Paolo Grassi:
Caro Augias, rispondendo sul Corriere della Sera ad un lettore, Sergio Romano scrive che il partigiano «colpisce il nemico nella speranza di suscitare rappresaglie, come nel caso dell'attentato di via Rasella». Quell'attentato di cui Giorgio Amendola, della Giunta militare del Cln, si assunse tutta la responsabilità, fu un legittimo atto di guerra che, come tale, voleva attaccare il nemico e smascherare l'occupazione militare nazista di Roma «città aperta». Non sto a ripetere le deformazioni propagandate dal dopoguerra ad oggi. In particolare contro la medaglia d'oro Carla Capponi, di cui il 23 novembre scorso è ricorso il decimo anniversario della morte. L'ho conosciuta personalmente, come sono stato in stretto contatto con partigiane e partigiani romani e con famiglie di martiri delle Ardeatine, che pur dolorosamente colpite hanno sempre difeso quell'azione. Ovvio che Carla Capponi abbia sempre rivendicato la sostanza e l'obiettivo militare di quell'azione, ma ricordo ancora tante sue parole in merito alla fierezza nazionale di cui si inorgoglivano i partigiani e lei stessa, come il ruolo encomiabile dei militari nella Resistenza, quello di Montezemolo e Persichetti, o la tragedia di Cefalonia di cui ho appreso non dalle iniziative di Ciampi, ma qualche decina di anni prima dentro una sezione del Pci.
Paolo Grassi -
pagrassi@alice.it
Corrado Augias:
Sono rimasto anch'io sorpreso dalle parole di Sergio Romano che stimo come attento osservatore della storia non solo diplomatica. L'attentato di via Rasella è uno dei pochi eventi della guerra di Liberazione in cui la vulgata neofascista è riuscita ad imporsi diventando talvolta 'senso comune'. Evidentemente anche Romano, che è di cultura liberale, dunque assai diversa, ne è rimasto in qualche modo preso. Non risulta da nessuna parte che quell'attentato sia stato organizzato allo scopo (tanto meno 'nella speranza'!) di suscitare rappresaglie. Al contrario, dopo un laborioso iter giudiziario, è stata la Corte di cassazione a porre fine alle polemiche con una sua sentenza (febbraio 1999) nella quale, confermando la Resistenza come istituzione della Repubblica ha, di conseguenza, considerato l'attacco partigiano come «legittimo atto di guerra». L'Italia libera aveva dichiarato guerra alla Germania il 13 ottobre 1943; dopo lo sbarco ad Anzio gli Alleati avevano esortato via radio le forze partigiane: «A lottare con ogni mezzo possibile e con tutte le forze ? bisogna sabotare il nemico ? colpirlo ovunque si mostri». Secondo un altro radicato pregiudizio, se gli attentatori si fossero consegnati ai tedeschi, l'eccidio delle Ardeatine si sarebbe evitato. La conoscenza dei fatti e degli orari (che qui non posso riassumere) smentisce anche questa malevola ipotesi.
Edoardo Salzano:
Posso aiutare l’amico Paolo Grassi e Corrado Augias a fornire ai lettori ulteriori elementi sulla vicenda di Via Rasella e successiva strage alle Fosse Ardeatine. In eddyburg il lettore troverà facilmente un testo utile: l’articolo dello storico Alessandro Portelli, sul manifesto del 25 aprile 2006, che informa ampiamente di una lucida e puntuale contestazione di Rosario Bentivegna alle menzogne di Bruno Vespa (è qui). Il giorno dell’attentato ero a pochi passi di via Rasella, e nei miei ricordi d’adolescenza quei giorni è ancora viva: anche perché uno degli assassinati nelle Fosse Ardeatine era un ufficiale monarchico antifascista amico di famiglia, Filippo di Montezemolo. Nel pubblicare il mio libro Le memorie di un urbanista ho integrato i miei ricordi con una piccola ricerca, dei cui risultati do conto in una pagina che copio qui sotto per i lettori di eddyburg.
«Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui avevo assistito da vicino, a Roma, con mio cugino Luigi, all’hotel Imperiale a Via Veneto. Un piccolo commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo attacco con pistole e bombe a mano, un reparti di soldati tedeschi che percorrevano la centrale via Rasella. 32 soldati erano stati uccisi. Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un gruppo formato da 10 persone per ogni tedesco ucciso e di liquidarli per rappresaglia. In realtà ne furono presi 335: militari e partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche persone che con la resistenza non c’entravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furono trucidati con le mitragliatrici, finiti con un diligente colpo di revolver, seppelliti con l’esplosione di mine.
«Né quel giorno né il giorno dopo se ne seppe nulla: i giornali pubblicavano solo le notizie permesse dai fascisti, tacquero. Due giorni dopo un crudele comunicato, pubblicato sul “Messaggero”, diede la loro versione:
«“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quell’ordine è già stato eseguito»(“Il Messaggero”, 25 settembre 1944).
«Dopo la Liberazione il Comune bandì un concorso nazionale che condusse alla costruzione del più bell’episodio di architettura civile dell’Italia del secolo scorso, e forse uno dei più belli in assoluto. Lo disegnò un gruppo di giovani architetti e scultori (Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia, Mirko Basaldella). Accanto alla roccia tufacea della cava un grande parallelepipedo si calcestruzzo, come una gigantesca lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua; accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati; un cancello molto tormentato segna l’ingresso al complesso, nel quale sono state ripristinate le cave nelle quali gli ostaggi furono raccolti e trucidati.
«Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana si tentò di gettare fango su quell’episodio, definendolo un atto criminale dei comunisti (quasi riecheggiando le parole dell’ukase nazista). Ma la giustizia riabilitò l’operato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di legittimo atto di guerra (Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 6 agosto 2007, n. 17172)».
Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del fòntego, Venezia 2010, p. 6-7
Il governo è in agonia, ma continua a rivoltarsi scompostamente. Fuori tempo massimo tenta di ritrovare nuova energia nell'ideologia neoliberista che era all'origine dei suoi successi "giovanili". Era questa la grande promessa che avrebbe permesso al berlusconismo di imporsi non solo sul piano dell'immaginario collettivo e del (mal)costume, ma anche sul piano più elevato della storia e delle visioni del mondo. L'ambizione più grande del centro-destra italiano dagli anni '90 è stata quella di provare ad abbandonare il sistema sociale definito dalla costituzione repubblicana. Un modello costituzionale comune a tutte le democrazie contemporanee europee. La nostra non è mai stata una costituzione «bolscevica» (solo Berlusconi poteva fraintendere), non ha, però, mai permesso una deriva neoliberista. La "forza" della costituzione italiana è in ciò: essere una tavola di valori condivisi da tutti, che si può interpretare secondo indirizzi politici anche molto distanti, ma sempre entro un ambito costituzionale delimitato. Su queste basi, in Italia, è stato possibile il progresso civile e politico.
Troppo lungo sarebbe spiegare perché a un certo punto tutto ciò s'è interrotto. Limitiamoci a constatare che dalla generale richiesta di "attuare" la costituzione si è passati ad un'altrettanto generale pretesa di "cambiare" il testo che aveva garantito il progresso in Italia. È noto che tra i protagonisti del cambiamento di prospettiva c'è stata gran parte della sinistra. È stato questo un errore storico dal quale sarà difficile riprendersi. Ma ora interessa parlare d'altro.
Interessa qui parlare dell'ondata neoliberista che si è abbattuta tardivamente in Italia. Dopo la rivoluzione thatcheriana e reaganiana, anche in Italia la destra ha provato a imporre il suo neoassolutismo. Il neoliberismo inteso come un assoluto trascendente, prodotto di un pensiero unico, lo scardinamento della democrazia pluralista per come è stata concepita nella nostra storia contemporanea. Da questo punto di vista era "naturale" che individuasse nella cultura "compromissoria" della costituzione un nemico. Se si voleva imporre una visione unilaterale che facesse strage dei diritti sociali e dell'organizzazione equilibrata dei poteri, diventava necessario cambiare il carattere complessivo della costituzione vigente. La "grande riforma" e le pulsioni costituenti hanno avuto questo senso profondo. Una consapevole strategia di abbattimento del nostro sistema costituzionale pluralistico che ha avuto il suo apice nella riforma della seconda parte della costituzione approvata dal parlamento dalla maggioranza di centro-destra e respinto dal corpo elettorale nel 2006. Fu quello il più importante tentativo di imporre un'"altra" costituzione, che assumeva il premierato assoluto e il neoliberismo ideologico come suo unico fondamento costituzionale. La costituzione pluralista uscì vincitrice da quello scontro terribile, le concezioni totalitarie neoliberali, espresse da un Berlusconi nel pieno del suo vigore polemico, furono sconfitte. Forse è da quel momento - dal referendum costituzionale del 2006 - che può datarsi la fine del berlusconismo come ideologia, la conclusione della parabola politica del centro-destra. In fondo una fine sul campo più "nobile" di quella postribolare che la cronaca di questi giorni ci racconta.
In tal modo si spiegherebbe anche il fatto - altrimenti incomprensibile - del fallimento politico del governo di centro-destra nell'attuale legislatura: sebbene abbia ottenuto la più ampia maggioranza parlamentare mai registrata in Italia, è nato "morto", perché privato di ogni reale prospettiva di sviluppo. La crisi economica e l'assenza di ogni alternativa politica hanno fatto il resto. Oggi cominciamo ad accorgercene.
Anche se "morto" il centro-destra continua però a governare, e vista l'assenza di strategie alternative "vive" non c'è da stupire. E così ci riprova, auspicando la riscrittura dell'articolo 41 della nostra costituzione. Il senso "ideologico" complessivo che si vuole assegnare appare chiaro: stravolgere il compromesso costituzionale, modificando l'equilibrio che in materia d'iniziativa economica ha definito la costituzione pluralista italiana. Si vorrebbe rendere assoluta la libertà degli imprenditori privati e cancellare i contrappesi dell'utilità sociale del rispetto della dignità umana che la nostra costituzione invece impone. Soprattutto escludere, così come prevede il terzo comma, la possibilità di un coordinamento dell'iniziativa economica pubblica e privata dettata dell'interesse generale della collettività. Eliminare insomma ogni diversa ragione che non sia quella dell'impresa. Un disegno eversore del sistema costituzionale. Un disegno che si pone per questo governo ormai fuori tempo massimo. Non passerà.
L’Egitto è un’occasione che perderemo. L’occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo – spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall’Occidente – che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.
Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l’avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L’Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo – anzi, la condizione perché non si arresti?
Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato – via Frattini – nessuno se n’è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l’occasione di incidere in una svolta storica – stavolta l’aggettivo è pertinente – che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L’ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l’Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.
Così abbiamo dimenticato che per secoli l’Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l’intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.
Nell’Egitto khedivale l’italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d’intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E´ storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell´immediato, anche un gesto simbolico.
A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell’identità egiziana. Quell’identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell’immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l’Egitto sia un qualsiasi pezzo d’Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook – già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" – e rischiano la vita per la libertà?
Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E’ quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c’è più. L’Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
Attivate il "mini-client" e cliccate con il vostro "mouse", come spiegato nella "slide" successiva, recitano le istruzioni del ministero. E attenti, aggiungeremmo noi, a non commettere errori nella compilazione della domanda: anche la minima incertezza nel trascrivere un nome o un indirizzo potrebbe costarvi cara.
Non riuscireste a regolarizzare la persona cui affidate la cura dei vostri cari, detta "badante". E voi immigrati con un permesso di soggiorno non potreste permettere ai vostri figli di raggiungervi senza doversi rivolgere ai criminali, quelli che organizzano il traffico degli immigrati clandestini, pagando un "pizzo" elevato e rischiando la loro vita.
Tutto avverrà in poco più di un minuto nei tre click-day a vostra disposizione. Bisognerebbe chiamarli "abdic day", perché sanciscono l’incapacità di governare i flussi migratori, la scelta di abdicare da questa responsabilità. Nel peggiore dei casi si lascia ai professionisti delle pratiche telematiche (le istruzioni sul sito del ministero sono tutt´altro che semplici e infarcite di termini inglesi, ostici per molti datori di lavori domestici) la scelta su chi regolarizzare e chi non. Nel migliore sarà invece un razionamento lasciato interamente al caso.
Ma davvero un paese come il nostro non può scegliere quali immigrati far arrivare da noi, non può stabilire priorità? Abbiamo già milioni di immigrati che vivono da anni in Italia e che vorrebbe ricostruire le loro famiglie da noi. I nuovi arrivati si integrerebbero molto più facilmente di chi arriva senza conoscere nessuno. Abbiamo uno stato sociale che non aiuta chi non è più autosufficiente e famiglie che diventano sempre più piccole, non più in grado di offrire la cura di qualità di cui gli anziani avrebbero bisogno. Gli immigrati che tappano questi buchi sono sempre più indispensabili, non possiamo farne a meno. Abbiamo anche un bisogno disperato di talenti, di manodopera qualificata per riconvertirci su produzioni a più alto valore aggiunto. Uno studente straniero che prende un dottorato da noi, molto spesso grazie a borse di studio a carico del contribuente italiano, che parla la lingua italiana e che potrebbe creare tanti nuovi posti di lavoro, è spinto ad andarsene altrove al termine dei propri studi. Non sarebbe più efficiente cercare di trattenerlo da noi anziché affidarsi al caso o confidare sul suo click veloce?
Sarà un "abdic day" anche perché, una volta di più, servirà soprattutto a regolarizzare chi è già da noi illegalmente, anziché a regolare i flussi in ingresso, come recita ipocritamente il decreto che lo istituisce. Chiederemo a queste persone di uscire e poi rientrare col rischio peraltro di non poterlo fare se identificate come irregolari nel momento in cui lasciano il nostro paese. Sarebbe una beffa per chi vince la gara del click-day, una beffa pagata all´ipocrisia di leggi che fingono di regolare gli ingressi sapendo bene che finiscono per lo più per sanare irregolari già da noi.
Non appena si è sentito odore di elezioni anticipate, la Lega ha fatto affiggere sui muri di Milano un manifesto con l´immagine di un barcone di disperati in arrivo sulle coste italiane. Titolo eloquente: "Vogliono farli tornare". Paradossalmente se la prendono proprio con il Presidente della Camera che ha sottoscritto assieme a Bossi la normativa sull´immigrazione. La Bossi-Fini gestisce da dieci anni le politiche dell´immigrazione in Italia.
Il manifesto è rimasto senza risposta. Anche perché l´immigrazione è uno dei tanti temi che divide l'opposizione, spaccata tra l´ideologia e il pragmatismo. Proviamo allora a darla noi la risposta. No, non vogliamo farli tornare, anche perché non hanno mai smesso di arrivare, valicando altre frontiere. Né vogliamo farli deportare nel deserto libico e stringere accordi molto impegnativi con i dittatori del nord-Africa, regimi antidemocratici e sulla via del tramonto. Vogliamo solo governare l´immigrazione. Voi siete capaci di farlo solo a parole e rigorosamente solo in campagna elettorale.
Nel ministero che fu di Giovanni Spadolini e di Alberto Ronchey, ma anche di Rocco Buttiglione ed Enzo Scotti, Sandro Bondi da Fivizzano ha scelto una terza via. L’autodissoluzione poetica. Scelto nel maggio del 2008 da Berlusconi come un testimone di fede del berlusconismo estatico, Bondi rischia ora di evaporare dopo tre anni di errori e versetti satanici in cui per sé ha ritagliato il ruolo del santo e a tutti gli altri, corifei di una cultura che “deforma i lineamenti”, addebita l’invenzione di un complotto diabolico.
Abbasso Draquila, viva Alain Elkann
E dire che c’era un Sandro Bondi che aveva e stigmate della sofferenza che nobilita: l’infanzia poverissima da immigrato (veniva preso in giro dai bambini svizzeri), i viaggi in piroscafo per andare a trovare la moglie per via dell’aerofobia. Un Forrest Gump ad Arcore, irricevibile ma dignitoso. Oggi, travolto dalla scapigliatura erotica del berlusconismo, il nuovo Bondi ha superato la paura del volo, ha lasciato la moglie permettersi con una rampante azzurrina, subisce un romanzo in codice in cui un’altra ex raccontava del ministro Toscani a cui piaceva farsi suggere i capezzoli ed eleggere le sue protette (capito?).
Bondi soffre il conflitto, preferisce farsi da parte, a due passi dal precipizio, un po’ piagnone. Ma lo scorso anno decise di indossare i paramenti da crociato. Primo obiettivo: negare il fondo pubblico a “La Prima linea”(senza averlo visto). Secondo passo: ostracizzare “Draquila” di Sabina Guzzanti, ospitato a Cannes. Un film applaudito da mezza Europa che nelle parole del ministro dei Beni Culturali divenne occasione per declinava l’invito della più importante rassegna cinematografica del mondo così: “Provo rincrescimento e sconcerto per la partecipazione di una pellicola di propaganda che offende la verità e l'intero popolo italiano”. Jack Lang, l’ex omologo francese di Bondi parlò di “bizzarra concezione della libertà”. Mentre la Guzzanti brindava (per la pubblicità involontaria) Bondi non tradì le aspettative. Rimase nell’angolo. E poi puntualmente, riemerse. A giugno, l’amico Alain Elkann venne estromesso dalla cinquina del premio Campiello. E Bondi, che vive di certezze e derubrica il dubbio ad agente della controinformazione, tornò dichiarazionista: “Secondo alcune ricostruzioni Elkann, che ha l'unico torto di collaborare con il ministero dei Beni culturali, sarebbe stato eliminato dopo la diffusione di un articolo del Fatto, scritto in un raccapricciante stile staliniano, a causa del quale alcuni giurati avrebbero mutato il loro voto precedentemente espresso in suo favore. Mi scuso con lui, che è un grande scrittore, persona perbene e lontana dagli intrighi politici e culturali, per averlo danneggiato senza saperlo”.
