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Il capitalismo liberale 
ha rovesciato il capitalismo democratico condizionato dai partiti di massa
Un ritorno indietro 
tra gli applausi
degli innovatori

Le forme sono essenziali. In politica sono indispensabili. Forma di partito, forma di governo, forma di Stato. È il livello istituzione. Qui c’è stata una perdita, un esaurimento, uno svuotamento, un indebolimento, per cause precise, niente affatto oscure. E lasciamo stare la retorica consolatoria, e in questa fase assai ambiguamente interessata, circa il fatto che queste forme siano state sopravanzate dalla crescita di nuove domande, di nuovi bisogni, da parte di una società civile buona oppressa da una cattiva politica. Magari fosse così. E io penso che se fosse così, le forme “altre” si sarebbero già trovate.

Quando c’è una spinta dal basso, reale, sociale, e quindi materiale, essa cerca, e trova, le forme di espressione adeguate. Non si è trovato niente, ormai da un quarto di secolo a questa parte. Proposte improbabili, sperimentazioni effimere, improvvisazioni leggere, liquide, come si dice, personaggi caricaturali, in una produzione allargata di questi fenomeni. (...) C’è stato uno smottamento nella qualità del consenso delle società democratiche. Le spinte sociali sono state sostituite dai flussi di opinione. Nelle attuali democrazie, puramente elettorali, questi flussi esercitano una funzione strutturale. Come l’andamento delle borse determina la decisione economica, così l’andamento dei sondaggi determina la decisione politica. Un altro modo di esercizio del primato da parte dell’economico sul politico. Che è primato del quantitativo sul qualitativo, dei numeri sulle idee. Non è un caso che sia il populismo a presentarsi oggi come la nuova forma dell’obbligazione politica. E il primato della comunicazione salga al ruolo di vero potere sovrano. E allora, ecco, è rappresentazione ideologica l’autonomia dell’opinione pubblica. Di fatto, essa è guidata, orientata, manovrata, come mai accaduto nel passato. Gli interessi chiedevano rappresentanza politica, e alla fine sottostavano alla mediazione.

L’opinione per prima cosa pretende di autorappresentarsi. È qui l’alternativa vera tra due sistemi istituzionali. Tra parlamentarismo e presidenzialismo, non c’è una scelta di tecnica elettorale, c’è la sostanza di una decisione politica. Attraverso la manipolazione dell’opinione, si afferma il potere incontrastato degli interessi più forti. Non l’interesse generale. Al contrario: il rapporto di forza alla stato puro, senza più i famosi lacci e lacciuoli. E accade questa cosa niente affatto strana. La parte acculturata della società, per il fatto che detiene il monopolio della parola, comanda sul resto, maggioritario, del sociale. Il popolo, con dentro, al centro, la persona che lavora, è ridotto all’intendenza che seguirà. La «Repubblica delle idee» detta i compiti a casa alle forze politiche. Primo compito di un partito del rifare Italia, e del fare Europa: dare voce ai senza parola. Perché se non gliela dà il partito questa voce, non gliela dà nessuno.

(...) La destrutturazione delle forme, ripeto, di partito, di governo, di Stato, è venuta avanti come l’obiettivo, riuscito, di un’operazione dall’alto. Ne aveva bisogno il capitalismo liberale, globalizzato, che negli ultimi trent’anni ha imposto il suo potere assoluto. Non una innovazione, una restaurazione. Nella sostanza del rapporto sociale reale, armato di rivoluzioni tecnologiche. Non un salto post-novecentesco, ma un eterno ritorno di Ottocento.
Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico del trentennio precedente, gestito o condizionato dai grandi partiti di massa, a componenti popolari. Questi erano gli ostacoli alla globalizzazione liberista e questi sono stati tolti di mezzo, con applausi dalla platea degli innovatori. La deriva di ceto politico, il discredito dei partiti, l’insignificanza dei governi, la debolezza al posto della forza degli Stati, non sono state cause ma conseguenze. Così, irriconoscibilità, autorefernzialità, corruzione della politica. (...) Sento dire, da varie parti: dobbiamo capire le ragioni dell’antipolitica. Oppure: non chiamiamo antipolitica tutto quello che non ci piace. Due osservazioni di buon senso. Ma il buon senso va sempre letto con un buon intelletto. Il riflesso antipolitico dei cittadini rispecchia, senza saperlo, l’antipolitica dei mercati, che invece la sanno lunga. La ricerca di un’altra politica, senza i partiti, oltre i partiti, delle associazioni, del volontariato, del civismo, si trova accanto, suo malgrado, la setta di quei professionisti dell’anticasta, che dalle pagine dei grandi giornali d’informazione fanno da megafono ai peggiori interessi di classe.

Antiliberisti democratici a convegno:

la cronaca di Bruno Gravagnuolo

Non un seminario qualsiasi. Ma una giornata di battaglia delle idee. E un caposaldo, nel flusso di tanti interventi: il partito. Con un suo «punto di vista», un suo insediamento sociale, e una sua idea di società. Naturalmente quel partito, in parte, c’è già e si chiama Pd. Questo il senso dell’iniziativa promossa da Rifare l’Italia e Crs: «Le forme della politica organizzata». E dentro relazioni di Mario Tronti, Francesco Verducci e tra gli altri Michele Prospero, Carlo Galli, Antonio Saitta, Alfredo Reichlin, Franco Marini, Cesare Damiano, Guglielmo Epifani, Anna Maria Furlan, Maurizio Martina, Santino Scirè, Roberto Gualtieri, Agostino Giovagnoli, Andrea Manciulli, Antonio Misiani. A chiudere, Stefano Fassina Matteo Orfini e Fausto Raciti, Walter Tocci. Il tutto suggellato dal segretario, un «classico», a raccogliere e a far sintesi.

Filo conduttore: dentro la crisi di questo capitalismo monetario c’è un rischio democratico e sistemico. Ma anche un’occasione: riuscire a rendere visibili i rapporti di dominio e i conflitti sociali, quelli a lungo nascosti nella spettralità mercificata e liberista, che ha reso a lungo la sinistra assente o subalterna. Già, lo ha riconosciuto anche Bersani: «La sinistra ha sbandato, si è persa a lungo e invece adesso certe radici tornano con forza: eguaglianza, crescita, emancipazione, civilizzazione, e soprattutto lavoro, a guidare e far crescere le imprese...». E il tema era stato anticipato da Tronti: «La vittoria dell’economia ha deformalizzato la politica, distrutto la rappresentanza degli interessi...».

Prospero evoca una tenaglia: «Onnipotenza del mercato che sradica e delegittima la politica, con l’ausilio dei partiti personali». E sta qui il pericolo («sindrome prefascista»), perché in questa situazione «il Pd è l’unico partito in campo, ma in un campo di rovine che slitta in senso populista e antidemocratico», magari sub specie tecnica. Per Prospero ci vuole una «macchina di partito, forte e radicata», per produrre e riprodurre gruppi dirigenti, «oltre l’eccezionalità delle primarie». Non tutti condividono. Donatella Campus e Sara Bentivegna, danno per acquisita la centralità di social-network e movimenti post-materiali. E la predominanza della leadership. Ma l’aria che tira è un’altra: contano le relazioni materiali, non quelle immaginarie. Le gerarchie e i poteri, la moneta e il capitalismo globale. Mentre i movimenti sono evanescenti, o «tirano» a destra, perché sono i poteri reali a trarne profitto. «Gioco truccato dove la sinistra perde sempre», ricorda Matteo Orfini. Obiezioni che tornano nelle parole di Miguel Gotor, Stefano Fassina, Walter Tocci e anche di dirigenti sul territorio come Martina, Manciulli, Raciti, Speranza. Il punto è: «Intercettare al nord lo sfarinamento del blocco di destra, parlare all’imprenditoria locale strozzata dai debiti e ingannata da Lega e Berlusconi». Oppure, come dice Reichlin: «Tornare a reindividuare il nemico, dopo che per trent’anni il capitalismo angloamericano l’ha fatta da padrone con rating, fisco, flessibilità e derivati finanziari».

Eccola «la sfida di partito». Riscoprire «passioni e interessi, ira etica, in un mondo non liquido, ma solido di gerarchie» (Carlo Galli). E perciò riposizionarsi, ma da un «punto di vista». E da un antagonista. Per fare blocco sociale e alleanze. E ricostruire la democrazia devastata da finanza e populismo. E ancora: partiti veri contro la corruzione, che i partiti personali-locali moltiplicano (Prospero). Per Gotor è questo il primato della politica: «Lotta alla subalternità agli altri saperi e agli altri poteri». Mentre Fassina, teorico laburista e personalista cristiano, precisa: «Sì, partito del lavoro, ma dei lavoratori e dei ceti subalterni in primo luogo. Non lavoro e basta! Poi di qui articoliamo un discorso sull’interesse generale...». Altri spunti: «Finanziamento pubblico controllato e in ragione delle tessere fatte» (Misiani). E la «società civile» che è corpi intermedi, mondi vitali, partiti, non ideologia nuovista. Infine Bersani. Attacca «disgregazione ed eclettismo», apre ai movimenti civici ma senza accettare «invadenze». E pianta i diritti civili su quelli sociali. Non senza riprendere uno spunto di Gualtieri: «La socialdemocrazia è ben viva e noi non stiamo lì ad alzare il ditino o a fare i professori, perché è lì il campo progressista». Infatti ci vuole un «partito-Europa» e di sinistra per battere Merkel e provarci in Italia, «Se stavolta tocca a noi...».

COSTRETTA a fornire il suo appoggio determinante a un governo di “unità internazionale”, cioè auspicato dai vertici dell’economia mondiale, la sinistra riformista in Grecia appare ormai prossima alla cancellazione.Ecosì, di fronte alla tecnica finanziaria che fagocita la sinistra “responsabile”, a noi viene da chiederci: potrebbe succedere anche in Italia? Troppi interessati sospiri di sollievo hanno offuscato l’esito del voto greco. Suppongo ne abbia tirato uno inconfessabile pure Alexis Tsipras, il leader della sinistra radicale Syriza che ha quasi raddoppiato i suoi voti restando però all’opposizione, come le è più congeniale. Meglio per Tsipras che governi una coalizione guidata dalla destra che prima truccò i conti pubblici e poi ha assecondato le ricette disastrose imposte dall’estero a una popolazione che in maggioranza (contando gli astenuti) le rifiuta. Una polarizzazione che ha ridotto all’irrilevanza il Pasok, cioè il partito del socialismo europeo. Liquidando come velleitaria l’aspirazione a una riforma democratica dell’architettura dell’Unione, fondata sulla salvaguardia dei diritti e degli interessi dei ceti popolari.

Il dubbio si è affacciato ieri sulla prima pagina dell’Unità: “Gioire perché vince la destra?”. Ma forse è troppo tardi: i cittadini ateniesi che fanno la fila alle mense dei poveri e devono rinunciare all’acquisto di farmaci per i loro figli, non hanno ricevuto nei mesi scorsi nessuna visita di Hollande, Gabriel, Bersani, Pérez Rubalcaba. Sospinti da un eccesso di prudenza, i leader della sinistra europea hanno preferito la latitanza, evitando di porre la questione greca fra le priorità di una politica riformista unitaria. Quasi che la bancarotta di cui i greci sono vittime, ma, certo, anche corresponsabili, fosse una disgrazia periferica da ignorare in assenza di soluzioni realistiche; e dunque non rimanesse che trasmettere la più miope delle rassicurazioni: noi non corriamo il rischio di finire come loro. Vero è che Bersani ha dichiarato di vergognarsi per come l’Europa tratta la Grecia; ma quel sentimento non si è ancora tradotto in mobilitazione politica.

Non va dimenticato che prima di capitolare di fronte al diktat emergenziale del governo tecnico di Papademos, nel novembre 2011 il premier socialista George Papandreou aveva compiuto un estremo tentativo: la convocazione di un referendum che suffragasse attraverso il responso della sovranità popolare la scelta di restare nell’eurozona, disposti a pagarne il prezzo doloroso. Quella procedura democratica, che aveva buone chances di riscuotere il consenso della cittadinanza, fu bloccata nel volgere di poche ore dalla reazione indispettita dell’establishment finanziario e dei più autorevoli statisti europei. Confermando la più spiacevole delle impressioni: l’incompatibilità fra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia. I teorici dell’estrema sinistra (ma anche della destra populista) ebbero così modo di denunciare che, sia pure con il giogo del debito al posto degli eserciti, stiamo vivendo una nuova epoca coloniale. Cioè che abbiamo già subito la liquidazione anticipata dell’unione politica confederale dei popoli europei. Quel veto, imposto nella più totale latitanza della sinistra riformista europea, segnò l’inizio della fine del Pasok e spianò la strada al successo di Syriza: una coalizione di forze della sinistra radicale favorevole a infrangere le normative comunitarie; le cui componenti nei prossimi giorni si scioglieranno per dare vita a un inedito partito-movimento sotto l’abile guida di Alexis Tsipras.

In apparenza un tale scenario risulta difficilmente replicabile in Italia. Qui il disfacimento della destra berlusconiana e leghista sembra favorire una supremazia elettorale del Partito Democratico e, alla sua sinistra, Nichi Vendola non pare intenzionato per il momento a rompere l’unità del centrosinistra. Tale quadro però è reso assai sdrucciolevole dall’exploit del Movimento 5 Stelle e dalle tentazioni populiste no euro che allignano trasversali, alimentate dalla crisi. Se in Grecia è Antonis Samaràs di Nea Demokratia a prendere da destra le redini del governo con il Pasok e Sinistra Democratica in posizione subalterna, il probabile terremoto elettorale italiano potrebbe determinare risultati tali da costringere anche il nostro Paese a riproporre un altro governo di “unità internazionale” come scelta obbligata. “Auspicata” dall’alto. Come testimonia anche la riforma del mercato del lavoro che la sinistra parlamentare si accinge a votare controvoglia — quasi fosse impossibile promuovere un nuovo europeismo d’impronta sociale — i riformisti costretti a muoversi sotto dettatura tecnica non riescono da tempo a rompere uno schema che li penalizza. Ma la politica obbligata a derogare dalle proprie ambizioni, sacrificando i valori in cui crede e i legami sociali che la vivificano, finisce per soffocare. L’esempio del socialismo greco incapace di reagire alla sofferenza del suo popolo è lì a dimostrarcelo. Così, nel medio periodo, anche nel nostro Paese si riproporrebbero le spaccature interne della sinistra, a scapito delle forze riformiste.

I leader della sinistra tedesca, francese, spagnola e italiana che hanno disertato di fronte alla tragedia greca, incontrano ogni giorno nuovi ostacoli sulla via di una politica davvero europeista. Lo testimonia il recente congresso della Spd che ha deciso di procedere subito, d’intesa con la Merkel, alla ratifica del Fiscal Compact nel Parlamento di Berlino: un trattato che così com’è esclude possibilità di deroghe per i Paesi indebitati; né più né meno “stupido” come già lo furono i parametri di Maastricht violati tranquillamente dai più forti ma imposti ai deboli in nome di una convenienza spacciata per virtù. Del resto, per paura di perdere consensi, i socialdemocratici tedeschi confermano ancora oggi il loro rifiuto degli eurobond. Come in tempo di guerra, gli interessi patriottici l’hanno vinta sull’internazionalismo proletario.

Chi di fronte all’incognita di un’economia al collasso vuole alimentare di nuova linfa gli ideali dell’unità europea e della giustizia sociale, non può ignorare più a lungo l’agonia della Grecia. O la sinistra ricomincia da Atene capitale, o rischia di perdersi.

Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?

Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.

Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?

In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.

In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?

In realtà, proprio questo rifiuto di occuparsi dei fondamentali (che non sono quelli economici, definiti sulla base dei presupposti ideologici del neoliberismo, bensì le ragioni ordinatrici del rapporto sociale capitalistico), proprio questa rimozione dei problemi-chiave (che riguardano le finalità della cooperazione sociale e le ragioni di fondo che informano i rapporti di classe) è palesemente una concausa del perpetuarsi dell'attuale condizione o, per lo meno, dell'incapacità di individuare una via per sortirne senza correre il rischio di una distruzione generalizzata (mentre la distruzione parziale di intere popolazioni è già nei fatti, oltre che nell'agenda di classi dirigenti ciniche e irresponsabili). Non è forse così?

Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po' scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po' come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d'elefante.

Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l'ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l'analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell'economia politica» (cioè dall'analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.

Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po' ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all'ideologia dominante, che da vent'anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall'imporsi dell'egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un'altra ragione - senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia - è l'opportunismo.

In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche - occorre riconoscerlo - per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.

È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l'hanno da lungo tempo destinata. Tutta l'operazione della Bolognina nacque dalla convinzione che i comunisti fossero ormai fuori dal tempo, una zavorra per la sinistra italiana ed europea. A maggior ragione le vicende ulteriori, sino al trionfo del «voto utile» cinque anni fa, si comprendono agevolmente solo considerando che per buona parte della dirigenza del centrosinistra l'eliminazione della sinistra è un valore in sé. Ma, stando così le cose, che cosa significa «salvarsi»? È, per la sinistra, un fine in sé o serve per fare qualcosa? Con quali prospettive ci si cimenta in questa partita?

Occorre un salto di qualità. Non si tratta di condannare le aspirazioni del ceto politico. Né di scandalizzarsi - com'è di moda - per il fatto che anche chi fa politica di professione (e soltanto gli ingenui o gli ipocriti negano che debbano esistere politici professionisti) nutre ambizioni e preoccupazioni, in particolare per la propria sicurezza. Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull'interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.

I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l'esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell'astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.

Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall'iceberg. Ma ormai non c'è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo - discorso concretamente politico, che evoca un'agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza - deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.

Un'esperienza che ha segnato un secolo. Domande e nodi irrisolti dell'Unione Sovietica alla luce del presente. Alcune considerazioni a partire dal libro di Rita di Leo «L'esperimento profano»

L'esperimento profano

di Rita di Leo, già segnalato da Mario Tronti (il manifesto 25/4), è un breve libro appassionante e provocatorio, con il quale non si può non fare i conti. Si tratta della rivoluzione del 1917, del suo seguito e morte, decisiva per il Novecento, dalla quale la vecchia e nuova sinistra si ritraggono perlopiù senza darsi la pena di conoscerla e affidandosi ad alcuni confortanti clichés. Rita di Leo rompe con i parametri abituali in Occidente, vi distilla una vita di ricerche e non poca passione militante - e forse altrettanta delusione - obbligandoci a un tuffo dall'interno delle sue stesse categorie. Non è un libro di storia, è una chiave di interpretazione proposta in quattro fasi, che presuppone qualche conoscenza degli altri suoi lavori e di una bibliografia essenziale che opportunamente segnala alla fine.

Perché ha chiamato nascita e morte dell'Urss l'«esperimento profano»? Perché è il terzo, e per la prima volta non religioso, tentativo di costruire una comunità di eguaglianza e giustizia in terra, i due precedenti essendo stati quello dei gesuiti nel XVI secolo in Paraguay e del quacchero William Penn nel XVII secolo in Pennsylvania. Ambedue al di là dell'Atlantico. La rivoluzione del 1917 è invece frutto del pensiero politico laico ed europeo, e l'allinearla a quelle due esperienze un po' borderline delle chiese cattolica e protestante non manca di ironia. E infatti Rita di Leo definisce anche questo terzo esperimento come «utopia» o «abbaglio», non luogo o illusione, qualcosa di simile per luminosità e inconsistenza, a una aurora boreale. Cosa che fa sussultare la vecchia comunista che sono, e tanto più mi costringe a riflettere.

