini. Oso citare le parole di qualcuno che era ritenuto un grande dittatore: dicono che ho potere, ma non è vero, lo hanno i gerarchi. Io posso solo dire al mio cavallo se andare a destra o a sinistra».

Da una Tangentopoli all’altra? Potrebbe sembrare che la vicenda politica di Berlusconi stia andando incontro a un destino speculare e opposto rispetto alla sua origine. Nato sull’onda della reazione popolare alla catastrofe etico-giudiziaria dei partiti di governo della Prima Repubblica, e al contempo come supplenza rispetto agli assetti di potere che ne costituivano la sostanza materiale, il suo lungo e fortunato impegno politico corre oggi il rischio di perdere la sua legittimazione profonda. Che era consistita - e in parte ancora consiste - nel mutare la forma della politica, cioè nel trasformare progressivamente la democrazia repubblicana in un regime populista, nel riferirsi al popolo-massa più che alle istituzioni, nello stabilire un patto di intensa fiducia personale, emotiva e quasi corporea, con i suoi fedeli, nel fare del suo stesso partito un "popolo", unito dalla ferrea convinzione che il "fare" del suo Capo sia infinitamente più sano, efficace e onesto delle parole ipocrite, e del malaffare, della politica tradizionale, della "casta" (identificata per lo più con la sinistra).

È l´identificazione fra il leader e la sua gente a spiegare come sia stato e sia possibile che gli interessi personali e settoriali di una sola persona e della sua cerchia siano presentati (e percepiti) come interessi di tutti - si pensi alle esigenze processuali del Cavaliere, di cui si è cercata la soluzione con il "processo breve" - ; e come il plusvalore ideologico dell’antipolitica, incarnata dal superpolitico Berlusconi, abbia chiuso gli occhi di tanti suoi elettori davanti ai suoi insuccessi, e agli scandali che da ogni parte occupano ormai la scena pubblica (fino a quando non ne sarà punita per legge la divulgazione).

Ora questa magia - questa proiezione collettiva - sta finendo. Già intaccata - come si è visto nelle recenti elezioni regionali - dagli scandali personali della scorsa estate e dalla prima ondata dell´inchiesta sul G8, la credibilità politica di Berlusconi rischia di subire un duro colpo dall’emergere di un meccanismo di corruzione e di favoritismi che non è più spiegabile, come pure si è tentato di fare, con la teoria della mela marcia o della pecora nera, ma che assume, con ogni evidenza, carattere sistemico. Non è certo l’antica corruzione: quella aveva il suo perno e i suoi attori principali nei partiti; questa invece vede protagonisti gli affaristi, i costruttori, gli appaltatori, che hanno rovesciato i rapporti di forza rispetto ai singoli politici, che sembrano coinvolti assai più a titolo personale che per finalità di partito.

Tuttavia, è lecito dubitare che questa distinzione, pur importante, appaia decisiva agli occhi degli elettori del Pdl. È più probabile, invece, che lo smottamento del consenso divenga una frana, davanti a quello che potrebbe essere percepito come il ritorno della vecchia politica, e quindi come il tradimento del patto di fiducia antipolitico che lega il Capo alle masse. La cui psicologia collettiva comprende anche il rischio dell’abbandono, della delusione, dell’avversione per quello che fino a poco prima era l’oggetto d’amore. E questo rischio è tanto più significativo quanto più odioso potrebbe apparire il rovesciamento perverso del fiore all’occhiello di questi ultimi anni di governo: l’agire pronto, efficace, esemplare - tra l’aziendale e il comunitario - , della Protezione Civile. Che, operando secondo procedimenti d’emergenza davanti alle emergenze a cui deve far fronte, voleva essere la più visibile ed eloquente manifestazione del "fare" berlusconiano, la controprova pratica della sua ideologia. E che invece sta diventando - pare - la voragine, l’autentica emergenza che delegittima il potere del Cavaliere. A dimostrazione del fatto che l’eccezione, se elevata a sistema di governo, si ritorce contro chi ne abusa.

Consapevole del pericolo che si parli di una "casta" berlusconiana sottratta alle leggi ordinarie - e anche dell’aggravante costituita dalla circostanza che la corruzione riguarda le case, il bene più caro agli italiani, per il quale le persone comuni si sacrificano per lunghi anni - Berlusconi riscopre ora la legalità e la normalità; che non appartengono certo al suo usuale repertorio politico e che paiono giustificate solo dall’esigenza di recuperare consenso e di stringere nuovamente il patto antipolitico con la sua gente, anche contro i "suoi" politici. Legalità non come filosofia politica, quindi, ma come ultimo espediente del populismo, come ultima paradossale risorsa del leader carismatico. Che non cessa infatti di polemizzare contro la "macelleria giudiziaria" delle "liste di proscrizione", e che - data anche la linea dei giornali d’area governativa - pare tentato di assumere a sua volta la postura del Capo tradito dai propri collaboratori sleali e mediocri, sui quali si può abbattere l’ira popolare, e la "purga" politico-giudiziaria. L’eccezionalità, d’ora in poi, resterà appannaggio esclusivo del Capo (il lodo Alfano prosegue il suo iter), e non coprirà più i comprimari.

La questione è ora se questo tentativo di Berlusconi di avere le mani ancora più libere (magari con un rimpasto, o un allargamento della maggioranza) avrà successo, o se invece il Capo carismatico ferito non sarà condannato - dato che le elezioni anticipate dovrebbero ora apparirgli non più molto appetibili - a continuare a governare, sempre più debole e sempre più sottoposto alla tutela di Bossi e Tremonti. Una prospettiva, questa, non certo utile al Paese.

Prima ancora di avere in mano l’ultimo numero di , sono stata interessata da quello che veniva annunciato come tema centrale: “La solitudine dei conflitti”. Per più d’un motivo. Basta uno sguardo al panorama politico del mondo per avvedersi della quantità e della varietà dei conflitti che lo agitano. Al di là del “conflitto dei conflitti”, quello tra capitale e lavoro, da un paio di secoli presente e attivo nella nostra società, e costitutivo della sua stessa forma, sono innumerevoli i momenti di critica esplicita nei confronti dei problemi più diversi, espressa nei modi - vecchi e nuovi, talora nuovissimi - della conflittualità politica. Sorti soprattutto nell’ultimo cinquantennio, a contestare una società intessuta di violenze, disuguaglianze, gerarchie antiche e nuove, sempre più di frequente si impegnano a esprimere pubblicamente le loro ragioni: di solito però ignorati da tutti i poteri e tendenzialmente cancellati, comunque obbligati alla solitudine.