Premi bulgari, crolli italici
Con la destra si frusta e con l’altra mano colpisce l’universo ostile che mostra di non capirlo. Il decreto sulle fondazioni liriche suscita uno sciopero di maestranze e orchestrali mai visto? Conseguenza “dell’irresponsabile demagogia dei sindacati”. Il mondo del cinema si stupisce di non vederlo a Venezia? Lui scrive al Corriere considerazioni amare e, come da lezione arcoriana, individua il germe del preconcetto comunista. “Ho portato a termine un provvedimento essenziale come il Tax Credit e il Tax Shelter; abbiamo approvato un disegno di legge di riforma del Cinema ma non mi capiscono perché non nutro la loro stessa ideologia”.
Bondi al Festival non va, minaccia di “voler mettere becco nella scelta dei giurati”, ma fa premiare il 3 settembre uno sconosciuto film bulgaro. La regista, Michelle “Dragomira” Bonev è una cara amica del premier. E quando le insistenze per non deludere Dragomira salgono di tono,Bondi inventa da par suo. Un premio nuovo di zecca, con una targa-patacca,inserito in una parata di sorrisi di plastica tornita da deputati del Pdl ed europarlamentari ignari per compiacere B., 32 ospiti della Bonev alloggiati tra il Cipriani, i lussi del Lido e l’indecenza.
Due mesi dopo, mentre a Pompei crolla la casa dei Gladiatori, motore del turismo internazionale e Bondi sostiene di non aver idea di come possa essere accaduto lasciando al vice Francesco Giro l’’esilarante spiegazione: “L’archeologia è antica, antichissima e per questo di estrema fragilità: i monumenti come il Colosseo o gli edifici di Pompei sono alla stessa stregua di persone malate croniche, che hanno bisogno di cure continue”.
Il Fatto offre altri motivi di dispiacere al ministro. La storia porta il cognome della nuova compagna di Bondi, Manuela Repetti, parlamentare del Pdl. La Repetti ha un figlio laureando in architettura, Fabrizio. E Sandro, uomo di cuore, trova al ragazzo (senza competenze in materia) un contratto al Centro Sperimentale di Cinematografia con distaccamento preteso nella direzione cinema del ministero da lui diretto.
L’apoteosi nepotistica arriva quando si scopre nelle pieghe della relazione del Fus del 2009 (lo stesso trascinato da Bondi ai livelli più bassi della storia repubblicana) un impiego per Roberto Indaco, padre di Fabrizio. Venticinquemila euro per “arte e moda”, benché papà Indaco sia ricordato solo come co-gestore del Motel Novi, l’albergo di famiglia di Manuela Repetti a Novi Ligure. Bondi telefona al Fatto: “Sono due casi umani, non potreste sorvolare?”.
La fine di un equivoco
La vicenda, unita al premio patacca veneziano, lo indebolisce. Lo attaccano i giornali amici (durissimo Filippo Facci su Libero), i parlamentari del Pdl, Berlusconi stesso. Lui urla la propria innocenza e va a farsi trafiggere in diretta da Michele Santoro confondendo Paolo Sorrentino con Matteo Garrone. Sipario. Forse il Parlamento ora lo sfiducerà. Così Sandro potrà tornare all’invettiva vergata in occasione di un incontro tra il presidente Giorgio Napolitano e gli artisti italiani, nel 2009. Quando il complesso di inferiorità scatenato da Giovanna Mezzogiorno lo schiantò: “Davanti a tutto quel genuflettersi e inchinarsi di attori e attrici, di artisti e commedianti, di registi e teatranti, di cantanti e cantautori, quasi mi dispiaceva di aver previsto leggi che non contempleranno più la posa prona, il servaggio, l’accattonaggio dell’artista al politico. Mi sembrava di aver tolto dignità al servo, liberandolo”. Pensava di colpire gli odiati intellettuali di sinistra. E forse non si accorgeva di parlare di sé.
Uso della prostituzione minorile e concussione aggravata non sono due reati leggeri per nessuno, tantomeno per un presidente del consiglio. E la richiesta del rito immediato sta a significare che le prove in possesso della procura di Milano sono consistenti. Siamo di fronte all’atto giudiziario che sigla una sequenza di cosiddetti «scandali sessuali», meglio definita fin dall’inizio da Veronica Lario «ciarpame politico», che dura da ventuno mesi, e che contiene in sé tutti gli elementi necessari a un giudizio politico sul regime di Silvio Berlusconi, anche a prescindere dalla prova tecnica di un reato penale.
Chiunque, di fronte a tanta evidenza, cederebbe il passo, si imporrebbe cautela, abbasserebbe i toni. Berlusconi e la sua corte no. Quando, nell’autunno scorso, si seppe dai giornali che il premier aveva personalmente telefonato alla questura di Milano, la notte del 27 maggio scorso, perché Kharima el Marhouh, in arte Ruby, minorenne marocchina arrestata per furto, venisse rilasciata in quanto «nipote di Mubarak » e affidata a Nicole Minetti, il premier prima negò poi rivendicò: «l’ho fatto per bontà», «amo le donne» e «meglio amare le donne che essere gay». Oggi fa il gradasso e dice che non vede l’ora di difendersi dal reato inventato di «cena privata a casa del presidente». I suoi, intanto, organizzati in due armate, ripassano e ripetono il copione. L’armata politica grida alla giustizia a orologeria e al complotto destabilizzante; l’armata giuridica, Ghedini & co., prepara i cavilli per sfilare l’inchiesta dalla procura di Milano e le carte per usufruire di quel che resta del legittimo impedimento; Gaetano Quagliariello, testa di ponte fra i due battaglioni, sentendo parlare di prove «aspetta di vedere i preservativi» (parole sue). Non è da escludere che la seconda armata riesca nel suo intento di diluire nel nulla l’ennesima inchiesta a carico del premier. Ma qui non è, o non è solo, il seguito giudiziario della vicenda il punto.
Sempre nell’autunno scorso, fu di Carlo Freccero l’acuta osservazione che quel verbale della questura di Milano da cui risultava la telefonata notturna del premier rompeva improvvisamente e definitivamente, con un inoppugnabile dato di realtà, la fiction scritta, prodotta e interpretata con successo per vent’anni da Silvio Berlusconi.
A romperla in verità c’era già stata la parola di due donne, Veronica Lario e Patrizia D’Addario, la moglie e la prostituta uscite allo scoperto per denunciare di quanto ciarpame e di quanta corruzione fosse fatta quella fiction;Masi sa che nella misoginia imperante, non solo berlusconiana, la parola di due donne vale meno di un verbale. E dietro quel verbale ce n’erano altri, in procura, a resocontare un’inchiesta su un presunto giro di prostituzione organizzato a beneficio del premier dai suoi fidi, Mora, Fede, Minetti per le feste di Arcore nello stesso ruolo che fu di Tarantini per le feste di palazzo Grazioli e di villa Certosa. Questo è lo stato del principe e della corte. Questa è la fotografia del regime che va sotto il nome, ormai in tutto il mondo, di «berlusconismo».
Ora il punto è il seguente. Da ventuno mesi ci sentiamo ripetere, dalla maggioranza e dall’opposizione, la stessa solfa. Dalla maggioranza: sono «intrusioni indebite della vita privata»; a casa propria ognuno può fare quello che vuole, e la legge non ci può entrare; il premier è un simpatico libertino perseguitato da magistrati delinquenti e dalla stampa di sinistra talebana. Dall’opposizione, fatte salve poche e meritevoli eccezioni: lo stile di vita del premier non è un esempio di moralità, ma non ci interessa, se non per le questioni di sicurezza e di decoro istituzionale che solleva; non è su questo che Berlusconi va combattuto e battuto, ma sulla politica «vera», l’economia, il malgoverno, i deputati comprati e venduti. Lasciamo perdere gli insuccessi strategici e tattici di cui è stata costellata, anche di recente, questa strada, e torniamo alla fotografia del regime. Il fatto è che nella soap dei cosiddetti «scandali sessuali» che va avanti da ventuno mesi, derubricata da destra e da sinistra a fatto minore, c’è tutta, ma proprio tutta, la quintessenza del berlusconismo. Sconfinamento fra pubblico e privato, politicizzazione della biografia e privatizzazione della politica; contrabbando dell’arbitrio per libertà (tutto si può fare); riduzione a supermarket della vita pubblica e privata (tutto si può comprare, dalle donne ai parlamentari); uso della sessualità come protesi del potere; uso dei ruoli sessuali («veri uomini» e «vere donne») come maschere rassicuranti per identità, maschili e femminili, incerte;uso razzista della bellezza; imperativo del godimento come surrogato del desiderio; pratica dell’illegalità come risposta beffarda alla crisi dell’autorità e della legge; eccetera. Prima la politica di un’opposizione degna di questo nome si deciderà a occuparsi di questo fascio di questioni con una proposta culturale degna di questo nome, prima spunterà l’alba del dopo-regime. Diversamente la fiction scritta, prodotta e interpretata da Silvio Berlusconi continuerà a calamitare la sua audience, e i cavilli di Ghedini a occupare le cronache.
Conta due secoli la storia delle costituzioni scritte. Riassumiamola: monarchie assolute sradicano gli antagonisti interni sviluppando apparati e tecnologie moderni; culture del diritto naturale e illuministi riformatori postulano una razionalità immanente; metamorfosi traumatiche impongono un codice genetico. Supernorme fissano le procedure del lavoro legislativo, altre regolano i contenuti. Leggi formalmente perfette nascono morte quando divergano dai parametri. L’art. 3 Cost. ne detta uno capitale presupponendo cittadini giuridicamente eguali: «davanti alla legge» il vagabondo irsuto è pari al plutocrate talmente ricco da comprarsi castelli, palazzi, ville, corpi umani, maschere, lanterne magiche. La regola non ammette revisioni (art. 138): ad esempio, Camere servili ritoccano l’art. 3, stabilendo che Dominus e famigli stiano fuori del comune spazio normativo, intoccabili; mossa invalida nell’attuale sistema; i «revisori», infatti, vogliono affossarlo e vi riescono quando i sudditi pieghino la testa, eventualità nient’affatto improbabile nelle società diseducate al pensiero; chi comanda i piccoli schermi trascina masse stupefatte.
In formula ipocrita i due articoli della l. 7 aprile 2010 n. 51 creano exceptae personae, più forti della legge. Vediamole. L’art. 420-ter c. p. p. prevede il rinvio dell’udienza quando l’imputato non possa assistervi: deve trattarsi d’«assoluta impossibilità», da «caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento»; se ricorra tale ipotesi, lo stabilisce una decisione sindacabile; l’offesa al contraddittorio invalida i processi. Qualora l’imputato fosse presidente del consiglio (o ministro), era ovvio che entro dati limiti l’impegno governativo costituisse legittimo impedimento; basta intendersi sui tempi; indichi i giorni disponibili e tra persone serie tutto avviene de plano. Siccome gli uomini non sono angeli, c’era il rischio della soperchieria: guadagna settimane e mesi; finalmente viene, salvo interrompere l’azione scenica, chiamato altrove, né consente al sèguito, dove sarebbe rappresentato dai difensori; vuol occuparsene personalmente; il premier ha meno diritti del cittadino qualunque?; e sbandiera gli articoli de quibus. Il nuovo testo taglia corto a profitto dei perditempo, configurando un ostacolo permanente e insindacabile. Monsieur N, in fuga dal processo, risulta padrone del gioco, tanti sono gli asseribili impedimenti: ne evoca quanti vuole, dalla «politica generale» agli affari dei singoli dicasteri (art. 95 Cost.), né teme smentite; l’elenco nell’art. 1, comma 1, è fumo negli occhi, non essendo enumerabili in forma tassativa gl’incombenti; l’ultima frase allarga ancora le maglie mettendo nel conto prius e posterius, nonché «ogni attività» in qualunque modo «coessenziale» (aggettivo fumoso). Rinvio automatico, visto che il giudice non ha alternative: contestando i motivi addotti s’ingolfa avventurosamente; se procede, semina nullità.
Il comma 3 gli sottrae la cognizione dei fatti: ogniqualvolta il signore dell’esecutivo dica «non posso», l’evento processuale sfuma; può anche permettersi lo scherno raccontando che lui spende ogni ora libera, diurna o notturna, nel pensatoio elucubrante salutari riforme; è «attività preparatoria», no? Nel comma 4 siamo al clou: se afferma che l’impedimento duri fino alla data x (impregiudicati gli eventuali futuri), l’udienza va fissata oltre tale termine, col limite d’un semestre; e così, ripetuto due volte, il trucco porta via 18 mesi; entro i quali l’art. 2 pronostica l’immunità stabilita con legge costituzionale, altrimenti lo scudo temporaneo sarebbe prorogato; Camere docili votano sul tamburo una lexiuncula.
Insomma, finché presieda il Consiglio, durasse anche trenta o quarant’anni in sella, Monsieur N, affetto da fobia giudiziaria, schiva i tribunali opponendo l’impedimento ogni sei mesi. Il precedente fiabesco è Bertoldo condannato a morte mediante impiccagione, con una clausola: scelga l’albero a cui sarà appeso; pronto a servirli, appena trovi l’idoneo; non ne vede. L’ostacolo al processo diventa impunità. La stasi sine die equivale a riscrivere l’art. 3 Cost., come nell’orwelliana Fattoria degli animali: espulso mister Jones, i maiali vittoriosi elaborano una Carta (art. 7, «all animal are equal»); passando gli anni, s’evolvono; ormai camminano su due gambe.
Voltaire corrodeva gl’idoli con battute esilaranti. L’art. 2, comma 1, spiega dove miri questo capolavoro: garantisce al beneficiario un «sereno svolgimento» delle funzioni governative; dunque, non manca il tempo da spendere in curia; ne troverebbe anche Napoleone. I motivi della fuga stanno nell’interno d’anima: maledetta Dike, gli sta alle calcagna; la possibile condanna è un incubo. Cattivo segno, obietta lo spettatore ancora sofferente d’antiquati moralismi. No, replicano: innocente o colpevole, ha bisogno d’uno scudo e tutti vi siamo interessati; la sua quiete psichica è risorsa inestimabile. Era una fantasia primitiva che gli equilibri naturali influenti sulla tribù abbiano l’epicentro nel corpo del re: lui «sereno», il regno fiorisce; ogni disturbo scatena effetti calamitosi. Ergo, l’interesse tutelato dalla l. 7 aprile 2010 prevale sulla miserabile routine giudiziaria. Gli ascoltatori seri ridono, d’una ilarità malinconica perché corrono tempi tristi quando masnade parlamentari legiferano così.
Siamo al contraccolpo della spallata fallita. Scampato il pericolo della bocciatura parlamentare, Berlusconi e Bossi, Tremonti e Sacconi dilagano. L'università è sfigurata, la stampa libera ha un bavaglio che la soffocherà, il lavoro è messo in riga, pronto per il nuovo che avanza grazie a Marchionne e Bonanni. Può darsi sia il crepuscolo del piduismo in salsa berlusconiana, anche se la popolarità della cricca al potere non scema. Di certo è un tramonto velenoso. Devastante. Cupo come l'ultima macabra stagione del fascismo repubblichino, al quale il protagonismo dei Gasparri e dei La Russa rimanda.
Ci stiamo avvitando con rapidità vertiginosa in una crisi generale di inedite proporzioni. I dati sulla povertà di massa, la disoccupazione giovanile e la precarietà del lavoro dipendente mettono nero su bianco il senso di un'intera fase storica durata almeno due decenni, nel corso della quale i poteri forti hanno riconquistato con gli interessi il terreno perduto con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. Ma se la destra trionfa, ciò accade anche per l'inerzia e l'inconsapevolezza del progressismo democratico.
Torniamo alla mancata spallata del 14 dicembre. Tutti facevano il tifo per Gianfranco Fini, inopinatamente assurto al rango di eroe dell'Italia democratica. Chi sia Fini ce l'hanno ricordato in questi giorni i documenti pubblicati da WikiLeaks sulle vicende seguite all'assassinio di Calipari. Ma perché tanta voglia di illudersi? Perché tutto questo bisogno di dimenticare? Forse perché non c'è molto altro in quei paraggi (parliamo del Palazzo) in cui riporre qualche speranza. Questo è il punto. C'è più o meno mezzo Paese che sogna un nuovo 25 aprile ma non sa a che santo votarsi.
La si giri pure come si vuole, ma questo fatto suona come il più impietoso atto d'accusa nei confronti del Partito democratico. Che non solo non è in grado di rappresentare l'ansia di liberazione che pervade quello che un tempo chiamavamo «popolo della sinistra», ma ne impedisce l'espressione, ne frustra le potenzialità, ne devia l'energia verso sentieri interrotti. La stessa scena dell'incontro tra gli studenti e il presidente della Repubblica lo dimostra. Si va al Quirinale perché non si scorge in nessuna delle forze politiche presenti in Parlamento chi voglia davvero ascoltare e raccogliere le ragioni della protesta. Dire tutto questo sarà poco corretto politicamente, ma le cose stanno in questi termini e la verità non va sottaciuta. È questo il nodo oggi al pettine. Venticinque anni di radicamento dell'ideologia neoliberale hanno stravolto la «sinistra moderata», che ora non riesce a prendere congedo dalla gestione reazionaria della crisi sociale e civile del Paese: dalla logica dei tagli alla spesa, del primato dell'impresa, della privatizzazione dei beni comuni. Anche l'ultimo ignominioso capitolo della distruzione dell'università pubblica sta dentro questo discorso.