Dai filosofi re a Brezhnev

Vediamo dunque. Rita divide l'esperimento in quattro fasi, secondo gli obiettivi che volta a volta si sono dati coloro che le hanno dirette. La prima è quella che chiama dei «filosofi re», gli intellettuali che attorno a Lenin hanno pensato e guidato la rivoluzione contro l'autocrazia e il capitalismo in Russia, la seconda è la scelta di Stalin di costruire la nuova società sul primato della classe operaia, la terza è il suo proseguimento nello «stato di tutto il popolo» di Krusciov, e la quarta la «gestione popolare» di Leonid Brezhnev. Le prime due mantengono l'«utopia» al primo posto; la terza non indica, come ha voluto credere l'Occidente, una cesura con Lenin e Stalin ma punta a una crescita della rivoluzione fino al «comunismo» previsto entro gli anni '80; la quarta è il tentativo di una «gestione popolare» che rallenti le maglie nelle quali era fino ad allora costretta una società provata e carica di bisogni. Quando infatti Rita di Leo da' loro una data, le quattro fasi diventano due e mezza, poiché dal 1917 al 1956 permane il primato dei fini proposti dalla vecchia guardia bolscevica, Stalin e, diciamo, metà di Krusciov vi resterebbero in continuità, mentre Breznev ne segna un non dichiarato declino e Gorbaciov ne determina la fine. Dal capitalismo al socialismo e ritorno.

Il tutto non senza qualche problema, perché si tratta di una studiosa poco incline a semplificare. Mentre le quattro fasi seguono il trascolorare in se stessa della parola d'ordine dei dirigenti fino al 1956, la datazione li assume nell'asse teorico del gruppo cui di Leo appartiene - Aris Accornero, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Umberto Coldagelli - per il quale il grande discrimine sta fra chi assegna la priorità al progetto politico e chi si arrende a quella dell'economico. Con Gorbaciov si spegne così non solo l'esperimento sovietico ma il'ultimo frutto del pensiero politico europeo, da sempre teso a un'idea di società prima che a una logica economica. La parabola dell'Urss segna anche l'approdo e la fine del ruolo egemonico dell'Europa. E ad essa - al presente tutto mercificato - sono dedicate le ultime quaranta pagine del lavoro - oltre che agli interrogativi, che di Leo lascia aperti, posti dalla Cina.

Un problema di classe

E qui mi si affacciano una serie di domande. Si può parlare realmente di una continuità, al di là delle intenzioni dichiarate? Le differenze fra il comunismo di guerra e la Nep, i passaggi dalla morte di Lenin all'espulsione di Trotski nel 1926, da questa ai piani quinquennali e alla lotta contro i contadini ricchi, non possono non aver cambiato agli occhi dei «filosofi re» la composizione e il senso comune della società, da come si era presentata nel saggio di Lenin sul capitalismo in Russia al 1930. Anche osservando la sola Nep, è evidente che i rapporti sociali fra classi e ceti subivano una scossa dopo l'altra, fra estromissione e riammissione, per non dire della successiva separazione dei contadini in un paese ancora maggioritariamente contadino: Lenin non cessa di ricordarlo. Se la sola classe, per dir così, legittimata restava la classe operaia, che sarebbe venuta crescendo con l'uscita dalle campagne, con quali mezzi Stalin garantiva la promozione dei dipendenti dall'industria a «classe», e protagonista? Non si nasce classe, si diventa. Gli operai, raccolti nelle grandi fabbriche, erano favoriti dai salari più elevati di quelli dei quadri intellettuali e tecnici, dal ricevere dall'azienda prodotti in natura, oltre che vacanze, cure e accesso ai teatri o ai concerti e anche dalla possibilità di cambiare lavoro all'interno delle regole sugli spostamenti fra regioni e città. Quando andai a Mosca nel 1949 rimasi stupefatta degli elenchi, appesi alle cancellate, di mansioni e manodopera di cui ogni fabbrica era in cerca. Non li ho mai visti né prima né dopo in nessuna altra parte. Si aggiunga che gli operai godevano di una certa libertà nel definire le cadenze dell'organizzazione del lavoro - Rita di Leo si spinge a definirla «autonomia» - e se era loro aperto, tramite la direzione dell'impresa e il partito, l'accesso a una continua riqualificazione e da questa alle gerarchie sia della fabbrica sia del partito. Questo garantiva il consenso operaio al gruppo dirigente, ma si può dubitare che la soddisfazione di questi bisogni ne allargasse la coscienza oltre i limiti corporativi nei quali i filosofi re, ma anche i filosofini degli altri partiti comunisti e adiacenti, li consideravano intrisi.

Tentazioni giacobine

Di fatto si dava, penso, più che una «autonomia» una cooptazione dei migliori da parte della gerarchia ancora prevalentemente politica; e nei limiti di una idea di sé che non superava la barriera di cui parla Marx nella Ideologia tedesca e della quale era persuaso anche Lenin. Né si vede come potesse formarsi una classe operaia «per sé» soprattutto da che Lenin aveva abolito i soviet, cioè assai presto. Ma questa mancanza si collega al mancare di un'ipotesi chiara di autorganizzazione della classe, per non dire «delle masse» che sostituisse lo stato, sulla quale in verità non dice gran che neanche Marx al di là della polemica con Bakunin. Sta di fatto che non solo la «classe per sé» è ben poco presente nella vicenda sovietica dagli anni Trenta in poi, ma nell'ultima fase dell'Urss si lascerà espropriare senza muovere foglia anche di quelle che noi chiameremmo «conquiste», ed erano concessioni in cambio di consenso.

Se questo mi sembra il nodo problematico centrale della ricostruzione dall'interno che della vicenda sovietica avanza Rita di Leo (e culminerà nella formula kruscioviana di «stato di tutto il popolo») appena secondo mi sembra il problema dello stato, dello stato-partito e del partito stato, e del suo monopolio del politico anche attraverso un enorme apparato di repressione. Rita di Leo non ne parla, perché esso appare dai filosofi re non altro che uno strumento del permanente stato di eccezione che caratterizza il periodo in cui essi vivono. Ma proprio la impossibilità di uscire dagli stati d'eccezione dovette preoccupare i filosofi re, eredi del pensiero politico europeo e della socialdemocrazia tedesca. Sul permanere di uno stato Lenin non nascondeva la sua irritazione. Ma sulle logiche di un apparato repressivo? Dopo gli scritti contro la tentazione giacobina del Terrore, dovette essersi arreso alla spietatezza, sapendo quali e quanti ostacoli stava incontrando l'esperimento «immaturo». Perché immaturo? E quando sarebbe stato «maturo»?

Rita di Leo non vi si sofferma. Dice di sé, più turbata dalla rivolta ungherese che dal rapporto segreto al XX congresso. Non ne dubito. L'età conta, e io - che credevo di aver fatto il lutto dei comunisti impiccati ai lampioni di Budapest e degli operai che li guardavano ridendo - rimasi paralizzata un giorno dell'autunno 1988, o dell'estate 1989, leggendo all'aeroporto di Mosca, in attesa del volo per Roma, un articolo del Moskovskie Novosti sul Comitato centrale eletto dal Congresso detto dei Vincitori: degli eletti, poco più di un centinaio, si e no una decina avevano finito la vita naturalmente o in guerra. Misurai allora, stupefatta, la dimensione del Terrore al Partito dopo il 1934. Come poteva non condizionare il gruppo che ne usciva ancora indenne? Che genere di discussione o ancora più su quale fine, che non fosse sconfiggere la Germania, poteva darsi al suo interno in quegli anni? Che genere di passaggio di poteri? E dopo la guerra? Ancora, Rita resta colpita negli anni '80 dalla decisione gorbacioviana di sopprimere la presenza del partito nei comitati di fabbrica; ma di quale partito, convinto di perseguire che cosa, stiamo parlando?

L'umiliazione degli intellettuali

Per ultimo, e scusandomi per le inesattezze (nonché il sistema approssimativo di trascrizione) il Lied di questo ultimo lavoro di Rita di Leo è la distruzione dell'intellettualità nata a cavallo del secolo avvenuta nella prima fase della rivoluzione e la incapacità, o non volontà, di costruirne un'altra - fuorché tecnica nell'apparato militare-industriale - nelle fasi successive. Per cui essa ha ragione di affermare che nel loro complesso gli intellettuali sono stati umiliati e puniti sempre e sono stati quindi sempre una opposizione. Ancora oggi sembrano gli ultimi in grado, a eccezione di pochi, di fare una riflessione ragionata sui 74 anni dell'Urss. Ma perché i «filosofi re» non hanno avuto eredi? Avevano sicuramente una percezione del problema; Lenin ripete incessantemente, negli ultimi mesi, «siamo indietro», «sappiamo poco», «studiare studiare studiare». I già istruiti restano sospetti, quelle che chiamiamo «scienze umane» idem, ed è dir poco. Qui una cesura con Stalin c'è e di fondo.

E anche questo induce a problematizzare quella priorità della politica che Rita di Leo vede resistere dal 1917 al 1956. L'esperimento profano costringe a interrogativi che la vulgata anticomunista è lontana dal sollevare con altrettanta violenza. È un discorso appena cominciato.

Propongo di non usare mai più il termine "benecomunista": è orribile, ridicolo, equivoco e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy. Poi, per evitare disquisizioni dotte ma superflue, chiamando magari in causa persino san Tommaso, propongo una distinzione netta tra il concetto di bene comune, senza ulteriori determinazioni, e quello di beni comuni; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l'acqua, l'atmosfera, l'informazione, i saperi, la scuola. Bene comune rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l'appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi - singolo privato o articolazione dello Stato - da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell'esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.

Per me il concetto di beni comuni ha relativamente poco a che fare anche con il "Comune" di cui scrivono Negri e Hardt. Quel "Comune" non è che l'ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che ha attraversato una successione di figure: Classe Operaia, "operaio massa", "operaio sociale", "moltitudine", per approdare, per ora, al "Comune". È un'entità che "gioca con se stessa", producendo il proprio antagonista (la Classe Operaia "sviluppa" il Capitale; la moltitudine "crea" l'Impero, ecc.) per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall'esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte - e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l'umanità tutta - è di giorno in giorno maggiore.

In entrambe queste accezioni "comune" non è comunque la stessa cosa di "pubblico": soprattutto se per pubblico si intende "statuale". Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico, risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. In realtà sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua articolazione. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall'Iri a Finmeccanica, da Fs alle ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostra in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati (Regione o Stato), come propone Asor Rosa, il compito di rimediare ai guasti perpetrati dai livelli decentrati dell'amministrazione. Quei guasti possono essere evitati o corretti solo in un regime di trasparenza integrale, con forme di coinvolgimento e di consultazione popolare: che non sono però riducibili a un referendum, e meno che mai a un sondaggio; perché devono essere precedute e accompagnate da confronti pubblici, effettivi e approfonditi, sui problemi in campo. Per questo ho molte riserve anche sulla proposta di Luciano Gallino di un'agenzia nazionale per il lavoro che finanzi progetti locali. Queste agenzie ci sono già: si chiamano Invitalia (già Sviluppo Italia e prima ancora Gepi) e Italia Lavoro. Sono due baracconi che conosco personalmente, dove si concentra la quintessenza del degrado clientelare. Non sono mancate loro in passato risorse finanziarie ingenti, anche se non nella misura proposta da Gallino, e hanno quasi sempre operato su progetti locali: messi però a punto da poteri pubblici statuali, al di fuori di qualsiasi coinvolgimento partecipativo delle comunità beneficiarie. I risultati sono stati devastanti. Per questo ritengo la democrazia partecipativa condizione irrinunciabile anche della lotta per il lavoro.

Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per dei beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno) è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano (oltre alle forme tradizionali di spolpamento dei lavoratori dalla testa in giù) anche l'arma delle delocalizzazioni: per poter tagliare loro l'erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale. Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell'aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita.

Secondo me quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro - a pezzi e bocconi - ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.

È ovvio, per me, che a un movimento che si batte per i beni comuni, l'ambiente, il lavoro e l'accoglienza ciascuno deve essere libero di portare il bagaglio di idee e di ideali che si è costruito nel tempo e che ha deciso di traghettare fino a qui, magari attraversando mari in burrasca e bonacce snervanti. Benvenuti! Senza quel bagaglio - quei bagagli, perché sono tanti e differenti - dovremmo partire da zero; e non è così. Ma a me sembra sbagliato sostenere - come temono alcuni - che «se non ci si dichiara di sinistra, si apre alle idee della destra». Milioni di persone oggi non riescono a considerarsi di destra o di sinistra e provano disgusto tanto per il cinismo e il carrierismo che contraddistingue la destra quanto per l'acquiescenza e la corsa all'emulazione di cui in tanti anni ha dato prova chi ha rappresentato la sinistra agli occhi di un'opinione pubblica poco impegnata e aliena dai troppi distinguo.

Ma c'è di più: Bossi e Berlusconi, che fin dai loro esordi hanno messo in scena, promosso e cavalcato la cosiddetta antipolitica (altro che Beppe Grillo!), hanno diffuso tra i più sprovveduti, ma soprattutto tra milioni di giovani che si sono affacciati alla vita adulta in quel contesto, una identificazione pressoché totale tra sinistra e politica nella sua accezione peggiore, che è quella che tutti hanno da tempo sotto gli occhi. Loro, invece, proprio perché antipolitici, da quei vizi si erano chiamati fuori. Questa costruzione si sta sfaldando sotto il peso delle inchieste giudiziarie (assai più che per circostanziate denunce politiche), ma resta un dato di fatto da cui non si può prescindere. Dichiararsi oggi di sinistra in forma pregiudiziale, e non qualificarsi invece per i contenuti e le battaglie che si sostengono, vuol dire probabilmente erigere steccati nei confronti di un pubblico che è un interlocutore diretto del discorso sul beni comuni. Il successo dei referendum contro la privatizzazione dell'acqua e il nucleare ne è, a contrario, la riprova.

Il soggetto politico nuovo oggi si chiama Alba; e noi "albigesi". È una liberazione. Ritengo - e con me molti altri; e alcuni lo hanno fatto notare - che la lotta politica che ci vede impegnati non abbia, e non abbia bisogno, di un "soggetto" (anche e soprattutto nel senso etimologico del termine, che significa «chi sta sotto»). La ricerca o la promozione del soggetto che si fa carico di un processo storico, o di una transizione radicale - e di questo stiamo parlando, credo - comporta effetti totalizzanti che contraddicono le premesse che ci hanno fatto convergere verso questo impegno. Invece, gli attori dei processi all'interno del quale vogliamo operare sono, e saranno sempre di più, molteplici e plurali. E anche aleatori: oggi ci sono e domani possono scomparire, insieme a noi, sia come individui che come forza organizzata. Tutto ciò alcuni di noi lo hanno già sperimentato più volte. L'importante è che il processo vada avanti comunque, magari correggendo la rotta nel corso del tempo; e che ci sia sempre posto per nuovi ingressi e soprattutto per nuovi protagonismi: specie delle nuove generazioni e di un punto di vista di genere elaborato e trasmesso dalle donne. Sulla loro partecipazione si gioca l'esito di questa iniziativa.

28 aprile 2012

Italia dei beni comuni, parte il non-partito

di Daniela Preziosi

Oggi il primo appuntamento. Pochi big, molte idee, sette minuti a intervento. Si parla di metodo e programma

«Inizia un percorso». Gli organizzatori si raccomandano di non scrivere molto più di questo. Perché l'appuntamento di oggi a Firenze, la «partenza» del «non partito» - lanciato dal manifesto per i beni comuni e per «un'altra politica nelle forme e nelle passioni» il 29 marzo scorso, e di cui si è discusso, e anche parecchio, sulle pagine del manifesto e sulla rete - è una vera partenza al buio. Si annunciano molti partecipanti, e infatti è stata prenotata una platea da 1500 persone. Ma la giornata di oggi è stata scandita con quattro interventi iniziali, di quattro dei primi firmatari del manifesto, una sorta di relazione introduttiva a quattro voci (Marco Revelli, Nicoletta Pirotta, Claudio Giorno della Val Susa e Paul Ginsborg). In sala sarà distribuito un testo di Luciano Gallino, intitolato provocatoriamente «Come creare un milione di posti di lavoro».

Per il resto, si procede senza rete: sette minuti a intervento, ciascuno degli interventi potrà fare la sua proposta e indicare la direzione verso cui dovrebbe salpare la nave.

Non sono previste special guest: il sindaco De Magistris ha inviato gli auguri ma non ci sarà, Nichi Vendola lo stesso, per impegni di campagna elettorale, ma ci sarà il suo braccio destro Nicola Fratoianni. Ci sarà invece Paolo Ferrero, segretario del Prc. Ma per tutti varrà la regola dei sette minuti.

Di certo è che si discuterà di due prime «discriminanti», come è stato chiaro dai testi ricevuti in questi giorni da chi ha annunciato la propria partecipazione allegando una «motivazione»: il no alla riforma del pareggio in bilancio in costituzione e alla riforma del lavoro in discussione in parlamento. Per il momento sono gli unici due punti fermi di un «programma» che non c'è, ancora (l'assenza di progetto è una delle critiche mosse al non-partito da Rossana Rossanda) ed è tutto da discutere, e scrivere, e approfondire, nella successiva «due giorni» immaginata per giugno.

Il «progetto» sarà il core business della discussione. La differenza fra «bene comune» e «beni comuni», anche: anche perché è fresco di ieri l'intervento con cui Asor Rosa (sul manifesto) rintraccia la «dottrina del bene comune » di Tommaso d'Aquino nel «progetto» del soggetto politico nuovo.

E poi c'è il tema della forma del non-partito, e le questioni di «metodo». Perché il soggetto politico nuovo propone, almeno nelle intenzioni, «un salto di paradigma anche negli strumenti organizzativi», spiega Marco Revelli, «che non possono essere quelli tradizionali - centralistici, verticali e gerarchici - delle burocrazie dominanti, ma che sappiano praticare, all'opposto, l'orizzontalità della rete, la comunicazione decentrata, l'eguaglianza nella parola e nell'ascolto tra diversi. Tutto questo vuol dire, come ci è stato contestato, rimuovere il "conflitto sociale"? Cancellare le "forme di organizzazione" in nome di uno spontaneismo un po' anarchico? O non significa, piuttosto, ripensare il conflitto - e insieme l'organizzazione - nelle forme in cui ce lo ripropone quello che Gallino ha definito il finanz-capitalismo (che non cancella le classi sociali, ma che le ridisegna in forma del tutto inedita)? D'altra parte, che ne penseremmo se qualcuno, dopo il 1848, avesse continuato a proporre i vecchi club del 1789, come strumenti della lotta politica e la jacquerie contadina come via all'emancipazione?».

Last but not least, la questione del nome. C'è persino chi chiede di andare avanti prima di decidere. Insieme ai criteri per nominare un coordinamento nazionale, anche il nome si decide oggi, verrà scelto dalla platea da una rosa di quattro selezionata sul sito. Sono: Alba, Alleanza lavoro benicomuni ambiente; Lavoro e beni comuni; alternativa democratica; e infine Italia Bene Comune.

Quest'ultimo non passerebbe inosservato. Perché è anche il nome che Bersani ha scelto per la campagna delle amministrative del suo Pd. Facendo per l'occasione stampare migliaia di felpe blu con slogan più tanto di collo e polsini tricolori. Un'appropriazione indebita per il partito che fino all'ultimo non ha voluto schierarsi apertamente con i referendum per l'acqua pubblica, quelli che poi hanno portato al voto 27 milioni di persone. E un partito che ha votato due decreti Monti per le liberalizzazioni che i referendari hanno definito «tentativi sfrontati di negare il risultato di quei referendum». Salvo poi utilizzarne il logo del «bene comune» per marketing elettorale, dopo aver scoperto che funziona, ora che il vento è cambiato.