E’ anche vero d’altronde che in qualche modo ogni conflitto dal canto suo tende a isolarsi, ad agire “in proprio”, all’interno e per mezzo del gruppo che lo rappresenta. Il quale discute, riflette, manifesta per gli obiettivi che si è dato, senza però mai (o quasi mai) rapportarsi e confrontarsi con altri analoghi soggetti. Al contrario spesso accade che dal corpo centrale di un movimento si distacchino filoni impegnati in tematiche parziali, finendo per concentrarsi su un unico aspetto del problema: a volte fino a perdere di vista l’obiettivo centrale, che tutti li contiene e da tutti è determinato.

Per fare un esempio, la sempre più grave crisi ecologica, di per sé ragione indiscutibile di contestazione del “sistema”, ha dato luogo a un folto gruppo di conflitti “secondi”: dal filone centrale delle ricerche scientifiche relative al fenomeno, alle tante iniziative spicciole impegnate a contenere l’inquinamento; all’importante settore di indagine, oltre che di dura contestazione, relativo al nucleare; al folto e combattivo movimento per il diritto all’acqua; alle tante vere e proprie rivolte popolari contro la cattiva o inesistente gestione dei rifiuti, o contro opere ritenute non solo ecologicamente inaccettabili (vedi Tav, Dal Molin, ponte sullo Stretto, ecc. per limitarci all’Italia); ai tantissimi gruppi di animalisti, vegetariani, anti-caccia, e così via. Fino al sempre più grosso e influente complesso (che coinvolge un numero crescente di grossi poteri economici) impegnato nelle energie rinnovabili e in genere nella cosiddetta “green economy”.

E’ in questo senso che il tema messo in campo da Alternative credo potrebbe farsi antefatto di una riflessione più larga e impegnata di quella (peraltro assai pregevole) già svolta; fino a investire i problemi connessi alla crisi in cui si dibatte l’umanità. Che è crisi totale. Crisi economica e finanziaria da un lato, e crisi dell’ ecosistema terrestre dall’altro. Crisi fatta di nuovi sfruttamenti e di crescenti distanze tra classi sociali; di mutati rapporti tra Nord e Sud del mondo; di scelte e abitudini, acquisite magari per via di migliori condizioni di vita. Crisi dell’intera cultura, o meglio della forma antropologica che a partire dal secondo dopoguerra si è andata definendo, in sintonia con l’esplosione di produzione e consumo; anzi facendosene strumento e funzione, fino a identificarsi sempre più compiutamente con la forma-capitale.

Di questa crisi non solo la moltitudine, ma anche la “solitudine” (a volte scelta) dei conflitti denunciano la vastità e la capillare complessità. Con lo sgomento che segue alla sua presa d’atto, e con il rifiuto (o l’incapacità) di affrontarla, o anche soltanto guardarla nella sua interezza; e dunque con la fuga nella “solitudine” del gruppo, di ciascun gruppo, concentrato nell’impegno relativo a un solo problema (o a un pezzo di problema); chiuso al confronto con soggetti portatori di altri, sovente assai prossimi, problemi e conflitti.

E però questi innumerevoli conflitti minori, che di fatto convergono nella totalità della crisi, non di rado si trovano affiancati, ed espressi, in manifestazioni pubbliche “totali”. Penso a due piazze romane, recentemente luogo di eventi in questo senso esemplari: Piazza del Popolo, straripante di gente che a gran voce chiedeva libertà di informazione, e Piazza San Giovanni, dove più di un milione di persone gridava contro il governo Berlusconi. Eventi creati per obiettivi diversi da due soggetti diversissimi: promosso dal quotidiano La Repubblica il primo, inventato da “Facebook” il secondo. Ma ambedue portati al successo dal comune sentire di persone di ogni sorta: disoccupati, precari, immigrati, cassintegrati, ambientalisti, femministe, intellettuali, studenti, insegnanti, pacifisti, no-global, vecchi e giovani militanti di varie sinistre, estreme e non.

Penso anche alla gigantesca mobilitazione pacifista del 2003, che nello stesso giorno, nelle piazze di tutto il globo, ha convocato folle bandiere inni e invettive, e di cui il New York Times ha parlato come della “seconda potenza mondiale”. E forse riflessioni non troppo dissimili si potrebbero fare a proposito delle manifestazioni antigovernative di Teheran; o del ripetuto, massiccio convergere di immigrati dalla banlieu parigina verso altre folle provenienti dai quartieri alti; o anche (sebbene il paragone possa sembrare improprio) dell’elezione di Obama a presidente Usa, voluta da ceti diversissimi, espressione molteplice di sensibilità, problemi e conflitti prima rimasti muti e separati. E ancora, anzi a maggior ragione, a proposito delle vere, profonde, spesso totalmente inedite, rivoluzioni in atto nel Sud del mondo, in America Latina in particolare (1).

Perché in realtà tutti i diversi fenomeni di questo tipo e i tanti altri che si potrebbero citare, per il loro numero e per la qualità che in qualche misura li accomuna, vanno assai oltre il valore del singolo evento e dell’obiettivo specifico, parlando non solo della moltiplicazione dei conflitti, ma di un nuovo senso del conflitto stesso e del bisogno di un mutamento profondo della politica. Come la drammatica crisi delle sinistre in tutto l’Occidente sta a dimostrare. E forse, se la ricerca aperta da avrà un seguito, potrebbe aiutare l’impervio tentativo di dar vita a una politica di sinistra capace di misurarsi con i problemi attuali. Che sono molto diversi da quelli storicamente affrontati e spesso risolti dalle organizzazioni del lavoro.

“Uscire dalla crisi”, è oggi l’insistito proposito di tutte le parti politiche. Le sinistre non fanno eccezione. In che modo uscirne, nessuno con chiarezza lo dice. Le sinistre nemmeno; ma il loro impegno (che naturalmente propone come obiettivo minimo immediato un significativo calo di disoccupazione, cassintegrazione, precarietà, ecc.) oggettivamente comporta ripresa di produzione e consumi, rilancio dei mercati, aumento del Pil, insomma la rimessa in funzione della realtà pre-crisi. In pratica insomma (non troppo diversamente da quanto a gran voce auspicato dal padronato e dalle destre in genere, oltre che dal comune “buon senso”) le sinistre si trovano ad agire per la rimessa in salute di un mondo in cui metà della ricchezza prodotta è detenuta dall’uno per cento della popolazione (2), un sesto degli abitanti è sottoalimentato (3), il consumo di natura da parte dell’organizzazione economica supera pericolosamente la quantità di materie prime da potersi usare senza danni irreparabili (4 ); in cui sono in corso trentacinque conflitti armati (5) e, nella generale caduta del Pil, l’industria degli armamenti è la sola a “tenere”.