La destra si è ripresa tutto il potere reale: il comando sull'economia e sul lavoro, il controllo delle risorse, il monopolio del discorso pubblico. Ma ancora oggi, come se nulla fosse, chi dovrebbe contrastarla ciancia di modernità e di merito, di guerre democratiche e di libero mercato.
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Sul filo di lana, sale sui tetti e urla nell'aula del Senato. Crede forse che la nostra memoria si sia a tal punto indebolita da cancellare il ricordo delle cose dette e scritte in tutti questi anni e ancora negli ultimi mesi in tema di università, dalla legge sull'autonomia che ha trasformato gli atenei in aziende al famigerato 3+2, dall'idea delle Fondazioni universitarie alla proposta di aprire i consigli di amministrazione alle imprese, dalla messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori all'idea della concorrenza tra università, come se si trattasse di fabbriche di salumi e non di una istituzione chiamata a svolgere un servizio pubblico fondamentale per l'intera cittadinanza?
Come uscirne? È senz'altro giusto dire che il Pd «dovrebbe sbrigarsi» e impegnarsi nella «battaglia generale» per la salvezza della democrazia italiana. È altrettanto sensato augurarsi che lo stesso coraggio dimostri la Cgil, che ancora tituba, rimandando a tempi migliori la proclamazione dello sciopero generale, come se tempi migliori potessero sopraggiungere senza mobilitare nello scontro tutte le forze ancora disponibili. Ma intanto questi giorni hanno impartito una lezione che sarebbe diabolico non imparare a memoria.
Due mesi fa il segretario generale della Fiom a piazza san Giovanni disse con chiarezza che quel maestoso movimento di popolo cercava un interlocutore politico che ne raccogliesse esigenze e domande. Le forze della sinistra erano in quella piazza, ma in Parlamento le parole di Landini sono rimaste senza risposta. Poi sono insorti gli studenti e il mondo del precariato universitario. Anche in questo caso la sinistra era nelle lotte, ma ciò non ha impedito che la controriforma dell'università divenisse legge dello Stato. Tutto ciò, ci pare, significa una cosa soltanto. L'unica speranza qui e ora riposa sul conflitto di classe, operaio e sociale, sulla forza dei movimenti e sull'unità delle forze del cambiamento: sulla loro capacità di imporre al Paese un'agenda politica e precisi obiettivi di lotta.
Carlo Galli
Marc Lazar
Anthony Giddens
Gianni Vattimo
Jürgen Habermas
Fernando Savater
LE PAROLE PER RACCONTARE
QUEL CHE RESTA DI UN´IDEA
di Carlo Galli
Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c´è ancora chi scommette sul futuro di un concetto. Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili
La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite – la globalizzazione –, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un´idea. Oggi il centro della società è il mercato, l´impresa e le sue esigenze di sviluppo, l´individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell´uguaglianza – la legalità, i diritti civili – sono minacciate dall´insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c´è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un´altra, alternativa, che ha come finalità l´emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" – nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali –, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale – pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all´egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell´attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.
QUELLE PAROLE CHE LA SINISTRA DEVE RISCOPRIRE
di Marc Lazar
La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un´idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un´ampia parte dell´identità europea. Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell´ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell´uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest´idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un´uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un´uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un´Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all´ambiente.
Ma c´è l´altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all´insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell´accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l´estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
(traduzione di Luis E. Moriones)
LA LIBERTÀ È UN VALORE SOCIALE
di Anthony Giddens
Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un´alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell´importanza della solidarietà sociale, dell´uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all´attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
L´UGUAGLIANZA COME DIRITTO CULTURALE
di Gianni Vattimo
La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell´opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l´uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.
SE LA SOLIDARIETÀ NON È MAI FUORI MODA
di Jürgen Habermas
Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all´ordine degli scanni parlamentari all´Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient´altro che la messa in atto delle parole d´ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l´inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L´uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l´equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E´ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un´astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l´asimmetria dell´UE, che a una completa unificazione economica affianca l´incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un´Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
LA SFIDA DELLA SCUOLA
UN´EDUCAZIONE PER TUTTI
di Fernando Savater
Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l´ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l´ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l´educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un´altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori.
(traduzione di Luis E. Moriones)
«I l cielo quasi si velò come alla morte del Giusto, e gli elementi scatenati aggiunsero il loro fragore a quello del cannone, e i venti schiantarono le bandiere…» . Venne giù il diluvio a Caprera, racconta l'inglese di cuore italiano Jessie White Mario, eccezionale figura del Risorgimento, il giorno dei funerali di Giuseppe Garibaldi. Era l'8 giugno 1882. Erano venuti a migliaia, per l'ultimo saluto al vecchio condottiero spentosi la settimana prima dopo aver chiesto nell’ultima lettera al direttore dell'Osservatorio di Palermo «la posizione della nuova Cometa e il giorno della maggior grandezza» . E sotto la pioggia battente, mentre il mare mugghiava, ricorda un biografo, «appena deposto il feretro tutti fuggirono come anime perse nella bufera verso lo Stagnarello per cercare un imbarco…» . Come se fosse arrivato, di colpo, l’inverno.
Tredici decenni dopo, anche quelli della Protezione civile, i servitori perbene dello Stato e gli affaristi in giacca di lino se ne sono andati dalla Maddalena sotto una tempesta. Quella delle inchieste giudiziarie. E proprio come coloro che parteciparono alle esequie dell'Eroe dei due mondi, sui quali i garibaldini videro abbattersi la punizione di Giove pluvio perché era stata tradita la volontà del Vate di essere deposto su una catasta di mirto, agaccio e lentischio per esser bruciato come Patroclo su «un rogo omerico» , non tutti hanno trovato un'imbarco per andarsene senza danni. Non c'è posto migliore di Caprera e della Maddalena per racchiudere il senso dell'inchiesta che andiamo a finire dopo aver percorso tutta l'Italia per vedere com'è il Paese alla vigilia del Centocinquantenario dell'Unità. È tutto qui, a cavallo di queste isole stupende unite da un ponte-diga in faccia a Palau, nel Nordest della Sardegna. Il meglio e il peggio. La generosità più emozionante e l'egoismo più feroce. Il patriottismo ideale e l'immoralità indifferente al bene comune. L'Italia che amiamo, l'Italia che ci fa schifo.
Anche da Caprera, l’eremo scelto da Garibaldi per viverci con i figli e un po'di amici («una vera repubblica democratica e sociale — scrisse Michail Bakunin—, non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano…» ) gli ospiti rubarono qualcosa. Racconta Augusto Zedda nelle sue Cronache isolane che la pira omerica di quella specie di «santo ateo» che a Palermo era stato salutato come fratello di Santa Rosalia, venne saccheggiata dai fedeli a caccia di reliquie. Un rametto di lentischio, una foglia d'alloro, qualche bacca di mirto. Un secolo e passa dopo, i furbetti del G8 si sono portati via alcune decine di milioni di euro. E se il Gran Nizzardo invocava la sua isoletta chiamandola «Oh, caro scoglio!» , la Maddalena si è rivelata, per le tasche degli italiani, carissima. Al punto che non si sa più esattamente quanto è stato speso. C'è chi dice, rifacendosi ai dati ufficiali, 327 milioni. Chi spara 377. Certo è, spiega il ristoratore Andrea Orecchioni, che questo «è il primo inverno morto da decenni. Prima c'erano gli americani della base smobilitata a gennaio 2008 e i marinai della piazzaforte italiana, poi il formicaio della Protezione civile, architetti, tecnici, operai che preparavano in fretta e furia il vertice internazionale, poi quelli che si erano fermati per finire i lavori avviati… Fatto sta che quest'inverno non c'è nessuno. Nessuno» .
Orecchioni, detto Cicerone perché da ragazzo se un turista chiedeva informazioni al padre salumiere lui lo portava in giro spiegando le magie della Maddalena, non è un ristoratore tra tanti. È il padrone de «La scogliera» , un locale di Porto Massimo amatissimo dalla clientela più ricca della costa Smeralda. Lo chiamano il «Robin Hood del mestolo» dicendo che ruba ai ricchi presentandogli dei conti che sembrano eccessivi perfino a Flavio Briatore. Filippo Facci, un paio d'anni fa, arrivò a sbatterlo in prima pagina sul Giornale: aveva servito all'imprenditrice Luisa Todini, suo marito, la bambina e la tata «tre calici di vino, due bottiglie d’acqua, un antipasto per due, spaghetti all’aragosta per uno, branzino al sale per tre» . Conto finale: 850 euro. Nel dettaglio: «1 spaghetto aragosta 366 euro» . Lui ci ride su: «L’alta qualità si paga…» . Quelli della Cricca erano sempre a tavola da lui. Arrivavano con le Bmw e altri macchinoni extra lusso, mangiavano, bevevano. Lui, Cicerone, giura che ci ha rimesso: «Sono uno di quelli che sul G8 aveva scommesso. Gli avrò fatto una ventina di catering gratis. Una ventina. Ho preso anch'io il bidone. Gli curavo anche la mensa degli operai. Mille pasti al giorno. A 3 euro e mezzo a pasto. Gli dicevo: guarda che non ci sto dentro. E Mauro della Giovampaola, il coordinatore, mi diceva: “ Siamo all’osso”. Erano all'osso per me, e poi... Erano così tirchi che se non fosse scoppiata l'inchiesta non avrei mai immaginato che buttavano i soldi così... Li ho sempre difesi, ma hanno esagerato. Vengono fuori cose brutte. Brutte. Bertolaso no, lo difendo ancora. Ma gli altri...»
Per l'inaugurazione, che doveva far dimenticare la delusione inflitta all'arcipelago, gli ordinarono un buffet («prezzo stracciato: 90 mila euro» ) per tremila invitati. Tremila! Su un'isola che non arriva a 12.000 abitanti. Pierfranco Zanchetta, che dopo aver fatto l'assessore provinciale ha corso alle comunali contro la conferma del sindaco Angelo Comiti, che pure è del suo stesso partito, il Pd, spaccatissimo sull’ubriacatura del G8 ma più ancora sugli strascichi, rilegge ciò che aveva detto Guido Bertolaso in consiglio comunale: «Quella zona lì dell'Arsenale diventerà un grande Centro Nautico. Dovrebbe esserci un Cantiere Nautico con i controfiocchi, perché tutte le strutture e anche l'Area che chiamiamo dei Delegati sono progettate e realizzate non pensando che ci lavoreranno 2.500 ambasciatori da tutto il mondo, ma pensate perché, poi, ci saranno barche, rimessaggi, ci saranno cantieri, ci saranno officine…» . Sì, ciao. A girare per l'isola in quella manciata di chilometri quadrati in cui furono concentrati gli investimenti per il G8 mancato, viene il magone. Deserto l'ex ospedale militare ristrutturato come albergo pompandoci dentro, pare, 73 milioni di euro. Deserto il centro congressi avveniristicamente proiettato sull'acqua, costato 52 milioni pagati all'impresa edile di Diego Anemone e usato solo per il vertice con Zapatero passato alla storia (minore) perché il Cavaliere assicurò nella conferenza stampa di non aver mai pagato una donna. Deserto l'albergone rilevato con tutto l'ex Arsenale della Marina dalla società Mita Resort presieduta da Emma Marcegaglia. Deserta la darsena che, ospitando centinaia di posti barca da vendere a prezzi astronomici, dovrebbe rappresentare il vero grande business del business.
Il disinquinamento incompiuto di questo specchio di mare nel quale la Marina scaricò per anni tutto il pattume possibile e immaginabile, è il grande problema. Fin da quando Fabrizio Gatti raccolse su l'Espresso la testimonianza di un tecnico dell'impresa che doveva risanare l'area: «Più scavavi nel fondale, più trovavi fanghi contaminati. La benna tirava su melma densa come cioccolata e nera come pece. Erano sicuramente idrocarburi pesanti. Hanno deciso di lasciarli lì perché senza la costruzione di una diga ermetica, avrebbero inquinato l'arcipelago» . Sì, sospira il sindaco Angelo Comiti, «quando l’escavatore affondò i denti della benna ne tirò su una enorme cucchiaiata di idrocarburi. L'arsenale era una bomba ecologica. E’ la verità. Ma è falso che non abbiano fatto la bonifica. La bonifica c’è stata. Imponente. Lo sapevano tutti che restava da completare la parte finale di Cala Camicia. Mica doveva spiegarcelo Gatti…» . Per questo, dice, è convinto che l'affidamento per quarant'anni in cambio di 31 milioni di euro e un affitto di 60 mila l'anno «non è un regalo alla Marcegaglia. C'è stata una gara, regolare ha detto il Tar. Il dirottamento del G8 è stato un danno anche per lei. E poi, deve mettercene ancora tanti, di soldi… Anzi, capisco davanti a certe lentezze le sue perplessità» . Il guaio è, insiste, che «doveva esserci un’accelerazione finale dei lavori e invece lo spostamento all'Aquila causò una decelerazione. Partivano due navi al giorno per andare a buttar via quei sedimenti tossici. L'amianto, credo, a Torino. I materiali ferrosi a Livorno. Voglio dire che la bonifica è "quasi" finita. Ci vorranno ancora 6 milioni. Forse meno...» .
Sulla reale destinazione di tutti i fanghi portati via in realtà restano dei dubbi. Il 25 novembre i carabinieri, per dire, hanno sequestrato una discarica abusiva a Olbia: un ettaro pieno di eternit in un ex campo nomadi alla periferia della città. Campo che avrebbe dovuto essere a sua volta bonificato con l’occasione del G8. E chi hanno denunciato per l'immondezzaio tossico illegale? L’ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci e Raniero Fabrizi, tra i responsabili dell'organizzazione del G8 alla Maddalena. Come siano stati spesi tanti soldi è una cosa tutta da accertare. E non sarà facile. I lavori del G8, grazie alla qualifica di «Grande evento» , furono sottratti al controllo preventivo della Corte dei Conti. Di più, preso l'andazzo, i «maghi dell'emergenza» l'anno dopo il vertice cercarono di nascondere all'occhio dei magistrati contabili anche le regate della Louis Vuitton series. No, risposero i giudici: non si possono impiegare dipendenti e spendere soldi della Protezione civile per le barche a vela. Tanto più che oltre la metà dei quattrini stanziati per quelle regate (2 milioni 300 mila euro su 3 milioni 750 mila) furono direttamente versati dalla Protezione civile al Comitato organizzatore, una srl milanese controllata dalla società World sailing teams association che gestisce la Coppa America. Presidente: lo skipper Paul Cayard. Però un merito quella regata l’ha avuto. Fare scoprire appunto che quello specchio di mare non era stato ancora bonificato, nonostante i 31 milioni spesi per un’operazione alla quale aveva partecipato anche il cognato di Bertolaso, Francesco Piermarini. Benedetto come «un grande esperto» . Un fatto è sicuro: alla Maddalena non si è badato a spese. Stefano Boeri, l’architetto incaricato di gran parte delle opere ai tempi di Soru ma poi «di fatto escluso dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere» , ha scritto sul blog della rivista «Abitare» di «uno spreco inqualificabile di risorse» .
E non si riferiva solo al fatto che i tecnici dell’Unità di missione alloggiassero in ville affittate sulla costa e mangiassero alla Scogliera. I costi schizzarono da 200 a 327 milioni senza che alcuno facesse una piega. Un rincaro mostruoso. Dovuto, parole di Boeri, «alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57%di aumenti dei compensi, già stabiliti, per le difficoltà dovute all’urgenza, il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto dei tempi...» . Lo sapevano già prima, i furbetti, che c'era da lavorare in fretta e su un'isola. Eppure riuscirono a farsi riconoscere rincari del 57% perché occorreva fare in fretta e la Maddalena è un’isola. In parole povere, i disagi furono pagati due volte. Un meccanismo, secondo Boeri, «assolutamente senza senso» .
Lasciarono impronte digitali dappertutto, quei furbetti. Lo ricorda l'intercettazione fra l’architetto Marco Casamonti, che aveva progettato la trasformazione dell’ex ospedale in albergo, e Valerio ***, proprietario della Gia. Fi. costruzioni, l’impresa appaltatrice. Casamonti dice che ha la possibilità di far lievitare il conto come panna montata: «Quella è una cosa che mi curo io. Guarda, secondo me, per fare quello che ci vuole… altri 60 milioni di lavori» . Millantava? Qualche numero balla. Ma Fabrizio Gatti, con l'aiuto di chi si oppose al progetto, su quell'ex ospedale ha fatto due conti: dato che le stanze sono 101, ogni stanza sarebbe costata 722 mila euro. A sentire le intercettazioni, c'era già chi sapeva come andava a finire. Il 28 dicembre 2008 Vincenzo Di Nardo, amministratore della Btp (la ditta di quel Riccardo Fusi amico di Denis Verdini che avrebbe lavorato anche all’Aquila) si sfoga: «Sono banditi… E’ gente… Prima o poi si leggerà sui giornali che li hanno cuccati con qualche tangente in mano… Dai! Questi poi sono violenti e… Io ho visto la squadra in azione… Non la conoscevo questa del Balducci… E’ una task force proprio insieme unita e compatta… Sono dei bulldozer e il *** è uno di quelli blindati dentro questa logica qui del Balducci, che è il vero regista».