29 aprile 2012

I delusi della sinistra

di Daniela Preziosi

«Non siamo giovani. Siamo diversamente anziani». Marco e Saverio, 29 anni, se la ridono, guardandosi intorno scoprendo di essere 'la giovanile' del «soggetto politico nuovo» che di lì a poco verrà battezzato Alba. È un acronimo, ma le battute dei ragazzi - che ci sono, solo che non solo maggioranza - si sprecano. Marco Voleano, di Terni, precario in una casa editrice, e Saverio Monno, studente che già si definisce disoccupato, spiegano che se i loro coetanei non sono arrivati è perché «per sapere dell'incontro o sei allievo di Ginsborg o leggi il manifesto». Se no non lo sai. «Ma no, è che i giovani si stanno vedendo l'assemblea dal mare sul tablet in streaming», attaccano Davide e Lorenzo, 24 e 25 anni, di Prato. Oggi inizia il ponte del primo maggio, fuori dal PalaMandela il sole incoccia. «I ragazzi si fanno sedurre dai guru, meglio se della rete», dice Lorenzo. «E poi la sinistra è in coma, se ti avvicini ti senti subito in dovere di curarla. Invece Grillo ti urla: non c'è più destra, non c'è più sinistra, ci siamo solo noi», dice Marco.

È un fatto: la platea è in maggioranza over 40. Twitta mentre ascolta. I commenti vanno in diretta sui maxischermi. L'effetto è il dibattito e il suo doppio, fa molto sinistra e molto vintage. Tweet: «In platea troppe facce note per aver devastato i partiti della sinistra». Risposta: «Meglio un vecchio intelligente che un giovane stupido».

Gli orfani dei partiti sinistra

Stefano e Gabriella, bella coppia di fiorentini, dopo la scissione di Rifondazione (la seconda, quella del '98) si sono tenuti alla larga di partiti. Movimenti, tanti: girotondi, viola, Se non ora quando. Cani sciolti. Quando hanno letto del «soggetto politico nuovo» si sono detti: fosse che fosse la volta buona, sottinteso che si ricomincia. «Siamo venuti a vedere». Stesso discorso per Dora e Paolo, di Livorno. Lui Prc, lei Unione Inquilini, «ma lo sfavamento verso i partiti è lo stesso», giurano. La platea è zeppa di uomini e donne come loro: ceto medio riflessivo dieci anni dopo (le «pancere nere» le sfottevano all'epoca i ragazzini), delusi dalla sinistra ma irriducibili al dipietrismo, incompatibili con il grillismo, sarcastici con il nuovismo. Tweet: «Abbiamo l'età media di chi ne ha viste tante». Dal microfono, il sociologo Revelli: «Siamo qui perché gli altri hanno fallito». Per questo la platea non concede applausi facili, tranne che non si nomini la Fiom o non si dica «staccare la spina a Monti»: non è mancanza di entusiasmo, né tristezza né stanchezza: chi ne ha sentite sparare tante non si scalda per il primo che passa. Seleziona, ragiona. «Qui siamo in 1400, ma la metà esatta è venuta per ascoltare, senza aver firmato il manifesto fondativo», dice Massimo Torelli, instancabile organizzatore del primo appuntamento fiorentino. Insomma, è tutta gente a caccia di una sinistra in cui impegnarsi. Quindi magari non si spella le mani, ma è pronta a rimboccarsi le maniche per «un nuovo inizio vincente» (Paolo Cacciari).

Il nuovo partitino no

«A patto che non sia l'ennesimo partitino», questa è la parola d'ordine che circola ovunque, dal microfono alla platea. Tanto più che in platea circolano tanti ex qualcosa. E qui però le opinioni si divaricano. «Serve una rete di relazioni, di connessioni, per fare insieme le battaglie. Noi a Torino già lavoriamo così» dice Michele Curto, provenienza Libera di don Ciotti, ora consigliere comunale e segretario di Sel. E indica una fila, molto avanti: c'è il magistrato Livio Pepino e Giorgio Airaudo, Fiom. Ma il tema dell'«appartenenza plurima» (Paul Ginsborg) è un nodo. E non tanto per i partiti che si mettono in posizione di ascolto - l'«interlocuzione» di Sel la esprime Nicola Fratoianni, braccio destro di Vendola, la «disponibilità» a una federazione a nome del Prc la esprime il segretario Ferrero, che però a una 'federazione della sinistra' aderisce già. «Io non so chi votare, un contenitore della sinistra plurale lo voterei volentieri», dice Virginia, di Prato, 38 anni. L'assessore napoletano Lucarelli - che viene dalla giunta di De Magistris, sua la proposta delle 'liste civiche nazionali', lo dice esplicitamente: l'ambizione guarda al 2013. E il voto alle politiche diventa una tale ossessione nei capannelli, che Torelli dal microfono esorta: calma, abbiamo appena cominciato a discutere. Perché una cosa è ragionare su una rete «di comuni per i beni comuni», che funziona da Napoli a Corchiano (provincia di Viterbo, patria della nocchia, ne racconta la realtà il sindaco Bengasi Battisti). Un discorso che vive già in alcune liste civiche che la prossima settimana vanno al voto (Parma, Piacenza, L'Aquila, Lecce), e che può camminare ancora. Un'altra è l'accelerazione verso un 'soggetto politico nazionale', che al primo incontro genera dubbi e diffidenze. Di ogni tipo: come quella del vignettista Staino che ascolta perplesso, a quella di Rosario, che è venuto da Catanzaro, con la sua incrollabile «volontà di fare politica. Se solo trovassi un soggetto politico nuovo».

30 aprile 2012

«La democrazia prima di tutto»

di Marco Revelli

«Se siamo qui è perché avvertiamo che non c'è più tempo». Questo l'incipit della relazione introduttiva di Marco Revelli, ieri a Firenze. Poi: «Ci tocca dire fin da subito chi siamo e insieme cosa non siamo e cosa non vogliamo essere. Non siamo materia di gossip per i media. (...) Non siamo nemmeno l'urlo roco del populismo a buon mercato. (...) Non siamo una nuova, piccola formazione politica». Insomma, «cosa vogliamo?» «Vogliamo essere gli abitanti di un nuovo spazio pubblico liberato dalle presenze ingombranti dei vecchi monopolisti della decisione. L'embrione di una nuova cittadinanza, (...) una forma organizzata che raccolga la testarda domanda di partecipazione di quella parte di cittadini che (oggi in Francia, domani in Italia) non vogliono rassegnarsi al cappio del fiscal compact e alla dogmatica feroce di Berlino e di Bruxelles, alla riduzione dei diritti sociali in costi da tagliare e sacrificare sull'altare dei mercati, allo smantellamento del modello sociale europeo e alla mercificazione sistematica della vita individuale e collettiva». In sintesi: «Riappropriazione dello spazio pubblico e indisponibilità alla delega». E, in cima all'agenda, la questione della democrazia e dei «possibili antidoti» alla sua crisi.

Postilla

Persone che stimo sono critiche rispetto all’ampio impiego che si fa ultimamente a proposito dell’espressione “beni comuni”. In effetti, è un termine che oscilla tra due destini: diventare un luogo comune, e quindi una coperta per contenuti diversi, oppure essere un’espressione significativa che esprime realtà e speranze, aspirazioni e traguardi capaci di unificare pensieri e azioni di soggetti diversi. Tra i contributi al suo chiarimento mi limito a ricordare Rodotà, Mattei, Ricoveri.

E’ un’espressione che personamente adopero da tempo a proposito di città, anche perché riecheggia la più antica espressione “consumo comune”, che adoperai ampiamente per il mio
Urbanistica e società opulenta (1969). Per il presente rinvio a un mio scritto, La città come bene comune pubblicato nella collana di Baiesi “Ogni uomo è tutti gli uomini”, che riprende relazioni svolte nel 2008 all’European Social Forum di Malmö e a un successivo convegno organizzato dalla rete Camere del lavoro-CGIL a Venezia.

Il termine “bene” nella lingua italiana è facilmente comprensibile in opposizione a “merce”, ed è soprattutto in questo senso che lo adopero. Mentre “comune” lo adopero come distinto da “collettivo” e da “pubblico” ma non in opposizione con questi; in relazione all’uomo, poi, lo assumo come integrativo rispetto a “privato”.

Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com'è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell'intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l'accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà».

Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).

1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L'idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l'altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all'interno del sistema dello sfruttamento e dell'utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d'Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull'abusivismo vincerebbero gli abusivisti.

La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l'auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell'altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.

L'idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L'idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all'unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.

Il sistema - il sistema tutt'intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt'intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l'attenzione sul presente così com'è, se si vuole trasformarlo.

2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch'esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c'è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».

Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l'interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).

Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d'individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.

La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell'opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch'esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell'autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch'essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).

Ogni volta, però, che ci si allontana dall'idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d'Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l'uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l'ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».

Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n'è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt'altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all'avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, , 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».

Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch'esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.

Il riferimento a Tommaso d'Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica. Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell'agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l'ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).

3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l'ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev'esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l'amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell'empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l'invidia, l'odio, l'orgoglio, l'ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l'incredibile violenza dell'attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull'«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell'amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).

4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l'indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s'identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un'articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d'interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).

Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?

La cosa è tutt'altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim'ordine. Allora, se le cose stanno così, all'ordine del giorno oggi non c'è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c'è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all'esistente, eventualmente si rafforzi e s'allarghi con l'individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.

Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l'intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.

In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.

5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s'è detto, appare sul il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di link http://eddyburg.it/article/articleview/18849/1/155 Piero Bevilacqua> (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.

Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un'organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all'interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell'insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un'altra volta).

Ma l'obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell'economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).

Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.

Postilla

Una domanda rimane. Lo sfruttamento del capitale sul lavoro si è allargato a un ambito (sia topograficamente che geograficamente che socialmente) ben più vasto della fabbrica. La sua evidenza non appare ancora a tutti gli sfruttati con l’immediatezza con cui appariva all’operaio. Non occorre forse ridefinire il conflitto di classe (e o stesso concetto di lavoro) in un ambito diverso da quello delineato dalla critica marxista, e individuare in tal modo l’antagonista del mondo di oggi?

Dopo le contestazioni in un liceo romano dei neofascisti il 25 aprile tornano a sfilare i combattenti. E in un libro raccontano ai ragazzi la loro battaglia

Le loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con una parola, con un libro, con una canzone. Come quella di Mario Bottazzi, partigiano romano, che sabato scorso, al liceo Avogadro di Roma, è stato contestato da un gruppo di studenti neofascisti, e per questo, proprio perché il tempo non è passato, dopodomani 25 aprile, dopo due anni di manifestazione a Porta San Paolo, i partigiani hanno deciso di tornare a sfilare. Per le strade.

La suggestione di un mondo che non conosco se non attraverso le parole a me l´hanno data, a diciassette anni, i CSI. La scoperta di Beppe Fenoglio nei testi di La terra, la guerra, una questione privata. Della guerra, del fascismo, della Resistenza, sapevo quello che avevo studiato e letto e guardato a scuola e quello che avevo sentito in casa.

Alle elementari le maestre ci mandavano in giro per il paese a intervistare gli anziani che avevano vissuto quegli anni. Erano storie di guerra e di fame, di prepotenza in divisa, libertà e dignità calpestate. Di ragazzi di vent´anni che cercavano di tornare a casa, in Sardegna, e si unirono alle bande partigiane, sui monti e nelle città, con la speranza in tasca. Di ragazze che facevano chilometri sulle loro biciclette, nelle valli in nord Italia, con ordini e messaggi nascosti fra i vestiti, con coraggio e incoscienza e lo spazio per un pensiero d´amore. Di donne che nascondevano uomini nelle cantine o nelle soffitte, cucivano vestiti e cucinavano minestre, nelle periferie di Roma o di Milano. La storia di Giuseppe Serreli, ascoltata e trascritta da alcuni bambini: «Giuseppe Serreli è un uomo di 55 anni, basso e magro. Vive ad Uta e fa l´ortolano». Raccontò che si fece partigiano nell´Appennino Ligure, chissà se incontrò Italo Calvino, aveva ventun anni, e scelse Uta come nome di battaglia. Che poi anziane non erano, quelle persone, quando io ero alle elementari, avranno avuto sessant´anni o poco più.

Adesso, adesso sono anziani, molti sono morti. Sono i nostri nonni, e lentamente muoiono. Da raccontare, adesso, quelle storie, ai ragazzi delle medie che non sanno cosa sia, il 25 aprile, a cosa serva. Non sanno che è per tutti, per tutti noi ogni giorno ancora. Non sanno che hanno lottato, quelle persone, che non era in vacanza che andavano gli oppositori di Mussolini, chi si opponeva alle sue idee di oppressione e di violenza, come hanno provato a raccontarci in questi anni. Non sanno le carceri e il sangue sui muri. Non lavate questo sangue, hanno scritto su un foglio le prime persone che sono entrate alla scuola Diaz, dopo la notte in cui accadde quello che accadde. Il sangue non si lava via perché serve a ricordare, a non dimenticare. Quando vengono sospesi i diritti della democrazia, la libertà e la dignità calpestate, non va lavato via il sangue. Perché «tutto quel che è successo è perduto, ma tutto quel che è successo può tornare a succedere», scrive Rossana Rossanda.

La libertà per cui hanno lottato è anche la nostra e la libertà è faticosa. Il 25 aprile deve sopravvivere alla retorica e anche a anni di rilettura, di discorsi in cui non sembra più tanto chiaro che la democrazia, la Costituzione, sono figlie delle donne e degli uomini che hanno combattuto contro l´occupazione nazista e contro il fascismo che la appoggiava. La libertà è faticosa e non vuol dire fare quello che ti pare, mi ha detto una signora di ottantasette anni che ha fatto la partigiana. «Un´elementare spinta di riscatto umano» era, secondo Calvino, a spingere i nostri nonni nell´urgenza di quei giorni, e ancora preme nei nostri, di giorni, lontanissimi e diversi ma riconducibili allo stesso «quid elementare, chiave della storia presente e futura». Come un impegno preso, essere sempre contro ogni forma di oppressione e di fascismo, di discriminazione e di violenza, comprendere e accogliere. Hanno saputo guardare oltre le macerie, i nostri nonni, hanno saputo immaginare mentre agivano e ridare un senso alle cose. Per questo anni fa, a Barcellona, in un locale pieno di stranieri, io e il mio amico Mattia, di San Remo, il 25 aprile abbiamo brindato all´Italia: se aveva un significato il nostro essere italiani, a vent´anni, in una città europea, il significato era questo.

© Paola Soriga 2012 , Roberto Santachiara Literary Agency

Ferdinando De Leoni

«Il Duce decideva le parole e mi ribellai»

Sono nato durante il fascismo. Ho frequentato scuole fasciste – il liceo Tasso, dove andavano i figli del Duce. In un´epoca in cui la televisione non esisteva e la radio era la radio del Regime e i giornali erano giornali del sistema, era proibito leggere libri di autori stranieri e persino parlarne la lingua. Un´epoca in cui era proibito dire ho fatto goal alla partita e al cinema si andava a vedere i film di Renato Rascel (sempre che quel cretino di Starace non fosse riuscito a farlo chiudere, il cinema Eden, perché Eden era il nome del capo dei laburisti inglesi): un´epoca in cui chi decideva le nostre parole non conosceva neppure il significato della parola Paradiso.

Di fronte a tutto questo, come abbiamo fatto, alcuni di noi, a diventare antifascisti? Le strade sono molteplici. Molto differenti. Per me, si leggeva. Clandestinamente. Si studiavano i libri che giravano sottobanco.

Anita Malavasi

«Il mio uomo non voleva che facessi la staffetta

Marcello Marini

«E’ difficile spiegare perchè ci è successo»

Domandano tutti: – Ma perché lo avete fatto? – E fanno anche la domanda che non dovrebbero fare. – Avete ammazzato? I ragazzi vogliono sapere il periodo. E chiarire il perché. È necessario spiegare il periodo, prima di chiarire il perché. È quasi impossibile spiegarsi, tra noi e i ragazzi ma è l´impegno che ci mettono nel cercare di capire, l´importante. L´interesse calò intorno agli anni Novanta. Quando calò un po´ tutto. Ma non posso dire che si estinse. E infatti è covato. Adesso la ripresa c´è stata. I giovani sono tanti e sono tornati. Quando uno vede che alle manifestazioni ci sono giovani e vecchi che cantano Bella ciao è una cosa che fa riflettere. Parliamo di questo.

Negli ultimi tempi dico loro: – Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano più interessati ancora. Io sono l´ultimo.

Giovanna Maturano

«La prima rivolta fu contro nostro padre»

Eravamo due sorelle e due fratelli con due anni di differenza l´un l´altro. Tutti finimmo arrestati. Anche mia madre. Mio padre no. Mio padre non era fascista. Ma non faceva niente. Non era un vigliacco. Era la sua forma mentale da ispettore capo della dogana. Mio padre metteva i soldi da parte per la pensione. Era autoritario in maniera terribile. E noi facevamo la fame. Bisognava chiedere i soldi prima che li mettesse in banca, se no, era finita. Cosí abbiamo dovuto fare una rivolta in famiglia. Da lí, abbiamo fatto esperienza. E l´abbiamo fatta diventare una cosa piú grande. La nostra vita è stata talvolta dura e difficile, ma io non rimpiango nulla, se non forse che avrei potuto fare di piú e meglio. Ma con tutte le delusioni, le amarezze, i dolori e le gioie, questa è stata la mia vita e io l´ho vissuta intensamente e con entusiasmo, soffrendo, amando e lottando.

Vanda Bianchi

«Non mi è mai scappata la voglia di lottare»

Nella Resistenza posso dire di esserci nata. Io sono figlia di un sovversivo. All´epoca non sapevo neanche che cosa volesse dire quella parola, e ne avevo paura. Quando mi è toccato lasciare gli studi, da bambina, mi sono messa a piangere. Perché volevo capire, già allora, come girava il mondo. Non c´è bisogno di avere un granché di istruzione, comunque, in certi frangenti. Il mondo gira in un verso che è chiaro per tutti. Io ho sempre fatto i conti, prima e dopo la guerra. Non sono stata soltanto una partigiana: le nostre lotte le ho fatte ogni giorno, fino ad adesso. Non ci è mai scappata la voglia. Era un onore portare le armi e distribuire la stampa clandestina; era un onore partecipare nelle sezioni dopo la guerra o agli scioperi di mio marito metalmeccanico. I mesi passati a combattere sono stati lunghi e brutti. L´importante è che non tornino piú.

Ferruccio Mazza

«Pensate le cose impensabili»

Ai ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance acuminate sulla cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la giovinezza con la fame e la morte. Si può ritornare dai campi di concentramento in Germania con gli amici fraterni che vi hanno accompagnato fin sulla soglia della disperazione e poi della libertà, trascinandosi fuori l´un l´altro. Si può ritornare a casa, quando tutto sembra distrutto e perduto, e ricominciare da capo. E sapere, sul treno di ritorno, con le immagini delle macerie che ti passano dai finestrini, che a casa ti stanno aspettando tua moglie, e tua figlia.

Giorgio Vecchiani

«Lascio una rosa sopra ogni targa»

Prima ancora di prendere le armi la nostra guerra era scrivere «Viva la pace» sui muri.

Ora si fanno dei corsi in carcere, sulla Costituzione.

Leggerò ai detenuti la lezione di Calamandrei.

E poi ho messo insieme tanti ragazzi.

In bicicletta si farà un giro di Pisa lasciando una rosa sopra ogni targa.

È sempre difficile trovare gente per le commemorazioni, perché da noi gli eccidi più grandi sono avvenuti d´estate.

Ma io credo che qualcuno verrà.

