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Che cos’è oggi il ceto medio italiano? Tre elementi ci colpiscono subito. In primo luogo l’incessante crescita numerica. In base ai dati forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l’autore raggruppa le principali categorie dei piccoli imprenditori, degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti rappresentavano nel 1881 il 23,4% della popolazione, mentre nel 1993 toccavano il 52%. Oggi secondo le stime si attestano attorno al 60%...

Accanto a questo primo, grande fatto strutturale ve n’è un secondo: il livello sempre più alto di istruzione che li caratterizza. Nel 2001... gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati il 63,4% per cento della popolazione. Questa rivoluzione scolastica non colma il divario esistente rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese può vantare un ceto medio sempre più esteso e istruito. Il terzo elemento strutturale riguarda la composizione interna dei ceti medi. L’Italia ha una quota di occupazione indipendente (o lavoro autonomo) molto alta (il 26,4% dell’occupazione totale nel 2006) più elevata di qualsiasi altro paese europeo. Ma attenzione: in questi anni i media e la destra politica hanno tentato con martellante insistenza di presentare il mondo del lavoro autonomo in generale e quello del piccolo imprenditore in particolare come predominante nel paese... In realtà, il lavoro autonomo è in lento declino dal 2003, costituisce solo un quarto del lavoro complessivo in Italia e meno della metà dell’occupazione dei ceti medi presi nel loro insieme. Esso cela in sé un gran numero di figure diverse – non solo quella del piccolo imprenditore dinamico ma anche il vasto e perdurante mondo dei commercianti e degli artigiani, nonché moltissimi ‘autonomi precari’, specialmente giovani, che hanno la partita Iva ma non un’ occupazione stabile...

Negli ultimi quindici anni il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi uno dall’altro... Chiamerei l’uno il ceto medio riflessivo, capace di bridging (cioè capacità di costruire ponti verso altri) e, in termini occupazionali, caratterizzato dal lavoro dipendente; l’altro il ceto medio concorrenziale, tendente al bonding (cioè tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo) e prevalentemente dedito al lavoro autonomo.

Partiamo con la prima componente, il ceto medio riflessivo. In tutta l’Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e tra gli assistenti sociali, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell’informazione e della cultura... Ad ingrossarne le file è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud... Questa componente dei ceti medi contemporanei in apparenza è dotata di notevole potenziale civico. Se guardiamo il caso italiano vediamo come l’opposizione al regime di Berlusconi provenga in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell’autunno 2002, fino alle dimostrazioni organizzate attraverso internet dal ‘Popolo Viola’ del dicembre 2009 e di ottobre 2010, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime... Non bisogna in nessun modo esagerare le capacità civiche di questa parte dei ceti medi, né la loro consapevolezza di sé come gruppo sociale... Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle proteste e soprattutto allo scarso incoraggiamento proveniente dal ceto politico di sinistra, perdono slancio e speranza...

Vengo ora alla seconda agglomerazione – i ceti medi – prevalentemente dediti al lavoro autonomo e fortemente orientati al mercato... Storicamente una componente di spicco di questo mondo sono sempre stati i distretti industriali italiani, apprezzati da numerosi studi internazionali e considerati anche portatori di un specifico modello di coesione sociale... Viene da chiedersi, però, quanto questo quadro sia ancora valido nel Nord Italia, di fronte alla crescita della Lega... Nella Lombardia e nel Veneto, se non nella Toscana e nell’Emilia-Romagna, si è sviluppato un modello diverso, fortemente basato sul bonding territoriale e sull’appartenenza etnica, sullo sfruttamento di una sottoclasse di immigrati, sulla scarsa presenza di equità sociale e su una forma di democrazia fortemente personalizzata e di partito. Davanti a quest’onda gli studiosi devono dirci cosa resta dell’ethos dei vecchi gloriosi distretti industriali...

Qual è l’apporto del ‘Berlusconismo’ a questo quadro generale?... La singolarità del ‘Berlusconismo’ risiede nell’uso particolare che egli ha fatto delle opportunità che il degrado democratico degli anni ‘80 gli ha offerto. In modo precoce (1984) ha potuto stabilire un controllo mediatico sulla televisione commerciale unico in Europa, senza la sorveglianza di un qualsiasi garante pubblico, e ha potuto utilizzare questa libertà per reiterare incessantemente determinati valori e stili di vita, e per trascurarne o denigrarne altri... Questo sfrenato potere mediatico è il primo elemento del Berlusconismo. Un secondo è il comportamento di Berlusconi nei confronti dello Stato e della sfera pubblica. Qui riscontriamo una forte diversità rispetto alla signora Thatcher. Quest’ultima, per quanto radicale, non mise mai in dubbio le istituzioni e le pratiche della democrazia britannica. Berlusconi, al contrario, come dimostra anche la sua famosa videocassetta del 26 gennaio 1994, quella della ‘discesa in campo’, ha sempre considerato la sfera pubblica una zona di conquista, di occupazione, di trasformazione... L’ultimo apporto del Berlusconismo... è l’esplicito appoggio a un elemento dei ceti medi – quello del lavoro autonomo e concorrenziale – a spese dell’altro, quello più riflessivo e basato sul lavoro dipendente. Berlusconi blandisce il primo con tutta una serie di carezze - agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio... All’altro elemento dei ceti medi, il ‘Berlusconismo’ riserva solo schiaffi – lo smantellamento progressivo della scuola pubblica, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali, gli stipendi in calo verticale in termini di potere d’acquisto. Così - e questo forse è la sua eredità più dannosa - Berlusconi contribuisce in modo drammatico a spaccare il ceto medio, e ad incrementare il livello di incomunicabilità tra le sue due componenti principali. Ogni tanto mi sembra che i moniti ottocenteschi di Disraeli circa il rischio di creare due Nazioni siano di scottante attualità per l’Italia contemporanea...

Questo testo è tratto dal discorso che terrà oggi a Firenze, al convegno "Società e Stato nell’era del berlusconismo".

Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un’intrusione nel nostro modo d’essere e di comunicare, oppure come un’emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce.

In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma – molto più grave – è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.

«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall’alto. Dal basso, vuol dire dall’interno di un’esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all’assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all’idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell’aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell’aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (....) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.

C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell’umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (....)

Quest’idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L’invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch’esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell’altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d’ironico. Ma c’è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell’industria o dell’accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell’uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.

La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d’avventura nuovi di zecca. Tutto dev’essere reso «nuovo», generato a un’altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall’alto, dove c’è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l’impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.

«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall’inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d’egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (...).

Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d’aiuto, il soccorso, la chiamata, l’altruismo, le armi. C’è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo ( vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L’investitura elettorale è la risposta all’annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell’avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d’un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall’alto che incontra un bisogno e un’invocazione dal basso.

«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l’annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L’Italia è il Paese che io amo». Così anche l’amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell’imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L’Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali. L’Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d’amore, suona falsa perché è obbligata e l’amore obbligato che cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?

E se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d’amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate». Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un’Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare» ( L’Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all’Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.

«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l’appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell’assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell’assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (...) Il predecessore dell’assoluto è il «categorico» d’un tempo, quando non c’era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell’agone politico. Ciò che l’assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L’assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l’assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c’è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (....)

«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch’essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell’elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L’idea che la vita politica si basi su un legame sociale che – certamente – implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l’esprime. L’Italia è «l’azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell’azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».

La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l’Italia. (.....) Ora, l’ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l’oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell’agire. (....)

Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell’espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d’opposizione (...) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l’efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.

«Politicamente corretto» (....) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l’ha inaugurato e anzi, all’inizio, l’ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d’amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.

SINISTRA IN CAMPO
di Norma Rangeri

A ridosso della probabile crisi di governo, sotto i tempi stretti di elezioni anticipate, quando la democrazia fatica a reggere la crisi di sistema, Vendola e Bersani si incontrano e mettono insieme due debolezze (un leader senza partito e un partito senza leader), per farne una forza. Stringono l'alleanza per un «governo di scopo» funzionale al cambiamento della legge elettorale. Ipotesi all'inizio esclusa dal governatore pugliese, che invece ora mostra di crederci.

Il segretario del Pd e il leader di Sinistra e Libertà siglano il «patto di consultazione per il programma» e alle primarie, qualcosa di meno di un accordo di governo, molto di più di cartello elettorale. È la sinistra che si muove e fa il primo passo.

Più che un cantiere di ristrutturazione o di rifondazione (se la parola non fosse stata nel frattempo consumata) servirebbe un atto di fondazione dell'alternativa. Per sostituire alla retorica del berlusconismo un progetto nazionale. Per capire cosa dire sulla pace e sulla guerra, sul nucleare, sulla lotta di classe ai tempi di Marchionne, sul pubblico e sul privato, sull'immigrazione, sulla rappresentanza delle domande che nascono dalla crisi quando il distacco tra politica e società ha superato i livelli di guardia e un astensionismo anomalo minaccia la tenuta istituzionale. Per riunificare il paese.

Un vasto programma senza il quale, a questo tornante della crisi politica, si rischia di perdere definitivamente e ritrovarsi un parlamento che elegge Berlusconi alla presidenza della repubblica. Un finale di partita che alla fine ha rotto il centrodestra e fatto uscire allo scoperto la Confindustria contro il governo.

Le forze della sinistra prendono l'iniziativa. Ciascuno nel suo campo. Bersani deve rendere credibile l'alternativa, coltivare il nuovo Ulivo con un partito che ha perso forza di attrazione fino al punto di vederlo scendere nei sondaggi proprio quando il centrodestra è lacerato dalla guerra tra i gruppi di interesse che lo compongono. Vendola deve stare molto attento a non immaginare fughe solitarie lasciando dietro di sé minoranze politiche e movimenti destinati a restare inascoltati e a perdere se non si costruisce uno sbocco politico.

Un passaggio complesso, «storico», come lo ha definito Bersani ieri quando, insieme a Vendola, è sceso in strada a dare l'annuncio ai giornalisti. È un primo passo (persino in ritardo), di buon augurio se questo pranzo romano allude a un ricco menu ricostituente, necessario per rianimare e nutrire l'esangue sinistra.

INCONTRO

La scelta di Bersani

di Daniela Preziosi



Da oggi abbiamo il dovere di parlarci per mettere in campo una strategia di salvezza per il paese. Dobbiamo cercare un punto di unità per impegnarci insieme a dare un'alternativa, una speranza all'Italia. Il segretario del Pd smette di aspettare l'Udc e stringe un patto di consultazione con Vendola. Primarie e Nuovo Ulivo aperto a Idv e verdi, chiuso ai comunisti. Con Casini intese in questo parlamento

Un Bersani rilassato, un Nichi Vendola più teso che via via si scioglie, infervorandosi sul tremontismo, i tagli alle regioni, il berlusconismo e i suoi pericolosi colpi di coda. La 'pace' fra il leader del Pd e il presidente della Puglia si stipula davanti a un piatto di pesce crudo, menù mediterraneo che però concede gioie misurate. Non c'è molto da festeggiare, la strada della prossima coalizione è tutta salita, figuriamoci quella della vittoria. Ma Bersani - lo dicono più i suoi avversari che i suoi amici - è tipo da affrontare la strada un passo alla volta.

E stavolta il passo l'ha fatto. Accentando l'incontro con il leader di Sinistra ecologia e libertà, pazientemente costruito da Francesco 'Ciccio' Ferrara, già responsabile dell'organizzazione del Prc e ora di Sel, ma che l'entourage di Bersani definisce «il più bersaniano dei vendoliani e il più vendoliano dei bersaniani». La richiesta era datata settimane, ma si era resa urgente dopo quel paragone del Pd come «anime morte», in un'intervista a Oggi, che poi Vendola ha più volte smentito. A Bersani non è piaciuto. E da Varese ha avvertito: «Chi tratta male noi si terrà Berlusconi».

Invece si sono trovati d'accordo, soprattutto sul metodo, che è quasi tutto. Sulla necessità di chiudere col tremontismo, sul fare qualcosa per «salvare il paese», e cioè costruire una «grande piattaforma di alternativa». Vendola incassa un impegno sulle primarie di coalizione, che si faranno «quando avremo pronta una proposta per il paese» non necessariamente a crisi di governo aperta. E un «patto di consultazione» che in sostanza è l'abbozzo di una discussione programmatica.

Bersani incassa il via libera su un «governo di scopo», dove lo scopo è la legge elettorale e solo quella, visto che Vendola di governi tecnici non vuole sentire parlare. Pareggiano sul Nuovo Ulivo: Bersani lo vuole costruire con le forze del centrosinistra, Idv, socialisti, verdi, presumibilmente anche radicali, con i quali - i primi tre - si incontrerà nei prossimi giorni. Ma anche in rapporto con le parti sociali, sindacati, Confindustria, associazioni, alle quali presto spiegherà il senso della «svolta» programmatica del Pd. Vendola invece di entrare nel Nuovo Ulivo non ci pensa: «Non mi interessa la replica di formule del passato, mi interessa tessere la tela del cambiamento». Ma sostanza è quella: un nucleo di forze unite da un programma riformista.

Poi c'è la delicata partita dell'Udc. E qui sta il senso politico dell'incontro di ieri. Bersani si rivolge prima ai suoi alleati di centrosinistra, ai quali chiede di non mettere veti (ma Sel non ne mette, tranne che su Fini). Poi, da leader, si rivolgerà all'Udc. Ma è un accordo difficile, a cui «lavorare con pazienza». E che in gran parte dipende dall'offerta politica a cui l'Udc si troverà davanti al momento del voto. Per ora i punti di contatto sono i fondamentali: legge elettorale, difesa del parlamento e della democrazia. Un rapporto si può costruire, ma anche no. E dopo gli inviti lanciati da Varese lo scorso week end, e gli ammonimenti a non replicare le divisioni del '94, ieri Bersani ha scelto di non restare appeso alle trame centriste, né dare l'idea di essere «l'utile idiota di qualcuno» (ancora Varese).

Non è un caso che le reazioni dall'Udc siano state agre: «Bersani e Vendola pranzano insieme a Roma. Vogliono rifare il Pci?», dice Rocco Buttiglione, veterano di accordi a pranzo. L'Udc guarda altrove: «Dobbiamo lavorare a una nuova forza. Fini potrebbe unirsi se crede, Rutelli penso che verrà. Certo sono fuori dai nostri schemi l'Idv e la Sinistra Alternativa».