L’ex governatore Renato Soru ricorda bene come tutto ebbe inizio: «La Protezione civile fece base nel vecchio quartier generale degli americani. Credo che solo l’acquartieramento costò qualcosa come 10 milioni di euro. Arrivarono perfino con un ospedale da campo, mai utilizzato e poi trasferito all’Aquila» . Era stato lui a spingere con Prodi perché il G8 si tenesse alla Maddalena. Le basi militari stavano chiudendo e quella era un’occasione storica per risanare un pezzo dell’isola. Decenni di lavori e stazionamento delle navi avevano compromesso i fondali. Pieni zeppi di detriti, e soprattutto intrisi di oli che erano penetrati per metri in profondità. Subentrato a Prodi, ricorda il sindaco, il Cavaliere si mostrò subito poco entusiasta: «Se le idee non sono sue...» . Fatto sta che il 23 aprile 2009, il nuovo governatore Ugo Cappellacci apprese dalla tivù che la Sardegna aveva perso il G8.
«La mia impressione? Che avessero già spremuto il limone fino in fondo. E si spostavano da un’altra parte», ipotizza Soru. A Caprera, Garibaldi riposa probabilmente inquieto. Con tutti i soldi che hanno speso di là del braccio di mare per fare in fretta una cosa che poi non hanno fatto, non hanno trovato il tempo e il denaro per fare entro il 2010, centocinquantenario della spedizione dei Mille, il museo nuovo che, ospitato nel forte Arbutici, dovrebbe accogliere la grande collezione di Mario Birardi, già sindaco della Maddalena e deputato del Pci e appassionato cultore dell'Eroe dei due mondi. Mai, forse, avrebbe immaginato che l'esasperazione affaristica di una certa Italia avrebbe insultato il suo bellissimo e civile arcipelago dove fin dal 1811 un certo Alessandro Turri sbarcò da Genova con un documento intitolato «Memoria circa un progetto di indipendenza italiana» Fosse vivo, scriverebbe forse parole ancora più addolorate di quelle incise nella prefazione alle memorie: «Sono amareggiato a veder tanti malanni e tante corruzioni in questo sedicente secolo civile…». Raccontano che chiamasse i somari coi nomi di chi disprezzava. Uno don Chico (Francesco Giuseppe), un altro Napoleone III, un altro ancora Pio IX. Tornasse in vita, saprebbe lui come chiamarli i somari di oggi...
Il decreto Milleproroghe approvato ieri dal Consiglio dei ministri ha sancito le ultime volontà 2010 del governo Berlusconi. Premiata innanzitutto la fedeltà dei due deputati del Südtiroler Volkspartei che s'erano astenuti sulla sfiducia alla Camera: contro tutti i pareri delle associazioni ambientaliste, è stata accolta la richiesta di smembrare la gestione unitaria del Parco dello Stelvio per attribuirla alle singole amministrazioni locali, assai interessate a seguire in proprio il business (specie quella di Bolzano). “Non ci hanno detto se votate la fiducia vi daremo questo o quell'altro, ma è vero che su due o tre cose ci sono state trattative con Tremonti e Calderoli" aveva ammesso la settimana scorsa il leader della Svp, Luis Dumwalder. Detto, firmato.
Secondo punto d'onore, il reintegro del 5 per mille. Da settimane il ministro Tremonti giurava che avrebbe tatto miracoli pur di riportare a quota 400 milioni la cifra 2011, ma il prodigio gli è riuscito solo in parte visto che i 300 milioni, necessari a integrare i 100 già stanziati tramite legge di stabilità, saranno in realtà 200. Altri 100 verranno destinati alla ricerca e alla cura della Sla, malattia gravemente invalidante per cui le associazioni di malati avevano chiesto attenzione e finanziamenti protestando a lungo davanti Montecitorio. Ed ecco qua la soluzione: il 5 per mi le avrà alla fine 300 milioni in tutto (anziché i 400 previsti, come negli ultimi anni, cifra che corrisponde alle reali donazioni degli italiani), mentre per la Sla ce ne saranno 100 nuovi di zecca. Magia di Natale? Margherita Miotto, capogruppo Pd nella Commissione Altari sociali, protesta: “Il gioco delle tre carte stavolta non riuscirà a Tremonti. Il governo non può decidere in nessun modo l'uso che le associazioni di volontariato faranno delle risorse che i cittadini vogliono dare al non profit". In effetti la questione è tecnicamente controversa: come dirottare le cifre assegnate tramite dichiarazione dei redditi seguendo i desiderata ministeriali? Se volessi finanziare Emergencv, perché magari sono un pacifista e non gradisco che il Milleproroghe abbia tra l'altro deciso di riconfermare i 750 milioni di euro destinati alle nostre 'missioni di pace', perché i miei soldi dovrebbero invece andare alla - pur nobilissima - causa Sla? Mentre monta la polemica, e la sensazione che la questione 5 per mille sia diventata uno spot, a farne di certo le spese stati i fondi per l'editoria (50 milioni, con severe proteste Fieg) e quelli per le emittenti locali (45 milioni, lamenta Fnsi). Soldi e agevolazioni superfast invece erano previste per Pompei: 50mila euro per il 2010 e di 900mila annui dal 2011 per procedure straordinarie di reclutamento, dinamiche semplificate per l'affidamento dei lavori, classificazione speciale per gli immobili fuori dall'area archeologica da costruire in deroga agli strumenti urbanistici nonché potenti semplificazioni per gli obblighi di imparzialità e trasparenza su eventuali sponsor. Roba manifestamente pericolosa, e quindi stralciata. Ma il ministro Bondi ieri ha avuto un altro spauracchio. 170 mila euro arrivano anche al comune di Gemonio, la città di Umberto Bossi.
Nella bozza iniziale era previsto il contributo di un euro da caricare su ogni biglietto del cinema, un obolo per finanziare gli incentivi fiscali delle imprese cinematografiche (confermati fino a giugno). Reazioni subito violente del settore, poi la smentita ufficiale ha rasserenato gli animi, tranne quella degli artisti: il ventilato reintegro del Fus, fondo unico per lo spettacolo, è saltato.
Altro duro match quello ingaggiato dal titolare dell'economia con Stefania Prestigiacomo, decisissima a far rispettare lo stop all'utilizzo delle borse di plastica dal 1 gennaio 2011. La discussione serrata ha guastato la mattinata, culminata nell'annuncio di voler lasciare il Pdl.
Contenta invece Giorgia Meloni per la decisione presa dal collega Maroni di consentire il wi-fi nei luoghi pubblici, ma sempre col vincolo di rilascio di licenza per il gestore. Tutti d'accordo nel sospendere le tasse agli alluvionati del Veneto fino al 30 giugno 2011 e niente agevolazioni per gli aquilani, che dal prossimo mese dovranno ricominciare a pagare. Posticipati anche i termini per l'autodenuncia delle case fantasma (a fine febbraio), l'attività intra moenia per i medici e gli eco-bonus per i trasportatori mentre resta il no agli aiuti per i distributori di benzina con relativo annuncio sciopero. Rimandati ancora gli studi di settore e il sistema delle riscossioni dirette degli enti locali mentre Roma Capitale dovrà stringere la cinghia: lo stipendio del commissario straordinario per il rientro del deficit arriverà dal risparmio sui compensi dei dipendenti. Escluso ma non deluso il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che ha avuto ampie rassicurazioni sulla legge speciale da lui proposta, una tassa da far pagare al turisti: “Dopo l'incontro ad Arcore, Tremonti mi ha spiegato che con il Milleproroghe è difficile, non importa, basta che arrivi presto questa norma" ha detto Renzi. Il mille e una proroga è già realtà per chi ha fede.
In un buon romanzo, Il Gattopardo, che non è tra i miei preferiti per la collocazione di chi racconta, il principe di Salina trae dalla Storia (l’Unità d’Italia, i nuovi padroni piemontesi) una morale acida e amara. Essa è di constatazione ma è anche, in sostanza, per il principe e per i finti vinti come lui è, di insegnamento o meglio di incitamento a sapersi adattare al nuovo corso. La frase è diventata proverbiale, ma in questi giorni non mi è capitato di vederla citata. Dice che tutto deve cambiare se si vuole che non cambi niente, che non cambi l’essenziale. Dice, per l’esattezza: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Questa oscena saggezza riguarda l’ordinamento classista della società, i poteri concreti e basilari – che sono economici, che riguardano il privilegio economico, i modi di dominare e di agire dei gruppi dirigenti e dei loro singoli rappresentanti, i quali non vengono affatto messi in discussione, che devono restare nelle solite mani e ci restano. Nei casi più gravi, dopo una guerra mondiale e alla fine di una dittatura, si può assistere al rotolamento di qualche testa e marchio, a qualche “epurazione” (in Italia, dopo la guerra, i procedimenti di epurazione dei rappresentanti del vecchio regime colpirono solo pochi, e quasi soltanto in basso, e per breve tempo), nei casi meno gravi, come quello del nostro Paese alla fine del 2010 e in vista della fine, si presume e si spera, del ventennio berlusconiano, è molto facile prevedere che anche stavolta non cambierà niente di sostanziale. Qualcuno verrà messo in pensione anticipata, qualcun altro scivolerà da un ente a un altro e da un incarico a un altro e da una banca a un’altra, qualche gruppo politico portatore di qualche possibile novità sensata avrà per qualche tempo un’effimera importanza – anche perché protetto e cioè insidiato da media famelici – ma rischiando di non durare a lungo se vi si riverserà una schiera di politici e amministratori pronti ad adattarsi alla nuova situazione, con piccoli salti di campo, con spostamenti abili e calcolati o anche, tra i soliti pretoriani e peones, confusi e scomposti.
La pratica recente delle primarie è una buona cosa, perché almeno per il momento non sembra facilmente manipolabile, ma non basta a scalfire i blocchi consolidati dei professionisti della politica, sempre assai abili nei girotondi delle cariche e nella cura delle clientele, e se lo scontento dilaga anche nei confronti dei poteri ancora in carica, se il costo della vita aumenta e la retribuzione delle prestazioni lavorative cala e le stesse possibilità di lavoro diminuiscono a vista d’occhio per il fallimento di un modello economico che ha retto e illuso per lungo tempo, però sono ben radicati nel nostro humus culturale profondo un modo di pensare e dei modelli di comportamento che nessuno sembra aver davvero l’intenzione di scalfire.
Detto più chiaramente, se nel ’45 i fascisti erano scomparsi (ed erano stati la strabocchevole maggioranza della popolazione almeno fino all’entrata in guerra) già oggi va rapidamente scemando il numero di quelli che osano dirsi berlusconiani e che però hanno votato e idolatrato fino a pochi giorni addietro il loro affascinante super-ricco e i suoi magnifici esempi di comportamento civile e morale. Ma questo non vorrà dire che sia morto il berlusconismo e che gli italiani siano improvvisamente guariti dalla loro tendenza al conformismo e all’opportunismo. O, a sinistra, a dire A e fare B e magari a pensare C, e cioè a pensare e vivere, dicendo e credendo il contrario, da perfetti berlusconiani.
Nulla cambierà davvero? La speranza è l’ultima dea, e questa dea è bene onorarla e pregiarla sempre, nonostante le lezioni e le punizioni della realtà, è bene aggrapparsi a quel che di buono il futuro può offrirci e difendere e proteggere il poco che ci convince. Ma è anche bene guardare agli spostamenti della politica con qualche diffidenza, per non farsi fregare un’ennesima volta e perché sarà molto difficile che qualcosa possa davvero cambiare – con questa classe dirigente, con i rappresentanti che ci siamo dati, con le piccole e grandi complicità che abbiamo collezionato nei vent’anni delle vacche grasse (per alcuni grassissime).
Di tutto questo andrebbe rimproverato anche il giornalismo, che credo corresponsabile della miseria morale del nostro paese e di noi tutti, e che, su questo ci si potrebbe giurare, non cambierà negli anni a venire né il pelo né il vizio. Ma l’argomento è troppo grave per risolverlo in due battute, e bisognerà ritornarci.
“Tra l’altro, la maggior parte dei rifiuti è fatta di cose inutili.” Così qualche giorno fa concludeva il suo dire una signora intervenuta a “Prima pagina”, la benemerita rubrica di Radio 3, che si era ampiamente occupata di Napoli sommersa di immondizie.
Saggia e ineccepibile considerazione. Mucchi incalcolabili di buste, bottiglie, barattoli, scatole, contenitori di ogni sorta e misura, di plastica per lo più, ma anche di vetro, paglia, ecc., e massicci quantitativi di carta e cartone, anch’essi per gran parte plastificati, e innumerevoli materiali di difficile identificazione, “cose” per lo più illeggibili in una possibile funzione. Tutti destinati a vita brevissima quanto vana: tra la fabbrica e, raramente, il contenitore della raccolta selezionata; i più verso terminali di cui il cassonetto tuttofare è ancora il meglio, ma il più frequente è il mucchio indifferenziato e maleodorante di vecchia spazzatura per strade e piazze.
Cose inutili, diceva la su citata signora. Anzi dannose. Ma ciò che la signora non ha detto, e che d’altronde non dice quasi nessuno, è che questa assurda e all’apparenza inutile iperproduzione di cose-da-discarica, ha in realtà una sua funzione tutt’altro che immotivata, anzi decisiva nel sistema economico oggi imperante. Il quale - come noto – si regge sull’accumulazione di plusvalore, e dunque sulla crescita esponenziale del prodotto: cioè (come gli ambientalisti più consapevoli da sempre notano) su creazione e vendita di merci, non importa quali né con quali conseguenze, purché il prodotto aumenti.
Le tante “inutili cose” che ostruiscono e appestano le vie di Napoli e non solo, sono dunque tutt’altro che inutili secondo la razionalità vigente, e rappresentano al contrario un cospicuo contributo all’aumento del Pil, il sempre invocato Pil, che - secondo la totalità degli imprenditori, la quasi totalità dei politici, la larga maggioranza degli economisti, e fatalmente la grande massa del popolo - è la principale garanzia di salute e continuità dell’economia globale.
E’ vero che molte delle cose di fatto nate per la discarica possono (non tutte, ma in parte significativa) essere convenientemente trattate, in modo da ridurne la nocività e talvolta anche riportarle a funzioni utili. E’ questa la politica privilegiata da buona parte dell’ambientalismo militante. Politica positiva certo, ma ben lontana dall’essere risolutiva: non solo in quanto applicabile a una parte minima dei rifiuti, ma perché comporta procedimenti complessi e costosi, e dunque solitamente scartati; senza dire che quasi tutti comportano “avanzi” tossici, di difficile collocazione, che per lo più finiscono in mano a mafie e camorre, e per loro tramite vanno a inquinare il Sud del mondo, o magari vengono sistemati attorno a Napoli.
Tutto ciò di fatto risponde alla logica del capitalismo, e pertanto trova risposta conforme nell’agire economico, praticamente senza opposizione. Stranamente, neppure da parte delle Sinistre: le quali, certo, si battono per contenere quanto possibile le macroscopiche disuguaglianze sociali e difendere i diritti del lavoro, ma non sembrano in alcun modo mettere in causa l’impianto del “sistema” per combattere il quale sono nate.
E’ vero, le sinistre non godono oggi di gran buona salute, e affrontare un progetto di tale magnitudine non può non apparire fuori portata. Ma è anche vero che nemmeno il capitalismo appare troppo florido. E proprio la crisi ecologica planetaria potrebbe, forse dovrebbe, essere letta come ragione per gridare all’ormai evidente insostenibilità fisica dell’attuale sistema. Specie dopo un’estate in cui quello sconquasso del clima, eufemisticamente indicato come “maltempo”, ha provocato migliaia di morti e milioni di profughi; quando la comunità scientifica mondiale afferma che stiamo irreparabilmente consumando il patrimonio naturale, per cui presto l’invocata crescita mancherà di materia prima; e il New York Times della domenica dedica la prima pagina al rischio non lontano di sommersione di New York, Londra, Venezia, Il Cairo, Bangkok, Shangai…; e New Scientist a lungo analizza e mette in forse la reale utilità delle “rinnovabili”, nate per sostituire le energie fossili, ma ora rilanciate per sommarsi ad esse…
Accennavo alla mancanza di impegno delle sinistre in questa materia. In verità eccezioni non mancano. Ad esempio di recente Paolo Ferrero, delineando su Liberazione il progetto di unità della sinistra, indicava la necessità di rovesciare l’attuale politica economica e sociale, parlando anche di “riconversione ambientale dell’economia”. Lo scorso fine-settimana la “Federazione della sinistra” è ufficialmente nata. Il sabato non ho potuto essere presente, ma la domenica sì, per tutta la durata dei lavori. Ho sentito nominare l’ambiente solo da parte di una giovane donna, che ha ricordato la materia tra una serie di diritti, a suo avviso non considerati adeguatamente: e a lungo ha parlato di libertà personali, di omosessualità, di trans… L’ambiente non lo ha più ricordato.
