loader
menu
© 2025 Eddyburg

La resistenza e le riforme

[…] Se c'è un tema nella storia politica italiana del dopoguerra che si ripropone quasi ossessivamente, è proprio quello della necessità delle riforme e dell'incapacità di attuarle. Visti in quest'ottica, gli anni 1943-45 costituirono un'occasione irripetibile, a dispetto dei numerosi ostacoli esistenti. Il vecchio ordine su cui si fondava la società italiana era stato scosso fino alle fondamenta dalla sconfitta militare e dalla successiva invasione. I ceti piú poveri della campagna, spinti alla lotta dall'asprezza degli anni di guerra, chiedevano che fosse posto fine a secoli di sfruttamento e che si riformasse (intero sistema di possesso della terra e dei patti agrari. Gli scioperi di massa della classe operaia settentrionale non avevano un'ispirazione puramente antifascista e democratica. Scaturivano dalle condizioni materiali degli operai, dal freddo e dalla fame, ma anche dalle case degradate, dallo sfruttamento alla catena di montaggio, dalla mancanza di potere sul luogo di lavoro. Per loro la lotta contro i nazisti e la battaglia per una nuova dignità in quanto esseri umani, sia a casa che in fabbrica, andavano di pari passo. Le migliaia di italiani che si univano alla Resistenza non lo facevano solo per liberare il proprio paese, ma per trasformarlo. Essi erano pronti a sacrificarsi (dal momento che 1a probabilità di morte era estremamente elevata), ma salo per una nuova Italia, fondata sui principî di democrazia e giustizia sociale. Cosí scrisse ad esempio il ventiquattrenne Giaime Pintor al fratello nel novembre 1943, tre giorni prima di venire ucciso da una mina tedesca: « Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è cosí grande: tocca a noi colmare questo distacco»[1].

Questo enorme desiderio di riforme e queste potenzialità oggettive rimasero quasi completamente irrealizzate. Gli Alleati ne furono responsabili in non piccola parte: essi cercarono gli interlocutori piú arrendevoli e conservatori, non importa se inquinati da vent'anni di appoggio al fascismo. Gli inglesi non erano interessati a riformare, ma a restaurare. Lo stesso, in modo abbastanza comprensibile, era vero per il re e per Badoglio. Il colpo di stato del z5 luglio 1943, malgrado il successivo disastro dell'8 settembre, li aveva messi al comando di tutta la metà meridionale dell'Italia. I due anni di vita del Regno del Sud emarginarono il Mezzogiorno dai progressi del Nord, isolarono le proteste dei contadini meridionali, assicurarono la continuità della burocrazia fascista e soffocarono le fragili forze della democrazia del Meridione.

Qualche responsabilità per il fallimento storico di questo periodo, tuttavia, deve essere rintracciata anche all'interno dei partiti di sinistra, in particolare nel Partito comunista. Preoccupati di affermare la loro legittimità subordinando tutto all'unità nazionale, riluttanti a disobbedire alle richieste sovietiche di non provocare gli Alleati in Italia e infine scettici sul loro reale potere di contrattazione, i comunisti scelsero di giocare d'attesa. In questo modo raccolsero molti frutti, ma la riforma della società italiana non fu tra questi. […] [p. 64-65]

Salvate dalla Resistenza le grandi fabbriche e le città

[…] Le condizioni di vita nelle grandi città settentrionali continuarono a peggiorare per tutto il rigido inverno del 1944-I945. Mentre la temperatura scendeva a meno undici gradi, mancava il combustibile per il riscaldamento, non si riusciva a riparare le finestre scardinate dai bombardamenti aerei, c'era un'acuta penuria di cibo. La madre di Camilla Cederna scrisse da Milano ai suoi parenti che il proprio letto era diventato «il mio frigorifero notturno», raccontando in che modo doveva vestirsi prima di mettersi a dormire. Nei negozi mancava tutto, eccetto uno o due mazzetti di prezzemolo ingiallito, qualche caldarrosta e una gran quantità di un prodotto tipico del regime di Salò, una sorta di colla nauseabonda che veniva chiamata «formaggio Roma». Il mercato nero prosperava, ma i suoi prezzi erano proibitivi per la maggior parte della popolazione. Il numero assai elevato di casi di tubercolosi nell'immediato dopoguerra è un chiaro indicatore del livello di denutrizione sofferto in questi diciotto mesi di occupazione tedesca.

Nelle fabbriche si lavorava con la costante paura che uomini e macchine potessero venire spediti in Germania. Il 16 giugno 1944, reparti delle SS e delle camicie nere avevano circondato quattro fabbriche di Genova e costretto 1500 operai, ancora con la tuta, a salire su dei camion che erano in attesa. II giorno prima, a Torino, si era sparsa la voce che il reparto 17 di Mirafiorí - motori per aeroplani - sarebbe stato smantellato e trasportato in Germania. Tutti gli operai scesero in sciopero e rifiutarono di tornare al lavoro, malgrado le concessioni economiche fatte da Valletta perché lasciassero snidar via il macchinario da Torino. II 22 giugno un attacco aereo alleato distrusse completamente il reparto 17. Gli operai Fiat pagarono a caro prezzo la loro resistenza, ma i progetti tedeschi erano stati così vanificati. In altre occasioni l'opposizione operaia non ottenne lo stesso successo e una gran quantità di macchinario venne trasferita nelle relativamente sicure valli montane o in Germania stessa.

Le città del triangolo industriale furono colpite nell'inverno 1944-45 da una massiccia disoccupazione, in parte per mancanza di materie prime e in parte perché, a causa di un diffuso sabotaggio, produzione e occupazione erano drastica mente cadute nei primi mesi del 1945 Alla Fiat Mirafiori la produzione di autocarri scese fino a un minimo di dieci al giorno, rispetto a una media di settanta nei due anni precedenti. A Genova, nel gennaio 1945, il numero ufficiale dei disoccupati era di 11.871, ma le autorità fasciste informarono i tedeschi che la cifra reale era di 40 mila persone. II timore di essere deportati trattenne parecchi operai. dal registrarsi come disoccupati.

Le agitazioni operaie, benché fossero ininterrotte e danneggiassero pesantemente la produzione bellica, non raggiunsero mai il livello del marzo 1944. La principale ragione risiedeva nelle sempre piú avverse condizioni del mercato del lavoro, ma ebbe un certo peso anche la necessità di mantenere l'unità all'interno del Comitato di liberazione nazionale e di andare incontro ai desideri della Democrazia cristiana e dei liberali. In molti luoghi di lavoro i comitati di agitazione, formati esclusivamente da operai, erano subordinati ai CLN di fabbrica che comprendevano tanto í lavoratori che la direzione aziendale.

Negli ultimi mesi di guerra i gappisti aumentarono la loro attività. Essi venivano fiancheggiati dalle Sap (Squadre di azione patriottica), formate da normali operai che nelle ore libere dal lavoro facevano il possibile per preparare il terreno all'insurrezione nazionale. All'inizio del 1945 i quartieri operai di Torino erano piú o meno diventati zone proibite per fascisti e tedeschi.

Le rappresaglie contro le azioni dei gappisti furono sempre immediate e spietate. Una delle più note fu quella avvenuta il q agosto r 944 a Milano in piazza Loreto. Il giorno prima il Gap aveva fatto saltare un camion tedesco in città, con il risultato che quindici prigionieri politici, inconsapevoli del loro destino, erano stati prelevati all'alba da San Vittore e fucilati in piazza. I loro corpi furono abbandonati lí per l'intera giornata, esposti al caldo d'agosto, alle mosche, alla morbosa curiosità dei passanti.

Come giunse la primavera del r945 fu chiaro che il movimento partigiano era sopravvissuto, decimato ma intatto, ai terribili mesi invernali. II numero dei partigiani crebbe adesso con estrema rapidità, superando 1e centomila unità nell'ultimo aprile di guerra. Mentre il Terzo Reich veniva circondato a oriente dai russi e a occidente dagli anglo-americani, la prossima liberazione dell'Italia settentrionale divenne finalmente realtà.

Il carattere di questa liberazione fu oggetto di un profondo disaccordo fra gli Alleati e la Resistenza. Ferruccio Parri, recatosi al sud per discutere la questione, riferí che gli Alleati pretendevano per sé soli il diritto di accettare la resa dei tedeschi; essi inoltre esortavano i partigiani a non intraprendere azioni indipendenti ma a concentrare piuttosto le loro energie nel salvataggio del maggior numero possibile di installazioni elettriche e industriali dalla politica tedesca di «terra bruciata». Questo non era tutto. I progetti degli Alleati per la fine della guerra erano i seguenti:

«Trasferire e concentrare le unità partigiane in 30-40 campi; fornire ivi, a cura degli Alleati, la necessaria assistenza i.n modo da riposarle, rifocillarle, rivestirle; consegnare eventuali attestati e premi in denaro; ritirare le armi. Questo periodo, dopo il quale i partigiani verrebbero rinviati a casa loro, potrebbe prendere 3-4 settimane».

I partigiani, invece, avevano idee alquanto differenti. Pur concordando con gli Alleati sulla necessità di salvaguardare il patrimonio industriale dell'Italia, essi rifiutavano di accettare un ruolo secondario nella liberazione del Nord. I comunisti e il Partito d'Azione premettero perché si preparassero piani di insurrezione per le principali città, senza per questo voler contrapporre la loro autorità a quella degli Alleati o porre all'ordine del giorno la rivoluzione socialista. Il loro obiettivo era invece dimostrare il potere effettivo della Resistenza e porre fine all'occupazione tedesca in un modo che sarebbe stato difficile dimenticare. II 25 febbraio 1945 Togliatti telegrafò a Longp nel nord: «Bisogna lottare per l'annientamento totale di tutte le forze tedesche in Italia... contro ogni tentativo di frenare l'insurrezione contro gli occupanti con finte trattative per la capitolazione»'. L'insurrezione dell'aprile 1945 rappresentò 1a vittoria finale su tutte le tentazioni di attendismo militare.

Il 1° aprile 1945 gli eserciti alleati in Italia lanciarono la loro ultima offensiva contro le linee tedesche, puntando a una rapida penetrazione in tutta la pianura padana. La resistenza tedesca fu tenace, e il 13 aprile i1 generale Mark Clark ammoní i partigiani: «il momento per l'azione non è ancora arriva to». Tre giorni prima, comunque, i comunisti avevano già diffusa la famosa direttiva n. 16 in cui si ordinava ai propri militanti di preparassi all'azione insurrezionale. Txa il 24 e il 26 aprile, mentre gli Alleati erano ancora in Emilia, le città di Genova, Torino e Milano insorsero contro i nazifascisti. [p. 81-85. Omesse le note a p.p.]

I nazisti si arresero ai partigiani a Genova il 25 e 26 aprile. A Torino operai, partigiani scesi dalle montagne e cittadini combatterono contro i nazisti e i fascisti dal 26 al 28 aprile. A Milano la battaglia per la difesa delle fabbriche e la liberazione della città si svolse dal 24 al 26 aprile. Come già a Napoli nelle 4 giornate del 27-30 settembre 1943, la Resistenza liberò le città prima che arrivassero le truppe alleate. [n.d.r.]

[1] G. Pintor, Il sangue d’Euriopa. Scritti politici e letterari (1939-19439, a cura di V. Gerratana, Torino 1950, p. 187.


Nell'icona e nell'immagine qui sopra: i partigiani entrano a Torino. Archivio Franco Berlanda (il più alto al centro dell'immagine), che ringraziamo

Il teatro berlusconiano ha movimenti e statue da presepio meccanico. Luglio 2010: Sua Maestà pretendeva che il Senato votasse subito un ddl sulle intercettazioni, emendato dalla Camera; sapendosi seduto sul camino d´un vulcano, temeva l´eruzione; quanta roba bolliva là sotto, dalle serate d´Arcore alla P4. Non c´era più tempo: l´estate porta la scissione nel Pdl; da lì un travaglio chiuso sul filo del rasoio, con l´acquisto d´anime transumanti e sopravvivenza artificiale d´un governo catalettico. Adesso comanda lavori legislativi in settantadue ore, prima che Palazzo Madama chiuda. Nel frattempo pioveva sul bagnato. Annus horribilis: gli votano contro Torino, Milano, Napoli, mentre l´anno scorso aveva nella manica l´asso plebiscitario o almeno credeva d´essere agonista irresistibile; quattro referendum affondano altrettante leggi sue; invocava l´arrocco nel voto sull´arresto d´un parlamentare Pdl (posizione strategica, essendo in ballo la P4) e soccombe ancora, tradito dalla Lega. Non è più lui nella fantasia collettiva e, stando ai casi analoghi, i carismi svaniti non tornano. Questa diversione parlamentare sa d´estremo esorcismo. Vediamola.

Delle due novità una non è tale. Secondo l´art. 238-bis (interpolato dalla l. 7 agosto 1992 n. 356), le sentenze «irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova» dei fatti ivi accertati. Allora notavo come in sé non provino niente: l´eventuale apporto istruttorio viene dal materiale raccolto, comunque l´abbiano usato, bene o male, e sta nei relativi verbali; analisi del discorso testimoniale o argomenti induttivi, presi dalla motivazione, valgono nella misura della qualità logica, poco o tanto; e vengono utili anche detective stories intelligenti, come ne scriveva Edgar Allan Poe (Procedura penale, 8ava ed., 2006, 805 sg.). Insomma, ogni giudice deve risolversi l´equazione storica. Se vogliamo attribuire un senso all´art. 238-bis, intendiamolo così: non è richiesta la copia autentica dei singoli verbali, risultando dalla sentenza il contenuto degli stessi; l´interessato può confutarla esibendoli; resta fermo il diritto d´escutere il testimone ogniqualvolta la parte fosse estranea a quel giudizio. Su tale punto, dunque, l´ennesima manomissione pro Domino Berluscone lascia le cose quali erano.

L´altro fendente confisca un potere senza il quale i dibattimenti diventano teatro dell´assurdo in mano al guastatore. In limine i contraddittori espongono le rispettive prove: spetta al giudice ammetterle, se compatibili col sistema (non lo sono, ad esempio, iudicia feretri, sedute spiritiche, narcoanalisi, lie detector); e devono essere rilevanti, ossia tali che i relativi fatti influiscano sulla decisione. Questo secondo vaglio cadrebbe, stando ai segnali dal laboratorio, con l´intuibile elefantiasi del procedimento. Nell´arte avvocatesca d´Arcore il capolavoro è gonfiarlo, stando sur place, finché la materia penale svanisca, estinta dal tempo: udienze interminabili e manovra a tenaglia; la seconda ganascia scatta appena il tempo perso superi dati termini; il tutto sparisce dal mondo, come mai avvenuto. Sviluppano un freddo farnetichio i processi «lungo» e «breve», correlati nel piano criminofilo, roba negromantica. Nel vizioso codice vigente esiste ancora qualche limite al perditempo: il presidente taglia le liste «manifestamente sovrabbondanti» (art. 468, c. 2); sull´ammissione decide un´ordinanza, escludendo ogni prova «superflua» (art. 495, c. 4). Nel rito futuribile diventa padrona la parte: sfilano quanti testimoni l´interessato ritiene conveniente indicare; B. voleva escuterne 1500, il cui esame, laboriosamente condotto, riempirebbe vari anni. Passatempo costoso, esperibile da chi abbia tanti soldi. Ad esempio, N prospetta un´ipotesi difensiva nel cui contesto assume qualche vago rilievo la condizione climatica, e porta in aula tutti i meteorologi reperibili nei due emisferi, o chiama duemila testimoni sul seguente tema: conoscono bene l´imputato, omicida flagrante; raccontando quel che sanno sul conto suo forniranno dati alla diagnosi della personalità, importante nel quantificare la pena. Sono innumerevoli le possibili diavolerie.

Più delle precedenti, questa ventesima lex ad personam, utile nei casi Mills e Ruby, presenta l´immagine d´un paese sfigurato: decade a vista d´occhio; non ha futuro; e l´uomo che da 17 anni v´imperversa (ma l´azione tossica ne conta almeno trenta), ordina alla troupe d´allestirgli una sporca via d´uscita dai giudizi penali, noncurante della figura. Da come gli ubbidiscono, vediamo a che punto sia l´insensibilità morale. I reggicoda definiscono «sacrosanto» il diritto d´allungare i tempi d´una macchina al collasso. Non stupisce che il Pdl gli corra dietro: perdurando le rendite, lo seguiranno alla porta dell´inferno, con un salto laterale in extremis perché da queste parti la tragedia ha poco sèguito, né valgono fedeltà assolute; ogni domestico misura il padrone a occhiate fredde. Non se le sente addosso? Aspettiamo le scelte leghiste: andargli dietro sarebbe perdita secca, qualunque corrispettivo offra; era gesto astuto votare l´arresto del parlamentare Pdl mercoledì 20 luglio; ricadendo nell´abito servile, mascherato da insofferenze inconcludenti, il Carroccio perderebbe ogni credito. Corre un tempo climaterico. L´ultima mossa conferma quel che sapevamo: l´Olonese non ha freni, né morale né estetico, e nemmeno l´elementare prudenza con cui agivano famosi scorridori. A proposito, viene in mente un caso tedesco 1938: Werner von Fritsch, comandante dell´esercito, deve dimettersi sotto false accuse fabbricate dalla Gestapo; poche settimane dopo risulta innocente ma cosa fatta capo ha; ormai, scrive in una lettera, il popolo tedesco è inseparabile da Hitler, finiranno nell´abisso. Speriamo superfluo lo scongiuro: gl´italiani sanno sopravvivere e Re Lanterna non è «der Führer», sebbene così lo chiamasse sei anni fa un´operosa emissaria Mediaset nella Rai, né sa cosa significhi Götterdämmerung; auguriamogli lunghi ozi in uno dei suoi paradisi, dove non mancheranno le odalische.