E invece, e non è un caso, i centristi Pd accolgono benone l'incontro che consolida loro un ruolo nel partito, nel lato opposto della sinistra. Per Beppe Fioroni «l'incontro sancisce il principio delle primarie», per Paolo Gentiloni è stato utile anche se «il rapporto con il centro è fondamentale». No comment da Marco Follini, ma l'ex Udc Stefano Graziano: «La nostra battaglia per un centro forte nel Pd è appena iniziata». Fra gli alleati, freddini i verdi e l'Idv. E invece Paolo Ferrero, Prc, incalza. Vendola, più che Bersani: «Proponiamo alle forze di sinistra che saranno presenti al corteo del 16 ottobre, di concordare le proposte con cui aprire in confronto col Pd: dal ritiro delle truppe dall'Afganistan ad un intervento pubblico che tuteli i posti di lavoro e sconfigga la precarietà».

VENDOLA: SI AL GOVERNO DI SCOPO

Il centrosinistra deve cambiare

intervista di Iaia Vantaggiato



Giusto cancellare il porcellum. Ma ci siamo chiariti, anche su Tremonti. Non sono entrato nel nuovo Ulivo e non mi propongo di entrarci, non mi interessa la replica di formule del passato. A me interessano le risposte da dare ai grandi problemi del paese e vedere se il centrosinistra è in grado di capovolgere la cultura berlusconiana



Pace fatta con Bersani e «caso Boccia» definitivamente archiviato?

Non ci siamo mai fatti la guerra, in realtà, ma ieri abbiamo provato a uscire da quella bolla mediatica che rende difficile il dialogo e brucia un'energia da utilizzare nel cantiere dell'alternativa. Abbiamo voluto abbattere insieme un muro di sospetti, polemiche e risentimenti che abitano un po' in tutti i luoghi del centrosinistra.

L'asse del nuovo centrosinistra o l'avvio di un più generico processo unitario?

Mettere in campo un processo unitario è decisivo. L'unità più larga possibile di tutti coloro che intendono seppellire il berlusconismo e inaugurare una nuova stagione. L'unità è condizione indispensabile ma non sufficiente per vincere. L'altra condizione è la sfida innovativa, un'autentica scossa elettrica che aiuti ciascuno ad uscire dalle proprie pigrizie ideologiche e dalle proprie rendite di posizioni. Guai se apparissimo non il centrosinistra del futuro ma una coalizione del passato.

D'Alema già pensava di allearsi con Casini. Gliel'hai fatta un'altra volta?

Io non ragiono in questo modo, non faccio politica disseminando la strada di trabocchetti e immaginando di pugnalare un mio alleato. Credo piuttosto che sia interesse generale quello di cominciare a camminare concretamente verso l'obiettivo di restituire politicamente una speranza a questo nostro paese così sofferente e smarrito.

Così tu porti a casa le primarie e Bersani il «governo di scopo».

Insieme portiamo a casa la condivisione di una grande inquietudine. Crisi sociale e crisi democratica, acutissime e intrecciate, prospettano un autunno incandescente. L'Italia è un paese danneggiato nel suo spirito pubblico. La destra ha sfigurato diritto, reddito e speranze di intere generazioni.

Qui però parliamo di riforma elettorale.

Non è sfuggire dalla realtà concentrarsi sugli effetti nefasti dell'attuale sistema elettorale. Il «porcellum» ha realizzato un equilibrio perfetto tra riduzione del pluralismo e ingovernabilità. È interesse generale ritrovare un punto d'equilibrio tra la rappresentanza democratica e il diritto a governare.

Non «resta» che trovare una maggioranza parlamentare.

È necessario un governo che lavori solo su quest'obiettivo, un governo di scopo appunto. E per realizzarlo ci vorrebbero la volontà, la forza e il coraggio di trovare una nuova maggioranza in parlamento.

Sel in Parlamento non c'è. Ma in compenso ci sei tu che godi di grande popolarità nella base del Pd. Insomma diciamo che hai dato una mano a Bersani.

Dobbiamo ragionare non per posizionamenti simbolico-ideologici o secondo il mero calcolo delle convenienze di bottega, ma sulla base di ciò che è utile al paese. L'idea che abbiamo condiviso è che le primarie non sono un gioco di palazzo ma un inizio di riconnessione tra politica e società. Sono il terreno sul quale si misura la capacità di innovazione di ciascuno di noi.

Scompare la sinistra radicale o si radicalizza il Pd?

Il ragionamento sulla democrazia mutilata provoca conseguenze politiche anche interne allo schieramento di centrosinistra. Io penso che ritornare con una certa fissità alla disputa moderati-antagonisti rischi di essere soltanto una riproposizione delle proprie biografie più che un modo per andare alla radice dei problemi. Bisogna rendere più di merito il confronto tra le diverse anime del centrosinistra e tutti quanti, a cominciare da me, siamo chiamati a uno sforzo di innovazione culturale.

Tu, sinora, ti eri sempre dichiarato contrario a un governo di transizione.

E infatti parliamo di «governo di scopo». Io non ho mai osteggiato l'idea della riforma elettorale e sarebbe curioso che dopo un'intera vita di militanza proporzionalista venissi considerato il difensore di questo sistema elettorale. Piuttosto mi terrorizzava l'idea che un governo di transizione, inglobando altri obiettivi come la lotta alla crisi economica, potesse assumere il tremontismo come codice oggettivo e naturale.

Ancora Tremonti?

Non è la medicina ma la malattia di cui soffre l'Italia. Anche su questo punto con Bersani ci siamo molti chiariti.

Il patto di consultazione prelude alla possibilità di incontri periodici tra te e Bersani?

Intanto spero preluda a un incontro in piazza, sabato, al fianco della Fiom.

E poi?

Abbiamo bisogno di passare da un'intesa metodologica a una comunanza di intenti dal punto di vista del cantiere. Patto di consultazione significa come rimettiamo il centrosinistra in rapporto alla battaglia per la scuola pubblica, alla difesa del diritto al lavoro, ai soggetti sociali che stanno soffrendo inclusa la piccola impresa.

E se Idv alle primarie candida De Magistris?

Mi va benissimo. Le primarie non sono lo strumento dei furbi ma il mezzo per riaccendere una passione politica che possa proiettare il centrosinistra al successo.

Il mese scorso due eventi cruciali hanno segnato il mondo dei partiti socialdemocratici. In Svezia il 19 settembre quel partito ha subito una forte sconfitta elettorale, ottenendo il 30,9% dei voti, il risultato peggiore dal 1914. Dal 1932, aveva governato il paese per l'80% del tempo ed è la prima volta da allora che un partito di centrodestra è stato riconfermato alle elezioni. E per di più, per la prima volta è entrato nel parlamento svedese un partito di estrema destra, contrario all'immigrazione.

Perché la cosa è tanto drammatica? Nel 1936, Marquis Childs scrisse un libro famoso dal titolo Sweden: The Middle Way. Childs presentava la Svezia sotto il regime socialdemocratico come la virtuosa terza via tra i due estremi rappresentati dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica. In Svezia la redistribuzione egualitaria si combinava con scelte democratiche nella politica interna. Ed è stata, a partire dagli anni Trenta, il prototipo della socialdemocrazia, la sua bandiera. E così è stato fino a relativamente poco tempo fa. Ma questo non è più vero.

Intanto in Gran Bretagna, il 25 settembre, Ed Miliband è arrivato da una posizione di minoranza ad assumere la direzione del partito laburista. Sotto Tony Blair i laburisti avevano avviato una riforma radicale del partito: «The new Labour». Blair aveva a sua volta sostenuto che il partito avrebbe dovuto imboccare una terza via - non tra capitalismo e comunismo, ma tra quello che un tempo si definiva il programma socialdemocratico di nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia e il dominio incontrollato del mercato. Una via di mezzo ben diversa da quella imboccata dalla Svezia a partire dagli anni Trenta.

La scelta dei laburisti, che hanno preferito Ed Milliband al fratello maggiore David, sodale di Tony Blair, è stata interpretata in Gran Bretagna e altrove come un ripudio di Blair e un ritorno ad un partito laburista più "socialdemocratico" (più svedese?). Ma nella prima conferenza tenuta al convegno dei Labour qualche giorno dopo, Ed Milliband si è sbracciato a ribadire la sua posizione "centrista". Ha però comunque condito le sue affermazioni con allusioni all'importanza della «giustizia» e della «solidarietà». E ha dichiarato: «Dobbiamo liberarci dai vecchi schemi di pensiero e schierarci con coloro che credono che nella vita ci sia qualcosa di più della riga finale di un bilancio».

Cosa ci dicono queste due elezioni sul futuro della socialdemocrazia?

La socialdemocrazia - come movimento e come ideologia - viene convenzionalmente (e forse correttamente) fatta risalire al "revisionismo" di Eduard Bernstein nella Germania di fine Ottocento. Bernstein sosteneva che una volta ottenuto il suffragio universale (ovvero il suffragio universale maschile), gli «operai» avrebbero potuto usare il voto per fare entrare il loro partito, cioè il partito socialdemocratico (Spd), al governo. Una volta ottenuto potere in parlamento i socialdemocratici avrebbero potuto «attuare concretamente» il socialismo. E dunque, concludeva, parlare di insurrezione come modo per andare al potere era inutile e insensato.

La definizione data da Bernstein di socialismo era per molti versi poco chiara, ma ai tempi sembrava comunque includere la nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia. La storia della socialdemocrazia come movimento dopo di allora è stata quella di un allontanamento lento ma continuo dalla politica rivoluzionaria verso un orientamento fortemente centrista.

I partiti ripudiarono il loro internazionalismo nel 1914 allineandosi a sostegno dei rispettivi governi durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra, poi, quegli stessi partiti si allearono con gli Stati Uniti nella Guerra Fredda contro l'Unione Sovietica e nel 1959, al convegno di Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca ripudiò totalmente il marxismo, dichiarando che «da partito della classe operaia, il Partito Socialdemocratico era diventato un partito del popolo».

Quello che l'Spd tedesco ed altri partiti socialdemocratici avevano finito per rappresentare allora era il compromesso sociale che andava sotto il nome di "welfare state". In quell'ottica, nel periodo della grande espansione dell'economia-mondo durante gli anni Cinquanta e Sessanta, fu un successo. Fino ad allora era rimasto un "movimento", nel senso che quei partiti potevano contare sul sostegno attivo e sulla fedeltà di un gran numero di persone nel loro paese.

Quando però l'economia-mondo entrò nel lungo periodo di stagnazione iniziato negli anni Settanta e il mondo si avviò alla globalizzazione neoliberale, i partiti socialdemocratici andarono oltre, passando dalla difesa del welfare state al sostegno di una variante più morbida del primato del mercato. Ovvero al "new Labour" di Blair. Il partito svedese resistette a quella direzione più a lungo degli altri, ma alla fine dovette a sua volta soccombere.

La conseguenza di tutto ciò fu però che il partito socialdemocratico smise di essere un "movimento" capace di suscitare la forte adesione e il sostegno di larghe masse e divenne una macchina elettorale cui mancava la passione del passato.

Se la socialdemocrazia non è più un movimento, continua però ad essere una scelta culturale. Gli elettori ancora aspirano ai benefici del welfare state e continuano a protestare man mano che li perdono, cosa che oggi succede con una certa regolarità.

Infine, va detta una parola sull'ingresso del partito xenofobo di estrema destra nel parlamento svedese. I socialdemocratici non sono mai stati strenui difensori dei diritti delle "minoranze" - etniche o di altro tipo - e ancora meno dei diritti degli immigrati; anzi in generale sono stati il partito della maggioranza etnica del rispettivo paese, e hanno difeso il loro territorio contro altri lavoratori, visti come una minaccia per occupazione e salari. Solidarietà e internazionalismo sono stati slogan utili in assenza di concorrenza esterna. Problema che la Svezia non ha dovuto affrontare fino a tempi molto recenti.

Quando poi si è presentato, un segmento dell'elettorato socialdemocratico si è semplicemente spostato a destra. Allora, la socialdemocrazia ha un futuro? Come scelta culturale sì, come movimento no.

traduzione di Maria Baiocchi, Copyright by Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global

Con una fantasia degna di Charles Perrault, l’autore della celebre fiaba di Pollicino, nella manovra economica di questa estate è comparso un bel grimaldello per aggirare le gare pubbliche. Il sistema è semplice: d’ora in poi i dirigenti «generali» dello Stato, per intenderci quelli più alti in grado come i capi dipartimento, potranno dichiarare «segreti» gli appalti e le forniture di beni e servizi per la pubblica amministrazione. Gli basterà fornire un motivo plausibile.

Il ricorso alla «segretazione» delle opere e dei contratti pubblici è diventata un’abitudine sempre più frequente. Ci sono ragioni di sicurezza, certamente, che riguardano per esempio gli apparati di polizia, gli 007, alcuni settori militari. Spesso, però, la scusa serve a imboccare scorciatoie immotivate. Qualcuno sa spiegare perché i lavori di ristrutturazione di un palazzetto del Senato che dovrebbe ospitare uffici degli onorevoli, come quello di Largo Toniolo, a Roma, debbano essere eseguiti con procedure «segretate»? O perché i cittadini italiani non possano conoscere i particolari del contratto per i vaccini contro l’influenza A che ci sono inutilmente costati oltre 180 milioni di euro, contratto dichiarato «segreto», come ha stigmatizzato la Corte dei conti?

La verità è che questa corsia preferenziale consente di evitare le gare ordinarie e aggirare vincoli ambientali e paesaggistici. Per non parlare dei controlli: le opere «segretate» non sono sottoposte alla vigilanza dell’authority. Non è un caso che quando quella norma era in discussione in Parlamento, l’autorità per i contratti pubblici allora presieduta da Luigi Giampaolino non mancò di manifestare la propria preoccupazione. E non perché l’idea di trasferire dalla politica all’amministrazione la responsabilità di stabilire se un certo appalto necessita della segretezza sia campata per aria. Anche se poi, com’è intuibile, iniziative del genere difficilmente verrebbero assunte senza l’avallo politico. Il fatto è che, senza uno strumento che consenta di tenere sotto controllo questa delicatissima materia, questo potrebbe amplificare a dismisura un fenomeno che ha già suscitato, per le sue degenerazioni, l’attenzione dell’Unione europea, dove si sta preparando qualche contromisura. Che però non potrà purtroppo risolvere un altro grosso problema: quello della trasparenza di leggi come questa. E qui entrano in gioco Pollicino e le sue molliche di pane.

