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L´ex-premier è imputato a Milano quale corruttore in atti giudiziari: una parte congeniale, visti i precedenti, stavolta tintinnano 600mila dollari all´avvocato londinese David Mills, esperto in labirinti fiscali nonché servizievole testimone. Lo racconta il predetto, confesso in Inghilterra e Italia, sicché alla difesa resta solo l'arma del perditempo, tanto da estinguere i reati. Monsieur B. aveva ricusato l'intero collegio: è la nona volta e soccombe ancora, impassibile. Le sue guerre forensi sono materia da stomaco forte, dove onore, verità, belle figure dialettiche contano poco. Se l´asserito reato esista e sia ancora punibile, doveva dirlo il Tribunale.L'ha detto: esiste e nei suoi calcoli risulta estinto dal tempo; era punto controverso. In lingua meno tecnica, l´impenitente corruttore schiva la pena e gli resta il marchio: fosse dubbio il fatto, sarebbe assolto; non se ne vanti, quindi. Avere schernito Dike con i versi della scimmia è titolo da compagnia equivoca: infatti vi gode un meritato culto, patrono con aureola; Kronos mangia i delitti.
L'analisi comincia dalla persona.

Esistono italiani intolleranti della serietà: preferiscono Crispi a Cavour; detestano Giolitti; liquidano De Gasperi; amano i buffoni, specie quando emergano aspetti sinistri. Mussolini li incanta con le smorfie al balcone e sotto la divisa da primo maresciallo dell´Impero: vola, nuota, balla, scia, miete, batte il passo romano, farnetica glorie militari; dopo vent´anni resterebbe a vita nella sala del mappamondo se non muovesse guerra a tre imperi. Berlusco Magnus è catafratto nella sicumera degl´ignoranti: sguaiato megalomane, ha fantasia fraudolenta, menzogna estrosa, occhio sicuro nel distinguere i lati peggiori dell´animale umano; vìola allegramente ogni limite.

Le sue gesta stanno in quattro verbi: corrompe, falsifica, froda, plagia (mediante ipnosi televisiva, allevandosi una massa adoperabile); cervelli e midolla sono materia plastica. Due mosse strategiche dicono cos´abbia in mente: appena salito al potere, homo novus, propone guardasigilli l´avvocato che gli combinava ricchi affari loschi (il capolavoro è la baratteria con cui s´impadronisce della Mondadori comprando una sentenza); e degrada a bagatella il falso in bilancio, importantissimo nella diagnostica penale. In due legislature, padrone delle Camere, attua quel che sarebbe appena immaginabile in monarchie piratesche: governo personale, quasi lo Stato fosse roba sua; brulicano voraci faune; i convitati spolpano l´Italia.

L´effetto non tarda. Fanno testo i numeri forniti dalla Corte dei conti: 60 miliardi l´anno nel giro d´affari corrotti; e un´evasione fiscale calcolabile in 100-120 miliardi; invano il Consiglio d´Europa raccomanda misure contro la tenia economica (verme nient´affatto solitario, visto come gavazzano P3, P4 et ceterae); il governo non batte ciglio. Metà dell´intera patologia europea fiorisce qui. Dove porti la politica del laissez manger, è presto detto: traslocando nel novembre 2011, sotto l´assalto dei mercati, l´Olonese lascia un debito pubblico pari a 1.905.012 (miliardi d´euro) ossia il decuplo dell´annua emorragia malaffaristica; aveva governato otto anni e mezzo, «uomo del fare». I conti tornano.


Estinzione del reato, dunque, e se l´è sudata: incasserebbe i quattro anni inflitti a Mr Mills da Tribunale e Corte d´appello se le Camere affollate da uomini e donne del sì non votassero un malfamato lodo che vieta i giudizi penali nei suoi confronti, quia nominatur leo, strapotente capo del governo; quando va in fumo, dichiarato invalido, gli servono un privilegio dell´impedimento d´ufficio a comparire nell´aula. Così passano settimane, mesi, anni. Era latta anche questo scudo: finalmente compare ma nominor leo, quindi concede al massimo un giorno alla settimana e il dibattimento, illo tempore sospeso, deve ripartire davanti a un collegio diverso; il tutto basta appena, essendosi Sua Maestà accorciati i termini della prescrizione, con relativa amnistia occulta. Caso mai non bastasse, aveva pronte due leggi da manicomio: l´imputato ricco allunga finché vuole i dibattimenti arruolando testimoni a migliaia, e sul processo pende una mannaia; scaduto il termine, gli affari penali svaniscono.

Sembrano incubi d´un cattivo sonno. No, è vergognosa storia recente. Come Dio vuole, sabato 12 novembre 2011 esce dal Palazzo avendo condotto l´Italia a due dita dalla bancarotta, ma non pensiamolo depresso: cova revanche; arrotano i denti dignitari, sgherri, domestici d´ambo i sessi, infuriati dalla prospettiva d´una ricaduta nel nulla. Mercoledì 22 febbraio nelle tre ore del colloquio col successore tocca argomenti caldi quali Rai e giustizia: le cosiddette «carriere separate» ossia un pubblico ministero governativo, che dorma o azzanni, secondo gli ordini; non dimentichiamo chi voleva installare in via Arenula. Gli spiriti animali restano integri. Lo confermava l´energico sostegno al piano delle Olimpiadi, come se opere colossali, talora finte, non avessero divorato abbastanza denaro; particolare pittoresco, sedeva a banchetto qualche gentiluomo del papa.

La Corte dei conti (16 febbraio) chiede due misure dal senso chiaro: riconfigurare comme il faut il falso in bilancio; e un regime equo della prescrizione, l´attuale essendo criminofilo.
Ogni tanto lamenta d´avere speso somme enormi in parcelle. Parliamone: ai bei tempi penalisti d´alta classe giostravano nel merito delle cause, fatto e diritto, sdegnando i cavilli procedurali; dura il ricordo d´avvocati giuristi quali Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, morti quasi poveri dopo una lunga vita in cattedra e sui banchi giudiziari. Erano sapienti ma disadatti al mestiere, commentano eroi del Brave New World, scambiando sogghigni porcini. L´immagine viene da Orwell, nella cui molto istruttiva Fattoria degli animali comandano maiali umanoidi dal freddo aplomb manageriale: una specie importante; chiamiamola verres erectus. Siamo salvi dal default. Deo gratias. Rimane una questione grave: quanto mordano nel codice genetico gli ultimi vent´anni; anzi, trenta, se v´includiamo l´antipedagogia televisiva.

Rossana Rossanda, da lontano, ripetutamente, ci suggerisce, ci sprona, qualche volta ci sferza. È una fortuna, per tutti noi, avere una tale voce libera, oltretutto cara, di stimolo e di confronto. A volte, come nell'ultimo, «il manifesto» del 18 febbraio, «Un esame di noi stessi», viene avanti un discorso puro e semplice di verità. L'esame di se stessi, il tentativo di raggiungere un'autoconsapevolezza delle proprie ragioni di vita, è una dimensione alta dell'essere umano, purtroppo ancora privilegiata, a disposizione dei pochi che possono permettersela. Dimensione eterna. La modernità l'ha poi declinata e assai complicata nella forma dell'agostiniano inquietum cor nostrum, o nello scetticismo libertino alla Montaigne. E tra Otto e Novecento è andato a cercarla negli abissi insondabili dell'inconscio. Comunque, è indubbio che il fermarsi un momento per chiedersi: a questo punto, chi sono, o che cosa sono diventato, è un buon esercizio di intelligenza di sé e del mondo. Ancora più necessario, e forse più difficile, quando si tratta di dire: chi siamo e che cosa siamo diventati.

Ma la smetto subito con queste supponenti considerazioni e passo a vie di fatto. Mi pare che Rossana Rossanda abbia fatto un discorso di questo tipo: ha preso le difficoltà recenti e crescenti del giornale per leggerle come metafora delle difficoltà recenti e crescenti, non di quella sinistra come parola ormai «assai vaga», ma di quella precisa sinistra che ha insistito fin qui a chiamarsi comunista. Ho colto nella voce di Valentino Parlato, quando mi invitava ad intervenire sulla questione, una preoccupazione, che è, penso, di molti compagni e compagne. Che comunisti non ci si possa dire più nei tempi brevi, porta come conseguenza, come ne ha rapidamente dedotto Giorgio Ruffolo, che non ci si possa più dire tali anche nel tempo lungo, quando, come si sa, saremo tutti morti? È un bel problema. Non si risolve qui. Non si risolverà negli anni immediatamente a venire. Lasciamo alle generazioni del XXI secolo la questione aperta. Sui nomi di senso, di significato simbolico, io applico quella categoria somma della politica moderna, che è la Prudenza. Non abbandono un nome finché non ne ho trovato un altro al suo livello di espressività, mutate tutte le circostanze. Non dimentichiamo che la nostra parte sta scontando il purgatorio di aver opposto alla «distruzione creatrice» del capitalismo la decostruzione dissolutrice del socialismo.

Una volta si diceva che per raggiungere un certo obiettivo, ci voleva «ben altro». Oggi si dice che bisogna andare «ben oltre». Dietro le voci soliste che cantano la canzone dell'andare oltre la sinistra, c'è il coro numeroso e chiassoso che ripete il ritornello: non c'è più né destra né sinistra. Nella loro lingua, non c'è vuol dire che non ci deve più essere. Lì abbasso il volume e smetto di ascoltare. C'è, pronto all'uso, un altro nome per definire e per far vedere quel campo di forze che sta di fronte all'interesse capitalistico in modo autonomo, centrato sul mondo del lavoro e con intorno tutte quelle figure, e quelle domande, e quelle questioni, e quelle dimensioni, che solo in riferimento ad esso acquistano senso e soprattutto prendono forza, come soggettività alternativa? Linke, Gauche, Left, Izquierda: fosse per me, direi di questo soggetto, politico, solo Sinistra, con un rosso di bandiera e nessun altro simbolo. Tutti capirebbero, senza bisogno di pubblicitari della comunicazione. E comunque non è dal nome e dalla bandiera che bisogna ripartire. Prima ancora del famoso «che fare», c'è oggi di fronte a noi un inedito «chi essere».

Due obiezioni, di fondo. Una. Quelli che si dicono sinistra, oggi, nella parte maggioritaria, danno un'immagine, appunto, molto più vaga, non riconoscibile nel senso forte detto sopra. Risposta: ma allora non si tratta di cambiare il nome, si tratta di cambiare l'immagine di chi lo porta, ceto politico, programma, azioni, intenzioni. Due. Quella rossa Sinistra potrebbe mai essere partito a vocazione maggioritaria? Risposta: e perché, no? Basta, anche qui, non ascoltare la cantilena: vecchia, residuale, la testa rivolta all'indietro, novecentesca, che poi è sempre il massimo dell'insulto, e tutto il fuoco di sbarramento dell'egemonia dominante.

Se c'è, qui e ora, nella contingenza e nell'epoca, un bisogno storico è il bisogno di Sinistra. La crisi, generale, di questa forma di capitalismo lo ripropone in grande. E questa crisi lo ripropone sulla spinta del fallimento di tutto intero un ciclo che si è approssimativamente definito di globalizzazione neoliberista, ma che è stato in realtà nient'altro che un'età di restaurazione per un comando assoluto del capitale-mondo su tutti i mondi della vita, che nei trent'anni gloriosi avevano preso parola di autonomia, di rivendicazione, di conflitto, e di speranza non per l'innovazione ma per la trasformazione. Il fallimento sta nel risultato di società sempre più insopportabilmente divise tra l'alto e il basso, tra privilegi e povertà, tra mito del benessere e disagio dell'esistenza. Non passa quasi giorno che istituti vari di rilevazione non ci informino sul divario crescente tra redditi di lavoro e profitti di capitale. E allora? È una legge di natura o è un difetto di società?

Che cos'è Sinistra se non, su questo, alzare la voce e chiamare alla lotta? Abbiamo di fronte un anno, due anni, decisivi. Qualcosa può accadere nel direttivo di testa dell'Europa. Il signor Sarkozy e la signora Merkel potrebbero non essere più al loro posto di comando. E il famoso dopo Monti sarebbe bello e risolto. L'ambiguo Obama troverebbe alleati più sicuri. Un fronte di resistenza al super potere che la gabbia d'acciaio delle compatibilità finanziarie impone ai movimenti della politica, potrebbe assicurare più agevoli percorsi di governo. Perché questo è il vero problema. Non tanto portare al governo le sinistre, ma rendere praticamente, cioè appunto, politicamente, possibile un governo della Sinistra. In questo contesto, la discussione se dirci o meno ancora comunisti, non mi sembra proprio la cosa più urgente. Figuriamoci! Oggi spaventa perfino la parola socialdemocratico, che non ha mai spaventato nessuno, nemmeno i capitalisti, che hanno benissimo convissuto con quelle esperienze di governo, e che pure, in tempi recenti, hanno spinto le terze vie a dirsi liberaldemocratiche. Oggi l'unico spettro che si aggira per l'Europa è il rischio di default dei loro conti in rosso, derivati, è il caso di dirlo, da un'improvvida gestione dei loro interessi. È qui, in questo anello debole, che bisognerebbe andare a colpirli, se ci fosse in campo una forza anche per poco con memoria, orgogliosa, di quello che è stato il movimento operaio. Ricostruire questa forza, è il programma massimo che ci sta di fronte. La cosa semplice, difficile da farsi, più o meno come il comunismo, nelle disperate condizioni attuali. Abbiamo letto gli atti di un incontro, in quel di Londra, sull'idea di comunismo: ecco, lì, pensatori che parlano oscuro, non sapendo che fare in politica l'hanno buttata in filosofia, ricominciando da Platone. Il comunismo che riconosco è quello: Manifest der kommunistischen Partei, 1848. Lì comincia una storia. La fine della storia, per quanto mi riguarda, coinciderà con la fine di un'esistenza. Nel frattempo - viviamo politicamente nel frattempo - c'è da combattere e possibilmente sconfiggere un avversario di classe. Quando vedo incedere la figura del professor Monti, non ho dubbi. Poi, posso anche stringere con lui un compromesso, provvisorio. Ma dalla parte opposta: la parte del torto, come recitava un bello slogan di quest'altro manifesto, in quanto parte di una sacrosanta ragione.

Il problema è di far vivere il giornale, non quello di cambiare la ragione della sua vita. La ricostruzione di una forza politica, di un soggetto unitario, per una Sinistra modernamente popolare, armata di idee e riconosciuta dalle persone, richiederà anche un giornale unico, di popolo e di cultura. può giocare qui la sua di storia: che è quella delle origini, ma anche quella che in questi decenni ha visto generazioni di lettori in diretto colloquio con generazioni di collaboratori, con diverse idee e sensibilità e culture, però, appunto, viste da una parte. È stato il laboratorio di quello che adesso può esserci. Non è per domani, forse è per dopodomani. Ma per il dopodomani deve lavorarci da oggi. E' un filo, che non va spezzato, va ricongiunto al prossimo punto d'attacco.

L'articolo di Rossana Rossanda a cui fa riferimento Mario Tronti è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2) e Alberto Burgio (24/2)

Dopo la riscoperta di Marx è la volta di Lenin, interpretato come un agit prop del capitalismo di stato. La crisi sbriciola la messianica fiducia nel mercato e rende così attuali cassette degli attrezzi teorici troppo rapidamente considerate obsolete Un recente numero dell'«Economist» affronta il rinnovato protagonismo dello stato nella vita economica

Nell'ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell'economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l'acronimo «Nep» con cui è passata alla storia e poi nel dimenticatoio.

La sua idea di fondo era che, accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello stato, i bolscevichi avevano commesso l'errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La «Nuova politica economica» muoveva dal fatto che avevano subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica.

Era senz'altro comprensibile che molti si sentissero sgomenti, perché la svolta della Nep, implicando la possibilità per i produttori di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non era assorbito dalle imposte, significava in buona misura restaurazione del capitalismo. La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, era anzi proprio quella di capire chi avrebbe saputo approfittare della nuova situazione: avrebbero vinto i capitalisti, ai quali i bolscevichi stavano aprendo le porte prima serrate della produzione pubblica, e avrebbero cacciato i comunisti, oppure il potere statuale, continuando a regolare la moneta e la produzione, sarebbe riuscito a tener ferme le redini al collo dei capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo stato e posto al suo servizio? Molto sarebbe dipeso dal partito comunista: se gli fosse riuscito di organizzare i produttori immediati in modo da sviluppare le loro capacità e di garantire a questo sviluppo il sostegno dello stato, bene; altrimenti, essi sarebbero stati presto asserviti al capitale.

Globalizzazione burrascosa

Così, grosso modo, scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Si potrebbe facilmente rilevare che, rilette oggi, le sue parole sembrano una gigantesca metafora del «secolo breve», quasi che cent'anni di evoluzione e rivoluzioni in Europa (e non solo) fossero stati lì contratti in meno di un decennio. Ma non è su questo che qui vorremmo richiamare l'attenzione. Il punto è che nell'analisi di Lenin sta racchiusa l'intera problematica del «capitalismo di stato»: che è questione nient'affatto tramontata, se perfino l'Economist ha sentito il bisogno di dedicarvi un corposo inserto (quattordici pagine!) nell'ultimo numero del mese scorso. Per metterla in forma di domanda: davvero il capitalismo di stato rappresenta un modello che - come scrive il settimanale inglese - sta emergendo a livello mondiale come alternativa al capitalismo liberale di marca angloamericana? E prima ancora, che cos'è il «capitalismo di stato»?

Da un punto di vista fenomenologico, possiamo descriverlo con le stesse parole dell'Economist: il capitalismo di stato «cerca di fondere le forze dello stato con le forze del capitalismo». La promozione della crescita economica è affidata all'azione dei governi, ma essi nel perseguirla si avvalgono anche di strumenti tipici del capitalismo, ivi comprese aziende statali quotate in borsa che nuotano come pesci nel mare della globalizzazione. Una miscela apparentemente contraddittoria che però funziona: a fronte della crisi economica in cui sono drammaticamente precipitate le economie capitalistiche occidentali, il capitalismo di stato può infatti contrapporre il più grande successo economico degli ultimi trent'anni, ossia quel «miracolo cinese» fatto di tassi di crescita del Pil del 9,5% all'anno. Lo stato cinese - ci ricorda l'Economist - non è soltanto il maggiore azionista delle 150 aziende più grandi del Paese, né semplicemente una guida o un pungolo per migliaia di altre: specialmente attraverso il potente Dipartimento dell'organizzazione del Partito comunista, esso plasma nell'insieme il mercato attraverso la gestione della moneta e delle politiche creditizie, indirizzando i flussi di denaro coerentemente con le scelte di politica industriale, e per di più lavora a stretto contatto con le aziende cinesi che si stanno espandendo all'estero (specie nel continente africano).

Lo Stato va in Borsa

Non si tratta, peraltro, di un'esperienza unica nel mondo industrializzato. Le aziende pubbliche costituiscono l'80% della capitalizzazione della borsa cinese, ma anche il 62% di quella russa e il 38% di quella brasiliana: come dire che è in gran parte del «Bric» (l'acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina) che il capitalismo di stato sta celebrando la sua marcia trionfale. Per non parlare dell'espansione dei «fondi sovrani» cinesi e arabi (ma anche norvegesi, russi, australiani), attraverso i quali il Leviatano statale, dopo aver vestito i panni del capitalista industriale, assume anche le sembianze del capitalista finanziario.