Alcuni "fantasisti della Costituzione" immaginano e auspicano che, dalla situazione d'impasse politica che potrebbe nascere da un voto contraddittorio sulla fiducia al Governo espresso dalla Camera e dal Senato, si possa uscire semplicemente e immediatamente con lo scioglimento di quel ramo del Parlamento (nel nostro caso, la Camera dei Deputati) che ha votato la sfiducia. Ma la Costituzione dice tutt'altro. Purtroppo per il lettore, occorrono riferimenti tecnici. I seguenti.
Secondo l'articolo 94, "il Governo deve avere la fiducia delle due Camere". Se la fiducia viene meno, anche solo in una delle due, deve dimettersi. L'obbligo è tassativo. Solo nell'immaginazione di qualche fantasista della costituzione, si può pensare che nel Governo vi sia chi ragiona così: questa Camera, in questa composizione, mi è ostile, ma forse, in un'altra composizione, non lo sarebbe: dunque non mi dimetto (o mi dimetto solo pro forma, restando per l'intanto in carica), ne chiedo lo scioglimento e mi dimetterò effettivamente, se mai, solo dopo le nuove elezioni, nel caso in cui l'esito non mi sia favorevole. Avremmo così un Governo (non dimissionario) che resta in carica con la fiducia di una sola Camera.
Dopo un esplicito voto di sfiducia di una Camera (irrilevante è che l'altra abbia, prima o dopo, votato la fiducia), il Governo deve dunque "rassegnare" le dimissioni nella mani del Presidente della Repubblica: dimissioni che quest'ultimo non può respingere. Un Governo che restasse in carica contro la volontà del Parlamento (anche solo di una sola Camera), sostenuto dalla volontà del Presidente (quello che nella storia costituzionale si chiama "governo di lotta" antiparlamentare) sarebbe un sovvertimento della Costituzione e della democrazia. Nel solo caso di crisi di governo "extraparlamentare", cioè in assenza di un voto, il Presidente può (o forse deve) rinviare il Governo alle Camere perché si pronuncino sulla fiducia con un voto. Ma se vi è un voto è negativo, le dimissioni non possono essere respinte.
Una volta date le dimissioni, entra in gioco il Presidente della Repubblica, il cui compito non è quello di favorire o di ostacolare i disegni di questo o di quel raggruppamento politico, ma di garantire l'integrità e la funzionalità del sistema. Qui si aprono diverse possibilità. Non c'è una strada obbligata. La scelta non è dettata dall'arbitrio o dal capriccio, ma dipende dal fine costituzionale che è - si ripete - l'integrità e la funzionalità del sistema.
La prima possibilità è la formazione di un nuovo governo che disponga del sostegno della maggioranza in entrambe le Camere. "Prima possibilità" sia in senso temporale, sia in senso logico. Se esiste questa possibilità, da verificare per prima, non deve potersi passare alla seconda, lo scioglimento delle Camere. Sarebbe una prevaricazione politica anticostituzionale sciogliere Camere che siano in condizione d'esprimere maggioranze a sostegno di un governo. La legislatura ha una durata prefissata costituzionalmente, che non può essere accorciata se non quando siano le Camere stesse a darne motivo.
Solo dopo avere constatato l'impossibilità per le Camere di portare a termine la legislatura tramite la formazione d'un nuovo governo, dopo quello dimissionario - constatazione che spetta al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi politici presenti in Parlamento - si apre lo scenario dello scioglimento anticipato e delle nuove elezioni. Solo a questo punto, ove vi si arrivi e non prima, si può porre la questione dello scioglimento di entrambe le Camere o di una sola. Potrà piacere o non piacere, ma è la logica del governo parlamentare che è previsto dalla Costituzione.
Lo scioglimento "anche di una sola Camera", invece che di entrambe, è espressamente previsto dall'art. 88 della Costituzione. Anche qui, dunque, si aprono possibilità, ma anche qui la scelta tra l'una e l'altra non dipende dall'arbitrio o dal desiderio di favorire o danneggiare questa o quella forza politica: deve dipendere, ancora una volta, dall'obbiettivo di garantire imparzialmente l'integrità del sistema. Ora, lo scioglimento della sola Camera che abbia espresso la sfiducia al Governo sarebbe un atto palesemente partigiano, che discrimina tra le due Camere, cioè tra le eventuali diverse maggioranze che esistano nell'una o nell'altra. Sarebbe una sorta di abnorme sanzione costituzionale contro la Camera indocile al Governo e, all'opposto, di avallo politico della Camera docile. Ma la docilità parlamentare non è un valore costituzionale. In effetti, quando tra le due Camere si manifesti un così radicale conflitto politico, non si saprebbe quale delle due sciogliere. Il fatto che vi sia un Governo sostenuto dalla fiducia di una non è un motivo per sciogliere l'altra, se questa è in condizione di sostenerne uno diverso. Una scelta del Presidente tra questa o quella sarebbe palesemente una discriminazione, in un sistema in cui il "bicameralismo" è "paritario".
Inoltre, lo scioglimento di una sola Camera, nelle condizioni date, rischia di contraddire la finalità dello scioglimento, finalità che - si ripete ancora una volta - è l'integrità e la funzionalità del sistema. Che succederebbe se la Camera nella nuova composizione fosse disomogenea rispetto all'altra? Bisognerebbe ricorrere ancora alla scioglimento, ma di quale delle due? O forse di tutte due? Ci si potrebbe permettere di entrare in questo percorso da incubo? Ma, anche l'ipotesi fortunata che le elezioni ristabilissero l'omogeneità non sarebbe senza insolubili problemi. La nuova Camera dovrebbe durare cinque anni, ricreandosi quella sfasatura nel tempo rispetto all'altra, che la riforma costituzionale del 1963 ha inteso eliminare per prevenire i rischi d'instabilità politica - cioè di disintegrazione e d'inefficienza - insiti nell'elezione distanziata nel tempo. Oppure, si dovrebbe pensare che la Camera sciolta una prima volta anticipatamente nasca col destino segnato d'essere sciolta una seconda volta prima della scadenza naturale, in concomitanza con la scadenza dell'altra. Un'evidente aberrazione, contraria alla pari posizione costituzionale delle due Camere.
Eppure, si dirà, la possibilità dello scioglimento d'una Camera e non dell'altra è ben prevista dalla Costituzione. Si, ma è stata pensata quando era stabilita una durata diversa delle due Camere e se ne è sempre e solo fatto uso (nel 1953, nel 1958 e nel 1963; mai dopo l'equiparazione delle durate) per rendere contemporaneo il rinnovo dei due rami del Parlamento, non per il contrario. Cioè, se ne è fatto sempre uso per equipararne, non per differenziarne le durate. Nel contesto originario, lo scioglimento "anche di una sola Camera" serviva dunque alla coerenza del sistema; oggi, servirebbe all'incoerenza.
Si diceva all'inizio dei fantasisti della Costituzione. Sono coloro che fondano le loro richieste su una costituzione che, per ora, non c'è: una costituzione nella quale un capo eletto direttamente dal popolo sia autorizzato a passare sopra le prerogative degli altri organi costituzionali per assicurarsi a ogni costo la perduranza del potere. La costituzione che hanno in mente è anch'essa ad personam. La bizzarria della richiesta di scioglimento d'una sola Camera, oltretutto senza passare attraverso vere dimissioni e senza l'esplorazione delle possibilità di formare un diverso governo, si spiega con la speciale e triste condizione costituzionale materiale del nostro Paese. Siamo un Paese dove al governo c'è gente che altrove sarebbe politicamente nulla; dove il Governo è tenuto insieme da un uomo solo e dove questa persona è uno che, per ragioni di natura giudiziaria, per non perdere la protezione di cui gode non può permettersi di allontanarsene nemmeno per un po’, facendosi da parte quando le condizioni politiche generali lo richiederebbero. Come l'ostrica allo scoglio. Gran parte delle perturbazioni istituzionali di questi tempi dipende da questa semplice, abnorme e disonorevole per tutti, condizione in cui viviamo.
Diluvio e fango gli danno l’addio. L’ultimo ring che aspetta Guido Bertolaso è ancora in Campania, nella Piana del Sele dove una gravissima alluvione spazza via un ponte di acquedotto, riduce con i rubinetti a secco 400mila famiglie e spinge i diciotto sindaci a invocare «lo stato di emergenza». Il capo della Protezione civile li affronta e li gestisce per due ore, è uno di quei tavoli di cui «non sentirà la mancanza». Promette soldi, poteri di deroga e un fidato commissario straordinario del Sele. «Le decisioni saranno adottate nel Consiglio dei ministri di martedì prossimo», è il suo impegno. Poi infila un’uscita laterale dello scalo di Pontecagnano e salta su un elicottero. Beffati i giornalisti. Non vuole domande, Superman. Almeno nell’ultimo giorno. «Più sollevato che stanco», dicono.
L’uscita di scena si consuma lontano dai riflettori e sotto l’onda di un’altra emergenza. I lampi squarciano il cielo del suo rientro a Roma, direzione Palazzo Chigi per le ultime consegne al sottosegretario Gianni Letta, che sta già provvedendo a nominare il (noto) successore: Franco Gabrielli.
Sono le 19.30 quando si chiude l’ultima riunione di mister Emergenza. Il fermo immagine è su un alto funzionario che volta le spalle alla terra che lo aveva lanciato come autore del miracolo rifiuti e lo ha derubricato a sconfitto, appena qualche giorno fa, nella sua ultima stagione da sottosegretario. Nell’amaro ritorno a Napoli, un mese fa, SuperGuido ha davanti a sé nuovi, clamorosi cumuli di immondizia e le guerriglie urbane che si alternano da Terzigno a Giugliano. Sulle spalle, l’onta di un’inchiesta che lo vede indagato per corruzione e ha da sfondo la cricca che ha lucrato anche sul dolore dell’Aquila. «So di aver subito una grave ingiustizia - ci torna su di recente, Bertolaso, ormai cauto - ma confido ancora molto nella magistratura e posso solo augurarmi che il tempo ristabilirà la verità dei fatti». È stato anche l’uomo degli eventi mondiali di successo, dal Giubileo ai funerali di Papa Wojtyla. Una carriera al servizio di governi di destra e sinistra. Poi l’ultimo cammino al fianco di Berlusconi, la sua nomina a sottosegretario, il ruolo di colui che scioglieva le grane, a ogni costo. Fino a diventare il cerimoniere delle calamità. Le emergenze che diventavano palcoscenico. Come a L’Aquila. Prima che arrivasse la valanga di accuse, e i sospetti sul "sistema gelatinoso". «Ho dato l’anima in questi nove anni. E me ne vado con le pezze al culo, sereno», è il suo ultimo sfogo.
Bertolaso l’aveva immaginata in altro modo la sua ultima giornata prima della pensione. Per ieri aveva un appuntamento a Sant’Angelo a Scala, Avellino: doveva consegnare una casa, cioè un accogliente prefabbricato, ad Ernestina Cristiano, 69 anni, 23 dei quali passati in un container. «Sono qui per il rispetto di un impegno e di una promessa che ti avevo fatto». Una goccia d’affetto. Poco dopo eccolo al tavolo con i sindaci della Piana del Sele. Dall’incontro, a porte chiuse, si sente gridare qualche primo cittadino come il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Poi altri sindaci arringano sulla difficoltà di «garantire acqua potabile», sulla necessità di «risolvere il problema assolutamente entro Natale, altrimenti non solo l’economia agricola e le aziende della mozzarella andranno in crisi, ma interi comparti industriali e commerciali». Bertolaso assicura: sarà Edoardo Cosenza, l’assessore regionale ai Lavori pubblici, già preside del Politecnico napoletano, il commissario straordinario dell´alluvione del Sele.
E alla fine è proprio Cosenza ad offrirgli il commiato d’onore. «Il governo deve muoversi in fretta - avverte - altrimenti non potremmo farcela, occorrono 5 milioni e sono sicuro che il sottosegretario si impegnerà fino all’ultimo minuto. Però, ora consentitemi di salutare da esponente istituzionale uno dei migliori italiani che io abbia mai conosciuto». Applauso corale e lungo, che si sente dall’hangar. Applaude anche De Luca. È grato anche Ernesto Sica, il sindaco di Pontecagnano che ospitava l’incontro: è l’ex potente dimezzato, l’ex amico di scorribande a Villa Certosa, oggi inquisito nella vicenda della P3, l’uomo che avrebbe concepito il dossier diffamatorio che serviva a silurare il governatore Stefano Caldoro. Ancora fango. Non solo quello del meteo. Un destino beffardo, anche nell’ultimo giorno, sembra salutare mister Emergenza.
Il peggior nemico dell´attuale governo è il suo stesso premier. È lui il primo fattore della generale paralisi, denunciata da sindacati e produttori. E che aggrava "la fatica a crescere" del Paese come dice la Banca d´Italia. Lo stesso "federalismo fiscale" – che è diventato una specie di patto di sopravvivenza con i leghisti – è finora solo un castello di pezzi di carta: senza le cifre che contano e che non si possono determinare nell´incertezza del percorso di ripresa economica.
La legislatura oscilla tra immobilismo e confusione, come al Palio di Siena quando il mossiere non trova il momento buono per la partenza.
Vi è una causa che rende impossibile l’allineamento della sua stessa maggioranza. Ed è non solo e non tanto nella chiave giuridica di sospensione dei processi penali del premier, quanto nella recidività della sua condotta in border line con ogni norma. Quando un barlume di compromesso si intravede, è lui stesso a spegnerlo con nuovi "casi" personali. La Corte costituzionale, con tanta buona volontà, ha detto da anni che, con legge di revisione, si può tutelare l’interesse al "sereno svolgimento" delle funzioni proprie alle più alte cariche dello Stato. Ed ecco che la "serenità" dell´istituto presidenza-del-consiglio non è rotta dall’esterno per interventi giudiziari. Ma dall´interno con pratiche e giustificazioni di pubblico libertinaggio, di omofobia, di sviamento di indagini di polizia, di linguaggio blasfemo.
Non sono cose che si possono fare senza incorrere in responsabilità. Basta leggere la Costituzione al semplicissimo art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con onore". Quando, in epoche non sospette, i giuristi l´hanno interpretato, hanno scritto che "onore" è parola che riassume le regole di buon costume politico e sociale, le tradizioni di comune rispetto per le religioni, gli orientamenti sessuali, il colore della pelle degli "altri". Sono valori che ritroviamo oggi nella Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Violarli significa perciò fare atto non solo anti-italiano ma anche anti-europeo.
La mancanza del "senso dell’onore" - si scrisse ben prima del 1994 - significa la rottura di "norme di etica politica che non sono disponibili: nel senso che non possono essere lasciate al libero apprezzamento dei soggetti politici". Perché appartengono alla dignità non del singolo, che vi rinuncia, ma della Repubblica che ne è, temporaneamente, rappresentata. E si scrisse ancora che l´offesa all´"onore" repubblicano si verifica anche per "ipotesi che riguardano la sfera privata" di chi svolge in "affidamento" (come dice la Costituzione: cioè non in "proprietà") funzioni pubbliche.
Certo, ci possono essere comportamenti disonorevoli che non provocano immediate sanzioni giuridiche, ma soltanto riprovazione sociale: nazionale e internazionale. La stessa responsabilità istituzionale può incontrare difficoltà ad essere fatta valere con una sfiducia parlamentare pura e semplice, di portata politica generale. Basti pensare all´estrema fluidità della attuale situazione alle Camere (più sull’orlo di una crisi di nervi che di voti); alla perdurante pericolosità della nostra situazione economico-finanziaria.
Ma le responsabilità del premier possono essere sanzionate in altro modo. Dalle viscere della nostra esperienza costituzionale può venir fuori un altro rimedio per ristabilire il decoro nazionale. Un rimedio che, senza ricorrere a sentenze di giudici, inibisca, per censura personale all´attuale premier, la prosecuzione delle sue pubbliche funzioni. È la conventio ad excludendum, una "convenzione" politica di esclusione.
I paragoni valgono per quel che valgono gli strumenti oggettivi che richiamano: non certo per le situazioni e i protagonisti (oggi, di opposta caratura etico-politica). Ma sarebbe il riadattamento di quello strumento che per decenni impedì ai comunisti di partecipare al governo, pur prendendo una marea di voti. Il suo fondamento costituzionale era nella concezione di democrazia delle libertà che è propria della nostra Legge fondamentale. Il legame ideologico e organizzativo con l´impero sovietico negava, di per sé, che questa concezione potesse essere la stessa. Così il Pci - nonostante il suo decisivo contributo alla approvazione e alla attuazione della Costituzione repubblicana e alla tenuta degli equilibri profondi del Paese - era escluso dai governi. Un rifiuto che non si affidò, come altrove, a clausole di sbarramento elettorale né a decisioni di tribunali costituzionali. Ma fu un accordo di natura politica, di fatto.
Anche l’attuale premier ha avuto (e probabilmente conserva) una marea di voti. Anche lui vanta qualche merito politico nel suo passato. Ma oggi la incompatibilità alla presidenza del consiglio deriva semplicemente dalla abituale trasgressione del dovere costituzionale d´"onore" nei suoi compiti pubblici. Trasgressioni che provocano, a catena, sperpero di tempi politici, arresto di efficacia e di credibilità nell´azione di governo.