IMMIGRATI In settimana la conversione del decreto che allunga i tempi di detenzione. Giornalisti, parlamentari e associazioni contro il divieto di ingresso nei centri imposto dal ministro Maroni

«Questo posto è un monumento alla violazione della Costituzione». Così il deputato del Pd Furio Colombo ha definito il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, al termine di una visita di due ore condotta insieme ai colleghi parlamentari Rosa Calipari, Andrea Sarubbi, Livia Turco, Vincenzo Vita (tutti del Pd) e Pancho Pardi (Idv). Una visita che si inserisce in una giornata di mobilitazione nazionale contro la chiusura dell'accesso a tutti i centri per immigrati - i Cie ma anche i Cara, dove sono ospitati i richiedenti asilo a gran parte delle associazioni e alla stampa, decretata con una semplice circolare dal ministero degli Interni il 1˚ aprile scorso.

Una circolare con cui il Viminale vieta l'accesso fino a nuovo ordine in tutti i centri ai giornalisti «per non intralciare le attività rivolte» alle persone all'interno. Lanciata dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi), dall'ordine dei giornalisti, dai parlamentari che hanno partecipato, da varie sigle dell'associazionismo e dai singoli giornalisti che il 26 maggio scorso hanno firmato un appello per ottenere l'accesso ai Cie (pubblicato in prima pagina su questo giornale), la mobilitazione - significativamente denominata LasciateCIEntrare - ha visto visite ispettive in 12 centri in giro per la penisola, condotte da 36 parlamentari (unici soggetti cui non è possibile impedire l'accesso, insieme a poche altre organizzazioni internazionali).

Visite che hanno fatto emergere una situazione di grave emergenza, soprattutto all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione. Dopo l'approvazione del decreto che aumenta il periodo di permanenza da sei a 18 mesi (che la maggioranza cercherà di convertire in legge entro la settimana), numerosi sono stati i tentativi di suicidio e vari gli atti di autolesionismo registrati nei centri. «Qui dentro ci sono solo poveri cristi. Gente che non dovrebbe esserci», ha sottolineato la deputata Rosa Calipari all'uscita di Ponte Galeria. Nella struttura alle porte di Roma, come in molti altri Cie soprattutto nel nord Italia, sono infatti trattenuti diversi cittadini stranieri transitati per il carcere. «Queste persone hanno scontato delle pene e, all'uscita, vengono portate qua per identificarle e procedere al loro rimpatrio.

E' un'assurdità», ha evidenziato Livia Turco, che pure è la firmataria (insieme all'allora ministro degli interni e attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano) della legge che nel 1998 creò i cosiddetti Centri di permanenza Temporanea (Cpt), antesignani degli odierni Cie. «I Cpt erano un'altra cosa. Erano istituiti in cui si veniva trattenuti in via eccezionale. E al massimo per 30 giorni», ha puntualizzato Turco. I parlamentari hanno quindi voluto aggiungere alcuni punti programmatici per il futuro, come lo stralcio della norma che prevede l'allungamento del tempo di trattenimento da 6 a 18 mesi e l'abolizione del reato di clandestinità introdotto con il pacchetto sicurezza. «Le cose che abbiamo visto oggi all'interno delle Guantanamo d'Italia targate Maroni, mi hanno convinto ancora di più che la legislazione sull'immigrazione del centrodestra deve essere rasa al suolo, a partire dal suo architrave, quel mostro giuridico chiamato reato di immigrazione clandestina», ha detto il deputato del Pd Jean-Léonard Touadi (Pd), all'uscita della sua visita al Cie di Via Corelli a Milano. Tutti d'accordo sulle critiche all'inasprimento della legislazione sull'immigrazione introdotto dall'attuale governo e dal ministro degli interni Roberto Maroni.

Ma su un punto i parlamentari dell'opposizione non arrivano a esporsi fino in fondo: quello dell'eventuale chiusura dei Cie in quanto tali. «Noi combattiamo il modo in cui sono gestiti questi centri. Così come sono, non hanno ragione di esistere, sono solo strutture detentive», ha detto Livia Turco. All'uscita del Cie di Bari Palese, i deputati Dario Ginefra (Pd) e Pierfelice Zazzera (Idv), ne hanno richiesto l'immediata chiusura. «Il Cie di Bari andrebbe chiuso anche per motivi di sicurezza e questa decisione dovrebbe essere assunta, senza ulteriori esitazioni, sia nell'interesse degli ospiti immigrati che del personale civile e militare in esso operante». E gli altri? I partiti dell'opposizione arriveranno a mettere al centro della loro agenda politica futura la chiusura di tutti i centri?

Sconfitto è chi aveva capito da subito che non si poteva essere governati dalla ghenga che ha fatto i primi soldi derubando una ricca orfana indifesa e malata, continuando poi senza limite e ritegno

Su La Repubblica del 2 luglio, in anticipazione di un numero di Alfabeta2 dedicato agli sconfitti, Umberto Eco scrive: «È ancora materia di discussione chi siano stati i veri vincitori delle elezioni comunali, specie a Milano e Napoli. Quello che non ci si è chiesti abbastanza è chi siano gli sconfitti, perché ci si è arrestati all'evidenza più immediata, e cioè che chi ha subito la "sberla" sono stati Berlusconi e Bossi, il che è innegabile. Ma c' è qualcun altro che, se non sconfitto, dovrebbe sentirsi messo in causa dal risultato delle amministrative. Io ritengo che sia stato messo in causa, almeno come rappresentante eminente di una tendenza, Massimo D'Alema.»

Non sto a riprendere il lungo articolo ormai diventato quasi un oggetto di culto, se non per richiamare la tesi centrale e cioè che D'Alema (e con lui un certo modo di fare politica che ha caratterizzato la sinistra) negli ultimi vent'anni ha accumulato una serie davvero rimarchevole di sconfitte, in grazia delle quali il berlusconismo ha potuto compiere il suo devastante ciclo ventennale.

L'analisi di Eco è condivisibile e del resto non fa che riproporci con la usuale lucidità e penetrazione alcuni dei giudizi negativi che da tempo e da molte parti si esprimono sulla filosofia politica impersonata da D'Alema - e dal resto della leadership del Centrosinistra. Ma dissento decisamente dall'idea che D'Alema sia uno sconfitto. Gli sconfitti dell'ultimo ventennio (oltre agli italiani tutti, e oggi anche gli europei, che cominciano ad assaggiare l'amaro sale dei costi di questa devastazione) siamo noi, noi che costituiamo quella metà, e oltre, del paese che, da subito, aveva capito che non potevamo essere governati dalla ghenga che ha fatto i primi soldi derubando una ricca orfana indifesa e malata, continuando poi alla grande senza alcun limite e ritegno. Sconfitto è Prodi, con i pochi altri che si sono opposti al berlusconismo, continuando a operare per una Italia diversa e civile. Sconfitto è Fini che, sia pur tardivamente, ha cercato invano di costituire una destra vagamente legalitaria e quanti altri che condividevano progetti simili, alcuni sperando, con maggiore o minore buona fede e perspicacia, che Berlusconi e Bossi fossero gli araldi di tale "destra moderna" (ammesso e non concesso che questa dizione non sia, come io penso, un ossimoro). Ma d'Alema sconfitto non è: è uno dei vincitori, in questa era, vincitore per sé e per i suoi, alla grande, certo non per noi, ma pur sempre vincitore.

Lo storico futuro che guarderà a questo periodo troverà facilmente tre nomi che se la sono passata straordinariamente bene: Berlusconi, Bossi e D'Alema. Più una pletora di berluschini e dalemini che si sono divisi la torta durante il ventennio. Davvero d'Alema ha fatto qualcosa di percepibile e decisivo per contrastare Berlusconi e il suo regime? Qualche eroica battaglia in Parlamento e nel Paese? E quando? L'unica Grande Impresa, miseramente fallita, è stato il tentativo di fare un accordo con, non una battaglia contro il Caimano. Ogni mobilitazione è stata annacquata, assopita e disprezzata, come raccomandava il famoso preside del Maestro di Vigevano «quieta non movere, mota quietare». Chi si agitava veniva subito tacciato di «antiberlusconismo», «estremismo» e comunque di insipienza politica («Non possiamo raccontarci queste storie tardo-sessantottesche»). Perché, in vent'anni, la sola sapienza politica tollerata è stata quella di arrovellarsi su una equazione irresolubile, come quelle della quadratura del cerchio o del decimo problema di Hilbert, e cioè come fare una politica (e proiettare una immagine) sufficientemente di destra per conquistare l'elettorato di centro. Filosofia politica espressa con il massimo della lucidità da uno dei suoi maggiori teorici quando ha proposto ai milanesi di candidare contro la Moratti l'ex sindaco Albertini (a suo tempo personalmente scelto da Silvio Berlusconi con molta intelligenza politica, beninteso come candidato della destra).

Ma questa politica dell'acqua nel mortaio, che dura ancora oggi, nonostante importanti segni di cambiamento nel paese, la obbrobriosa agonia del berlusconismo e la catastrofe economica incombente, non è frutto di insipienza o ingenuità: è frutto di calcolo, perché ha permesso a D'Alema e a buona parte della dirigenza politica nazionale e locale del Centrosinistra, di prosperare serenamente per vent'anni, facendo i propri affari e accumulando potere.

Non mi riferisco qui ad affari sporchi, anche se dalla famosa battuta di Guido Rossi su Palazzo Chigi come merchant bank in poi i segni inquietanti si sono moltiplicati; non ho le conoscenze e la competenza di un Travaglio e non è comunque questo il profitto di cui parlo. Il profitto è tutto politico, finché c'è Berlusconi e fin che è in atto una sorta di drôle de guerre in cui si fa finta di combattere, ma tutte le volte che il regime è in difficoltà invece di suonare l'assalto si suona la ritirata (last but not least l'astensione sulle Province), non c'è bisogno di dire agli italiani cosa si farebbe se si va al governo, soprattutto, dio non voglia, se sull'onda di una ondata di indignazione popolare.

È una opposizione che disprezza (e teme) i movimenti e la società civile contrapponendoli ai partiti, come fa appunto D'Alema con sussiegosa altezzosità nel discorso di Gargonza. «Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali. E finora questo momento non si conoscono società democratiche che hanno potuto fare diversamente». Come è avvenuto per molte altre affermazioni apodittiche di questo leader, del tipo «La Lega è una costola della sinistra», anche questa cozza sonoramente contro l'evidenza dei fatti, ma che importa? Qualsiasi leader politico che avesse accumulato come D'Alema una serie tanto significativa di incontri poco felici con la realtà, si considererebbe sconfitto e, anche senza ritirarsi a vita privata, manifesterebbe qualche segno di umiltà; se però non fosse intimamente e fermamente convinto - e credo proprio che sia così - di essere lui il vero vincitore.

La sindrome di Salò che assedia l’armata Brancaleone al governo fa spettacolo ma non fa ridere, perché trascina il Paese nel baratro bloccandone la crescita in nome di falsi bersagli. Di un regime (da operetta, non da tragedia) agli sgoccioli ci sono sintomi e stimmate: concordia in superficie e risse dietro le quinte, proclamato attivismo e sostanziale paralisi, fedeltà di facciata ai Capi (Berlusconi e Bossi) che tutti considerano "bolliti". Una "tenuta" apparente, una caduta imminente. Con spietata lucidità, Eugenio Scalfari ha fotografato in queste pagine (3 luglio) un fallimento epocale: mancata riforma fiscale, aumento del debito pubblico e della spesa corrente, crescita selvaggia dell´evasione fiscale, peggioramento dei servizi, crescita della disuguaglianza sociale, radicalizzazione del precariato, netto calo di produttività e competitività, una manovra fiscale che pesa solo sul lavoro dipendente, sui pensionati, su Regioni e Comuni.

Intanto l’Italia è precipitata al 167° posto al mondo (su 179 Paesi considerati) nel rapporto percentuale Pil/persone, condivide con l’Irlanda il record europeo di dottori di ricerca costretti a emigrare, mantiene un sistema di (scarse) assunzioni allergico al merito (dati e valutazioni dell’Economist). La spesa primaria (cioè al netto degli interessi sul debito pregresso) è la più bassa d’Europa: il che vuol dire non solo esorbitante debito pubblico, ma anche bisogni pubblici non adeguatamente soddisfatti (F. Galimberti, Il Sole, 29 giugno). Il bilancio netto è la «macelleria sociale» di cui ha parlato Mario Draghi, aggiungendo: «e io credo che gli evasori fiscali siano tra i responsabili».

Sarebbe tuttavia un grave errore credere che, in tanta immobilità, non succeda proprio niente. Si accentua al contrario (altra caratteristica dei regimi sul letto di morte) l’economia di rapina, la produzione di provvedimenti ad amicos, lo smontaggio dello Stato e la spartizione del bottino. «Mangia tutto quel che puoi mangiare», la frase sinistra di Luigi Bisignani, è il vero motto dell’Italia di oggi. La grande abbuffata corrompe e tacita i potenti, anche i più onesti , sensibili comunque all’odore dei soldi; il facile guadagno di oggi acceca i più, vieta uno sguardo lungimirante. Macelleria sociale ed economia di rapina sono le due facce della stessa moneta (falsa), l’unica che abbia corso oggi nei corridoi del potere. Sacrificando il domani di tutti (delle generazioni future) all’immediato profitto dei pochi, la scuola viene taglieggiata, la ricerca e l’università sono mortificate dall´ormai congenita mancanza di risorse; le spese per la cultura, il teatro, la musica, le arti, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico sono considerate non (come in altri Paesi anche governati dalla destra: vedasi la Francia) come un investimento produttivo, ma come un lusso da evitare.

Fra le vittime designate di questa stagione infelice, il paesaggio. Il decreto 70 sul cosiddetto "sviluppo" si ostina a considerare l’edilizia come il motore primario della crescita, ignorando che proprio nella "bolla edilizia" americana è la radice della crisi economica mondiale. Dovremo così subire il silenzio-assenso in materia di autorizzazioni edilizie; dovremo fare i conti con l’attenuazione delle procedure di valutazione ambientale, mentre le Regioni dovrebbero entro sessanta giorni (!) legiferare sulla riqualificazione delle aree urbane, inclusa la ricostruzione di edifici esistenti con «il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale». Si concede ai privati l´edificazione sugli arenili, con l’etichetta bugiarda di "diritto di superficie", ma accatastando i relativi immobili; anzi, i territori costieri vengono trasformati in "distretti turistico-alberghieri", zone a "burocrazia zero", con deregulation delle procedure autorizzative, anche per porti turistici e pontili. Si estende da 50 a 70 anni la soglia temporale oltre la quale gli immobili pubblici o di enti no profit sono soggetti a valutazione di interesse culturale, e si abolisce l’obbligo di comunicare alle Soprintendenze il cambio di disponibilità degli immobili vincolati (una petizione al Capo dello Stato su questo punto ha raccolto in pochi giorni migliaia di firme). Intanto, il Senato ha già approvato una perversa norma sulla «insequestrabilità delle opere d’arte arrivate in Italia per mostre od esposizioni», che garantisce impunità anche quando si accerti che un quadro, in Italia per una mostra, sia stato rubato o, poniamo, razziato dalle SS a una vittima dell´Olocausto. Quest’ultima disposizione violerebbe gli artt. 24 e 133 della Costituzione, come quelle sul silenzio-assenso in materia di beni culturali violano l’art. 9 (lo dicono le sentenze 26/1996 e 404/1997 della Corte Costituzionale).

Di fronte a tanti sintomi degenerativi, l’opposizione è prigioniera di un inerme attendismo. Assai più svegli si stanno mostrando i cittadini, con le numerose associazioni a difesa dei beni pubblici (ormai oltre duemila in tutta Italia). Il risultato più vistoso è stato certamente il recente referendum, che ha raggiunto il quorum contro alcuni partiti (come il Pdl) e malgrado alcuni altri (come il Pd); ma anche i risultati elettorali di Napoli e di Milano si spiegano come la pacifica rivolta degli elettori contro gli apparati di partito. Lo stesso si può dire delle imponenti manifestazioni anti-Tav in Val di Susa, alle cui ragioni civili nulla tolgono gli scontri che pur vi sono stati. Non meno importanti sono i successi delle azioni popolari contro l’inerzia o l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni: il Consiglio di Stato ha approvato la class action contro la scuola modello Gelmini, poiché il taglio ai docenti provocherebbe il sovraffollamento delle aule; in Molise, l’azione di 136 Comitati contro l’eolico selvaggio sta ottenendo importanti risultati.