Di tutto ciò d’altronde le sinistre - o quanto meno le più avanzate - sembrano consapevoli, quando, pur continuando ad auspicare “ripresa”, “uscita dalla crisi”, ecc., affermano anche che occorre cambiare radicalmente le cose. “Partiamo dal lavoro”, è la parola d’ordine che solitamente ne segue; e direttamente connessi appunto ai tanti gravissimi problemi del lavoro (fabbriche a rischio, delocalizzazioni, licenziamenti, ecc.) sono i temi centrali di dibattiti, convegni, seminari. Sacrosanto. Il mondo del lavoro è quello che più pesantemente soffre la crisi, e confrontarsi con le sue crescenti difficoltà, tentare di contenerne almeno le conseguenze più devastanti, anche interpretando e sostenendo la conflittualità che ne deriva, non solo è un dovere per le sinistre, ma addirittura una sorta di riflesso condizionato.

Sacrosanto e forse inevitabile. E infatti anche gli articoli (tutti peraltro di molto interesse) dedicati alla “solitudine dei conflitti” su , per lo più vertono appunto sull’isolamento degli operai nelle loro disperate proteste; e accusano politica, grande industria, organismi transnazionali, ecc. impegnati a immaginare la rimessa in moto del “sistema”, di fatto prescindendo dal lavoro e dalle sue sorti, quasi si trattasse di una variabile marginale, da potersi tranquillamente ignorare.

Sacrosanto, ripeto. Anche inevitabile? Non so. E provo a domandarmi se, nel mentre stesso in cui si impegnano a ridurre quanto possibile le ricadute della crisi sui lavoratori, non sarebbe utile che le sinistre provassero a sollevare dubbi non solo sulla utilità ma sulla stessa praticabilità dell’”uscita dalla crisi”, della “ripresa”, ecc. : a tale scopo allargando lo sguardo verso altri orizzonti, non meno carichi di interrogativi ma forse anche di “possibili”, magari soffermandosi a riflettere sul malessere di cui parlano proprio i mille conflitti in atto e la loro “solitudine”. E a tale scopo provando a rileggere la propria storia in una chiave diversa da quelle abituali alle numerose indagini retrospettive. Perché, insomma, se dopo un secolo e mezzo di protagonismo spesso vincente, e comunque determinante (in positivo o in negativo) nelle vicende del mondo, le sinistre dovunque sono oggi così malridotte, qualcosa debbono aver sbagliato. E anche le sinistre italiane debbono avere la loro quota di responsabilità.

E’ un discorso che vorrebbe ben più spazio di quello qui disponibile. Provo comunque a indicare alcuni dei momenti che, nell’ultimo mezzo secolo, secondo me hanno segnato una deviazione rispetto alle ragioni fondative delle sinistre, contribuendo a indurne lo smarrimento. E la stessa riflessione aperta da Alternative sui conflitti può aiutare. Soprattutto se si considera che, nella loro innumerevole diversità, i conflitti oggi presenti e attivi sono di fatto moti d’accusa nei confronti della realtà socio-economica imperante, del capitalismo cioè. E lo sono anche quelli che sembrano parlar d’altro, e magari lo credono.

Tralascio il conflitto storico capitale-lavoro. Anche se è difficile ignorare che oggi il rapporto non può non essere per più aspetti diverso dal passato: in un mondo un cui la regola consumistica, connessa al forsennato produttivismo della più recente forma-capitale, in qualche misura modifica lo stesso rapporto lavoratore-padrone, e paradossalmente ne crea una reciproca dipendenza, nei modi ambigui e pericolosi di una nuova alienazione. Senza dire del confronto con i lavoratori dei paesi cosiddetti “emergenti”, dove uno sfruttamento a livelli protocapitalistici, e il fenomeno migratorio che ne consegue, creano insorgenze razziste facilmente strumentalizzate da destra. Ecc. Tralascio anche quel gigantesco conflitto tra capitale e natura che si manifesta nella terrificante crisi ecologica planetaria. Non solo perché ad esso ho già qui dedicato qualche spazio, ma perché credo che a nessuno ormai dovrebbe sfuggire il nesso diretto e decisivo tra capitalismo e squilibrio degli ecosistemi: cioè l’aporia di un sistema economico fondato sulla crescita illimitata del prodotto, in un mondo che illimitato non è; il quale non è pertanto in grado né di fornirgli all’infinito le materie prime necessarie, né di assorbirne e neutralizzarne i rifiuti, liquidi, solidi, gassosi.

Certo meno facile riesce ricondurre alla forma-capitale tutti gli altri conflitti in atto. Eppure credo che, a un’osservazione attenta, il rapporto risulti non solo possibile ma evidente; in particolare, se si riflette sulla qualità sempre più invasiva del “sistema”, sul suo raggiungere ogni momento della vita, e orientare desideri e scelte ai fini di maggior consumo, mi pare sia non solo possibile ma ovvio leggere i mille conflitti d’oggi come forme di denuncia, o almeno di tentato rifiuto. Non posso qui parlare di tutto ciò in modo esauriente; mi soffermo un attimo solo su due “conflitti” di massima rilevanza.

Dopo momenti di risonanza mondiale, il movimento per la pace parrebbe oggi in calo. Ma in realtà il pacifismo continua ad essere un “valore” che, a prescindere dalla militanza specifica, accompagna e sottende la “protesta” nella sua totalità. Ciò che non stupisce in un mondo non solo (ne dicevo sopra) pieno di guerre piccole e grosse; ma in cui la guerra è ormai regola dell’intero agire umano, e aggressività, sopraffazione, violenze di ogni sorta, sono divenuti attrezzi quotidiani di esistenze votate solo a possesso e consumo di merci, per le quali la feroce competitività dei mercati è modello e pungolo. Secondo la linea imposta dai “grandi” del mondo.

Meno facile è connettere alla forma-capitale le ragioni del femminismo, e non solo perché il rapporto uomo-donna discende da una storia assai più lunga di quella del capitalismo. E però non si può dimenticare che la società industriale ha speculato sull’antichissima disuguaglianza tra i sessi, facendone propria la tradizionale divisione lavoro, e di fatto trasformando l’attività famigliare femminile in “produzione e manutenzione di forza lavoro a costo zero”. Ma anche per altri aspetti, meno ovvii, il femminismo (nella sua verità più profonda) non può non porsi contro una realtà sociale in cui i “valori” vincenti in quanto funzionali alla logica del “sistema” (forza, intraprendenza, sicurezza, audacia, capacità decisionale, ecc.) coincidono con i tratti psicologici storicamente identificati con “il maschile”; mentre, sotto l’apparenza di una nuova libertà, i modelli femminili imposti dalla cultura di massa (tv e pubblicità in primis), parlano del più convenzionale immaginario erotico maschile, tuttora prevalente e immutato, semmai solo banalizzato e involgarito.