La norma che consente ai dirigenti generali dello Stato di «segretare» i contratti pubblici è il comma 10 dell’articolo 8 del decreto legge 78/2010 convertito nella legge 122 del 30 luglio scorso. Dice così: «Al fine di rafforzare la separazione fra funzione di indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa, all’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dopo la lettera d), è inserita la seguente: “d bis) – adottano i provvedimenti previsti dall’articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n.163, e successive modificazioni». Impossibile capirci qualcosa, senza seguire le molliche. Prima mollica: il decreto legislativo 165 del 2001 è quello che stabilisce i poteri dei «dirigenti di uffici dirigenziali generali». Seconda mollica: il decreto legislativo 163 del 2006 altro non è che il codice degli appalti nel quale si disciplina la «segretazione» delle opere e dei contratti. Chiaro, no? Tanto valeva «segretare» pure la legge...

Vent´anni dopo nella sinistra italiana non è come nei romanzi, non è cambiato quasi nulla. «La svolta dell´89, la fine del Pci nel ‘91, dovevano essere l´inizio di una storia nuova della sinistra italiana che poi non si è realizzata. Meglio, è stata impedita con ogni mezzo dalla nomenclatura». L´analisi di Achille Occhetto, l´ultimo segretario del Pci, è spietata. «Esasperata, direi. E´ esasperante una sinistra che impiega quattordici anni per tornare all´Ulivo, ucciso nella culla nel ‘96 per una manovra di palazzo. È come se il coraggio si fosse esaurito tutto alla Bolognina. Ma forse è vero che già allora, nel modo in cui i dirigenti affrontarono il dibattito, erano affiorati antichi vizi, un certo opportunismo»

Non sarà per caso pentito della svolta?

«Al contrario, ma tutto avvenne troppo in fretta. Io pensavo a un cambiamento epocale, a una grande svolta libertaria della sinistra. Non mi accorsi che il gruppo dirigente la considerava soltanto il male minore, un astuto stratagemma per mettersi al riparo e anzi garantirsi l´ingresso nei salotti buoni. Il lutto per la fine del comunismo venne elaborato con cinismo, come un via libera alla pratica del peggiore compromesso»

L´immagine era quella di un leader solitario, circondato dallo scetticismo, pure non dichiarato, degli altri dirigenti. Era così?

«Sì, quella scelta fu compiuta in parte in solitario, sfruttando in fondo il mito dell´obbedienza al capo tipica dei partiti comunisti. Pochi erano davvero convinti, uno di questi era Fabio Mussi. Molti altri si fermavano alla superficie, non dico al marketing, al cambio del nome e del simbolo, che infatti è stato poi replicato senza cambiare la sostanza»

Chi era i padri culturali della svolta?

«I grandi del pensiero libertario italiano, da Gramsci ai fratelli Rosselli, Gobetti, Salvemini. Fra i politici dell´epoca Brandt e Olof Palme, i maestri del pacifismo e dell´ecologismo. Ma anche qui m´illudevo. Nei fatti ha trionfato un vecchio modello togliattiano, l´ossessione del potere per il potere»

In quello che lei considera il fallimento della svolta è stata però decisiva la rovinosa sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» nelle elezioni del ‘94.

«Ma la responsabilità di quella sconfitta era in gran parte dei centristi. L´ex Dc di Martinazzoli non accettò di far parte di una coalizione di centrosinistra. Come avrebbe dovuto fare due anni più tardi. Rimasero aggrappati alle macerie del Muro di Berlino, come del resto tutti in Italia continuano a fare, a destra e a sinistra. Conviene. Non esiste un paese dove la vita pubblica, al di là delle rutilanti apparenze, sia più bloccata su vecchi temi, oltre che vecchie facce. E non è soltanto colpa di Berlusconi, la sinistra ha dato il suo contributo»

Non è un giudizio ingeneroso nei confronti dei suoi ex compagni di partito, sono tutti conservatori mascherati?

«Ma guardiamo i fatti. Chiunque si sia allontanato dalle pratiche della nomenclatura, chiunque fosse considerato per un verso o per l´altro fuori dagli schemi, è stato usato per la sopravvivenza e fatto fuori appena possibile. Non parlo del mio caso, sarei un narcisista. Ma dello stesso Romano Prodi, di Sergio Cofferati, di Walter Veltroni»

È anche vero che sia lei che Prodi, Cofferati e Veltroni vi siete arresi piuttosto rapidamente, le pare?

«Vede, il problema è lo stesso di allora, dell´89. Mi ero reso conto benissimo che per affrontare un vero cambiamento bisognava aprire le porte alla società, uscire dalle fumose stanze dei vertici di partito. Ma l´ingresso degli esterni, il rinnovamento anche generazionale del partito, venne vissuto come una minaccia, un´intrusione, un´invasione di campo dell´antipolitica. Lo stesso è accaduto con i comitati per l´Ulivo di Prodi, con il rapporto di Cofferati con i movimenti e infine col progetto di Pd aperto di Veltroni. La questione centrale del Pd è identica a quella del Pds e sta nel rapporto chiuso con la società. Ogni volta si cambia il simbolo, il nome, l´immagine e per un po´ s´illude l´elettorato, ma poi la logica della nomenclatura prevale e i consensi tornano a disperdersi»

Nel rapporto con gli esterni si riferisce a Vendola, Di Pietro, Grillo, al popolo viola e in generale a un´area a sinistra del Pd che è oggi l´unica in espansione, insieme alla Lega?

«Certo. E chi fa il politico di professione dovrebbe pure domandarsi perché è in espansione e perché invece il Pd è inchiodato nei sondaggi intorno al 25 per cento. Mi colpisce soprattutto l´ostracismo nei confronti di Nichi Vendola. Posso capire che Di Pietro e Grillo vengano considerati lontani, in certo senso estranei alla storia della sinistra, ma perché Vendola? E´ uno che viene da una storia tutta dentro la sinistra e rappresenta comunque una grande risorsa. Che vinca o no le primarie, è l´unico in grado di portare a un´alleanza di centrosinistra milioni di voti che altrimenti andrebbero persi alla causa. È incredibile che i dirigenti del Pd considerino Vendola un fenomeno estemporaneo, una specie di fricchettone che gioca con Internet. Si vede che neppure le batoste insegnano loro nulla. E quella presa in Puglia era piuttosto sonora»

A distanza di vent´anni, dove pensa di aver sbagliato, di che cosa si sente responsabile?

«Abbiamo sbagliato allora per la fretta, nell´urgenza storica. Abbiamo sbagliato a non spiegare che il mondo era cambiato profondamente, non soltanto per il crollo del comunismo, e bisognava tornare a studiare la società. Ancora oggi la visione del mondo del lavoro della sinistra italiana è legata a vecchi schemi, a modelli sociali tramontati negli anni Ottanta. C´è un gran fermento di fondazioni che non studiano nulla e sono soltanto trucchi per fondare correnti. Nella storia del vecchio Pci, io che ho dovuto chiuderla, salvo tante cose e altre ne rimpiango. E quella che rimpiango più di tutte è questa, l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare per capire i grandi mutamenti sociali»

Vogliamo lasciare aMaroni tutto il peso dello sfoltimento delle file degli immigrati nel nostro paese? Nossignori, il vero leghista si dà da fare in proprio, insomma ci prova gagliardo. Gagliarda, la sindaca di Montecchio Maggiore, Milena Cecchetto, lo è parecchio. Ne ha già dato prova togliendo il pane di bocca ai bimbi i cui genitori non avevano pagato la retta per la mensascolastica.Malavorava ad altro, ci lavora ancora: ha capito che se riparametra a piacer suo le dimensioni minime dei locali di un alloggio, può impedirne l’abitabilità e di conseguenza avviare una bella fuga a catena di gente che ha il salotto troppo piccolo. Neanche la strega di Biancaneve, storia interessante. La signora Cecchetto ha mosso i primi passi l’anno scorso stendendo unadelibera con cui modificava i criteri per ottenere l’idoneità di un alloggio.

Delibera ad personam: infatti, senza giri di parole dichiarava che la procedura era destinata «ai cittadini extracomunitari». Troppo zelo danneggia perfino la cattiveria: era chiaro che una discriminazione tanto manifesta non sarebbe mai passata, e così a dicembre se l’è messa via o si è fatta furba, scrivendo che la delibera era destinata «ai cittadini ». La mela avvelenata era pronta, si trattava di costringere «i cittadini» a mangiarla. Del resto, chi è che chiede l’abitabilità di un alloggio se non chi è obbligato a farlo da una legge che altrimenti lo sega? Stiamo parlando, ovviamente, di quei cittadini che hanno bisogno di questo certificato ogni volta che devono rinnovare il permesso di soggiorno o per altri motivi. Per raggiungere il suo obiettivo, non ha badato a spese: la sindaca ha armato i vigili urbani e con l’aiuto dei carabinieri li haorganizzati in squadre d’assalto che all’alba odi notte hanno circondato decine di isolati abitati generalmente da persone perbene e la molla è scattata. Giù tutti dai letti, donne, bimbi, uomini che pure hanno regolari contratti di lavoro.

«In genere, gente che non ha familiarità con la legge italiana e con le sue garanzie - spiega Maurizio Ferron, responsabile confederale della Cgil dell’Ovest vicentino -, quindi non sanno che senza un regolare mandato nessuno può mettere piede in casa tua. Hanno aperto e hanno lasciato fare». Cercavano droga, armi, terroristi? Macché: pistola nella saccoccia, metro in mano e sposta i mobili, i tutori dell’ordine si sono messi a misurare le superfici delle stanze. Scena non priva di comicità, anche se nessuno pare si sia messo a ridere: lo avrebbero arrestato per oltraggio. Grazie a arrivederci.

Al centro dati per aggiornare il dossier o per affilare la mannaia. Con un magone nel cuore, perché a volte la solidarietà tra perfidi non funziona: sarà legale quel che sta facendo la sindaca? Il problema è che proprio mentre lei concepiva la riparametrazione, proprio un altro leghista, Maroni, ribadiva che per omogeneizzare la normativa le amministrazioni pubbliche dovessero rifarsi ai criteri fissati da un decreto del Ministero della Salute. Quali erano? Esattamente gli stessi che lei stava modificando, Montecchio era già in regola con quel che prescriveva il suo governo. Esempio: secondo Maroni, un soggiorno non può essere più piccolo di 14 metri quadri, la signora Cecchetto dice 15. Sempre più divertente. Ma siccome non hanno il senso dell’humour, loro non ridono, conteggiano al millimetro, dopo aver concluso che il loro Maroni si era limitato a dare delle indicazioni e non delle prescrizioni: hanno negato l’abitabilità ad appartamenti che avevano una stanza di 0,22 metri al di sotto del nuovo limite.

«Pazzesco - insiste Ferron -. Noi della Cgil, insieme a Cisl, Uil, Caritas e associazioni degli immigrati ci siamo dati da fare, siamo decisamente fuori da ogni contesto umanamente apprezzabile. Ora l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha presentato ricorso al tribunale di Vicenza, una causa civilenon banalmente amministrativa, il cinque novembre ci sarà la prima udienza». Intanto, per gli immigrati ore e giorni di sconforto: rischiano di trovarsi, con le famiglie, per la strada e senza lavoro perché senza permesso di soggiorno sei meno di niente. E c’è gente che stava a Montecchio, e lavorava e pagava gli affitti, anche da dieci anni. Ma qualcuno, anche se fin qui ha pensato bene di stare zitto, ci rimette e sono i proprietari degli immobili: il loro valore si azzera, in mancanza di ristrutturazioni e non possono nemmeno più affittarli.

E non è finita: «In base a questi parametri - spiega Ferron - la maggioranza degli alloggi di Montecchio è fuori regola, una bomba contro il mercato immobiliare.Ma il fatto più importante è che cavalcando il risentimento della gente, sta seminando nuovo risentimento, accentua le tensioni sociali». Sai cosa gliene frega.

Uno spettro si aggira per l´Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l´immediato appoggio di Berlusconi.

Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un´Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l´ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l´Europa rinata dalle rovine grazie all´intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell´idea d´Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d´Aosta.

Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un´Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.

Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l´Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.

Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l´Europa ha dimenticato l´epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l´eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un´Europa della paura.

Il ministro Maroni ci aveva già informato all´inizio dell´estate che stava preparando la sua campagna d´autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l´allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.

Sarà bene che l´opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all´episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l´aiuto e l´avallo dell´Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.

Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell´idea d´Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un´Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.

Nei momenti cruciali torna sempre a vendere tappeti. Voi direte: ai suoi trucchetti da baro non ci crede più nessuno, nemmeno un ragazzino si farebbe più incantare dal gioco delle tre carte dopo averlo visto in azione migliaia di volte. Non è detto: avendo ridotto gli italiani ad un popolo ipnotizzato dall’avanspettacolo di tv e di governo è possibile che invece molti stiano lì incantati dall’affabulatore in parrucca.

La barzelletta di oggi è che Silvio B. dice che del processo breve non gli importa più. Dopo aver paralizzato l’attività legislativa e di governo per anni al solo scopo di scrivere e far scrivere leggi che lo salvassero dai processi, che gli garantissero l’immunità e l’impunità (per sé e per la cricca, che dopo la pausa estiva torna protagonista delle cronache) ora all'improvviso con una delle sue videocassette il venditore annuncia che no, invece, il processo breve non è più la sua priorità.

Come mai? Cos’è successo? Tanto per cominciare naturalmente non è vero. Lo stuolo di deputati-avvocati personali ministro di giustizia compreso sono già lì a studiare una via di fuga alternativa provvisoria: non allo snellimento del processo, richiesta sacrosanta che si otterrebbe dando più denaro e più mezzi a chi dei processi si occupa, ma alla salvaguardia del Capo sì da evitare l'odiosa eventualità dell’interdizione dai pubblici uffici, norma accessoria che come capite gli impedirebbe di fare, per dire, il presidente della Repubblica in un futuro prossimo. Lo dice, Silvio B., solo perché ha ben chiaro che votare in queste condizioni non gli conviene, ha paura del voto con la Lega che cresce Tremonti che incombe e Fini che scalpita. Dunque allestisce il tavolino con la merce e parte il baratto: io tolgo dal tavolo il processo breve, dice, in cambio voi finiani tornate tutti a Canossa, lasciate perdere Gianfranco e tornate da meche siccome sono buono vi offrirò un seggio sicuro alle prossime elezioni, vi perdonerò la scappatella. A parte la visione mercantile della politica qui ridotta a vero baratto (minacce, ricatti, promesse, tutto il repertorio) a parte lo squallore di quello che Farefuturo chiama il pifferaio di Arcore, voi ci credereste? Vi fidereste? E la dignità politica? E quella umana? Beni di lusso, di questi tempi.