Quel che resta della sinistra può far proprio il patrimonio di idee che viene dalle associazioni, o buttarlo via. C’è un precedente poco incoraggiante: nel referendum del 2006 votarono contro una riforma costituzionale di marca leghista 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi), oltre due milioni di più degli elettori del maggior partito (il Pdl) nelle elezioni del 2008, che furono 13.629.464, pari al 37,3% dei voti espressi in quell’occasione. Fu la dimostrazione che il "partito della Costituzione" è il più robusto schieramento italiano; ma, come osservò allora Oscar Luigi Scalfaro, la sinistra non seppe cogliere il messaggio degli elettori e trarne le conseguenze. Umberto Eco ha ricordato opportunamente (Repubblica, 2 luglio) la dura dichiarazione di D’Alema (1997) contro «la politica che viene fatta dai cittadini e non dai partiti», col corollario che «l’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto dittature sanguinarie o Berlusconi». Questa avversione alla società civile in nome degli apparati di partito sa di muffa. Sarebbe tempo di ricordarsi che non i partiti, ma i cittadini sono i protagonisti della politica, l’anima pensante della polis, di cui i partiti dovrebbero essere espressione. Di fronte a un’opposizione che pare ansiosa di prendere il posto di Berlusconi come partner della Lega in un qualche federalismo, sarebbe tempo di cercare nelle associazioni spontanee dei cittadini il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per un’alternativa di governo ancora priva di un progetto. Senza dimenticare che la pessima legge elettorale che espropria il cittadino del diritto di scegliere per nome i propri rappresentanti, prima di diventare legge dello Stato, fu introdotta da una regione "di sinistra", la Toscana. Dagli apparati di partito, appunto.

La Rai è come una balena che non respira più, galleggia e forse “si spiaggia” stremata e disperata. Silvio Berlusconi ha utilizzato dal 2001 in qua tutte le tecniche di indebolimento e di affondamento, dopo che il centrosinistra nulla aveva fatto per metterla “in sicurezza” alla maniera delle consorelle europee.

Risorse: ha fatto annullare dal fido Gasparri la vendita a Crown Castle del 49 % di Rai Way che avrebbe portato in cassa (dopo le tasse) 724 miliardi di lire, decisivi per il digitale terrestre. Ha consolidato, con la legge Gasparri, la sua quota di spot (66% circa pur con ascolti calanti) e mantenuto il canone Rai al più basso livello europeo, 110 euro contro i 160 dell’Irlanda, i 186 del Regno Unito, i 206 della Germania, i 263 dell’Austria, ecc. Di più, ha esortato gli abbonati a non pagarlo per “punire” Santoro e C.: l’evasione è balzata dal 22-23 % a oltre il 40, contro una media UE dell’8-10. In Campania, zona Casalesi, non lo paga il 90 % delle famiglie. Per la Rai rappresentava la metà delle risorse. Il suo bilancio è oggi seriamente pericolante.

Nomine: abolita la legge del ’93 che le assegnava ai presidenti delle Camere, ha fatto eleggere 7 dei 9 membri del CdA alla Commissione di vigilanza, cioè ai partiti, mentre un altro consigliere e il presidente li designa il ministro dell’Economia. Caso di dipendenza dai partiti unico in Europa. Dal 2002 ad oggi si sono susseguiti in Viale Mazzini ben 7 presidenti (due volte Claudio Petruccioli) per una durata media sui 15 mesi e 8 direttori generali per una durata media di 13 mesi e mezzo. Dieter Stolte direttore della potente ZDF tedesca è durato vent’anni prima di andare in pensione. Come si può governare con questa nevrotica fragilità di fondo, tutta indotta dalla politica, un’azienda con oltre 11.000 dipendenti e con un ventaglio di attività amplissimo, fra radio e tv?

Garanzie: non essendoci né una Fondazione all’inglese né un Consiglio Superiore dell’audiovisivo alla francese a “garantire” Rai e utenti, ci si è inventati, per i CdA a maggioranza berlusconiana, “presidenti di garanzia” attribuiti al centrosinistra. Con risultati molto modesti da ogni punto di vista. Soprattutto da quello della programmazione e della sua qualità. Il Tg1 prima con Mimun e poi, soprattutto, con Minzolini è stato impoverito e stravolto, reso “docile” da ogni punto di vista. La redazione che aveva sfiduciato Bruno Vespa per aver definito la Dc “il mio editore di riferimento”, non ha quasi reagito all’atto di denuncia della più popolare fra le conduttrici, Maria Luisa Busi che ha lasciato il video. Gli ascolti sono crollati, a tutto vantaggio del Tg7 di Enrico Mentana. Lo speciale elezioni è stato battuto da quello del Tg3 di Bianca Berlinguer. Il centrodestra ha piazzato nelle reti e nei Tg gente sempre più mediocre che ha portato con sé collaboratori ancor più mediocri. I due anni di direzione generale di Mauro Masi sono stati forse i più disastrosi dal punto di vista del picconamento della Rai dall’interno e della sua devitalizzazione professionale, meritocratica.

Infiltrati: fin dal 2002 Berlusconi ha immesso in Rai, suo concorrente diretto, elementi fidatissimi quali la propria consulente per la comunicazione Deborah Bergamini (ora deputata del Pdl) che, come risulta dalle più recenti, scandalose intercettazioni, informava Mediaset sulla programmazione Rai e chiedeva una controprogrammazione più incisiva per “oscurare” i risultati elettorali sfavorevoli al Pdl. Un conflitto di interessi che occupa ormai militarmente la Rai.

Suicidio: una Rai così stravolta e sfibrata ci ha messo e ci sta mettendo anche del suo per farsi del male. Come le balene moribonde che si suicidano arenandosi sulle spiagge. Casi esemplari? La rinuncia al maggior successo di ascolti dell’anno, “Viene via con me” di Fazio e Saviano. La eliminazione di “Annozero” di Santoro da Raidue nonostante l’altissimo share e il forte richiamo pubblicitario, un harakiri. Ora, anche questo assistere immobili come statue di gesso (chiedendo le scuse per una intervista troppo dura, ma andiamo) alle dimissioni di Lucia Annunziata bravissima “In mezz’ora” pur collocata nell’ora delle più sonore dormite domenicali. La disperante renitenza a fornire le doverose garanzie legali ad una trasmissione di inchiesta come “Report” di Milena Gabanelli, una delle più prestigiose e consolidate ormai. E non entrerò nel discorso della radiofonia, un tempo Divisione a sé, oggi come abbandonata a se stessa, nonostante l’oggettivo successo e recupero, per esempio di Radio3.

Paradosso: il dissanguamento, in buona parte voluto, della Rai avviene nel momento in cui Mediaset non sta bene, il valore delle sue azioni è crollato dai 6,5 euro di aprile ai 3,26 di venerdì scorso, il bilancio 2010 non dà utili, l’intero gruppo (come ha notato un esperto vero quale Stefano Balassone) è regredito dal 38 al 33 % negli ascolti “contro la Rai di Masi!”, con Striscia e Grande Fratello giù del 4 %. Un gruppo invecchiato, con poco respiro (pure Endemol va male), che ha paura di tutto, anche de “La7”. E magari di Michele Santoro a “La7”.

Che fare in positivo per la Rai? Rendere ancor più incessante, continua, documentata la denuncia del degrado meritocratico, delle arroganze partitiche e di governo, dei tentativi di indurla al “suicidio”, all’auto-affondamento. Difendere con più energia quanto essa ha ancora in sé di professionale, di creativo, di intelligente. Ma anche avanzare proposte che “spariglino”. Detto con franchezza, non penso proprio che il super-amministratore delegato di un vertice nominato, più o meno, dai partiti sia una magica ricetta. Pensate se Masi avesse avuto quei poteri…Manca sempre un organismo di garanzia a protezione dell’autonomia della Rai. Ma è pure premente la necessità di dare agli abbonati la possibilità di contare. A me sembra perciò stimolante, in sé, l’idea di Roberto Zaccaria e di Beppe Giulietti di distribuire agli abbonati, col bollettino del canone, una scheda nella quale segnalare 2 nomi di possibili amministratori e di scegliere, obbligatoriamente, fra i primi 50 indicati il nuovo vertice aziendale pubblico. Insomma, diamo, anche attraverso gli utenti più affezionati, al cavallo bronzeo di Viale Mazzini la spinta per rialzarsi e per correre di nuovo. Non costringiamolo a sdraiarsi e a defungere. Lentamente, ma inesorabilmente.

È forse una previsione troppo pessimistica immaginare che l’Italia sia destinata negli anni a venire ad uscire dal club delle grandi nazioni industriali dove aveva raggiunto nel secolo appena trascorso addirittura il quinto posto. Un solo primato ci vedrà mantenere la testa di ogni classifica, anche se non si richiama agli exploit ambiti dai grandi Paesi industriali. Per contro è una vetta che ci contendiamo con Stati come la Bolivia, i Paesi petroliferi del Medio Oriente, quelli situati lungo le vie della droga, dall’Afghanistan al Messico. In questo eletto ambito all’Italia viene riconosciuto un ruolo incontestabile di campione mondiale dell’illegalità.

A conferma di queste affermazioni stanno i dati statistici degli organismi internazionali che, con fredda e apparente neutralità, certificano ogni anno che il tasso d’illegalità dell’economia italiana non ha pari nel mondo occidentale. E il perché invece stia nell’ultima casella come afflusso di investimenti stranieri. Non mancano naturalmente relazioni sui risultati raggiunti nel contrasto a mafia, camorra, ‘ndrangheta e alle sue diramazioni. Eppure, per quanti colpi queste organizzazioni subiscano, il loro fatturato aumenta sempre, mentre una specie di rassegnazione alla permanenza ineluttabile del fenomeno sembra essersi ormai impadronita dell’opinione pubblica, dopo la breve primavera di speranza che si era accompagnata ad una strategia chiaramente percepita, elaborata da Giovanni Falcone.

Quella fase si concluse con la strage di Capaci e l’uccisione di Borsellino. Per capire, però, i mutamenti intervenuti da allora bisogna por mente allo stravolgimento subito dai valori che stavano alla base della lotta al crimine: il primo era l’esaltazione, ampiamente accolta dalla pubblica opinione, della figura del magistrato e della sua funzione, percepita sovente come "eroica"; in secondo luogo, a partire almeno dall’assassinio di Salvo Lima e dall’arresto di Ciancimino, era apparsa sempre più inaccettabile la connivenza tra mafia e politica con il tramonto politico delle vecchie figure di raccordo tra i due mondi e l’emergere, soprattutto nella Dc, di leader non disposti al compromesso; in terzo luogo la valorizzazione e la protezione dei pentiti come arma essenziale per scardinare Cosa nostra.

Ebbene, oggi tutto questo si è tramutato nel suo opposto ad opera diretta del leader della maggioranza di destra ascesa al governo e dei suoi più stretti sodali. Quanto all’opposizione, i più critici nei suoi confronti le hanno imputato di anteporre i suoi interessi personali a quelli della cosa pubblica. Per contro incerta suona la voce di chi trova il coraggio per riconoscere che gli interessi personali del Cavaliere e, in primo luogo, i "contro-valori" che ne propiziano l’affermazione, collimano con l’odio per la magistratura, per i pentiti, per le misure di contrasto, tipo il "concorso esterno", mutuati dal sentire mafioso. Se si approfondisse questa tematica si capirebbe meglio il nostro primato mondiale in termini di illegalità. Viene ora ad arricchire le potenzialità di un approfondimento, un libro (Soldi rubati di Nunzia Penelope, ed. Ponte alle Grazie, pag. 323) che apporta dati utilissimi e analisi per settore, partendo da tre numeri base: ogni anno in Italia abbiamo 160 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione e 350 miliardi di economia sommersa, pari al 20% della ricchezza nazionale. Se vi si aggiungono 500 miliardi nascosti da italiani nei paradisi fiscali esentasse si superano i 1000 miliardi. Più della metà dell’intero debito pubblico. Commenta il magistrato Francesco Greco, responsabile per i reati economici del defunto pool di Mani pulite: «Oggi la più importante operazione culturale da fare è spiegare agli italiani quali e quanti danni stanno subendo a causa della criminalità economica. Ma ho la sensazione che in Italia sia stata sdoganata l’illegalità e mi chiedo che futuro può avere un Paese dove l’illegalità diventa la regola».

No, non era questo il modo di essere di quella "prima Repubblica" che pure fu sepolta con ignominia meno di vent´anni fa, in una damnatio memoriae che proiettava arbitrariamente su tutta la sua storia le nefandezze della sua agonia. Non lo era, a ben vedere, neppure negli infausti anni del Caf di Craxi, Andreotti e Forlani: nessuna microspia infilata in qualche camper avrebbe registrato qualcosa di simile a quello che abbiamo letto in questi giorni. La peggior cifra della "prima Repubblica" fu semmai - nei suoi momenti più cupi, e in un diversissimo clima internazionale - la tragedia, non la farsa maleodorante. Non la corrosione mefitica delle più elementari norme della democrazia e della decenza. Anche in passato ci venne da pensare a un "doppio Stato", spinti dalle suggestioni di Ernst Fraenkel. Ma quello che avvertivamo muoversi al di sotto della legalità, e contro di essa, era piuttosto un coacervo drammatico di trame eversive, di servizi deviati, di torbide ingerenze esterne, di grumi inquietanti che affondavano le radici nel passato. Quello che scorgiamo ora - lo ha scritto benissimo Carlo Galli su questo giornale - è un esercito di termiti e di tarli che insidiano quotidianamente, per lucro e sete di potere, i pilastri delle strutture pubbliche e delle regole istituzionali. Alla vigilia dell´esplosione di Tangentopoli Altan fece dire ad un suo personaggio: ma a questa classe politica, dovevano dargli il soggiorno obbligato proprio in Italia? Quella battuta è ancor più attuale oggi, perché nelle intercettazioni della P4 un crimine sicuramente c´è, ed è il peggiore: l´attentato alla dignità della democrazia, il vilipendio dell´idea di bene comune.

Una corte indecente si muove dunque all´ombra del premier, sempre più delegittimato, e il suo erede designato pensa solo ad avvolgere di nebbie protettive quelle trame: è questa la cifra di un´agonia intrisa di minacce e di pericoli per il Paese. Riproponendo oggi la legge-bavaglio il ministro Alfano proclama a voce altissima quel che le opposizioni hanno sempre detto, e cioè che quella legge non ha proprio nulla a che vedere con i diritti dei cittadini. E sfida frontalmente l´idea di giustizia che essi hanno affermato nel referendum sul legittimo impedimento. Anche questo è l'esito dell´antipolitica fatta trionfare da Bossi e da Berlusconi nella crisi della "prima Repubblica", e comprendiamo sempre meglio quanto sia stato grave non aver contrapposto ad essa solidi bastioni di "buona politica".

Di fronte al quadro che si è delineato è certo legittimo riflettere sulle modificazioni profonde che negli ultimi vent´anni hanno attraversato non solo il Palazzo ma anche parti non piccole del Paese. E sarebbe improprio immaginare - come facemmo nella crisi dei primi anni novanta - una compatta e virtuosa società civile totalmente contrapposta a un universo partitico corrotto: del resto nella rete della P4 ci sono anche pezzi di società prima estranei alla politica (ed entrati in essa, appunto, solo grazie all´antipolitica del premier). Eppure, l´Italia non è tutta lì. Non si riduce per nulla a quelle vergogne, al quotidiano operare di chi svuota e corrode la democrazia.

Indubbiamente in questi ultimi anni abbiamo fatto grandi passi all´indietro, sia sul terreno dell´etica pubblica che su quello dell´economia. Luca Ricolfi su La Stampa ha osservato che, dopo esser cresciuti troppo in fretta nel passato, nell´ultimo periodo stiamo declinando troppo lentamente per accorgerci veramente del piano inclinato su cui ci siamo incamminati. Come se fossimo su un ghiacciaio che si ritira di un metro l´anno, e ogni anno non sembra così diverso da prima: eppure, sta sciogliendosi inesorabilmente. Chiedersi perché ciò sia avvenuto significa al tempo stesso chiedersi come ricostruire l´edificio comune, come potenziare energie pur presenti. Come valorizzare quelle risorse che il Paese ha sempre dimostrato di avere: e lo ha fatto nella maniera più inattesa e forte anche nell´ultimissimo periodo.