La confusione tra libertà e libertinaggio; la contemporanea rivendicazione di una propria privacy e l´offesa alla "privacy" degli altri (specie dei minori) con deteriori "stili di vita" propagandati come esemplari per l’intera Nazione; la palese ansia di complicità e di connivenze populiste nel banalizzare e normalizzare strappi comportamentali che nella stragrande parte di mondo non sono né banali né normali. Tutto questo non è in contrasto con una morale tipizzata o religiosa: è in contrasto con il laico modo di intendere le pubbliche funzioni nella Costituzione e nell´intera Unione europea. Non è una condanna moralistica o di costume. Ma una constatazione oggettiva. Come un macchinista ubriaco non può condurre un treno, così un premier sregolato non può guidare una Nazione. Nell´un caso e nell´altro non sono le condizioni personali che preoccupano, ma le loro ricadute sul diritto della collettività al buon governo della cosa pubblica.
Per questo, un accordo politico di tutti, o della maggior parte di tutti, troverebbe il suo fondamento costituzionale nella regola che impone un "onorevole" esercizio delle funzioni della Repubblica. Sarebbe una sfiducia "personale": ricostruttiva della soglia di decenza della politica, prima ancora che un accordo su comuni principi di azione pubblica nell’emergenza. Sarebbe, per singolare contrappasso, una intesa ad personam, per la prima volta conclusa contro di lui. Ma nel pubblico e non nel privato interesse.
Implacabili, si sono via via accumulati nel tempo (si approssima il ventennio) i materiali che ora ci presentano a tutto tondo la figura di chi ha dato il tono a questa fase: Silvio Berlusconi. Con una sorta di irresistibile perentorietà sono sempre più manifesti i tratti di una personalità in qualche modo emblematica di come oggi ci si possa affacciare sulla scena pubblica, conquistarla, segnarne i caratteri. Nasce da qui una nuova antropologia, che non è soltanto la somma e l´esibizione di antichi vizi italiani, ma è anche l´effetto di un loro impastarsi con la post-modernità del sistema mediatico, con la cancellazione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, con la personalizzazione estrema della politica.
Una volta di più, l´Italia come inquietante laboratorio, luogo di anticipazione e sperimentazione di modelli? È già avvenuto con Mussolini, che aveva sedotto anche le opinioni pubbliche di paesi democratici con la sua grinta. Oggi quelle opinioni pubbliche assistono sbigottite e, ahimè, divertite alla via italiana al "buon governo". Aveva ragione il vecchio Marx quando diceva che i fatti e i personaggi della storia «si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Solo che si tratta di una farsa che ci attira il dileggio degli stranieri, e fa ridere ben poco gli italiani. E quelle parole, ricordiamolo, erano poste quasi in epigrafe di quel classico delle disavventure della democrazia che è "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte", l´altro Bonaparte, non quel Napoleone al quale Berlusconi ebbe l´ardire di paragonarsi, annunciando per sé un luminoso futuro da legislatore. Qui l´antropologia si tinge di megalomania, quella delle autorappresentazioni come salvatore del mondo, come consigliere indispensabile d´ogni capo di stato o di governo nel quale abbia la ventura d´imbattersi. Chi incitava a cogliere nel berlusconismo i tratti dell´innovazione, oggi dovrebbe riflettere non tanto sulle modernizzazioni autoritarie del secolo passato, ma piuttosto sul modo di questa nuovissima modernizzazione all´italiana. Senza dubbio Berlusconi seppe cogliere la Repubblica nel momento della sua massima crisi e si pose come "federatore" delle forze che potevano opporsi al centro sinistra. Ma, indubbio maestro nelle campagne elettorali, non è stato capace di trasformarsi in uomo di governo. Sì che oggi non solo la sua federazione si sbriciola, ma si ritrova con Fini come avversario e Bossi come padrone. Il fedele Fedele Confalonieri ne invoca ora costumi morigerati e lo incita a tornare alle origini. Impresa impossibile, perché proprio l´intreccio di troppi vizi privati e di nessuna virtù pubblica è all´origine della sua fortuna.
Così, le due "modernizzazioni", quella craxiana e quella berlusconiana sembrano avere lo stesso esito - una eredità di macerie. Ma se vittima di Craxi fu solo il Partito socialista, oggi rischia d´esserlo la stessa democrazia italiana. In realtà, Berlusconi ha portato a compimento quella mutazione genetica intravista da Enrico Berlinguer al tempo del craxismo trionfante, e che ora s´incarna in una nuova prepotente antropologia che tende a trasfondere una autobiografia personale nell´autobiografia di una nazione. Se non ha governato, certamente Berlusconi ha trasformato il paese. Lo ha fatto con l´uso delle sue televisioni che facevano intenzionalmente regredire i telespettatori a fanciulli incolti; che li degradavano non a consumatori, ma a "consumati" dalla pubblicità (come scrive Benjamin Barber); che li consegnavano ad una informazione manipolata. Quando è "sceso in campo", aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo berlusconiano: l´appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere "sì" a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a "carne da sondaggio"; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l´"amore per le donne", ma le donne come suo personalissimo "logo". Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola, di sottoporsi a qualche controllo. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano, fedeli o traditori. Della stessa verità, che modifica a suo piacimento. Il senso dello Stato democratico è perduto, al suo posto troviamo lo Stato patrimoniale dove le risorse pubbliche sono nella piena disponibilità del sovrano. Uno Stato personale, dove vige la volontà del principe sciolto dalle leggi.
E qui si coglie un altro tratto originario di questa antropologia. Quella dell´imprenditore, per il quale la democrazia si arresta ai cancelli della fabbrica. Quella del capo azienda, che seleziona le segretarie "di bella presenza".
Il caso Ruby è la sintesi, l´epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo. Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d´ogni regola. Si manifesta come rappresentante di una borghesia compradora, che ritiene di potersi impadronire di tutto ciò che è alla sua portata. È qui la ragione del suo successo, la nuova antropologia dell´italiano che non trova riscontro nelle descrizioni di Giulio Bollati o nell´antitaliano di Giuseppe Prezzolini?
Ma si fa pure strada la consapevolezza che un limite sia stato varcato, che non si possa più accettare ogni prepotenza. Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy (non mi pare sia stato ricordato il presidente della Repubblica francese Félix Faure, morto in un salone dell´Eliseo vittima delle cure di una antesignana di Monica Lewinski: lo aggiungo io, a buon peso). Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa. E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un "riscatto".
Un pirata umanista si aggira per il paese. «Dice Marx che essere radicali significa andare alla radice delle cose, e alla radice di ogni cosa c'è l'essere umano», ha detto al recente congresso di Sinistra Ecologia Libertà. «C'è bisogno di un nuovo umanesimo», aveva detto già a settembre alla festa del Pd, citando un libro dell'ex-partigiano Alfredo Reichlin. L'iperliberismo che gira come una macchina impazzita, un'economia e un potere sempre più ridotti a tecnica nichilista - e Nichi Vendola col suo orecchino da pirata parla di umanesimo. Di una vita umana indisponibile alle centrifughe del mercato. Un visionario? Un illuso? Un leader coraggioso o un bravo paroliere?
Speranze e incognite intorno a quest'uomo hanno avuto un'impennata dalla scorsa primavera. Dalla rielezione come governatore, una serie di apparizioni pubbliche e di comizi in tutta Italia ha segnato un crescendo di carisma comunicativo. «Ho seguito il suo discorso per radio. Un nodo in gola dopo l'altro», mi ha scritto una conoscente all'indomani del congresso di Firenze.
È l'effetto che fa a molti Nichi Vendola. Un senso di improvviso ritrovamento. «Ci siamo smarriti e ci siamo ritrovati», ha sussurrato lui sul palco di Firenze. Smobilitare l'emotività di sinistra dopo due decenni di grande gelo non è impresa facile, ma la retorica di Vendola ha sviluppato, a questo scopo, un'impressionante potenza di fuoco. Nel suo tipico discorso, senza gobbo e senza appunti, il governatore sa scegliersi gli interlocutori: che sono di volta in volta il senso civile, il cuore e la testa di chi ascolta. Ethos, pathos e logos. Il linguaggio è suggestivo: vecchi termini da apparato comunista e altri da parabola evangelica, metafore poetiche e citazioni letterarie recenti, citazioni di canzoni e termini sociologici, parole sofisticate - come il celebre "ultroneo" pronunciato in più occasioni - e termini popolari - l'altrettanto celebre "vaffanculo" a Gasparri.
Ci sono parole sterilizzate da anni di berlusconismo. A una su tutte, "libertà", Vendola vorrebbe restituire peso legandola ai temi dello scontro sociale. A Padova, quest'estate, al festival di Radio Sherwood: «Il capolavoro del berlusconismo è stato aver compiuto la separazione di due parole che nel Novecento si erano intrecciate, lavoro e libertà». Questione ribadita in più occasioni. Fino al congresso di Firenze, rispondendo a distanza alla dottrina neomanageriale di Marchionne: «Il lavoro nell'epoca premoderna era pietra di scarto, nella modernità è diventato pietra angolare, misura di civiltà e democrazia. Da qui non possiamo fare marcia indietro, dobbiamo piuttosto fare marcia avanti».
A completare il quadro c'è un sottotesto di suggestioni spirituali. È questa la parte che irrita di più a sinistra, ma anche la componente che fa vibrare a fondo il racconto vendoliano, fornendone la tensione visionaria. Quindi, per sdrammatizzare, improvvisi lampi di ironia e un felice intuito pop: come quando, a Firenze, ha chiuso citando una canzone di Battiato. «Vorremmo dire a ogni persona che ci prenderemo cura di lei».
La suggestione del linguaggio sembra per Vendola una sorta di rompighiaccio, uno strumento per far breccia nell'auditorio e aprire la strada alla possibilità di nuove sintesi. Si può amare la famiglia tradizionale e accogliere quella alternativa, si può essere omosessuale e ispirarsi alla morale evangelica, si possono citare Gramsci e Aldo Moro, Fassbinder e Tonino Bello, si può essere radicali e dialogare a tutto campo, si può essere agguerriti contro i sostenitori del liberismo e restare perfettamente non-violenti. Gandhi rimane una stella polare dichiarata.
A proposito di sintesi. Prima del congresso di Sinistra Ecologia Libertà, la mia ultima volta a Firenze era stata per il Forum Europeo dei movimenti nel 2002, quello contro cui si era scatenata la Fallaci. Ed era proprio da quella volta che non vedevo una tale sintesi di presenze e di facce umane. Pacifisti e ambientalisti, ragazzi new global e vecchie stelle della sinistra, femministe e cattolici sociali, sindacalisti e cani sciolti. Militanti fedeli alle strutture e giovanissimi cresciuti nella socialità liquida del web. Il lavoro sincretico di Vendola si fa sempre più inclusivo. Anche se in questo quadro ecumenico non mancano le incrinature.
A volte, sotto la pioggia di ovazioni, viene il sospetto che il leader sia un poco solo. Chissà se davvero tutti accettano le sue sintesi. Quando parla di Israele, quando mette sullo stesso piano i diritti di Israele e quelli dei palestinesi, davvero tutti sono disposti a questa equidistanza?
Sul fronte degli scettici, c'è chi prova fastidio per le acrobazie linguistiche. Chi lo accusa di troppa poesia e pochi fatti. Chi lo accusa di essere pasoliniano - lo ha fatto Miriam Mafai - come se la cosa fosse sinonimo di scarso realismo. A volte i discorsi di Vendola suonano come un assolo di free jazz. Bellissimi e imprendibili. Sullo sfondo resta la differenza, per usare una vecchia distinzione di Umberto Eco, tra persuasione e suasione. Retorica costruttiva o spire di fumo?
A Nord, ci si chiede se Vendola saprà parlare agli imprenditori padani. Se saprà parlare a un elettorato sedotto dal discorso molto più livido, ma in qualche modo altrettanto caldo - un discorso che esprime insieme "rancore e calore", secondo una definizione di Gianfranco Bettin - della Lega. In realtà qualche incursione c'è già stata. Come quella al convegno di Confindustria di Vicenza, a giugno, dove Vendola ha sfoderato un tono affabile eppure poco accomodante, strappando applausi.
Ciò che forse manca, a questo punto della parabola vendoliana, è completare la forza simbolica delle parole. Non tutti ricordano l'impegno di Vendola nell'antimafia, il pacco-bomba sotto il palco, le missioni a Sarajevo, non tutti conoscono il lavoro fatto nella sua regione, le politiche energetiche. Il rischio è restare confinato allo stereotipo del bravo oratore. Grandi parole, ma saprà governare? Andare a Pomigliano e a Melfi sono atti extra-verbali di forte impatto. Ne servono di ulteriori. Anche Gandhi ebbe la sua Marcia del Sale. Qualunque forma prenda, qualunque cosa sarà, la grande marcia di Nichi dovrà essere verso il Nord e verso chi lo considera poco più di un paroliere.
Le recenti cronache dell’Italia berlusconiana che raccontano l’ennesimo scandalo ormai generalmente etichettato «bunga bunga» mi hanno lasciato al tempo stesso indifferente e stupefatto.
L’indifferenza deriva dal fatto che conosco da trent’anni Silvio Berlusconi e sono da tempo arrivato alla conclusione che il nostro presidente del Consiglio rappresenta per molti aspetti il prototipo dei vizi italiani, latenti nel carattere nazionale insieme alle virtù che certamente non mancano. Siamo laboriosi, pazienti, adattabili, ospitali.
Ma anche furbi, vittimisti, millantatori, anarcoidi, insofferenti di regole, commedianti. Egoismo e generosità si fronteggiano e così pure trasformismo e coerenza, disprezzo delle istituzioni e sentimenti di patriottismo.
Berlusconi possiede l’indubbia e perversa capacità di aver evocato gli istinti peggiori del paese. I vizi latenti sono emersi in superficie ed hanno inquinato l’intera società nazionale ricacciando nel fondo la nostra parte migliore.
È stato messo in moto un vero e proprio processo di diseducazione di massa che dura da trent’anni avvalendosi delle moderne tecnologie della comunicazione e deturpando la mentalità delle persone e il funzionamento delle istituzioni.
Lo scandalo «bunga bunga» non è che l’ennesima conferma di questa pedagogia al rovescio. Perciò non ha ai miei occhi nulla di sorprendente.
Da quando avviò la sua attività immobiliare con denari di misteriosa provenienza, a quando con l’appoggio di Craxi costruì il suo impero televisivo ignorando le ripetute sentenze della Corte costituzionale, a quando organizzò il partito-azienda sulle ceneri della Prima Repubblica logorata dalla corruzione diventata sistema di governo.
A sua volta, su quelle ceneri, il berlusconismo è diventato sistema o regime che dir si voglia: un potere che aveva promesso di modernizzare il paese, sburocratizzarlo, far funzionare liberamente il mercato, diminuire equamente il peso fiscale, sbaraccare le confraternite e rifondare lo Stato.
Il programma era ambizioso ma fu attuato in minima parte negli otto anni di governo della destra ai quali di fatto se ne debbono aggiungere i due dell´ultimo governo Prodi durante i quali il peso dell’opposizione sul paese fu preponderante.
Ma non solo il programma rimase di fatto lettera morta, accadde di peggio. Accadde che il programma fu contraddetto. Il sistema-regime è stato tutto fuorché una modernizzazione liberale, tutto fuorché una visione coerente del bene comune.
Per dieci anni l’istituzione «governo» ha perseguito il solo scopo di difendere la persona di Berlusconi dalle misure di giustizia per i molti reati commessi da lui e dalle sue aziende prima e durante il suo ingresso in politica. Nel frattempo l’istituzione «Parlamento» è stata asservita al potere esecutivo mentre il potere giudiziario è stato quotidianamente bombardato di insulti, pressioni e minacce che si sono anche abbattute sulla Corte costituzionale, sul Csm, sulle Autorità di garanzia e sul Capo dello Stato.
Il «Capo» e i suoi vassalli hanno tentato e tentano di costruire una costituzione materiale incardinata sul presupposto che il Capo deriva la sua autorità dal voto del popolo ed è pertanto sovra-ordinato rispetto ad ogni potere di controllo e di garanzia. Questa situazione ha avuto il sostegno di quell’Italia che la diseducazione di massa aveva privato d’ogni discernimento critico e che vedeva nel Capo l’esempio da imitare e sostenere.
Il cortocircuito che questa situazione ha determinato nel carattere di una certa Italia ha fatto sì che Berlusconi esibisca i propri vizi, la propria ricchezza, la sistematica violazione delle regole istituzionali e perfino del buongusto e della buona educazione come altrettanti pregi.
Non passa giorno che non si vanti di quei comportamenti, di quella ricchezza, del numero delle sue ville, del suo amore per le donne giovani e belle, dei festini che organizza «per rilassarsi», degli insulti e delle minacce che lancia a chi non inalbera la sua bandiera. E non c’è giorno in cui quell’Italia da lui evocata e imposta non lo ricopra di applausi e non gli rinnovi la sua fiducia.
Lo scandalo «bunga bunga» è stato l’ennesima riprova di tutto questo. La magistratura sta indagando sugli aspetti tuttora oscuri di questa incredibile vicenda della quale tuttavia due punti risultano ormai chiari e ammessi dallo stesso Berlusconi: la sua telefonata al capo gabinetto del Questore di Milano nella quale chiedeva il pronto rilascio della minorenne marocchina sua amica nelle mani «sicure» di un’altra sua amica da lui fatta inserire da Formigoni nel Consiglio della Regione lombarda, e l’informazione da lui data alla Questura che la minorenne in questione era la nipote del presidente egiziano Mubarak.