Dice poi B. che la legge elettorale è perfetta: funziona benissimo. La porcata è l’ideale. Difficile, in queste condizioni, immaginare che ci sia anche una vaga possibilità di cambiarla. Conviene, lo diciamo da tempo, cominciare ad attrezzarci per una controffensiva dal basso. Le primarie di circoscrizione sono la nostra proposta. Sarebbe un inizio: contiamo chi dice di no, poi valutiamolo. La convulsa giornata di ieri, solo un assaggio dell’autunno che ci aspetta, ha fatto registrare la prevedibile contestazione di Schifani ospite della festa del Pd. Schifani è Schifani, conosciamo bene la sua biografia e il suo profilo. Una contestazione è una contestazione, un rischio che fa parte del mestiere. Forse affrontarlo senza esasperare i toni, senza farne un’emergenza democratica aiuterebbe ad occuparsi delle questioni serie, dei problemi reali, delle emergenze che davvero abbiamo davanti. Senza lasciarsi distrarre, che sono già in molti - mi pare - abbastanza distratti da quello che conta davvero.

L’inchiesta giudiziaria sulla cosiddetta P3 infligge un altro colpo al cuore del governo Berlusconi. Da ieri è indagato anche Giacomo Caliendo. Caliendo è sottosegretario alla Giustizia e va ad allungare una lista ormai molto corposa. Gli accertamenti in corso fanno attendere altre novità. Sempre ieri Marcello Dell’Utri si è rifiutato di rispondere ai magistrati, i quali hanno precisato che il suo ruolo politico nella vicenda appare di maggior rilievo rispetto a quello di Verdini. La giustizia di questo paese sta facendo il suo lavoro. Deve farlo: è importante che lo faccia perché è proprio la giustizia come ordinamento che è stata oggetto di un tentativo lungo e non privo di successi di corromperla dall’interno.

Il giudice corrotto è la figura che ha sempre evocato il delitto imperdonabile di ogni sistema politico. Nei secoli passati della storia italiana ed europea lo si raffigurava oggetto di punizioni terrificanti nelle sale di giustizia. Quanto al gruppo dei corruttori che compone la nuova Loggia, esso è per tanti aspetti rappresentativo delle reti di «faccendieri» attivate dalla sfacciata esibizione di prepotenza e di illegalità da parte del partito di maggioranza . È dal loro caso che prende oggi forma la questione dominante nel paese: che è una nuova questione morale. La moralità della politica è l’esigenza di un paese intero che ha bisogno di respirare aria pulita, di vedere rinnegato e punito il metodo della corruzione sistematica e dell’aggiramento furbesco degli ostacoli posti dall’ordinamento pubblico ai metodi «ad personam».

Questo sistema gelatinoso ha avvolto in una sola rete membri del governo, capi del partito, responsabili di amministrazioni pubbliche e pezzi rilevanti dell’ordinamento giudiziario. La loro azione si è basata su di un principio che sempre più si rivela il vero cancro del sistema che avvolge la società italiana e ne sta dissolvendo le fondamenta: la trasformazione dell’ufficio pubblico in beneficio privato, l’uso del potere politico come strumento per sfuggire alla legge, per compiere criminali operazioni di ricatto, per determinare fortune e sfortune politiche. A tutto questo era necessario il segreto. Perciò parlavano tra di loro al telefono per allusioni tanto più caute quanto più rivestivano un ruolo importante, lasciando che fossero i membri inferiori della banda a esprimersi con oscena libertà. E qui si spiega anche l’insistenza del governo sulla "legge bavaglio", un provvedimento che serve a proteggere un sistema avvelenato e prepotente, la ragnatela della corruzione. Una legge che la democrazia deve fermare.

Per valutare la gravità dei comportamenti addebitati ai signori della P3 è utile ricordare come la legge Anselmi definisca il carattere delle associazioni segrete proibite: sono «quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale». Ora, i personaggi che tenevano le loro riunioni private e si mantenevano in costante rapporto come membri di una associazione nota solo a loro, appartenevano per l’appunto anche ad una associazione palese: quella del partito di governo. La rete che teneva insieme i nomi di Pasquale Lombardi, Flavio Carboni, Arcangelo Martino, funzionava con la decisiva partecipazione di pesci di ben altra dimensione e influenza nel partito di maggioranza e nel governo: e i loro traffici riguardavano tra l’altro i tentativi di sottrarre il capo del partito e del governo alla giustizia con leggi speciali della cui indifendibilità si era ben consapevoli: tale il caso del Lodo Alfano.

Per questo ci si incontrava nella casa romana del coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, tra uomini che ad alto e a basso livello, anzi altissimo e bassissimo livello, facevano parte di camarille di potere tutte interne allo stesso corpo politico. E lì si elaboravano reti vischiose, aggiramenti delle regole e condizionamenti di uomini e di istituzioni a favore di persone e cose del mondo berlusconiano. Ma in questa doppia appartenenza a una associazione segreta e a una notissima e dominante nel paese e nel governo si coglie una importante differenza tra P2 e P3: una differenza storica che permette di misurare quanto cammino è stato percorso da allora sulla via del disastro. La P2 di Licio Gelli operava per sovvertire gli ordinamenti del paese attraverso l’avvento al potere di un apparato di segno politico opposto. Oggi quel disegno può dirsi da tempo realizzato. Per questa ragione è facile profetizzare che nessun segnale di ritorno alla moralità della politica potrà venire da un capo di governo impegnato oggi più che mai a imbavagliare la giustizia e la stampa libera e ad accecare l’opinione pubblica.

Sono interessato alla Libia e alla sua emancipazione perché lì sono nato, lì ho vissuto fino all'età di vent'anni, lì si è realizzata la mia formazione politica e anche culturale. Sono nato a Tripoli il 7 febbraio del 1931 e ne sono stato cacciato dall'autorità britannica (Bma, cioè British military administration) nel dicembre del 1951. Ho vissuto a Tripoli e nella campagna di mio nonno, a Sorman, dove ho conosciuto la fatica dei braccianti agricoli libici, largamente sfruttati dai padroni italiani. In quegli anni ho appreso della violenza dell'occupazione italiana: mio nonno era stato soldato in Libia nel 1911 e me ne ha raccontato, al punto che lui e un suo compagno volevano ammazzare un loro ufficiale. A Tripoli ho cominciato ad avere notizia della resistenza dei libici e della feroce repressione degli italiani, primo fra tutti Rodolfo Graziani, che usò anche i gas e che dovendosene poi andare all'arrivo dell'VIII armata inglese regalò la sua villa a monsignor VittorinoFacchinetti, vescovo fascista di Tripoli, anche dopo la sconfitta degli italiani e dei tedeschi del famoso maresciallo Rommel, finito poi vittima di Hitler.

Cominciai ad avere conoscenza delle ripetute impiccagioni in piazza del Pane, poi piazza Italia e ora piazza Verde dove c'era un monumento di Mussolini a cavallo, che brandisce la Spada dell'Islam e dove c'è ancora una fontana uguale a quella che qui a Roma possiamo vedere dentro Villa Borghese. Poi ho appreso anche della vile impiccagione di Omar el Muktar. Su questa vicenda q ualcosa fu raccontato da Roberto Haggiag, un ebreo straordinario che dopo quell'impiccagione smise di fare il consulente del governo italiano e poi emigrò negli Usa dove divenne produttore cinematografico.

La colonizzazione italiana oltre che barbara era demografica, tendeva alla progressiva riduzione della popolazione libica rispetto a quella italiana. Si cominciò con le famose «concessioni»: il territorio libico sulla fascia costiera era diventato proprietà statale, salvo poche oasi dove vivevano malamente, con un po' di palme e un pozzo, le famiglie dei braccianti. Questo territorio statalizzato fu diviso in «concessioni» date a cittadini italiani che ne sarebbero poi diventati proprietari. Ma questo era solo l'inizio. In Italia il fascismo aveva realizzato la bonifica delle paludi pontine. Attraverso questa bonifica un vasto territorio del Lazio era stato popolato da disoccupati provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Bassa emiliana. Il fascismo aveva preparato case, stalle, strade e quelle terre cambiarono popolazione e cultura e furono fascistizzate. Era il modello vincente per «italianizzar» la Libia e marginalizzare la popolazione libica.

Così dopo il 1935 in Libia, ad opera, sia detto, di eccellenti architetti, furono costruiti i villaggi, tutti con nomi di personaggi fascisti (Bianchi, Breviglieri, Gioda, etc.) con le loro casette, le stalle, già con gli animali, i campi da coltivare, le strade di comunicazione. A seguito di quest'opera nel 1938 sbarcano nel porto di Tripoli tra feste e bandiere 20.000 poveri italiani provenienti grosso modo dagli stessi territori di quelli andati nell'agro Pontino. Nel 1939 ne sbarcarono altri 10.000. Poi nel 1940 l'Italia entrò in guerra e l'ambizioso progetto fascista fallì. Avevo 8 anni e i miei genitori mi accompagnarono contenti a veder quel «fiume di italianità». La Libia da colonia passò a territorio nazionale: Tripoli e Bengasi furono dichiarate province italiane, ma ovviamente i libici non divennero cittadini italiani, ma popolazione in liquidazione. I libici - va ricordato - erano esclusi da tutte le cariche pubbliche. Era escluso che un libico potesse diventare potestà (così si chiamava allora il sindaco). L'unica eccezione era per le famiglie nobili del tempo della dominazione turca: i Caramanli e i Muntasser soprattutto. Al liceo, alla fine degli anni '40 avevo solo due compagni di classe libici: Omar Muntasser e Mustafa Ben Zicri, che, ai tempi del re Idriss, divennero entrambi ministri.

In quella stagione, immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale - che avevo vissuto tutta in Libia, a Sorman, con i soldati italiani, ai quali servivo il vino di mio nonno, con i tedeschi, che furono l'ultimo reparto dell'Asse a ritirarsi e che mi chiamarono a vedere il gran polverone dei tanks inglesi che si avvicinavano - si cresceva in fretta e così tra i 16 e i 17 anni diventai comunista e sostenitore dell'indipendenza della Libia. Ovviamente non da solo. Era maturato un gruppo di intellettuali (il leader era il notaio Errico Cibelli e con lui il professor Giuseppe Prestipino) e operai (Nino Caruso, Giuseppe Russo e altri ancora). Nacque così un Partito comunista clandestino che a Botteghe Oscure si riferiva a Renato Mieli, arrivato a Tripoli come capitano Merril dell'VIII armata di Montgomery. E, nacque anche, ma pubblica, l'Associazione politica per il progresso della Libia (Appl), che raccoglieva italiani, ma anche maltesi ed ebrei e che era in buoni rapporti con il Partito del congresso di Bashir as-Sadawi.

Ricordo che questa nostra posizione a favore dell'indipendenza della Libia non piacque affatto alla comunità italiana, che allora si raccoglieva nel Circolo Italia, fondamentalmente fascista. Vale ricordare che fummo ripetutamente accusati di essere al soldo degli inglesi per strappare all'Italia la Libia. Favorimmo anche la formazione di un movimento sindacale forte tra i portuali, che realizzarono alcuni scioperi.

L'Associazione politica per il progresso della Libia raggiunse presto duemila iscritti, soprattutto italiani, ma non solo (era aperta a tutti gli abitanti di Libia). Centrale nel suo programma era la costituzione di uno stato libico e indipendente. Interlocutore privilegiato dell'Appl era il leader del Partito del congresso Bashir as-Sadawi, rientrato nel 1948 a Tripoli dal Cairo, dove aveva sede il Comitato di liberazione della Libia, da lui presieduto.

Insomma secondo il classico schema leninista avevamo un Partito comunista libico clandestino e un'organizzazione di massa l'Appl, del tutto pubblica; il suo obiettivo principale era l'indipendenza della Libia. Proprio per questo l'Appl contrastò le iniziative del governo italiano di allora e dei suoi portavoce locali ispirati dal vescovo Vittorino Facchinetti, già ammiratore e amico di Mussolini.

Quando poi venne fuori il famoso compromesso Bevin-Sforza, che prevedeva la spartizione in tre parti della Libia e l'amministrazione fiduciaria della Tripolitania all'Italia, l'Appl si unì ai libici nella protesta e ci fu un appello all'Onu per chiedere l'indipendenza immediata della Libia. L'Associazione riuscì anche ad avere un settimanale (Corriere del lunedì) e con rappresentanti nella Commissione dell'Onu.

Finalmente, il 24 dicembre 1951 viene proclamato il Regno unito della Libia, con Idriss I Senussi sovrano.

A questo punto gli inglesi decidono di lasciare la casa pulita a Idriss. Quindi espellono buona parte degli italiani membri dell'Appl e anche del Pc libico, arrestano i sindacalisti libici. Tutto ciò nel dicembre del 1951. All'inizio del 1952 si tennero elezioni piuttosto truffaldine: il Partito del congresso fu sciolto e Bashir as-Sadawi espulso.

Partecipi di questa vicenda furono Errico Cibelli, Giuseppe Prestipino, Sante Pascutto, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Mohamed Buras, Dino Marastoni, Vasta, Manzani, Ali Kadri, Clara Valenziano, Giuseppina Mazzei, Ernesto Ragusa, Mario Mazzarino, Valentino Parlato, Nino Serafin, Carlo Cicerchia e altri ancora. Vale ricordare che sempre in quel dicembre del 1951 (il Corriere del lunedì era già stato soppresso) Prestipino e Pascutto furono invitati ad andarsene e pochi giorni Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Manzani e io fummo arrestati e caricati sulla nave che ci portò in Italia. Tutto sommato non fu una disgrazia, anche se un indubbio segno dello stile imperiale britannico.

La lettera di Bersani a Repubblica colloca finalmente, dopo tante incertezze e ambasce, il Pd al centro di una proposta politica all'altezza della crisi democratica che rischia di seguire al dissolvimento del Pdl. Bersani propone, cioè, a partire da un'intesa tra le forze del centrosinistra, la costruzione di un'alleanza democratica capace di affrontare - prima delle elezioni, ma più probabilmente dopo - quella fase costituente di cui il paese ha bisogno per ritornare nell'alveo di una democrazia compiuta capace di lasciarsi alle spalle le tentazioni populistico-plebiscitarie di questi anni.