Non mi pare insomma azzardato riconoscere al fondo dei tanti conflitti “solitari” d’oggi, una più o meno consapevole condanna del capitalismo, e dell’ordine simbolico che ad esso attiene. Una condanna che non appartiene alla grande maggioranza delle sinistre organizzate, nate proprio al fine di liberare il mondo dal dominio del capitale, ma oggi molto lontane dall’assumere una posizione netta in proposito e darsi programmi conseguenti.

So di rischiare indebite semplificazioni, eppure credo che proprio l’evolversi del rapporto tra sinistre e capitalismo sia alla base dell’impasse attuale. Per cui forse occorrerebbe innanzitutto riconsiderare quel momento della seconda metà del secolo scorso in cui la gran macchina industriale capitalistica, superate le strettoie del dopoguerra, rimise in funzione e spinse al massimo le sue potenzialità espansive; per un’accelerata occupazione di sempre nuove porzioni di mondo, e per la loro assimilazione a uno sviluppo identificato con la moltiplicazione dei consumi, che in quanto tale chiedeva un coinvolgimento sempre più profondo delle masse. Furono anni in cui la crescita esponenziale del prodotto, nella forma dell’ accumulazione capitalistica, parve spalancare all’umanità un futuro di crescente sicuro benessere; in cui poco a poco il capitalismo s’impose come una realtà insostituibile e immodificabile, quasi una sorta di fenomeno metastorico. E la rivoluzione anticapitalistica, poco a poco, benché mai esplicitamente rinnegata, fu posta “in sonno”.

In effetti le sinistre non parvero avvertire la portata di un mutamento che si andava imponendo come una nuova forma antropologica, fondata sul prevalere della dimensione economica e plasmata sulle ragioni di una crescita divenuta dogma. Con una continua dilatazione delle quantità di merci prodotte, da imporre ai desideri delle masse: nel dominio del mercato e nell’incontrastato prevalere di una scienza economica sempre più astratta e autoreferenziale, separata dalla concretezza dei problemi. D’altro canto le sinistre non parvero porsi domande su questa evoluzione del mondo nemmeno quando, sul finire del secolo, la storica regola del lavoro a traino della produzione cominciò a venir meno, e mentre il Pil continuava a crescere, riappariva e aumentava la disoccupazione. Quello avrebbe forse potuto essere il momento per un serio ripensamento, e magari per una presa d’atto di quelli che a me paiono i due più gravi “peccati” delle sinistre.

Il primo attiene al fatto che in nessun modo esse abbiano utilizzato a vantaggio del lavoro, quello straordinario progresso scientifico e tecnologico che fu qualità precipua e orgoglio della storia più recente. Forse paralizzate dalla paura della disoccupazione tecnologica, o forse condizionate da una deformazione mentale “lavorista”, non hanno comunque saputo leggere e usare le eccezionali possibilità offerte da tecnologie sempre più capaci di sostituire il lavoro umano, fisico e mentale. Hanno così interamente regalato le grandi conquiste dell’intelligenza umana al capitale: il quale con prontezza e determinazione le ha utilizzate secondo la propria logica solo per l’aumento del prodotto. Dimenticando quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” che è parte non secondaria della cultura di sinistra: sogno ricorrente dei grandi utopisti, ma presente anche in diversi passaggi di Marx; ripreso da Keynes nell’ipotesi di un futuro in cui dedicare al lavoro non più di tre ore al giorno; recuperato nel Sessantotto da un combattivo movimento per la riduzione degli orari, al fine di “lavorare meno, lavorare tutti”, ecc. Di fatto arrendendosi a una realtà insensatamente orientata ad aumentare ancora e ancora i tempi della produzione, e quindi la quantità dei prodotti, nella linea di quella crescita non importa di che cosa e perché, che già l’ambientalismo più qualificato indicava come responsabile della devastazione del Pianeta.

E qui incontriamo il secondo grave “peccato” di cui le sinistre sono state e sono tuttora responsabili. Alla pari di tutto il mondo politico infatti le sinistre hanno sostanzialmente ignorato il crescente dissesto dell’ecosfera, limitandosi ad occuparsene marginalmente, quando l’eccezionalità degli eventi lo imponeva; mai (fatto salvo l’impegno isolato di persone o piccoli gruppi) soffermandosi a considerare il fenomeno nella sua interezza e nelle sue cause. Alla pari di tutta la politica, ripeto. Con un’aggravante però, non secondaria. Dovunque, a pagare le conseguenze del guasto ecologico sono i molti milioni di persone in fuga da tornado, alluvioni, desertificazioni, inquinamenti irreversibili; sono operai avvelenati dal loro stesso lavoro; famiglie costrette a vivere in prossimità di fabbriche fortemente inquinanti; contadini tenuti a maneggiare quantitativi massicci di pesticidi, diserbanti, e altri materiali tossici, ecc; cioè proprio quelle fasce sociali che le sinistre sarebbero tenute a difendere. Ma tutto ciò non è mai stato considerato.

Da qualche tempo, è vero, di fronte all’ormai innegabile, sempre più catastrofica crisi ambientale, anche le sinistre - come l’intero mondo politico - dedicano al problema qualche attenzione. Ma - come tutti - occupandosi di fatto solo degli aspetti del problema che incidono negativamente sull’economia, e pertanto attivandosi in settori conciliabili con le esigenze della produzione: vedi la corsa alle energie rinnovabili, certo utili per ridurre le emissioni di gas climalteranti, ma non più quando diventano strumento di rilancio produttivo. Come è apparso evidente alla recente Conferenza di Copenhagen: fallita ai fini della riduzione di gas-serra, ma assai utile all’incontro tra grandi imprese, febbrilmente impegnate nel lancio mondiale della “green economy”, anzi del “green business”, fondato sull’uso crescente di “green energy”, così di approdare alla massima possibile “green growth”; usando cioè le “rinnovabili” secondo la stessa regola produttivistica contro cui erano nate.