Ad una più attenta analisi, tuttavia, la fenomenologia del capitalismo di stato rivela un doppio paradosso. Soprattutto (anche se non solamente) in Cina, le aziende di stato sono diventate più efficienti e più potenti proprio mentre il settore statale complessivamente considerato si restringeva; d'altra parte, la capacità dei governi di incidere sulle leve fondamentali dell'economia si è accresciuta proprio mentre il settore privato si espandeva. L'Economist lo rileva, ma non riesce a darne una spiegazione. Affermare che, in un regime di capitalismo di stato, «i politici hanno di gran lunga più potere che sotto il capitalismo liberale» è semplicemente tautologico: il problema è infatti proprio quello di spiegare che cosa conferisca loro questo potere di «utilizzare il mercato per promuovere fini politici».

C'è un'impegnativa e assai poco meditata affermazione di Lenin dalla quale possiamo prendere le mosse per spiegare il paradosso. Risale ad un testo scritto nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione d'Ottobre e suona così: «il capitalismo monopolistico di stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». Non è un caso che Lenin la riprenda testualmente in uno intervento (Sull'imposta in natura) che appare proprio nell'anno della svolta verso la Nep: letta insieme ad un'altra che di poco la precede e che spiega il senso della topica («Non significa forse, quando si riferisce all'economia, che nel regime attuale vi sono degli elementi, delle particelle, dei pezzetti e di capitalismo e di socialismo?»), essa mette in chiaro che, nell'opinione del leader bolscevico, l'espressione «capitalismo di stato» nasconde in realtà una duplice problematica: 1) se, e a quali condizioni, la proprietà statale dei mezzi di produzione possa dar luogo a nuovi rapporti di produzione di tipo «socialista»; 2) se, e in che modo, codesti nuovi rapporti di produzione possano coesistere con quelli preesistenti di tipo capitalistico.

Volgendo lo sguardo indietro allo sviluppo economico sovietico degli anni Venti del Novecento, possiamo in effetti apprezzare la pregnanza dell'ipotesi leniniana. La Nep fu bensì connotata da un ampio sviluppo del commercio, dal ristabilimento del ruolo allocativo della moneta e più in genere dall'influenza che i movimenti dei prezzi tornarono ad esercitare sulle scelte di consumo e investimento. Ma fu altresì caratterizzata dall'espansione di un insieme di apparati statali che sottraevano parzialmente la riproduzione allargata dall'influenza diretta dei rapporti mercantili, grazie soprattutto al ruolo svolto dalla pianificazione, dalla centralizzazione del bilancio pubblico e dalla realizzazione di programmi pubblici di investimenti.

Tra Mosca e Weimar

Per altro verso, la spinosa querelle che a metà del decennio si accese all'interno del partito bolscevico circa il carattere «genetico» o «teleologico» della pianificazione, nascondeva la questione (non meno decisiva) se codesta sfera di attività produttive finalmente sottratta all'imperio dei rapporti mercantili dovesse essere complessivamente subordinata al funzionamento del sistema capitalistico o posta, viceversa, in posizione relativamente dominante. Fintanto che si fosse limitato a riflettere le tendenze «spontanee» del sistema economico, il piano non avrebbe mai potuto assurgere a criterio orientativo delle scelte produttive fondamentali a prescindere dalla loro redditività monetaria: per liberare le scelte di politica economica (a cominciare da quella relativa all'industrializzazione) da un impiccio del genere, occorreva al contrario spezzare la logica del pareggio di bilancio, il che a sua volta richiedeva un sistema bancario capace di assecondare le crescenti esigenze di espansione monetaria, evitando al contempo che quest'ultima degenerasse in un'inflazione rovinosa come quella che, giusto in quegli anni, affliggeva l'esperimento socialdemocratico di Weimar.

Il laboratorio di Shenzen

Sta qui, in questo complesso mix di misure reali, monetarie e finanziarie, l'arcano che può consentire allo stato di sottrarre le condizioni d'impiego dei mezzi di produzione (ivi compresa la forza-lavoro) alle esigenze di valorizzazione del capitale. E sta nella duplicità dei rapporti che vengono a presiedere il processo complessivo di produzione e riproduzione sociale il segreto del movimento inversamente oscillatorio della disoccupazione e dell'inflazione che, molti anni dopo, A.W. Phillips avrebbe formalizzato nella sua famosa curva. Già all'epoca della Nep, il prevalere dell'una o dell'altra avrebbe infatti costituito una spia della (relativa) dominanza assunta dall'uno o dall'altro sistema di rapporti di produzione: quelli capitalistici ovvero quelli statuali.

Si racconta che nel 1980, all'indomani del varo della prima «Zona economica speciale» di Shenzhen, i dirigenti cinesi si affannassero a cercare nelle Opere complete di Lenin un qualche appiglio che potesse giustificare la scelta di concedere a privati cittadini diritti di uso e di trasferimento che concernevano il lavoro, i mezzi di produzione, gli edifici e perfino la terra. Non c'è da stupirsi che, alla fine, l'abbiano scovato proprio in alcuni testi redatti all'epoca della Nep, né che Chen Yun - che tra i leader storici del Pcc è stato forse il maggior esperto di pianificazione economica - abbia fin da subito proposto di circoscrivere l'esperimento riformatore iniziato nel 1978 nell'ambito dell'«economia dell'uccello in gabbia»: nella capacità di suscitare le forze dello sviluppo capitalistico e al contempo di controllarle in modo che «non volassero via» possiamo in effetti scorgere la principale realizzazione della strategia trentennale dei comunisti cinesi.

Messa la cosa in questi termini, risulta certo più chiaro il significato di certe espressioni ossimoriche così tipiche dei dirigenti cinesi, a cominciare da quella di «economia di mercato socialista». Il fatto è che il «mercato» è semplicemente un proscenio, ovvero (e più precisamente) una delle istituzioni sociali in cui si manifesta il nesso di dominanza/subordinazione concretamente esistente fra i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di produzione statuali («socialisti»). E il fatto che al momento siano questi ultimi ad essere saldamente attestati in posizione dominante è ciò che consente di giudicare la formazione economico-sociale cinese come irriducibilmente altra rispetto a quelle «capitalistiche» occidentali: non già perché all'interno di queste non si diano forme di cooperazione produttiva non più condizionate dal perseguimento del profitto monetario (basti pensare agli apparati pubblici preposti al welfare: scuole, ospedali, ecc.), ma semplicemente perché esse non sono (più) dominanti. L'infinita e stolida giaculatoria sull'«insostenibilità» del debito pubblico ne costituisce probabilmente la migliore conferma.

Il mercato del pubblico

Lascia perciò perplessi l'Economist allorché, a conclusione del suo rapporto, afferma perentoriamente che «la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà fra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo»: quel Lenin suggestivamente ritratto in copertina suggerisce piuttosto che la partita che si gioca intorno al «capitalismo di stato» è affatto aperta e per nulla predeterminabile nei suoi esiti ultimi.

Certo, si può sempre ritenere che il comunismo andrebbe ripensato «a partire dalla distanza dallo statalismo e dall'economicismo», come hanno sostenuto (quasi) tutti i partecipanti ad un importante convegno sull'«idea comunista» svoltosi proprio a Londra qualche anno fa. All'estremo opposto, dei comunisti che volessero prendere sul serio gli insegnamenti del «miracolo cinese» dovrebbero interrogarsi sulle ragioni del consenso di cui hanno goduto in Occidente quelle politiche economiche che hanno progressivamente smantellato analoghi strumenti di controllo e governo pubblico dell'economia capitalistica, che risalivano agli anni '30. Mi rendo conto, però, che è difficile credere che si diano parentele di sorta tra il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e lo Statuto del Partito comunista cinese approvato giusto 160 anni dopo. Se poi si è anarchici, è perfino impossibile.

Ho dato la mia convinta adesione alla campagna di sostegno al manifesto soprattutto perché ritengo che una società democratica non possa fare a meno delle ragioni e delle voci del dissenso che non siano espressione di interessi particolari ma di una concezione politica generale.

Rossana Rossanda si rivolge ("Un esame di noi stessi", il manifesto 18/2) ai compagni e collaboratori del manifesto per chiedergli di riflettere sulle loro ragioni: che è un modo per ripensare le ragioni della sinistra e particolarmente di quella che continua a riconoscersi nel "comunismo".

Lo fa in modo aperto e spregiudicato, senza usare i mezzi termini del linguaggio politico convenzionale. E va diritto al tema: «Che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora o perché non si possa dirlo più». La risposta è netta: «Io penso che nei tempi brevi non si possa dirlo più». La ragione? Da quando il manifesto è nato, tutto è cambiato. L'asse del mondo ruotava attorno al duopolio Usa-Urss.

Ora, gli Stati Uniti non sono più l'indiscussa potenza dominante del mondo capitalistico. Quanto all'Urss, non esiste più. Nel mondo di ieri quella contrapposizione aveva un senso, anche per quelli, come i comunisti del manifesto, che denunciavano la deriva stalinista del comunismo sovietico. Si trattava "soltanto" di ricondurre il comunismo dalla contraffazione del "socialismo reale" ai principi marxisti originari. Oggi "sostituire" politicamente il capitalismo con il comunismo non ha più alcun senso. Il primo si è disarticolato. Europa, paesi terzi, hanno preso strade diverse. Il secondo è sparito. La Cina è diventata un capitalismo selvaggio con base politica burocratica. Non possono quindi essere usati gli strumenti di analisi e le proposte di ieri. Ma quali allora?

Quanto all'Italia, anch'essa è cambiata radicalmente. Si sono moltiplicati i soggetti sociali. Non solo operai e studenti. Donne, ambientalisti, eccetera. Ma la sinistra non è stata capace di unire questi soggetti in un fronte capace di presentare un'alternativa al capitalismo. La società politica si è sfarinata, rigettando le vecchie forme politiche di potere senza introdurne di nuove, col risultato di aprire ampi spazi all'individualismo e al mercatismo, anche a sinistra. Berlusconi è nato da questa dissoluzione.

Senza nuove battaglie da combattere, la sinistra ha perso quella antica delle lotte operaie, non più centro strategico del conflitto sociale e quindi considerate da molti vecchie e superate. Si capisce che il manifesto, pur restando una voce intelligentemente critica, non evochi echi e non susciti successi di stampa, ma piuttosto frustrazioni, come quella con la quale Rossanda termina il suo articolo.

Pur condividendo alcuni dei suoi argomenti e comprendendo i sentimenti da cui nasce quella frustrazione, vorrei fare qualche brevissimo commento critico che a mio parere può giustificare qualche speranza.

Anzitutto, il più critico. Il comunismo non esiste come modello sociale concreto se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi. Non è mai esistito tranne che in alcune società arcaiche e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa nella quale interessi individuali e di gruppo debbano essere mediati rispetto all'interesse collettivo. È diventato una connotazione politica priva di qualunque contenuto. Non è dunque che non sia "più" proponibile nel periodo breve. Non è proponibile fino a quanto può la vista.

Il capitalismo non è affatto eterno anche se "ha i secoli contati". E può essere ampiamente modificato e riformato. Le cose sono cambiate, tutte, così come afferma Rossanda, dal tempo in cui nacque il manifesto. Il capitalismo è cambiato. Ha fatto il passo che il proletariato non ha potuto realizzare: proletari di tutto il mondo unitevi. Si è mondializzato. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione (la mercatizzazione dello spazio e del tempo) ha costruito un sistema di potere unificato (il mercato finanziario mondiale) che si impone a quello degli Stati. E ancor più: al potere delle classi lavoratrici. Se le lotte operaie hanno perso la loro centralità nel conflitto sociale, è perché alle loro rivendicazioni le imprese capitalistiche possono rispondere con le loro migrazioni. Andandosene. Vedi il ricatto Fiat.

Ciò sposta l'asse del conflitto tra capitale e lavoro dallo spazio nazionale a quello internazionale, da quello sindacale a quello politico. La battaglia per l'unificazione europea assume, da questo punto di vista, un'importanza primaria nel confronto con il capitalismo, nel ridurre, almeno in Europa, e non è poco, il divario di potenza tra economia e politica, oggi tutto a favore del capitalismo.

Le società moderne, inoltre, hanno sviluppato, insieme a formidabili capacità di produzione, altrettanto formidabili poteri di distruzione, che danno luogo a nuovi formidabili conflitti, ecologici e migratori.

La sinistra, se vuole rappresentare le ragioni dei più deboli e del futuro, deve collegare le lotte operaie a quelle che consentono di fronteggiare il capitalismo su fronti sui quali esso deve piegarsi alla volontà di più ampie forze sociali. Si tratta, per così dire, di prendere il capitalismo alle spalle. Ciò significa, ad esempio, affrontare il problema dei limiti quantitativi alla crescita e della promozione dello sviluppo qualitativo; promuovere con iniziative sociali la diffusione di imprese del terzo sistema delle relazioni gratuite; promuovere la costituzione della scuola permanente a tutti i livelli di età.

In senso generale, ciò significa impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo dell'essere piuttosto che la crescita dell'avere. Significa una sinistra impegnata non nell'abbattimento del capitalismo o, come oggi avviene, ridotta all'acquiescenza fattuale e alla contestazione verbale, ma nel suo superamento storico.

Magari c’è un obiettivo che non si può raggiungere finchè il capitalismo non viene storicamente superato: un obiettivo a cui qualcuno è interessato. E’ quello di una società nella quale lo sviluppo non consista nella crescita del PIL, la sua molla sia costituita dall’arricchimento dei più potenti, e in cui il lavoro non sia una merce utilizzata per la produzione di merci ma lo strumento universale per comprendere il mondo e governarlo, e l’economia sia governata dalla politica e definita in modo da consentire a ciascuno di consumare beni secondo i suoi bisogni e produrli secondo le sue capacità.

E’ certamente un obiettivo che non è dietro l’angolo, ma non sarà mai raggiunto se viene abbandonato, o se viene considerato metastorico. Occorre dare un nome a questo obiettivo? Chiamiamolo, se vuoi, comunismo; ma più importanti dei nomi sono i contenuti che con essi si vogliono esprimere (e.s.).

Della libertà di stampa al governo Monti non potrebbe importar di meno. Da buon liberista è convinto che un giornale è una merce come un'altra; se vende abbastanza ai lettori e agli inserzionisti di pubblicità, viva, se no muoia.
Lo strangolamento è stato bene illustrato l'altro ieri da Valentino Parlato. Ed era visibile dai nostri bilanci. La nostra asfissia è della stessa natura di quella che si tenta di applicare ai beni comuni non meno urgenti. A noi sembra importante anche la presenza di una voce fuori dal coro come la nostra, perché in un paese che ha mandato tre volte Silvio Berlusconi al governo, qualcosa non funziona. Né funziona che tanti amici si rallegrino che al posto d’un faccendiere impresentabile sia venuto un onesto e distinto liberista. Onesto personalmente, s’intende. L'onestà sociale non si sa più bene che cosa sia, e non importa più alla stampa salvo che a noi. Che siamo non solo un pezzo della sinistra, ma addirittura comunisti. Anzi, più che comunisti, nel senso che il comunismo dei “socialismi reali” non ci andava né su né giù. Per questo fummo esclusi dal Pci, ma per non essersi posti le nostre domande sui socialismi reali i partiti comunisti non esistono praticamente più.

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile: del manifesto è rimasta l’immagine di un quotidiano di sinistra, anzi di estrema sinistra. Ora è facile giurare sulla libertà di stampa finché questa non è dalla parte di chi ti attacca. E in Italia chi attacca il governo? E noi dove siamo? Come Parlato ricorda, il manifesto vende sempre meno da otto anni a questa parte. Il calo si è accelerato negli ultimi due. La media in cui ci eravamo tenuti nei nostri primi trenta anni è stata, poco più su poco più giù, di trentamila copie, non molto alta, eravamo un giornale di nicchia. Ma solida e rispettata nicchia. Ora si è circa la metà.

Dovremmo chiederci perché. Era nostra abitudine fare un punto almeno un paio di volte all’anno. Ma negli ultimi tempi la direzione non ha più convocato un'assemblea che faccia il punto sullo stato del mondo e dell'Italia e sul nostro orientamento in esso. Né la redazione, che può esigerlo, sembra averne sentito il bisogno. Neanche un attimo prima di arrivare a quella forma di liquidazione, non proprio un fallimento ma quasi, cui siamo costretti.

Non è stata una buona scelta. Non è infatti per nulla ovvio che cosa sia oggi un giornale

di sinistra, tanto meno uno che, sempre secondo Parlato, dovrebbe ancora definirsi comunista. Nel senso che dicevamo sopra, un comunismo che poco ha a che vedere con i “socialismi reali”, ma che realizzi un cambiamento del vivere e del produrre e che facendolo realizzi un più di libertà politica. Lo abbiamo detto in questi anni ancora? Si poteva dirlo? Si poteva crederlo? Questa è la domanda cui abbiamo smesso di rispondere cessando fra noi persino di farcela. Io tendo a credere che da questa reticenza venga il dimezzamento dei nostri lettori. Ma è una domanda cui non è semplice rispondere. Non è facile essere comunisti oggi, a più di trenta anni dal 1989. E appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora, o perché non si possa dirlo più.

Io credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa dirlo più. E non perché il sistema mondializzato sia diventato più umano, condiviso e condivisibile, meno feroce, più pacifico perché libero e un po' meno inegualitario, cosa che non vuol dire conformizzato. Non abbiamo mancato di scrivere che dal 1971 non sono soltanto passati molti anni, ma sono cambiate molte cose. Quasi tutte. Ma non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze. In questo la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra, almeno – sinistra essendo ormai parola assai vaga di quella parte della sinistra che si proponeva un cambiamento del modo di produzione. Si può essere anticapitalisti oggi?

Il manifesto è nato quando una parte del mondo, sotto l’egemonia degli Stati Uniti, era capitalista e imperialista, e una parte che aveva già abolito la proprietà privata del capitale si diceva socialista ed era sotto l'egemonia dell’Urss. Il mondo si ridefiniva fra due campi e mezzo: perché restava una parte sospesa in un “postcolonialismo”, vago come tutti i post, che chiamavamo paesi terzi. Oggi non è più così; gli Stati Uniti non sono più la indiscussa prima potenza capitalista, e non è sicuro che il loro fine si possa definire, come prima, imperialista. L’Unione Sovietica non esiste più. La Cina ha un governo che si dice comunista ma un sistema produttivo capitalista spinto. Cuba non sembra più affatto socialista. Il terzo mondo ha percorso, tra stati e sotto l'influenza di potenze diverse, un itinerario mai visto prima. Allo stesso tempo l’Europa ha formato una grande area a moneta unica e a direzione liberista che da anni è traversata da una crisi, economica e politica, più acerba di quella degli Stati Uniti da cui aveva preso radice. Insomma, è cambiato tutto. È cambiato il capitalismo? Possiamo dire di sì, nel senso che ha articolato le sue forme e non ha più uno stato che ne sia indiscutibilmente la leadership. Dobbiamo dire di no, nel senso che ha mondializzato, appunto articolandolo, il suo modo di produzione. Possiamo, davanti a questo mutamento di scena, conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971? Non credo. Andrebbero almeno verificati.

Anche l’Italia è cambiata. Nel senso che forse nel paese dove il movimento del '68 è stato più lungo e più esteso a vari strati sociali, non solo operai e studenti, ha anche – ha ragione Mario Tronti – più destrutturato le forme

classiche del socialismo e della democrazia di quante forme nuove abbia prodotto. Ha investito nuove figure sociali e anche qualcosa di assai più che una forma sociale, le donne e i femminismi. Questa molteplicità di oggetti ha avuto in comune il rigetto delle forme di potere cui era, visibilmente o invisibilmente, sottomessa, nello stesso tempo dividendosi acerbamente. Risultato, all’ampiezza del rigetto ha risposto una reazione opposta, un individualismo piatto, un rifiuto di ogni cambiamento di società, di ogni collettività che non sia locale o comunitaria. La incomunicabilità delle differenze ha prodotto una crisi della politica, il cui esito è stato il berlusconismo e il crescere del populismo.