Ma Bersani avanza anche un'altra proposta che implicitamente, mi sembra, prende atto del fatto che il Pd così com'è rischia di non reggere alla crisi di sistema che la fine del Pdl ha portato alla luce. E contro l'illusione bipartitica che, con Veltroni, era stata alla base della nascita del Pd rilancia l'ipotesi di un nuovo Ulivo, cioè di quel partito-coalizione il cui abbozzo abbiamo visto nel corso dell'«era Prodi». È presumibile che Bersani speri in questo modo di guidare l'evoluzione del Pd verso un assetto che eviti che le tensioni interne superino il limite di guardia. Penso soprattutto al conflitto potenziale, nella principale forza del centrosinistra, tra un nord sedotto dai progetti federalisti della Lega e un sud che, di conseguenza, sarebbe attratto dal movimento suscitato da Nichi Vendola con la sua candidatura a eventuali primarie (a questo punto bisognerebbe capire di chi: del centrosinistra, di questo nuovo Ulivo, della auspicabile alleanza democratica capace di battere Berlusconi e il suo disegno autoritario?).

La fine del Pdl, dunque, rimette in discussione l'intero assetto del sistema politico italiano e quelle stesse forze che hanno preteso negli ultimi anni di rappresentare la soluzione della sua crisi e invece l'hanno condotta al suo punto più drammatico.

Ed è singolare che, mentre tutto il centrodestra e il principale partito del centrosinistra sono attraversati da una ricerca su quali nuove formazioni politiche debbano succedere al disastro di cui siamo stati insieme tutti spettatori e protagonisti, a sinistra si resti prigionieri delle soluzioni politico-organizzative che si sono imposte due anni fa a seguito della nascita di Pd e Pdl. E che non si avvii una discussione che, insieme all'appoggio che da sinistra può venire alla costruzione della alleanza democratica che oggi sembra essere l'obiettivo anche di Bersani, riaffronti il tema dell'autonoma e unitaria rappresentanza politica del mondo del lavoro quale essenziale contributo al ridisegno di un sistema di rapporti politici che sia alla base della ricostruzione della democrazia italiana.

È evidente che per tanti aspetti la nuova situazione evocata dalla lettera di Bersani e la proposta di un nuovo Ulivo interpellino, a sinistra, più direttamente Sinistra Ecologia e Libertà piuttosto che Rifondazione comunista e Federazione della Sinistra, che si sono già dette d'altra parte interessate al progetto di alleanza democratica proposto dal segretario del Pd. Vale a dire: la candidatura di Vendola alle primarie, a cui inevitabilmente Sinistra Ecologia e Libertà dovrà legare il suo destino, si colloca all'interno del processo di costituzione del nuovo Ulivo auspicato da Bersani e concorre a determinarne la leadership, oppure si pone al suo esterno, dialoga con tutti i soggetti di una possibile alleanza democratica, e non confligge quindi con l'obiettivo di costruire un soggetto politico autonomo della sinistra italiana? È un chiarimento che, di fronte agli scenari che si stanno definendo, Sinistra Ecologia e Libertà deve innanzitutto a se stessa.

Naturalmente se si avverasse l'ipotesi di una ricollocazione di Sinistra Ecologia e Libertà nell'ambito del nuovo Ulivo auspicato da Bersani, la ricostruzione di una sinistra politica autonoma e unita, rappresentativa del mondo del lavoro (che resta una necessità storicamente fondata e inderogabile) dovrebbe cercare strade e percorsi nuovi. Altre difficoltà si aggiungerebbero a quelle già enormi in cui versa la sinistra italiana. Ma non per questo l'impresa meriterebbe di essere abbandonata. Ne sarebbe compromessa la qualità del processo di ricostruzione democratica che speriamo possa vedere la luce dopo la crisi dell'attuale precario assetto dell'Italia.

Postilla

Il problema è proprio questo: come ottenere, insieme, un’alleanza che sia maggioritaria, e perciò capace di restaurare la democrazia e la Costituzione, e insieme una formazione di sinistra? Il confronto con i tempi del Coitato di liberazione nazionale e della Costituente reggono fino a un certo punto: a quei tempi c’era l’unità antifascista nata dalla Resistenza ma, al suo interno, c’era il PCI.

Grazie all'innovativa pratica politica delle lettere al direttore, che finalmente oltrepassa il soporifero grigiore delle relazioni dei segretari di partito della prima Repubblica e la seduttività glamour delle comparsate televisive dei leader della seconda, il Pd ha ritrovato la parola rapita dall'estate dei veleni berlusconian-finiana e, sembrerebbe, anche una bussola. E malgrado lo stile epistolare strettamente politichese non si meriti il Pulitzer per capacità comunicativa, la rotta tracciata dal segretario Bersani in risposta all'ex segretario Veltroni ha il merito di sciogliere alcuni nodi da anni in sospeso nel dibattito interno del Pd e di tutto il centrosinistra, e causa non ultima della loro paralisi.

Sul piano diagnostico, Bersani coglie che la crisi politica in corso non è di governo ma di sistema , e che la posta in gioco del proseguimento o della fine del berlusconismo non riguarda un'alternanza di governo ma un modello di democrazia. Sul piano strategico, ne consegue una proposta che tenta di tenere insieme quattro esigenze - il rilancio del partito e del centrosinistra, la spallata a Berlusconi, il ridisegno del sistema politico, la restaurazione della normalità costituzionale - , con uno schema a due soggetti - il "nuovo Ulivo" per il programma di governo, una "Alleanza democratica" le regole del gioco. E' chiaro l'obiettivo: fine del bipolarismo leaderistico-plebiscitario, a maggior ragione nella sua versione bipartitica berlusconian-veltroniana; ritorno a un sistema parlamentare, con i fondamentali corollari di una legge elettorale proporzionale e, verosimilmente, di una forma di governo non più basata sull'elezione o la designazione diretta del premier. E' un obiettivo che sarebbe stato meritorio dichiarare prima che la rottura del Pdl e il profilarsi del terzo polo gli spianassero la strada, ma che almeno tenta di mettersi alla guida del cambiamento in atto.

Assai meno chiari sono tempi, modi, praticabilità della proposta. Se il suo principale punto di forza consiste nel tentare di dare respiro strategico - la ricostruzione democratica - a un passaggio tattico stretto - l'apertura a tutte le forze interessate a dare la spallata a Berlusconi -, qui c'è anche la sua evidente debolezza: quando, come e con quale moneta di scambio? Tutto dovrebbe ruotare su un accordo per il proporzionale, ma Bersani sa bene di quanti ostacoli è lastricata la riforma della legge elettorale, in primo luogo nel suo stesso partito; bluffa quando la àncora a un governo di scopo o di transizione, perché per rifare la legge elettorale non c'è bisogno di un governo e basta un'iniziativa parlamentare (che è lecito a questo punto pretendere dal Pd fin dalla riapertura delle camere); e glissa sul problema numero uno, cioè che i tempi dell'agenda politica continua a dettarli Berlusconi. Il quale può sempre portarci alle urne e con la legge elettorale vigente.

Basterebbe in questo caso il "nuovo Ulivo" a fronteggiarlo? Qui la debolezza dello schema diventa fragilità, se non inconsistenza. Nel nome c'è la cosa, e per quanti prodiani di stretta osservanza quel nome possa rassicurare per le strade di Bologna, alle orecchie dell'elettorato di sinistra - o del "nuovo popolo" evocato da Bersani a Rimini - non suonerà come un nome propriamente innovativo, né come una cosa esaltante da rifare. Non c'entrano su questo i giochi tattici e strategici, c'entra la percezione del tempo che passa, delle generazioni che cambiano, dei problemi che si incancreniscono, dell'esigenza di idee nuove e di risposte diverse che non può essere continuamente compressa e repressa sotto formule, sigle e facce sperimentate e consumate. Naturalmente, dire "nuovo Ulivo" serve a ridare centralità e peso a un Pd che rischia di sgretolarsi sotto l'onda d'urto dello sgretolamento del Pdl, e a ricondurre allo stato di "cespugli" gli illegittimi pretendenti al trono della leadership della coalizione. Ma avrà pure un significato se il segretario del Pd esordisce, nella sua lunga lettera, con l'impegnativa affermazione che «per l'Italia la scelta non riguarda più solo un governo, ma finalmente un'idea di democrazia e di società», e prosegue con un'idea solamente restaurativa di democrazia e nessuna idea di società. A meno che anch'essa non sia affidata allo spettro che si aggira per tutto il testo di Bersani, e che si chiama primarie. Forse bisogna che lo spettro si materializzi perché si materializzino, con i candidati, i problemi di una società martoriata da Berlusconi, Tremonti, Marchionne, e qualche risposta.

Al primo odore di elezioni anticipate, i politici italiani hanno ripreso ad agitare lo spauracchio degli immigrati. Prima il ministro La Russa (anche allo scopo di mettere in crisi un Gianfranco Fini di colpo giudicato "buonista"), poi il ministro Maroni, ansioso forse di non farsi sottrarre la palma dell'intransigenza dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Maroni si è spinto ad annunciare di voler chiedere all'Unione Europea "la possibilità di espellere anche cittadini comunitari", aggiungendo (con rimpianto, sembrerebbe dal tono dell'intervista al Corriere della Sera) che "da noi molti sinti e rom hanno cittadinanza italiana. Loro hanno diritto a restare, non si può fare niente".

Bene ha fatto, quindi, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, a puntualizzare attraverso la Radio Vaticana due concetti fondamentali: il primo è che "il Governo italiano non può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che invece stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento"; e il secondo, non meno importante, è che "l'azione che avviene contro i rom oggi, non è un'azione di politica migratoria - non dimentichiamo che anche in Italia, l'80% dei rom è italiano - ma è una politica discriminatoria nei confronti di una popolazione che, sostanzialmente, non si è riusciti a gestire attraverso canali che sono soprattutto di tipo sociale".

La prontezza della politica nel servirsi della leva anti-straniero e anti-immigrato dice tutto della schizofrenia di questa nostra Italia. Perché i politici parlano in un modo (e magari i cittadini li votano) ma la realtà va esattamente in senso opposto. Nel 2009, in piena crisi occupazionale (526 mila italiani in più senza lavoro), gli occupati stranieri sono cresciuti di 147 mila unità. Mentre la Fondazione "Leone Moressa", analizzando i dati Excelsior-Unioncamere, già ci dice che la tendenza proseguirà nel 2010: sono 181 mila i nuovi assunti stranieri previsti per l'anno in corso, pari al 22,6% di tutte le assunzioni previste. A far la parte del leone saranno le imprese sopra i 50 dipendenti, che cercano manodopera straniera da impiegare nei servizi alle persone (21,8%), lavoratori con esperienza nel settore (54,6%) e qualificati nel commercio e nei servizi (27%).

In poche parole: non vogliamo gli stranieri, ma ci piace che il loro lavoro dia un contributo decisivo alla tenuta del nostro sistema produttivo e, di conseguenza, al benessere di tutto il Paese. Quando capiremo che le due cose non stanno insieme sarà sempre troppo tardi.

Se si discute seriamente degli intellettuali, la prima cosa che conviene osservare è che è il dibattito sugli intellettuali che si è logorato, non la loro funzione. Anzi. L'efficacia degli intellettuali di destra è evidente a tutti. Nessuno di loro è un genio, sono rozzi anche quando sono colti, spesso sono servili e impudichi. Ma ci sono. Contano. Possiamo disprezzarli, non possiamo sottovalutare l'efficacia della loro funzione. Servono, appunto. Hanno la grande opportunità di potersi appoggiare a un regime, al potere, a una realtà strutturale, insomma, e questo li rende forti. I nostri sarcasmi non li scalzano. Conviene, anzi, riflettere sulla loro funzione, prima di discutere della funzione degli intellettuali di sinistra.

Il potere e il denaro

Essere organici, più che a un partito, al potere conferisce una forza e un'efficacia molto rilevanti, essenziali. Perché il potere di cui parliamo non è un potere metafisico. È una struttura nel senso di Marx, è un potere strutturale, strutturato. È fatto di giganteschi conflitti di interessi, di continue violazioni delle leggi e delle regole, di corruzione, di impunità. È fatto di un'enorme, pervasiva, penetrante capacità mediatica. È fatto di istituzioni corrotte e corrompibili, di grandi industrie, di sindacati docili quando non servili. E di danaro, molto danaro. A questa struttura cosa può contrapporre la sinistra? O meglio, cosa possono contrapporre gli intellettuali di sinistra, ché di questo posso e voglio parlare.

La sovrastruttura

Incominciamo con l'osservare che gli intellettuali di sinistra sono sovrastrutturali, non solo nel senso che la loro opposizione investe o piuttosto può investire soltanto, come è ovvio, delle realtà sovrastrutturali, ma anche nel senso che essi possono essere organici soltanto a organizzazioni partitiche, per di più esigue, fragili e litigiose, a una cultura, a delle idee, o meglio, se non si ha paura della parola, a delle ideologie. Possono essere organici, insomma, a qualcosa di immateriale. Mentre, oggi, è la materialità che conta, anche per chi finge di nutrire soltanto ideali.

Il punto che mi preme sottolineare, e che, credo, dovrebbe essere al centro di un dibattito, è l'organicità e la disorganicità dell'intellettuale. La disorganicità, elogiata da Umberto Eco, è facile da assumere e da praticare, può essere preziosa sul piano culturale, ma sul piano politico, o meglio sul piano strutturale, ben difficilmente produce risultati apprezzabili. L'intellettuale disorganico possiede di solito un'intelligenza lucida e penetrante, una cultura raffinata, è brillante, versatile, ironico, a volte sarcastico, spesso scettico, non di rado sfiora il cinismo. È libero e soprattutto si sente libero e si compiace della propria libertà. Vanta la propria funzione sociale e culturale, non manca di esibire i propri meriti.

La funzione dell'apparire

Esiste anche una disorganicità di sinistra, e non è meno raffinata di quella di destra. Sono gli intellettuali disorganici di sinistra che sostengono che gli intellettuali non esistono più, o sono diventati inutili, non contano, così come non serve discutere, perché non se ne può più di proposte astratte, sganciate dalla realtà, in conflitto fra di loro, che lasciano il tempo che trovano. Ma intanto loro discutono, sono presenti, non rinunciano a prendere la parola e ad apparire. E mostrano di aver ragione. Perché intellettuali come loro sono davvero inutili. Ma ha più ragione Massimo Raffaeli che invita a tener conto dell'esempio di Brecht e propone la via dell'umiltà. Sono le domande semplici e apparentemente ingenue che possono imbarazzare e mettere con le spalle al muro una cultura aristocratica e cinica.