Di fronte alla evidente insostenibilità della forma economica e sociale dovunque attiva, ma dovunque in sempre più grave affanno; di fronte alla non meno evidente impraticabilità delle politiche portate avanti dai grandi poteri, incapaci di immaginare qualcosa di diverso da altre centinaia di milioni di automobili da produrre ogni anno, altri miliardi di chilometri di strade autostrade trafori, ecc, onde farle circolare, altre migliaia di nuovi aeroporti per la moltiplicazione di scambi planetari di merci, altre foreste di grattacieli ad aumentare la cementificazione del mondo…. Il tutto senza risolvere i problemi dei miliardi di senza-casa, di disoccupati, di spietatamente sfruttati, che aumentano di pari passo con i disastri ecologici… Non toccherebbe alle sinistre (ciò che ne resta, ma anche ciò che ne sta nascendo, in America Latina, qua e là in Africa, Indonesia, ecc.) considerare che il capitalismo, così come è nato, prima o poi finirà… e - perché no - provare ad aiutarne l’esito? Magari recuperando quel “lavorare meno e tutti” che, sottoposto a una seria riflessione, potrebbe significare assai più di quanto letteralmente promette, e forse aprire una finestra su un possibile “mondo diverso”.

Utopia? Ma insistere ad operare per la sopravvivenza dell’attuale forma-mondo, che altro è se non una sorta utopia negativa, che andrebbe a coincidere con la catastrofe totale?

Note

1) Sulla materia vedi anche l’articolo di Aldo Garzia e Franco Russo su N° 11

2) Dati OCDE 2008

3) Dati FAO 2009

4) Vedi ricerche del Footprint Institute, secondo cui per mantenere l’attuale livello di consumo dei paesi occidentali occorrerebbero 5,4 pianeti.

5) Dati Archivio Disarmo 2008

Le lettere dei condannati a morte della Resistenza

non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere. Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall’uso quotidiano – amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma – , dalla retorica politica – patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento – o dall’estraneità alla nostra diretta esperienza – torturare, fucilare, impiccare, tradire – tornano d’un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall’abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.

Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi – intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora – può pretendere l’autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare. Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere.

Conosciamo le condizioni del nostro Paese all’8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.

La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un’attutita percezione dell’originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall’incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l’aspirazione a un’Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo.

Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l’idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un’elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d’Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima. Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l’appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ‘43-’45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l’irresistibilità dell’appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l’idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l’Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.

Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall’altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell’ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l’adopera sarà un vile e un codardo». Non risulta che l’accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l’alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un’interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un’esasperazione incompatibile con l’autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell’attesa dell’esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.

Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All’antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell’attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.

Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi – riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) – ve n’era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.

Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L’idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l’ignavia e l’opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d’esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.

Le Lettere contengono la voce d’un altro popolo, di uomini e donne, d’ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch’essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un’Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d’appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.

Il testo è parte dell’intervento che sarà letto stasera alle 21 all’Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile

E’ qualcosa di emblematico nella burrasca che scuote il comitato per le celebrazioni dell´Unità d´Italia. Dopo le dimissioni del presidente Carlo Azeglio Ciampi, dettate da ragioni d´anagrafe, s´annunciano altre defezioni illustri, firmate da Dacia Maraini, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi e Ludina Barzini. Tra i nomi dei dimissionari è circolato ieri anche quello di Gustavo Zagrebelsky, il quale però precisa: «Non esiste alcun atto formale. Siamo ancora in alto mare, non so bene come andrà a finire. Quel che posso esprimere è solo un sentimento di disagio».

Se è vero che anche le precedenti celebrazioni - nel 1911 e nel 1961 - si svolsero nel segno della disunità, queste del prossimo anno rischiano di saltare del tutto: anche per scarsa convinzione - da parte dei seguaci di Bossi, ma non solo - che vi sia qualcosa da festeggiare. Ora il nuovo contrasto, di cui non erano mancate le avvisaglie. Ma conviene procedere per ordine. Ciampi scrive una lettera di dimissioni a Berlusconi e Bondi dai toni molto sereni («Negli ultimi tempi sto avvertendo una riduzione delle mie energie, che si traduce in un senso di affaticamento, fisico e psicologico. Nulla di grave. Tutto in linea con... i dati anagrafici»). Una missiva che in sostanza riconosce al governo il merito di avere avviato le celebrazioni, e che dunque sembra sgombrare il campo da ogni malizia (ora, per la sua successione alla presidenza, si fanno i nomi di Giovanni Conso, Lamberto Maffei e Giuliano Amato).

Però alcuni "saggi" del comitato colgono l´occasione per annunciare il proprio ritiro. Tra questi Dacia Maraini, che sul sito dell´Espresso dichiara: «Con il passare dei mesi il ruolo del comitato è stato svuotato. Non contavamo più niente, non potevamo decidere niente. Mi sembrava poco dignitoso restare lì a fare la foglia di fico e così ho mandato una mail a Zagrebelsky, anche lui preoccupato per la deriva del nostro lavoro, dicendogli: "Ma che ci stiamo a fare?". Zagrebelsky ha scritto una lettera di dimissioni piuttosto dura e motivata, che è stata firmata da me, da Gregoretti e da Boneschi». Zagrebelsky mostra cautela: «È solo una situazione in movimento, la lettera è un documento privato». Di più lo studioso non vuole dire, anche perché «tradirei la riservatezza di altri membri del comitato».

Quel che si percepisce è il sentimento di inutilità diffuso tra i "saggi", messi da parte dalle autorità che guidano le celebrazioni. La Maraini racconta di aver provato a impegnarsi in prima persona con due proposte, una rassegna di film sul Risorgimento e una serie di iniziative sulla lingua italiana. «Nessuno mi ha mai risposto. Poi improvvisamente ci è stato detto che non c´era più una lira, che non si poteva fare più niente. Abbiamo continuato a vederci lo stesso, sperando di sbloccare la situazione, ma è stato inutile. In tutte le nostre riunioni siamo riusciti ad approvare una sola cosa, un disegno con tre bandierine che sarà il logo delle celebrazioni».

Anche il programma finora definito - il restauro dei monumenti, un museo virtuale del Risorgimento, un paio di convegni e poche altre cose - era apparso a diversi membri del comitato molto debole, inadeguato a restituire il senso del processo unitario e di una storia lunga un secolo e mezzo. Un progetto che in sostanza restituiva la scarsa convinzione con cui l´attuale governo si predispone a omaggiare la data fondativa della nostra identità italiana.

Ma abbandonare oggi il comitato potrebbe avere conseguenze indesiderate. Il rischio è che saltino le celebrazioni o subiscano l´influenza di chi ancora crede che l´Italia sia "un´espressione geografica". È dai primi anni Novanta che alcune forze politiche oggi al governo mettono in discussione il processo storico unitario e l´assetto statuale dell´Italia. È anche per sottolineare il valore di un anniversario - contestato "con toni rozzi e inaccettabili", come dice la Maraini - che molti avevano accettato con entusiasmo di impegnarsi nelle celebrazioni. Ora però sembrano venute meno le condizioni per il proseguimento della collaborazione. Un bel pasticcio. Gli storici del futuro potranno usare anche questa vicenda come indicatore del debole stato di salute del nostro sentimento nazionale.