Liliana Mattei

«Avevamo il veleno per non parlare»

Talvolta mi ritorna l´immagine della città vuota. Stato d´emergenza assoluto. Ponti tutti distrutti. Ho un ricordo di questo silenzio più del rumore dei combattimenti. Il mio nome di battaglia era "Angela". È stata un´esperienza, quella partigiana, dura e tragica, che ha richiesto immensi sacrifici e tanto coraggio. Eravamo consapevoli che, una volta catturati, prima di ricevere la morte saremmo passati attraverso la tortura e le sofferenze più atroci. I compagni ci chiedevano se si volesse il veleno da portare appresso. Ma io non l´ho mai preso: non lo volevo il veleno sul corpo. Però ho una soglia del dolore piuttosto bassa. Mi chiedo ancora come avrei fatto. Tuttavia penso che rifarei la stessa scelta che feci allora.

Aldo Sodero

«Era bello dividere il pane bianco»

Cosa vi devo dire. Le storie sono quelle. C´era la miseria. Si andava a scavare le patate che crescevano selvatiche nei prati, la notte. Si riusciva a trovare un pezzo di pane bianco. Era un sogno per noi. Si portava in famiglia e si divideva fra tutti, nove persone per una pagnotta. Si facevano i chilometri in bicicletta per trovare qualcosa da mangiare, lo si metteva nei barattoli di vetro, si cascava dalla bicicletta e si doveva dividere con le mani il cibo dal vetro. Il momento era quello. L´ho raccontato a mia figlia. Ai miei nipotini di sei e sette anni, appena hanno avuto le orecchie per sentire una voce che non fosse quella della loro mamma. Lo racconto a voi, pur sapendo che certe cose non si possono capire. Erano tempi di scelte. Io ho scelto la parte giusta.

Nello Quartieri

«Niente celebrazioni ma solo amore»

L´importante è stato vivere per qualcosa, non come un´anima spenta. «Cercate di non fuggire dalla libertà», diceva qualcuno. Noi non siamo fuggiti. Non sono fuggiti i colti e gli ignoranti. E penso con intensità sempre maggiore, intanto che vedo arrivare la fine, a come i nostri contadini potessero combattere una battaglia senza aspettare ritorni fruttuosi, con la sola ambizione di ritornare a essere padroni a casa loro. E ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi, nei nostri alti pascoli, nati poveri prima della Resistenza e morti poveri prima di poterne apprezzare i frutti. Se potessero parlare, direbbero: «Non vogliamo essere celebrati, ma amati». Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo lontano, c´erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. La Storia.

Caro direttore, con l’abituale sua nettezza, di cui sempre dobbiamo essergli grati, Alfredo Reichlin solleva la questione dell’attacco ai partiti e, in sostanza, della stessa sopravvivenza della democrazia in Italia (e non solo, visto che giustamente volge lo sguardo ad una crisi assai più generale). E scrive che «non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo». Proprio da qui bisogna partire, e proprio qui è la difficoltà, perché questo indispensabile rinnovamento culturale e politico deve avvenire in un tempo che pone scadenze così pressanti da schiacciare tutti sul brevissimo periodo.

Vivo con la sua stessa angoscia lo stillicidio quotidiano delle notizie sui fatti di corruzione, un terribile bollettino di una guerra che rischia d’essere perduta non da corrotti e corruttori, ma proprio da chi è rimasto estraneo a queste pratiche. Questo è l’esito d’una saldatura tra decomposizione morale e destrutturazione del sistema politico. Era già avvenuto. Mani pulite venne dopo una stagione all’insegna dell’«arricchitevi» e della «Milano da bere», scambiati per tratti liberatori d’una nuova modernità che tutto consentiva e che, quindi, aveva bisogno di sottrarsi al vincolo della legalità, come puntualmente avveniva nelle aule parlamentari con il rifiuto delle autorizzazioni a procedere contro quelli che le vicende successive avrebbero rivelato responsabili della corruzione.§

Dobbiamo chiederci perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale, e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti. Che sono davanti ai nostri occhi, e si chiamano personalizzazione estrema della politica, appannamento della rappresentanza, rafforzamento delle oligarchie, insignificanza della partecipazione delle persone.

Di fronte a tutto questo si avverte forte un bisogno di «diversità». Parola a molti sgradita, lo so. Ma io che mai sono stato iscritto al Pci, e con il quale tuttavia ho percorso un tratto significativo della mia vita continuo ad essere convinto che Enrico Berlinguer fosse stato lungimirante quando indicò nella questione morale un tema capitale per la politica. Una indicazione assolutamente realistica, come le vicende successive hanno dimostrato. E che, se pur voleva sottolineare una diversità del Pci, la traduceva in un di più di responsabilità che incombeva sul suo partito.

Proprio perché oggi il Pd ha più carte in regola di altri, su di esso incombe una responsabilità maggiore, non tanto per sottrarsi a un discredito generalizzato, ma soprattutto perché è politicamente essenziale la ricostruzione dello spirito pubblico, sulla cui mancanza l’antipolitica costruisce le sue fortune. Ma nella società non vi è solo antipolitica. Dico da tempo che è cresciuta un’«altra politica», di cui si possono discutere forme e contenuti, ma che è un fatto vitale di cui il Pd dovrebbe prendere piena consapevolezza senza restare prigioniero della vecchia diffidenza verso il movimentismo, che si rivela sempre di più come una mossa conservatrice. Bersani ha avuto il grande merito di schierare il Pd a favore dei referendum dell’anno scorso, pur conoscendo le resistenze diffuse e «autorevoli» esistenti nel suo partito. Quel successo non è stato capitalizzato (anzi permangono incredibili resistenze contro l’attuazione del risultato riguardante l’acqua), non ci si è resi conto che lì vi era uno spunto di critica degli «assetti attuali del mondo» ed una manifestazione di quelle soggettività politiche che si stanno costruendo, e con le quali un partito rinnovato deve intrattenere un rapporto, sia pure fortemente dialettico. Un nuovo blocco di forze è necessario, gli antichi steccati devono essere abbattuti. Tornano antiche parole con forza rinnovata. Che cos’è l’eguaglianza nel tempo della disuguaglianza strutturale? Che cos’è la libertà nel tempo della tecnoscienza? Che cos’è la dignità nel tempo della riduzione a merce di lavoratore e lavoro? Che cos’è la solidarietà nel tempo della negazione del legame sociale? Quale antropologia della persona si sta costruendo? Domande che la politica deve rivolgere a se stessa, pena la sua irrilevanza.

Tutto questo mi porta a ribadire quel che dico da sempre sull’indispensabile ruolo dei partiti nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione e sulla necessità di risorse pubbliche per la politica, perché questa non sia consegnata ad una forza del denaro sempre più prepotente. Una rinnovata legittimazione del finanziamento pubblico viene oggi proprio dalla pervasività della logica economica, che vuole sottomettere la politica anche attraverso la sua dipendenza solo dal capitale privato, che è cosa assai diversa dalla buona contribuzione dei cittadini. Di nuovo, però, questo non può significare arroccamento intorno al presente stato delle cose. Anche una fase di transizione esige una diversa visione del contributo pubblico (ne ha discusso assai bene Gaetano Azzariti sul manifesto). Le rendite di posizione sono finite, tutte. E proprio qui il Pd deve fare le sue prove.

Con l'approvazione del Senato in seconda deliberazione si è concluso ieri il procedimento di revisione dell'art. 81 della Costituzione. Male. Un giudizio non tanto distante da quello che si arguiva dalle parole di chi dichiarava, dai banchi della sinistra, un voto più disciplinato che convinto.

Con l'approvazione di tale legge costituzionale, la politica economica è sottratta al Parlamento italiano, al Governo italiano, al corpo elettorale italiano. Con tale approvazione la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale ad un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio.

Con tale approvazione un altro demerito si accompagnerà a quelli sciaguratamente ottenuti dal nostro paese in tema di regimi politici. Il demerito di aver inventato un nuovo tipo di Costituzione. A quelle scritte, consuetudinarie, flessibili, rigide, programmatiche, pluraliste, liberali, democratiche, lavoriste, si aggiungerà la Costituzione abdicataria, una costituzione-decostituzione. Un ossimoro istituzionale che preconizza una recessione seriale che, partendo dalla neutralizzazione della politica, porterà alla compressione dei diritti e poi alla dissoluzione del diritto, sostituito dalla mera forza del dominio economico.

Emerge, improrogabile, la necessità di un intervento. Votando questa autentica regressione costituzionale, i gruppi parlamentari della strana maggioranza delle due camere hanno tenuto in irresponsabile dispregio i giudizi di economisti di molti paesi del mondo, tra i quali 5 premi Nobel, di giuristi di varie discipline. Su un tema così intrinseco alla sovranità popolare, e su cui, e non per caso, è stato stesa una coltre fittissima di silenzio, hanno escluso che potesse pronunziarsi il corpo elettorale. I fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della legge elettorale da cui deriva la loro presenza in parlamento non ne hanno frenato la cupidigia di sottomettersi al diktat della Cancelliera tedesca. Hanno respinto anche la richiesta di approvarla pure questa legge, ma non con la maggioranza dei due terzi, quella che impedisce l'indizione di un referendum su tale gravissima spoliazione della sovranità nazionale. Ci resta ora un solo strumento per chiedere a questo o al prossimo parlamento di invertire la rotta.

Un solo modo per impegnarsi nella difesa di una conquista di civiltà arrisa con il riconoscimento, nel secolo scorso, dei diritti sociali. Sono quelli messi per primi in grave ed imminente pericolo dal feticcio liberista. Lo strumento che ci resta è quello di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, ai sensi dell'articolo 71 della Costituzione, con cui integrare l'art. 81 in modo che le entrate dello stato, delle regioni e dei comuni siano riservate per il cinquanta per cento ad assicurare direttamente o indirettamente il godimento dei diritti sociali.

Imponendo quindi che nei bilanci di previsione dello stato, delle regioni, dei comuni, il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all'istruzione, alla formazione e all'elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all'assistenza sociale, alla previdenza, all'esistenza dignitosa ai lavoratori e delle loro famiglie. Si tratta dei diritti riconosciuti dagli articoli da 32 a 38 della Costituzione. Si tratta di creare una garanzia efficace per i diritti, volta sia a neutralizzare gli effetti delle disposizioni inserite nell'articolo 81 della Costituzione e pericolosissime per i diritti sociali, sia a precludere, o almeno a ridurre, la spesa pubblica per armamenti, per grandi e disastrose opere, per variegate clientele. Ad ipotizzarla non è la stravaganza di un vecchio costituzionalista, testardamente convinto della necessità storica della democrazia di pervadere la base economica della società. È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all'articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali.

Raccogliere cinquanta mila firme e più, tante, tante altre ancora, per sostenere una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare con i contenuti indicati è possibile. È doveroso. A tema centrale della prossima campagna elettorale per il rinnovo del parlamento va posta la garanzia finanziaria dei diritti sociali. Di fronte al pericolo del crollo di un pilastro della civiltà giuridica e politica, dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia costituzionale che ci sono rimasti. Non possiamo altrimenti.

Un nuovo soggetto politico non si traduce in liste elettorali. Nelle forme (democrazia di prossimità) e nei contenuti (beni comuni) il testo-manifesto spiega le buone ragioni e il bisogno urgente di fronteggiare la crisi di questi partiti

Cari amici del manifesto, ho aderito al "Manifesto per un nuovo soggetto politico" con un messaggio nel quale, considerandolo un documento aperto, annunciavo alcune mie riserve e una vera e propria «opinione dissenziente». Vista la piega assunta dalla discussione, provo a rendere esplicita questa mia adesione in qualche modo "condizionata".

Tra il 2010 e il 2011, nel peggior tempo del berlusconismo e quando sembrava che tutto fosse ridotto a duello tra politica e antipolitica, ha preso corpo un insieme di iniziative che mostravano come un'altra politica fosse possibile, non in astratto, ma attraverso azioni comuni dei cittadini. Ricordiamo tutti le molte, grandi manifestazioni delle donne, degli studenti, dei lavoratori; il successo grande e inatteso della raccolta delle firme e poi del voto referendario con il quale ventisette milioni di elettori hanno detto no alla privatizzazione dell'acqua, al nucleare, all'uso privato della legge; la campagna contro la "legge bavaglio", che ha contribuito in modo determinante a bloccare una aggressione alle libertà; il ritorno della Costituzione come riferimento forte e comune. Tutti movimenti senza leader, senza i quali non sarebbero stati possibili i successi del centrosinistra alle elezioni amministrative (e, prima, l'affermazione nelle primarie dei candidati non di partito: una conferma è venuta dalle primarie di Genova).

E Ilvo Diamanti ha documentato come nelle campagne elettorali amministrative vi sia stata una partecipazione spontanea senza precedenti.

I partiti non hanno colto la novità, anzi hanno preso le distanze, sono tornati i vecchi inviti a non cedere al movimentismo. Bersani, sia pure all'ultimo momento, aveva compiuto un atto politico significativo, schierando ufficialmente il Pd a favore dei referendum. Ma poi tutto è finito lì, nessuna attenzione è stata prestata ai protagonisti di quella vicenda, anzi si è concretamente operato per cancellare il risultato del referendum sull'acqua, tentativo contro il quale si sta organizzando un movimento di "obbedienza civile". Il necessario riconoscimento dei partiti e del loro ruolo non può convertirsi in contemplazione passiva. Il patrimonio accumulato in questi ultimi due anni non può essere disperso, e questo esige una iniziativa nuova, perché i movimenti sono sempre esposti al rischio del dissolversi, soprattutto quando si tratta di single issue mouvements, di movimenti con un unico e dichiarato obiettivo, raggiunto il quale sembra quasi che la loro esistenza non abbia più senso. Questo è vero, almeno in parte, quando il sistema politico è in buona salute. Così non è nei tempi di crisi profonda quando, invece, è indispensabile valorizzare e mobilitare tutte le energie presenti nella società. Dai partiti non sono venuti segni significativi in questa direzione. Si sono così creati due circuiti politici, tra i quali è indispensabile trovare una connessione, pena una generale perdita di senso e di capacità di cambiamento della politica. E anche per evitare che un impegno politico significativo sia ricacciato nello scoramento, dell'abbandono, della rabbia. E questo impone che non vi sia alcuna compiacenza verso le prassi degenerate dei partiti, alle loro derive oligarchiche, se si vuole ricondurli al modello costituzionale che li vede attori della determinazione dell'indirizzo politico con metodo democratico.

Il movimento dell'acqua

E' enfatico, e polemico, parlare di un "soggetto politico nuovo"? Ma questa non è una forzatura politica e linguistica. E' la registrazione di un dato di fatto, di un patrimonio che, nell'interesse comune, non può essere disperso. Questa realtà molteplice deve trovare una propria forma di riconoscimento e organizzazione che, lo dico subito, non può essere finalizzata alla creazione di liste elettorali, per gli enormi rischi che ciò comporta, a cominciare dalla tentazione offerta a chi cerca un'occasione per riscattarsi da passati fallimenti, a chi è sempre alla ricerca di contenitori per realizzare ambizioni personali, non per ottenere risultati politici. Per la sua origine, assai legata anche all'uso delle reti sociali, questo nuovo soggetto deve piuttosto muoversi verso una organizzane a rete, mettendo in particolare a frutto l'esperienza del movimento per l'acqua bene comune, che ha consentito a realtà diverse di collegarsi, dialogare, agire d'intesa. Ma questo è l'opposto di leadership provvisorie, itineranti. Queste parole sono comprensibili come reazione alla personalizzazione estrema della politica, alla chiusura oligarchica dei partiti. E dunque sono benvenute quando sono il segno dell'apertura di cui parlavo all'inizio, come riconoscimento che in politica v'è posto per tutti, che la partecipazione non deve essere ridotta a subordinazione, ad una semplice affiliazione Tuttavia l'indispensabile capacità di produrre direzione politica non può essere affidata unicamente ad una spontaneità colorata da passioni, da emozioni, che certamente hanno peso, ma non possono connotare interamente il campo del politico. E' il problema delle nuove soggettività politiche, ineludibile nel tempo della crisi della rappresentanza (vale la pena di dare un'occhiata ai due numeri di "Filosofia politica" dedicati appunto al soggetto, in particolare a ciò che scrive Nello Preterossi in apertura del numero 3 del 2011).

Non mi preoccupa una certa nebulosità della proposta iniziale, comunque necessaria per non disperdere esperienze rilevanti e per contribuire ad un rinnovamento della politica di cui sarebbero gli stessi partiti a beneficiare. Nel "Manifesto" è correttamente impostato il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, anche facendo riferimento alle nuove opportunità offerte dall'articolo 11 del Trattato di Lisbona. Meno limpido è il modo in cui viene delineato il rapporto tra il soggetto politico "vecchio", il partito, e quello "nuovo", perché per quest'ultimo è necessaria una elaborazione ulteriore, che dovrebbe consigliare analisi meno trionfalistiche sul nuovo e meno liquidatorie del vecchio. E' comprensibile che ciò avvenga, poiché a questo spingono molte iniziative di questi mesi, il fascino del locale, di Cattaneo, della "democrazia di prossimità". Ma i movimenti già ricordati andavano anche oltre il locale, ponevano l'ineludibile domanda di una nuova organizzatore dei poteri che non può germogliare solo dalla dimensione locale, anche se proprio qui può trovare nuovo impulso, cominciando a rimuovere le chiusure che hanno caratterizzato il potere centrale in tutte le sue diramazioni.

Non buttiamo il Novecento

E poi. Per radicare un nuovo soggetto politico davvero è necessaria quella tabula rasa che compare nel "Manifesto"? Via il Novecento, via tutto il diritto borghese, via l'ingannevole Europa. Ricordiamo l' "Indirizzo" di Karl Marx ai critici del suo sostegno alla legge delle dieci ore: «per la prima volta, alla chiara luce del sole, l'economia politica del proletariato ha prevalso sull'economia politica del capitale». Il Novecento non è stato soltanto il secolo breve, il secolo tragico del totalitarismo. E' stato il secolo in cui, nell'Europa continentale soprattutto, un nuovo soggetto politico, la classe operaia, è stata all'origine del nuovo costituzionalismo aperto a Weimar, con la prima delle "lunghe costituzioni" che avrebbero modificato profondamente un quadro istituzionale fino a quel momento dominato soprattutto dal prodotto di un altro soggetto politico, la borghesia con il suo il codice civile. Non buttiamo via il compromesso socialdemocratico e il Welfare State, che non sono riducibili ad una astuzia del capitalismo, ma sono il risultato del ruolo giocato dai partiti di massa. Non regaliamo ad interpretazioni regressive la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, di cui si indicano ombre, ma si trascurano del tutto le molte luci.

Certo, oggi il quadro è cambiato, drammaticamente. Ma proprio per questo è necessaria una nuova ricomposizione delle forze, non dirò un nuovo blocco sociale, alla quale un soggetto politico nuovo può dare un impulso finora mancato. E sono necessarie analisi politiche ed istituzionali non approssimative. Se si vuol difendere la democrazia parlamentare, non si può cadere in una tipica trappola berlusconiana sostenendo che il governo Monti non è legittimato perché non è passato da un voto popolare: questa è la logica populista e della democrazia d'investitura che ha devastato nei due decenni passati il nostro sistema politico. Né si può affermare che siamo di fronte ad una mortificazione del Parlamento. Abbiamo dimenticato la Camera chiusa per mancanza di lavoro e il voto a grande maggioranza su Ruby nipote di Mubarak? Per amor di polemica rischiamo di dimenticare altre questioni, davvero centrali come l'autoritario governar per decreti e il modo in cui si costruisce l'agenda politico-parlamentare.