Fiducia e coraggio

L'ottimismo è degli imbecilli, la fiducia è di chi ha coraggio, non si arrende e soprattutto non tradisce. Perché chi si vergogna o esita a dirsi comunista o marxista o di sinistra, tradisce. È fatta anche di tradimenti, di molti tradimenti, l'agevole ascesa di Silvio Berlusconi.

Ma, prima di concludere, non possiamo trascurare l'intellettuale organico. L'intellettuale organico chi è, oggi? Prima di tutto: esiste ancora? Certo che esiste, o che può esistere. Non può più essere organico a un grande partito di sinistra, ma può essere organico a una determinata cultura, a una determinata ideologia.

Serietà e coerenza

Una cultura non solo non conformistica, ma radicalmente antagonistica. Un'ideologia ben strutturata, razionalmente contestativa. Può essere organico, in primo luogo, a una classe sociale, se non crede alla favola fatta circolare dagli intellettuali reazionari secondo la quale le classi non esistono più. Gli operai di Pomigliano, e non solo loro, stanno a dimostrare il contrario. Organicità implica serietà, implica coerenza, implica fedeltà. A volte implica anche rinunce e sacrifici.

Per quanto mi riguarda, non ho paura a dire, o, se si preferisce, a ripetere, che organicità chiede disciplina intellettuale e morale. E chiede impegno. Saranno i sarcasmi degli intellettuali disorganici a disarmarci e a metterci a disagio? Chi ha detto che una cultura organica è incapace di ironia? Noi, che abbiamo perduto tutto, o quasi, noi, pessimisti organici, abbiamo imparato da tempo che è attraverso l'ironia che va guardato il mondo alla rovescia in cui ci tocca vivere.

Da quando nacque Forza Italia, nel 1994, e per diversi anni, Norberto Bobbio tornò ripetutamente sul tema della natura di questo partito. Partito personale, non tanto perché creato da una persona, ma perché posseduto, «tenuto» da una persona, che nel partito aveva investito come s’investe in un’impresa. Un partito anomalo dunque. Anomalo rispetto alla forma partito politico nelle democrazie liberali, il quale partito politico è un’associazione di persone e non l’associazione di una persona.

Anomalo rispetto ai partiti liberali. Infatti, nonostante si fosse da subito presentato come la «Casa delle libertà», nella sua natura, Forza Italia e poi Pdl si dimostrò essere tutto fuorché un partito liberale classico. Il partito liberale classico ha personalità diverse, non è una massa amorfa unita nella figura di un leader che si presenta come carismatico, è un partito di diversi leader non sempre in sintonia su tutto, molto spesso litigiosi o in disaccordo tra loro.

Anomalo infine rispetto ai partiti che hanno praticato il centralismo democratico, che insistevano cioè sulla funzione coagulante del consenso, che respingevano formalmente le correnti. Il Partito comunista italiano praticava il centralismo democratico, ma la sua unità era più la faccia rivolta all’esterno che quella rivolta all’interno, dove c’erano differenze espresse e non celate fra leader e fra gruppi. La difficile, impossibile, gestione del pluralismo interno, della libertà d’espressione delle idee, infine il riconoscimento di minoranze (di ciò che con disprezzo si chiamano «correnti»), è il segno del fatto che a sedici anni dalla sua fondazione, il Pdl (ex Fi) non è riuscito a risolvere quell’anomalia messa in luce da Bobbio.

Il Pdl è forse un esempio di cesarismo democratico, un partito del demagogo per usare una espressione classica. Ma con alcuni distinguo che meritano attenzione. Il dominio cesaristico del demagogo su una collettività di associati può riuscire spontaneo e agevole nella fase costitutiva, nel processo formativo del partito. Ma il passaggio dall’eccezionalità dell’atto fondativo alla normalità dell’azione politica ordinaria, rendono il dominio cesaristico e l’unanimismo un problema, un obiettivo di difficile attuazione.

Il rischio a questo punto è che delle due categorie che compongono l’ossimoro «cesarismo-democratico», il primo si rafforzi a spese del secondo, contro il secondo. Le vicende di questi mesi, seguite alla rivendicazione del presidente della Camera di una legittima libertà di espressione del dissenso dentro il Pdl, mostrano con molta chiarezza che l’esperimento di tenere insieme cesarismo e democrazia all’interno di un partito moderno è votato al fallimento.

La democrazia, anche nella sua più illiberale accezione, anche quando insiste più sul consenso che sull’articolazione libera del dissenso, non può sopportare comunque una gestione autoritaria della vita collettiva.

L’anomalia di allora, è quindi ancora tutta qui, irrisolta.

Quando si parla di Resistenza, se ne evoca soprattutto l’aspetto di lotta armata che portò alla vittoria sul nazifascismo e alla Liberazione, dimenticando gli episodi di disobbedienza civile e il sostegno dato da tante famiglie. Spesso si trattava di piccoli significativi gesti di ribellione contro il fascismo che la storiografia ha negli ultimi anni riscoperto. L’Istituto Cervi ne ricorda uno ormai da 15 anni..

Il 25 luglio del 1943, il Gran consiglio del Fascismo vota la sfiducia a Benito Mussolini e il re lo fa arrestare. Cade il regime. A Campegine, in provincia di Reggio Emilia, si fa festa. Una famiglia di contadini un po’ particolari per l'ingegno e la passione che mettono nel lavorare la terra e nell'opporsi alla dittatura, fa il più bel funerale del Fascismo, per dirla con le loro parole.

Decide di offrire al paese un piatto di pasta asciutta. Sono i sette fratelli Cervi con il padre Alcide, la madre Genoeffa e tante altre famiglie della zona. Tempi di fame e povertà, anche nella bassa reggiana, c'è la guerra combattuta e c'è la voglia di sperare. I Cervi ricreano la piazza, la riprendono dopo anni di adunate pilotate, offrendo pastasciutta a tutti i compaesani, una pasta frutto della farina e delle braccia di più persone che non avevano molto. Al massimo potevano fare una pasta in bianco, con burro e parmigiano, ma quella la fecero.

Il 25 luglio è una data storicamente nodale, analizzata da storici e giornalisti nella sua ufficialità, ma troppo spesso si è tralasciato di raccontare la gioia che investì la popolazione, il carattere pacifico delle manifestazioni spontanee che si improvvisarono, espressione di un antifascismo diffuso, spesso nemmeno consapevole, che voleva la fine della guerra, della fame e della paura. La Liberazione arriverà solo venti mesi dopo e costerà ancora tanta sofferenza, ma quel 25 luglio il primo istinto fu di festeggiare insieme. Quello spirito, quell'ottimismo, rivive ancora nella casa che fu dei Fratelli Cervi, oggi Museo, ogni 25 luglio.

L'Istituto Alcide Cervi da anni organizza una rassegna teatrale, il Festival di Resistenza, che ha nella Serata della Storica Pastasciutta il suo evento conclusivo in cui riproporre la stessa formula di ritrovo spontaneo e festoso. La pasta viene offerta a chiunque si presenti, mentre sul palco si alternano ospiti e performance. Quest'anno sarà Ascanio Celestini a raccontare storie di ieri e di oggi al sempre più numeroso pubblico antifascista e, in quell' occasione, verrà assegnato il Premio Museo Cervi per il Teatro allo spettacolo vincitore del festival, realizzato grazie al volontariato generoso del territorio e alla collaborazione con Cooperativa Boorea e Arci.

L’autrice è Presidente dell’ Istituto Alcide Cervi

L'idea che il potere, in un'impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire. Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.

Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta. Ma è un'idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l'automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.

Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.

Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell'imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.

Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe. Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.

Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà. Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant'anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più".

Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono. E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.

Gli scandali venuti alla luce in questi giorni vedono il ritorno sulla scena di personaggi del passato accusati di pressioni indebite e tangenti. Nemmeno Pasolini aveva previsto quello che accade oggi con il livello del malaffare che va ben oltre quello raggiunto dall'Italia del pentapartitodi ALBERTO STATERA

Carlo, ingegnere che lavora all'Eni in un cefisiano losco contesto, ritorna a casa e non solo fa sesso con la mamma e anche con la nonna, ma ritrova il faccendiere Troya.

Chissà se Pier Paolo Pasolini sapeva, nello scrivere la monumentale opera incompiuta Petrolio, che al suo faccendiere aveva dato non un nome di fantasia, ma proprio il nome anagrafico di uno degli uomini che a quel tempo incarnava il non plus ultra dei faccendieri. Filippo Troja, forse con la "j" forse con la "y", da un ventennio incarnava lo spicciafaccende che al servizio della diccì programmava appalti, distribuiva tangibili benemerenze, erogava nomine e privilegi, appalti e mazzette. Mazzette, sia chiaro, da centinaia di milioni di lire, non le ricchezze stellari di milioni di euro che transitano oggigiorno prelevati da pubbliche risorse, nel mondo della neo-confraternita dei Beati Paoli, i sotterranei faccendieri di alcuni secoli fa, cui la complice benevolenza berlusconiana assegna al massimo il ruolo di "quattro pensionati sfigati".

Sfigati che nominano presidenti di Cassazione e di Corti d'Appello, che istruiscono dossier sessuali su candidati politici locali, che manovrano, nella loro pochezza etica e civile, centinaia di milioni e il potere di un regime fatto di bande, di comitati d'affari federati, senza cultura e senza onore, come intuiva Pasolini, che pure mai vide l'Italia più turpe del nuovo millennio. Un'Italia dei faccendieri ben oltre i livelli di malaffare raggiunti in quella pentapartita, quando buona parte del maltolto finiva ai partiti, anche se già allora Rino Formica proclamava: "I frati sono ricchi, la Chiesa è povera!" Se il federalismo entrante ha un obiettivo già raggiunto è quello del malaffare che si dipana regione per regione al Sud come al Nord, dove le risorse sono gestite e distribuite da comitati d'affari operanti sotto l'ombrello della cupola nazionale berlusconiana, il quale fin dall'inizio proclamò: "Andate e arricchitevi".

L'ultimo indirizzo conosciuto di Troja, inconsapevole personaggio pasoliniano ormai in là con gli anni e forse perso alla causa faccendiera dopo una comparsa nello scandalo Parmalat, è l'Alta Velocità di Lorenzo Necci. Laico, forse massone, Necci fu falciato e ucciso quando ormai era in disgrazia, dopo aver sperato di fare addirittura il presidente del Consiglio, mentre pedalava in bicicletta in un dimenticato carrugio pugliese, in compagnia del suo avvocato Paola Balducci. Ma la genia cui apparteneva Troja, sul quale eviteremo di maramaldeggiare con calembour del tipo "nomen omen", non solo non si è dissolta, ma governa l'Italia dai posti di comando, dai gabinetti ministeriali, dalle direzioni generali, dai tribunali amministrativi, dalle stanze di palazzo Chigi, dagli attici tripiani graziosamente concessi da Propaganda Fide, dal cardinale Crescenzio Sepe e dagli eccellenti faccendieri vaticani, quelli che, da Marcinkus e Calvi in poi, hanno seguito il corso inarrestabile del potere e soprattutto del denaro.

Altro che Troja. Fiumi e fiumi di denaro sporco Enimont, ex madre di tutte le tangenti ripulite dalla banca del Vaticano, ha riciclato Luigi Bisignani, tessera 203 della P2, ex giornalista dell'Ansa, definito il Ken Follett italiano per alcuni suoi romanzi gialli presentati da Andreotti in persona e da Giuliano Ferrara, che tra il suo prossimo ama soprattutto i brutti, sporchi e cattivi, quelli che vede meglio in una Repubblica senza borghesia e senza principii, fatta di laicismo devoto, di spartizioni di potere e di denari. Gigi, principe ancora in carica dei faccendieri di Stato, è l'unico che a palazzo Chigi entra nell'ufficio di Gianni Letta senza neanche bussare e che a Cesare Geronzi, neo-presidente di Generali nella poltrona che fu di Cesare Merzagora, il quale rifiutò l'ingresso nell'azionariato del palazzinaro Berlusconi, trasmette giorno per giorno gli umori della suburra di palazzo Chigi.

È lui che cerca al centralino della presidenza del Consiglio Angelo Balducci quando lo scandalo della Protezione civile è sul punto di scoppiare. E lui il tipo antropologico di cui questa Repubblica fondata sul binomio clientela e parentela non può fare a meno. Infante piduista gelliano per i trascorsi massonici del papà funzionario Pirelli in Argentina, fu postino implume dei più di novanta miliardi di lire Enimont nel torrione vaticano dello Ior. Gigi è meno ruspante del suo collega Flavio Carboni, oggi in galera per quell'incredibile pasticcio dell'eolico in Sardegna. E ben più attrezzato dei due vice-faccendieri eolici. Il geometra Pasquale Lombardi di Cervinara, l'amico di De Mita e Mancino che sussurrava in irpino stretto alle alte cariche della Magistratura e si sbatteva per la nomina di "Fofò" Marra a presidente della Corte d'appello di Milano, organizzava convegni di giudici, come ai tempi dei pretori d'assalto e dello scandalo dei petroli faceva Giancarlo Elia Valori, tuttora in servizio permanente effettivo.

L'"imprenditore" Arcangelo Martino, fece di più: presentò al premier la vergine partenopea Noemi Letizia, dopo che con il di lei genitore era finito in carcere. Al magistrato che qualche giorno fa lo interrogava ha piagnucolato: "Ma quale associazione segreta, signor giudice. Semmai un'assemblea di figure e 'mmerda!" Figure e 'mmerda, plastica definizione degli esponenti di una federazione di comitati d'affari che ci governa attraverso un manipolo di intriganti trafficoni mestatori, talvolta oggetto di mutazioni genetiche che giungono alla nuova specie, non più inedita, del ministro-faccendiere o del coordinatore nazionale-faccendiere.

Volentieri vi forniremmo in questo "Diario" un elenco di spicciafaccende nominativo, di oggi e del passato, con le loro fascinose storie, a cominciare dai mitici Gioacchino Albanese e Sergio Cusani, veterani dei tempi di Craxi. Ma, a parte questioni di spazio, in fondo l'unico che mantiene tuttora i supergalloni e li indossa con perfetta interpretazione del ruolo è proprio Gigi, l'omino furbo e scattante che sussurrava a Stammati e a Gelli, a Gardini e Andreotti, che può designare nel nuovo regime il capo dell'Eni nella persona di Paolo Scaroni, un vicentino che tanto per gradire si era fatta un po' di Tangentopoli. Ma i tempi, signora mia, non sono più quelli. Anche perché il mestiere del faccendiere è stato sottratto ai legittimi titolari da magistrati corrotti, giornalisti ben più che compiacenti con decenni di "professione", sottosegretari e ministri che il malaffare lo curano di persona. Com'è dura, signora mia, la concorrenza per i veri professionisti quando a Palazzo Chigi - Pasolini non lo prevedeva - siede in plancia il primo sommo faccendiere d'Italia.