Queste circostanze ormai acclarate superano ogni immaginazione e troverebbero adeguato posto nell’ultimo romanzo di Umberto Eco dove il protagonista ricalca per alcuni aspetti «mister B» per le sue capacità d’inventare il non inventabile facendolo diventare realtà.
La cosa sorprendente e stupefacente non è nella pervicacia con la quale Berlusconi resta aggrappato alla sua poltrona e neppure la solidarietà di tutto il gruppo dirigente del suo partito e della sua Corte, che fa quadrato attorno a lui ben sapendo che la sua uscita di scena sarebbe la rovina per tutti loro. La cosa sorprendente è che – sia pure con segnali di logoramento e di sfaldamento – ci sia ancora quella certa Italia il cui consenso nei suoi confronti resiste di fronte alla grottesca evidenza di quanto accade. Questo è l’aspetto sorprendente, anzi sconvolgente, che ci dà la misura del male che è stato iniettato e coltivato nelle vene della società e questo è il lascito, il solo lascito, di Silvio Berlusconi.
Sua moglie Veronica, in una lettera pubblicata un anno e mezzo fa, lo scolpì in poche righe, stigmatizzò l’uso che il marito faceva del potere e delle istituzioni, i criteri di reclutamento della «sua» classe politica imbottita di «veline» e di attricette che avevano «ceduto i loro corpi al drago» e concluse scrivendo: «Mio marito è ammalato e i suoi amici dovrebbero aiutarlo a curarsi seriamente».
Quello che sta accadendo lo dimostra e lo conferma: quest’uomo è gravemente ammalato, l´attrazione verso donne giovani e giovanissime è diventata una dipendenza che gli altera la mente e manda a pezzi i suoi freni inibitori.
Dovrebbe esser seguito da medici e da psico-terapeuti che lo aiutassero a riprendersi; ma sembra di capire che sia seguito da persone reclutate con tutt’altro criterio: quello di immortalare le apparenze della sua giovinezza in tutti i sensi. Ma così non fanno che aggravare il male.
* * *
È ormai evidente agli italiani normali e normalmente raziocinanti, il cui numero sta fortunatamente aumentando, che questa situazione non può continuare. In qualunque altro paese dell’Occidente democratico sarebbe terminata da un pezzo per decisione dello stesso interessato e del gruppo dirigente che lo attornia. Ma qui le cose vanno in un altro modo e sappiamo perché. Tra lui e i suoi accoliti, uomini e donne che siano, esistono vincoli che non si possono sciogliere perché ciascuno di loro (quelli che contano veramente) ha le sue carte sul Capo e lui ha le sue carte su tutti gli altri. Così per Previti, così per Dell’Utri, così per Scajola, così per Verdini, così per Brambilla ed altri ancora.
A questo punto tocca a tutti coloro che ritengono necessario ed urgente porre fine al «bunga bunga» politico, costituzionale e istituzionale, staccare la spina.
Presentare una mozione di sfiducia che vada da Bersani a Fini e da Casini a Di Pietro, che abbia la funzione che in Germania si chiamerebbe «sfiducia costruttiva». Esponga cioè il programma che quell’arco di forze vuole attuare subito dopo che la sfiducia sia stata approvata e che si può riassumere così:
1. Indicare al Presidente della Repubblica l’esistenza di una maggioranza alternativa che gli consenta di nominare un nuovo governo, come la Costituzione prevede.
2. Elencare alcuni temi programmatici a cominciare dal restauro costituzionale, indispensabile dopo la devastazione compiuta in questi anni e, a seguire, alcune urgenti misure economiche e sociali, un federalismo serio che rafforzi l’unità nazionale e la modernizzazione della società articolandola secondo un disegno federale, una riforma della giustizia che sia utile ai cittadini, una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti nei vari modi con i quali quest’obiettivo può essere realizzato.
Uno sbocco di questo genere sarebbe estremamente positivo per il paese e dovrebbe essere guidato da qui alla fine naturale della legislatura da un «Mister X» che abbia le caratteristiche e la competenza necessaria al recupero dei valori etici e politici che la Costituzione contiene nella sua prima parte, ammodernandola nella seconda in conformità alle esigenze che una società moderna richiede.
Noi riteniamo che questo percorso vada intrapreso al più presto anche per riconciliare con le istituzioni un paese stanco e disilluso dal tristissimo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti.
Non si tratta di utilizzare lo scandalo della minorenne marocchina strumentalizzandolo per fini politici. Si tratta invece di metter fine ad una rovinosa gestione governativa del «non fare» e del «malfare», che non è riuscito ad aprire un cantiere, a sostenere i consumi e il potere d’acquisto, a recuperare un centesimo di avanzo nel bilancio delle partite correnti, ad invertire il trend negativo dell’occupazione, a fare un solo passo avanti nella buona riforma della giustizia e del federalismo.
Infine a smantellare la «cricca» che da quindici anni non fa che rafforzarsi prendendo in giro i gonzi con il racconto d’una improbabile favola a lieto fine.
La storia italiana ha visto più volte analoghe «cricche» al vertice del paese. Quando ciò è accaduto, la favola è sempre terminata male o malissimo. L’esperienza dovrebbe aiutarci ad interrompere questo percorso in fondo al quale c’è inevitabilmente la rovina sociale e il degrado morale.
La Domus Aurea, uno dei capolavori architettonici e pittorici dell'età imperiale romana, aperta al pubblico nel 1999, è stata chiusa poco dopo perché infiltrazioni d'acqua hanno portato prima al crollo delle strutture murarie di una delle gallerie, poi di una delle volte, aprendo sul Colle Oppio una voragine di oltre 100 metri quadrati. La zona sopra e intorno alla Domus è stata occupata per anni da rifiuti e da una colonia di senza tetto che vi dormiva la notte. Poco diversa la situazione di Pompei: tutto il parco archeologico è fuori controllo, con pericolo di cedimenti, campo libero per cani randagi, guide e venditori abusivi. In questo desolato panorama vi sono tutti gli ingredienti non solo per descrivere lo stato di molti dei nostri beni culturali, ma per avere tutte le caratteristiche, non metaforiche, del degrado e, forse, dell'inarrestabile declino del nostro Paese. Collasso e crollo delle pubbliche istituzioni, occupate e utilizzate a fini privati, volgarità di comportamenti, decomposizione dei linguaggi e delle varie forme di comunicazione, aggressività e violenza gratuite.
Non parliamo di perduti «valori», parola troppo nobile per essere ancora usurata; parliamo piuttosto di cinismo e di disinteresse per la cosa pubblica, nell'impossibilità di sapere dove va il Paese. Parliamo di mancanza di assunzione di responsabilità, latitanza. nell'affrontare i problemi da parte dei nostri politici che sembrano «sbarcati da Marte». Forse potremmo azzardare un giudizio più radicale, data la diffusa ignoranza della classe politica anche rispetto alle più elementari nozioni di storia civile e istituzionale italiana. Ne è specchio il linguaggio: non dico del «vuoto» e «inconcludenza» dei discorsi politici cui faceva riferimento sul Corriere del 13 ottobre Giorgio Fedel in un'analisi fin troppo alta, ma delle normali espressioni linguistiche sgangherate, dialettali, approssimative, talvolta volgari. Non so quanti nostri parlamentari si sottoporrebbero, come in Francia, alla prova della dictée (in italiano dettato), né quanti supererebbero una prova scritta di italiano corrente come è stata proposta. per regolarizzare gli immigrati. Le poche persone colte (si constati il progressivo deterioramento dei profili dei parlamentari dalla Costituente ad oggi) confermano la norma; e la vuotezza, la banale ripetitività del linguaggio politico sono specchio fedele di una dilagante incultura di potere. - Aspetti non marginali della crisi delle istituzioni, l'assenteismo dei parlamentari, la lentezza degli itinerari legislativi che lascia solo spazio a canali privilegiati per provvedimenti che diventano i «nomodotti» (l'efficace neologismo è di Natalino Irti) di interessi personali o corporativi. L'assalto annuale alla diligenza, in sede di Finanziaria, ne è stato la prova lampante.
Si suole ripetere che la classe politica è l'espressione del (Paese: il che è solo parzialmente vero se ci si riferisce al rapporto numerico dei voti, ma non è esatto per la formazione del Parlamento che, come è noto, è determinata dalle scelte dei partiti, non degli elettori, come potrebbe essere in un'astratta democrazia diretta. Si dirà forse più correttamente che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli e che la stessa società civile — almeno nelle strutture pubbliche — è governata da orientamenti e scelte di persone che di quella classe sono espressione. Non a caso per questa classe di «marziani» — distratta o incolta — tutto il sistema scuola-ricerca-formazione, fondamentale per lo sviluppo civile ed economico del Paese, non ha particolare interesse, quindi il degrado della scuola pubblica non costituisce problema. Insegnanti — spesso bravissimi — fra i peggio retribuiti in Europa, scuole fatiscenti, biblioteche scolastiche chiuse, massa di precari come conseguenza dell'incapacità dei governi di assicurare regolari e periodici concorsi, progressiva diminuzione dei posti di ruolo per cosiddette esigenze di bilancio.
Non parliamo dell'università: le notizie di questi giorni — sedi semichiuse, professori e ricercatori in agitazione o in sciopero, drastica perdita di posti di ruolo — sono i segni di una progressiva crisi che negli ultimi cinque lustri è stata più o meno promossa o favorita — salvo rari casi — dai vari governi o ministri. La ricerca è umiliata da finanziamenti che collocano l'Italia nei livelli più bassi fra i Paesi industrializzati, mentre la stessa Italia occupa il primo posto nell'Unione Europea per numero di auto blu (cosiddette di servizio) e scorte relative.
Non può dunque stupire se, nelle famiglie e nei giovani, si vada sempre più nettamente manifestando — oltre al disinteresse per la politica la diffidenza perla scuola pubblica: conseguenza, come giustamente sottolineava Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere del 9 ottobre), non solo del «decadimento del nostro sistema scolastico», ma soprattutto della «repulsa del nostro passato» e della diffusa convinzione «che ormai questo Paese non ha più futuro»; potremmo aggiungere, più radicalmente, che questo avviene perché il Paese non c'è più ed è finito insieme all'interesse per il «bene comune», collante di ogni società civile. Di qui l'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associata: i muri infestati da scritte, l'offesa agli edifici pubblici e alle opere d'arte (del resto la visione delle facciate di storici palazzi, come quello del Senato, è stata deturpata da oscene fioriere e pilastri di granito, pistoni, catene e altri simili apparati «deterrenti», almeno per il buon gusto); di qui ancora l'aggressività e la violenza gratuita, la lotta notturna fra bande di giovinastri in piazze storiche delle nostre città, le liti in sala operatoria fra medici incuranti del paziente, l'aggressione di passanti, autisti o ambulanti sotto lo sguardo indifferente dei presenti. Peraltro, quanto a violenza e volgarità, la televisione sembra essere un canale e un modello privilegiato. Il Paese non c'è più, come ormai da più parti libri e giornali tendono a sottolineare: perso il senso delle istituzioni, resta un cumulo di rovine cui fa riscontro la retorica delle «grandi opere», sempre promesse, mai realizzate, forse inutili.
Di qui la mancanza di rispetto non solo per la nostra storia ma per le più semplici forme di solidarietà, la ricerca prepotente del «particulare», personale, di branco o di cricca, l'elogio della «furbizia» nell'evadere le norme, siano esse fiscali o sociali. Del resto, da noi va in prigione solo chi ruba poco. Sembra tramontata ogni speranza in un Paese ove le persone, le istituzioni, le imprese che trovano ancorala forza di sopravvivere e di creare un futuro si muovono in un groviglio di impacci legislativi e sindacali, soprusi burocratici e invidiosa diffidenza; la fuga verso l'estero è uno dei tanti sintomi del nostro declino. Forse a questi soggetti faceva riferimento Bìll Emmott (già direttore dell'Economist) quando riponeva le sue speranze per un futuro migliore nel prevalere della «Buona Italia» sulla «Mala Italia»; «potrebbe farlo ancora, — aggiungeva — se lo si volesse abbastanza». Frattanto ci si può. consolare rileggendo Polibio e facendo propria la teoria dell'inevitabile declino delle forme di governo, quando l'interesse privato prevale sul bene comune; o forse anche riprendendo una folgorante pagina di Machiavelli: «Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcun ordine buono tale che rimangono il vituperio del mondo». L'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associato all'aggressività e alla violenza gratuita Si dirà che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli.
Terzigno, provincia di Kabul, esibisce oggi alla luce del sole, dopo la notte della follia, le sue insondabili antinomie.
Spuntano tra le macerie i resti di un tricolore bruciato per disprezzo contro uno Stato infingardo e patrigno, mentre qualcuno, come già avvenne nella notte dei fuochi e dei sassi, intona patriottico Fratelli d'Italia e stende un altro tricolore intatto dinanzi agli agenti in tenuta antisommossa. "Ma l'inno nazionale non è servito la notte scorsa a fermare i poliziotti", lamenta una pasionaria del presidio antimonnezza. Oltre una curva, quattro ceffi lanciano taniche piene di ettolitri di petrolio nei pressi di via Cantinella, il cui nome grazioso è impresso su una nera pietra lavica, a non più di cento metri da un deposito di Gpl. Poco più in là rispetto al criminale imbrattamento un gruppetto di ragazzini delle medie generosamente si affanna, ma invano, per spostare con improbabili leve i tronchi pesanti tonnellate degli alberi abbattuti sulle strade con le seghe circolari. Una delegazione di commercianti cittadini solidarizza con l'intifada della Rotonda Panoramica, nonostante alcuni di loro abbiano avuto le vetrine dei negozi spaccate e le serrande sfregiate. Gli organizzatori della sagra della sfogliatella, pur destinata al fallimento, non si lagnano per le bellicose occupazioni serali dei compaesani che li allontanano dal consumo delle loro delizie e della penuria di visitatori da fuori.
Il panorama della Rotonda cambia molte volte di metro in metro e tra il giorno e la notte. Persino negli odori. Non c'è traccia di puzza oggi nell'aria, ma un salubre odore di resina dei pini centenari abbattuti senza pietà con imprevedibile perizia. Non c'è un solo gabbiano grasso come un maiale nel cielo, solo il rombo degli elicotteri della polizia e dei carabinieri. Stasera, insieme all'arrivo del redivivo Bertolaso, che di questa temperie rivoltosa e rovinosa porta cospicue responsabilità, è annunciato l'arrivo della Madonna, nonostante l'autentico furore provocato dalle parole di Berlusconi dopo il consiglio dei ministri, all'insegna del tout va bien madama la marchesa, e dal presidente della regione Caldoro, "'o cagnolino ai piedi del padrone, lì a sbavare vicino a 'o boss come i poveri sindachelli nostri". Il sindachello di Boscoreale Gennaro Langella, che si è dimesso dal Pdl, dice ironicamente che se in dieci giorni Berlusconi risolverà un problema irresoluto da tre lustri, andrà fatto subito santo.
La Madonna della Neve in effige dinanzi ai compattatori, i camion che nella notte scaricano le schifezze di Napoli, è annunciata da Brigida Avieno, professoressa di inglese molto british e anche molto incazzata: "La Madonna della neve fermò la colata di lava nel 1906, chissà che non riesca a fermare ora lo scempio di questa terra nostra che era generosa di prodotti straordinari e che affascinò persino Goethe". Oggi Lachryma Christi e Falanghina, i vini di questa zona, li rimandano indietro, i pomodorini del pendolo, conosciuti dai grandi chef di tutto il mondo, e le crisommole, le strepitose albicocche locali, sono ormai introvabili. "Io faccio la raccolta differenziata - racconta Brigida, reduce da un viaggio di studio a Edimburgo - poi vedo che la mia immondizia la mischiano con quella di Napoli che la differenziata non la fa, in un'unica schifosa poltiglia che dai compattatori disperde percolato per le nostre strade. Perché allora la monnezza napoletana non la buttano da loro, lì nell'area di venti ettari dell'ex Italsider, invece di avvelenare la terra delle nostre radici, dove mio nonno nacque nel 1850?" "Chissà se è perché a Napoli si vota a marzo e Berlusconi non può permettersi di perdere le elezioni nel capoluogo", interviene un'altra insegnante-politologa sotto un cartello che dice: "Berlusconi infame, vergogna d'Italia, hai perso il sud!".
Come Brigida, c'erano tante donne anziane, vecchi, giovani e bambini a lanciare di tutto contro i poveri autisti dei camion della vergogna, che fuggivano terrorizzati. Come se in un delirio di odio montante per le promesse tradite dalla destra, che qui fece una mietitura straordinaria di quasi l'80 per cento dei voti garantendo che mai si sarebbe fatta la seconda discarica nella Cava di Vitiello proprio adiacente a quella di antica proprietà camorrista di Sari, si fossero saldati buoni e cattivi, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, berlusconiani e antiberlusconiani, contadini e commercianti, vigili urbani e camorristi, preti e ultras degli stadi.
Eppure, questo è un popolo antropologicamente pacifico, che nei secoli ha subìto tutto senza protestare, dalla lava al dominio dei Borboni, che alla falde del Vesuvio costruirono la Reggia di Portici e le splendide ville vanvitelliane della corte. La delinquenza della droga - garantiscono - è arrivata soltanto con il Piano Napoli, dopo il terremoto del 1980, quando qui si fece l'edilizia per i napoletani del centro storico.