Le elezioni amministrative e i referendum sono stati indubbiamente una grandissima ventata di democrazia e proprio per questo è necessario comprenderne appieno il valore, a partire da un dato centrale: l´irrompere sulla scena di un protagonismo giovanile tanto straordinario quanto inatteso. Anche alla vigilia del ´68, del resto, sociologi e opinionisti avevano liquidato con uno slogan sprezzante i giovani di allora, considerati ormai integrati nella società dei consumi e privi di valori: li chiamarono la "generazione delle 3 M" (macchina, moglie e mestiere). Furono costretti a rivedere quel giudizio, ma quei giovani trovarono in realtà pochi riferimenti e pochi interlocutori veri: e anche per questo - non solo per questo - non diedero poi tutto il meglio di sé.

Come è evidente, oggi il centrosinistra è più che mai chiamato in causa nel suo insieme e in prima persona: per svolgere il suo ruolo, per assolvere ai suoi compiti. Per aiutare le nuove esperienze nei loro momenti più difficili (o drammatici, come è ora a Napoli) e per valorizzare al massimo i momenti fecondi che già si segnalano, a partire da Milano. È un aspetto centrale: nella "prima Repubblica" il buon governo a livello locale fu a lungo un tratto forte e distintivo della sinistra, e l´appannarsi di questa cifra coincise con la sua crisi più generale. E forse non vennero poi considerate in modo adeguato le positive esperienze dei sindaci eletti a partire dal 1993. Non si trassero da esse tutte le indicazioni possibili per costruire un´alternativa anche nazionale al centrodestra. È un errore da non ripetere, e del resto sono immediatamente comprensibili alcune delle ragioni che hanno contribuito alla vittoria nelle amministrative: la capacità di valorizzare quel che di positivo il centrosinistra ha saputo costruire, come a Torino, ma al tempo stesso anche di privilegiare - come è avvenuto altrove, anche contro le indicazioni ufficiali - proposte limpidamente alternative al centrodestra nei contenuti e nelle persone candidate, spesso estranee alla nomenklatura più stretta. Questa appare la via maestra anche a livello nazionale: è il momento di mettere in campo tutte le potenzialità possibili di "buona politica". Senza perdere tempo.

Un vero plebiscito. Ma al contrario. Abituato a declinare ogni appuntamento elettorale come un'autocelebrazione personale e un continuo rinnovamento acritico ed epifanico del suo consenso, Silvio Berlusconi incassa un gigantesco plebiscito "contro", e non a favore della sua persona. Ventisette milioni di italiani sono andati alle urne per testimoniare la loro voglia di riprendersi la politica che per troppi anni avevano delegato al Cavaliere. In due settimane di mobilitazione pubblica la volontà del popolo sovrano ha fatto giustizia di tre anni di mistificazione. Dopo la disfatta devastante delle amministrative, la sconfitta pesante del referendum conferma che il presidente del Consiglio non è più in grado di leggere gli umori degli italiani e di reggere gli onori del governo. L'esito quantitativo della nuova consultazione (il quorum) e il suo risultato qualitativo (il responso sui quattro quesiti) riflettono il cambiamento profondo della geografia e della geometria politica della nazione. Nel Palazzo c'è una maggioranza numerica che sopravvive a se stessa e resiste alla sua stessa agonia. Nel Paese c'è un'opinione pubblica che gli ha voltato le spalle, nelle scelte di merito e di metodo, perché stanca di una "narrazione" posticcia e artefatta che non ha più alcun collegamento con la realtà e con i problemi della vita quotidiana di milioni e milioni di persone "normali".

La sanzione più nitida e clamorosa di questa rottura tra gli interessi privati del premier e l'interesse collettivo degli italiani sta nel responso a valanga nel quesito sul legittimo impedimento. Dopo tre anni di menzogne propagandistiche sulla "riforma della giustizia" (interpretata solo nella chiave della soluzione dei problemi giudiziari dell'uomo di Arcore) i cittadini hanno capito e hanno votato di conseguenza. Dicendo un no forte alla stagione delle leggi ad personam e un sì chiaro al principio costituzionale che esige tutti i cittadini uguali davanti alla legge. E' un esito non scontato, e forse il più sorprendente di questo appuntamento elettorale. Segna davvero la fine di un ciclo storico, che dura ormai da diciassette anni, e che ha visto il Cavaliere protagonista di un assedio violento alla magistratura, con l'unico obiettivo di difendersi dai suoi processi attraverso l'estinzione dei reati o la cancellazione delle pene per via legislativa. Il risultato referendario, anche sotto questo profilo, è una bella vittoria della democrazia, in tutti i suoi sensi e in tutte le sue forme.

Ma insieme a questa politica dell'aggressione, dall'accoppiata amministrative-referendum esce a pezzi anche quell'ideologia post-politica (secondo la felice definizione di Geminello Preterossi) sulla quale si è retta la destra italiana di questi anni. Progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico, sdoganamento del qualunquismo più becero, inaridimento delle radici della vita democratica, abdicazione delle istituzioni alla legge del più forte, criminalizzazione sistematica del dissenso. L'onda referendaria spazza via in un colpo solo questo armamentario culturale populista sul quale è stato costruito il patto Berlusconi-Bossi. Dietro la scena di cartapesta del Popolo della Libertà e della Padania liberata, dietro la demagogia degli spiriti animali del capitalismo e dei riti pagani nelle valli alpine e prealpine, dietro l'idea "rivoluzionaria" del cambiamento federalista e anti-statalista, l'asse Pdl-Lega non ha costruito niente. Niente miracoli, solo miraggi. Niente crescita, solo declino. Adesso è tardi, per qualunque contromossa e per qualunque recupero. Il Carroccio ha pagato fino in fondo il tributo alla lealtà personale del Senatur nei confronti del Cavaliere. Per le camicie verdi si tratta di riprendere il largo, di tornare in mare aperto e alla strategia delle mani libere. E' solo questione di tempo e di modo. Ma il destino della coalizione è segnato, chiuso com'è dal vincolo esterno dell'Europa sui conti pubblici e dal vincolo interno ormai rappresentato dalla crisi della leadership berlusconiana.

Il premier ha perso prima il referendum virtuale, con le amministrative che lui stesso aveva trasformato in una drammatica e ultimativa ordalia su se medesimo. Ora ha perso anche il referendum reale, con una scelta astensionista disperata e insensata che ha sancito l'irrimediabile scollamento tra lui e la sua gente. Cos'altro deve accadere, perché Berlusconi tragga le conseguenze di questo fallimento? L'Italia non merita di pagare altri danni, alla volontà di sopravvivenza di un governo che non esiste più e che si tiene ormai solo sulla stampella instabile e impresentabile dei "Responsabili" di Romano e Scilipoti. Fa fede l'immagine di Calderoli, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto. Due "sberle" non fanno un ko. Ma sicuramente lo preparano. Prima avverrà, e meglio sarà per tutti.

La menzogna del potere
di Massimo Giannini

Il potere mente. Per abitudine alla manipolazione e per istinto di conservazione. Non c’è bisogno di aver letto la prima Hannah Arendt, o l’ultimo Don De Lillo, per sapere che "lo Stato deve mentire", o che il governo tecnicamente totalitario "fabbrica la verità attraverso la menzogna sistematica". Ma nessun potente mente con la frequenza e l’impudenza di Silvio Berlusconi. Non pago di aver danneggiato il Paese che governa, in un drammatico e surreale "colloquio" elemosinato a Obama a margine di un vertice tra gli Otto Grandi del pianeta, il presidente del Consiglio torna sul luogo del delitto. E, dopo aver inopinatamente e irresponsabilmente denunciato al presidente americano la "dittatura dei giudici di sinistra", lo "perfeziona", raccontando la stessa delirante bugia agli altri leader del G8.

Abbiamo già detto quale enorme discredito rappresentino, in termini di immagine internazionale, le parole scagliate contro l’Italia dall’uomo che dovrebbe rappresentarla al meglio nel mondo. Abbiamo già detto quali enormi "costi" imponga allo Stato, in termini di credibilità istituzionale, questo vilipendio della democrazia e dei suoi organismi. Ma è necessario, ancora una volta, squarciare la cortina fumogena con la quale il premier manomette i fatti, e denunciare l’ennesima menzogna sulla quale costruisce il teorema della "persecuzione giudiziaria". A Deauville, in una conferenza stampa costruita come una disperata requisitoria contro tutto e contro tutti, Berlusconi compie l’ultima metamorfosi: da comune inquisito si trasforma in Grande Inquisitore. Accusa le "toghe rosse", insulta "Repubblica" e i giornalisti, "colpevoli" di non indignarsi di fronte allo "scandalo delle 24 accuse che mi riguardano, tutte cadute nel nulla".

"Vergognatevi", tuona furente il presidente del Consiglio, calato nella tragica maschera dostoevskiana dei Fratelli Karamazov. Dovrebbe vergognarsi lui, per aver violentato ancora una volta la verità.

A sentire il Cavaliere e i suoi "bravi", i processi che lo riguardano cambiano secondo gli umori e le stagioni. L’altro ieri aveva parlato di "31 accuse". In passato si era definito "l’uomo più perseguitato dell’Occidente, con 106 processi tutti finiti con assoluzioni". La figlia Marina ha evocato "26 accuse cadute nel nulla". Paolo Bonaiuti ha rilanciato con "109 processi e nessuna condanna". In realtà, come ha ricordato più volte Giuseppe D’Avanzo su questo giornale, i processi affrontati dal premier sono 16. Quattro sono ancora in corso: processo Mills (corruzione in atti giudiziari), diritti tv Mediaset (frode fiscale), caso Mediatrade (appropriazione indebita) e scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Negli altri 12 processi, solo tre sono state le sentenze di assoluzione: in un caso con "formula piena" (Sme-Ariosto/1, per corruzione dei giudici di Roma), negli altri due con "formula dubitativa" (Fondi neri Medusa e Tangenti alla Guardia di Finanza).

Gli altri 9 processi si sono conclusi con assoluzione, ma solo grazie alle leggi ad personam, fatte approvare nel frattempo dai suoi governi. Nei processi All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2 il Cavaliere è assolto dalla legge che ha depenalizzato il falso in bilancio. Nei processi sull’iscrizione alla P2 e sui terreni di Macherio è assolto perché i reati sono estinti e le condanne cancellate dall’apposita amnistia.

Nei rimanenti 5 processi (All Iberian/1, affare Lentini, bilanci Fininvest 1988/1992, fondi neri del consolidato Fininvest e Lodo Mondadori) il premier è assolto grazie alle "attenuanti generiche", che gli consentono di beneficiare della prescrizione (da lui stesso fatta dimezzare con la legge Cirielli) e che operano sempre nei confronti dell’imputato ritenuto comunque "responsabile del reato".

Questa è dunque la verità storica, sull’imputato Berlusconi. A dispetto delle "persecuzioni" che lamenta, e delle "assoluzioni" che rivendica. Bugiarde, le une e le altre. È penoso doverlo ricordare. Ma è anche doveroso, alla vigilia di un turno elettorale che può cambiare il corso di questa disastrosa legislatura. E può spazzare via, finalmente, i danni e gli inganni compiuti dal Grande Inquisitore di Arcore.

L’Italia va su Facebook

"Scusa Mr. Obama"

di Filippo Ceccarelli

«E QUINDI – ha concluso solenne Berlusconi rivolgendosi ai giornalisti – mi permetto di dire: vergognatevi!». Ma senti, si permette. Proprio lui, il Cavaliere, che più di ogni altro uomo politico ha impetuosamente travolto e allegramente smantellato la vergogna del potere, bruciandone poi i residui sull’altare del berlusconismo terminale. Da Casoria a Deauville, dalle corna spagnole al cu-cù della Merkel, dal Priapetto di Arcore fino al bacio della mano di Gheddafi.

Retorica a rischio cortocircuito, quella della vergogna. Perché mentre il presidente del Consiglio pronunciava quella sua intemerata, la pagina Facebook del presidente Obama già traboccava di messaggi di italiani che dopo la scena berlusconiana del giorno prima chiedevano scusa, «I am sorry», «So sorry, Mr President», «Berlusconi doesn’t speak in my name», mi dispiace, non parla a mio nome, non è il mio presidente, non mi rappresenta, l’Italia è meglio di lui.

E’ ossessionato dai processi ed è «anche vecchio», articolava uno, «si scorda le medicine per il cervello», «si fa le leggi che gli servono» aggiungeva un’altra, e il bunga bunga naturalmente, dunque «help!», ci aiuti Mr Obama, «mi vergogno tanto», comunque, anzi tantissimo, e così via. Migliaia e migliaia di post su di un leader che da altri, a suo vantaggio e risarcimento, esigeva proprio quel sentimento.

In realtà in questi anni si è accumulato sufficiente materiale per sostenere l’ipotesi che la sfrontatezza di Berlusconi, quella sua inarrivabile faccia di bronzo sia funzionale, se non connaturata, al prodigioso modello di comando che l’ha portato dove si trova, seppure oggi pericolosamente in bilico. «Chi non ha vergogna tutto il mondo è suo» dice un proverbio. Dominio degli spettacoli, centralità del corpo e tirannia dell’intimismo sono il contesto più adatto per gli spudorati. Ma la sapienza consiglia di non esagerare.

E a questo proposito, sempre rimanendo sul delicatissimo terreno della politica internazionale e dintorni, tornano in mente lo strillo davanti alla regina Elisabetta, i complimenti fuori luogo a Michelle Obama, le spiritosaggini da playboy con la presidente finlandese, le disquisizioni sulla bellezza della conquista femminile davanti a Zapatero, il mimo di un fucile mitragliatore rivolto a una giornalista russa (poi in lacrime), un leggio clamorosamente abbattuto alla Casa bianca per andare ad abbracciare Bush, la richiesta in diretta di numero telefonico a una graziosa annunciatrice di una televisione del Maghreb.

E davvero si potrebbe continuare a lungo sull’impudenza del Cavaliere, non è una frase fatta, anche se tutto lascia credere che negli ultimi tempi egli abbia un po’ smesso di rendersene conto, o forse non gli importa più, la misura e il decoro essendo divenuti per lui un puro optional, fatto sta che di tale inconsapevolezza fa fede l’ennesima scenetta, l’ennesimo e simbolico colpo di sonno durante la messa per la beatificazione di Papa Wojtyla, quando si levò l’alleluja e allora sia Napolitano che il Segretario di Stato si levarono in piedi, e invece lui, che stava in mezzo, dormiva come un bambino.

Da questo punto di vista troppi video di YouTube costituiscono una gagliarda risposta contro il «vergognatevi!» scagliato ieri da Berlusconi al G8. Per gli antichi greci la divinità preposta al pudore era Aidos, non per caso imparentata con Nemesi, che con la sua spada provvedeva a regolare i conti con gli eccessi. Nel report d’addio dell’ambasciatore americano Spogli si legge: «Con le sue frequenti gaffes e la scelta sbagliata delle parole il premier» ha offeso «quasi ogni categoria di cittadini e ogni leader politico europeo», mentre «la sua volontà di mettere gli interessi personali al di sopra di quelli dello Stato ha leso la reputazione del Paese in Europa ed ha dato sfortunatamente un tono comico al prestigio dell’Italia in molte branche del governo degli Stati Uniti». Negli ultimi giorni Mr President, che un po’ prevenuto doveva già essere, ne ha avuto ulteriori conferme.

“Ci impegniamo a sospendere gli abbattimenti degli immobili abusivi perché non si possono mandare tante famiglie in mezzo a una strada”. È stata questa la promessa fatta dal presidente del Consiglio durante la sua ultima visita a Napoli per sostenere il candidato sindaco del Pdl, Gianni Lettieri. L’obiettivo di questa iniziativa è chiaro. Incamerare, non solo per le prossime comunali, il voto di quelle famiglie che vivono nelle oltre 60 mila costruzioni “illegali” sparse per tutto il territorio campano.

Qualcuno mormora che il vero deus ex machina di questa proposta sia stato in realtà l’onorevole Daniela Santanchè che, colpita dalle proteste contro gli abbattimenti, avrebbe suggerito di assecondare le richieste dei manifestanti perché questi si sarebbero rivelati in futuro un bacino elettorale da cui attingere. Se questo sia vero oppure no, poco importa, quello che importa in realtà è che nelle ultime settimane i vertici del Pdl, sia quelli campani che nazionali, hanno fatto a gara per ribadire l’enorme ingiustizia subita dalle “povere famiglie” che rischiano di perdere la casa per colpa della magistratura.

Così la macchina della propaganda si è messa in moto. Prima mostrando, attraverso i racconti di donne e uomini, il dolore di chi, dopo anni di sacrifici ha visto crollare la propria casa sotto i colpi delle ruspe poi lasciando spazio alle promesse del premier e dei suoi accoliti. Una strategia che immediatamente ha portato i suoi frutti soprattutto tra la popolazione napoletana che, immediatamente, ha raccolto l’appello e si è stretta intorno a “chella povera gent ca’ pò fernì miez ‘na via“.