«Il Sud non si salverà solo con un localismo virtuoso», dice Franco Cassano gustando una granita nel sole barese. Sociologo e anima storica della «primavera pugliese», Cassano osserva un Mezzogiorno privo di futuro, incurante del passato, a rischio di passare dalla «periferia» all'isolamento totale. «Non solo Bassolino ma in tanti negli anni passati hanno pensato che il Sud ce la dovesse fare da solo, magari con una Repubblica dei sindaci. Viesti scrisse addirittura Abolire il Mezzogiorno. L'idea era sfidare l'Europa e liberare il capitalismo meridionale».

Perché quell'idea non ha funzionato?

«Napoli è un caso a parte soprattutto per le sue dimensioni. Non c'è alcuna proporzione tra l'entità dei problemi e gli strumenti che ha. I suoi problemi non possono essere risolti a livello municipale. Bisogna prendere atto che il Sud è molteplice, che non esiste nessun punto di osservazione privilegiato. Se sei in una situazione periferica non ne puoi uscire solo con il localismo virtuoso, la puoi battere solo con la grande politica. Vivere in periferia vuol dire che tu sei lontano anche da chi ti è vicino, come Roma. Vuol dire che devi passare prima dal centro per muoverti e non hai un accesso diretto al mondo».

E quindi chi è l'attore della trasformazione?

«Il Mezzogiorno ha bisogno di grande politica, e non ce n'è. Dovrebbe riconnettere le sue differenze interne. Nel dopoguerra il Mezzogiorno ha avuto un ruolo nazionale, subalterno, ma ce l'aveva. Con la globalizzazione invece il Nord non ha più bisogno del Sud: gli bastano la Romania, la Bulgaria. Per questo nel Nord si fa strada alla fine degli anni '80 l'idea del Sud come peso e spreco di risorse, e si pensa che è meglio che vada a fondo».

L'Italia come un arcipelago di regioni che non comunicano più tra loro. Però mi pare che si assomiglino più di quanto appaia: la 'ndrangheta a Milano, il consumo del territorio ovunque, le piccole imprese nel Veneto o in Sicilia.

«Certo, le mafie hanno radici territoriali ma sono ormai pienamente globalizzate. Ma la differenza per me è tra centro e periferia. Il Nord non è il centro di un sistema europeo ma comunque è integrato. Il Sud no, e questo è considerato ormai un dato antropologicamente incorreggibile. Sono analisi molto semplicistiche. Le regioni non sono separate, tra di loro c'è un rapporto. Come fai a parlare della Lombardia senza considerare l'arrivo lì di migliaia di laureati che formiamo qui al Sud? Il punto sono le relazioni, non gli indicatori statici. Il pregiudizio antimeridionale vive da sempre nelle cantine di Bergamo. Ma il problema è che adesso prospera in tutto il paese anche per le colpe della classe dirigente meridionale».

Che fare allora?

«Il Sud avrebbe bisogno di grandi finanziamenti e di un'idea di sviluppo che lo faccia entrare in relazione con i suoi vicini. Gran parte delle risorse che vi arrivano invece sono destinate al consenso. O'Connor, un vecchio marxista californiano, diceva che la spesa pubblica deve scegliere tra accumulazione e legittimazione. Nel Sud gran parte di queste risorse servono a organizzare il consenso, anche con servizi o cose buone, ma non preparano il futuro».

Del federalismo fiscale dicono: è meglio perché se spendi male i miei soldi ti caccio via. Ma chi governerà gli enti locali non spenderà ancora di più per legittimarsi? Non si rischia un consenso ancora più perverso?

«È un meccanismo che si accentuerà. Ma il punto è come fai ad andare avanti con una coperta corta. Quando Tremonti dice «cialtroni» ai politici meridionali passa ad altri una bomba sociale pericolosissima. Col federalismo se un sindaco o un presidente dirà alla gente: non vi diamo più questi servizi - ospedali, borse di studio, etc. - perché dobbiamo programmare il futuro in altri settori, si brucierà. Che fai, prendi le mie tasse per darle a qualcuno tra vent'anni? Senza risorse si sta accendendo una grande polveriera sociale. Quale che sia il tipo di sviluppo a cui si mira, non si può fare senza investimenti che non siano destinati subito al consenso. La politica italiana fa poco o niente perché in Italia le masse sono entrate nello Stato, ma ci sono entrate in modo tale che tu dovresti togliere ad alcuni e dare ad altri e non lo puoi fare. Sono dilemmi tragici anche perché la politica ormai è totalmente a valle dei processi economici. È al massimo la politica del tappabuchi».

Anche Tremonti secondo te non orienta i processi?

«Tremonti fa l'interesse di alcune parti. Per lui il bene comune è il bene di alcune aree del Nord e che gli altri si rompano. È una politica malthusiana facile, piccola cosa anche se si muove su scenografie filosofiche o planetarie e si traveste di forza. Poi però voglio vedere che succede. Perché credo che le conseguenze non saranno indolori».

E la Puglia che ruolo può svolgere?

«È in corso un'esperienza interessate e importante. Ma la Puglia deve evitare la tentazione di fare «la più bella del reame». Non si deve illudere di poter fare da sola, deve lavorare insieme agli altri per trasformare il centro di gravità in un quadro policentrico».

Ma tu che ne pensi del Sud di «Gomorra»?

«Saviano va difeso ma credo che nel Sud ci sia anche altro. C'è una tendenza a proteggerlo in cambio dell'uso continuo della sua testimonianza. Anche dentro la logica di Gomorra il primo addendo può essere la presa di coscienza e la scelta dell'azione civile ma per fare una somma ci vuole cultura, sapere, risposte anche sui meccanismi di sviluppo. Ci deve essere insomma una prospettiva di uscita dal regime criminale. Devi inventare dei percorsi. Non è certo colpa di Saviano se non li offre altri dovrebbero farlo. La legalità è un problema grave e siamo grati a Saviano per averla messa al centro del discorso, ma da sola non basta. Leggevo sul Fatto un articolo che si chiedeva perché sia la Chiesa che Berlusconi eludono la legalità. E la tesi era: Berlusconi la elude in nome dell'investitura popolare e la Chiesa in nome del mandato divino. Al di là del moralismo è una tesi interessante. Ma la sinistra si deve ridurre tutta alla difesa della legalità? Non ha più un oltre? Un'esigenza di trascendenza rispetto alla legge? Le leggi si rispettano ma vanno anche cambiate, contestate. Nella legge ci sono dimensioni che vanno costruite e non si esauriscono nell'osservanza della legalità formale. La questione meridionale non è più una questione nazionale ed è amputato di qualsiasi prospettiva. Se vuoi cambiare le cose, devi cambiare le leggi esistenti e ispirare le leggi del futuro. E invece c'è una contrazione, soprattutto giovanile, sulla legalità. E' frutto del berlusconismo, certo, ma anche della scomparsa del futuro, dell'oltre, dei pensieri lunghi».

Anche i partiti però sono un problema serio.

«Una volta queste analisi si facevano nei partiti. Oggi invece sembrano competenze territoriali o chiacchiere da intellettuali. Spero che le fabbriche di Nichi si sintonizzino anche su questa lunghezza d'onda. Che non diventino un'isola in cui si sta bene perché c'è una comunità omogenea. Il problema non è solo di un leader o delle oligarchie di partito: ci devono essere luoghi di ragionamento collettivo. Altrimenti solo la via carismatica, passionale o creativa corre il rischio di non essere sufficiente. È necessaria, forse, ma per diventare sufficiente deve attrezzarsi a una pratica di relazioni che vadano anche oltre la fantasia o la creatività. Con uno sguardo strabico: un occhio alle emozioni e uno agli altri».

«Il capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita». Incontro Nichi Vendola nel suo ufficio alla regione Puglia sul lungomare di Bari. Alla vigilia degli stati generali delle «sue» fabbriche non si dà pace per la macelleria sociale, sadica, targata Tremonti: «L'anno prossimo in Basilicata scompariranno i treni».

Che cosa dirai alle persone che verranno domani (oggi, ndr)?

Non ho influenzato neanche per un secondo la costruzione del programma di questi stati generali. Mi sono accordato con gli organizzatori solo sul loro senso generale. Che è la raccolta di tutte le esperienze fatte e la possibilità di immaginare un loro sviluppo, un percorso. Per me ho ritagliato due discorsi in apertura e chiusura sul buio e sulla luce, come nella Genesi. Insisterò sulla necessità di dare parole alle cose e di non essere privi di vocabolario. Sono molto curioso anch'io di come sarà.

Nove anni fa in questi giorni eri a Genova. E' rimasto un qualche nesso tra quella stagione e «gli stati generali» delle «tue» fabbriche che iniziano a Bari?

Il movimento noglobal aveva rotto per la prima volta la tela dell'egemonia liberista e capovolto lo schermo su cui veniva proiettata la globalizzazione. Soprattutto aveva raccontato «un altro mondo possibile» all'opinione pubblica mondiale. Per questo la repressione fu così implacabile. Il garantismo di regime si rovesciò in una buia notte cilena. Il paradosso di oggi è che c'è per intero la narrazione di quel movimento ma non c'è più il narratore. Fu un errore in quel luglio del 2001 non aver chiesto a tutte le sinistre il salto di qualità che andava compiuto. Lì dovevamo rifondare il soggetto politico, nel punto più alto dell'onda planetaria. Oggi siamo costretti a questa fondazione per la ragione contraria. Perché siamo al massimo decadimento della politica e a un punto di crisi senza precedenti dell'etica pubblica e della coesione sociale. Ma in questo quadro la crisi travolgente del centrodestra vede un affanno drammatico delle forze di opposizione e in particolare del Pd. Tracolla il berlusconismo e il Pd perde consenso.

Appunto. Quindici anni di berlusconismo hanno devastato la sinistra fino a farla scomparire e hanno allontanato, forse definitivamente, i giovani dalla politica «praticata». Perché le tue fabbriche sono nate soprattutto da giovani?

Da un lato c'è una politica ufficiale che si avvita nella stanca reiterazione di vecchie formule come quella del governo tecnico o istituzionale e di tutte queste diavolerie. Dall'altro c'è il tremontismo che avanza e che mette in mora anche Berlusconi con la dittatura dei mercati. E' un paesaggio che assomiglia a una guerra mondiale. In cui un'intera generazione non potrà più darsi appuntamento col proprio futuro produttivo. Sono francamente inascoltabili sia il lessico cingolato di una destra che organizza comunità di rancore come visione generale del mondo, sia un centrosinistra che balbetta ricette di buon senso come un buone amministratore di condominio. C'è una destra che fa il tifo per Marchionne e un centrosinistra che gira la testa altrove come se tutte le culture della modernità non fossero convocate di fronte ai diritti sociali e individuali di un operaio di Pomigliano.

C'è un rischio però. Che il «nuovo inizio» cancelli genealogie col passato che invece ci sono e andrebbero articolate, se si vuole veramente «rigenerare» la politica. Non c'è narrazione senza esperienza.

E' una domanda aperta. I nodi della storia non sono nicchie di nostalgia, sono vettori di ricerca. Le fabbriche sono una lotta generazionale all'interno del vecchio centrosinistra. Ma sono un esodo dalla cattiva politica che puzza di morte. Questa è una generazione che può ricostruire una propria genealogia senza furbizie eclettiche e senza torcicollo. Gli alleati spontanei di questi giovani sono Gino Strada e Emergency, don Ciotti e Libera, Carlo Petrini e Slowfood. Tre punti di ribaltamento dell'egemonia borghese che falsificano il modello di sviluppo fondato sulla guerra, la violenza e la mercificazione della natura. E' una generazione che scopre in forme anche naif una narrazione femminista, magari attraverso il documentario di Lorella Zanardo.

Mi pare che i seminari che avete preparato siano molto attenti a Obama. Cos'è, la costruzione di un «Obama bianco»?

C'è una curiosità genuina. L'Europa si sta liberando della propria civiltà in maniera sbrigativa, quasi burocratica. E' un continente che si rimpiccolisce in una dimensione neocarolingia da fortezza assediata, che invecchia illividendosi. Perché è interessante l'America di Obama? Perché è il luogo in cui il principio-speranza è tornato a occupare uno spazio a sinistra che prima era occupato dalla realpolitik. E poi perché ha aperto nuovi codici della comunicazione politica. Noi, ma non solo noi, guardiamo con simpatia alla connessione tra Rete e piazza.

E' l'inizio di una campagna nazionale?

Sul piano politico è la mossa del cavallo. Ma le caselle della scacchiera non sono più la politica-politica ma tutte le zone di confine tra culture e corpi sociali, tra soggettività che provano a mettere in comune esperienze per rifondare una rete cooperante. Cooperare è la ragion d'essere della sinistra. Se resta la politica ma crepa la comunità, la sinistra muore. La sinistra del futuro deve essere innanzitutto un nuovo umanesimo. Deve contrastare il paradigma della competizione con quello della cooperazione. E deve farlo all'incrocio tra libertà, lavoro e sessualità, nella connessione tra corpo sociale e corpo individuale.

Ma poi c'è l'esperienza di governo. La vicenda Obama insegna che la Rete costruisce ma anche distrugge. Il suo discorso sulla «impotenza» di fronte alla macchia di petrolio dimostra che il punto non è costruire un leader quanto produrre quel cambiamento auspicato collettivamente.

Quel bellissimo discorso di Obama segnala il limite del riformismo. Dentro il recinto delle compatibilità date non c'è una risposta strutturale. Non lo dico per estremismo ma oggi bisogna costruire con radicalità un'idea alternativa dello sviluppo e della crescita. C'è un modello di capitalismo e di mercato che non soltanto è sempre più incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita. Questo è il radicalismo nuovo, universalistico. Il lessico di un'alternativa vincente.

Uno scioglilingua: non ci sarà più la “Dia” ma la “Scia”. Non la “dichiarazione di inizio attività” ma la “segnalazione certificata di inizio attività”. Ma dietro quella parolina: segnalazione al posto di dichiarazione si nasconde «il condono preventivo», l’atto finale di un «progressivo azzeramento del controllo del territorio». Se passerà l’emendamento del senatore Antonio Azzollini, relatore di maggioranza per la manovra finanziaria, per impiantare un’impresa, un centro commerciale,un laboratorio artigianale, non ci sarà bisogno di autorizzazioni, basterà l’autocertificazione e, in materia ambientale, sarà sufficiente la certificazione fornita da istituti universitari o altri organi con “capacità tecnica equipollente”.