Ma di questo neanche noi abbiamo dato una mappa e una topografia approfondita e comune. Abbiamo denunciato i limiti del keynesismo post-

bellico con l'intento di andare oltre, ma di fatto abbiamo lasciato spazio a spinte liberiste. Meno stato più mercato, è uno slogan che piaceva anche a sinistra. Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l’irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale. Fino allo scoppio della crisi e dell'offensiva padronale alla Fiat abbiamo dato poca attenzione alla struttura sociale, come se fosse un problema puramente sindacale. Non siamo stati convinti, e quindi non siamo stati capaci di convincere, che come ci ricorda il segretario della Fiom il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società. Il lavoro? Roba del secolo scorso. L’operaio? Non c’è più. Il sindacato? Vecchiume. Del resto non gorgheggiavano ogni giorno i padroni che il lavoro costituiva orami una parte minima del processo di produzione?

Oggi i padroni dicono tutto il contrario, strillano che per essere competitivi nella mondializzazione bisogna ridurre i salari italiani a quelli dell’Indonesia o della Cina, un terzo, un quarto del livello che i lavoratori erano riusciti a spuntare da noi. Così siamo arrivati, come il resto del mondo occidentale, a una stretta in cui i redditi si sono divaricati al massimo, il dieci per cento della popolazione guadagna quanto il novanta per cento, e di questo dieci, l’un per centro guadagna più di tutti gli altri. Nella stretta si dibattono anche le nuove soggettività.

In questo ribollire di bisogni e nella loro incapacità di trovare un dialogo, il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno. Eppure non c’è giorno che esso non proponga un pezzo interessante e che sarebbe impossibile trovare altrove, un'interpretazione di una notizia che l’altra stampa offusca. Forse che quel che scriviamo non si capisce, non è detto bene? Non è chiaro? Non è rapido e divertente? Qualcosa non ha funzionato neanche da noi. Siamo stanchi, perché – per favore non lo si dimentichi – coloro che ogni giorno hanno confezionato questo foglio e lo hanno spedito in giro non ne possono più di un successo che lentamente viene meno e perdipiù di essere pagati meno che in qualsiasi altro giornale, e a singhiozzo, a volte aspettando il salario per mesi. Affidarsi per anni agli introiti del marito, della moglie, dei genitori, a un altro lavoretto è facile da dire, non facile da vivere.

Io insisto perché nel chiedere solidarietà facciamo anche un esame di noi stessi. O pensiamo che la storia sia finita e che “io speriamo che me la cavo” sia diventato il solo slogan veramente popolare?

A ragione Alberto Asor Rosa ha lanciato l'allarme e chiesto una sosta di riflessione. Siamo di fronte a novità formidabili, figlie di svolte e derive di lunga durata. Per contrastarle o padroneggiarle bisogna accumulare una nuova «saggezza» con riflessione e lavoro di lunga lena, da condurre per «decenni» e con adeguata organizzazione. La ramazza della «tecnopolitica europea», del «financapitalismo» ci ha liberato dell'immondizia berlusconiana, ma ci instupidisce ora «avanti ai fari abbaglianti» di Mario Monti, al soft power delle sue «lacrime e sangue», di ricette rinforzate dall'assenza di alternative.


L'eccezione e la regola.

Meno convincente è l'aura di eccezionalità che spira tra le righe del suo argomentare. A tratti, come tanti nelle settimane scorse, evoca uno «stato di eccezione», la straordinarietà di eventi e processi, della «decisione». In generale, lo sguardo è fisso sul teatro nazionale, sempre unico ed eccezionale, sia che si sottolinei l'ennesima manifestazione del «caso italiano», sia che si esalti il potere di «anticipazione» delle nostre vicende. Per spiegare ricorre a paragoni storici con altri periodi e figure: l'interregno di Luigi Luzzatti. Altri ha accennato alla fatale meteora di Heinrich Brüning. 


Ne siamo sicuri? Ma da quanto tempo non ci sono più lo Stato, la politica, l'autonomia: la sovranità, insomma, del tempo che fu? E non solo in Italia. Cos'è la Francia di Sarkozy, cui si affiancherà la Merkel in campagna elettorale? Certo, si vedrà se l'innovazione o l'azzardo funziona. Intanto, nessuno - forse Marine Le Pen - grida allo scandalo, ai tedeschi arrembanti, les Boches! La Grandeur è in soffitta per decisione o presa d'atto unanimi. Non siamo forse tutti in Europa alle prese con la lezione del Belgio? Un paese dilaniato da strappi secessionisti, ma rimasto senza governo per più di un anno, appeso senza tracolli alla respirazione artificiale garantita dalla macchina comunitaria.

Vale ancora l'etichetta dell'eccezione, quando parliamo delle ricette di Monti? Ma non sono dettate ormai da un ventennio dalla cogenza della Costituzione scolpita nei trattati di Maastricht e sempre confermata da tutti, tra scossoni politici e referendari, con convenzioni e trattati a Amsterdam, Nizza, Lisbona, fino al fiscal compact dei nostri giorni, vagliato e varato, nel disinteresse generale, già da Commissione e Parlamento europei, ancor prima dei diktat di Angela Merkel?
Vent'anni or sono.


Per prendere le misure a Monti, in realtà, bisogna aguzzare lo sguardo, dargli profondità, e magari rammentarsi che il grido di Asor Rosa non è una novità assoluta. Anzi. Già in altri tempi, all'alba di quest'ultimo ventennio, un grido analogo si levò di fronte ad altri affondi presidenziali, ad altri tecnici - Carlo Azeglio Ciampi - chiamati a reggere e traghettare il paese in Europa, nel silenzio e nella mancanza di iniziative della sinistra, con l'astensione all'epoca del Pds. Anche per protesta contro di essa e l'asfissia dei partiti Pietro Ingrao si dimise dal Pds e chiamò, già allora, ad un lavoro di costruzione di nuovi fondamenti. E qualcosa iniziò. Ne nacque allora la riflessione a quattro mani con Rossana Rossanda consegnata in un volume, Appuntamenti di fine secolo e nel tentativo, abortito, di analisi e iniziative addirittura europee.

È bene sgombrare subito il campo da ogni farsesca tentazione di sminuir tutto in uno storico deja vu. Ma sarebbe suicida non riconoscere la tragedia di una sinistra china a investigare su un nuovo delitto senza riconoscere il serial killer all'opera, alle prese con analisi e appuntamenti già mancati una volta, esausti copioni di recite già celebrate.
È utile forse allora ricordare che Appuntamenti di fine secolo prendeva le mosse da un carteggio che appuntava le sue righe iniziali sulla «questione del debito pubblico italiano», sulla sua «patologia» e sulle forme in cui essa era finita nei comandamenti di Maastricht. Ecco il debito pubblico, una chiave indispensabile per comprendere Monti e le dinamiche di lungo periodo che gli hanno dato forza crescente. Per troppo tempo si è visto in esso e nella crescita irresistibile della spesa pubblica la naturale dinamica di una società in declino, vittima dei suoi egoismi corporativi e delle cure clientelari amministrate dalla Dc o, peggio, dalla consociazione catto-comunista.

Pochi analisti hanno affondato davvero il bisturi nelle scelte compiute all'inizio degli anni Settanta. Allora - mentre il mondo era scosso nei suoi piloni portanti: dollaro e petrolio - l'Italia fu costretta a chinare il capo nella tempesta delle monete. La bancarotta fu evitata nel 1974 con l'apporto finanziario del Fmi e con l'oro italiano dato in pegno alla Bundesbank del tempo. Dietro l'apparente non governo a deriva Dc, di fronte ad una dialettica sociale e sindacale sempre più vivace, la Banca d'Italia di Guido Carli aveva da tempo deciso di sanare in modo particolare «la ferita» subita dall'economia italiana con la «decadenza del sentimento della disciplina sociale»: aveva scelto di «alimentare il circuito della spesa nella misura necessaria a finanziare scambi che si svolgono a prezzi sempre più alti» (Banca d'Italia, Relazione sull'anno 1970). 


La contesa con Carli

All'unisono, nelle loro memorie, Guido Carli e Mario Monti fanno ascendere a quella scelta l'inizio di un reciproco dissidio. Le critiche di Monti a Carli e al suo «dirigismo creditizio», al suo pilotaggio della «spesa pubblica in disavanzo», valsero all'economista milanese crescente notorietà e il ruolo di capofila critico nell'establishment e nell'intellighentzia del tempo. Più in ombra rimase la sapiente gestione da parte di Carli del doppio registro di spesa pubblica lasca, accompagnata da periodiche svalutazioni della lira, specie dopo la conquista del punto unico di scala mobile. Si forniva generosamente corda all'impiccato: la competitività dell'industria veniva ricreata artificialmente, mentre il resto dell'organismo sociale si spappolava per egoismi corporativi e rincorse competitive alimentati da una spesa pubblica in continua dilatazione. 
Carli avrebbe provveduto poi a Maastricht a riregolare la dinamica del sistema e sanare quel dissidio.

Allora, edotti dal lavorio ai fianchi compiuto dalla Trilateral e dalle teoriche della governabilità, si scelse, in concorde discordia con i tedeschi della Bundesbank allarmati da Kohl e dalla sua unificazione con il marco alla pari tra Est e Ovest, di mettere una mordacchia permanente alla nuova Europa, di affidarla ad esecutivi e eurocrazie, di stirare spesa pubblica e welfare nelle presse dei criteri di convergenza e del successivo patto di stabilità. 
Inizia allora il volo di Mario Monti, come figura più rappresentativa di quell'atto creativo che metteva capo all'euro e alla Bce, all'Ue e ai suoi inediti comandamenti.

Limpidi sono nella sua figura i tratti distintivi del neoliberismo anglosassone o dell'ordoliberismo di stampo tedesco: un orientamento pragmatico, ma tenace, che non demonizza più lo Stato e il suo intervento. Semmai lo esalta come amplificatore della competitività e regolatore della dialettica sociale.
Oggi, a vent'anni e passa dal primo volo dell'Unione Europea, il grido di Asor Rosa ci coglie come trapassati in un altro mondo. Non siamo riusciti a prendere nemmeno le misure del Monti che fu e già siamo chiamati a misurarci con la sua reincarnazione, con il nuovo ciclo aperto dal fiscal compact. Oggi il globo - mutato radicalmente nel metabolismo tra Nord e Sud, Est ed Ovest - si è riassestato su nuovi cardini: nel Pacifico e non più in Atlantico. La stagione della «guerra al terrorismo», in cui l'unilateralismo americano aveva pensato di disporsi per eternarsi, si è chiusa con un rinculo di storiche proporzioni. Ma ad archiviarla definitivamente ci prova, e a fatica, il solo Obama. L'Europa a stento e a tratti si dispone sulle sue orme.

Emblematica la vicenda tutta dei rivolgimenti arabi o quell'accenno di dialogo, quel guatarsi guardinghi ma attenti che si è instaurato tra Obama e Occupy Wall Street. Anche qui non v'è nulla di simile sul Vecchio Continente, in nessuna delle sue terre. 
L'euro e i suoi comandamenti sono da tempo oggetto di dileggio e preoccupazione non più solo di premi Nobel e della dirigenza americana. Per gironi meno blasonati, la somministrazione quotidiana del rating da parte delle agenzie ammonisce senza sosta sulle illusioni mortali della via penitenziale allo sviluppo più o meno socialmente virtuoso, più o meno frugale. McKinsey e S&P's ci dicono che la lotta al debito non funziona se fatta solo di tagli, se non mobilita i popoli, ma li mette alla frusta.


Un potere corrosivo

Imperterrito l'euro corrode welfare dei popoli e legittimità delle élites, scassando armature sociali collaudate. È dubbio però che la stretta ulteriore promossa con il fiscal compact segni solo il trionfo della Merkel e l'indebolimento di Monti. Tutt'altro. In quella rigida scansione di regole e soglie, nella piena, compiuta e non più zoppa, costituzionalizzazione del «vincolo esterno» sta l'esaltazione, ad altissima cifra politica, del tecnico Monti, il segreto della sua forza politica. A patto naturalmente di conquistare una visione larga della scena europea, libera da ogni ingenua e meccanica trasposizione tra degrado delle condizioni sociali, marcescenza del pantano politico e procedere della crisi.

La recessione potrà senz'altro approfondirsi con i suoi danni incommensurabili ma non è detto che si tramuti in crisi del sistema o dell'euro. Ancor più se a sinistra si continuerà ad indugiare nella catastrofica attesa del collasso, in un attendismo che non fa che amplificare lo iato tra le possibilità offerte dallo scontento e la capacità di metter capo ad una fattiva mobilitazione, alla configurazione di un reale blocco riformatore. Da questo punto di vista il panorama è desolante, ancor più laddove l'attizzarsi delle contese elettorali dovrebbe stimolare ad afferrare il toro per le corna. Né ci si aiuta, provando ad assolversi dalle proprie mancanze e imputando tutto alla prepotenza tedesca e di Angela Merkel.

Anzi, guardando all'allestimento delle scene elettorali proprio il panorama tedesco è quello più promettente. 
Rispetto al millimetrico e allusivo riposizionamento, pieno di reticenze, di Hollande, in Germania si prova a mettere con più decisione i piedi nel piatto. L'ultimo documento di Spd e Verdi, il protocollo in 12 punti offerto a dicembre come contributo a tutta la sinistra europea, disegna con tratti decisi la scena e le poste europee, e non solo tedesche. Vi si contesta con una nettezza altrove sconosciuta la pretesa della Merkel e dei suoi di imporre risanamenti a senso unico, con «i compiti a casa» degli Stati cicala, dei Pigs. Perseverare su questa strada può portare solo ad ingessare colpevolmente Uem e Ue, fino allo scasso e al suicidio finali. All'ordine del giorno è un mutamento di strada indirizzato non tanto a colmare i vuoti lasciati a Maastricht, ma a raddrizzare la barca sbilenca lì attrezzata e poi via via puntellata.

Nella «storia dell'Europa di oggi vi è la possibilità solidale di un nuovo inizio».
Non si afferra il bandolo del caso italiano né di nessun altro paese europeo senza uno sguardo maturo sull'Europa tutta e le sue sfide, se non si prova nemmeno ad immaginarsi lievito di nuove speranze su scala continentale, se non si azzarda un atto di igiene mentale: schiodare intanto nella propria testa l'Europa dalla costituzione monetaria in cui è stata ripetutamente trafitta.


Una versione più ampia di questo intervento su www.sbilanciamoci.info

Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero

È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «... si affaccia un problema...di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.

Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008). Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.

Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.

Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.

È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).

E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc.

La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.

Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.

La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.

Misurarsi con il governo Monti sul suo terreno non è saggio. Monti comanda ma non governa. Comanda perché i partiti che lo sostengono (sempre più infelici) glielo lasciano fare e gli elettori che essi pretendono di rappresentare non hanno forze né strumenti per fermarlo. Per tutti il movente è unico: la paura di un disastro che non si sa valutare. Ma a governare non è né Monti né l'Europa, ma la finanza internazionale che decide per entrambi. Le misure adottate - "salvaitalia" e "crescitalia" - non avranno alcun effetto di stabilità, come non lo avrà il nuovo pacchetto ammazza-lavoro cucinato dalla prof. Fornero. Le cifre sparate sui futuri effetti di quei decreti (Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18) ricordano più la tombola che le discipline accademiche di cui la compagine governativa mena vanto. Se oggi la speculazione sul debito italiano sembra placarsi è perché Monti le ha dato un altro po' di succo da spremere, esattamente come era successo in Grecia, fino a nuovo ordine. D'altronde Draghi ha spiegato che lo spread serve proprio a questo: rendere possibile quella spremitura che il lessico economico-politico chiama "riforme" e "modernizzazione". Ma con un debito di 1900 miliardi e un patto di stabilità che pretende di dimezzarlo a nostre spese, gli agguati della finanza continueranno a restare alle porte. E finché la finanza internazionale potrà contare su risorse che valgono 10-15 volte più del prodotto lordo del mondo non c'è governo che ne sia al sicuro; nemmeno erigendo una muraglia cinese contro i suoi assalti.

Il confronto con il governo Monti, con questa Europa e con il potere della finanza internazionale va quindi condotto su un diverso piano, che è quello della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta (tutte materie totalmente estranee alla cultura del governo, ma dimenticate anche da molti dei suoi commentatori e dei suoi critici). Quei rapporti rendono indissolubile il nesso tra ambiente ed equità sociale (e intergenerazionale: esisterà, si spera, un mondo anche dopo gli alti e bassi dello spread). Se la crisi economico-finanziaria e la crisi ambientale segnalano, con la loro dimensione globale, l'urgenza di una svolta per tutto il pianeta, questa non può prescindere, e non può distinguersi, da una radicale conversione ecologica del modo in cui consumiamo (e quello che consumiamo, alla fine, è l'ambiente) e del modo in cui produciamo (e quel che produciamo è soprattutto diseguaglianza e sofferenze superflue). E siccome la conversione ecologica riguarda in egual misura i nostri atteggiamenti soggettivi verso l'ambiente e gli altri esseri umani, e l'organizzazione delle nostre attività "economiche" (che cosa produciamo, come, dove, con che cosa e perché lo produciamo), è un imperativo concreto partire da quello che ciascuno di noi può fare, o intende fare, qui e ora.

Quello che lega il nostro agire localmente - il nostro "progetto locale" - al pensiero globale che deve informarlo è la sua replicabilità: la possibilità che venga riprodotto, adattandolo alle diverse situazioni con la dovuta intelligenza del contesto, senza che le realizzazioni degli uni vadano a detrimento di quelle di altri; e sviluppando invece una potenza sinergica.

Solo così i legami che si creano possono costituire la base - a diversi livelli, fino a ricoprire con una rete l'intero pianeta - sia di un programma generale, sia della formazione di una cittadinanza attiva (intersettoriale, interconnessa, internazionale, intergenerazionale), sia di organizzazioni che si candidino a esautorare, sostituire o integrare le strutture esistenti: a piccoli passi e a macchia di leopardo, per lo più; a salti improvvisi, a volte; ma sempre più spesso in contesti conflittuali, e fronteggiando rischi crescenti. Il "soggetto politico" di cui si è discusso - senza dirlo - nel recente convegno di Napoli sui beni comuni è parte di questo percorso, i cui pilastri mi sembrano questi:

1. La conversione ecologica è un processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa. Le caratteristiche di questa transizione è il passaggio, ovunque tecnicamente possibile, dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.

2. Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" con cui promuovere i propri obiettivi. Questi "bracci operativi" sono i servizi pubblici, restituiti, come disposto dal referendum del 12 giugno, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione. Per questo le risorse destinate alla conversione ecologica - cioè, tutte quelle non necessarie a sostenere i compiti di una supplenza centralizzata, nell'ambito di un approccio fondato su una vera sussidiarietà - dovrebbero essere restituite agli enti locali e sottoposte ad adeguati controlli, non solo di legalità, ma soprattutto ad opera della cittadinanza attiva. Nell'immediato è decisivo che vengano sottratti ai vincoli del patto di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle conversioni produttive. Il debito pregresso contratto dalle amministrazioni locali, o dalle Spa che rientrano nel perimetro dei servizi locali del cui controllo deve riappropriarsi il governo del territorio, come il debito pubblico dello Stato nazionale dovranno essere ridimensionati, in forma contrattata, in misura sufficiente a non essere di ostacolo alla conversione produttiva. Le responsabilità di un rifiuto di questa negoziazione ricadono su chi la respinge, ma vanno studiate e predisposte fin da ora tutte le misure per attenuarne le conseguenze sulla cittadinanza. D'altronde è impensabile che si possa uscire dal caos in cui il liberismo ha precipitato l'economia del pianeta senza un radicale ridimensionamento della bolla finanziaria che sovrasta l'economia mondiale. Quali che ne siano le conseguenze.