Ancora una volta, la politica ha sfruttato la disperazione dei cittadini per portare acqua al proprio mulino. Il punto però non è questo, anche se poco etico. La questione è infinitamente più complessa. La promessa del Pdl di sospendere gli abbattimenti, infatti, equivale a “condonare” un’illegalità. Perché di questo si tratta. Le strutture che si è deciso di demolire, non sono “solo” le abitazioni di chi finirebbe “in mezzo alla strada” ma sono il frutto di quello sciacallaggio edilizio di cui è stata vittima la Campania negli ultimi trent’anni e, dietro cui si nasconde la longa manus della camorra. Sono ormai decine, infatti, le inchieste della Procura Antimafia di Napoli che hanno dimostrato come i clan stiano da qualche tempo investendo nell’edilizia, grazie alla complicità, e in alcuni casi all’affiliazione, di imprenditori del settore.

Non è un caso, quindi, che la maggior parte dei manufatti abusivi da abbattere si trovino in quelle aree controllate dalle cosche particolarmente attive nel business del “mattone selvaggio“. È il caso di Pianura, popoloso quartiere dell’area flegrea salito alla ribalta delle cronache nazionali per gli scontri nati dall’apertura della discarica di “contrada Pisani”. Lì a comandare è il clan Lago, da sempre attivo, secondo gli inquirenti, nel settore degli “immobili illegali”. A confermarlo sono stati anche diversi collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Gilardi, ex affiliato alla cosca, che nelle sue dichiarazioni ha affermato che durante gli scontri “antidiscarica”, i vertici del clan decisero di sfruttare la situazione per completare alcune palazzine abusive. Per questo fu deciso di “ingaggiare” alcuni gruppi di ultras del Napoli per fomentare gli scontri con le forze dell’ordine in modo da tenerle lontane dai “cantieri”. Anello di congiunzione tra camorra e frange estreme del tifo sarebbe stato, secondo il pentito, Marco Nonno, allora consigliere di Alleanza Nazionale, in seguito arrestato e rinviato a giudizio per queste accuse. Caso vuole che Nonno, confluito nel Pdl, sia anche uno dei candidati di Lettieri che ha preso più preferenze alle ultime elezioni.

A Miano, invece, quartiere a nord di Napoli, i Lo Russo, i cosiddetti “capitoni”, potevano contare sulla “disponibilità” di 4 agenti della polizia municipale in servizio alla sezione “antiabusivismo”. I magistrati della Dda hanno scoperto che chi avesse voluto costruire “manufatti abusivi” in quella zona doveva pagare il clan ricevendo in cambio non solo maestranze legate alla cosca, ma anche la sicurezza che i vigili “addomesticati” non sarebbero intervenuti. Ci sono poi i casi di Giugliano, feudo dei Mallardo, e di Quarto, roccaforte dei Polverino, le due cosche recentemente colpite dalle maxi ordinanze che hanno portato al sequestro di beni, molti dei quali abusivi, per un valore di oltre un miliardo e mezzo di euro. C’è il caso di Marano, dove negli anni scorsi i Nuvoletta hanno lanciato quella che è stata soprannominata l’edilizia floreale per via del fatto che i diversi parchi residenziali “illegali” hanno tutti il nome di un fiore. Poi c’è Casalnuovo, Afragola, Soccavo, Secondigliano e tanti altri.

Il governo quindi si trova di fronte a un bivio. Da una parte bloccare gli abbattimenti, incassando voti e favorendo la camorra. Dall’altra far rispettare la legalità. Non resta da aspettare e vedere cosa accadrà anche se la risposta appare scontata.

C’è insoddisfazione in Italia. Un'insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L'abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L'ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo. Per usare un ossimoro. I dati dell'Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell'Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza "mediazioni". Infatti, le persone che si collocano nella "classe operaia" oppure fra i "ceti popolari" superano, per estensione, quelle che si sentono "ceto medio". Dalla cetomedizzazione degli anni Ottanta - un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita - si sta scivolando verso una sorta di "operaizzazione". Singolare destino, visto che da tempo si predica l'estinzione della classe operaia. Tuttavia, l'indicazione del sondaggio è esplicita. Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi "classe operaia" (39%) oppure "popolare" (9%). Il 43%: "ceto medio". Il 6%, infine, si definisce "borghesia" o "classe dirigente". È l'unico settore sociale stabile. (Le

classi privilegiate, d'altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del "ceto medio" è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l'ampiezza di coloro che si sentono "classe operaia" oppure "popolare" è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici.

Peraltro, l'insoddisfazione verso l'economia e il mercato del lavoro, secondo il sondaggio Demos-Coop, non è mai stato tanto elevata. Verso l'economia: nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%. Verso il lavoro: nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%. La delusione sociale: investe tutti. La novità assoluta è che il senso di declino sociale non riguarda i "soliti noti". Operai, pensionati e disoccupati, su tutti. Ma risucchia altri gruppi, che si è soliti collocare (e fino a qualche anno fa si collocavano) più in alto. Nei ceti medi. Perfino nelle classi dirigenti.

Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro "precaria".

D'altra parte, basta considerare il lavoro realmente svolto nell'ultimo anno dagli intervistati. Una componente ampia di essi (il 17% sul totale) dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell'anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Una generazione precaria, si è detto. È, effettivamente, così. Una generazione senza futuro. Il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All'estero. Ne sono convinti, per primi, gli interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. Tuttavia, la precarietà è un sentimento diffuso. Che attraversa tutti i settori sociali. L'insoddisfazione verso la situazione economica e del mercato del lavoro, infatti, oltre che fra i disoccupati, raggiunge il massimo livello tra i liberi professionisti e i lavoratori autonomi. Ed è alta anche fra i tecnici e gli impiegati. Dal punto di vista della classe sociale: inquieta soprattutto coloro che si sentono "borghesia" oppure "classe dirigente". Non è poi così sorprendente. Il fatto è che non ci sono abituati. Per cui temono di perdere i privilegi di cui dispongono.

Si spiega così la perdita di appeal del "lavoro in proprio". Ma anche la parallela ripresa dell'attrazione esercitata dal lavoro pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno). Nonostante da anni venga stigmatizzato da autorevoli esponenti del governo. Non è che i cittadini provino un'insostenibile voglia di fare i "fannulloni". È il senso di insicurezza che pervade il lavoro. L'economia. Magari non è una grande novità, potrebbe eccepire qualcuno. È vero, ma non del tutto. Perché fino a poco tempo fa funzionava un meccanismo psicologico che disinnescava gli effetti politici della delusione economica e sociale. Anzi: li rivolgeva a scapito dell'opposizione. Una sinistra "impopolare". Sempre più in difficoltà nell'intercettare il consenso dei dipendenti privati e dei ceti sociali più precari. Rannicchiata - e quasi accerchiata - dentro il perimetro dei pensionati e del pubblico impiego. Soprattutto degli insegnanti e delle figure "intellettuali". Da qualche tempo, questa spirale senza fine sembra essere giunta alla fine. Il processo di operaizzazione e di discesa sociale sta producendo - ha già prodotto - effetti politici evidenti. E sembra sempre più arduo, per il governo e per il suo capo, proseguire nella strategia della dissimulazione. Dire, da un lato, che non è vero. Trattare chi predica sfiducia da nemico della nazione. Dell'Italia.

D'altra parte, non è facile scaricare le colpe e le paure della crisi sempre sugli "altri". Gli immigrati e gli stranieri. Poi, l'euro e l'Unione Europea. Sul piano interno: Roma padrona e il Sud spendaccione. O, viceversa, il Nord egoista. Alla lunga, il meccanismo si è logorato. Difficile dire che la crisi non c'è. Che le cose vanno bene. Che noi stiamo bene. Che bisogna avere fiducia (ora). Che gli operai non esistono. Se mezza Italia, ormai, si sente e si dice operaia. Se i ceti medi e perfino i borghesi hanno paura. Se i giovani pensano di fuggire dal Paese. Se i genitori, per non parlare dei nonni, non hanno argomenti validi per trattenerli. Ed è difficile scaricare le colpe sull'opposizione, che da anni latita. Ma è difficile, per la maggioranza, anche prendersela con il Sud o con il Nord. Spostare i ministeri da Roma a Milano. Visto che in entrambi i casi significa prendersela con se stessa. La Lega del Nord contro il Pdl romano - e del Sud. E viceversa. Così - "forse" - dopo tanti anni, siamo giunti alla resa dei conti. O almeno: all'assunzione di responsabilità. Se piove e fa freddo, se l'orizzonte è scuro. Non può essere - sempre e solo - colpa degli "altri".

Non più la libreria del leader giovane che seduce gli italiani con il sogno ceronato. Al suo posto un politico lento nel parlare, lo sguardo fisso, i capelli dipinti e il volto colorato come una mummia della nomenklatura sovietica. Dopo una settimana di silenzio, colpito dal flop delle preferenze nel forziere del suo elettorato, il premier si è presentato sulle reti televisive e radiofoniche (controllate o di proprietà) per un appello al voto di quattro minuti.

Il conflitto di interessi entra nelle case degli italiani seguendo gli orari delle edizioni di sei telegiornali. Pesante e asfissiante nella normalità dei palinsesti, si ripresenta con Berlusconi che parla come capo del governo e come candidato al comune di Milano, con il simbolo del Pdl formato gigante dietro le spalle e la didascalia che lo indica come presidente del consiglio. Una manifestazione di arroganza nel mezzo di una corsa elettorale che sta perdendo, una prova di forza di un leader dimezzato nel consenso e nella presa sulla maggioranza di governo.

Il presidente-candidato si appella ai moderati con l'estremismo del linguaggio leghista, visibile ostaggio degli umori dell'alleato, appeso agli interessi delle camicie verdi che hanno impostato la musica del secondo tempo della campagna elettorale coprendo i muri di Milano con lo slogan «la zingaropoli di Pisapia». Al quale lo spot di Berlusconi aggiunge una nota sul tema (l«Pisapia vuole baracca libera») nella finta intervista che inonda il piccolo schermo, accompagnata dalle faccette patetiche dei caporali dei telegiornali travestiti da giornalisti.

E' un Berlusconi imbalsamato nella parodia del berlusconismo («con noi meno tasse per tutti, toglieremo anche l'ecopass a Milano») quello che chiama i milanesi e i napoletani al voto contro la sinistra. Tenta la rincorsa del centrodestra verso i ballottaggi evocando i fantasmi della sua realtà parallela, sventolando l'immagine di Milano trasformata nella «Stalingrado d'Italia», prigioniero di un mondo che non c'è più, impantanato in un'ideologia sempre meno capace di egemonia. Conosce la manipolazione demagogica e la proclamazione dell'emergenza, il vecchio armamentario che ricicla per rivolgersi a un elettorato che sarà moderato ma ha dimostrato di non essere così sprovveduto.

Berlusconi non ha scelto il comizio di piazza o la platea di qualche palazzetto, troppo pericoloso affrontare lo scontento delle città che gli hanno voltato le spalle. Meglio mettere la faccia nel territorio protetto del feudo mediatico, dove le telecamere si muovono sotto il suo controllo, e i telespettatori non hanno diritto di replica.

Martedì scorso il Parlamento ha celebrato la giornata contro l´omofobia. Il giorno dopo la maggioranza della Commissione giustizia della Camera dei deputati ha bocciato la proposta di legge unificata che avrebbe introdotto l’omofobia come aggravante nei casi di violenza e aggressione.

È la seconda volta che il tentativo di far riconoscere come reato specifico la violenza omofobica viene fermato da un Parlamento disposto a chiudere mille occhi sulle trasgressioni sessuali del potente di turno se corrispondono ai più vieti stereotipi del machismo eterosessuale, ma del tutto indifferente alla sopraffazione nei confronti di chi è considerato deviante solo perché omosessuale. Dietro vi è certo l´ombra della Chiesa cattolica, dei suoi anatemi contro la omosessualità, del suo pervicace considerarla insieme come una malattia e un pericolo per la sopravvivenza della famiglia, senza alcun fondamento scientifico e in contrasto con il forte desiderio di formarsi una famiglia, di avere forti e stabili rapporti di amore e solidarietà – di coppia, ma anche nei confronti di figli – testimoniato da molti e molte omosessuali. Ma il potere di veto e di ricatto della Chiesa trova il suo alimento nella disponibilità di molti, troppi politici (anche a sinistra) ad assecondarne i desideri sul piano legislativo nella speranza, spesso fondata, di riceverne in cambio legittimazione e sostegno. È uno scambio che ha trovato la sua massima esplicitazione in questo governo e nell´appoggio che ha ricevuto in cambio ("il governo più amico della Chiesa nella storia della Repubblica", ha dichiarato un autorevole prelato). Ma anche senza ricatti e scambi, l´atteggiamento della Chiesa trova terreno fertile nella grettezza morale e nella incultura di una classe politica che sembra ricordarsi dell´etica solo quando sono in gioco le scelte dei cittadini circa le proprie relazioni e vita personale – dalla sessualità alla procreazione alle decisioni su come affrontare la fine della vita. Ma è sulla omosessualità che si concentra il rigorismo di questi moralisti d´accatto. È l´omosessualità che sembra suscitare in loro le paure più incontrollabili. Di converso, i comportamenti omofobici suscitano nel migliore dei casi in queste persone una condanna rituale, con un sottotesto di giustificazione (se la sono voluta, danno fastidio alle persone normali, dovrebbero essere più discreti, e così via). L’omosessualità diventa una aggravante per le vittime, una attenuante per gli aggressori –un po’ come succede spesso alle donne oggetto di violenza sessuale.

Certo, presi all’improvviso da preoccupazioni universalistiche, alcuni di coloro che ieri hanno votato contro la proposta di legge unificata si sono giustificati dicendo che introdurre l’aggravante di omofobia avrebbe costituito una discriminazione nei confronti di altri gruppi, ad esempio gli anziani o i disabili. Ma il risultato di questo universalismo strumentale è la negazione che esistano violenze motivate specificamente dall’odio e disprezzo per particolari gruppi sociali. È un universalismo negativo, non positivo. Inoltre, l’omosessualità, come l’eterosessualità, è una caratteristica costitutiva degli individui, trasversale ad altre caratteristiche e condizioni. L’omofobia nega precisamente legittimità, normalità, a questo modo di essere costitutivo di una persona. Come se si rinnegasse legittimità e normalità a chi è eterosessuale.

La ministra Carfagna ha dichiarato che voterà a favore della legge. Ma che cosa farà perché il suo partito e la sua maggioranza non boccino alla Camera ciò che hanno bocciato in Commissione? Da un ministro ci si aspetta qualche cosa di più di un gesto di testimonianza.

Era prevedibile che a Torino, città di tradizione operaia e storico laboratorio di cultura politica, una discussione sulla democrazia infiammasse la platea. Nel dialogo laterziano tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia), presentato ieri pomeriggio da Marco Revelli nell’affollata Sala Oval, non si parla solo di un assetto istituzionale oggi messo a dura prova, ma della distanza che passa tra la parola e la cosa, tra "gli ideali" e "la rozza materia", tra il concetto e la sua traduzione storica.

In questa forbice sempre crescente sono contenute tutte le criticità di cui oggi soffre la democrazia, dal populismo carismatico del premier alla questione del lavoro e dei suoi diritti, azzerati dall´economia globalizzata. «Dieci anni fa», dice Mauro, «mai avrei pensato di inserire in un libro sulla democrazia anche il lavoro: eravamo la società del welfare garantito e della crescita. Oggi che il capitale offre il lavoro in cambio dei diritti - è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori - mi pongo il problema se tutto questo sia compatibile con un contesto democratico». La platea del Lingotto sottolinea con lungo applauso la sua sintonia con il direttore di Repubblica, che incalza: «È stupefacente come la politica permetta questo scambio. La destra non vuole intervenire, ma è ancora più sorprendente che non lo faccia la sinistra, ormai incapace di pronunciare parole come libertà, eguaglianza e giustizia».

La morte della politica è uno dei temi del dialogo, ora ripreso con forza da Zagrebelsky. L’analisi non prevede sconti per nessuno. «L’attuale degrado della vita pubblica può essere ricondotto solo in parte al berlusconismo, che è certo una delle cause ma è soprattutto conseguenza di un processo più profondo. La politica è sparita. Sono morte le ideologie, ma è venuta a mancare anche la capacità di ragionare in grande. Se vogliamo combattere il potere carismatico di Berlusconi - io in verità non lo vedo tanto questo carisma - dobbiamo uscire dalla palude impolitica: l´amministrazione dell´esistente e l’occupazione del potere». Sarebbe sbagliato, tuttavia, confondere in un´unica zona grigia l´intera classe politica. «Rimane la distinzione tra persone perbene e persone non perbene», dice il costituzionalista che non rinuncia a civettare con la caricatura suggerita dai suoi avversari: «Così confermo la mia propensione per il puritanesimo». Applaude l’editore Giuseppe Laterza, seduto al tavolo. E applaude il pubblico, riconoscendosi nel richiamo morale.