«Con il pretesto di lottare contro una burocrazia soffocante – sostiene Vezio De Lucia, che è uno degli urbanisti più prestigiosi in Italia - in effetti si distrugge la Pubblica amministrazione in modo così radicale da intaccare la stessa democrazia. Pezzo a pezzo si annullano le regole dello stato moderno». Si potrebbe obiettare che lo spirito della legge sia rafforzare la responsabilità individuale, chi autocertifica il falso risponderà ex post. Non è così, secondo De Lucia: «Il controllo a posteriori non esiste e la prova regina è che ancora oggi si stanno smaltendo le pratiche del primo condono, quello fatto da Craxi nel 1985». E il paradosso è che ormai siamo al condono preventivo, «che non porta nemmeno soldi nelle casse dello Stato». «Penso - dice l’urbanista - che il condono in materia edilizia sia persino peggiore di quello tributario che produce un danno etico ma, dopo 20 anni, nessuno se lo ricorda, invece il condono edilizio produce una ferita che resta in eterno».

Quello di cui si discute in Senato è un capovolgimento di valori, un «colpo micidiale» al nostro ordinamento: «Siamo stati il primo stato moderno a mettere la tutela del paesaggio nei principi costituzionali» ora, invece, c’è «l’annichilimento del parere delle soprintendenze, l’edilizia comanda sull’urbanistica e il principio del silenzio-assenso pone la questione della tutela sullo stesso piano di ogni altra espressione della Pubblica amministrazione, facendo perdere ogni gerarchia di valori».

Pretesti

L’oppressione burocratica è un pretesto, «Nelle regioni più attente, in Toscana, per esempio, non ci sono lamentele degli imprenditori, le cose vanno male in quelle realtà del sud dove prevale la peggiore sub-cultura familistica che non accetta le regole». D’altra parte «è questa la mentalità del premier Berlusconi», la sua storia di imprenditore che scardina le regole e per la quale oggi ci troviamo il frutto avvelenato «di una informazione Tv che ha ucciso lo spirito critico e propagato un modo di pensare tutto privatistico». È questa mentalità che porta ad accettare «la devastazione della cultura pubblica». C’è una responsabilità «grave» del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, la cui politica contrasta «il codice Urbani che è strumento valido e al quale, non per caso, ha lavorato, come presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Salvatore Settis che si sta battendo con coraggio e lucidità». Ma quello che sta accadendo in Senato segue «una sfilza di provvedimenti precedenti» come l’approvazione del federalismo demaniale: «C’è qualcosa di simbolico nel fatto che subito dopo l’unità d’Italia, con l’esproprio dei beni ecclesiastici, lo Stato unitario demanializzava, creava beni pubblici. Oggi, a 150 anni, si privatizza».

È la legge di gravità che ha costretto infine Aldo Brancher a dimettersi ieri da ministro. Persino in Italia, non si può rimanere sospesi nel nulla governativo senza deleghe, senza ragioni politiche, senza giustificazioni istituzionali, appesi soltanto ad un´urgenza privata di salvaguardia dalla giustizia, per scappare al proprio giudice e all´uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge, secondo lo sperimentato modello Berlusconi.

Per questa ragione il Premier è nudo, dopo le dimissioni di Brancher, davanti al sopruso tentato e non consumato. Il sistema - quell´insieme di regole, soggetti, diritti e doveri che reggono la Repubblica democratica - si può forzare fino a un certo punto, non oltre. Il Cavaliere ha toccato con mano questo confine: la sconfitta è pesante proprio perché è la prova di un´impotenza e la conferma che l´arbitrio ha un limite. Quel limite democratico che passa tra la tenuta delle istituzioni responsabili e la reazione della pubblica opinione.

È un Cavaliere dimezzato quello che nomina Brancher ministro e poi lo ritira, svilendo il governo nelle porte girevoli di un triste vaudeville. Una specie di animale politico ferito perché la prepotenza istituzionale era stata finora la sua vera arma per uscire dalle difficoltà, quando si trovava nell´angolo.

Ora rimane l´angolo, le difficoltà si ingigantiscono sotto gli occhi di tutti, ma la prepotenza non funziona più. Il ruggito del "ghe pensi mi" viene ingigantito dai telegiornali, ma sembra venire dal cimitero degli elefanti, quasi una richiesta d´aiuto. Così l´annuncio roboante di pochi giorni fa, a reti unificate, si rovescia nel preannuncio di una ritirata impaurita, da governo balneare democristiano.

Che cosa resta di questo avventurismo da fine corsa? Le impronte digitali, prima di tutto, sugli annali della Repubblica. Sono le impronte tipiche di Berlusconi e testimoniano due cose: prima fra tutte, la concezione privata dello Stato, e l´uso del governo e dei ministeri come un qualsiasi appannaggio personale, di cui il Capo può disporre comunque a vantaggio di chiunque, meglio se si tratta di suoi ex dipendenti aziendali.

Ma è ancora più grave, perché rivelatrice, la seconda lezione che si deve trarre dal caso Berlusconi-Brancher. Ed è il rapporto inconfessabile che lega il nostro Presidente del Consiglio ad alcuni uomini - ieri Previti, oggi Brancher, ieri, oggi e domani Dell´Utri - che conoscono e partecipano il segreto oscuro delle origini. Fra questi personaggi e il Cavaliere il rapporto sotto pressione diventa drammatico e costringente da entrambe le parti. Un rapporto servo-padrone ma con i ruoli che si scambiano, perché è via via sempre più palese che entrambi agiscono in una dipendenza reciproca che li obbliga terribilmente, di cui non possono liberarsi: semplicemente perché ognuno sa ciò che l´altro conosce, e non c´è salvezza fuori da questo legame costrittivo, per sempre.

È una logica da setta ben più che da partito, da gruppo chiuso e non da formazione liberale, è la negazione della trasparenza e della pubblicità che dovrebbe governare la politica, anche nei momenti più difficili, anche nei conflitti. E il vero gran sacerdote, Fedele Confalonieri, ha svelato addirittura la liturgia e il rito ambrosiano separato che regola il cerchio più ristretto del berlusconismo, nel leggendario racconto all´epoca dell´arresto di Brancher per Tangentopoli: quando rivelò che lui e Berlusconi, futuro Presidente del Consiglio italiano, ogni domenica mattina si facevano condurre dall´autista attorno a San Vittore, dove giravano in Mercedes «per entrare in comunicazione spirituale con Brancher detenuto».

Bisogna domandarsi, a questo punto, qual è il grado di libertà personale e politica di un Capo di governo che sente questo tipo di obbligazioni e per rispondervi è costretto a ingannare il Capo dello Stato (che non ci sta) e a compiere atti politicamente autolesionisti per un´evidente urgenza a cui non può permettersi di sfuggire. Un premier che nomina un ministro per un incarico che non c´è e che tiene vuoto l´incarico di un altro ministro che non c´è più, costretto a dimettersi per lo scandalo - tutto ancora aperto - della Protezione Civile.

La questione, con ogni evidenza, non è giudiziaria, è tutta politica. Brancher, come gli auguriamo, può anche risultare innocente in tribunale, ma resta colpevole la commistione tra i suoi guai privati e il salvacondotto pubblico costruito insieme con il Cavaliere. La marcia indietro obbligata conferma che non ci sono più coperchi ad Arcore per le troppe pentole fabbricate da diavoli di serie B: e testimonia una debolezza politica ormai evidente nel leader, dopo la condanna di Dell´Utri, la rivolta costituzionale di Fini, gli avvertimenti istituzionali di Napolitano, l´incertezza della manovra, lo scandalo Bertolaso, l´affare Scajola, la forza separata di Tremonti, la febbre della Lega.

L´immagine che riassume tutto è il piano inclinato: sul quale rotola un governo che non governa da mesi, una leadership imponente ma immobile nel suo affanno -salvo colpi di coda-, come una balena spiaggiata. E al fondo della confusione, rotola un ministro ormai abbandonato che va a dimettersi addirittura in quel tribunale a cui voleva sfuggire, con la nomina fantasma del Cavaliere.

Nelle icone alchimistiche il re vecchio, quindi debole, divagante, gaffeur, muore e rinasce giovane: in una l´ammazzano dei rivoltosi (Stolcius de Stolcenberg, Viridarium Chymicum, 1524); nell´altra lo divora un lupo, simbolo della materia primordiale, e lui riappare poco distante, uscendo incolume dal fuoco (Maier, Scrutinium chymicum, 1687: cito da Jung). Viene in mente Re Lanterna, al secolo Silvio Berlusconi. Settantaquattro anni sono un´età ancora virile ma ogni tanto l´obiettivo crudele fissa figure che il trucco non ingentilisce, ad esempio, maschere d´ira torva, come chi, soverchiato dai fatti, non sappia dove battere la testa: il governo dorme al punto basso d´una terribile crisi economica; ministri o sottosegretari corrono pericoli penali; uno s´è dovuto dimettere; due o tre stanno sulla corda; in corte d´appello incassa sette anni il vecchio sodale, definito contiguo a poteri mafiosi, e qualora la decisione diventasse res iudicata, sarebbe arduo scindere l´impero d´Arcore da quei precedenti; nel partito l´obbedienza non è più assoluta. Sua Maestà soffre i tempi. Da via Solferino lancia allarmi la bibbia dei moderati, insolitamente disinvolta, senza toccare il monarca, beninteso. L´editoriale del 28 giugno invoca "un colpo d´ala". Chi abbia memoria buona rammenta lo scandaloso "fondo" in cui 65 anni fa l´allora direttore della Stampa, Concetto Pettinato, fustiga l´inerte governo repubblichino: "Se ci sei, batti un colpo"; frase futile nello scenario mondiale, quando mancano poche settimane all´epilogo e relativi rendiconti; da quella compagnia moribonda l´accusatore tardivo non poteva pretendere niente, sapendone l´ignobile storia.

Le cri du coeur non risuona invano. L´indomani un foglio della Casa risponde in gergo ambrosiano: "Silvio s´è rotto dei pirla" (Libero, 29 giugno); l´elegante frase appende alla gogna i dignitari pericolanti, colpevoli perché maldestri, in specie l´ultimo, appena nominato, con titoli dubbi, così incauto da opporre al tribunale lo scudo sotto cui Dominus Berlusco aspetta un terzo lodo d´immunità. Vi sarebbe molto da obiettare: gliel´aveva fornito lui, avendo buoni motivi, talmente buoni da indurlo al passo prevedibilmente rischioso, ma l´arte dei discorsi corretti vale poco nei regimi padronali, quindi chiudiamo gli occhi sull´incongruo; la colpa non è mai del padrone; nella stessa logica sghemba italiani devoti al Duce vituperavano i gerarchi invocando purghe esemplari. Che bell´animale espiatorio era Achille Starace. "Batta un colpo, dia una sterzata", allontani "qualche uomo che gli sta attorno". I fascisti li chiamavano "cambi della guardia". L´indomani, festa dei santi Pietro e Paolo, l´ex-socialista craxiano con stemma piduistico, capogruppo a Montecitorio, nell´intervista al Corriere indica la via d´uscita dalla congiuntura: riaffermare la leadership berlusconiana; con poteri rinforzati, inutile dirlo, che liberino miracolosi dinamismi. L´Uomo forte era sull´altra sponda atlantica. Da lì batte un colpo rovesciando il tavolo: gli ottimisti consideravano rinviabile all´autunno il ddl che inibisce le intercettazioni, a tutela d´una varia fioritura criminale; nossignori, sia votato dalle Camere in piena estate; gl´Italiani capiranno chi comanda.

Torniamo al "colpo d´ala"; lo invoca un cantore della "moderna democrazia liberale" ed enumera gl´inadempimenti: primo, la riforma della giustizia; come riformarla? Separando le carriere. Scaviamo sotto le parole. Poco o niente da obiettare se i riformatori postulassero due magistrature organicamente distinte, fermo restando l´identico stato giuridico; ma vogliono un pubblico ministero sui generis, "avvocato dell´accusa". Ancora parole vaghe.

L´autentico disegno trapela su due punti capitali, inscindibili: azione penale esercitabile o no, secondo lune politiche, mentre l´art. 112 Cost. la esige obbligatoria; e l´ufficio requirente convertito in lunga mano governativa negli affari de iustitia, in una catena gerarchica dall´ultimo sostituto all´onorevole Angelino Alfano. Che in Francia sia così, è argomento spudorato. Siamo in Italia, dove potere tirannico, cortigianeria, impulsi servili hanno radici profonde. In paesi meno guasti eventuali abusi sono rimediabili nel dibattito parlamentare. Qui vengono i brividi se pensiamo cos´avverrebbe appena la scelta del perseguire o no l´ipotetico reo dipenda da ministri ubbidienti: nessuno disturba i ruminanti della greppia governativa e meno che mai sfiora Sua Maestà d´Arcore; diventano superflui gli scudi; in compenso, "avvocati d´accusa" tengono d´occhio i politicamente malvisti; e poco male se il paese sprofonda, fino a quando nelle ore canoniche i Tg, lanterna magica, raccontino favole gaudiose al pubblico stupefatto, i cui voti scendono docili nell´urna.

Abbiamo capito perché la prima doléance sia una mancata "riforma delle carriere": d´un colpo incardina l´ancora malfermo regime padronale; quanto tempo era costata l´inutile ricerca d´espedienti che Lo rendano intoccabile dalla giustizia terrena. Siamo al quarto tentativo: due lodi invalidi; una legge precariamente rabberciata, su cui pende la stessa sorte; un terzo lodo in grembo alle Camere, da votare con la procedura delle revisioni costituzionali, e ogni intenditore lo vede altrettanto invalido; infine, il pensatoio blu elucubra una risuscitata immunità parlamentare, volendo salvare dalle molestie giudiziarie ottocento teste, meno gli oppositori antipatici. Sarebbe così comoda la leva penale in mano al guardasigilli, manovrabile secundum quid. Scivolando sui sottintesi, lo auspica l´organo dell´opinione moderata. Autorevole dottrina, ha due ascendenti negli anni Ottanta: Bettino Craxi, al quale Comuni memori intitolano una via; e Licio Gelli, iniquamente escluso dal culto toponomastico, come talvolta capita ai precursori; entrambi avevano qualche motivo per detestare l´azione penale obbligatoria (le cui sintassi e storia varrà la pena d´esporre, tanto importanti sono gl´interessi coinvolti).

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