La questione proprietaria

Tocchiamo così i contenuti dell'azione politica, alla quale mi pare che il "Manifesto" dia un contributo significativo con la sottolineatura dell'importanza del riferimento ai beni comuni, come dato che caratterizza la fase attuale. Non è una bizzarria, né un tema marginale. Con esso, finalmente, torna in tutta la sua rilevanza la questione proprietaria. E qui è indubbio il merito dell'altra politica, così come è indubbia la permanente insensibilità della politica ufficiale. I partiti secondano l'offensiva contro i risultati del voto referendario, che hanno indicato nell'acqua un bene comune e hanno abrogato la norma che prevedeva che la sua gestione potesse essere oggetto di profitto. Il Parlamento ignora le proposte di legge sui beni comuni e sull'acqua presentati da suoi componenti, da regioni o d'iniziativa popolare. Qui la presenza organizzata dei cittadini può trasformarsi non solo in pressione significativa perché di quelle proposte di legge si discuta, ma può divenire richiesta di modifiche, anche costituzionali, perché le iniziative legislative popolari vengano prese in considerazione e ai loro promotori sia riconosciuto un potere di iniziativa ed una presenza nel corso della discussione nelle commissioni parlamentari. Una connessione istituzionale importante. Certo, va evitata l'eccesso di riferimenti ai beni comuni. L'inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell'espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità "comune" di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l'attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d'epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la «teologia economica».

Veniamo così agli strumenti da adoperare e progettare. Il "Manifesto" ne elenca molti: la Convenzione di Aarhus e l'esperienza di Porto Alegre, quella di Party, dell'Open Space Technology, dei Town Meetings. L'elenco può essere facilmente allungato, ma da esso escluderei i referendum on line, di cui non si sottolineerà mai abbastanza l'ambiguità, o la pericolosità, per l'ingannevole sensazione di passaggio di sovranità che può generare, mentre sono strumenti congeniali alla democrazia plebiscitaria, a alle manipolazioni, anche se proprio nella dimensione locale alcuni di questi rischi possono almeno essere ridotti. Di nuovo, comunque, siamo di fronte a un tema ineludibile, che è poi quello di come si governa la democrazia continua.

Beni comuni e democrazia continua sono indicazioni che impongono una rottura, ma sono soprattutto questioni ineludibili se si vogliono seriamente affrontare le questioni del mercato e della crisi delle procedure democratiche. E' stata, ed è ancora, l'altra politica ad aver costruito questo pezzo di agenda, che può divenire un momento di connessione tra i due circuiti politici, se quello ufficiale, o almeno alcuni dei partiti che lo compongono, si renderanno conto che qui si gioca una partita decisiva. Che ci porta dritti alla Costituzione, al lavoro fondamento della Repubblica democratica, ai diritti come elemento costitutivo della democrazia.

Si può davvero parlare a questo punto di soggetto senza progetto, di neutralizzazione dei conflitti? O siamo proprio sul terreno dove il progetto può cominciare a prendere una nuova forma, e proprio per questo esige lavoro e contributi larghi? E le questioni prospettate ci portano nel cuore dei conflitti di oggi, nella dimensione nazionale, sovranazionale, globale. Certo, il "Manifesto", oltre ad avere limiti, ha molte lacune. Ma apre una discussione vera, che spero possa proseguire.

Vedo tutti i rischi di una democrazia senza partiti. Vedo pure quelli di una democrazia progressivamente svuotata dal ridursi della sua capacità rappresentativa, svincolata da una cittadinanza forte.

Rispondendo all'articolo di Rossana Rossanda pubblicato su questo giornale il 5 aprile scorso, vorrei chiarire innanzitutto che il nostro «Manifesto» non è un documento di contenuto socio-economico ma di metodo politico.

In prima istanza il nostro scopo era, ed è, di affrontare l'emergenza causata dal fallimento storico dei partiti (non solo italiani) nella loro forma attuale - un fallimento greve di conseguenze per la democrazia. Non passa giorno che non si veda l'ennesimo esempio grottesco dei metodi e delle pratiche dei partiti attuali. Per contrasto noi abbiamo provato a proporre soluzioni radicalmente diverse di organizzazione della vita politica. Un'idea dello spazio pubblico politico allargato e la creazione di un soggetto politico nuovo dove l'appartenenza non sia esclusiva, la struttura non sia verticistica, il potere sia decentralizzato al massimo, i limiti di mandato siano rigorosamente rispettati e si eserciti la massima trasparenza nella gestione economica (rendiconto attuale: reddito zero, spese molte, tutte personali e non restituibili, ancora meno con il sistema utilizzata da tutti i partiti per le loro attuali spese elettorali).

Abbiamo iniziato con la sfera politica - non solo i partiti ma anche le due forme classiche della democrazia, quella partecipativa e quella rappresentativa - "la libertà degli antichi e quelli dei moderni". È di fondamentale importanza che questo dibattito sulle forme della democrazia si intensifichi e si arricchisca in tutt'Italia. In questo contesto vale la pena riaffermare che non abbiamo una visione distorta ed idealizzata della società civile 'buona' da contrastare con i partiti cattivi. Tutti noi portiamo le ferite di un decennio di tentativi di far funzionare democraticamente e far sopravvivere i social forum, i girotondi, e altre espressioni della società civile. Il nostro argomento è altro: serve uno spazio pubblico politico allargato che vada oltre i confini del vecchio "palazzo", uno spazio ben regolamentato dalle istituzioni democratiche ma vivo, in cui cittadini singoli, soggetti politici, movimenti e associazioni della società civile possano incontrarsi, criticarsi e aiutarsi. Solo così, in un mondo dominato da modelli di consumi privatizzanti e dalla lenta agonia della scuola statale, possiamo sperare di creare cerchi sempre più ampi di cittadini informati, partecipanti e dissenzienti.

Abbiamo iniziato con la sfera politica ma vorremmo passare subito ad altri campi - sociale, economica e culturale. Lontanissima da noi la voglia di togliere di mezzo il conflitto sociale. Una certa familiarità con le statistiche - quelle sulla povertà e sulla drammatica e crescente disuguaglianza di ricchezza, per nominarne solo due - una certa conoscenza della storia della Repubblica, una collaborazione costante con il mondo del lavoro, portano direttamente all'analisi del conflitto sociale. Non potrebbe essere altrimenti. Parlare di e lottare per i beni comuni significa immediatamente aprire pratiche di conflitto con chi riduce tutto a merce e al calcolo costi-benefici. Significa anche aprire un varco nelle istituzioni europee. Nasce ora il progetto di una 'Carta Europea dei Beni Comuni' che si propone di inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell'Unione e di fronteggiare la dimensione puramente mercantile del diritto comunitario. Alla fine del nostro Manifesto si legge: «Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell'eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro». Più chiaro di così...

Naturalmente, rimane un grande sforzo di elaborazione da compiere. Il gruppo di lavoro iniziale ha potuto vantare alcune competenze ma non altre. Speriamo tanto che chi ha migliori e diverse capacità e preparazione adesso ci dia una mano e che il gruppo si allarghi e si diffonde sul territorio nazionale. In poco più di una settimana siamo sopra 3,000 adesioni (http://www.soggettopoliticonuovo.it), in molti casi accompagnate da articolati commenti.

Finisco con una considerazione strettamente personale. La recente presenza a Firenze di Rossana Rossanda, fragile ma lucidissima, mi ha commosso. Vorrei tuttavia far notare che il metodo del straw man, dove l'altro viene presentato in modo caricaturale, "uomo di paglia" facile da bruciare subito, non è affatto il modo migliore di condurre una conversazione politica.

Ecco il primo soggetto politico che toglie senz'altro di mezzo il conflitto sociale: è quello proposto dal documento di Firenze e Napoli, pubblicato sul manifesto del 29 marzo e argomentato il giorno dopo da Marco Revelli. Come Revelli, altri amici e compagni vi hanno rapidamente aderito.

È un "soggetto senza progetto". La sua idea di società, alquanto mal ridotta dai traffici di Berlusconi e dalla contabilità di Monti, non va oltre la vasta quanto vaga esigenza di far esprimere in forme dirette la società civile, la quale è fatta di tutto fuorché dallo stato, dalle istituzioni e dagli attori della politica. Da tutti e da ciascuno di noi - padroni e dipendenti, banche e depositari e speculatori, uomini e donne, ricchi e poveri, nord e sud - in quanto messi in grado di esprimersi con la scheda sui loro bisogni e le soluzioni per risolverli. Quindi una democrazia più diffusa, una rete di relazioni svincolata dal ceto politico, non più solo "rappresentativa" di qualcuno ma "partecipata" da cittadini che non rilasciano deleghe.

Questo modello non è quello della Costituzione del 1948, che punta sui partiti come corpi intermedi, mediatori fra cittadini e stato, luoghi di elaborazione degli interessi diversi di una società complessa. I partiti - è la premessa del documento - non godono più di alcuna fiducia degli italiani, chiusi come sono in se stessi e nelle loro diatribe, mancando di ogni trasparenza anche quando, raramente, non sono sospettabili di frodi. Essi costituiscono l'impermeabile e impenetrabile "Palazzo" di pasoliniana memoria, e l'ombra o penombra che vi domina sono il miglior brodo di coltura per germi di ogni tipo. Metterli sotto pressione e controllo dal basso è l'operazione di igiene che si impone, nonché cortocircuitarli quando si può chiamare a un referendum.

Per il "nuovo soggetto" questo - trasparenza e apertura ai cittadini - è il vero problema del paese. Occorre sfondare le mura di quelli che non sono più corpi "intermedi" ma corpi "separati", e come tali non sono in grado né di capire né di comunicare con l'Italia, per cui si prevede un massiccio voltare loro le spalle con l'astensione. Il nuovo soggetto promette di essere l'opposto, tutto un'iniziativa di apertura delle barriere e di messa a confronto degli uni con gli altri, insomma un partito - non partito ma sostitutivo dei partiti.

Per fare che cosa, oltre che questa operazione di schiarimento delle acque? Non è detto. Certo ci sono in Italia gigantesche inuguaglianze di condizioni materiali, di cultura e di status ma l'esprimersi di tutti sui "beni comuni", le abolirà o ridurrà attraverso la presa di parola dei più deboli. Non scomodiamo dunque Marx, né il movimento operaio, né il vecchio concetto di lotta di classe, e tanto meno l'utopia pericolosa che ha portato ai defunti "socialismi reali". Non che il capitalismo sia morto, anzi non ha mai così totalmente dominato il pianeta, ma si tratta - se ho ben capito - di proteggere la gente dalle sue crisi stabilendo un vasto terreno di beni fuori mercato. Agganciandosi ai Comuni in quanto - lo dice la parola stessa - essi sono l'istanza elettiva più vicina al territorio e quindi in grado di controllarlo ed esserne controllata.

Il "nuovo soggetto politico" non si perde sull'analisi dello stato e dei poteri forti, politici ed economici. Né nelle teorie sociali del movimento operaio o, all'opposto, del liberismo: le prime neppure le nomina, al secondo i beni comuni, terreno di convinzione generale, tagliano le unghie. In questo senso il documento di Firenze presenta una tranquilla riedizione della spontaneità, l'universalmente umano bastante a se stesso, che il '68 aveva portato avanti polemicamente ma adesso, rifiutando assalti al cielo troppo pericolosi, sarebbe in condizione di attuarsi attraverso una saggia rete di relazioni e consultazione popolare permanente.

Di avversari il "nuovo soggetto" non ha che la privatizzazione di beni comuni, contro la quale si batte ma non meno che contro la statalizzazione o il loro "restar pubblico" nelle forme attuali, di "merce non ancora messa in vendita". Che sia intrinseco al capitale il trasformare tutto in merce, umani compresi, non interessa il "nuovo soggetto"; esso sospetta anzi che questa tesi sia un residuo delle culture politiche del Novecento, inchiodate sul conflitto capitale-proletariato. Così come non scava troppo in quello fra uomini e donne, concedendo la parità di valore tra la razionalità che sarebbe maschile, e l'emozione o la passione che sarebbero femminili. Alle passioni ed emozioni finora si affidava soltanto il populismo, ora entrerebbero fra i parametri del politico moderno. Anche l'ecologia troverebbe vantaggio in questa filosofia: chi può negare che il pianeta sul quale siamo appollaiati sia un bene comune?

E i beni comuni possono essere molti. Non è più forse il caso dei pascoli, ma non è bene comune che l'Italia produca automobili, meglio se elettriche? Basta persuaderne Marchionne e Landini. Che il voto dell'uno conti da solo nelle relazioni industriali quanto il voto di tutti i seguaci dell'altro (anzi in ogni caso di più, perché sua è la proprietà) è un dato di sistema sul quale non vale la pena di soffermarsi. Così come su alcuni diritti - al posto di lavoro o alla casa, e alla scuola, alla sanità, alla cultura, rimasti ottativi anche nella Carta del 1948. Chi non li desidera? Ma non evochiamo le idee fisse novecentesche. È vero che le vicende e le trasformazioni della proprietà, per non parlare del mercato, avvengono così lontano dal nostro sguardo da parere, al documento di Firenze, testualmente, «astratti».

È evidente che alle spalle del "nuovo soggetto" sta l'esito delle ultime elezioni parziali, e del referendum sull'acqua, avvenuti perlopiù fuori dal circuito dei partiti e considerati quindi come uno schiaffo loro assestato da parte della società civile. Che essi non abbiano scalfito il muro dei poteri forti, al nuovo soggetto politico non importa: non era nel suo obiettivo. Né che a Berlusconi sia seguita non già una spinta di sinistra, ma il liberismo oltranzista del governo Monti. Colpa della politica - si dice -, come se non fosse l'opinione pubblica ad avere votato ben tre volte il primo, senza protestare per l'indecente legge che ne canalizzava e blindava a suo favore il voto anche se non era di maggioranza. E quindi incapace di liberarsene.

Giusto, ma chi si vorrebbe liberare di Monti? La Fiom, le sinistre radicali già messe fuori dalle Camere, i nostalgici del marxismo o almeno di una forte regolazione del capitale, come la sottoscritta. Monti, un po' feroce ma onestissimo, ci fa fare, con Merkel e Sarkozy, buona figura all'estero. Che vogliamo di più?

L’appello per un “nuovo soggetto politico” apparso sul manifesto di giovedì 29 marzo merita risposte favorevoli e molto lavoro per andare avanti: compresi alcuni chiarimenti. Indica la direzione giusta quando afferma che non si tratta di aggiungere un’ennesima sigla a quelle esistenti (né, sembra, di sottoporre agli elettori un’ulteriore opzione tra le altre) ma, piuttosto, di concorrere insieme all’aggregazione e all’auto-riconoscimento di una “nuova soggettività”, unificata e unificante. Questa nuova soggettività non dovrebbe comprimere le diverse esperienze e le diverse culture dell’opposizione antisistemica in Italia ma, al contrario, farne un patrimonio da valorizzare.


Il lavoro che resta da fare insieme (insieme, innanzitutto, con i promotori dell’appello) consiste allora nel chiarire come concretamente realizzare queste intenzioni. E’ chiaro (e sembra chiarito) che non si tratta di competere con i partiti del “centro-sinistra” classico (FdS, Sel, IdV, fino allo stesso PD), ma di rimettere a nuovo lo “spazio pubblico” in cui tutti ci muoveremo. Questo, però, può avere molti significati. Il successo dell’operazione dipende dalla capacità di individuare concretamente il significato giusto. 
E’ vero che i partiti (tutti, piccoli e grandi, dentro e fuori il parlamento, più o meno, per una ragione o per l’altra) non stanno bene e non sono del tutto salubri. Soprattutto, non rappresentano ormai che in minima parte i sentimenti e i bisogni delle persone. Tuttavia esistono; e di ciò si deve tenere conto in un modo o in un altro. Se si chiede loro di collaborare al proprio superamento (e non sarebbe la prima volta), non si può certo aspettarsi che rispondano con entusiasmo. Proprio questo, dopotutto, è stato il dramma del pur generoso tentativo di imporre una lista unitaria dal basso, e non dal vertice, che rappresentasse veramente il sentire comune dell’opposizione antisistemica, in vista delle elezioni europee del 2009 (una generosità da non dimenticare, e un fallimento su cui meditare). Si dovrebbe dunque semplicemente ignorare i partiti esistenti? E come evitare che una tale scelta porti proprio dove si afferma di non volere andare, cioè a una sigla ulteriore, e a una lista concorrente? 


L’appello muove dal presupposto che lo spazio pubblico non coincida necessariamente con lo spazio politico. Si rivolge a una rete civica che già da tempo fa a meno della politica organizzata così come oggi si presenta, e su questo terreno ottiene successi quasi esaltanti come nei referendum sui beni comuni, e nell’elezione dei sindaci di importanti città, lo scorso anno. L’operazione è interessante, e l’analisi che l’Appello ne fa non lo è meno. Cercando di andare un po’ oltre, vi si può riconoscere un tentativo di contrastare il blocco storico dominante a livello globale con i suoi stessi metodi. Infatti, da quando esistono cose come la Commissione Trilaterale, i portatori degli interessi esclusivi del capitale e della proprietà hanno trovato e usano il modo di passare attraverso uno spazio politico depotenziato e svuotato (malgrado talune sue apparenti e formali blindature) con sovrana indifferenza. E’ interessante e stimolante considerare che i portatori degli interessi del lavoro e dei beni comuni, che sono la maggioranza perdente e disgregata da alcuni decenni, possano e dovrebbero forse cercare di fare qualcosa di simile. E’ improbabile, però, che abbia senso fare esattamente la stessa cosa; si deve temere che ci sia un’insuperabile sproporzione di forze.


Quale ruolo possono avere gli esistenti partiti, che in questo o quel modo echeggiano il superato ma non insensato modello novecentesco di organizzazione politica dei non proprietari (per le cui esigenze, in fondo, i partiti novecenteschi furono innanzitutto inventati, per essere poi imitati dagli avversari in un primo tempo)? Di essi si può e si deve dire molto di negativo, oggi. Ma deve esserci un modo in cui le energie e le esperienze che ancora contengono (al limite, alcune fondate esigenze di cui sono portatori in modo più o meno stanco e irrigidito) siano chiamate e sollecitate a concorrere. In un modo o nell’altro, l’opposizione antisistemica ha bisogno di essere più organizzata (al limite un po’ più “pesantemente” organizzata) di quanto il potere del capitale possa concedersi di non essere. Le forme possono e certamente devono essere nuove, più mature, più ricche e più cariche di libertà, di diversità e di autonomie. Ma il problema resta.

L’esperienza del 2009 resta ancora, in questo senso, da studiare fino in fondo: la domanda, cioè, che la sinistra diffusa nella società civile rivolse allora ai partiti per essere ascoltata, e per avere uno spazio entro cui rappresentarsi e rendersi efficace dentro e fuori di essi, in tutta la sua vastità e in tutta la sua complessità. Perché, allora, i partiti (nello specifico, la “Sinistra e Libertà” di allora, Rifondazione, e il PdCI) non capirono? Come evitare di ripetere oggi quello scontro sterile?
La strada maestra del nuovo spazio pubblico democratico può consistere nel caricare, riempire, alimentare lo spazio politico (e in particolare i partiti) di impegni e parole d’ordine vincolanti, in modo trasversale. Si tratta cioè di un’operazione formalmente analoga a quella vittoriosamente condotta dal capitale nel corso degli ultimi decenni. Mentre però il capitale poteva (e forse doveva) effettuarla svuotando e depotenziando la politica, noi dobbiamo effettuarla, al contrario, mirando a darle nuova vita.


prima idea, per muoversi in questa direzione, può consistere nel proporre e al limite imporre ai partiti della sinistra un rapporto nuovo con il loro elettorato potenziale. Le liste elettorali siano cioè il prodotto di un’ampia consultazione (vere e proprie primarie), e i candidati, quale che sia il simbolo sotto il quale correranno, siano legati da un patto tra loro e con gli elettori che equivalga a un vero e proprio vincolo di mandato, su un breve ma chiaro decalogo delle semplici e grandi cose in cui l’opposizione antisistemica si riconosce. Perché non volerlo? Perché non tentare?