3. Il terzo pilastro è l'arresto del consumo di suolo: le nostre città e tutti i centri abitati, di qualsiasi dimensione, sono già sufficientemente costruiti per soddisfare con le strutture esistenti o con il recupero dei suoli occupati da strutture inutilizzabili, tutte le esigenze di abitazioni, di attività produttive e commerciali, di socialità e di promozione della cultura e del benessere di cui una comunità ha bisogno. Se queste strutture e questi suoli non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procede con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile. Se si vuole combattere la rendita che, come sostengono tutti gli economisti liberisti, abbatte la produttività, ecco un buon punto da cui cominciare.

4. Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione che ha preteso - grazie al basso costo del trasporto reso possibile dall'abuso dei combustibili fossili - di fare dell'agricoltura di tutto il pianeta il "contado" dei centri urbani, con il degrado progressivo sia degli uni che dell'altra. Le municipalità hanno molti strumenti (alcuni a costo zero) per promuovere una riconversione di questo rapporto: orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte.

5. La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura. La riterritorializzazione delle attività in funzione della domanda creata dalla conversione ecologica è una vera politica industriale che può salvaguardare e promuovere occupazione, know-how e potenzialità produttive in settori quali la fabbricazione di mezzi di trasporto, di impianti energetici, di materiali per l'edilizia ecosostenibile, di macchinari e apparecchiature a basso consumo. Crea domanda vera perché risponde alle necessità degli abitanti di un territorio, ma richiede condivisione e può essere sostenuta solo attraverso rapporti diretti tra produttori ed enti locali. (ha fatto qualcosa di analogo la Volkswagen producendo impianti di microcogenerazione piazzati direttamente in case e imprese attraverso un accordo con una società di distribuzione dell'energia. Lo possono fare i comuni italiani senza alcuna violazione delle norme sulla concorrenza).

6. La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. La cultura non può essere solo un passaporto per l'accesso al lavoro o uno sfogo dopolavoristico. Può e deve tornare a essere l'ambito di una riflessione sul senso della propria esistenza, della convivenza civile, della riconquista di un rapporto sostenibile con l'ambiente: tutte condizioni indispensabili di una adesione convinta alla conversione ecologica. Questa riflessione ha bisogno di sedi, di strumenti, di promotori, di risorse: nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.

L'idea di mercato globale certamente "libero", ma regolato, che incarna Monti non è la stessa coltivata da Berlusconi, basata sul mito della sua autosufficienza. Oggi, nel pieno di una crisi capitalistica, per l'Europa è venuto il tempo della politica. Risposta all'articolo di Asor Rosa

La discussione aperta da Alberto Asor Rosa è quanto mai opportuna (sette pilastri della saggezza, il manifesto 19/1). Interrogarsi su Monti e sull'atteggiamento politico da assumere nei confronti del suo "strano" governo significa infatti verificare se si è capaci - come direbbe Tronti - di formulare un giudizio critico forte sulla "fase", e misurare così l'esistenza o meno di una cultura politica, a sinistra, in grado di elaborare una proposta credibile. Anch'io penso che si sia aperto per la sinistra italiana «un terreno più avanzato di lotta e di proposta» con l'operazione politica voluta da Napolitano - ma non dimentichiamo che vi hanno contribuito i leader europei e lo stesso Obama, tutti molto e giustamente preoccupati per l'Italia (e di conseguenza l'Europa) in bilico nelle mani di Berlusconi. Non condivido quindi certi giudizi venuti da sinistra, in parte presenti anche nell'analisi di Rossana Rossanda (il manifesto 20/1), che insistono sulla "continuità", se non peggio, tra il governo di Berlusconi e quello di Monti. Pur senza sottovalutare il fatto che il partito del Cavaliere fa parte della maggioranza che sostiene i "tecnici", ma non per caso, mi sembra, con l'atteggiamento di chi deve trangugiare una medicina sempre più amara.

Per me la differenza non è solo nella "presentabilità" e "sobrietà" dei tecnici, ma proprio nella posizione politica e nella cultura di Monti e di molti dei suoi ministri e ministre. A cominciare dalla scelta per un'Europa forte non solo economicamente, ma politicamente. Questa a me pare una discriminante fondamentale per qualunque politica di sinistra. Bisognerebbe dire molto più chiaramente e con decisione che per contare qualcosa nella globalizzazione - per contare anche in favore di chi ha meno potere e meno reddito - servono gli Stati Uniti d'Europa. Questo non significa naturalmente esser d'accordo con l'ideologia liberista e monetarista che sorregge ancora molte delle scelte che oggi prevalgono in Europa. Ma andrebbe valutato sino in fondo lo strano paradosso di una costruzione europea che dai tempi della Ceca, allo Sme, a Maastricht e all'Euro, ha scelto - quasi seguendo un principio marxisticamente ortodosso - di far sì che fosse la "struttura" economica a spingere la "sovrastruttura" dell'unificazione politica. Oggi, dopo la moneta unica e nel pieno di una crisi capitalistica inedita, emerge in primo piano che per l'Europa è venuto il tempo della politica. Il centrodestra italiano è sempre stato - e sostanzialmente resta - tiepido se non apertamente ostile verso l'Europa unita. Ancora oggi l'ineffabile Tremonti rimpiange il ruolo delle nazioni, come fossimo ancora nel mondo di Adam Smith. E l'idea di mercato globale certamente "libero", ma regolato, che incarna Monti non è la stessa coltivata da Berlusconi (e dai suoi alleati e "amici" internazionali Bush, Putin, Gheddafi).

Si dice che con i "tecnici" la politica e la democrazia sono state messe in mora. In realtà la politica è stata svilita e rimossa nei due anni abbondanti in cui la cronaca italiana, con diffusione globale, è stata dominata dalle feste di Arcore, anni coronati da quella sciagurata maggioranza di parlamentari nominati che ha accettato la favola della nipote di Mubarak. Ida Dominijanni era stata la prima a capire che, con le crude parole di Veronica e la testimonianza di Patrizia D'Addario, si era aperto l'inizio della fine della parabola berlusconiana, metafora di una più generale crisi dell'autorità maschile in un mondo segnato dal tramonto del patriarcato. E a questo vuoto di politica ha contribuito una sinistra sostanzialmente incapace di offrire, nel tempo della "biopolitica", una visione della vita e della società realmente alternativa alla verità messa in scena dal Cavaliere e al mito dell'autosufficienza del mercato. Perché questo è un altro punto che non mi sembra ancora chiarito: la forza del Cavaliere, forse non ancora del tutto esaurita, era, pur tra tante menzogne, quella di dire sostanzialmente la verità su se stesso, il suo mondo, l'idea di società da lui spettacolarmente incarnato.

Napolitano ha esercitato la spinta finale risolutiva per insediare Monti, nominandolo senatore a vita, ma mi sembra sbagliato rimuovere il fatto che Berlusconi aveva perso di fatto la sua maggioranza almeno tre volte. Rimediando all'abbandono di Fini con il miniribaltone Scilipoti, e poi ottenendo proprio dal Colle generosi tempi supplementari. Alla fine ha dovuto arrendersi all'evidenza e al rischio di legare il suo nome a una catastrofe finanziaria e politica italiana e europea. Non c'è stata alcuna sospensione della democrazia - lo dice bene Aldo Tortorella nell'editoriale ("La doppia immagine") dell'ultimo numero di Critica Marxista - giacché i partiti hanno votato il nuovo governo e la sinistra non se l'è sentita di tentare l'alternativa pur con qualche probabilità di vincere le elezioni. Altro discorso è l'insufficienza sempre più grave dei nostri modelli istituzionali democratici: ma di crisi della rappresentanza non si parla forse da alcuni decenni?

Credo - per concludere - che la riflessione dovrebbe di più insistere sulla crisi verticale che nel "laboratorio italiano" subiscono i vecchi dispositivi della sovranità e della produzione di autorità. Il senso comune ormai lo avverte acutamente, come dimostra il discorso pubblico sul disastro della nave Concordia e del suo capitano. È qui che la cultura politica della sinistra, e non solo della sinistra, presenta il deficit più grave. Asor Rosa ha ragione nel sottolineare il peso di una certa cultura cattolica nello "strano" governo Monti. La legittimazione dei "tecnici", a differenza di quanto è accaduto in altre fasi di governo tecnico, avviene in presenza della più grave crisi in assoluto dell'immagine dei partiti, e deriva da un input squisitamente politico sovranazionale, dalle competenze economiche, e da quelle radici cattoliche. Da questo punto di vista la Chiesa di Bagnasco è in parte altra cosa da quella di Bertone. E il voto sulle radici cristiane e giudaiche dell'Europa esprime, al di là delle strumentalità politiche, anche il senso di una ricerca dell'autorità perduta rivolta al passato. Come d'altra parte la popolarità finora eccezionale del Presidente della Repubblica ha una radice - come egli stesso ha evocato nel discorso di fine anno - in quell'antica vicinanza al mondo del lavoro del vecchio Pci e ai suoi meccanismi di produzione di credibilità politica.

Ma si tratta di luci che brillano ancora provenendo da grandi "stelle spente". Non credo che la risposta a questo enorme vuoto possa venire da una nostalgia per le tradizionali forme della politica "di professione" e dei vecchi partiti. Nella tradizione della sinistra mi sembra da recuperare quasi soltanto l'ispirazione "internazionalista", cosmopolita. Quando Derrida scrisse, già negli anni '90, quel libro profetico sul ritorno dello "spettro" di Marx lo sottotitolò significativamente sull'esigenza di una "nuova internazionale".

Ma le cose nuove da pensare e agire ce le ha mostrate il femminismo: un'idea e una pratica della libertà e dell'identità fondate nelle relazioni personali e che si allargano alla dimensione universale senza le astrazioni fatali sull'"individuo" o sulla "comunità" elaborate dal liberalismo (e liberismo) e dal comunismo. La stessa "centralità del lavoro" andrebbe radicalmente ripensata alla luce del venir meno della tradizionale divisione tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e lavoro di cura. È la scoperta della potenza degli spostamenti simbolici: il patriarcato finisce se le donne - come sta avvenendo ormai in tutto il mondo - gli tolgono credito. Forse anche questo capitalismo finanziario impazzito finirà se donne e uomini, in tutto il mondo solo ora unificato in un mercato globale, gli toglieranno credito. Forse sta già avvenendo, da Zuccotti Park a Davos. Il punto è saperlo vedere, nominare, comunicare.

Riproponiamo la trascrizione della videointervista su Costituzione, Parlamento e democrazia rilasciata da Oscar Luigi Scalfaro a Stefano Rodotà in occasione del Festival del Diritto edizione 2011, organizzato dalla Laterza a Piacenza dal 22 al 25 settembre 2011

RODOTÀ: Presidente, io parto da un dato di fatto non discutibile e cioè, se oggi c'è un vero testimone della storia della Repubblica sei tu. Non è un omaggio formale. Componente dell'Assemblea Costituente, membro del Governo, personalità importante del più grande partito italiano, la Democrazia Cristiana, Presidente della Camera, Presidente della Repubblica, difensore pubblico della Costituzione, così direi per la fase che si ebbe in occasione del referendum del 2006. E' una storia lunga, è una storia importante e forse vale la pena di cominciare proprio dall'inizio. Oggi tu come ricordi l'Assemblea Costituente, come l'hai vissuta?

SCALFARO: All'Assemblea Costituente arrivarono persone dalle più diverse provenienze, compreso qualcuno che non aveva una chiara visione della democrazia. Tu che hai avvicinato un'infinità di persone hai notato che chi ha fatto parte dell'Assemblea Costituente ha mantenuto nella carne viva il marchio della Costituzione?

RODOTÀ: Adesso le parti si sono invertite, rispondo io a questa domanda. Io ho incontrato varie persone, alcune mi hanno dato la sensazione che erano rimasti costituenti, cioè per essi la Costituzione non era un'impresa finita, era la loro storia e la storia della Repubblica. Ricordo solo tre di queste persone (poi ne aggiungerò una quarta): Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Lelio Basso. Loro avevano in sé la Costituzione e io da loro ho imparato molto, così come ho imparato molto da Kiki Mattei, una deputata del PC che - come mi raccontò Lelio Basso - nel momento in cui si dovette votare sul concordato, dovette votare a favore per disciplina di partito e piangeva. Cioè, ho trovato in molti il senso di partecipare a una grandissima impresa

SCALFARO: Noi avevamo, vorrei dire, quasi naturalmente per essere stati all'Assemblea Costituente il senso del Parlamento, della democrazia parlamentare. Se il Parlamento è vivo la democrazia è certa, se il Parlamento è povero o pezzente, come oggi, allora c'è da dubitare molto che ci sia democrazia.

RODOTÀ: Il raffronto tra i tempi della Costituente e oggi che è inevitabile. Quando accennavi all'altezza intellettuale, io credo che quella della Costituente sia stata anche una scuola per chi è stato.

SCALFARO: Io ricordo che queste erano le direttive della Democrazia Cristiana, cioè ascoltare tutti, in particolare quelli che sostengono tesi diverse dalle nostre. Ma io devo confessare che ho sempre ascoltato tutti con passione, con la voglia di capire. Sono nate per me delle amicizie in questo desiderio di capire che supera le diversità e si ritrova questo denominatore comune, democrazia uguale Parlamento vivo e vero.

RODOTÀ: Questo è già un giudizio su come si faceva politica negli anni successivi alla Costituente, nei lunghi anni della storia repubblicana, una storia difficile, e allora il tuo sentimento, il tuo ricordo di protagonista del maggiore partito italiano, qual è la tua opinione? Già hai dato un giudizio molto netto, però la storia, il grande partito della DC, in cui tu hai militato e sei stato esponente importante, Ministro della Repubblica, allora?

SCALFARO: La Democrazia Cristiana ebbe il culto del Parlamento. Il Parlamento come marchio di fabbrica di una democrazia, indice di quanto la democrazia è entrata dentro il paese, starei per dire di come la democrazia si è incarnata nelle persone. Questo fu un marchio che fu rafforzato nell'Assemblea Costituente in modo assolutamente eccezionale e trovò nella mia esperienza una conferma nel 2006, quando io inaspettatamente, con mia grande commozione, fui chiamato a presiedere a tutti i Comitati per la difesa della costituzione, tanti che certi non riuscimmo neanche a catalogarli. C'erano delle madri di famiglia che erano cape del loro fabbricato e servendosi di questo avevano fatto un comitato a difesa della Carta Costituzionale. Fu una cosa emozionantissima, nel 2006, cioè noi che registravamo tutti i Comitati ne abbiamo avuto qualche centinaio sfuggito al controllo, dove madri di famiglia, insegnanti delle elementari, direttrici didattiche, persone che si sono buttate per difendere questa Carta come cosa propria, come proprietà, come carne propria, come vita propria, formidabile.

RODOTÀ: Hai usato l'aggettivo giusto, formidabile, perché io credo che tu abbia avuto la fortuna o il destino di essere presente nei passaggi più significativi: l'Assemblea Costituente, il passaggio che io esito a definire dalla Prima alla Seconda Repubblica, ma certamente la gestione politico-istituzionale negli anni difficilissimi che cominciarono proprio nel 1992, e poi questa, che tu hai descritto così bene, ripresa dello spirito costituzionale nelle persone. Se posso usare una formula che non mi pare retorica, in quel momento la Costituzione ha incontrato il suo popolo, mentre un ceto politico se ne allontanava. Tu hai capeggiato, per il referendum che ha conservato la Costituzione nel 2006, questa ripresa dello spirito repubblicano costituzionale.

SCALFARO: E' stato per me intensamente commovente. Quel 2006, questo di vedere nascere lo stesso spirito che io avevo vissuto all'Assemblea Costituente, nato in persone che non erano al mondo allora, quindi starei per dire una trasmissione di generazione in generazione, di vita in vita, di carne in carne, perché c'è molto la partecipazione della persona umana, capace di pensare e di ricondursi ai principi essenziali per la vita della persona e per la vita delle comunità democratiche.

RODOTÀ: Hai detto due cose che mi paiono molto importanti: primo l'accenno agli insegnanti, alle direttrici didattiche, alla scuola, che dobbiamo avere al centro. E poi la parola persona. Io devo confessare che, all'inizio, io e altri della mia generazione consideravamo il termine "persona" nella Costituzione con distanza, senza valutare in tutta la sua importanza, come se che fosse solo l'esito di una sorta di negoziato e la persona era un po' consegnata alla parte democristiana. Passando il tempo abbiamo visto come la Costituzione italiana sia stata in questo senso anticipatrice e lungimirante per questa centralità della persona.

SCALFARO: Quando si dice c'è stato un grande mercato tra mondo cattolico e comunisti, si snatura tutto perché c'è stato un dialogo, ma quanto rispetto avevano i comunisti dei principi cristiani? Quanto rispetto avevano i cristiani dello schieramento lontano dalla fede in quanto tale, ma non lontano dai principi dei valori dell'uomo, dai principi dei valori della comunità?

RODOTÀ: Voglio ricordare un altro nostro colloquio, perché io ti chiesi qual era la tua opinione sul fatto che La Pira, che aveva proposto con un emendamento che la Costituzione si aprisse con la parole, In nome di Dio e del Popolo italiano si dà la presente Costituzione, io ti chiesi il tuo giudizio e tu avesti una frase lapidaria, "non si vota su Dio", e quindi tu sostenesti la opportunità del ritiro dell'emendamento.

SCALFARO: Io fui contrario dall'inizio, ma devo dire che da noi furono alquanto numerosi quelli che dissero no, assolutamente no. Ma io dico, se tu credi che c'è un essere al di sopra, lascialo tranquillo, rispettalo. Se tu non ci credi, lascialo due volte tranquillo. Cioè è un controsenso terribile questo. Infatti furono, con tutto il rispetto, persone di ali basse che sostennero queste tesi che sanno non di volo d'aquila, ma di volo di piccione nella Piazza del Duomo di Milano.

RODOTÀ: Però c'è un altro momento alto, questa volta che ti riguarda direttamente, proprio in questo rapporto tra la religione e la politica. Mi riferisco al tuo discorso quando ci fu la visita di Stato di Giovanni Paolo II. Io lo ritengo uno dei grandi discorsi sull'autonomia dello Stato e del rispetto della religione in sé, due cose che delle volte sembra oggi che non possano andare insieme.

SCALFARO: Dico una cosa che non è un segreto: un vescovo, che c'è ancora oggi e che è un uomo di degna statura, mi disse che il Segretario del Papa, dopo che io feci quell'intervento, disse a questo vescovo di non aver capito perché il Capo dello Stato avesse fatto quel discorso. E io dissi a quel vescovo: "Eccellenza, lo lasci tranquillo e non glielo spieghi".

RODOTÀ: In questo credo che sempre quello spirito costituente che tu hai evocato, il rispetto dell'altro, il dialogo malgrado le distanze che possano esserci, non sono forse più oggi la cifra e il segno della nostra vita civile.

SCALFARO: Non c'è alcun dubbio oggi si sono perse terribilmente, oggi guardare il Parlamento è una desolazione gravissima. Oggi purtroppo si può sostenere che la democrazia è defunta e defunta malamente.