La democrazia come il «regime delle promesse non mantenute» (copyright di Bobbio). Ma esiste una soglia - incalza Marco Revelli - oltre la quale la distanza tra la parola e la cosa minaccia il fondamento democratico? «Il rischio», risponde Mauro, «è che dietro la superficie levigata si nasconda un organismo malato». E se la democrazia - non come formula politica ma come esperienza - è in difficoltà anche altrove, in Italia vive in una condizione speciale. «Non sono accettabili paragoni con regimi del passato, tuttavia è indubbio che la destra italiana sia portatrice di molte gravi anomalie. Non succede altrove che il potere esecutivo usi il potere legislativo per difendersi dal potere giudiziario. Ma il populismo di Berlusconi è qualcosa di ancora più eversivo, una destra che chiede al sistema democratico di rinunciare alle regole per costituzionalizzare le sue anomalie». Un processo contrario alla "felicità della democrazia" invocata dal titolo del dialogo: condizione da ricercare «in un sistema di regole e libertà», molto più che «nella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio».

Qui uno stralcio del dialogo tra Mauro e Zagrebelsky

Trovo che la promessa di non demolire le case abusive fatta alla vigilia del voto abbia qualcosa di sconcio e disperato insieme. Come una confessione a cielo aperto che mentre strizza l’occhio alle mafie e alle camorre, ai furbi alle cricche ai criminali e ai disperati, appunto, dice sono uno di voi: sono criminale e disperato anche io. Tranquilli, se mi votate siete a posto. Potete smettere di nascondervi, non verrà la finanza, guardatemi, sono il vostro campione, il vostro Batman. Diventiamo tutti allegramente fuorilegge e gridiamolo forte, facciamo vedere che siamo la maggioranza e vinceremo: dopo nessuno di quei tristi legulei garanti della democrazia (ma cos’è poi, la democrazia di fronte ai soldi e all’impunità?) potrà venire a dirci delle regole e del diritto, li manderemo a casa tutti e vivremo nelle nostre case abusive e nelle nostre vite contraffatte felici e contenti. Io nelle ville coi cactus, voi nelle baracche di mattoni, il giovane Moratti nella Bat-caverna al centro di Milano e sua madre a balbettare in Comune.

Siamo uguali, in fondo. Sono uno di voi. Ecco. La truffa mediatica, il messaggio popolare che il più abile dei piazzisti prova a far passare ora che forte è la rabbia e più grande la paura è questo. Perché è vero che in prima battuta si accredita come il garante dell’illegalità al cospetto delle mafie criminali, a Napoli la camorra a Milano le ‘ndranghete nel resto d’Italia le multinazionali dell’illecito nostrane e di importazione. Ma è anche vero che mentre parla alle cricche dei costruttori di palazzi di sabbia, quelli che poi crollano lasciando i morti sui quali piangere lacrime ipocrite e colpevoli, cerca la complicità dei disperati che in quelle case vivono: gente che degli sfarzi dei lussi degli elicotteri dei miliardi di Berlusconi non vedrà altro che le foto ritoccate sui suoi settimanali e che è disperata di una disperazione diversa dalla sua, la disperazione di chi non ha un lavoro uno stipendio né una fogna che si porti via i liquami dei suoi vecchi, non quella di chi rischia di passare la vecchiaia in esilio come un despota latitante che non è riuscito ad incantare i suoi sudditi fino al punto da convincerli che la sua impunità è il bene del meraviglioso e triste paese che ha avuto la sventura e la mollezza di trasformarlo in un eroe. È possibile che gli credano, i disperati degli hintlerland di Crotone, di Cinisello Balsamo e di Somma vesuviana. È possibile che i cassintegrati e i disoccupati, i commercianti falliti perché taglieggiati e i taglieggiatori, i cummenda della veranda e i contadini senza raccolto, le prostitute che sperano in un charter per Arcore e i papponi che le organizzano, i costruttori di protesi e i vecchi senza denti, è possibile che tutti insieme costoro, accomunati da diverse miserie e povertà, vedano in quest’uomo in doppiopetto non il responsabile della loro rovina ma al contrario il salvatore, il bingo umano, il salvacondotto per il perpetuarsi della miserabile sopravvivenza scambiata con l’esistenza a cui avrebbero diritto.

Bisognerebbe che l’opposizione avesse la forza e l’intelligenza non di condannare e disprezzare chi spera che Silvio B. terrà in piedi le loro case e vite abusive ma di parlarci, di ascoltarli, di proporre un’alternativa reale non fra vent’anni ma adesso. Di andare fra chi vive nelle case abusive e dire avete diritto ad una casa migliore di questa, eccola. Noi ve la daremo senza far passare avanti i figli e i nipoti di nessuno. Un’etica. Una moralità sincera e credibile che sappia sconfiggere la corruzione e far sentire tutti parte di una comunità solidale, giusta, migliore.

È inutile sfogliare corposi libri di storia, arguti pamphlet, sferzanti pagine di cronaca. È inutile rievocare i tempi di Depretis o le peggiori vicende dellItalia repubblicana. Da nessuna parte, in nessuna pagina si troverà qualcosa di lontanamente paragonabile allapoteosi dellindecenza sancita dallingresso dei "responsabili" nel sottogoverno (dal primo ingresso: è prevista una seconda ondata). Non si troveranno neppure parole adeguate: trasformismo è termine che gronda nobiltà e dignità, al paragone. E i voltagabbana del passato, in fondo, avevano pur avuto una gabbana. Eppure gli storici del futuro dovranno un granello di gratitudine anche a questo coacervo impresentabile e indefinibile di eletti: un "documento" prezioso del degrado ultimo cui la politica è giunta nel nostro Paese. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht: ma che dire di un governo che ha bisogno dei "responsabili"?

Non ci si fermi però alle accidentate biografie e allimprontitudine dei promossi, o alle rancorose rivendicazioni degli esclusi ("cè ancora uniradiddio di nomine da fare", si consola elegantemente uno di essi). E non si dimentichino altri casi in cui il premier ha utilizzato, o tentato di utilizzare, incarichi pubblici per uso privato. O per aggirare la legge e la giustizia: si pensi al tentativo di salvare in extremis limputato e condannato Aldo Brancher inventando per lui un ministero di cui era incerto sin il nome. Si vada al cuore del problema, cui questa vicenda per più versi rimanda. Da un lato i "responsabili" sono il corollario di una concezione della politica che il Pdl ha progressivamente imposto e che comprende al suo interno anche il "sistema" illustrato a suo tempo da Denis Verdini. O la filosofia della cricca, che ci è stata ricordata anche ieri dalle cronache giudiziarie. Dallaltro lato il premier ha potuto perseguire anche in questo caso quella "diseducazione civica" cui si dedica da sempre con grande impegno: dopo aver legittimato levasione fiscale e delegittimato listruzione pubblica non poteva perdere loccasione per premiare gli sfregi più vergognosi e dichiarati alla politica come servizio, allo Stato come bene comune. Certo, siamo giunti alla farsa ma nella storia le farse non allontanano le tragedie. Spesso aprono loro la via.

Ventanni fa, nellagonia della "prima repubblica", Edmondo Berselli osservava che il ceto politico italiano era ormai attraversato e scosso: «Da due spinte esattamente opposte: listinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». L«immobilità parossistica» della scena politica mascherava però male – aggiungeva Berselli – il crescere di una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma pericolosamente vicino al collasso del sistema».

Fa impressione rileggere a distanza danni unanalisi così lucida, che ebbe di lì a poco probanti conferme. E vale la pena tenerla presente anche oggi, perché illumina meglio molte vicende delle ultime settimane. Anche in esse è stato molto difficile distinguere i drammi reali dalle parodie di quartordine messe in scena in loro nome. Ad Aldo Capitini e a Danilo Dolci, per fortuna, è stato risparmiato il "pacifismo" dei leghisti, apertamente motivato con la necessità di arginare il dilagare degli immigrati e di affermare il proprio peso politico nel governo (cioè il proprio non clandestino dilagare in molteplici enti e istituzioni). Dopo lapprovazione di una mozione grottesca Bossi ha rispolverato il "celodurismo" e ha aggiunto: la Nato dovrà tenerne conto. "Mamma mia che impressione", avrebbe detto Alberto Sordi. Per non parlare del nostro ministro della Difesa, che da tempo non sembra più padrone di sé. Basta qualche contestazione in Parlamento, o semplicemente a "Ballarò", per trasformarlo nella inquietante caricatura del La Russa che nei primi anni Settanta capeggiava i giovani missini milanesi (non troppo raccomandabili, a leggere le cronache di allora). Allequilibrio e alla saggezza di questuomo è affidato il nostro esercito.

Anche in precedenza non ci era stato risparmiato proprio nulla: lirrilevante che sostituisce lessenziale, linteresse privato che soppianta quello pubblico, la menzogna più sfacciata che irride a ciò che le persone normali vedono e sanno. In qualunque altro Paese non sarebbe rimasto al suo posto neppure per un secondo un ministro dellambiente capace di dichiarare: "non possiamo rischiare le elezioni amministrative per il nucleare". Né è immaginabile altrove un premier che ammetta (o rivendichi, come nel nostro caso): ci siamo inventati un bellimbroglio per confermare la scelta nucleare. Tutto nel giro di pochi giorni, e allindomani di una sciagura immane. Per più versi però la deriva del governo chiama in causa il Paese nel suo insieme: «Gli italiani non sembrano capire il disastro in cui si trovano. Il nostro è un curioso destino, abbiamo la libertà delle catastrofi, la libertà degli irresponsabili, la vacanza che coincide con lanarchia». Lo scriveva Corrado Alvaro sessantanni fa, e ci sembrano parole terribilmente attuali.

La difficoltà di cogliere lo spessore del dramma sembra attraversare anche le opposizioni. Solo così si spiegano le troppe assenze inspiegabili (come quelle che hanno permesso lapprovazione del documento economico del governo) e i troppi conflitti interni, solo parzialmente sopiti negli ultimi tempi. Di qui lurgenza di quel colpo dala, di quella capacità di invertire la tendenza cui si è riferito il Presidente Napolitano. Difficile dir meglio: è necessaria unalternativa di governo «credibile, affidabile e praticabile». È necessaria una sinistra capace di "togliersi di dosso ogni sospetto di volersi insediare al potere come alternativa senza alternativa". Capace, insomma, di mettere in campo proposte concrete e convincenti, connesse a unidea generale di futuro

È un passaggio obbligato: non solo e non tanto per smuovere orientamenti elettorali stagnanti quanto per rimettere in moto il Paese. Per arrestare un declino. Per dare voce e fiducia a quella parte dellItalia che non si è arresa, che ha ancora voglia di rimettersi in gioco. «LItalia con gli occhi aperti nella notte triste», come cantava Francesco De Gregori. Di tempo, forse, non ne è rimasto moltissimo.

Il rimando è alla violenza fisica, al bisturi, alla spietatezza del chirurgo. Dopo la parola "cancro" non c´è più spazio per le parole. Cancro è infatti la parola terminale, fuori dalla civiltà della democrazia, oltre la detestabilità del nemico. Berlusconi l´ha usata contro i magistrati e, in polemica ipocrita e contorta, contro il presidente Napolitano, dinanzi al quale non ha osato ripeterla. Al Capo dello Stato, che rendeva omaggio alla magistratura nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo, Berlusconi ha notificato un complimento di circostanza: «nobili parole».

Lontano da lui ha invece formalizzato con un atto politico la sua fissazione e ha chiesto una commissione di inchiesta parlamentare contro «il cancro» appunto dei pm. Ha così portato il livello dello scontro alla sua soglia definitiva. La diagnosi di cancro è lo schiaffo che provoca i giudici al duello ed è un´insolenza malcelata dall´opportunismo di giornata verso Napolitano che non solo è il primo magistrato d´Italia, ma si è appunto espresso con parole opposte, solenni e commosse. Berlusconi inghiottiva lì quello che andava a sputare fuori.

Quale che sia la sua consapevolezza, il presidente del Consiglio ha infatti compiuto un passo verso la guerra civile perché, come ben sappiamo, dopo le legittime armi della critica si arriva alla funesta critica con le armi.

E non è finita qui. Attraverso il varco aperto da Berlusconi si è fatto largo il solito cavallo di Troia. La Santanchè, che non vuole mai restare indietro nella gara eversiva a chi la spara più grossa, ha addirittura individuato il fuoco del cancro in una persona. Per questa raffinata signora del berlusconismo «la metastasi» è Ilda Boccassini.

Ci stiamo abituando a tutto. E non facciamo in tempo ad abituarci a un peggio che subito arriva un pessimo. Sino a ieri la volgarità ci sembrava il limite estremo della prepotenza politica. E però l´insulto, il turpiloquio, il rutto sono antagonismo non curato, becerume che non attenta agli assi portanti della democrazia, che poi sono quelli che garantiscono diritto di cittadinanza al becerume stesso. La volgarità insomma è ancora dentro il rispetto dell´integrità fisica dell´avversario. Il cancro invece ti pone davanti non più un avversario e neppure un nemico che è ancora una persona da abbattere. Il cancro è una mostruosità da devastare: con il bombardamento chimico, con l´estirpazione, con qualunque mezzo cruento. Siamo alla preparazione psicologica della guerra civile. Con il cancro infatti non c´è più bisogno di discutere né c´è tempo di ragionare: bisogna agire presto.

Questo linguaggio che fa pensare a Berlusconi sul carro armato e con gli anfibi, agli esercizi militari in tuta mimetica mi spinge tuttavia a una domanda, alla più pacificata delle domande: perché il fragore di questo lessico invasato non viene percepito e, non dico coraggiosamente combattuto, ma almeno timidamente criticato dai galantuomini che - oso pensare - ancora stanno accanto a Berlusconi, nonostante tutto? È mai possibile che tra i molti avvocati, qualche economista, i tanti medici, tra tutti quei giornalisti «anarchici, esteti e situazionisti» , tra le belle signorine e signorini, tra gli appassionati ex missini statalisti, tra gli ex liberalsocialisti ed ex democristiani…, è mai possibile che in quella ganga di cervelloni scervellati siano ormai tutti assoggettati alla Santanché che ripete, papera papera, le invettive del capo e aggiunge rancore calcolato ai rancori incrostati del suo principale?

È mai possibile che nessun Letta e nessun Tremonti, nessun Maroni e nessuna Moratti gli dicano che non c´è più niente da ridere, e gli spieghino la scena su cui tutta l´Italia si è fermata, il presidente che piange e Berlusconi che ghigna? Forse stasera nella sua ‘Radio Londra´ Giuliano Ferrara potrebbe consegnare questo messaggio speciale: c´è differenza tra politologia e oncologia, e «cancro» è parlare tragico, è la parola compiaciuta della iena che ride sul corpo ferito della povera patria.

Volevano liberare il territorio patrio, e quello delle nazioni conquistate - il loro Lebensraum - dalla presenza degli ebrei; per impedire che gli contaminassero razza e costumi; ma non pensavano ancora allo sterminio. Prima avevano cercato di chiuderli nei ghetti: ma «loro» erano troppi e ancora troppo visibili. E si erano resi conto che con i pogrom - famoso è quello della notte dei cristalli - non avrebbero mai risolto il «loro» problema. Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli sull'orlo delle fosse comuni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema «asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È la storia della Shoah.

Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri territori dall'invasione di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima abbiamo usato una legislazione ad hoc e le questure, equiparando la loro esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in vere e proprie galere, fingendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da qualche altra parte. Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in massa.

Così ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito fino al giorno prima. Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo, in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi (ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossimo passo di questa deriva?

La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita «Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita. Ma sulle menzogne della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro, parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto sesso con Berlusconi. Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato «Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte - film e libri come Süss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano un'ispirazione diversa?

Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica (la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale: esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di cultura tedesca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta della nuova Europa razzista.

Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una tirannia mascherata da democrazia: niente di molto diverso dai regimi di Ben Alì, Mubarak o Assad.

Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare, un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o sovranazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di arricchire tutti: chi è qui e chi resta là. Una società dove a tutti venga offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione. Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più urgenti). E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande «capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile», che nessun programma di cooperazione ministeriale potrà mai realizzare.

Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze, di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande comunità.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimostrato ancora una volta l´autentico custode della Costituzione e delle regole, ovvero dell´interpretazione parlamentare - l´unica che la Carta consente - della politica italiana.

Con l´osservare che i nuovi sottosegretari appartengono a un gruppo politico che non esisteva al momento delle elezioni, e che quindi il premier devono presentarsi in Aula a riferirne, e che i presidenti delle Camere possono considerare se il Parlamento debba rilegittimare col voto di fiducia quello che a tutti gli effetti è un nuovo governo, il Capo dello Stato esercita la difesa attiva, non meramente notarile, della Costituzione.

Questa difesa consiste più o meno in questo ragionamento: se è vero che parecchi parlamentari – sulla base del principio costituzionale del mandato libero e dell´indipendenza dell´eletto dagli elettori – hanno maturato l´intimo convincimento di uscire dai partiti nelle cui liste sono stati eletti, lo possono certamente fare. Ma se danno vita a un nuovo gruppo parlamentare, e se ora questo gruppo, dopo avere ripetutamente votato insieme alla maggioranza, entra a far parte del governo, allora sarebbe necessario che il Parlamento tornasse a votare la fiducia al governo. Che è nuovo non perché ci sia stata una crisi formale, ma perché è politicamente non solo sorretto da una nuova maggioranza ma composto da nuovi partiti.