ROMA - Più che mai rinvigorita. L'Anpi, l'associazione dei partigiani, fa un bilancio alla vigilia del 25 aprile, dal quale risulta che ha raggiunto 110 mila iscritti, nel 2009. Un boom mai visto. Ma soprattutto, dovuto alle nuove leve di «ragazzi partigiani», giovani e perfino giovanissimi che di guerra e Resistenza hanno solo sentito parlare, ma convinti di poter contribuire lo stesso alla causa per cui i partigiani doc lottarono e morirono: la democrazia e la Costituzione. Un 25 aprile in cui non mancano le polemiche. A Mogliano, in provincia di Treviso non si suonerà "Bella ciao". Anche se il sindaco leghista, Giovanni Azzolini nega: «Nessun problema a far suonare 'Bella ciao' alla banda comunale, se i partigiani lo chiedono», meglio, però, la 'Canzone del Piave', «che celebra il fiume sacro alla patria». Azzolini ricorda di «essere iscritto all'Anpi», non vuole sentire parlare di veti e davanti alle tv locali e sul web canta "Bella ciao" e parla di «fraint e n d i m e n t o ». Tuttavia, ritiene che l'inno al Piave è più adatto, «tanto più che proprio da Mogliano la Terza Armata partì per riconquistare l'Italia». Protesta l'Anpi, ricordando che 'Bella Ciao' è «canzone di tutti».

I partigiani snocciolano i numeri: a controbilanciare il 10% di iscritti, ovviamente in calo, di partigiani storici e di 'patrioti' delle Sap e delle Gap (le Squadre e i Gruppi di Azione Patriottica), uomini e donne che hanno doppiato da un pezzo gli 80 anni, c'è ormai un altro 10% di 'juniores' fra i 18 e i 30 anni, mentre il grosso degli iscritti (60-65%) appartiene alla fascia, ampiamente «postbellica», di 35-65enni. Una vera rivoluzione, anagrafica e culturale, resa possibile dal nuovo statuto che dal 2006 ha aperto le porte dell'Anpi a chiunque dichiari e sottoscriva di essere «antifascista». Nel giro di tre anni si è passati così da 83 a 110 mila iscritti, con un più 27 mila che, confrontato con il calo costante degli anni pre-riforma (dai 75 mila iscritti del 2000 se ne stavano perdendo centinaia l'anno), ha riportato l'entusiasmo nei comitati di tutta Italia.

Ma guai a pensare che la modifica dello statuto sia stata un escamotage anti-età: «Noi abbiamo combattuto per valori che tutti gli uomini hanno dentro, e che spetta a tutti difendere, in qualunque epoca» sostiene Silvano Sarti, 84enne protagonista della Resistenza fiorentina e presidente dell'Anpi di Firenze. Dove, nelle due sezioni più grandi della provincia, i giovani di 18-35 anni sono passati in tre anni da zero a 342, i 3560enni sono più di due terzi degli iscritti, e a capo di un'altra è stato da poco eletto il segretario più giovane d'Italia: «Chi si associa all'Anpi» spiega Sarti «semplicemente ama la Costituzione e vuole difenderla. E chi deve scendere per primo in piazza se non dei giovani con le gambe buone?». E che non si tratti solo di numeri, lo dimostra, spiega il vicepresidente dell'Anpi nazionale Armando Cossutta, quel che avviene nelle sezioni e nei comitati provinciali: «Pieni di gente di ogni classe sociale, di ogni professione, di ogni età, felici di avere uno spazio che i partiti non offrono più: limpido, pulito, senza arrivismi». La «nuova giovinezza» dell'Anpi «sembra figlia anche della crisi della politica». E il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha invitato l'intera giunta a iscriversi all'Anpi, con lui in prima fila.

Il sito dell’ANPI, Associazione nazionale dei partigiani d’Italia

L'ultimo esito elettorale del centrosinistra rende impossibile eludere ancora il problema: la fase iniziata quasi vent'anni fa con la crisi verticale della "repubblica dei partiti" non ha visto consolidarsi una ipotesi riformatrice adeguata alle esigenze del Paese. Le difficoltà e le divisioni del centrodestra non offuscano questo nodo ma rendono ancor più urgente affrontarlo. Mai, forse, le forze progressiste o di sinistra erano state così isolate - culturalmente, prima ancora che elettoralmente - rispetto al cuore produttivo della nazione, e incapaci al tempo stesso di offrire riferimenti e prospettive alle inquietudini di vecchie e nuove povertà e precarietà.

Non è un giudizio troppo drastico: a quale idea-forza ci si può oggi richiamare per convincere un elettore indeciso, un astensionista amareggiato, un giovane deluso? Sembra quasi impossibile, inoltre, che la sinistra sia stata simbolo, in passato, di buon governo a livello locale. Abbia saputo mettere in campo - non solo nelle regioni rosse - capacità organizzative e pragmatiche, abbia contribuito a colmare forti deficit di democrazia del paese. Sia apparsa a una larga parte degli italiani, negli ormai lontanissimi anni settanta, come l'unica forza in grado di garantire il cambiamento. Sembra impossibile, infine, che tutto questo sia progressivamente scomparso dalla scena già nella fase immediatamente successiva, e che negli anni novanta gli eredi di quell'esperienza abbiano buttato al vento la possibilità di offrire al paese devastato da Tangentopoli esempi e prospettive di buona politica. Le questioni da affrontare erano certo enormi: la costruzione di una nuova idea di sinistra era compito difficilissimo, ma al tempo stesso indifferibile, sin dagli anni settanta e ottanta. Crollati, ben prima del 1989, i riferimenti internazionali, entravano allora in crisi anche altri capisaldi della tradizionale cultura della sinistra. La "centralità della classe operaia", ad esempio, veniva simbolicamente travolta dalla "marcia dei quarantamila" d e l 1980, mentre già la crisi petrolifera del 1973 aveva affossato, assieme all'idea di uno "sviluppo senza limiti", anche le culture progressiste e industrialiste che su di essa si erano fondate.

Nell'incapacità di misurarsi appieno con questi nodi la sinistra di formazione comunista iniziò a perdere identità e profilo, e a far emergere quella carenza di progettazione riformatrice che gli anni dei governi di "unità nazionale", dal 1976 al 1979, portarono pienamente alla luce. A ciò si aggiunga, infine, la difficoltà di comprendere le colossali trasformazioni sociali e culturali degli anni ottanta.