RODOTÀ: Tu sei stato anche Ministro in un Ministero chiave, il Ministero degli Interni. Con l'occhio questa volta dell'uomo di governo, che cosa tu oggi ricorderesti, che valutazione faresti di questa esperienza?

SCALFARO: Devo dire che a fare il Ministro dell'Interno credendoci si impara anzitutto ad ascoltare gli altri e a tener conto degli altri, anzitutto soprattutto per quelli che sono più idonei a pensare che a parlare, e oggi c'è una scarsità enorme di questa popolazione, specie in Parlamento.

RODOTÀ: Nello stesso tempo però noi abbiamo quasi una situazione contraddittoria, cioè un ritorno della Costituzione nello spirito popolare. L'espressione è brutta ma si può dire che della gente comune si distingue sempre più da chi ha abbandonato i valori costituzionali, con una deriva anche della moralità pubblica e civile. Come contempli questa fase difficile per la moralità civile?

SCALFARO: Io ho avuto, di fronte a questa realtà che per me è deprimente, un aiuto enorme dai giovani e dai giovanissimi, i quali hanno mostrato una fede nella Carta Costituzionale, prodotta quando non erano neanche nati, che mi ha commosso intensamente. Non so piangere di fuori, ma di dentro ho pianto davvero.

RODOTÀ: E sullo stato della moralità pubblica?

SCALFARO: Oggi a questa impostazione segue una realtà desolante. Quando io leggo le cronache dei giornali, sembra che ogni giorno nascano a centinaia i nuovi profittatori, i nuovi ladri, le persone che nel momento in cui si avvicinano a un incarico, a una responsabilità, pensano per prima cosa a rubare, a tradire. Una cosa che fa spavento. La corruzione dilaga come una peste bubbonica.

RODOTÀ: Non potresti essere più chiaro. Voglio tornare però adesso su una tua grande decisione politica, che all'epoca fu discussa, e se ne discute ancora. Mi riferisco a quello che è stato chiamato, più o meno propriamente, il ribaltone, e che era invece - questo io lo dissi, tu lo sai - un modo profondo di rispettare la logica costituzionale.

SCALFARO: C'è un episodio che ho raccontato diverse volte, ma per me è storia vissuta e pagata. Il Presidente del Consiglio Berlusconi era venuto a consegnare la sua delega, quindi dando la sensazione che si rendeva conto che aveva finito il suo compito. Non ricordo se nella stessa seduta o poco dopo tornò e mi disse: "Presidente, ti chiedo tre cose: lo scioglimento del Parlamento, la crisi di governo e che questi passi li faccia io col mio governo". (Il quale si era dimesso pochi minuti prima). Io rimasi interdetto per un secondo, perché la persona mi aveva colpito la prima volta che mi aveva parlato di una cosa come se fosse stata vera e vera non era. Devo dire che per me negare la verità conosciuta vuol dire chiudere totalmente la possibilità di dialogo. Quindi mentre lui diceva, ti chiedo tre cose, mi fermai un momento e lui mi incalzò, ti ho chiesto tre cose, cosa mi rispondi? "Ti rispondo tre no" - gli dissi - "perché su questa Carta, che anche in questo momento mi è vicina, su questa Carta ho giurato fedeltà, se io facessi questo farei un passo in favore di una parte e contro un'altra, e andrei contro al mio giuramento. Ti rispondo tre no". Non mi sarà perdonato.

RODOTÀ: Sappiamo da chi...

SCALFARO: Ma non mi perdonerei mai se avessi risposto diversamente. Ringrazio Dio di avermi illuminato.

RODOTÀ: Chiudiamo con un saluto ai piacentini, e non solo, perché il festival del diritto richiama - è il quarto anno - dai posti più diversi, persone interessate e che oggi erano particolarmente in attesa di questa tua parola.

SCALFARO: Ringrazio Dio di questo incontro con te, che stimo tanto e amo profondamente. Sei un mio amico fino in fondo, ma poi in questo caso sei quello che mi porti a Piacenza, dove sarei venuto con gioia, ma la Provvidenza mi ha dato la voce per 92 anni e poi, vedendo come l'ho usata, me l'ha tolta ai 93. Ma vorrei comunque che vi giungesse la mia parola e il mio cuore, il cuore di chi crede nel Parlamento, nella democrazia, nella onestà delle persone della cosa pubblica, nella trasparenza di chi manipola e tocca i soldi dello Stato, di chi è disposto a lottare per distinguere la marmaglia di coloro che mettono le mani sulla cosa pubblica nel proprio interesse personale. Sono da estinguere. Grazie di cuore.

Alberto Asor Rosa si è doluto che io abbia interpretato il suo articolo del 19 gennaio scorso come un appoggio al governo Monti. Ebbene sì, confesso di averlo letto appunto in questi termini, dando poca attenzione a qualche aguzzo segnale sparso nel testo. Asor Rosa invece mi ha spiegato che nelle sue intenzioni la sottolineatura della compattezza marmorea e super partes dell'accordo fra presidenza della Repubblica, governo e parlamento, che ha sbarcato Berlusconi, mirava invece a metterci in guardia dalla speranza di cavarcela senza opporgli un altrettanto solido programma. Non posso quindi che dare atto ad Asor Rosa di questa "bevuta", supplicandolo di non contare troppo, d'ora in poi, sulle mie capacità di decriptare, leggendola al secondo grado, una scrittura deliberatamente paradossale.

Ma mi chiedo anche perché l'ho letto in questo modo. Prima ragione: il vedere tante persone, e di assoluta serietà, sollevate dal vedersi levar di torno il cavaliere e di avere a palazzo Chigi un esecutivo di una correttezza privata cui erano disabituate. Fino a prendere sul serio per neutre le misure che esso decide. È super partes tassare in uguale proporzione ricchi e poveri, più il lavoro che il capitale, più il capitale produttivo che la finanza, privatizzare i residui servizi pubblici, fingere di non capire il senso del referendum sull'acqua? Era ai ragazzini che don Milani spiegava come nulla sia più ingiusto che offrire la stessa tazza di minestra a chi è affamato e a chi si è stancato del caviale. Noi adulti ce lo siamo scordato?

La seconda ragione è che non apprezzo affatto l'improvviso decisionismo del presidente della Repubblica. Fino a mezzora prima di scaricare Berlusconi, Giorgio Napolitano esortava implacabilmente destra e sinistra a non confliggere, e si difendeva da qualsiasi richiesta di prendere posizione.

Né aveva usato il messaggio alle camere per richiamare al rispetto della divisione dei poteri chi vituperava i magistrati una volta alla settimana, se mai invitava i magistrati a maggior temperanza. Ha preferito disinnescare il parlamento basandosi su qualche «allora vado a casa» farfugliato dal cavaliere, e scegliendo fulmineamente senza troppe consultazioni il professor Mario Monti, piuttosto che sciogliere le Camere come è forse in suo potere. Lasciandovi Berlusconi e i suoi che, fra un anno, in campagna elettorale, giocheranno ancora una volta sul populismo rifiorente in tutta l'Europa proprio contro le politiche di rigore.

Terza ragione, non penso che fossimo un mese fa all'ultima spiaggia. Ma su questo, come del resto sugli altri punti, sono largamente d'accordo con gli articoli di Ida Dominijanni ("Effetti collaterali", il manifesto 12/11 e "Baciare il rospo?" 19/11). Sotto il profilo politico l'erosione è avvenuta da un pezzo, da quando l'Urss è saltata e il Pci è saltato a piedi uniti sul carro liberista, come è avvenuto con Occhetto e D'Alema (ed era vagheggiato ben prima dai fautori dell'unità nazionale). Sotto il profilo economico se è vero che l'Italia è molto in basso - tre miseri BBB, rispetto agli sgargianti tre AAA della Germania e ai due della Francia - il suo indebitamento non s'è formato ieri, non per colpa precipua di Berlusconi, non è tutto in preda alle banche estere come quello greco, sarà un poco alleviato dalla manovra con la quale la Bce si svincola dalla stupida proibizione tedesca di finanziare i debiti degli stati. E soprattutto non si può ignorare che il rigore prediletto da Monti, a sua volta prediletto dal nostro Presidente, ha paralizzato la crescita - siamo dovunque in recessione (perfino la Germania rallenta), cresce dovunque la disoccupazione e calano le entrate pubbliche.

I sette pilastri della saggezza borghese vacillano non perché non seguano Bruxelles, ma perché la seguono come pecore. Basta guardare le misure, identiche, che nella crisi si prendono in Francia e in Italia. Se invece che Monti ci si fosse rivolti a qualcuno dei molti che del liberismo non ne possono più, non saremmo a goderci una reazione tanto onesta quanto spietata. Su questo siamo d'accordo?

Come si poteva sospettare, nel giudizio sul segno politico del governo Monti, Rossanda e Asor Rosa sono d’accordo. Non a caso il 20 gennaio presentavamo su eddyburg.it il testo di Rossanda, dal tono accentuatamente critico nei confronti di AAR, chiedendoci «Non scopriremo che dicono lq stessa cosa?».

Mi sembra peraltro che ci sia qualcosa che Asor Rosa vede e gli altri no (mi riferisco anche alle lettere aspramente polemiche comparse il 21 gennaio sul ). Mi riferisco al fatto che (1) il tandem Napolitano-Monti ha liberato l’Italia, almeno momentaneamente, da quella presenza inqualificabile del precedente premier, che rendeva impraticabile il confronto politico; (2) con il governo Monti ci troviamo di fronte a una chiara e “seria” proposta politica di destra. E’ con questa bisogna confrontarsi per combatterla. Non ci troviamo più di fronte a un guitto straccione con il quale si può dibattere soltanto alzando più forte la voce, ma a un avversario alle cui idee e proposte bisogna argomentatamente proporre le proprie. A mio parere (ma è un’opinione certamente opinabile) un avversario migliore obbliga noi stessi a essere migliori.

Ma proprio qui casca l’asino. Dov’è, oggi, una sinistra che abbia un’idea, una proposta politica, capace di rappresentare non solo i desideri e le speranze di molti (e le ricette di piccoli gruppi tra loro divisi), ma la base di una piattaforma politica capace di aggregare forze sociali significative? Il percorso da compiere, per arrivare dalle intelligenti analisi e dalle generose sperimentazioni a un disegno capace di diventare egemonico è ancora lungo. L’ideologia del neoliberismo ha conquistato il pensiero comune, a destra, nel centro e nella vecchia sinistra. E il nocciolo politico dell’articolo di Asor Rosa sta a mio parere proprio nell’immagine che egli suggerisce del PD e nella drammatica ambiguità che il grifone rappresenta. Finchè quella “sinistra” non si scioglie e non se ne ricompone una nuova sarà difficile vedere un nuovo inizio.

Ragioniamo. Ho letto così il discorso di Asor Rosa ("I sette pilastri della saggezza", il manifesto....). Dai pezzi sparsi - proponeva - cerchiamo di ricostruire il puzzle, mettendo in fila eventi e fatti, ciò che di nuovo è accaduto e sta per accadere. Un saggio da rivista, più che un articolo di giornale. Ma il manifesto è un giornale pensante. E dunque sta bene così. Il passaggio è inedito. Il salto rispetto all'immediato passato c'è stato. È compito di ognuno di noi riposizionarsi sul nuovo terreno, nell'analisi e nell'iniziativa.

Forse non era proprio adatto il titolo, credo dello stesso autore. C'è già troppa saggezza attribuita al professor Monti da parte dei suoi molti improvvisati amici, da potergliene attribuire, sia pure ironicamente, una buona dose anche da parte nostra. Io credo che i professori al governo raramente siano saggi. E quando poi si tratta non del filosofo-re, ma del tecnico economista, voi capite che le cose non sono destinate ad andare per il meglio. E tuttavia questa è la soluzione trovata, bisogna dire con abile mossa da vecchia cara politica, per sbalzare di sella, dopo tanti falliti tentativi, il malefico Cavaliere. Se per più di quindici anni si è fatta politica per raggiungere questo unico salvifico obiettivo, è pressoché inevitabile che il mutamento acquisti i segni di una sorta di miracolo di S. Gennaro. Questo spiega una cosa di cui bisogna tener conto: non è solo il ceto politico, è il popolo di centrosinistra, entrambi monotematicamente antiberlusconiani, a guardare con moderato favore a questa soluzione finalmente trovata. C'è già stato il dibattito sulla necessità o meno di baciare il rospo. Si tratta adesso di fare più che un passo in avanti. E il discorso di Asor Rosa ha il merito di cominciare a farlo. Come tutti i suoi discorsi, ci dà il modo di prevedere il tempo che fa, da parte di una cultura ancora e sempre impegnata.

Questo è un governo tecnico con una missione politica. Tecnicamente ha il compito di tirare fuori il paese dal momento acuto della crisi economico-finanziaria, politicamente ha il compito di traghettare il paese fuori dalla lunga deriva della crisi politico-istituzionale. Su ambedue i fronti occorre marcare una presenza, autonoma, critica, propositiva, alternativa anche. Questo vale, magari con ricette diverse, per l'intera sinistra. Abbiamo guadagnato un terreno più avanzato, di lotta e di proposta. L'opportunità va sfruttata. Torniamo a parlare di problemi veri: di come è strutturata questa società, non solo di individui ma di ceti, di quali rapporti di forza tra le classi la attraversano, di quali vincoli effettivi impediscono la crescita, di quale ruolo deve avere il lavoro nel modello paese, di quale futuro non precario per le giovani generazioni.

Insomma, questo governo è destinato, suo malgrado, a riaprire, in grande, fino a farla esplodere, una questione sociale, che nell'immediato passato era stata nascosta come la polvere sporca sotto un tappeto trapuntato. E lo sta facendo, direi, non con saggezza ma con insipienza: creando conflitti, come è tipico della mentalità tecnocratica, con le categorie di nicchia invece che con gli interessi di fondo.

Loro non sanno che alla fine decisivi non sono i numeri ma gli uomini, e le donne, alla fine quelle che contano non sono le cifre ma le esistenze. Il governo non è l'amministrazione di un'azienda, è il luogo politico della decisione, sociale, e poi economica, e poi finanziaria: in quest'ordine di gerarchia. Per fare questo, non ci vuole l'Università Bocconi, ci vuole il partito politico. Non ci vuole la tecnocrazia come supplenza, ci vuole la politica come professione. Senza rivincita dell'istituzione Stato, cioè del potere politico, nazionale o sovranazionale che sia, non ci sarà rilancio del meccanismo economico. I capitalisti moderni lo sapevano, l'avevano capito sull'urto di crisi ben altrettanto devastanti. Non lo sanno questi capitalisti postmoderni, e infatti non riescono a gestire la loro crisi, tanto meno sanno come uscirne.

Qui, si apre lo spazio per l'irruzione in campo di una sinistra del lavoro, di intelligenza e di potenza tale da poter dire: noi sappiamo come rimettere in sesto le cose, ma dovrete prima di tutto pagare voi la vostra crisi. L'utopia di un rovesciamento del rapporto di forza può vestirsi oggi di lucidi realistici panni. Ma guardate come volano basso e con quale scarsa immaginazione! C'è questa sorta di governo mondiale di coalizione - internamente rissosa come tutte le coalizioni di governo - tra Banche centrali, Fondo monetario internazionale, agenzie di rating, e qualche spezzone rimasto di capitalismo reale dominato da corporations, e poi c'è l'intendenza che seguirà dei governi nazional-provinciali. Ebbene, tutta questa immane superpotenza non sa fare altro che usare la crisi come un tempo gli Stati usavano la guerra. Il debito, a rischio default, è il nemico esterno che ci minaccia. I fondamentalisti col temperino impallidiscono di fronte a questa potenza di fuoco.

A combatterlo, questo nemico totale, sono, siamo, chiamati tutti, senza distinzione di condizione sociale, per garantire un superiore interesse. Il capitalismo non sa fondare un ordine sociale con la politica, lo deve fare con la guerra, previa mobilitazione, appunto, totale. E siccome siamo in piena pace dei cento anni, più o meno come nell'Ottocento, al posto degli eserciti combattono i mercati. Noi tutti, per esempio, vecchi lavoratori colpevoli di essersi conquistata una pensione di anzianità e giovani precari senza lavoro ma con la possibilità di spendere un euro per diventare imprenditori, ognuno e tutti dobbiamo indossare l'elmetto e combattere arruolati nell'esercito del supermercato Eurozona.

A questa guerra "in forma", con tanto di resuscitato jus publicum europaeum, va opposta, anch'essa possibilmente "messa in forma", una resistenza di massa. Indignarsi col megafono davanti ai portoni del Palazzo è generoso ma insufficiente. Cercare di introdursi, disarmati, nella stanza dei bottoni è inutile e perdente. Vanno rivisitate e aggiornate ambedue le postazioni, quella di lotta e quella di governo. Accordarle non è più possibile senza prima destrutturarle e ricostruirle. La risposta di movimento gridava: non pagheremo noi la vostra crisi. Quelli stessi che gridavano, quella crisi la stanno pagando. La risposta di governo delle varie esperienze di centro-sinistra, in Italia e in Europa, non è stata, essa, a mettere in crisi la fase neoliberista. Alla fine, in crisi ci si è messa da sola.

E'un dramma storico, di repliche dei fatti alle intenzioni, non più sopportabile. Bisogna assolutamente trovare la leva per sollevare il gigante che dorme. Questo corpo è un'opinione di sinistra, potenzialmente maggioritaria, che non riesce a marcare la propria forza e presenza. E perché? Perché, o non ha voce: l'assenza dal voto si può ragionevolmente pensare che esprima in buona parte questo orientamento. Oppure, ha troppe e troppo diverse voci: lasciando dietro di sé la tradizionale immagine del circo Barnum. Va messo in campo un potente processo di inclusione a sinistra: di strati, ceti, lavori, professioni, generi, culture. Costruito su un polo unitario magnetico. Finché ci saranno più sinistre, non ci sarà nessuna sinistra: con la forza di contare, e la determinazione a vincere. Nessuna volontà di omologazione delle differenze, ma la presa di decisione di farle vivere dentro un soggetto unico. È la condizione indispensabile per riprendersi quanto ci è stato sottratto: autonomia e iniziativa, più precisamente, autonomia culturale e iniziativa politica.

Sta maturando il tempo, passo dopo passo, di un abbandono, per questo nostro paese, delle sue anomalie. In fondo quello, alto-borghese, del Professore e dei suoi tecnici è, per ragioni diverse, un governo non meno "strano" di quello del Cavaliere e della sua corte feudale. Né dell'uno né dell'altro c'è stata e c'è traccia nei paesi avanzati, in Europa e in Occidente. Qualcuno disse che dovevamo avviarci ad essere un paese normale. E' il momento che si faccia il passo decisivo. C'è la fortunata coincidenza di un disfarsi, per consunzione, di questa sciagurata cosiddetta seconda Repubblica e del dissolversi, per via di crisi, di un'economia sregolata, infettata dagli spiriti animali mercatisti. Le due vicende hanno proceduto di pari passo. Prendiamo il governo Monti come l'atto finale della transizione. Quando ti arriva una scelta di sistema, che si presenta come obbligata, devi sapere subito come utilizzarla. Abbiamo capito che su di essa si esplicherà una manovra di ricomposizione centrista del fronte moderato. In questo senso, c'è una funzione politica del governo tecnico. Va esplicata una contromanovra di ricostruzione di un bipolarismo virtuoso, contro quello vizioso sperimentato fin qui.