I numeri per il voto, se ci sarà, presumibilmente si troveranno: a questo, del resto, servono i Responsabili, che appunto così si guadagnano la ricompensa ministeriale. Ma il valore politico del gesto di Napolitano si misura in opposizione – implicita ma evidentissima – alla vera ideologia politica che anima Berlusconi. Che da sempre, oltre che ostile ai magistrati e alle istituzioni di garanzia come la Corte Costituzionale, è anti-parlamentare – si ricordino le proposte di ridurre il voto ai soli capigruppo, nonché la polemica ininterrotta verso "il teatrino della politica" – , ed è tutta spostata verso il rafforzamento dei poteri del governo e soprattutto verso la dimensione elettorale, interpretata in senso populistico-plebiscitario. Ovvero, per Berlusconi le elezioni sono il momento della verità in cui un popolo – spaccato in due dalla sua propaganda – si conta, e conferisce al Capo eletto (l´Unto del Signore) tutto il potere, facendone il dominus delle istituzioni. Cioè non solo del governo – come se si fosse eletto direttamente il premier – ma anche del Parlamento: che in quest´ottica è uno spazio subalterno, di servizio, perché la "vera" espressione della sovranità non sono per Berlusconi i parlamentari ma colui che – come individuo singolo – è risultato vincitore delle elezioni. Il Parlamento, semmai, è una "spoglia", un insieme di "posti" con cui, a spese dei contribuenti, si compensano i seguaci (che una legge pessima vuole siano blindati in una lista decisa dal Capo).

Nessuna centralità del Parlamento, quindi, ma solo supremazia (sovranità) del leader vittorioso. La centralità del Parlamento – di cui l´indipendenza dell´eletto è il cuore, poiché quella indipendenza significa che il baricentro della politica è nell´istituzione-Parlamento e non negli interessi sociali in grado di far eleggere questo o quello – è sempre stata respinta da Berlusconi, che alla mediazione preferisce l´immediatezza, alla discussione la decisione. Solo in un caso quella centralità – con l´indipendenza del parlamentare che ne consegue – è stata difesa: cioè nella fase in cui si è proceduto al "recupero" dei parlamentari per ricostituire la maggioranza, vulnerata dall´uscita di Fini e dei suoi. A quel punto, a giustificare i molti movimenti di molti parlamentari, si è fatto sentire un debole accenno al mandato libero e ai valori istituzionalmente fondanti del liberalismo: accenno incongruo, spaesato, strumentale al libero dispiegarsi della vera idea e della vera pratica del potere che ha Berlusconi: il dominio incontrastato, con ogni mezzo, per affermare la propria volontà. Si diceva "mandato libero" e si doveva intendere "compravendita" – almeno altro con le cariche nel governo che ora, a riprova, vengono elargite – .

Il capo dello Stato ha quindi fatto quello che era in suo potere per ridare dignità alle istituzioni, ovvero per ribadire che il Parlamento non è nella disponibilità del premier, non è lo spazio delle sue scorribande indisturbate; che è soggetto e non oggetto della politica. Che quindi il Parlamento deve prendersi la responsabilità dei responsabili, non limitarsi a registrarne l´ascesa agli ambìti posti di sottosegretari. Vedremo se altri si prenderanno a cuore quella dignità, che è anche la dignità di tutti i cittadini.

Non è sviluppo , è saccheggio del territorio, è cancellazione di ogni regola tesa a salvaguardare gli interessi collettivi, è resa alle lobby più arretrate e conservatrici che intendono lo sviluppo come arricchimento attraverso la rapina e il saccheggio dei beni pubblici.

E’ violazione clamorosa della Costituzione e della legge 400/88 che disciplina il contenuto dei decreti legge.

Questo decreto potrebbe essere condensato in un unico articolo che reciti : ciascuno, del territorio, può fare ciò che vuole e per questo non può essere perseguito dalla legge.

È bene ricordare che il Presidente della Repubblica, in occasione della promulgazione dell'ultimo decreto milleproroghe, aveva ricordato la necessità di ricondurre "la decretazione d'urgenza nell'ambito proprio di una fonte normativa straordinaria ed eccezionale, nel rispetto dell'equilibrio tra i poteri e delle competenze del Parlamento, organo titolare in via ordinaria della funzione legislativa". Un decreto come questo, che già in partenza si presenta disomogeneo e invasivo delle competenze delle regioni e dei comuni, ben si presta in sede emendativa a ulteriori strappi: a cominciare dai tentativi di predisporre un nuovo e più ampio condono edilizio che non è certo da cassandre prevedere.

Numerosi sono i profili di incostituzionalità del decreto-legge adottato due giorni fa che prevede misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia. Il decreto contiene disposizioni in una infinità di materie disomogenee e ciascun articolo sostanzialmente è un autonomo provvedimento e si rivela un vero disastro, non solo per il territorio ma anche per la regolarità degli appalti, per il demanio costiero, i beni culturali, il paesaggio.

Con un espediente , la istituzione di una Autority, cerca di far saltare i referendum sull'acqua, depotenziandone la portata presso l'opinione pubblica.

Privatizza le spiagge, trasformando la concessione in diritto di superficie x 90 anni e rendendo trasferibili fra privati gli immobili costruiti su di esse, senza alcun coordinamento con la normativa demaniale vigente.

Si tratta di elementi palesi che non possono sfuggire ad un vaglio rigoroso rispetto ai parametri stabiliti dalla Costituzione e dalla legge 400 del 1988. Questa legge, all'articolo 15, afferma che i provvedimenti provvisori con forza di legge ordinaria devono contenere misure di immediata applicazione (ed in questo caso molte norme fanno rinvio a successivi adempimenti, talvolta persino configurandosi in una sorta di nuova delega, laddove demandano ad altra autorità il dettaglio dei criteri cui attenersi ) e il loro contenuto deve essere omogeneo. La eterogeneità del decreto risulta evidente perfino dalla titolazione dei suoi articoli.

Il decreto è adottato in clamorosa violazione dell'articolo 77, comma 2, della Costituzione che prevede che il Governo possa emanare decreti solo in casi straordinari di necessità ed urgenza e un provvedimento del genere non può in alcun modo averli.

Modifica il codice degli appalti in modo sostanziale intervenendo sulla qualificazione delle imprese, sulla trattativa privata, sulle riserve, sui requisiti per la partecipazione agli appalti delle imprese che abbiano commesso reati, modifica le norme che regolano l'attività urbanistica e quella edilizia, modifica la VAS per la quale eravamo stati oggetto di condanna in sede europea.

Interviene sul codice del Paesaggio, priva le Soprintendenze di compiti istruttori e di vigilanza..

Con la riproposizione del c.d. piano casa riduce a random i tempi istruttori, elimina le responsabilità derivanti da false dichiarazioni, consente l'indiscriminato aumento delle cubature, fatti salvi, bontà sua i centri storici ecc. rafforza il criminogeno silenzio assenso, fonte di ogni corruttela.

Qui si interviene sull'ordinamento, si vendono i beni demaniali quali gli arenili appartenenti al demanio pubblico, si modificano in un colpo solo, il codice degli appalti e quello sull’edilizia, si estende la SCIA agli interventi edilizi precedentemente compiuti con DIA , si applica il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali anche per il mutamento delle destinazioni d’uso complementari , si sanano per legge alcune violazioni delle misure progettuali (apparentemente innocuo pretesto cui agganciare magari un vero condono nella legge di conversione) , si interviene con profonde modifiche sul codice dei beni culturali, si vara un piano triennale per l’immissione in ruolo del personale della scuola e molto altro ancora.

Ci si chiede dove siano l'urgenza e la straordinaria necessità e urgenza, in una materia per la quale sono già stati indetti 2 referendum - quelli sull’acqua - per la istituzione dell’Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, organismo indipendente a tutela dei cittadini utenti, con compiti di regolazione del mercato nel settore delle acque pubbliche e di gestione del servizio pubblico locale idrico integrato, oppure nelle misure volte a garantire l’operatività del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco o ancora nelle norme sulla privacy condite con agevolazioni di tipo fiscale oppure nelle altre disposizioni volte al rilancio delle attività imprenditoriali, al settore del credito e , fra le tante, anche quelle riguardanti un fondo per il merito nel sistema universitario o infine nelle possibilità di saccheggio del territorio contenute nelle norme che disciplinano il settore e i distretti turistici e molto altro ancora.

Per non parlare delle norme, particolarmente preoccupanti , contenute nell’articolo 6 “liberazione delle imprese dalla pubblica manomorta : la pubblica amministrazione” evidentemente uscite dalla penna dell’energumeno nemico della pubblica amministrazione.

Per ciscuna di questi argomenti, del tutto disomogenei fra loro sarebbe necessario eventualmente ricorrere ad un disegno di legge ordinaria per regolare ciascuna delle diverse materie.

Si viola, inoltre, l’articolo 9 della Costituzione che, al comma 2, prevede che la Repubblica italiana tuteli il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Infatti, l’articolo 5 del decreto-legge prevedendo la costituzione del diritto di superficie , e cioè la vendita, delle coste italiane, un bene paesaggistico tutelato, consentendo l’edificazione in quelle ancora rimaste libere, non prevedere neppure verifiche sul permanere in capo allo Stato dei doveri di tutela di beni culturali.

Inoltre, non sono previste procedure per la salvaguardia del territorio e le soprintendenze sono di fatto esautorate da ogni compito di tutela. Il piano casa, con i suoi ampliamenti indiscriminati , consente di intervenire senza controlli in tutto quel patrimonio edilizio storico o di interesse srtorico testimoniale che costituisce, con il suo tessuto, il paesaggio italiano, caratterizzando lo straordinaria qualità del territorio dell’Italia intera, fa prevalere gli interessi alla realizzazione di opere nei confronti di interessi costituzionalmente tutelati dall’art. 9 della Carta.

La terza violazione riguarda l’articolo 117, commi 3 e 4, della Costituzione in relazione alle competenze regionali in materia di governo del territorio e di urbanistica; in particolare, l’articolo 4 del decreto viola le competenze proprie delle amministrazioni regionali perché si introduce una legislazione di dettaglio in materia che il titolo V non consegna alla potestà esclusiva dello Stato.

Il silenzio assenso infine interviene in una materia di competenza dei Comuni, sottraendo alla loro valutazione la approvazione degli interventi edilizi.

La norma infine che ripristina e attiva il c.d. piano casa , consentendo l’ampliamento indiscriminato di ogni immobile esistente confligge con le attribuzioni dei Comuni in materia di pianificazione del territorio investendo così una materia che è di loro totale competenza.

Ricordiamo infatti che spetta ai Comuni il compito di gestire le trasformazioni urbanistiche ed edilizie del loro territorio: cosa c’entra in queste attività lo Stato? Si potrebbe continuare ancora a lungo, a proposito della violazione delle stesse regole fondamentali di corretta legislazione, sistematicamente ignorate, intervenendo parossisticamente su argomenti più volte mutati in brevissimo arco di tempo, accrescendo la confusione normativa e la difficoltà, per la P.A. di comprendere quale sia la norma applicabile ai casi concreti.

Non è nostra intenzione tirare per la giacca il Capo dello Stato ma questo decreto assomma in sé tutte le violazioni della Costituzione e i tutti i principi della legge 400/88, tanto da poter addirittura essere definito irricevibile e essere restituito al mittente.

Regole zero, speculatori a mille, di Tommaso De Berlanga
Albergo in spiaggia? Si può, di Paolo Berdini
Mare privatizzato, l'Ue «preoccupata»
Cgil/ Vincenzo Scudiere, «Così non si aiuta lo sviluppo, ma il business selvaggio»
Abusivismo/ Rosania, ex sindaco di Eboli,«È un assalto al territorio In Campania sarà una giungla»

«Sviluppo: L’uso dei beni pubblici per ricavare reddito privato, le agevolazioni finanziarie nei distretti turistici, l’autocertificazione per le opere».

Regole zero, speculatori a mille
di Tommaso De Berlanga

Nel provvedimento del governo concessioni ai privati, edilizia senza freni e meno controlli fiscali. Liberismo da furbetti del quartierino Una lunga serie di misure per favorire le microimprese e l'elusione fiscale. Un decreto di classe

Difficile, per un profano, aggirarsi nella marea di punti discontinui che costituiscono il «decreto per lo sviluppo» varato dal governo sotto la supervisione di Tremonti e con l'imprimatur della Lega. Ma un filo conduttore, a ben guardare, lo si trova.

Si tratta, a prima vista, di un decreto che incentiva l'evasione fiscale e cerca di dividere, favorendole, le piccole da quelle grandi; e punta anche ad impedire la la «saldatura» moderata tra quest'ultima (impegnata da oggi, a Bergamo, per l'Assise; a porte chiuse sia per «la politica» che per la stampa) e l'opposizione. A cominciare da quella Cgil che ancora oggi ha chiesto all'associazione degli imprenditori di «voltare pagina».

È vero - come notavano diversi economisti oggi - che questo decreto cerca di «far nozze con i fichi secchi». Molte disposizioni fanno sorridere, altre indignare, specie lo si vuol prendere sul serio come una «frustata» in grado di far decollare la «crescita».

Persino il «liberismo», in questo testo, diventa roba da «furbetti del quartierino» dalla vista ridotta. Prendiamo la parte relativa alle spiagge demaniali, per esempio, date in concessione per ben 90 anni (invece del massimo 6 previsto dalla Ue e tramite normali «aste pubbliche»). Sono certamente un regalo ai privati che toglie un «bene comune» dalla disponibilità della popolazione; ma al tempo stesso inchioda una «risorsa turistica» a un modello di imprenditoria minore senza investimenti, innovazione, ambizione. Anche dal punto di vista capitalistico, insomma, è una stupidata che blocca lo sviluppo invece di stimolarlo. Il fatto di prevedere, in aggiunta, una «burocrazia zero» nei distretti turistico-alberghieri (con «agevolazioni in materia amministrativa, finanziaria») può diventare persino un incentivo per gli investimenti di origine più che sospetta. Ma questa è la cifra politica di questo governo, questa la «cultura imprenditoriale» del suo blocco sociale: l'uso dei beni pubblici per ricavarne reddito privato è il massimo che riesca a concepire.

Una verifica certa viene dalle incredibili «sanzioni» agli ispettori fiscali troppo zelanti nel controllo delle imprese. Vi immaginate gli inviati dell'Agenzia delle entrate (o la guardia di Finanza) che entrano nell'ufficio amministrazione di un'azienda? Una misura come questa può produrre effetti devastanti dal lato delle entrate dello stato - smentendo quindi Tremonti e Berlusconi, che assicurano si tratti di una manovra a «costo zero» - perché si traduce in un incoraggiamento governativo all'evasione fiscale.

È chiaro che una minore sorveglianza fiscale sia ben vista da tutti i tipi di impresa, ma diventa «vitale» - segna il confine tra sopravvivenza e fallimento a breve termine - soprattutto per quella piccola o microscopica «azienda» che proprio non riesce a stare «sul mercato» se deve anche rispettare le regole del mercato. Qui si può vedere con quanta pesantezza la «cultura» della Lega condiziona la decretazione in materia economica. Ma si tratta di una misura cerca anche di parlare a quella fetta di «popolo delle partite Iva» (chi ha visto Annozero l'altro ieri lo avrà capito) che in realtà è lavoro dipendente, ma deve ricorrere al commercialista per curare «l'amministrazione», rimanendo alla fine strozzato tra ritardi o mancati pagamenti delle tasse, interessi di mora, contravvenzioni, ecc.

Questo governo, invece, pensa di risolvere il problema bloccando l'azione investigativa del fisco (invece, casomai, di rimodularla a seconda della tipologia d'impresa). Incoraggia a disattendere controlli e regole, spinge all'evasione e all'elusione fiscale. Ma tutto questo produce un aumento di redditi privati per alcune limitate figure sociali, ma quasi nulla sul piano del prodotto interno lordo (Pil). Quindi ben poca «crescita e sviluppo» .

Una conferma viene dalle sbrigative norme per la costruzione di opere pubbliche: «estensione del campo di applicazione della finanza di progetto», «estensione del criterio di autocertificazione per la dimostrazione dei requisiti richiesti» e relativi «controlli essenzialmente ex post» (quando i soldi saranno stati incassati), «innalzamento dei limiti di importo per l'affidamento di appalti mediante procedura negoziata» (senza concorso pubblico, insomma). Altre perle potrebbero uscir fuori dalla lunga catena di riferimenti criptici a codicilli, commi, articoli, che vengono dichiarati cassati o mutati per una parola.

Quasi una beffa il primo articolo, che istituisce «in via sperimentale» per i prossimi due anni del «credito d'imposta a favore di imprese che finanziano progetti di ricerca in università o enti pubblici di ricerca». Si fa passare per un aiuto alla ricerca il fatto che gli enti pubblici che la fanno saranno costretti ad accettare qualsiasi proposta proveniente dai «privati» che troveranno una qualche convenienza in questa misura (non molti, a occhio). Così come l'altro «credito di imposta» - 300 euro per ogni assunzione nel Mezzogiorno - coperta finanziariamente con i fondi europei.