Siamo a qualche mese dall'attacco internazionale al debito pubblico italiano (stabile da molti anni), la risposta alla propria messa in scacco dalla primavera referendaria italiana. Vale la pena soffermarsi a riflettere sullo stato del conflitto fra diverse visioni del mondo simbolicamente rappresentato nella campagna di giugno. La riflessione ha valenza costituzionale perché la partita in corso coinvolge lo stesso patto fondante la nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Essa coinvolge la stessa concezione della giuridicità nei due campi contrapposti, quello del governo tecnico e quello dell'orizzonte di senso evocato dalla proposta del nuovo soggetto politico.

Due sono le norme costituzionali formalmente coinvolte nel conflitto. L'art. 41 (iniziativa economica privata) e l'art. 82 (pareggio di bilancio), ma ben più fondamentale è la partita costituente in corso, perché coinvolge direttamente l'art.1 (il lavoro come fondamento primario del patto costituzionale) e l'art. 3, soprattutto nel secondo comma, che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di fatto che rendono meramente formale l'uguaglianza di cui al primo comma. Si tratta dunque di una partita che colloca al centro la giustizia sociale e la distribuzione dellee risorse.

Due punti erano pacifici fra i costituenti e possono considerarsi il nucleo del nostro ordine costituito: l'Italia aderisce a blocco capitalista e tutela tanto la proprietà (art. 42) quanto l'iniziativa economica privata (art. 43). La Repubblica tuttavia, si schiera dalla parte del lavoro (art 1) nel suo conflitto storico col capitale, utilizzando il diritto (pubblico e privato) come strumento a tutela del più debole (il lavoratore) nei confronti del più forte (il datore di lavoro), qualora quest'ultimo abusi del proprio potere mettendo in campo pratiche oppressive o di sfruttamento. In quest'ordine di idee i diritti sono baluardo del debole nei confronti del forte ed il diritto è lo strumento attraverso cui la Repubblica può controllare l' attività privata (per modo che non si svolga in modo contrario alla sicurezza e alla dignità umana). Con lo stesso strumento lo Stato italiano dovrebbe autolimitare il proprio potere (di datore di lavoro, di imprenditore o di proprietario pubblico) facendosi pienamente carico dei propri doveri nei confronti della collettività e del territorio.

Questo equilibrio costituzionale, che ha informato per decenni la sensibilità dei giuristi e delle forze politiche di tutto l'arco costituzionale, è stato sovvertito nel ventennio neoliberale. Il diritto, sempre più di frequente si è trovato dalla parte del più forte tornando ad allontanarsi dagli orizzonti tracciati dalla sua lettura costituzionalmente orientata. Naturalmente, tale scelta di campo, prodotta dalla supremazia del potere economico internazionale nei confronti degli Stati, ottenuta attraverso la corruzione di gran parte del ceto politico professionale, comporta una vera e propria trasformazione della stessa funzione del diritto. Esso non deve che lasciar fare affinché il più forte naturalmente prevalga. Si tratta della visione sostenuta in America dagli economisti raccolti nei più prestigiosi (e corrotti) dipartimenti, da ultimo denunciati nello splendido documentario di Ferguson, Inside job.

Quest'ideologia, all'opera instancabilmente nella produzione del consenso per il nostro modello di sviluppo suicida, presentato invece come salvifico e necessario, era stata rigettata in Italia tramite i referendum sui beni comuni. Essa ha tuttavia irretito il Presidente Napolitano il quale, piuttosto che operare per il rispetto della volontà popolare, ha ritenuto di istituire motu proprio un sistema costituzionale semipresidenziale, promuovendo allo scranno senatoriale prima e poi a Palazzo Chigi, un autentico esemplare di economista neoliberale il quale si è circondato di altri esemplari della stessa rspecie, come la sua ministra del lavoro. Le conseguenze sono disastrose soprattutto in materia di lavoro, settore in cui Monti si era fatto le ossa offrendo alla Commissione Europea la sua consulenza con un rapporto del 2010 che proponeva la cancellazione in toto della giurisdizione sui diritti a favore di mediazioni informali dei conflitti. Tale proposta era così sovversiva della stessa idea di un diritto del lavoro da non esser neppure ripresa per intero dalla recente proposta di regolamento comunitario. Che, tuttavia, giunge a porre sullo stesso piano la libertà di iniziativa economica ed il diritto di sciopero, obbligando le Corti nazionali a «armonizzare questi diritti» quando configgono.

Porre sullo stesso piano capitale e lavoro fu un'intuizione del ventennio fascista ed in Italia annienterebbe il residuo senso del già ricordato art. 41 della Costituzione. Del resto Monti ha già cercato di modificare tale norma costituzionale per decreto legge. Per ora la proposta di regolamento comunitario ispirata da Monti è limitata almeno formalmente al c.d. "posting" dei lavoratori (ossia al loro trasferimento a seguito di un'impresa dislocata) ma è abbastanza chiaro che esso costituisce un altro passo avanti nell'attacco al lavoro a favore del capitale e della sua libertà di scorazzare liberamente per il più grande mercato del mondo sperimentando sempre nuove pratiche di sfruttamento.

L'idea forte tratta dallo studio di Monti è quella per cui le differenze di potere contrattuale fra capitale e lavoro non possano più essere prese in considerazione dal diritto. Il diritto non può più schierarsi dalla parte dei più deboli ma le corti devono essere neutrali nell'armonizzare i diritti confliggenti dei lavoratori e dell'impresa. Si supera così un nuovo tabù come l'art. 18 o prima di esso il modello Pomigliano. In effetti, il ritorno alla piena mercificazione ottocentesca del lavoro che la conquiste del diritto avevano progressivamente superato è già una realtà. I lavoratori svantaggiati possono oggi esser dati in affitto con lo sconto, grazie a una convenzione fra Fornero e una nota agenzia interinale, restituendo dignità a quella figura di locatio operis con cui i giuristi romani duemila anni fa inquadravano il contratto di lavoro.

In un tale quadro reazionario è difficile non prevedere che la riforma dell'articolo 18 ed il licenziamento per ragioni economiche, siano volti principalmente a preparare licenziamenti massicci nel settore pubblico quando la troika ci chiederà di farlo, come già avvenuto in Grecia. Se a questo aggiungiamo la quasi avvenuta modifica dell'art. 82 Costituzione per l' introduzione del pareggio di bilancio (che un Parlamento con la fiducia di meno del 10% degli Italiani sta per approvare in seconda lettura con una maggioranza tale da escludere il Referendum costituzionale confermativo), ben possiamo comprendere la drammatica urgenza democratica di cui parlava Marco Revelli sul manifesto di venerdì.

Alcuni di noi, che da ormai oltre due anni stanno sul territorio italiano, praticando la politica di movimento sono ben consci del potenziale politico della resistenza contro il montismo, vissuto da tante persone normali come un nuovo fenomeno postfascista italiano ormai più pericoloso dello stesso berlusconismo. Per noi è giunto il momento di mettere in campo un Comitato di Liberazione Nazionale dalla tirannia del pensiero unico e di farlo con tutte le forze che ancora credono che il diritto debba governare l'economia e non esserne dominato. Unire le persone per bene intorno ad un metodo per superare una situazione drammatica è più agevole che farlo sul merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati. Di qui il senso di una soggettività politica nuova che sappia stare sempre dalla parte del lavoro e dei beni comuni.

Monti, da Tokio, ci fa sapere che lui è popolare, i partiti no, sono solo oggetto di disprezzo. Pirani, solitamente molto politically correct, scrive che il bello del nuovo nostro primo ministro sta nel fatto che è autonomo dalle fluttuazioni parlamentari, dalla dialettica dei partiti e dalle pressioni della società. (Voglio sperare che non si sia reso conto di cosa ha teorizzato). La traduzione a livello popolare del concetto è quanto si sente sempre più ripetere: «A che mi serve la democrazia? Costa troppo. Perché debbo pagare tanti soldi perché una cricca vada a chiacchierare dei fatti suoi in un parlamento?».

A livello alto, invece, nelle istituzioni europee e fra insigni studiosi, si dice che siamo entrati nella post democrazia parlamentare, che i problemi sono ormai troppo complicati per lasciarli a incompetenti istituzioni rappresentative. Ricordo queste cose per avvertire che quando si cominciano a denunciare classe politica e, indifferenziatamente, i partiti in quanto tali, bisogna stare un po' attenti. L'attacco alla democrazia non viene più da bande neofasciste ormai poco più che folcloristiche, ma da una minaccia più raffinata: dall'uso capzioso che ormai apertamente viene fatto dell'oggettivo fastidio, della distanza che si è scavata fra società civile e istituzioni politiche. Cui inconsapevolmente concorre anche il neo anarchismo che percorre ovunque i movimenti.

D'accordo quindi con "il manifesto per il nuovo soggetto politico" pubblicato il 29 marzo scorso su questo giornale (e firmato da molti miei amici di cui ho la massima stima) quando dicono che per salvare la democrazia bisogna arricchirla e trovare nuove forme di partecipazione e anche di democrazia diretta. Ma, vi confesso di provare anche molta preoccupazione per il tipo di nuovo soggetto politico di cui si auspica la nascita in sostituzione della forma partito novecentesca. Certo, è vero, anche i partiti di sinistra o presunta tale sono pessimi. Anche i più recenti. Bisognerebbe rifarli daccapo e naturalmente questa non è operazione che si fa sulla carta: i buoni partiti nascono sempre da un movimento reale. Ma può servire a questo scopo il descritto nuovo soggetto?

Innanzitutto non si può mettere fra parentesi il fatto che se i partiti sono diventati così è perché le istituzioni rappresentative nazionali in cui sono chiamati a far sentire la loro voce sono state da tempo svuotate di un potere decisionale che peraltro non è stato nemmeno trasferito ad altri livelli ma semplicemente assunto, extra legem, da chi stabilisce accordi privati sul mercato globale. In questi anni sono state privatizzate non solo le centrali del latte o le aziende di trasporti, ma anche la sovranità, il potere decisionale.

La crisi dei partiti dipende dunque anche dalla drastica perdita di influenza che hanno subito in conseguenza di questa perdita di potere delle istanze rappresentative a tutti i livelli, anche comunale. Per questo la gente avverte la loro superfluità. Nessun soggetto politico può pensare di essere efficace se elude questo problema pensando di potersi limitare a produrre un po' di partecipazione locale. A meno di non reinventarsi l'impero ottomano, dove ai califfati veniva lasciato qualche potere locale, mentre restava saldamente in mano a Costantinopoli ogni opzione generale e decisiva. L'idea che il sistema possa esser cambiato solo dal basso, da una rete orizzontale che, pur non negandolo, sospende la sua attenzione al problema del potere centrale e ritiene che basti una frammentata pressione dal basso per cambiarlo, credo non vada lontano.

Né un progetto collettivo si definisce senza aver fatto crescere conoscenze e cultura comuni, che non sono la somma dei pareri di ciascuno, magari raccolti in rete come fa la tv con l'auditel, sicché alla fine vengono fuori, come opzioni maggioritarie, le telenovelas. Questa sacralizzazione dell'opinione pubblica, in nome della quale la maggioranza ha comunque ragione, è il peggior portato di Internet: la scelta giusta è il risultato di un confronto prolungato e sofferto, tanto più in presenza di movimenti che non sono più socialmente omogenei, come era quello operaio, ma popolati dalle figure destrutturate e contraddittorie prodotte dal capitalismo in crisi. Funzione di un soggetto politico è costruire senso, non raccogliere la medietà del consenso, peggio di un indistinto borbottio. A meno che non ci si contenti di conservare l'esistente anziché di cambiarlo.

E veniamo alla proposta di abolire una leadership centralizzata, sostituita da «coordinamenti transitori e itineranti». Badate che il peggior leaderismo si produce di fatto quando non si stabiliscono regole precise per una selezione collettiva dei dirigenti: vi dicono niente i leaderini del '68, dominatori di assemblee, sopraffattori dei più deboli, o solo meno arroganti? O il Partito radicale che, grazie alla sua assoluta informalità, ha lasciato alla ribalta da 50 anni Marco Pannella (che non si chiama narciso, ma, guarda caso, all'anagrafe è iscritto come giacinto)? Una massa atomizzata è sempre manovrabile. Per questo servono sedi stabili in cui ci si possa raccogliere, collegamenti a tutto campo per non chiudersi nel localismo (per questo è reazionario pensare di poter togliere finanziamenti ai partiti, o trovare illecito che un deputato viaggi al di fuori del suo collegio). Solo se c'è un'organizzazione la base può esercitare potere, altrimenti, al massimo, può dire sì o no a un referendum. Selezionare democraticamente una leadership è difficile ma necessario se si vuole consolidare un'organizzazione politica e non abbandonarla alle fluttuazioni caratteristiche dei movimenti spontanei.

E, infine, basta partecipare alle scelte, stabilire cosa è bene comune, o serve conquistare anche la loro stabile gestione? Il glorioso referendum sull'acqua non rischia forse di esser compromesso proprio sul terreno della sua applicazione? Non occorre dunque, allora, costruire organismi che strappino poteri allo stato e ne prefigurino la graduale estinzione, capaci di assolvere alle sue funzioni sì da evitare il rischio della separazione burocratica, del potere arbitrario, della casta? Gramsci, che pure ha sempre ricordato quanto più necessaria al proletariato rispetto alla borghesia sia la politica, consapevole delle sue degenerazioni aveva ipotizzato la creazione di consigli in grado di giocare questo ruolo. All'inizio degli anni '70 i consigli di fabbrica, e poi di zona, si sono avvicinati a questa indicazione. Non pensate che si tratti di una prospettiva più ricca che non quella di moltiplicare indefinite e instabili forme di raccolta di consensi?

Ben vengano nuove forme di partecipazione, dunque, ma innanzitutto facendo tesoro delle esperienze novecentesche che non sono roba da buttar via come dice il Manifesto: quando il Pci, con tutti i suoi difetti, aveva più di due milioni di iscritti e una capillare organizzazione radicata sul territorio e però anche forte della soggettività di una appartenenza ad un grande movimento internazionale che aveva sconfitto il fascismo vi assicuro che si è raggiunto il punto più alto di democrazia conosciuto dal nostro paese. Quella esperienza non è ripetibile e aveva i suoi limiti, ma per favore non sputateci sopra!

A me piace tuttora l'invocazione di Mao Tse Tung, che tanto ci conquistò nel '68, quando disse che occorreva bombardare il quartier generale. Perché i partiti si burocratizzano e separano e vanno quindi continuamente investiti dai movimenti della società. Ma Mao aggiungeva che occorreva distruggerli per rifondarli, non per farne a meno. In Cina non ci si è riusciti, non ho remore a dire che in Italia bisogna provarci.

Nel suo più recente libro autobiografico, Senza fare di necessità virtù — Memorie di un antifascista, pubblicato da Einaudi nel settembre dell'anno scorso, Rosario Bentivegna, morto ieri a novant'anni debilitato dalle conseguenze di un ictus che l'aveva colpito il sedici gennaio scorso, prevedeva con un certo distacco e, forse, con una sorta di sollievo, l'oblio che sarebbe calato su uno dei fatti più controversi nella storia della Resistenza italiana. Studente di medicina, comunista, membro giovanissimo dei Gap (Gruppi di azione patriottica), era stato scelto da Carlo Salinari per il ruolo più rischioso nell'attentato fissato per il 23 marzo 1944, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, contro l'XI compagnia del III battaglione SS Bozen di stanza a Roma che ogni giorno verso le 14 risaliva per via Rasella. Travestito da spazzino, lo studente di medicina spinse sino al luogo fissato un carretto carico di 18 chilogrammi di tritolo e di spezzoni di ferro. Aveva riempito la pipa di tabacco e per tre volte l'aveva accesa ritenendo imminente l'arrivo dei soldati tedeschi. L'attesa durò quasi due ore e il commando di partigiani stava rinunciando all'azione finché un quarto d'ora prima delle 16 si udirono passi cadenzati e inni di guerra. Quando i soldati erano vicini, Bentivegna accese la miccia e a passo deciso raggiunse via del Tritone dove lo aspettava con un impermeabile la sua compagna e futura moglie Carla Capponi. Nell'attentato morirono 33 tedeschi, per rappresaglia dopo una serie di convulse telefonate con Berlino, il comando tedesco decise di uccidere dieci italiani per ogni SS caduto. La sentenza venne eseguita alle Fosse Ardeatine, dove le vittime ufficiali, rastrellate tra i detenuti politici, gli ebrei, i comuni, andarono oltre la cifra stabilita: furono 335.

Bentivegna con i suoi compagni (furono in dodici a partecipare all'azione) si nascose prima in città e poi si diede alla macchia. E per tutta la vita dagli avversari, ma anche da alcuni della sua stessa parte politica si è sentito ripetere che lui e i suoi compagni avevano il dovere di consegnarsi per evitare l'eccidio. Seconda una versione tanto falsa quanto dura a morire a Roma sarebbero stati affissi dei manifesti in cui si invitava i partigiani a consegnarsi per risparmiare le vite di innocenti. Contro questa menzogna Bentivegna ha lottato tutta la vita, vincendo non poche cause perché non ci fu nessun manifesto e la prima notizie delle Ardeatine venne pubblicata sul «Messaggero» del 25 marzo, quando la tragedia era consumata.

La Resistenza per quel ragazzo di famiglia borghese con ascendenze risorgimentali (nell'album di famiglia compariva un colonnello Giuseppe Bentivegna che era con Garibaldi sull'Aspromonte) era cominciata molto prima di via Rasella e si sarebbe conclusa ben dopo l'arrivo degli Alleati a Roma il 4 giugno 1944. Inviato da Togliatti con le Brigate Garibaldi a combattere dalla parte di Tito, Rosario Bentivegna riprese gli studi di medicina soltanto a guerra finita. Fu un brillante medico del lavoro e rimase iscritto al Pci sino al 1985, anche se si dichiarò comunista sino alla fine. Militante pronto all'azione, molto legato a Luigi Longo, fu da questi mandato alla fine degli anni Sessanta a recuperare alcuni dirigenti del partito comunista greco in pericolo di vita sotto il regime dei colonnelli. Un'impresa che Bentivegna condusse al timone di un motoscafo d'altura, con l'aiuto della figlia Elena, avuta da Carla Capponi.

Personaggio scomodo del comunismo italiano (la sua medaglia d'argento venne contestata anche dentro al Pci), memoria vivente della Resistenza romana, Rosario Bentivegna nell'ultimo trentennio non ha mai smesso di raccontare e di difendere la sua versione dei fatti. Lo fece una prima volta nel 1983 con «Achtung Banditen», un volume edito da Mursia che fu elogiato da Renzo De Felice per la mole degli episodi narrati e la precisione delle informazioni. Nel '96 pubblicò con il giornalista del Corriere Cesare De Simone, «Operazione via Rasella» (Editori Riuniti) e poco dopo accettò il mio invito a confrontarsi con il «repubblichino» Carlo Mazzantini: ne nacque un volume per Baldini & Castoldi, «C'eravamo tanto odiati» in cui la storia della guerra civile italiana, definizione non accettata da Bentivegna, che preferiva «guerra di liberazione», fu raccontata da due punti di vista contrapposti.

Rosario Bentivegna era un uomo colto e aperto, con un grande senso dell'amicizia. Incredibilmente tenace nel sostenere il suo punto di vista, non si tirava mai indietro, come quando ingaggiò un duello intellettuale con il filosofo Norberto Bobbio che aveva definito l'azione di via Rasella un «attentato terroristico». Sostenere la sua verità su via Rasella è stata, possiamo dire, la bussola che lo ha orientato per tutta la vita. Sentiva pietà per le vittime ma ha sempre ritenuto che tutte le sue azioni partigiane, compresa via Rasella, fossero necessarie per ostacolare il transito delle truppe naziste a Roma e quindi interrompere i bombardamenti degli Alleati.