La legge elettorale acquista allora un'importanza strategica. Un grande centro e una grande sinistra, depurati delle tradizionali espressioni ideologiche, sono gli interlocutori ideali di un confronto politico alto, all'altezza delle forze politiche che hanno fatto non la prima Repubblica, hanno fatto la Repubblica e basta. A destra, emarginate, le pulsioni populiste antipolitiche. Riconquistare la nobiltà della politica è possibile per questa via? Vediamo. Proviamoci. La svolta non è dietro l'angolo. Abbiamo un anno per seminare. E poi una legislatura costituente per raccogliere.

Non è solo a Bruxelles che l´Italia è sotto esame. Esiste un altro esame che riguarda il tasso di civiltà del paese. E chi ci esamina sono i 5 milioni di abitanti che non sono ancora giuridicamente italiani e che cominciano a desiderare di non diventarlo perché temono non sia possibile convivere con noi. I nodi sono venuti al pettine tutti insieme: e tutti insieme vanno affrontati. Con singolare coincidenza il tentato pogrom di massa di Torino e la sparatoria del ragioniere nazista di Pistoia rivelano una diffusione del virus razzista e dell´odio etnico in un´Italia senza attenuanti, l´Italia ricca, colta e civile delle due città che furono le capitali storiche dell´Italia risorgimentale: Torino e Firenze. Anche in questo caso il Paese è costretto a prendere brutalmente coscienza di qualcosa che è accaduto quasi sotto pelle, strisciando, riempiendo goccia a goccia gli interstizi sociali della convivenza, le maniere di pensare, i comportamenti, le pratiche istituzionali. Chi ricorda ancora il decreto Maroni sull´"emergenza nomadi" del 2008? Proprio in questi giorni, appena caduto il governo Berlusconi-Bossi, il Consiglio di Stato ha dato ragione alla sentenza del Tar di Roma che aveva bocciato il decreto e ha avviato lo smantellamento delle sovrastrutture amministrative create per quella minacciata, fantomatica emergenza. Ma chi smantellerà un pregiudizio che si è intanto radicato in profondità e si esprime nello stillicidio di una violenza quotidiana fatta di discriminazione a piccole dosi, per lo più impalpabile, diffusa nell´aria che si respira? Non basta la caduta del governo che ha lungamente e pervicacemente cavalcato il populismo e l´ostilità etnica come strumento di dominio sulle menti impaurite della sua base. È col suo lascito nella coscienza collettiva che si devono fare i conti. Si pensi a tutto il parlare di identità, l´odiosa parola che ha eretto un muro di differenza e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori, che non coincide con le abitudini e coi pregiudizi dell´autosufficienza.

E quando si parla di mercatini delle città italiane come quelli di Piazza Dalmazia e di San Lorenzo, si dovrebbe provare a fare il conto delle misure vessatorie contro quei tappetini stesi sui marciapiedi, contro i borsoni dei venditori africani. Noi forse le abbiamo dimenticate. Ma loro no: è sulla pelle dei discriminati che l´odio e la sopraffazione lasciano il segno. Noi, gli italiani: loro, gli altri. Ecco la parola che fa problema: italiani. È venuto il momento di ridefinire questa parola. Il problema, come ha segnalato il presidente Napolitano, è quello della cittadinanza: che da noi ha un connotato sostanziale del razzismo, impermeabile com´è al dato di realtà del nascere, vivere e lavorare in un luogo. È una questione urgentissima. I segnali di questi giorni hanno portato allo scoperto il fondo melmoso e fetido dove si è iscritto il razzismo come vincolo sociale tipico della società dove vige l´eccezione giuridica.

Un anno fa il rapporto sul razzismo in Italia firmato da Alfredo Alietti e Dario Padovan ha denunciato la diffusione di tendenze razziste nel 51% della popolazione italiana: un numero che coincide con la percentuale di chi si ritrae dalla partecipazione politica. Non a caso. Nella società dell´eccezione giuridica la cultura del razzismo è un sentimento di rifiuto e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori. È qui che bisogna incidere. E non bastano i buoni propositi. Certo è di buon auspicio il fatto che il ministro Andrea Riccardi abbia rilanciato l´invito giunto dal presidente della Repubblica proprio davanti alla tomba di Jerry Maslo, il sudafricano ucciso a Villa Literno. Ma, come e più che per altre urgenze italiane, quella culturale e giuridica del diritto di cittadinanza non può più essere rinviata. Ce lo diceva lo sguardo dei senegalesi riuniti a Firenze: quei morti loro devono diventare i nostri morti.

Un pogrom. Diciamola la parola, per terribile che possa apparire. Quello di Torino è stato un pogrom in senso proprio, come quelli che avvenivano nella Russia ottocentesca. O nella Germania degli anni Trenta. Di quei riti crudeli ha tutti gli elementi, a cominciare dall'uso distruttivo del fuoco, per liberare la comunità dall'intruso considerato infetto (per "purificarla", si dice). E poi l'occasione scatenante, trovata in un presunto - e falso - atto di violenza su una vittima per sua natura innocente (può essere il neonato "rubato", come qualche anno fa a Ponticelli o, appunto, la "vergine" violentata). E lo stato di folla che s'inebria della propria furia vendicatrice, convinta di compiere un "atto di giustizia".

Ora, che il mostro si sia materializzato, in questo dicembre del 2011, a Torino dovrebbe farci riflettere. Qui, nella ex "capitale operaia". Nella città delle lotte del lavoro, dove è nata la nostra democrazia industriale. Né serve ripetere la stanca litania che Torino è un esempio di "integrazione e di accoglienza". Che la maggioranza la pensa diversamente dalle poche decine di invasati che a colpi di fiaccola e di accendino ha tentato una strage. Non è così.

Se una ragazzina spaventata e (per questo) bugiarda ha evocato i "due zingari" per accreditare una violenza mai avvenuta, è perché ha pensato che quell'immagine rendesse credibile - in famiglia e nel quartiere - un racconto altrimenti improbabile. Se centinaia di persone sono scese in piazza in una fredda serata d'inverno per manifestare, non è purtroppo perché si trattava di una violenza sessuale (quante sono passate ignorate in questi anni!), ma perché i suoi presunti (e falsi) autori erano di un'etnia odiata a priori. Se le decine di incendiari hanno potuto agire sotto lo sguardo compiacente degli altri abitanti del quartiere, è perché mettevano in scena un comportamento condiviso.

La verità è che la "città dell'accoglienza" è oggi priva di anticorpi contro i nuovi mostri che emergono dalle sue viscere provate dalla crisi. Politica e informazione ne sono responsabili. Da anni ogni discussione in Consiglio comunale sui "campi nomadi" si apre e si chiude sempre e solo su un unico tema, gli sgomberi. E il quotidiano cittadino La Stampa ha dato notizia del fatto, poco prima che la sedicenne confessasse, sotto l'indecente titolo a quattro colonne: «Mette in fuga i due rom che violentano la sorella». Perché i giovani balordi delle Vallette dovrebbero essere migliori dei loro amministratori e giornalisti? Perché gli abitanti sbrindellati, spaesati e logorati dai debiti e dalla disoccupazione, di questo che era, fino a tre decenni fa, il quartiere dormitorio dov'era stokkata la forza-lavoro di Mirafiori e del Lingotto, e dove ora si accumulano i detriti di una composizione sociale in disfacimento, dovrebbero essere più consapevoli, e "politicamente corretti", delle loro élites?

Torino, da anni, si compiace della bellezza ritrovata del proprio centro, brillante e patinato. Del fascino delle proprie piazze-vetrine e delle dimore sabaude restaurate. Oggi scopriamo che quel centro geometrico e luccicante è un po' come il volto intatto ed eternamente giovane di Dorian Gray - l'inquietante personaggio di Oscar Wilde -, mentre il suo ritratto, invecchiato e sfregiato, lo si può scorgere qua, nel quartiere di periferia dove si è scaricata tutta la carica di degrado e di bruttura accumulata in questi anni: lo sfarinamento della sua industria, l'erosione dei diritti sociali, l'impoverimento e la precarizzazione del lavoro, la crisi della socialità e della solidarietà. Tra il vuoto di diritti e di potere che si è aperto a Mirafiori, e questo pieno di rancore e di passioni funeste che si è condensato nel suo antico dormitorio, corre il filo nero di un'infausta profezia.

Auguriamoci che Torino non sia, ancora una volta, "laboratorio". Che non anticipi i segni di un'involuzione antropologica mortale. Il lungo piano inclinato della crisi, via via più ripido, lascia intravvedere inediti scenari weimariani, minacce fino a ieri impensabili. Il conflitto sociale, rimosso ed esorcizzato al vertice, rischia di ricomparire al fondo della piramide sociale, con il volto sfregiato della "folla criminale", del linciaggio e della ricerca feroce del capro espiatorio. Se la caduta dovesse accelerare, e la situazione precipitare, allora, con molta probabilità, il pogrom di Torino non resterebbe un fatto isolato.

L'ex premier è stato sempre protetto, assistito e garantito dal potere pubblico. Gli è mancato un amministratore delegato per governare l'impresa-Stato. Come Mario Monti. Tra '89 e '91 il «biennio in rosso» di Fininvest: debiti triplicati a dispetto del dumping pubblicitario. E nel '93 il maxifinanziamento di Goldman Sachs. Poi la «discesa in campo». E le cose migliorano

C'era da aspettarselo. Alla prima vera e grande prova del fuoco da imprenditore, investito della guida del Paese e chiamato a risolverne la crisi, Silvio Berlusconi ha fallito l'obiettivo. A cominciare dal principale: il debito.

Il motivo del suo fallimento è semplice: non è un imprenditore vero. O meglio, imprenditore lo è, ma lo è sempre stato in modo assistito, protetto, garantito. Per prima cosa dal vecchio Potere politico alla cui ombra, negli anni Ottanta, è nato, cresciuto e s'è pasciuto. Ottenendo leggi, decreti e sentenze per le sue televisioni fino all'approvazione della legge Mammì del 5 agosto 1990, che ha fotografato il duopolio esistente (Rai-Fininvest), ingessandolo, e garantendo alla reti Fininvest la diretta televisiva e il diritto a tre Tg, come la Rai. Un assetto utile per costruirsi il consenso e farsi esso stesso Potere politico. In proprio e a difesa delle sue aziende, dal 1994 ad oggi, dopo la caduta del vecchio Sistema sotto i colpi giudiziari di Tangentopoli.

L'impasse in cui è caduto nei giorni scorsi Berlusconi, da presidente del Consiglio, sulla crisi, sui conti, sulla finanza, è la prova provata del suo essere imprenditore sui generis, bravo solo con l' "aiutino" alle sue aziende. Quelle stesse che, all'apice della crisi, sotto la pressione dello spread e prima delle dimissioni di sabato scorso, sono state oggetto di un vertice rapidissimo tra lui, i figli, il presidente Mediaset Confalonieri e l'avvocato Ghedini, non appena s'è capito che il governo vacillava, la maggioranza smottava e molti deputati traghettavano verso il Centro. Allora il suo primo pensiero è andato alle proprietà.

Forse Berlusconi, in questi anni e nell'ultima ora, avrebbe dovuto avere al suo fianco, più che un ministro dell'Economia, un Amministratore delegato vero che lo guidasse, consigliasse, indirizzasse. Come quel Franco Tatò che a metà degli anni Novanta prese in mano la Fininvest, rigirò l'azienda come un calzino, risanandola, e preparando il terreno a quella collocazione in Borsa del Biscione da Berlusconi sempre osteggiata: «Che cosa ci vado a fare in Borsa? I soldi per la mia crescita me li procuro con gli utili. Se andassi in Borsa, certo, raccoglierei altri soldi, ma non saprei cosa farne, come investirli. Avrei solo un sacco di grane e basta». Invece, come un colpo di spugna, l'operazione cancellò tutti i debiti, creando il presupposto per il futuro successo aziendale.

Già, perché agli inizi degli anni Novanta, Silvio Berlusconi era pieno di "buffi": 1.242 miliardi nel 1987 e 3.469 l'anno successivo. Tre volte tanto. E un utile netto calato del 26%, dai 245,9 miliardi dell'87 ai 181,8 dell'88 secondo la classificazione di R&S, ovvero la summa dei bilanci delle società italiane annualmente pubblicata da Mediobanca. Il tutto a dispetto di un fatturato che nel periodo è invece letteralmente esploso, passando dai 2.631,2 miliardi dell'87 ai 6.048 miliardi di lire dell'anno successivo.

Certo, alla data di metà gennaio 1991, quando gli indici del "biennio in rosso" della Fininvest diventano pubblici, va calcolato che Berlusconi per rafforzare le proprie posizioni in Mondadori, appena strappata a Carlo De Benedetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari con una sentenza che si saprà poi esser stata "comprata", frutto della corruzione di un giudice, ha speso nel corso del 1989 circa 950 milioni, per altro non calcolati nel R&S del 1990. Dal punto di vista industriale e imprenditoriale, una situazione fallimentare. Quasi da libri in tribunale. Ciò che mette fortemente in discussione la figura imprenditoriale dell'allora Sua Emittenza.

«I suoi debiti sono grandi - scriveva The Economist a metà marzo 1992 -, la sua prepotenza più grande ed egli potrebbe aver sfiorato i limiti della legge». Era il periodo in cui 21 editori, in rappresentanza di 44 quotidiani italiani ed esteri, avevano denunciato il patròn della Fininvest al Garante per l'editoria di «abuso di posizione dominante» nel settore della pubblicità. E anche di dumping, vendendo pubblicità sottocosto per mettere nei guai i concorrenti, Rai, piccole emittenti, carta stampata. Lui di sé già allora diceva: «Sono il più bravo».

Però l'imprenditore, perfetto conoscitore delle «catene azionarie degli altri», al quale l'ingresso in Borsa fa schifo perché costretto a dividere con "il mercato" le azioni, «mentre io qui, invece, controllo il 100 per cento di ogni telecamera, di ogni spezzone di film che sta in archivio», il 6 maggio 1993 - a soli pochi mesi dalla decisione di "scendere in campo" - è costretto a confessare ai massimi dirigenti del suo gruppo riuniti in una tradizionale cena: «Voi sapete che a me non è mai piaciuto avere soci nella Fininvest, ma oggi devo dire che un socio purtroppo l'abbiamo, e al 40%: si tratta delle banche». Ed è costretto a cercare altra liquidità negoziando un maxi-finanziamento a Londra con la Goldman Sachs e attraverso qualche cessione. Operazioni comunque complesse se i profitti sono in calo e i debiti in crescita.

Il 5 ottobre 1993 Silvio Berlusconi corre ai ripari, fa un passo indietro (il primo di una serie), rinuncia ad occuparsi di tutto e nomina un Ad del gruppo. E sceglie come plenipotenziario Franco Tatò, soprannominato "kaiser Franz" per quel suo rigore tedesco, l'ossessione per i numeri e anche per essere un gran tagliatore di teste. Del resto gli ultimi dati di Mediobanca hanno quantificato debiti per la Fininvest nel '92 per complessivi 7.140 miliardi. Al "dottore" non è andata proprio giù che se ne sia parlato sui giornali. Tanto da querelare Giovanni Valentini, che su la Repubblica del 9 marzo 1994 gli attribuisce «un'esposizione a breve verso le banche di 8.561 miliardi». Falso, tuona Fedele Confalonieri sulle stesse colonne, «tale esposizione ammonta a 2.081 miliardi». Che non sono proprio noccioline.

Addirittura il 3 febbraio 1994, a pochi mesi dalle elezioni, viene fuori che «il Cavaliere non paga». Non paga le sue star, non salda le fatture, tiene in ballo centinaia di creditori che da tempo non vedono da lui nemmeno una lira, i dipendenti delle ditte che forniscono servizi in appalto, persino i doppiatori dei film e delle soap. Ancora a marzo The Economist scrive: «Silvio Berlusconi spera di diventare il prossimo primo ministro italiano e propone di applicare il suo acume per gli affari al risanamento dell'Italia» ma «la grande similitudine tra la Fininvest e il Tesoro italiano è che entrambi sono impantanati nei debiti». E mai similitudine fu più profetica, solo che 17 anni dopo l'Italia è nel fango e le sue aziende sull'Olimpo.

Intanto la "cura tedesca" di kaiser Franz è fatta di tagli e alla fine porta al raddrizzamento dei conti. Per tutto il '93 e il '94 riduce personale (1.356 unità tra il '93 e il '94), contraddicendo quello stesso Berlusconi che si vanta: «Noi non abbiamo mai licenziato nessuno». Ma perché proprio Tatò, per altro manager con vaghe simpatie di centro-sinistra? È l'unico su piazza in grado di poter rimettere in sesto l'azienda. Mentre il futuro leader politico già si professa «vittima di uno Stato crudele», sempre «col cappello in mano», tartassato dalle tasse e vittima «di una campagna denigratoria» che lo vuole distruggere, di leggi inique pensate da un Parlamento nemico degli imprenditori» (e la discesa la sta già preparando).

Poi c'è la conquista di Palazzo Chigi e le offerte bluff di Murdoch. Lo squalo si presenta ad Arcore con un assegno e poi chiede a Berlusconi di diventare suo socio. Quindi l'accordo siglato con l'arabo Al-Waalid Bin Talal Bin Abdulziz Al Saudi, principe arabo interessato a comprare una quota di Mediaset. L'aumento di capitale, la famiglia Berlusconi che mette liquidi nell'azienda, l'arrivo del gruppo sudafricano Rupert e del tedesco Kirch. Tanto denaro in cambio di poco. E senza risolvere il conflitto di interessi, di cui si occupano "quattro saggi", giuristi-amici chiamati direttamente dal presidente del Consiglio, naturalmente senza risolverlo.

Però da 3.469 miliardi il "rosso Fininvest" nel 1995 passa a soli 78 miliardi... E poco prima di Natale ben 7 istituti di credito guidati dall'Imi si apprestano a diventare azionisti della holding che raggruppa gli interessi televisivi e pubblicitari di Silvio Berlusconi. Avrebbero fatto lo stesso se si fosse trattato semplicemente del "dottor" Silvio Berlusconi e non anche del presidente del Consiglio?

Non è un caso, infatti, che nell'annunciare gli sviluppi dell'operazione bancaria, il vicedirettore generale dell'Imi, Vittorio Serafino, sia costretto a difendersi accanitamente da coloro che accusano il suo istituto «di prestarsi ad un'operazione dai connotati confusi»: le banche pubbliche, o ex pubbliche, ma comunque condizionate dal potere politico, aiutano Berlusconi a salvarsi dalla bancarotta per disegni che poco hanno a che spartire con i principi dell'economia.

È il 31 dicembre 1995, Capodanno. Giuseppe Turani, firma economica de la Repubblica, si chiede: «A voi che cosa ha portato Gesù Bambino per Natale? Un nuovo impianto hi-fi? Un tv color? Un telefonino cellulare? Un Rolex (magari d'oro e platino)? Una Ferrari rossa fiammante? Qualunque cosa abbiate ricevuto, c'è almeno un italiano a cui è andata di sicuro molto meglio: Silvio Berlusconi. A lui Gesù Bambino e Babbo Natale hanno portato 370 miliardi di lire in cambio del 5,5% di Mediaset». A portarglieli sono stati banchieri pubblici, di quelli seri, abito scuro, camicia bianca, panciotto grigio. Per Fininvest 370 miliardi di debiti in meno.