Ma è l'edilizia il cuore pulsante del decreto, dal «silenzio-assenso» ultra rapido all'applicazione della Scia (segnalazione) in luogo della Dia («denuncia», non a caso), dalla «cessione di cubatura» all'eliminazione dell'obbligo di comunicazione alla Ps; e che prosegue con un elenco sterminato di «semplificazioni» che faranno felici una base sociale ben identificata. E che penalizza la crescita del paese da un tempo infinito.

Albergo in spiaggia? Si può

di Paolo Berdini

I commenti a caldo sul decreto per il rilancio dell'economia si sono concentrati sul fatto - davvero inaudito - della svendita delle spiagge. Con il testo sotto gli occhi si può purtroppo affermare che essa sia addirittura il male minore: è prevista infatti la cementificazione delle coste italiane.

Ma prima è utile sottolineare un'altra vergogna. Invece dei 500 mila euro attuali, le amministrazioni pubbliche potranno affidare appalti a trattativa privata fino ad un importo di 1 milione di euro (articolo 3, lettera l). Bertolaso santo subito. Il sistema di potere della cricca si è basato, come noto, sull'assoluta discrezionalità nell'affidare appalti. Un numero ristretto di imprese veniva prescelta non sulla base delle capacità imprenditoriali ma sulla fedeltà assoluta e sull'inevitabile ritorno di favori e prebende. Con il decreto il sistema viene esteso a tutto il paese. Salvo pochi casi gli appalti pubblici sono infatti prevalentemente al di sotto del milione di euro o possono essere facilmente disaggregati per ricondurli a una sommatoria che singolarmente non superano quella cifra.

Con i livelli di mancanza di etica dei nostri amministratori non è difficile pensare alle conseguenze di questa scelta: la fine della trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Sul Sole 24 Ore non sono state versate lacrime.

Ma torniamo ai territori costieri. Con il primo comma dell'articolo 5, al fine di «rilanciare l'offerta turistica nazionale» si cedono le spiagge ai privati per novanta anni. È da tempo che il segmento del turismo marino è in crisi rispetto a un'offerta internazionale che possiede qualità ambientali e d'impresa migliori delle nostre: la risposta è la svendita del demanio. Nel comma 4 si afferma poi che «possono essere istituiti nei territori costieri, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su richiesta delle imprese di settore che operano nei medesimi territori», i Distretti turistico-alberghieri, che vengono (comma 6) equiparati alle «zone a burocrazia zero» istituite con decreto legge 78/2010.

L'articolo 43 di questo decreto affermava che per favorire l'economia potevano essere istituite zone in cui le richieste di attività produttive sono approvate da un Commissario di governo che provvede mediante una conferenza di servizi a consentirne l'attuazione. Se questo non avviene entro 30 giorni, la proposta si intende comunque approvata. Quell'articolo permette dunque di poter fare ciò che si vuole dove si vuole: costruire un albergo, un villaggio turistico e tutto ciò che salterà alla mente ad una classe dirigente incapace di pensare ad un futuro che non sia la speculazione edilizia. Si possono infatti superare vincoli urbanistici e paesaggistici: ci pensa l'accordo di programma.

Il meccanismo, come abbiamo visto, potrà partire su richiesta delle imprese: le grandi lobby del turismo internazionale e nostrano ringraziano il presidente imprenditore e i suoi ispiratori. Le prove generali di questo nuovo trionfo del mercato senza regole erano state fatte proprio dal primo ministro nella sua più riuscita comparsata a Lampedusa. Nel promettere alberghi e campi da golf, disse: «Abbiamo la possibilità anche di fare delle zone a burocrazia zero. Cosa significa? Che mentre adesso per aprire un ristorante, per aprire un negozio ci vogliono autorizzazioni su autorizzazioni, in quelle zone si potrà far tutto, rispettando i regolamenti edilizi, rispettando le norme igieniche sanitarie, e il Comune manderà soltanto successivamente alla realizzazione dell'opera un suo incaricato a verificare che siano state costruite le opere in osservanza a tali regolamenti e se è il caso chiederà che vengano apportate le opportune modifiche».

Anche in questo caso il Sole 24 Ore non ha fiatato. Forse perché le norme sono state scritte da qualcuno che frequenta via dell'Astronomia. Ma i Distretti turistico-alberghieri insieme alle zone a burocrazia zero rappresentano un'altra tappa, l'ultima forse, del processo di dissoluzione del governo pubblico del territorio e del cammino italiano verso l'inciviltà. E, purtroppo, non c'è opposizione parlamentare in grado di scuotere il paese dal torpore.

Mare privatizzato, l'Ue «preoccupata»

Bruxelles «Non è quello che ci aspettavamo».

Già un'infrazione contro l'Italia

Ci ha impiegato meno di 24 ore, la Commissione europea, a preoccuparsi del decreto Tremonti. Con una procedura d'infrazione ancora non risolta contro l'Italia per il sistema sulle concessioni marittime, che prevede il loro rinnovo automatico ogni sei anni, Bruxelles è rimasta «sorpresa» dalla notizia sul «diritto di superficie» su coste e litorali per un periodo di 90 anni. Il dubbio di Bruxelles è che il provvedimento sia contrario alle regole del mercato unico e della libera concorrenza. E si aggiunge alle critiche già giunte dagli ambientalisti e dai timori dei consumatori di rincari dei prezzi negli stabilimenti attorno al 6%. «Non abbiamo ricevuto nessuna notifica da parte delle autorità italiane, ma se i rapporti letti sulla stampa sono corretti e confermati, saremmo molto sorpresi perchè non sarebbe ciò che ci aspettavamo», ha detto Chantal Hughes, portavoce del commissario francese al mercato interno Michel Barnier. «Ci aspettiamo chiarimenti da parte delle autorità italiane, la nostra richiesta sarà inviata il più presto possibile», ha precisato. «La reazione ufficiale e formale della Commissione al decreto - ha detto ancora - arriverà solamente quando avremo visto e analizzato in dettaglio il provedimento». Il contenzioso riguarda in particolare la Direttiva servizi del 2006 che regola il settore del turismo. All'articolo 12 viene sancito che per le attività per le quali le risorse sono limitate (come nel caso dei litorali), le autorità pubbliche sono tenute ad applicare «una procedura di selezione trasparente ed imparziale, che permetta a tutti gli operatori interessati di candidarsi». La portavoce ha parlato di tempi «appropriati e limitati» per garantire agli operatori di pianificare i propri investimenti per un periodo certo, lasciando contemporaneamente a tutti quelli che lo desiderano la possibilità di stabilire un'impresa. Per avere infranto queste regole, Bruxelles ha aperto una procedura contro l'Italia (le due lettere di messa in mora sono state il 29 gennaio del 2009 e il 5 maggio del 2010), che se non risolta potrebbe portare le autorità italiane davanti alla Corte di giustizia Ue

Cgil/ Vincenzo Scudiere,

«Così non si aiuta lo sviluppo, ma il business selvaggio»

di E. Ma.

«È una risposta totalmente insufficiente alla crisi. Con questo decreto legge non si dà impulso alla crescita e non si aiuta lo sviluppo del Paese». È netto e decisamente negativo il giudizio di Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil con delega all'industria.

Il dispositivo che il ministro Tremonti ha portato in consiglio dei ministri proprio alla vigilia dello sciopero generale è un tentativo di rispondere alle vostre istanze?

Da una prima lettura, appare evidente che questo decreto legge è utile alla propaganda elettorale del governo ma, a parte alcune semplificazioni di procedure che sono apprezzabili, non corrisponde alle finalità dichiarate. Non si capisce con quali e quante risorse intendono finanziare la ricerca, per esempio. Nel provvedimento, poi, non ho trovato alcuna corrispondenza con le dichiarazioni del giorno prima riguardo le 67 mila assunzioni nella scuola di docenti e personale Ata: in realtà non ci sono numeri e quindi il decreto non dà alcuna risposta certa alle migliaia di lavoratori precari da riassorbire.

Si introduce il credito d'imposta per i nuovi assunti nel Mezzogiorno, non va bene?

Va sempre bene, ma per affrontare la crisi di un Paese che è in coda in Europa, con un tasso di disoccupazione tendenziale oltre il 18,4%, e punte fino al 40% al Sud, soprattutto tra giovani e donne, ci vorrebbero politiche più incisive.

Sembra che Tremonti voglia dare una mano alle piccole e medie imprese, è così?

In Italia c'è una crisi vera nel settore dell'edilizia: negli ultimi due anni si sono persi oltre 200 mila posti di lavoro, anche se una parte si è trasformata in lavoro nero. Per rilanciare l'edilizia ci sarebbe bisogno di investimenti infrastrutturali seri e di un vero piano casa, solo così si può aumentare la crescita nel settore.

Non basta?

Non basta ma anzi, si fa un danno al Paese. Perché il piano casa aumenta le cubature, mette in mora le competenze delle regioni e non risolve la priorità dei 150 mila sfratti previsti per quest'anno. Alle famiglie si dà l'illusione di poter trasformare un mutuo da tasso variabile a fisso senza dire che si dovrà pagare un onere subito. Velocizzando poi l'affidamento di opere pubbliche fino a un milione di euro senza gara d'appalto ed eliminando così la possibilità di avere regole trasparenti come chiediamo da tempo, non si fa altro che dare il via libera a una nuova speculazione del cemento. Insomma, così non si rilancia l'edilizia italiana, si aiuta solo l'edilizia selvaggia. Non è un aiuto alla piccola e media impresa, la si illude spingendola di fatto verso la speculazione.

Abusivismo/ Rosania, ex sindaco di Eboli

«È un assalto al territorio

In Campania sarà una giungla»

di Eleonora Martini

«Il decreto sviluppo? La prima impressione è di un vero e proprio assalto al territorio, come dire "siamo nella giungla". A mio avviso la semplificazione delle procedure dovrebbe passare attraverso un potenziamento e una crescita degli uffici territoriali competenti, non certo eliminando qualsiasi forma di controllo sull'area». Gerardo Rosania oggi è consigliere comunale di Sel a Eboli, ma da sindaco della sua città diventò quasi un simbolo della lotta all'illegalità e alla speculazione edilizia. Fu tra i primi ad avere il coraggio di abbattere, per rilanciare il turismo e lo sviluppo della costa del Sele. Tra il 1998 e il 2001 demolì 472 edifici costruiti dalla camorra sul litorale di Eboli.

Avete liberato l'area costiera, e poi?

Poi cercammo di intervenire anche sugli stabilimenti che privatizzavano tutta la spiaggia, invadevano il bagnasciuga e addirittura spesso entravano nel mare, su palafitte, anche per 20 metri. Adottammo un piano spiagge per disciplinare questo tipo di insediamenti turistici, cercando di definire il limite della concessione, ma fummo costretti a fermarci per la marea di denunce che ci piovvero addosso. Abbiamo vinto tutti i ricorsi amministrativi ma la sentenza assolutoria penale arrivò solo 5 anni dopo la mia legislatura. Nessuno ci ha mai più riprovato e oggi sono quasi tutti condonati.

E allora cosa pensa del decreto sviluppo?

La prima impressione che ho avuto è che questa normativa tende a sottrarre un pezzo del territorio al governo locale e a cristallizzare pericolosamente la situazione per 90 anni. Per esempio nella nostra costa, a sud di Salerno, in 20 anni il mare ha eroso circa 30 metri di bagnasciuga. Ora, davanti a questi fenomeni naturali bisognerebbe poter pianificare l'utilizzo delle aree demaniali e ricalibrare le concessioni.

Aumento della volumetria, permessi di costruzione facili, appalti senza gara: cosa prevede possa accadere dalle sue parti?

Una giungla, un vero e proprio assalto al territorio. Pensi che già ora, in Campania Sicilia e Calabria si concentra l'80% dell'abusivismo edilizio italiano. Figuriamoci dopo: posso sbagliarmi ma mi sembra che il governo confonda la necessità di semplificare le procedure con l'eliminazione di qualsiasi forma di controllo. Governare significa pianificare, non lanciare costruire e poi eventualmente bloccare chi non è in regola. I comuni non sono più in grado di controllare per le pessime condizioni finanziarie e per mancanza di personale, potranno intervenire solo dopo le denunce dei cittadini Perciò questa logica del silenzio assenso si trasformerà in «costruisci e fai quello che ti pare».

Caro Cervellati, non ho trovato un modo migliore di questa lettera aperta per dirle il dispiacere e lo sconcerto dopo il suo annuncio di votare Lega Nord alle prossime elezioni comunali di Bologna.

Sentimenti i miei che derivano dalla stima grande che le porto da circa 30 anni. Ero segretaria del pci di Lugo quando la incontrai per la prima volta assieme al sindaco di quella città, affidammo infatti a lei il progetto di restauro e recupero del teatro Rossini e non ce ne pentimmo perché lei restitui a noi e alla città un vero gioiello. Poi il mio impegno si spostò a Bologna e dopo a roma nella segreteria nazionale dei ds come responsabile ambiente e territorio e in parlamento. In quegli anni hanno lavorato con me Vezio De Lucia, Edoardo Salzano, Campos Venuti e molti altri e a qualche convegno nazionale di urbanistica ogni tanto abbiamo avuto il piacere della sua presenza. Cosi come nelle innumerevoli battaglie per contrastare i tanti condoni dell abusivismo fatti dai governi berlusconi/lega, e i tanti provvedimenti di deregolazione del governo del territorio. Io ho sempre letto i suoi articoli e i suoi libri,per me lei é un maestro. Mi sono studiata diversi dei suoi piani regolatori a partire da quello storico fatto a Bologna a quelli di molte altre città. E quando qualcuno degli amministratori locali chiedeva a me indicazione e pareri su quali fossero gli urbanisti che avevano più a cuore il nesso ambiente territorio e i temi centrali della sostenibilità e del recupero urbano il suo nome, assieme a quelli che ho citato prima, era sempre presente.

So bene che a Bologna il centro sinistra non fornisce, da tanti anni , prove brillanti e che ciò che é mancata di più é stata proprio un’idea della città, della mobilità, della qualità urbana. Conosco e condivido con lei i giudizi pesanti su alcune delle scelte fatte ( come il Civis) e anche io ho perso spesso le speranze perché non vedevo rinascita culturale,pensieri e progetti adeguati ad una città che tanto aveva saputo dire alle altre e precorrere riforme importanti con coraggio.

Ma basta la delusione per rivolgere il proprio voto ad una formazione politica come la Lega Nord? Lei ha parlato di fine delle ideologie e dunque di un voto che valuta solo il merito. Ed é appunto al merito che io cerco di stare. Anche se i principi per me sono importantissimi e non mi pare mai possibile metterli tra parentesi.

Ma torniamo al merito. A quello più recente. Quella Lega che lei sarebbe intenzionato a votare, proprio ieri, nel consiglio dei ministri ha dato il suo voto favorevole ( come sempre ha fatto su tutti i provvedimenti di questi anni) ad una norma che introduce di nuovo il silenzio assenso su un piano casa che ha tutti i difetti che sappiamo e ,cosa ancora più grave,alla privatizzazione per circa un secolo della gestione delle spiagge demaniali. Non posso pensare che lei non abbia sobbalzato come me nel leggere quei provvedimenti. Oltre a questo a me sembra che quella Lega che lei vorrebbe votare sia un partito solo apparentemente pragmatico.

Si possono forse ignorare la xenofobia, i proclami contro l unità nazionale, una idea niente affatto solidale della convivenza,le ronde antimmigrati? Per quanto io mi sforzi non riesco a trovare nulla che accomuni la sua visione della città, della pianificazione e la sua raffinata idea di recupero della nostra storia e dei nostri beni culturali ai proclami della Lega e alla sua pratica concreta.

Io ho continuato a fare politica in modi diversi in questi anni, non ho aderito al Pd che trovo ancora un partito indeterminato e senza slancio, e la politica ha deluso parecchio anche me. Ma ci sono momenti bui e bisogna saperli attraversare ,continuando a cercare e senza perdere la propria storia. Lei professore ne ha una, ed é una storia che a me pare segnata da principi,idee e progetti ( che in tante città ha saputo concretizzare) che nulla hanno a che vedere con la Lega Nord. Mi auguro che lei ci ripensi .Perchè questa sua decisione potrebbe alimentare, pur non volendolo, astensionismo e disinteresse, che purtroppo sono già molto estesi.

So bene che con questa lettera ho forse troppo pesantemente interferito su di una scelta che é solo sua,ma lei é stato ed é un punto di riferimento per tante e tanti che con il mio stesso sconcerto hanno letto la sua dichiarazione. Non potevo far finta di nulla. Non é nel mio carattere disinteressarmi. La saluto con la stima di sempre,che non verrà meno qualunque scelta lei decida di fare. cordialmente

Vedi qui l'intervista di Cervellati

© 2025 Eddyburg