Divorziato da Carla Capponi, Rosario Bentivegna ha vissuto gli ultimi 38 anni di vita con Patrizia Toraldo di Francia. I funerali saranno celebrati mercoledì nella sede della Provincia: «Sa — dice Patrizia — questo Comune non ci piace».

A proposito dell’attentato di Via Rasella e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine vedi su eddyburg Via Rasella. Memorie antiche e colpevoli smemoratezze recenti e La vera storia di Via Rasella

"Tutti i nostri problemi, dalla crisi all´ambiente, sono problemi del vivere insieme: io questo senso parlo di comunismo" "Su Occupy Wall Street sono cauto, anche se ha avuto il merito di essere il primo movimento che non cavalca un solo tema" Il filosofo sloveno racconta, in una lunga intervista di cui pubblichiamo un estratto, le sue posizioni politiche

Perché lei, Slavoj Zizek, si interessa tanto alla psicoanalisi?

«Per un solo, unico motivo! Arrivare a una nuova comprensione di Hegel. Questo è il vero nucleo del mio lavoro: il mio maniacale entusiasmo per Hegel. Ho appena scritto un libro su Hegel, lo stanno stampando ora, uscirà in inglese tra circa tre mesi. È una roba da matti, più di mille pagine su Hegel».

In un suo libro, afferma che il comunismo rappresenta l´unica via d´uscita dall´attuale crisi sociale…

«Davvero ho detto questo?».

In che senso il comunismo è la soluzione?

«Okay, ecco la mia posizione ufficiale a riguardo. Innanzitutto, so di avere un piccolo problema di pubbliche relazioni. Molti miei amici, ma anche persone con cui non ho rapporti di amicizia, mi chiedono: perché non lasci finalmente perdere questo stupido concetto di comunismo, che porta con sé così tante implicazioni infelici?».

E perché non lo fa?

«Posso darvi tre motivazioni. Da buon freudiano, so che quando si danno troppe motivazioni ci si rende subito sospetti (ride). Primo: vorrei sottolineare che, nonostante tutto, esiste una ben definita tradizione del comunismo che non ha proprio nulla a che fare con lo stalinismo. Ad esempio la linea radicale ed emancipativa rappresentata dal millenarismo, con la sua credenza nella fine dei tempi. Il regno eterno è qui! È possibile trovarla nel cristianesimo, nella rivolta spartachista, nella guerra dei contadini e così via. Ritengo questa tradizione molto importante, mi piacerebbe portarla avanti».

E la seconda motivazione?

«Il problema di tutti gli altri concetti, ad eccezione del comunismo, è che sono compromessi nel senso esattamente opposto: sono troppo leggeri da digerire. Prendiamo il concetto di "solidarietà". Perfino Hitler avrebbe potuto parlare di solidarietà. O "dignità" – ma è chiaro, tutto dipende da cosa intendiamo per "dignità". Vedete, la parola comunismo almeno è destabilizzante: fa capire che non stiamo qui a prenderci in giro, a parlare di concetti onorati e vuoti, come quello di "maggiore giustizia"».

E la terza ragione?

«Forse è addirittura un bene che questo concetto sia gravato da una storia così spaventosa. Essa ci ricorda che progetti di una tale portata pratica sono sempre intrisi di pericolo. (...) Ma la mia vera risposta, quella definitiva, è: la parola "comunismo", come sottolineo più volte nel mio libro, non è il nome della soluzione, bensì quello del problema».

Di quale problema?

«Se si esaminano le questioni di fronte a cui ci troviamo oggi – l´inquinamento dell´ambiente, il capitalismo finanziario, la biogenetica, la difesa della proprietà intellettuale – tutti questi sono "problemi del vivere insieme, in comune": riguardano un ambito che sfugge sia al controllo dello Stato che alle soluzioni pensabili nell´ambito privatistico dell´economia di mercato. Il concetto di "comunismo" (dal latino communis) per me, quindi, identifica il problema. (...)».

Parliamo del movimento Occupy Wall Street. Secondo lei contribuisce, sia pure per piccoli passi, a cambiare le cose, o invece è parte del problema?

«Chi vivrà vedrà, sono molto cauto. La mia opinione su Occupy Wall Street però è la seguente: l´esistenza di esso è significativa, dato che si tratta del primo movimento, negli Stati Uniti, che è riuscito a ottenere una vasta eco sociale e non si occupa di un unico tema, ad esempio solo di razzismo o solo dell´indebitamento creato da speculazioni finanziarie. La gente si è accorta che c´è qualcosa che non va nel sistema. Ma non mi piace la formula "è colpa del capitale finanziario"».

Perché no?

«Il problema è in realtà: qual è la logica alla base dell´odierno sistema capitalistico che permette al capitale finanziario di agire così? Si tratta di una coazione sistemica. I banchieri sono cattivi da sempre – che strano, eh? Non bisogna dare la colpa solo ai banchieri di oggi! È un´idiozia! E penso che l´errore più grave che si possa commettere sia moralizzare questa crisi» (...).

Lei affermerebbe che la nostra attuale forma di democrazia non è in grado di combattere il capitalismo?

«No, no, no, direi quasi il contrario! Certo, la libertà di cui disponiamo è solo formale – ma questo è comunque l´unico ambito in cui la libertà può esistere. Nel momento in cui si abolisce la democrazia formale, non si ottiene la vera democrazia. Piuttosto, si perde la democrazia in quanto tale. Il solo spazio di libertà che abbiamo si trova nel campo intermedio tra la democrazia formale e le forme effettive della nostra illibertà... Si deve cominciare a pensare la politica al di là delle ristrette definizioni proprie dello Stato multipartitico. Voglio dirlo in questi termini: io odio il Sessantotto. Troppa libertà, troppo divertimento. Ma almeno una cosa l´hanno capita: il personale è politico e tutta quella roba là. Non sono cose che vadano sopravvalutate, sia ben chiaro, ma naturalmente sono giuste: l´oppressione delle donne, le strutture famigliari, quello che succede nelle fabbriche… anche in questi ambiti si pongono questioni di libertà, di politica. E qui, a mio parere, si innesta il problema più serio: non si dovrebbe far fuori la democrazia formale. Però, allo stesso tempo, come fare a includere questi ambiti nel processo politico?».

Traduzione di Eleonora Piromalli. © Philosophie Magazin

Un gruppo di intellettuali, tra i quali molti nostri preziosi collaboratori, firma un documento politico-culturale, che già nel titolo ne illustra la finalità: «Manifesto per un soggetto politico nuovo, per un'altra politica nelle forme e nelle passioni». Il lungo testo sostiene che non c'è più tempo, né speranza di cambiare questi partiti, spesso causa prima della crisi di democrazia che dovrebbero interpretare e risolvere. Dunque la partecipazione ha bisogno di altre forme, altri uomini, altre donne, altre ragioni e altri sentimenti.

I contenuti che animano questo manifesto politico fanno riferimento al "benecomunismo" elaborato negli ultimi anni a partire dalla battaglia sull'acqua pubblica. La riflessione sui beni comuni, le esperienze di movimento che ne sono seguite, sono lo scheletro, il perno su cui poggia l'opposizione radicale al bagaglio teorico e alla pratica politica delle attuali formazioni della sinistra, descritte come vuote oligarchie che nutrono leadership malate di narcisismo. In questa critica si sfondano porte spalancate. La rottamazione è ormai un risentimento di massa.

Più interessante la parte costruttiva, il percorso, l'habitat, le procedure, le suggestioni di una partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. L'idea di superare lo sfogatoio qualunquista del «sono tutti uguali», la necessità di sperimentare una nuova delega, strutture intermedie, comunali, territoriali, che l'esperienza della rete dei «Comuni per il bene comune» stanno scoprendo e valorizzando. Compresa la ricerca di nuove parole per indicare nuove speranze.

Se il progetto si risolverà nell'aggiungere una nuova sigla all'attuale spezzatino della sinistra o invece sarà l'epicentro di una scossa per terremotare l'attuale geografia dei partiti, lo capiremo strada facendo. Nell'uno o nell'altro caso, le culture politiche e le esperienze sociali che oggi precipitano nel documento che pubblichiamo hanno animato le nostre pagine, le nostre campagne. Spesso in sintonia con il punto di vista del giornale, altre volte in contrasto con l'analisi e le soluzioni che suggerivamo nella crisi globale. Ed è facile prevedere qualche scintilla, per l'autorevolezza delle firme e l'eterogeneità delle culture e dei mondi che rappresentano. Se l'iniziativa provocherà una discussione sarà già un buon risultato. Che merita attenzione.

Mettere in campo «un'altra Italia, lavorare per un'altra Europa» è un progetto ambizioso, un vasto programma. Come del resto è sempre avvenuto quando, nel suo processo di scissionismo acuto, la sinistra si è fatta in mille pezzi, sempre più piccoli e sempre meno rilevanti. Da tempo si è capito che rimettere insieme i cocci non è possibile, né utile. Del resto chi firma il testo che pubblichiamo non fa parte di nomenklature partitiche, rappresenta l'anticorpo di un intellettuale collettivo sempre critico, e per questo mal digerito dal ceto politico.

Nei dibattiti che intorno alla sorte del nostro giornale si svolgono nei circoli degli amici del vediamo spesso la litigiosa famiglia della sinistra tornare a parlarsi. E siamo contenti di essere usati come un campo non neutrale, un laboratorio pienamente partecipe nuove connessioni, di un modo gentile di parlarsi. Ci piace esserlo anche nei confronti del tentativo di questo partito-movimento. Con la curiosità e l'autonomia di chi non ha mai rappresentato la voce di un partito.

Pochi giorni fa è comparso, con ovvio rilievo di stampa, un appello italo-tedesco ai rispettivi parlamenti nazionali perché questi ratifichino nello stesso giorno, e comunque prima del Consiglio europeo previsto per fine giugno, il cosiddetto fiscal compact, ossia il nuovo accordo che, dopo il Six Pack e il Patto Euro Plus, intende inferire un nuovo colpo al residuo brandello di sovranità nazionale sui bilanci in favore di una «sovranazionalità» retta da organismi del tutto a-democratici. Naturalmente, secondo i proponenti l'appello, tale ratifica andrebbe accompagnata da una dichiarazione politica «per un nuovo passo in avanti verso una forte Unione politica con un governo federale», ma si capisce che si tratta del fumo che accompagna l'arrosto, visto che lo sciagurato patto rimarrebbe tale e addirittura rafforzato, alla faccia dello stesso Hollande che ha dichiarato l'intenzione, una volta vinte le elezioni francesi, di rinegoziarlo. Il che comporta anche un ulteriore sostegno alla maggioranza bulgara che sta approvando a tappe forzate la revisione dell'articolo 81 della nostra Costituzione per introdurvi l'obbligo del pareggio di bilancio, in modo tale da precludere anche un referendum confermativo.

L'appello in questione è firmato da eminenti personalità, alcune delle quali fanno parte del milieu della sinistra con ambizioni radicali. La giustificazione fornita è che non si può rinchiudersi in una nicchia di opposizione, che bisogna «scendere in campo», che si tratterebbe quindi di stabilire una nuova tappa nella costruzione dell'Europa da aggiustare poi in seguito. Argomentazioni infantili, potremmo dire, se non provenissero da persone assai avvertite e politicamente esperte. Bisogna quindi interrogarsi sulle ragioni che ci hanno condotto sino a questo punto. Perché siamo tornati indietro alla destra hegeliana, per cui tutto il reale (banalmente equiparato all'esistente) appare razionale? Perché si è interiorizzato un principio in virtù del quale ogni atteggiamento oppositivo è in partenza considerato di nicchia nel migliore dei casi, suicida nella maggioranza dei medesimi?

Sono domande che non dovrebbero lasciare nessuno indifferente, poiché sono rivolte in primo luogo a noi stessi. Potremmo anche riformularle nel modo seguente: perché la «società civile» europea, pur umiliata, taglieggiata, impoverita e deprivata di un futuro credibile, rimane - al di là di rilevanti e meritori sussulti, come quello greco - sostanzialmente passiva di fronte a quella che, col suo consueto aplomb, Mario Draghi ha definito la «fine del modello sociale europeo»? E perché anche i migliori intellettuali, che pure - come Ulrich Beck, tra i firmatari del citato appello - sono stati in passato tra i cantori di questo modello, si accodano ora, come in un nuovo tradimento dei chierici, al suo funerale?

Non crediamo ce la si possa cavare con risposte che pure facciano riferimento a una corretta contestualizzazione storica, né osservando che il neoliberismo, ideologia portante e inverata del moderno capitalismo, ha subito una vera e propria falsificazione. Se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa e in Europa - e, mutatis mutandis, in Cina - lo Stato è intervenuto a piene mani nell'economia finanziaria e in quella produttiva. Sta di fatto che neppure di tale protagonismo del «pubblico» la sinistra ha saputo avvantaggiarsi. E rispondere che la ragione di ciò sta nella sua estinzione come pensiero politico autonomo sarebbe accontentarsi di tautologia, benché purtroppo vera.

Se questo è vero, allora il problema è prima di tutto culturale - o, se vogliamo, ideologico. L'inazione e la passività dei corpi sociali dipendono dal fatto che questa crisi è letta, quindi subita, come la conseguenza di comportamenti errati: come la punizione per presunti errori commessi. Ed è con ciò giustificata. Per questa ragione - crediamo - si tende a non reagire: si mugugna, tutt'al più si eccepisce su aspetti marginali (bisognerebbe far pagare di più questo piuttosto che quello), ma non ci si contrappone in radice allo schema interpretativo (il «debito», lo sbilancio tra bisogni sociali e risorse disponibili) che, nella rappresentazione diffusa da politici e media, legittima le misure draconiane imposte al grosso dei corpi sociali, cioè al lavoro dipendente.

Quello che così scompare del tutto è la consapevolezza della causa immediata della crisi, che risiede proprio in uno dei pilastri del neoliberismo: la contrazione delle retribuzioni. Il detonatore è stato il debito privato, non certo quello pubblico. Quest'ultimo è giunto solo attraverso la "pubblicizzazione" del primo, cioè con l'aiuto al sistema bancario da parte degli Stati. Ma la diffusione capillare dell'indebitamento, nonché la presenza attiva dei fondi pensione - cui tanti lavoratori avevano affidato la sicurezza del loro futuro - sui mercati finanziari, ha congiunto interessi collettivi e individuali alla sorte di questi ultimi. Questo non solo ha reso in fondo desiderabile anche a livello di massa che gli istituti bancari venissero salvati dal denaro pubblico, malgrado il loro comportamento spesso delinquenziale, ma anche che il debito privato accumulato venisse percepito dalle singole persone come una colpa derivante da un eccesso dei propri desideri rispetto alle proprie possibilità. Quando dalla crisi del debito privato si è passati a quella del debito pubblico - il che è ciò che contraddistingue l'attuale fase soprattutto in un'Europa renitente politiche anticicliche - quel senso di colpa si è dilatato, introiettando la convinzione che interi popoli e nazioni fossero «vissuti al di sopra dei propri mezzi». Il tutto nel bel mezzo di una sovrapproduzione di merci tradizionali. I sacrifici diventerebbero quindi la penitenza per gli eccessi passati. E il pareggio di bilancio la medicina salvifica pronta a prevenire prima ancora che curare.

Un capolavoro ideologico, non c'è che dire, fondato su una fitta rete di cointeressenze materiali radicate e diffuse ma conseguente anche alla subalternità della sinistra moderata (così, del resto, sono state giustificate tutte le «riforme» pensionistiche) e - riconosciamolo - all'inadeguatezza culturale e politica della cosiddetta sinistra "radicale", rivelatasi incapace di contrastare, nel senso comune, la prospettiva egemone. Non potendo far credere che sia la scarsità di risorse a rendere necessarie le sacrificali politiche di rigore, le classi dominanti si sono con successo adoperate per fare discendere i sacrifici dall'eccesso di opulenza. C'è di più. Per riproporsi, il neoliberismo aveva bisogno di un lavacro purificatore. La sua contaminazione con lo Stato ne aveva compromesso l'immagine in modo preoccupante. Bisognava chiarire che l'intervento statuale era solo transitorio e che comunque veniva limitato alla salvezza degli istituti finanziari, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento dell'economia reale. Per fare ciò erano e sono necessarie due grandi operazioni.

La prima si muove più su un terreno ideologico e consiste nel rilancio in grande stile della polemica contro le dottrine di John Maynard Keynes, individuato dagli attuali protagonisti e interpreti del sistema capitalista mondiale come un pericolo addirittura peggiore del ritorno a Marx, poiché considerato, a differenza di quest'ultimo, prossimo e interno al sistema. Il disarmo culturale prima che politico della sinistra ha lasciato spazio a sciocchezze di questo genere, facendo persino dimenticare che a spalancare le porte al nazismo non fu la grande inflazione dei tempi di Weimar - domata già alla metà degli anni Venti - bensì la sciagurata politica deflazionistica del «cancelliere della fame» Heinrich Brüning.

La seconda operazione cui il neoliberismo affida il proprio rilancio riguarda la capacità del soggetto impresa di fornire una ricetta per uscire dalla crisi. Il marchionnismo è niente altro che questo. Il tentativo di rilanciare la competizione e la catena del profitto al di là e indipendentemente dalle politiche statuali, quando non contro di esse. Per questo non solo Marchionne rivendica un nuovo carattere "apolide" per la Fiat, ma vuole imporre un sistema di relazioni e di regole specifico del gruppo tale da prescindere dai quadri legislativi nei vari paesi in cui opera. A questo scopo servono autorità sovranazionali che si preoccupino della stabilità monetaria e del rigore di bilancio, lasciando tutto il resto all'impresa. Questo è il senso della attuale governance europea e del suo ultimo prodotto, il fiscal compact.

Si sente spesso dire, anche nel campo della sinistra "radicale", che bisogna andare «oltre Keynes», visto che al tempo suo questioni oggi cruciali e corresponsabili della crisi, come il disastro ambientale, non occupavano la scena con l'attuale ineludibile centralità. Il guaio è che questo oltrismo ha la stessa vaghezza di quello che, ancora più tempo addietro, predicava la necessità di andare «oltre Marx». Allora, piuttosto che evocare improbabili orizzonti salvifici, varrebbe forse la pena di rimettere i piedi per terra e di tornare a declinare il ragionamento critico incentrato sulla potenza distruttiva di un modello sociale che impedisce l'impiego delle forze produttive sociali (oggi virtualmente sufficienti a garantire all'umanità intera adeguati standard di vita) se (nella misura in cui) esso non comporta la remunerazione del capitale privato. Insomma, se, invece di precipitarsi «oltre», si tornasse intanto a Marx e a Keynes, tentando anche inedite e fertili contaminazioni, forse si opererebbe utilmente per la ricostruzione di un pensiero di sinistra.

Caro Presidente Napolitano, ci spinge a scriverle un fatto politico-sindacale che appare da settimane nelle cronache quotidiane e che non trova quasi nessuna eco, e soprattutto nessun commento e riprovazione, da parte del mondo politico, del governo, dei grandi media nazionali. Quasi si trattasse di eventi episodici e di scarso rilievo. Eppure siamo di fronte a una vicenda di straordinaria gravità, una scelta che segna una lacerazione nel tessuto vivo della democrazia italiana.

Ci riferiamo alla discriminazione che da tempo subiscono gli operai iscritti alla Fiom, i quali non vengono assunti negli stabilimenti Fiat a causa della tessera che portano in tasca. Poiché - com'è noto - la Fiom non ha firmato il contratto tra la Fiat e gli altri sindacati, siglato a Torino nel dicembre del 2011, essa rimane fuori dalla fabbrica e così gli operai che essa rappresenta.