Già il 3 aprile 1996, le aziende di Berlusconi fanno più utili e meno debiti. Il 15 e 16 luglio Berlusconi quota le tv e rastrella denaro alla Borsa. E già il 21 settembre può annunciare di aver abbattuto l'indebitamento. Il 23 ottobre la società di Cologno Monzese raddoppia addirittura gli utili. Il 13 giugno 1997 si calcola che i mezzi finanziari del gruppo ammontino a 1.000 miliardi di lire e che il braccio operativo dell'azienda (la Soparfi, Società di partecipazioni finanziarie) si trovi in Lussemburgo. E il 2 luglio dello stesso anno il Cavaliere, o chi per lui, può annunciare che «la Fininvest ha azzerato i debiti». Il collocamento in Borsa di Mediolanum e Fininvest ha fatto affluire nelle casse del gruppo poco meno di 5.000 miliardi di capitali freschi. «In Mediaset stat virtus» ironizzano gli opinionisti di mezzo mondo.

Di mezzo ci sono però anche il fallimento francese della tentata conquista de La Cinq, il profondo rosso della Standa (acquisita da Gardini e già Montedison, rivenduta dopo qualche anno), la cessione della maggioranza di Mondadori e la vendita a Ennio Doris di Fininvest Italia per fare cassa, il pessimo andamento delle attività assicurative, di Banca Mediolanum, della finanziaria Programma Italia. Un andazzo altalenante. Chiari e scuri, luci e ombre.

Per pareggiare i conti con l'Europa a Silvio Berlusconi Giulio Tremonti non è bastato. Perché ciò che succede in Italia non può accadere in Europa. Non è bastato nascondere la crisi come si fa con la polvere sotto il tappeto. Solo in Italia può attecchire la favola dell'imprenditore fuori dalla Casta che s'è fatto da sé. La verità è che per anni ha sfruttato la politica altrui e poi usato a fondo la propria. Un imprenditore di Stato. Che in casa propria può vivere solo grazie alla furbizia italica, i trucchi e le tante connivenze.

In fondo, alla fine, più che lo spread, i vertici di famiglia, l'assedio delle opposizioni, le pressioni del Colle, il mal di pancia dei suoi, quel che ha contato di più per Silvio Berlusconi è stato il consiglio di Ennio Doris che, occhio agli indici e ai listini di Borsa, gli ha detto: «Presidente, se qui non ti fai da parte perdi tutto. Il valore delle tue aziende si dissolve, ne vale la pena?».

Alla fine l'amministratore delegato è arrivato: Mario Monti. In fondo, come scriveva il britannico Financial Times il 26 settembre 1993, «tutti i proprietari di mass media in Italia, più o meno apertamente sostengono una causa, questa è proprio la ragione per cui sono diventati proprietari. (...) Lo stesso Berlusconi è sempre stato un animale politico, ed ha costruito il suo impero grazie a una stretta amicizia politica con Bettino Craxi». L'imprenditore che s'è fatto politico per interesse personale non è bastato a se stesso. Nella duplice veste, di imprenditore e politico. E ha dovuto rassegnare le dimissioni senza trovare qualcuno disposto a salvarlo dal suo fallimento.

È certo che anche se Berlusconi andasse via, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Durante questo ventennio ha terremotato l'apparato statale infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. Dalle abitudini al linguaggio, ha "smontato" lo Stato

È la normalità, la tanto attesa normalità, che ha reso storica la lunga giornata di ieri anche se ci vorrebbe un governo Monti delle anime e dei sentimenti e dei valori per liberare l'Italia dal berlusconismo. Nessuno dunque si illuda che sia davvero scaduto il tempo. Certo, alla Camera lo hanno giubilato, gli hanno fatto un applauso da sipario: è così che si chiude e si dimentica, con l'applauso più forte e più fragoroso che è sempre il definitivo.

Poi Napolitano è riuscito a dare solennità anche all'addio di Berlusconi che sino all'altro ieri si era comportato da genio dell'impunità inventando le dimissioni a rate. Che lui nascondesse una fregatura sotto forma di sorpresa è stato il brivido di ieri, e difatti, inconsapevolmente, nessuno si è lasciato troppo andare e la festa, sino all'annuncio ufficiale delle dimissioni, più che sobria è stata cauta. Di sicuro Berlusconi non ha avuto il lieto fine. Entrato in scena cantando My Way ne è uscito con lo Zarathustra che premia "il folgorante destino di chi tramonta".

Dunque non c'è stato il 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c'è stato neppure l'addio ai monti di Renzo anche se nessuno sa cosa farà Berlusconi, se rimarrà in Italia o invece andrà in uno dei degli ospedali che dice di avere regalato nei luoghi del Terzo Mondo. Tutti parlano, probabilmente a vanvera, di una trattativa parallela e coperta sui processi, di un salvacondotto e di un'amnistia che non hanno mai riguardato in Italia reati come la corruzione e lo sfruttamento della prostituzione. In un Paese normale la rimozione di un capo non produce mai sconquassi e siamo sicuri che il pedaggio che paghiamo alla normalità non sarà l'enorme anormalità di un pasticcio giuridico.

È comunque certo che, anche se Berlusconi si rifugiasse ad Antigua, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Ecco perché ci vorrebbe una banca centrale della civiltà per commissariare il Paese dove Berlusconi "ha tolto l'aureola a tutte le attività fino a quel momento rispettate e piamente considerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo di scienza in salariati da lui dipendenti".

Dunque neppure nello storico giorno in cui è stato accompagnato fuori con il suo grumo di rancore invincibile e lo sguardo per sempre livido, è stato possibile accorarsi e simpatizzare. Non c'è da intonare il requiem di Mozart o di Brahms per l'uomo più ricco d'Italia che ha comprato metà del Parlamento e ha ordinato di approvare almeno 25 leggi ad personam. E ha terremotato lo Stato infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. E mentre i suoi ministri leghisti attaccavano la bandiera e l'unità dello Stato, Berlusconi organizzava la piazza contro i tribunali di Stato, la Corte costituzionale, il capo dello Stato. Anche il federalismo non ha preso, come negli Usa e in Germania, la forma dello Stato ma dell'attacco al cuore dello Stato. Avevamo avuto di tutto nella storia: mai lo statista che lavorava per demolire lo Stato. Quanto tempo ci vorrà per rilegittimare i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti politici, dagli insegnanti ai bidelli ai poliziotti senza soldi e con le volanti a secco?

E quante generazioni ci vorranno per restituire un po' di valore all'università, alla scuola e alla cultura che Berlusconi ha depresso e umiliato: contro i maestri, contro gli insegnanti, contro tutti i dipendenti pubblici considerati la base elettorale del centrosinistra, e contro la scuola pubblica, contro il liceo classico visto come fucina di comunisti. E ha degradato la più grande casa editrice del Paese a strumento di propaganda (escono in questi giorni i saggi di Alfano, Sacconi, Bondi, Lupi....). Ha corrotto una grande quantità di giornalisti come mai era avvenuto. Ha definitivamente distrutto la Rai affidata ad una gang di male intenzionati che hanno manipolato, cacciato via i dissidenti, lavorando in combutta con i concorrenti di Mediaset. E con i suoi giornali e le sue televisioni ha sfigurato il giornalismo di destra che aveva avuto campioni del calibro di Longanesi e Montanelli. Con lui la faziosità militante è diventata macchina del fango. Testate storiche sono state ridotte a rotocalchi agiografici. E ha smoderato i moderati, ha liberato i mascalzoni dando dignità allo spavaldo malandrino, ai Previti e ai Verdini, ai pregiudicati, e c'è un po' di Lavitola, di Lele Mora e di Tarantini in tutti quelli che gli stanno intorno, anche se ora li chiama traditori. Berlusconi, che fu il primo a circondarsi di creativi, di geniacci come Freccero e Gori ha umiliato la modernità dei nuovi mestieri, della sua stessa comitiva, l'idea di squadra che all'esordio schierava a simbolo Lucio Colletti e alla fine ha schierato a capibranco Tarantini, Ponzellini, Anemone, Bisgnani, Papa, Scajola, Bertolaso, Dell'Utri, Verdini, Romani, Cosentino. Eroi dei giornali di destra sono stati Igor Marini e Pio Pompa. I campioni dell'informazione berlusconiana in tv sono Vespa, Fede e Minzolini. Persino il lessico è diventato molto più volgare, il berlusconismo ha introdotto nelle istituzioni lo slang lavitoilese, malavitoso e sbruffone. E'stato il governo del dito medio e del turpiloquio, è aumentato lo 'spread'tra la lingua italiana e la buona educazione.

E la corruzione è diventata sacco di Stato e basta pensare agli appalti per la ricostruzione dell'Aquila, assegnati tra le risate della cricca. Berlusconi ha dissolto "tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi. E tutto ciò che era solido e stabile è stato scosso, tutto ciò che era sacro è stato profanato". Persino la bestemmia è diventata simonia spicciola, ufficialmente perdonata dalla Chiesa in cambio di privilegi, scuole e mense. Toccò, nientemeno, a monsignor Rino Fisichella spiegare che, sì, la legge di Dio è legge di Dio, ma "in alcuni casi, occorre "contestualizzare" anche la bestemmia". E quanto ci vorrà per far dimenticare la diplomazia del cucù e delle corna, lo slittamento dal tradizionale atlantismo verso i paesi dell'ex Unione Sovietica, la speciale amicizia con i peggiori satrapi del mondo?

E mai c'era stata una classe dirigente maschile così in arretrato di femmina verrebbe da dire con il linguaggio dell'ex premier: femmina d'alcova, esibita e valutata come una giumenta, con il Tricolore sostituito con quella grottesca statuetta di Priapo in erezione che circolava - ricordate? - nelle notti di Arcore. Persino il mito maschile della donna perduta e nella quale perdersi, persino la malafemmina italiana è stata guastata da Berlusconi, ridotta a ragazza squillo della politica: l'utilitaria, il mutuo, seimila euro, l'appartamentino, un posto di deputato e forse di ministro per lucrare il compenso - "il regalino" - agli italiani. Lo scandalo del berlusconismo non è stato comprare sesso in un mondo dove tutto è in vendita ma nel pagare con pezzi di Stato, nell'uso della prostituzione per formare il personale politico e selezionare la classe dirigente. E non è finita: se la prostituzione ha cambiato la politica, anche la politica ha cambiato la prostituzione. La Maddalena ha perso la densità morale che fu una forza della nostra civiltà, è diventata la scialba ragazzotta rifatta dal chirurgo ed educata dalla mamma-maitresse a darla via a tariffa.

Il berlusconismo è stato l'autobiografia della nazione per dirla con Croce, non un accidente della storia. Non basta certo una giornata solennemente normale per liberarcene. C'è bisogno di anni di giornate normali. E per la prima volta non saranno gli storici a mettere in ordine gli archivi di un'epoca. Ci vorranno gli antropologi per classificare il berlusconismo come involuzione della specie italiana, perché anche noi, che siamo stati contro, l'abbiamo avuto addosso: "Non temo il Berlusconi in sé - cantava Gaber - ma il Berlusconi in me".

Il museo che ricorda l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema da lunedì prossimo sarà chiuso. Lo ha annunciato il sindaco di Stazzema, Michele Silicani. «Mancano i fondi dello Stato», moroso già da due anni.

L’ultimo sfregio alla memoria porta in calce la firma del ministro per i beni e le attività culturali Giancarlo Galan. Centomila euro negati (equamente divisi tra il dovuto per il 2010 e il 2011) e il Museo della Resistenza di Sant’Anna di Stazzema che si ritrova costretto a chiudere. Una doccia fredda, l’ennesima, in uno dei luoghi simbolo del dramma perpetrato in Italia dai nazifascisti. Era l’alba del 12 agosto 1944, quando tre reparti di SS, accompagnati da fascisti collaborazionisti, salirono a Sant’Anna (località classificata dal comando tedesco “zona bianca” ossia adatta ad accogliere sfollati) mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle. Gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi restarono nelle loro case. In poco più di tre ore vennero massacrati 560 innocenti, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano, compiendo atti di efferata barbarie. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Il Parco della Pace, di cui il Museo della Resistenza è il cuore, è stato istituito con la Legge 381 dell’11 dicembre 2000 proprio con l’obiettivo di «mantenere viva la memoria storica di quei tragici eventi ed educare le nuove generazioni ai valori della pace, della giustizia, della collaborazione e del rispetto fra i popoli e gli individui».

PROMESSE DISATTESE

Tutto questo, all’agonizzante governo, sembra non interessare più. Perché dopo le rassicurazioni avute dalla giunta comunale lo scorso agosto a Roma (quando incontrò il sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Giro, ottenendo un impegno a ripristinare il finanziamento al Parco per gli anni 2010 e 2011) il ministero ha risposto negativamente lunedì a una interrogazione in merito presentata alla Camera dalla deputata del Pd Raffaella Mariani. «E noi da lunedì chiudiamo. Uno dei luoghi più importanti della memoria in Italia viene cancellato così, con un colpo di spugna» si è sfogato ieri il sindaco di Stazzema Michele Silicani. «Il governo offende il ricordo di tutte quelle vittime ha aggiunto Nega un cifra come questa mentre nelle settimane scorse ha concesso oltre 2 milioni di finanziamento a quattro istituti di storia medievale». A Sant’Anna ogni anno arrivano in visita oltre 50mila persone, per quasi tre quarti studenti e giovani di tutta Europa che si recano sulle colline della lucchesia per visitare l’unico Parco nazionale della Pace il cui altro corrispondente al mondo si trova a Hiroshima. «Questi soldi sono una cifra di scarsa rilevanza per lo Stato, ma vitali per noi perché sono quelli con cui si pagano le utenze, la cooperativa di giovani e competenti operatori che accoglie e guida i visitatori e con cui si mantiene il decoro». Per il funzionamento del Parco ogni anno servono 200mila euro e più della metà arrivano dalla Regione Toscana che non si è mai tirata indietro.

CAUSA ALLO STATO

Ma l’amministrazione comunale di Stazzema non resterà con le mani in mano e preannuncia battaglia. «Politicamente e moralmente è una questione di grande gravità dire a chiare lettere che non vogliono finanziare chi si impegna per la pace ha concluso il sindaco Ma si apre anche un problema contabile: siamo decisi a fare causa allo Stato ed in particolare al ministero dei beni culturali per il mancato finanziamento di una legge nazionale che è in vigore a tutti gli effetti. Il nostro legale di fiducia ha già in mano tutte le carte per affrontare la causa». A dare man forte ci saranno anche i parlamentari del Pd. «Da sottosegretario ai beni culturali nel 2006 mi trovai nella stessa situazione ha ricordato il senatore Andrea Marcucci Berlusconi non aveva onorato le quote per cinque anni, così trovammo le risorse per saldare il pregresso e istituire il Museo. Il diniego del ministro Galan è uno schiaffo a un simbolo sacro della nostra Repubblica».

Le recenti ironie di Merkel e Sarkozy sul presidente del Consiglio fanno tornare di attualità critiche e giudizi severi sull´immagine all´estero del Belpaese Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, gli si danno ultimatum dopo troppi annunci a effetto e mistificazioni verbali A partire dal 1500 un cliché ci dipinge come infami traditori perfidi congiurati alleati infidi e combattenti vili

Ci siamo fatti una gran brutta fama, in Europa e nel mondo. A partire dal 1500 è nato un cliché che ci ha dipinti come infami traditori, come perfidi congiurati, come vili sul campo di battaglia, come alleati pronti alla defezione, come saltimbanchi privi di dignità (e, più di recente, come mafiosi); nella migliore delle ipotesi, come talentuosi e inaffidabili avventurieri. Questa noméa anti-italiana è dovuta a un anti-machiavellismo di maniera, a pregiudizi protestanti e "nordici", e anche a effettive debolezze dei nostri costumi e delle nostre politiche – l´Italia è passata tardi e male dalle corti allo Stato, dall´intrigo alla legge, dall´arrangiarsi alla laboriosità, dalla sudditanza alla cittadinanza –; sull´italiano è stata costruita una maschera – quella di Arlecchino, diabolico ma gaglioffo e sempre bastonato, e quella di Pulcinella, eversivamente plebeo e scioperato – che ci ha accompagnato fino a tempi molto recenti; solo l´Italia democratica, saldamente ancorata alla Nato, all´Europa, al progresso economico e scientifico, se ne era liberata (e forse non del tutto).

Oggi un sorriso di scherno riappare, e unisce Francia e Germania in una valutazione del premier italiano, Silvio Berlusconi. È un sorriso umiliante che sancisce un´inferiorità determinatasi non in antichi campi di battaglia ma nel loro equivalente contemporaneo: cioè nel saper gestire, con responsabilità e decisione, le drammatiche vicende economiche e finanziarie che rischiano di travolgere la moneta europea – e con questa la già precaria esistenza della Ue –. È davanti a questa guerra che l´Italia di Berlusconi si comporta in modo risibile. Perché il suo governo – dopo non avere capito l´esistenza della crisi, e averla poi minimizzata – oggi non riesce ad agire, né a ispirare fiducia. Troppe sono le promesse non mantenute, gli annunci a effetto, le mistificazioni verbali, le giustificazioni spudorate, le lagnose proteste, le astuzie meschine, le esitazioni, le incertezze, le mostruose gaffe – che un tempo avrebbero provocato la rottura delle relazioni diplomatiche – in cui si è esibito Berlusconi, perché tutto ciò non avesse riflessi sulla considerazione in cui è tenuta l´Italia. Lasciata ostentatamente in disparte dai vertici informali che contano davvero, ignorata dagli Usa, tagliata fuori dai bottini di guerra, l´Italia fa ridere perché il suo premier non è all´altezza della sua posizione – e infatti la occupa, in un´interminabile agonia del suo regime, solo perché teme per il proprio futuro personale.

D´accordo. Sarkozy è irritato perché Bini Smaghi non lascia la Bce, come promesso, e anche la Cancelliera Merkel ha buoni motivi per non amare Berlusconi. Ma non v´è dubbio che quel sorriso è anche un giudizio politico complessivo: non solo Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, non solo gli si danno ultimatum, ma ci si consente anche di ridere apertamente di lui. Grazie al quale l´Italia torna a essere il Paese dei perfidi ingannatori e degli inaffidabili furbastri, qual era stato dipinto dalla tradizione di pregiudizi e stereotipi che ora riaffiora, e non certo per un immotivato rigurgito di razzismo anti-italiano quanto piuttosto perché all´anti-italianità, che cova sotto la cenere, si offrono fin troppi motivi di manifestarsi.

Non c´è alcun compiacimento nel rilevare ciò. Anzi, la derisione internazionale è un fattore di vergogna civile che si aggiunge agli altri che già amareggiano e avvelenano la vita politica del nostro Paese. Ma si deve anche respingere la scandalosa utilizzazione che la destra sta già facendo del sorriso franco-tedesco: un´utilizzazione strumentale, rivolta a sollecitare il vittimismo nazionalistico che batte nel cuore degli italiani, i quali dovrebbero indignarsi, secondo i berlusconiani, non per i mali dell´Italia – per la sua corruzione, per i miserabili investimenti nella ricerca, per il tasso di disoccupazione giovanile e femminile a livelli stellari – ma perché due leader europei (certo, pieni di problemi anche loro) si mettono a ridere quando si chiede loro se si fidano di Berlusconi. Ed è da respingere anche la tesi, avanzata dal premier, che l´opposizione sarebbe anti-italiana e che, controllando i media, diffonderebbe all´estero un´immagine falsa e catastrofistica del Paese. Come se la Cancelliera Merkel e il Presidente Sarkozy avessero bisogno della stampa italiana per formarsi un giudizio su Berlusconi e la sua politica.