Ma questo popolo bonario, che rivendica la sua civiltà, portato al furore, partecipa a una violenza incontrollata, che viene dalla pancia e travalica il cervello. Senza nessuna traccia di pentimento. "E sa perché?" spiega una donna anziana del gruppo-Brigida, che confessa di aver lanciato anche lei un bullone o comunque qualcosa che la notte prima si era trovata in mano al momento dell'incedere della colonna di compattatori. "Perché per due anni abbiamo fatto comitati, fiaccolate, preghiere alla Madonna e nessuno se ne è accorto. Poi, al primo compattatore bruciato, siamo diventati un caso nazionale. Come se in questo paese dei paradossi occorresse fare i teppisti per essere ascoltati. Essere civili non serve".
I teppisti spuntano dal nulla in un attimo sui motorini, con i volti bendati e le targhe coperte, nonostante le decine di blindati di polizia e carabinieri che accerchiano tutta l'area. La collera si scarica ormai anche sui giornalisti, i cameramen, i fotografi: "Tenimmo pronte per voi 'e bombe a mano! Via di qui bastardi!". La tesi è che i media nascondono le notizie sgradite al potere, come quella di una donna incinta che avrebbe perso il figlio durante gli scontri e di alcuni manifestanti che sarebbero stati "massacrati" dalla polizia. Ma non risulta.
"Io non sono un massacratore - replica Alberto Francini, uno dei capi delle operazioni di polizia a Terzigno - e questa che vede qui intorno è per la stragrande maggioranza gente per bene che difende la propria vita e i propri beni. I violenti sono pochi professionisti che spesso lo fanno diciamo per sport, come negli stadi. Ma la situazione, vissuta da qui, sembra pericolosamente senza sbocco, se qualcuno non tira fuori una soluzione dal cilindro". Franco Matrone forse porta ai rivoltosi la notizia che esce dal cilindro. Dopo l'esposto dei sindaci, di Legambiente e del presidente del Parco del Vesuvio che chiede il sequestro cautelativo della cava per le infiltrazioni di veleno nelle falde acquifere, il procuratore di Nola ha aperto un'inchiesta. L'intifada finirà con il sequestro della cave? Scende la notte sulla Rotonda della rivolta e Bertolaso si rintana a Napoli in prefettura, dove riceve i sindaci, con le stesse promesse di due anni e mezzo fa. A Terzigno, provincia di Kabul, non ha il coraggio di salire. "Stanotte ci può dare una sola buona notizia", dice il sindaco di Trecase Gennaro Cirillo: "Che si dimette". Il carisma profuso dall'uomo del fare non abita più sotto il Vesuvio berlusconiano. La pazienza ora è finita sotto un mucchio inestinguibile di monnezza.
L’Italia è ultima dei paesi industrializzati, a pari merito con la Corea del Sud, negli aiuti ai paesi poveri. Nell’ultimo anno il governo ha addirittura ridotto a un terzo i suoi già miseri stanziamenti rispetto al 2009, quando ospitammo il G8 e B. s’impegnò ad aumentarli. Ma c’è una piccola eccezione, nella nostra proverbiale taccagneria: lo Stato caraibico di Antigua e Barbuda, che fin dal 2005 dirama comunicati grondanti gratitudine per il nostro premier-missionario: “Mr. Berlusconi si è offerto di aiutare Antigua e Barbuda a ridurre ulteriormente il loro debito nei confronti di altri Paesi del mondo. In un incontro bilaterale col premier Spencer alle Nazioni Unite, il premier italiano ha dichiarato che parlerà personalmente con altri capi di governo europei con i quali Antigua e Barbuda hanno impegni debitori, per convincerli a condonare il dovuto”. Che tesoro. Tre anni dopo, in vacanza ad Antigua, B. svelava all’inviato del Corriere i nobili motivi di quello slancio di generosità verso l’indigente popolazione del noto paradiso fiscale (in cima alla lista grigia dell’Ocse) costretta a vivere di stenti in apposite bidonville a forma di caveau e società off-shore: le nuove ville in costruzione per sé, la prole e i calciatori del Milan. “Guardi qui che spettacolo, quell'altra casa su quel promontorio è di Shevchenko. Ci sono state praticate ottime condizioni perché i nostri nomi fungono da calamita per il mercato europeo e americano. Ma la decisione finale l'ho presa per dare un sostegno al mio amico Gianni Gamondi (già architetto di villa Certosa, con relativi abusi, ndr), che è il regista di tutta la progettazione ambientale e architettonica... Lì ci sarà una grande piscina-lago, poi i negozi, la Marina, il golf da 18 buche, il ristorante. Davvero un posto da sogno. Ieri ero a pranzo col premier Baldwin Spencer, gli ho chiesto il voto per l'Expo di Milano. Abbiamo parlato anche di questo complesso, uno dei fiori all'occhiello dell'isola... La baia ha un nome strano, Nonsuch Bay, sembra napoletano, nun saccio. Per ovviare, Spencer (che parla un napoletano fluente, ndr) ha buttato lì un’idea: cambiargli il nome. Farla diventare, in mio onore, The President Bay”. Ora, grazie a Report, scopriamo che l’ex premier Lester Bird ha autorizzato B&C a cementificare il promontorio e la baia, poi B&C han regalato una bella villa anche a lui. Intanto B. si batteva come un leone per convincere l’Europa a ristrutturare i due terzi del debito estero di Antigua. E il sito di Milano Expo 2015 annunciava progetti per “l’impiego del sistema satellitare per prevenire terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche... in Bangladesh, Sudafrica e Isole Caraibiche” e “utilizzare specialità ittiche nell’industria della pesca... in Gabon, Fiji, Togo, Antigua e Barbuda”. Nel 2008 il Comune di Milano finanziava “il progetto ‘Accendi la luce nel tuo quartiere’ per l’illuminazione delle strade a St John’s”, capitale di Antigua. Iniziativa che la sindaca Lottizia Moratti, dopo un vertice con Spencer, spiegava come un passo decisivo “nella lotta alla delinquenza”. Ai Caraibi, s’intende. Il Comune di Milano finanziava pure “iniziative nei campi dell’istruzione, dello sport, delle risorse marine e costiere, dei collegamenti aerei”. Già nel 2004 il governo B. aveva investito 9 milioni di dollari (soldi nostri) per sviluppare l’ICT nei Caraibi, compresa Antigua, ma anche St. Lucia (toh). Che potrebbero persino avere la banda larga prima dell’Italia. In attesa di sapere se il fratello della compagna di Fini possieda un’off-shore a St. Lucia e un alloggio di 55 mq a Montecarlo, già sappiamo che B. ha varie ville in un paradiso fiscale, costruite da una società di prestanomi e intestate a off-shore su terreni pagati 22 milioni a chissà chi tramite l’Arner Bank indagata per riciclaggio a Milano e Palermo. Si attendono ora 90 prime pagine del Giornale e di Libero, con raccolte di firme per le dimissioni di B., più servizi speciali su Panorama, Porta a Porta, Matrix, Tg1, Tg2, Tg4, Tg5, Studio Aperto. Ma anche no.
Come siamo arrivati a questo punto? Bisogna sì partire da lontano, ma senza esagerare, senza indulgere a rivangare considerazioni plurisecolari sul "carattere" degli italiani. È più utile cercare vicino, nel passato a noi più prossimo. La tesi di fondo è gli anni Ottanta sono alle origini dell'Italia attuale, della "costruzione degli italiani" di oggi. Certo si può anche dire che l'humus profondo del berlusconismo viene da più lontano, è forse ancora più atavico del fascismo stesso, ma si ha la sensazione che alcune caratteristiche specifiche dell'Italia di oggi decollino proprio in questi anni, senza che vengano percepite e comprese dagli stessi soggetti in campo.
Riprenderei la formulazione usata da Giulio Bollati, quasi a suggello di una lunghissima diatriba sul rapporto tra fascismo e prefascismo: «Nulla è nel fascismo quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella politica italiana, tranne il fascismo stesso». Cosa si voleva dire? Che erano già presenti nella situazione italiana tutti gli elementi che sarebbero confluiti nel fascismo, ma che era decisiva la nascita, appunto, di un catalizzatore che li aggregasse e li fondesse, in una situazione particolarissima. Non era, quindi, lo sbocco inevitabile di tutta la precedente storia italiana. Lo stesso discorso si può fare per il rapporto tra gli anni Ottanta e il berlusconismo, che fu nel decennio successivo l'ascesa - più che mai "resistibile", da parte di avversari meno disarmati e insipienti - di una cultura diffusa, di un sistema di potere economico, politico e mediatico che avrebbero potuto essere contrastati e sconfitti. Gli anni Ottanta non vanno demonizzati, anzi bisogna confrontarsi con un decennio che probabilmente diverrà oggetto di celebrazione e di revival, di cui già si percepiscono le prime avvisaglie.
Quegli anni sono in fondo l'eterno presente in cui vivono o si illudono ancora di vivere gli italiani di oggi, sono gli anni in cui si è costruita la loro mentalità. Italiani che continuano a coltivare il rimpianto di quel decennio e lottano per la perpetuazione dello status acquisito allora nonostante il declino ormai ventennale che stiamo vivendo come paese.
Gli anni Ottanta ovviamente ci sono stati in tutto il mondo, con caratteri sostanzialmente simili sul piano politico e culturale. Hanno avuto effetti devastanti e duraturi in tutto l'Occidente, ma solo in Italia daranno luogo a un esito come quello che stiamo vivendo da molti anni: predominio di una destra populista e retriva, inabissamento della sinistra e sfarinamento del suo insediamento nel territorio.
Bisogna ricordare cosa furono quegli anni: senza dubbio anni di grande vitalità e di benessere diffuso che si traduceva in una vistosa esplosione dei consumi. Anni in cui si esprimeva il sollievo collettivo per la lenta uscita dagli anni del terrorismo. In cui sembrava prevalere, in contrasto con il decennio precedente, il trionfo del "privato". Già nella seconda metà degli anni Settanta si parla di "riflusso", si celebra l'elogio del disimpegno, i libri Adelphi scalzano i libri Einaudi nelle mode culturali. È un decennio che cerca la sua definizione in gran parte in contrasto con quello precedente. Gli anni Settanta erano stati tante cose, nel bene e nel male, che non è possibile qui rievocare. Ma si è persa a distanza la consapevolezza che quelli erano stati anche gli anni dell'eguaglianza, forse gli unici nella nostra storia. Quel decennio fu l'unico in cui la forbice tra le classi sociali si assottigliò sensibilmente nella storia repubblicana, per riprendere a crescere nel decennio successivo fino agli eccessi dell'ultimo quindicennio.
Individualismo è sicuramente una delle parole-chiavi del decennio. Già alla fine degli anni Settanta, nella particolare "modernità" italiana, vengono definendosi «modelli acquisitivi individuali» - di cui parlerà ampiamente il Censis nelle sue analisi degli anni Ottanta - che implicano «difesa dallo Stato» e «rifiuto dello Stato», che si innestano su una lunga tradizione e propensione, dando vita però a una forma di società che è nuova nella sua ideologia e nelle sue culture diffuse.
Anni di riscossa proprietaria, inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat nel 1980, dalla marcia dei quarantamila (erano la metà, ma rimane questa cifra nella memoria) capi e quadri Fiat per le strade di Torino. Ci sarà progressivamente, come è stato notato, la cancellazione delle tute blu dall'immaginario diffuso degli italiani: non perché gli operai cessino di esistere, ma perché si conviene di non parlarne più. La borghesia in tutte le sue forme diviene realmente la vera classe universale. Sembra decollare una finanza popolare: molti italiani prendono a investire in Borsa, a seguire quotidianamente i listini, a scorrere ansiosamente il Televideo per informarsi delle valutazioni dei loro titoli. L'investimento nei Bot e nei Cct a interessi elevatissimi diviene fenomeno di massa e per molte categorie anche destinazione remunerativa dell'evasione fiscale.
Sono anni dell'opulenza, del vivere molto al di sopra dei propri mezzi. Chi gira in Europa in quegli anni nota subito - mettendo a confronto ciò che vede - l'esibizione da parte degli italiani di un tenore di vita che è anche ostentazione di un lusso sopra le righe. Ricchezza privata e povertà pubblica, di mezzi, di infrastrutture, di servizi e di decoro: si afferma stabilmente nell'opinione pubblica europea l'immagine dell'Italia come di «un paese povero abitato da ricchi».
Sappiamo oggi - in realtà lo si sapeva anche allora, ma si fingeva di non saperlo - che quella ricchezza si fondava su basi effimere: svalutazione competitiva della lira per trainare l'esportazione, enorme incremento del debito pubblico.
Si afferma un individualismo proprietario, che è trionfo di ceti emergenti o rampanti, frutto della enorme redistribuzione di ricchezza indotta dalla lunga svalutazione gestita dai governi del pentapartito.
Ci sono fenomeni che vengono da lontano ma si ingigantiscono in maniera abnorme. Il doppio regime fiscale, per lavoratori dipendenti e autonomi è sempre stato caratteristico del paese, ma qui abbiamo attraverso la redistribuzione del reddito l'avvio di una spoliazione del lavoro dipendente che procede costante fino ai nostri giorni, mentre si afferma una altrettanto abnorme diffusione del lavoro autonomo in tutte le sue forme che non ha paragoni in Europa.Un timido tentativo operato dal ministro Visentini nel 1984 di introdurre lo scontrino fiscale verrà vissuto da molte categorie come un sopruso.
Ci sono aree del paese, come il mitico Nord-Est, che conoscono una ricchezza improvvisa, e da cui muoverà quel paradosso culturale dell'Italia degli ultimi trent'anni che vuole più indignate contro le tasse proprio le categorie che più evadono il fisco.
L'economia sommersa, ignota alla fiscalità, viene vantata come risorsa di un paese in cui "la nave va" (l'uso del termine «sommerso» da parte di Craxi in una conferenza stampa a New York produrrà singolari equivoci presso la stampa americana, che ricondurrà l'economia underground alla mafia).
Sono gli anni del trionfo del liberismo in tutto l'Occidente, in cui la formula meno Stato più mercato diviene un mantra per tutti i politici e gli opinionisti in ascesa. Con alcune novità: per la prima volta il liberismo diviene ideologia di massa, popolare e populista. Ma soprattutto non ci troviamo di fronte alla consueta oscillazione del pendolo tra Stato e mercato che si è sempre verificata negli ultimi due secoli. Il liberismo che trionfa in questi anni è una ideologia intimamente totalitaria, che non postula né consente dubbi o alternative possibili, che si presenta come un dato di natura con la stessa ferrea necessità di una legge scientifica. Sono i presupposti di quello che diverrà il cosiddetto pensiero unico dopo il 1989, e che verrà lentamente introiettato anche dalle sue vittime. Questo trionfo si verifica in anni decisivi, che ipotecano il futuro. La costruzione europea avverrà sulla base di questi principi. I parametri di Maastricht, giustamente definiti «stupidi» nella loro rigidità da Romano Prodi negli anni a venire, verranno assunti non solo come vincolo empirico, ma anche come dogma indefettibile (e ancora oggi, contraddicendo le lezioni di un secolo e mezzo di crisi economiche, il primato del contenimento della spesa su quello degli investimenti spinge al lento suicidio l'economia europea).
Nell'immaginario collettivo si affermano parole chiave: modernità, modernizzazione, confusa ideologia che è il vero porto delle nebbie cui approda una generazione di marxisti pentiti. Successo è un'altra parola chiave del decennio, assieme a professionalità, tanto più evocata quanto più difetta. «Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti alla fine del decennio in Palombella rossa, dopo avere schiaffeggiato la giornalista che dava la stura ai più vieti luoghi comuni del linguaggio d'epoca. Arrogance, Égoïste sono alcune delle pubblicità più invadenti del decennio, impensabili dieci anni prima.
Naturalmente in tutto questo incide moltissimo la televisione. «Pertini non avrebbe firmato» si legge spesso nei cartelli dei manifestanti davanti al Quirinale in prossimità di promulgazioni di leggi o decreti controversi. Purtroppo Pertini firmò il decreto più incredibile nella storia repubblicana, il cosiddetto Decreto Salvapuffi disposto con urgenza da Bettino Craxi il 20 ottobre 1984, che riaccendeva le televisioni di Berlusconi spente da un pretore e sanciva di fatto l'esistenza di un monopolio nazionale nella televisione privata.
È solo in parte una "nuova" televisione. In realtà è anche un recupero della "vecchia" televisione familiare, con i suoi Mike Bongiorno, i suoi Corrado e le sue Raffaella Carrà, proprio nel momento in cui la Rai stava innovando il suo linguaggio e le sue tematiche. La concorrenza al ribasso spegnerà sul nascere questa fase di autonomia e creatività. Già nel 1985, solo cinque anni dopo l'avvio dell'avventura di Canale 5, Federico Fellini filma Ginger e Fred, con al centro la volgarità e l'invadenza del cavalier Fulvio Lombardoni nelle vite degli italiani. Il film non avrà successo, e dopo pochi anni verrà trasmesso da Rete4, massacrato dagli spot televisivi che aveva voluto denunciare.
Pubblichiamo il testo della relazione di Santomassimo al convegno «Società e stato, sfera del berlusconismo» in corso a Firenze, organizzato da Libertà e giustizia e dalla rivista storica Passato e presente. Coordinato da Paul Ginsborg e Sandra Bonsanti, tra gli interventi quelli di Gustavo Zagrebelsky, Norma Rangeri e Marco Revelli.