È una sinistra già in difficoltà, insomma, quella che giunge alla crisi dei primi anni novanta: elettoralmente indebolita e culturalmente gracile. Contagiata almeno in parte - alla periferia, ma non troppo marginalmente - dalle derive che le indagini dei giudici portavano allora alla luce. Di fronte al crollo degli altri partiti era ormai il momento di un rinnovamento profondo, capace di coinvolgere energie pur presenti nella società civile: e invece quel crollo, che sostanzialmente risparmiò i differenti eredi del Pci, sembrò favorire a sinistra il permanere delle vecchie prassi partitiche. L'unica società civile che entrò in campo fu quella chiamata a raccolta dall'antipolitica di Umberto Bossi e - per altri versi - dal "partito azienda" costruito in pochi mesi da Silvio Berlusconi. A fronte di questo discutibile "nuovo" la sinistra si presentò sempre più come il "vecchio", il residuo della "partitocrazia". Neppure lo shock del 1994 fu salutare: l'immediato fallimento della prima alleanza fra Berlusconi, Fini e Bossi alimentò l'illusione di poter ancora godere di rendite di posizione, di non aver bisogno di un forte profilo culturale e programmatico.

Questa incapacità di rinnovamento, e di ricambio dei gruppi dirigenti, è stata il vero scoglio su cui si sono infrante le esperienze pur avviate, le energie pur messe in campo.

Il primo governo Prodi, ad esempio, è certamente stato il governo migliore degli ultimi quindici anni: perché, però, anche quel governo seppe solo in parte parlare al paese? E perché la sua ispirazione più feconda non trovò continuazione? Non era inarrestabile la marcia del centrodestra. Subito interrotta nel 1994, essa sembrò di nuovo giunta al capolinea nel suo primo quinquennio pieno di governo: e già nell'estate del 2004 gli stessi giornali del centrodestra parlarono apertamente di "crisi del berlusconismo " . I n quello stesso torno di tempo un centrosinistra frastornato dalla sconfitta elettorale del 2001 trovava nuova forza - quasi suo malgrado - grazie alle spinte che venivano dal basso: si pensi al movimento dei Girotondi, che ebbe culmine nella manifestazione nazionale a Roma dell'autunno del 2002. Una festa della democrazia, per usare le parole di allora di Eugenio Scalfari: «Un vigorosissimo ritorno in campo di moltissimi che per molte ragioni si erano tirati indietro». Si pensi anche alle energie coinvolte dalla Cgil nella difesa dello Statuto dei lavoratori, o all'amplissima mobilitazione per la pace dell'anno successivo, che vide mescolarsi culture molto diverse. Si pensi anche ad altre risorse che il centrosinistra ha pur avuto: dall'esperienza dei sindaci alla grande speranza delle "primarie". Queste stesse spinte vitali appaiono oggi largamente inaridite: di nuovo, perché? Senza dare risposte convincenti a questi interrogativi sarà difficile riaprire realmente la discussione sul futuro. E senza dar vita a nuovi cantieri di riflessione, in cui convergano molteplici energie intellettuali e differenti centri propulsivi, sarà difficile frenare l'involuzione di un centrosinistra che ha bruciato leader e ipotesi di ricambio, e perso progressivamente una reale capacità di rapporto con la sua stessa gente.

L'inversione di tendenza di cui si avverte il bisogno implica un impegno di lungo periodo ma il tempo a disposizione non è moltissimo: le divisioni del centrodestra e i progetti sempre più espliciti del premier rendono questo compito ancora più urgente.

Un saggio di prossima uscita e un intervento di Sergio Luzzatto ripropongono il modo in cui il Pci costruì "l´icona rossa della Resistenza"

Esiste il mito ed esiste la storia. Decostruire il mito significa restituire alla storia la sua complessità, non necessariamente rovesciare o negare i fatti storici da cui è scaturito il racconto epico. Con il titolo Italo, Alcide e il mito è uscito ieri sul Sole 24 ore un documentato articolo di Sergio Luzzatto dedicato a una "icona rossa della Resistenza", la storia dei sette fratelli Cervi uccisi il 28 dicembre del 1943 per ordine dei fascisti. Mettendo insieme due articoli di Calvino pubblicati nel dicembre del 1953, una celebre orazione del giurista fiorentino Piero Calamandrei e la strategia adottata allora da Togliatti, Luzzatto racconta meticolosamente la costruzione negli anni Cinquanta di un mito che ebbe l´effetto di "abbellire" o rendere organica al partito comunista una vicenda che organica non fu, conservando tratti di irregolarità e ribellione nascosti dal martirologio.

Prendendo spunto dalla riedizione de I miei sette figli di Alcide Cervi, una sorta di memoriale voluto da Togliatti nel 1955 (Einaudi, pagg. 100, euro 11), Luzzatto racconta come «da Italo Calvino in giù» l´intellighenzia comunista fece di tutto per celebrare come coerente «una storia certo eroica, ma parecchio complicata». Nei due o tre mesi intercorsi dall´inizio della Resistenza fino alla loro morte, «i fratelli Cervi furono tutto fuorché altrettante incarnazioni del rivoluzionario disciplinato», dandosi all´attività di sabotaggio «con una convinzione ai limiti dell´incoscienza». Non mancarono i contrasti tra loro e i dirigenti locali del Pci, «che li accusarono di comportarsi da "anarcoidi"». Furono Calvino e Calamandrei - continua Luzzatto - a trasformare i fratelli Cervi in santini, «sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l´isolamento politico durante la loro breve stagione da partigiani sull´Appennino». Questo comune innamoramento per la famiglia Cervi finì per incontrarsi nel dopoguerra con il desiderio di Togliatti di contrastare la propaganda anticomunista sul cosiddetto "triangolo della morte". La mitografia dei Cervi - scrive in conclusione Luzzatto - servì anche per avversare le "caricature infamanti" ai danni del partigianato rosso. Ma al di fuori della elaborazione leggendaria - sembra di leggere tra le righe - i fratelli Cervi rimangono figure gloriose, che funsero anche da esempio per gli altri combattenti.

Consapevole dei rischi connessi ad operazioni del genere, in tempi di egemonia "neorevisionista", Luzzatto chiarisce al telefono: «In questo caso la decostruzione del mito nulla toglie alla dimensione eroica dei Cervi, che rimane tutta. I revisionisti peggiori, cui diede voce anche Bruno Vespa, arrivarono a sostenere che fu il Pci a decretarne la morte. Io racconto come è nata una leggenda edificante, la passione condivisa da Calvino e Calamandrei. Non bisogna dimenticare che in quegli stessi anni i partigiani finivano sotto processo, e dalle galere uscivano i combattenti di Salò».