Non si tratta di anti-italianità delle opposizioni e di patriottismo della maggioranza. Se si guarda non all´effetto (l´umiliazione) ma alla causa (la politica di Berlusconi) si capisce bene chi è che fa male all´Italia e chi invece cerca di mandare al mondo il messaggio che non tutti gli italiani sono arci-italiani stereotipi e macchiettistici; che – senza essere anti-italiani e senza giubilare per le sconfitte del nostro Paese – si può essere contro l´Italietta berlusconiana; e che anzi tanto più si è filo-italiani quanto più ci si adopera per dissociare democraticamente l´Italia da Berlusconi. È quindi ora di rimeditare quanto scrisse Gobetti nel 1925: «per essere europei dobbiamo sembrare nazionalisti»; il che significava – e significa – che per essere all´altezza della civiltà occidentale, e non delle sue periferie chiassose, dobbiamo amare l´Italia, veramente e non retoricamente, e, quindi, volerla diversa. Un´Italia, cioè, che, almeno, non assomigli alla sua maschera buffa e spregevole.

Qualche osservazione. Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.

Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.

Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste. 
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato. 
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.

Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto. 


L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.

Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.

Che l´Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: «Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte». Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere. Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C´è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L´ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.

Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l´attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.

Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su , di un colloquio telefonico avvenuto nell´ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: «Mi manda il Capo». Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: «Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere». E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l´impunità: «Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri».

Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un´autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l´appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l´esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l´attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli.

La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall´altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l´agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.

Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d´interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n´è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.

È dagli inizi degli anni ‘80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull´Italia. Peggio: è dalla fine degli anni ‘70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell´Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all´incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l´un l´altra, come nei Piani della P2.

Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l´elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest´ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: «Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro». Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.

La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell´opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D´improvviso non c´è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: «I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all´età loro non l´abbiamo fatto». E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente («È un gran peccato») la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.

La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d´ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell´inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s´intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d´ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: «Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l´antitesi radicale della Democrazia».

Titolo su La Padania: «Io esisto e sono padano». Ecco, se uno comincia a ripetersi, «Io esisto, io esisto, io esisto...», è il momento di chiamare lo psichiatra. Ma dire che il popolo padano non esiste è un'esagerazione. Esiste Maga Magò? Certo che sì. E lo yeti? Forse. Ecco qui di seguito alcune prove inconfutabili di esistenza in vita della Padania, del suo popolo e dei suoi illuminati dirigenti.

Le ronde. Le famose ronde non esistono. Pigrizia padana. Eppure in Italia (che esiste) si è parlato di ronde tutti i giorni su tutte le prime pagine, per mesi e mesi, anche con densi e dotti interventi di pensatori (?) della sinistra (?) che dicevano «perché no...».

Malpensa. L'aeroporto di Malpensa esiste. È un lungo campo di bocce vicino a Varese che paga alcuni milioni di euro ai suoi incapaci dirigenti padani. Per essere una cosa che non esiste, la Padania ci costa parecchio.

Il pacchetto sicurezza. Affossato dalla Corte Costituzionale, il grottesco insieme di leggine e regolamenti e ordinanze per sindaci mitomani non esiste più. Eppure, con gran strepito del padano Maroni, l'Italia intera ne parlò per mesi e mesi come se fosse una cosa reale.

Il porcellum. Pur avendo le ore contate, la legge elettorale più schifosa del mondo l'ha scritta Calderoli. Per essere una cosa che non esiste, la Padania produce cazzate notevoli.

Il reato di clandestinità. Esiste, riempie le galere di innocenti ed è il più clamoroso esempio di esistenza della barbarie padana.

Sono solo alcuni casi, ma forse bastano per dire che il popolo padano, i suoi politici, i suoi ministri, esistono. Purtroppo. Per fortuna, invece, si stanno estinguendo da soli e speriamo facciano in fretta. Solo, una volta estinti i padani, dovremmo affrettarci a cancellare anche i segni che hanno lasciato tra noi. Andiamo, chi vivrebbe in un posto dove i dinosauri sono spariti ma restano a terra enormi, gigantesche, cacche di dinosauro?

La manovra economica approvata dal Senato non taglia gli sperperi della spesa pubblica. All’ultimo istante sono state risparmiate anche le prebende della casta parlamentare e nonostante quanto emerge dall’inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni -e cioè il gigantesco intreccio tra l’uso della spesa pubblica e dell’urbanistica contrattata per fare cassa a favore delle lobby politico imprenditoriali- né la maggioranza né l’opposizione hanno posto all’ordine del giorno il prosciugamento del fiume di denaro pubblico che sfugge ad ogni controllo democratico. Il “sistema Penati” sta lì a dimostrare che esiste una gigantesca cassaforte piena di risorse che non viene neppure sfiorata dai provvedimenti economici in discussione in Parlamento: lì c’è un grande tesoro che permetterebbe di non tagliare lo stato sociale e risanare il paese.

Il tema del taglio al malgoverno urbano tornerà sicuramente all’ordine del giorno perché tra qualche mese ricomincerà la grancassa del “non ci sono i soldi” e –complici le autorità europee- ripartirà la rincorsa per tagliare i servizi, tagliare le pensioni, vendere le proprietà pubbliche. Vale dunque la pena riprendere il prezioso suggerimento di Piero Bevilacqua su queste pagine (28 agosto) ragionare sulle possibilità di rovesciare i canoni del ragionamento fin qui egemone per interrompere una volta per tutte la grande rapina dei beni comuni, delle città e del territorio.

Il denaro pubblico viene intercettato dalle lobby politico imprenditoriali attraverso sei grandi modalità. La prima riguarda le opere pubbliche. Il volume degli investimenti pubblici nei grandi appalti è pari a circa 20 miliardi di euro ogni anno. Appena pochi mesi fa un giovane “imprenditore” (Anemone) con il fiume di soldi guadagnato in generosi appalti offerti dalla cricca Bertolaso ha potuto permettersi di contribuire all’acquisto di una casa per l’ignaro ministro Scajola: quasi un milione di euro. Ad essere prudenti una percentuale intorno al 20% ingrassa le tasche della politica corrotta e delle lobby: 4 miliardi ogni anno. Qualche tempo fa ci hanno ubriacato con l’esempio virtuoso dell’unificazione degli acquisti delle siringhe per il sistema sanitario nazionale perché ogni regione spendeva somme differenti. Tanto rigore per pochi spiccioli, mentre non sappiamo controllare quanto costa costruire una scuola o una strada.

Un secondo capitolo strettamente connesso al precedente è che molte opere pubbliche non servono alla collettività, ma vengono decise da sindaci che si sentono abilitati a compiere qualsiasi nefandezza perché “eletti dal popolo”. Come a Parma, dove una falange di amministratori ha sperperato miliardi di euro in grandi e inutili opere. Ora il comune è sull’orlo della bancarotta (seicento milioni) e il sindaco è ancora lì, barricato nel palazzo. O come nel caso della faraonica piscina voluta dall’ex sindaco di Roma Veltroni a Tor Vergata: occorrerà spendere un miliardo di euro per farla funzionare. O, come emerge dall’inchiesta di Sesto San Giovanni, appalti inventati appositamente per rimpolpare i bilanci delle aziende pagatrici di tangenti. (la milionaria illuminazione della tangenziale, ad esempio) o attraverso l’affidamento a prezzi protetti di servizi pubblici, come il trasporto urbano. Anche in questo caso una stima prudente ci porta a dire che possono essere risparmiati almeno 4 miliardi ogni anno.

Ci sono poi le poste maggiori: quelle che intercettano la spesa pubblica corrente. Per la sanità pubblica si spendono oltre duecento miliardi di euro all’anno e ci si è dimenticati troppo in fretta lo scandalo della sanità della Puglia, quelli ricorrenti di Milano e della Lombardia, quello del Lazio di Storace, della Liguria. Episodi che derivano dall’uso spregiudicato del taglio delle prestazioni pubbliche e il loro affidamento –a prezzi senza controlli- agli amici di turno. Riportando a sistema la spesa sanitaria c’è spazio per risparmiare decine e decine di miliardi di euro.

C’è poi il capitolo della “privatizzazione” della pubblica amministrazione che sta distruggendo lo Stato e –contemporaneamente- ci costa un fiume di soldi. Il fedele collaboratore di Giulio Tremonti, Marco Milanese, arrotondava il suo non modesto stipendio da parlamentare con consulenze milionarie a carico di istituzioni pubbliche. Proprio in questi giorni abbiamo scoperto che una giovane di 33 anni, di indubbie attitudini artistiche, era stata nominata consulente della Finmeccanica a spese nostre. Del resto, anche quel campione di moralità di Valter Lavitola è consulente della Finmeccanica. Si potrebbe poi continuare nel calcolare quanto costa alle casse pubbliche la grande abbuffata operata dalla giunta comunale guidata da Gianni Alemanno nel moltiplicare posti di lavoro (centinaia di persone!) nelle municipalizzate romane.

E proprio nell’erogazione dei pubblici servizi si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. La cultura neoliberista è riuscita a far passare i concetti di “efficienza” e in nome di questo totem ad esempio a Parma sono state create 34 (trentaquattro) società partecipate per gestire l’ordinarietà. Anche nell’area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d’oro che riportano docilmente i soldi ai generosi decisori. E invece di disboscare questa foresta di ruberie hanno provato a tagliare la democrazia sciogliendo i piccoli comuni!

Con queste prime cinque voci si arriva a oltre 40 miliardi di euro: l’ammontare dell’attuale finanziaria. C’è poi l’ultimo capitolo che riguarda la madre di tutti gli imbrogli, l’urbanistica contrattata. Essa è diventata l’unica modalità con cui si trasformano la città. Le regole generali sono state cancellate e di volta in volta si decide sulla base delle convenienze. Sull’area Falk servono più cubature? Nessun problema. Un accordo di programma non si nega a nessuno: il sindaco passerà all’incasso di una parte delle gigantesche plusvalenze speculative prodotte e ci farà campagna elettorale. Sulle aree dell’Idroscalo deve essere costruita una mostruosa città commerciale? Ecco pronto un altro accordo di programma completo del ringraziamento economico spesso veicolato da progettisti compiacenti. Questa patologia vale ormai per tutti i comuni, grandi o piccoli che siano.

Il quadro che abbiamo delineato sembra non presentare apparentemente differenze rispetto al recente passato. Ruberie e scellerati sperperi di denaro pubblico ci sono sempre stati: c’è Tangentopoli a dimostrarcelo. Ma il fatto nuovo è che la legislazione liberista affermatasi nel ventennio ha reso il meccanismo perfetto. Non ci sono infrazioni alle leggi perché sono le stesse norme approvate in questi anni a consentire ogni tipo di arbitrio.

Altro che tagli e vendita del patrimonio di tutti, dunque. Basterebbe ripristinare la legalità e risparmiare quanto gettiamo nelle voraci fauci dei poteri forti. E’ venuto il momento di dire basta, altrimenti ci vendono l’intero paese, democrazia compresa. E’ questa la sfida che la nuova sinistra ha davanti. Una sfida per delineare un futuro diverso. Per risanare lo Stato, per far vincere le competenze sulla palude di mediocrità che sta soffocando il paese. Per dare una prospettiva ai giovani e al mondo del lavoro.

Confesso di aver archiviato come sciocchezza la frase “C’è troppa Sardegna nella vita politica degli ultimi 10 anni”, seppure pronunciata da una persona dal pensiero raffinato come Giuliano Amato che ha, comunque, subito aggiunto “Non me ne vogliano le famiglie sarde”. Ma anche le sciocchezze possono essere utili se aiutano la riflessione. Mi permetto di proporre la seguente: il reale e l’immaginario quasi mai sono coincidenti, inoltre non sempre il primo prevale sul secondo. Nel caso della Sardegna è accaduto proprio questo, e cioè che l’immagine - che per ovvie ragioni deve essere semplificata per raggiungere il suo scopo - abbia pesantemente dominato sulla realtà dell’Isola che è fatta invece di complessità, di contraddizioni e di tanta fatica del vivere. È accaduto in un passato non lontano, quando l’Isola era prevalentemente percepita come terra di banditi, talvolta ammantati di romanticismo alla Mesina (e al quale oggi magari chiedono un autografo).

Allora come oggi, c’era chi si indignava. Uno di questi era mio padre, sardo doc e militare altrettanto doc (della Benemerita) che i delinquenti lui li metteva in galera e che perciò mal digeriva un’immagine di tal fatta. È accaduto negli anni ‘60/70 con il successo della Costa Smeralda, per le presenze del c.d. bel mondo internazionale, fatto di fascino, eleganza e, ovviamente, tanta ricchezza. È inutile sottolineare che dietro la costruzione di un mito c’è tanto lavoro reale, in questo caso ci sono un’industria turistica, investimenti, professionalità e altro ancora. Di questa immagine mi pare che ben pochi si siano lamentati, anzi ha esercitato una tale influenza che, da allora, il principio di emulazione ha contagiato ogni territorio: anche il più piccolo comune ha scoperto la sua vocazione turistica e si è appropriato dell’orribile parola “valorizzazione”, orribile non in sé ma per la ricaduta che ha avuto in termini territoriali.

Ma né la prima né la seconda immagine (che talvolta si sono alimentate a vicenda) hanno assunto una veste politica. Questa è arrivata con Berlusconi e con il fatto di aver scelto di risiedere (si fa per dire) di tanto in tanto nella sua altrettanto mitica e mitizzata residenza. Residenza che qualcuno ha cercato di inserire nei percorsi turistici e nelle visite guidate: ricordo di una notizia riguardante un pullman carico di anziani che sono stati condotti a Villa Certosa e dove, felici di raccontarlo, hanno ricevuto un cestino di squisitezze, ovviamente a nome del Presidente del Consiglio.

Oggi, la Costa Smeralda e i suoi dintorni rinviano l’immagine di presenze più o meno note per sporadiche presenze televisive, più o meno ricche per denaro accumulato rapidamente e non si sa bene come dopo il crollo dell’Unione Sovietica, più o meno oscure per i giochi di intermediazione di vario genere e di vari affari. Presenze peraltro amplificate dall’attenzione mediatica a loro riservata. L’immagine che prevale - questa sì che è fortemente diseducativa -, è che sia facile avere successo (al di là delle capacità individuali), che sia altrettanto facile far parte di qualche programma televisivo, sul cui valore culturale è bene tacere, e che basta stare sulla scena per essere importanti.

Se questa è la Sardegna a cui si riferisce Amato, allora è bene ricordare che è nata altrove, nella Milano da bere degli anni ‘80, negli studi di importanti televisioni nazionali, nei diversi Format acquistati altrove, perché da noi non si è autori neppure della televisione spazzatura. Ma se a tutto ciò tolgo la parola Sardegna, Presidente Amato, non ritiene che rimanga in piedi quella fabbrica di illusioni che ha costituito il fondamento a un potere politico che poco si è occupato degli interessi

Senza verità non c'è democrazia. È il principio-cardine intorno al quale ruota la cultura politica dell'Occidente, come ci ha insegnato Hannah Harendt. Anche per questo l'Italia "moderna" sprofonda in una palude di democrazia "a bassa intensità". Il berlusconismo della Seconda Repubblica, involuzione matura dell'Andreo-Craxismo della Prima, ci ha definitivamente trasformato in un Paese che ha smarrito l'etica della verità. Nella stortura delle regole costituzionali. Nella rottura delle relazioni istituzionali. E ora nell'avventura della crisi economica e finanziaria.

Non c'è un solo ambito nel quale il presidente del Consiglio, pressato dalle sue urgenze private, non abbia edulcorato le emergenze pubbliche e manipolato la "narrazione" da offrire ai cittadini-elettori. La drammatica estate di "lacrime e sangue" è il vero tributo che ora paghiamo all'irresponsabile "autodafè" che il governo Berlusconi ha acceso in questi tre anni, raccontando agli italiani la favola del "Paese ricco, forte e vitale", che "sa reagire meglio degli altri alla crisi", salvo poi scoprire che siamo di nuovo sprofondati nel girone infernale del "Club Med" di Eurolandia.

Dunque, dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano, che con la sua "lezione di Rimini" ha scritto per l'ultima volta la parola "fine" sulla favola berlusconiana, e ci ha restituito il "linguaggio della verità".

Quello che il premier non ha parlato fin dall'inizio della legislatura, e che invece è oggi un imperativo politico e morale. Quello che è invece indispensabile, per far capire ed accettare all'opinione pubblica una dose aggiuntiva di pesanti sacrifici che in molti avevamo previsto, e che il governo aveva sempre negato. Nel teatrino della politica fioccano le solite letture "palindrome": ma mai come stavolta il discorso del presidente della Repubblica non si presta a strumentalizzazioni di rito o ad interpretazioni di parte. Il suo è prima di tutto un atto d'accusa, nei confronti di chi, in questo "angoscioso presente", si è pervicacemente rifiutato di guardare in faccia alla realtà, ha furbescamente evitato di spiegarla agli italiani ed ha colpevolmente declinato ogni atto di responsabilità nella gestione attiva della crisi.

Abbiamo parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni?". La domanda che il capo dello Stato rivolge all'intero ceto politico dal palco del Meeting di Rimini è palesemente retorica. La risposta è naturalmente negativa. Il "linguaggio della verità" ci è stato scientificamente negato dall'unica istituzione che aveva il dovere politico di parlarlo, e cioè il governo. E perseverare in questo errore è diabolico e autolesionistico. Come Napolitano giustamente ripete, "non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Eppure, è esattamente quello che Berlusconi continua a fare. Abituato com'è, da consumato populista, a tagliare i nodi con la spada della propaganda piuttosto che a scioglierli con la fatica della politica, il Cavaliere aggiunge confusione al caos. Fa filtrare la sua insoddisfazione per una manovra che mette rovinosamente le "mani nelle tasche" dei contribuenti. Fa circolare ipotesi di modifica del "contributo di solidarietà" e di piani di intervento sulle pensioni, allargando da una parte l'abisso che lo separa da Tremonti e irritando dall'altra il nervo che lo allontana da Bossi.

Tutto quello che Napolitano chiede da Rimini questo presidente del Consiglio e questo governo non possono darlo, perché non l'hanno mai dato. "Reagire con lungimiranza" di fronte al Prodotto interno lordo che declina, all'occupazione che crolla, al debito che esplode. Guardare in faccia alla realtà "con intelligenza", e con "il coraggio della speranza, della volontà, dell'impegno". Virtù che il premier e il suo ministro dell'Economia non hanno mai espresso, e continuano a non saper esprimere, impaniati dentro una logica di coalizione nella quale nulla più si tiene. E poi, in vista del dibattito parlamentare sulla manovra: "occorrono più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorre un "confronto aperto". Questo invoca il capo dello Stato. Come possono ascoltarlo, un premier che guarda alle opposizioni come a un "cancro", o un ministro che parla della libera stampa come un'accolita di "delinquenti"? E infine: basta "assuefazioni e debolezze nella lotta all'evasione fiscale, di cui l'Italia ha il triste primato". Come può raccogliere questo invito, un ministro dell'Economia che paga parte del suo affitto in nero, e che ha già regalato agli evasori con i capitali all'estero uno scudo fiscale tassato con un'aliquota volutamente e scandalosamente bassa?

Il presidente della Repubblica ha fornito un'ennesima prova di alta pedagogia politico-istituzionale. Si è confermato come l'unico caposaldo forte e credibile di una stagione politica in cui tutto va in rovina. La sua, ancora una volta, è una "predica utile". Ma chi dovrebbe farlo, purtroppo, non la potrà e non la saprà raccogliere. Ha venduto al Paese troppe bugie e troppe ipocrisie. Nel gigantesco "falò delle verità" costruito dal governo in questi tre anni, purtroppo, stiamo bruciando tutti. Salvarsi dalle fiamme è ancora possibile. Purché a farlo non siano più quelli che hanno appiccato l'incendio.

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