È nei primi anni Novanta che dalle memorie interne al Pci reggiano affiorarono i dissapori tra i Cervi e i comunisti. «All´indomani dell´8 settembre 1943», racconta Alessandro Casellato, autore di una monografia sui fratelli Cervi che uscirà da Einaudi, «essi furono artefici di iniziative autonome guardate con diffidenza dai comunisti. Li accusarono anche di anarchismo, ma alludendo a un´intemperanza di tipo esistenziale, non a una teoria politica». La creazione del mito, concorda Casellato, fu anche un risarcimento simbolico per la famiglia, che patì il dolore della perdita e una vita di durezze. «Ma è ora la stessa famiglia a porsi delle domande nuove».

La vicenda dei fratelli Cervi non è mai stata oggetto di un´accurata indagine storica. «Non certo per le censure del Pci», interviene Giovanni De Luna, studioso attento al rapporto tra storia e memoria. «Un vizio della storiografia resistenziale è stato quello di dare spazio agli scenari e al collettivo piuttosto che alle figure in carne d´ossa». La ricostruzione storica, aggiunge lo studioso, è alternativa al mito perché ricostruisce la complessità degli eventi. «Quella di transitare un personaggio dalla dimensione mitica alla conoscenza è un´operazione necessaria. Soltanto un paese avvelenato dal revisionismo può leggerla con malizia».

Postilla

Ci sono momenti in cui è necessario che la storia diventi mito, altri in cui è utile che il mito venga riletto come storia. Nei giorni nostri sciagurati, avvelenati dal revisionismo, è necessaria molta prudenza per fare il secondo passaggio.

Se non l'avete, qui potete scaricare e leggere, o rileggere, il libro di Renato Nicolai e Alcide Cervi.

Il PDL è un difficile tentativo di convivenza di tre diversi stili politici; tre modi di essere che, come la crisi interna di questi giorni dimostra, sono difficilmente armonizzabili. Tre sono le concezioni politiche o sedicenti politiche che lo compongono: una comunitaria-organicistica; una tradizionale istituzionale; e una patrimonialista.

La vittoria elettorale nelle recenti consultazioni amministrative ha marcato e ingigantito le differenze tra queste tre anime fino a destabilizzare la coalizione di governo. Una ragione che ha probabilmente portato a questo esito paradossale di indebolimento a seguito di una vittoria sta nella distribuzione geografica. Nel fatto cioè che non tutte e tre queste anime sono equamente distribuite sul territorio nazionale. Il gruppo che fa capo al presidente della Camera ha una forte presenza nel Centro-Sud, mentre la Lega ha una forte se non esclusiva rappresentanza al Nord. A mediare questo bipolarismo territoriale è Silvio Berlusconi. Ma che la mediazione non sia tale, e infatti sia l'opposto di ogni forma di mediazione, diventa chiaro qualora si presti attenzione alla ragione strutturale e non solo territoriale del sisma che sta sconquassando il Pdl: gli alleati hanno diverse, se non opposte, concezioni di che cosa debba essere la politica conservatrice e più in generale la politica e le istituzioni.

La Lega ha bisogno di radicamento per esistere e resistere: quindi non sopporta facilmente la competizione sul proprio territorio. Nei blog del movimento giovanile dei Padani si trova ripetuta l'espressione "fratelli su libero suolo". "Libero suolo" ha una doppia implicazione: denota una "libertà da" ovvero contro chi cerca, non appartenendovi, di insediarvisi e una "libertà di" esprimere liberamente le proprie energie. Il "suolo" è lo spazio vitale che contiene e alimenta la libertà dei leghisti, un luogo abitato non tanto da eguali nei diritti (un valore molto poco compreso dai fedeli della Lega) ma da simili nella cultura e nei supposti valori; persone che si riconoscono con una semplice occhiata, che si odorano identici, che si fidano solo se non ci sono estranei tra loro - e, si badi bene, gli estranei non sono soltanto gli immigrati, ma possono esserlo anche gli alleati di coalizione (non è un caso che pochi giorni dopo la vittoria elettorale, Umberto Bossi si sia prenotato per il sindaco di Milano: la "nostra terra", la "nostra gente", il "nostro sindaco" e, come abbiamo anche sentito, le "nostre banche") . Il gruppo che si riconosce in Fini esprime al contrario una politica istituzionale nazionale, un approccio tradizionale alla forma Stato che è per questo più facilmente comprensibile da parte di chi mastica politica secondo le regole di uno Stato moderno di diritto. Per esempio, l'idea che se si vuole approdare a una repubblica presidenziale occorra cambiare la legge elettorale è quanto di più ragionevole e sensato ci possa essere per chi si occupa di politica istituzionale: nulla di trascendente, eppure così impossibile da accettare e comprendere da parte di Berlusconi!

E qui veniamo alla terza componente della destra italiana, che in effetti "componente" non lo è proprio, perché Berlusconi è non soltanto l'ideatore del Pdl ma ne è proprietario a tutti gli effetti e per questa ragione non può oggettivamente comprendere le ragioni istituzionali. Mentre può forse meglio comprendere quelle "organiche" territoriali della Lega perché, in fondo, sono mosse da una logica monopolistica che ha comunque a che fare con un linguaggio "proprietario" (del suolo).

Quale che sia l'esito di questo movimento tellurico è evidente che almeno una cosa dovrebbe essere diventata chiara a chi si è illuso di godere "da pari" dei privilegi promessi da un'alleanza con Berlusconi: che gli alleati sono tali solo se e perché hanno una indipendenza e sono partner. Ma non si può essere partner in un partito che è proprietà di qualcuno; anzi, in questo caso ogni tentativo di ridiscutere le forme dell'accordo è visto e trattato come un insolente attacco al leader. Berlusconi ha un'etica monolitica, e conosce un linguaggio e uno solo: quello del comando padronale. È così connaturato in lui questo stile che egli non sa nemmeno distinguere fra Istituzioni dello Stato e dipartimenti economici del suo impero: se Fini dissente, minaccia di licenziarlo. È difficile pensare quindi a come si possa soltanto pensare in termini di trattativa, mediazione, accordo - anche in questo Fini dà il segno di parlare una lingua che il presidente del Consiglio non conosce: quella della politica come funzione che chi svolge non possiede. La cultura ‘politica’ del leader del Pdl è per tanto di destra in senso molto improprio perché è semplicemente patrimonialista. Si leverà qualche voce meno stentorea a dire forte che lo Stato non è a sua disposizione perché non è roba sua?

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