Ora, a noi sembra che tale scelta della Fiat violi apertamente l'art.39 della nostra Costituzione, il quale sancisce la piena libertà sindacale. Ma essa è in aperto contrasto con tutto il costituzionalismo europeo e in maniera evidente con la Carta di Nizza, che ha solennemente ribadito tale diritto nell'art.12, nell'art. 21 di Non discriminazione - «E' vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare(...) sulle convinzioni personali, le opinioni politiche»» - nell'articolo 28 che legittima il conflitto e il diritto di sciopero. Ricordiamo la Carta di Nizza non perché essa abbia più valore della nostra Costituzione, ma perché oggi sembra che il rimando all'Europa debba valere esclusivamente per i vincoli finanziari che ci viene imponendo, non per i diritti che riconosce.

Ma gli episodi della Fiat fanno parte di un processo che viola la «Costituzione vivente» del nostro Paese, demolisce conquiste sociali del XX secolo, fa arretrare la civiltà giuridica delle società industriali. Definire privatamente le regole di un accordo con i sindacati consenzienti, negando valore alla contrattazione nazionale, ed escludendo i sindacati in disaccordo, non solo viola il pluralismo sindacale. Un principio a cui gli innumerevoli liberali che oggi in Italia affollano la scena pubblica dovrebbero mostrarsi un po' più sensibili. Ma tale scelta inaugura una rifeudalizzazione del diritto, apre alla creazione di domini particolari nelle relazioni industriali che colpiscono la stessa unità del Paese, a cui lei ha mostrato di tenere in sommo grado.

Lei sa bene, caro Presidente, che cosa ha significato per le classi lavoratrici meridionali il contratto unico nazionale. I lavoratori del Sud, in genere dispersi, male organizzati e poco rappresentati, hanno goduto della capacità contrattuale della classe operaia del Nord.

Il contratto nazionale di lavoro, sottoscritto e difeso dai sindacati, ha reso meno lacerante la divisione fra Nord e Sud, ha tutelato l'unità giuridica e sociale dell'Italia. Noi crediamo che il silenzio e, talora l'indifferenza, dei partiti e della stampa di fronte a tale questione nasca spesso dalla non condivisione della linea sindacale della Fiom. Consideriamo tale atteggiamento un grave errore.

I diritti riguardano tutti i cittadini e vanno difesi al di là delle posizioni e delle opportunità politiche. Molti immaginano che alcune restrizioni dei diritti, alcuni arretramenti di posizione, siano transitori e momentanei, dovuti alla difficile fase di crisi che attraversiamo. Ci permettiamo di ricordare che non è così. L'arretramento della condizione dei lavoratori è un'onda lunga che viene da lontano, e non investe solo l'Italia, e sta mettendo in discussione conquiste storiche di civilizzazione dell'Occidente.

Siamo di fronte a un mutamento strutturale e di lungo periodo a cui occorre opporsi con un nuovo moto solidale delle forze democratiche.

Caro Presidente, conosciamo i limiti della sua funzione istituzionale e non le chiediamo cose che non può fare. Ma lei, supremo custode della Costituzione, per il ruolo che ricopre e per i meriti personali della sua condotta, è la figura politica più autorevole d'Italia. Nel momento in cui ai ceti popolari vengono chiesti tanti gravi sacrifici, non faccia mancare la sua parola, la sua capacità di indirizzo, di persuasione morale su un punto che rischia di lacerare il tessuto civile del Paese, menomare gravemente un diritto fondamentale di milioni di lavoratori.

Già altri, aderendo all'invito cortese di Valentino Parlato, hanno detto dei loro stati d'animo nell' intervenire sui temi proposti da Rossana Rossanda. Poiché Rossana incita il manifesto a guardare in se stesso per intendere la propria crisi, a Tronti è venuta in mente la lunga storia della introspezione com'è maturata nella cultura cui apparteniamo, dalle Confessioni di Agostino in poi. Posso confessare anch'io, dunque, un imbarazzo e un timore. Temo il ripetersi di una consumata discussione sul "nome e la cosa", anche se "la cosa" questa volta non è un partito ma un giornale. E avverto l'imbarazzo di chi, compartecipe della caduta delle sinistre italiane, sente di non aver proprio niente da sentenziare, ma al tempo stesso non vuol fare la parte di chi evita il tema scabroso posto dalla parola "comunismo".

Penso che la discussione di oggi sul declino della sinistra e dei suoi giornali dovrebbe concentrarsi sui motivi della crisi delle sue culture, resa manifesta dalla cattiva prova che hanno dato e stanno dando davanti al disastro economico, poco o per nulla previsto ieri e, oggi, fronteggiato senza proposte realmente alternative a quella del tentativo di ricominciare come prima. Questo è logico per quella parte della sinistra che ha fatto proprio il pensiero neoliberista, sia pure temperato. Lo è apparentemente di meno per quella sinistra che ha sempre denunciato il neoliberismo: ma se non si entra nel merito con conoscenza effettiva, il "cambiamo tutto" diventa sinonimo del non cambiare niente. Può darsi che nei toni palingenetici ci sia di mezzo la parola «comunismo». Se suscita discussione il dire, come ha fatto Rossana, che il comunismo è cosa di domani significa che c'è qualcosa di rimosso di cui occuparsi e che non basta dire che c'è "ben altro" di cui discutere. È vero, c'è ben altro, ma, soprattutto chi ha vissuto la vicenda che è alle nostre spalle ha il dovere di pronunciarsi.

Quando, ormai più di venti anni fa, si ragionava di come intendere la parola "comunismo" nella mozione congressuale che si opponeva a quello che ci sembrava, e fu, la dissoluzione del Pci, Cesare Luporini si pronunciò, e ne scrisse sul , per definirla come un "orizzonte" - cioè, com'è ovvio, un luogo irraggiungibile - e si ebbe una severa replica del giornale in nome della effettualità del termine. Per fortuna Valentino, caro compagno e amico, che si era assunto l'onere della risposta a Luporini, non si accorse in quella occasione che io avevo fatto di peggio, proponendo (e ottenendo, se non ricordo male) che si definisse il comunismo non già come una soluzione, ma come un "punto di vista sulla realtà". Un punto di vista, nutrito dalla lunga storia del pensiero critico, che individua nella costituzione economica della società una origine determinante, seppure non unica, di molti dei problemi e dei drammi con cui la realtà contemporanea si è trovata e si trova a fare i conti. E che, dunque, propone volta a volta soluzioni ispirate dal bisogno di rimuovere quelli che appaiono i motivi degli ostacoli posti alla libertà e alla uguaglianza, sapendo di essere una posizione tra le altre in una competizione democratica.

Mi sembrava questo il vero senso della parte migliore della tradizione dei comunisti italiani, quella che ne aveva fatto il maggiore partito della sinistra rendendolo utile ai lavoratori e al paese nella resistenza al fascismo, nella costruzione della democrazia italiana, nelle lotte del lavoro. Era, certo, un'esperienza già in crisi per tanti motivi, ma temevo, assieme a molti altri, che negando anche ciò che a me sembrava giusto conservare di quella tradizione, piuttosto che venirne un'innovazione ne sarebbe venuta solo una frattura insanabile in una comunità umana, certo piena di contrastanti passioni e di molti errori, ma tuttavia fertile e utile per le classi lavoratrici e per il paese. È quello che in effetti è avvenuto. Ma quella posizione appariva - ma non avrebbe voluto esserlo - come la difesa di una eccezione.

È vero, infatti, che quel nome fu usato, ovunque diventava potere, solo come marchio di assolutezza dogmatica, il marchio tipico di tutte le vicende collettive (religiose e no) che ritengono di fondarsi su verità indiscutibili. Ne vengono gli scismi (le scissioni), le reciproche scomuniche, le lotte fratricide, le guerre intestine, l'assassinio dei fratelli di ieri. Il primo tentativo di fondare una economia sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, trasformatasi rapidamente in proprietà statale e poi in dominio burocratico, approdava al capitalismo selvaggio. La speranza di una possibile riforma di quel sistema si dimostrava perdente. Quel nome può assumere un significato diverso e opposto? È astrattamente possibile, ma non da questa discussione può nascere un'alternativa alla destra e può essere ricostruita la nuova sinistra di cui ci sarebbe bisogno.

Di un punto di vista critico, però, c'è necessità più che mai : ciò che si è dimostrato alla lunga fallimentare non è l'analisi marxiana (oggi tornata in voga). Il vecchio Marx aveva ragione scrivendo, undici anni dopo la delusione delle speranze nutrite nel '48, che un sistema economico e sociale «non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa offra spazio sufficiente». E aveva ragione sia nella esaltazione della potenza del capitalismo sia nel ricercarne, quali che siano stati i suoi limiti, le possibili contraddizioni interne. La fragilità o l'assenza di una capacità di analisi critica di quello che andava succedendo nella economia reale e la totale ignoranza di quel che accadeva nel mondo della finanza dopo la grande svolta conservatrice degli anni '80 e dopo la scelta del mercato unico dei capitali e delle merci ha lasciato la sinistra europea, in ogni sua parte, disarmata di fronte al sopravvenire di un fallimento economico di straordinaria proporzione. È perciò che la via di uscita dalla crisi è interamente affidata a quelli che l'hanno generata e, in più, si va estendendo il pericolo dell'avanzare di una destra estrema, già al governo di alcuni stati europei e in espansione in altri.

A me sembra che il compito urgente di oggi, cui tutti dovrebbero dare una mano, è la costruzione di una alleanza credibile e sufficientemente ampia per contrastare la destra becera e quella più signorile, anche in vista delle elezioni che in ogni caso non sono lontane. Uno dei guasti più pesanti indotti nella cultura della sinistra è la trascuratezza delle distinzioni. Non tutto è identico. Non è vero che chiunque vinca le elezioni è la stessa cosa. Certo, non deve decadere l'obiettivo della ricostruzione di una grande sinistra, ispirata dalle idee di trasformazione sociale e capace anche di proposte per il breve periodo. Ma non mi pare che sia una meta vicina. Credo che sia giusto dire - come, se non sbaglio, dice Rossana - che non si può pensare nessuna sinistra senza la consapevolezza che il conflitto di classe non è una escogitazione d'altri tempi ma un dato essenziale della realtà in atto. Il recupero di questa consapevolezza, anche a mio parere, è essenziale, ma non basta.

Credo che oggi sia più chiaro di quanto non fosse qualche anno fa che, se non si vuole costruire sulla sabbia come è già accaduto, la rinascita di una sinistra degna ha bisogno di un accordo su nuove fondamenta morali, economiche, politiche. Queste si vengono costruendo nella vita reale di tante esperienze e lotte diverse ma molto faticosamente e lentamente: anche la concordanza su singoli obiettivi - per esempio quelli referendari - non indica una comune visione d'insieme, come si vede nel mondo della rete. Ma vi sono pure sentimenti e passioni comuni, e molte riflessioni e analisi simili.

Per aiutare il coagulo di queste esperienze, per togliere ciascuna di esse dall'isolamento e dalla chiusura in se stesse, ma anche per vedere incongruenze e contraddizioni reciproche, un giornale può fare molto. Perché, se sono convinto che le nuova fondamenta nascono entro i movimenti reali, come è sempre accaduto, è anche vero che la riflessione aiuta. Il mondo è radicalmente cambiato, come tutti sappiamo. Se si desidera trasformarlo bisogna prima di tutto conoscerlo nelle sue novità, tutte da interpretare, e nelle sue permanenze, mai eguali a ciò che era prima. E non c'è avvenire se si lasciano indistinte le parole della propria speranza, se non le si analizzano una per una, o, peggio, se diventano una affabulazione confusa.

Il manifesto, che ha rispecchiato - se non ho letto male le sue pagine - una molto vasta e varia parte delle molteplici sensibilità e tendenze presenti nella sinistra che vuole essere alternativa ha molto aiutato nella costruzione di una nuova cultura, anche se non sempre sono state rese esplicite le differenze di accento tra le diverse pagine, come se non comunicassero tra di loro. Non saprei indicare un altro quotidiano più sensibile alle parole delle minoranze senza voce, alla denuncia delle vergogne dell'esclusione e della emarginazione sociale, alle culture nuove e a quelle di confine. Come lettore ho sempre avuto molto da imparare.

Forse, però, non è stato utilizzato tutto lo straordinario patrimonio di collaboratori, di militanti e di amici per informare prima di altri sui problemi che per i mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione nascevano nella vita dei più, entro le classi lavoratrici e gli strati produttivi. E, forse, sul funzionamento reale del poter finanziario ai danni della collettività o sulla degenerazione dei centri di potere, c'è stata una attenzione critica minore che in altri campi lasciando così troppo spazio al populismo o ad una indignazione poco costruttiva di una politica realmente nuova. Ma di ciò che è necessario al Manifesto per rinnovarsi i suoi artefici, da Rossana ai redattori a chiunque vi lavori, ne sanno più di ogni altro. Intanto, cerchiamo di garantire tutti insieme che la sua voce non venga soffocata.

L'articolo di Rossana Rossanda a cui si fa riferimento è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2), Luciana Castellina (28/2), Valentino Parlato (29/2), Luigi Cavallaro (1/3), Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo (2/3)

Un ideale al quale la società avrebbe dovuto conformarsi o il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente? Una risposta a Rossanda, Ruffolo, Ciocca, Tronti

Non possiamo più dirci comunisti, perché è cambiato il mondo e non abbiamo sufficientemente aggiornato né gli strumenti d'analisi né le proposte: ha scritto così Rossana Rossanda, invocando «un esame di noi stessi» (il manifesto, 18 febbraio).

Giorgio Ruffolo è stato anche più drastico: tranne che in alcune società arcaiche, il «comunismo» non è mai esistito e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa «se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi» (21 febbraio).

Di certo, non era «comunista» quel sistema sociale venuto fuori attraverso mille tragedie dalla Rivoluzione d'Ottobre: anzi, secondo Pierluigi Ciocca (22 febbraio), il «merito storico» del manifesto è proprio quello di averlo capito e denunciato per tempo e con chiarezza. E men che meno aveva a che fare con il comunismo il «keynesismo postbellico» del trentennio 1945-1975, sebbene - rileva ancora Rossanda - la critica che se ne è fatta abbia lasciato spazio solo a «spinte liberiste». E dunque, cosa siamo? E soprattutto, cosa vogliamo?

Se davvero il manifesto vuol essere un giornale capace di tener insieme riformismo propositivo e utopia concreta, sono domande che non possono essere eluse. Ha ragione Mario Tronti (26 febbraio) a suggerire che, se non ci si può più dire comunisti nei tempi brevi, non lo si può più fare nemmeno nel tempo lungo. Anche perché, se le cose stessero così come sostengono Rossanda, Ruffolo e Ciocca (e innumerevoli altri con loro), si dovrebbe far fuori non solo la testatina di questo giornale, ma la stessa testata: troppo legata a Marx, e troppo legato Marx all'idea che il comunismo non fosse «un ideale» al quale la società avrebbe dovuto conformarsi, ma «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».

Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello stato borghese, ovunque vigente all'epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell'ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra «politica» ed «economia» non ne era che il precipitato ideologico. Per quanto già a quei tempi gli stati si occupassero variamente della tremenda povertà in cui l'accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi (soltanto) a insipienza o malevolenza dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla «società politica» scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della «società civile» andasse ricercato proprio nella condizione di separatezza in cui veniva trovarsi lo stato rispetto al processo sociale di produzione, e di rintracciare piuttosto l'origine dei mali sociali in «leggi naturali» cui nessuna potenza umana poteva comandare.

Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere «solo» politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l'indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello stato tramite una banca nazionale con capitale dello stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono appunto a questo.

Ma è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la Rivoluzione d'Ottobre prima e l'avvento del «keynesismo» in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d'uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di «non-rivalità» e «non-escludibilità», per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). È questo che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri - burocrazie, partiti politici e associazioni sindacali - hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l'andamento generale della società, che veniva così sottratto così al moto «anarchico» tipico del modo di produzione capitalistico per diventare (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica - di una politica economica. Sul finire degli anni '60 lo dovette ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò "capitalismo" risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista (...). La maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».

Non dovrebbe indurre in errore il fatto che uno sviluppo del genere abbia avuto forme diverse di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni «giacobine», per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di «rivoluzioni passive», cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che l'auspicio di un sistema economico in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l'attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell'appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all'azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un'ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d'uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. Ed è indubbio che i comunisti (e i socialisti) siano stati parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceto medio e Emilia rossa di Togliatti (1946) per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l'Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile - le «regioni rosse», et pour cause.

In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato la soppressione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al partito unico e al totalitarismo: l'esperienza occidentale insegna proprio il contrario, cioè che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, perfino il credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze - esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.

Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della «grande trasformazione» che il mondo in cui viviamo ha subito da novant'anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all'esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica (1843). E proprio in quest'opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte - filosofiche, certo, ma anche la filosofia parla della realtà, a saperci guardar dentro.

Il punto, però, qui è politico e non puramente storico-teorico. Il fatto che tramite l'azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare la produzione di taluni beni e servizi dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c'è stata una storia e adesso non ce n'è più»: al contrario, la crisi che attraversano i nostri sistemi socioeconomici fin dagli anni '70, e specularmente quei bisogni sociali sottesi agli slogan sui «beni comuni» o sulla «riconversione ecologica dell'economia», evidenziano che quella statuale non sarà certamente l'ultima forma di «produzione socializzata». Ma di qui a negare che il comunismo sia stato e sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» ne corre, a meno di dimenticare che per «comunismo» Marx intendeva semplicemente (ma non banalmente) un sistema sociale in cui gli esseri umani riuscissero a portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.

Per tutto questo, io credo, potremmo e dovremmo continuare a dirci «comunisti»: beninteso, senza dimenticare di provare a immaginare una politica economica altra da quelle dominanti e di scriverne su un giornale (per dirla ancora con Tronti) «di popolo e di cultura». Dubito che riuscirò a convincere qualcuno dei miei illustri interlocutori o la stessa redazione di questo mio amatissimo «quotidiano comunista». Ma alla fine questo è un articolo di giornale, e servirà almeno ad incartare il pesce.

Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo che richiede lavoro, organizzazione e cultura

Cara Rossana, dopo gli impegnati e utili interventi di Giorgio Ruffolo, Pierluigi Ciocca, Albergo Burgio, Mario Tronti e Luciana Castellina vorrei dire qualcosa anche io. Mi sembra d'obbligo. Il tuo scritto «Un esame di noi stessi», pubblicato il 18 febbraio, impone una seria riflessione sul nostro giornale, che da più di quarant'anni continua a definirsi «quotidiano comunista» e, ovviamente su di me e tutti quanti lavoriamo qui, se non da quarant'anni, da un bel po' di tempo, e che ora siamo piuttosto nei guai e anche con la Cassa integrazione.

Pensando al giornale tu scrivi «la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra», e questo mi convince: siamo a qualcosa di più della crisi di un quotidiano nato nel 1971 in un contesto politico e sociale, e direi anche culturale, del tutto diverso da quello attuale. Allora ci scontravamo con il Pci ed era una fase di crescita della lotta operaia. In tutti i modi questa tua affermazione un po' mi conforta: se il giornale va male non è solo colpa nostra (anche se rimane forte e deve crescere la nostra responsabilità).

Insomma si tratta di una crisi assai profonda e tu scrivi ancora «non è facile essere comunisti oggi; a più di trent'anni dal 1989. E, appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemo nel dirci comunisti ancora, o perché non lo si possa dire più». E ancora, si chiede e ci chiede «possiamo davanti a questo mutamento di scena conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971?». Cruciale mi pare l'interrogativo sugli strumenti di analisi. Insomma il capitalismo è sempre capitalismo, ma è cresciuto e anche cambiato: globalizzazione, finanziarizzazione sono due novità forti e complesse, specialmente la finanza che è diventata parecchio più complessa che ai tempi del buon Hilferding delle nostre letture giovanili. I cambiamenti sono profondi e complicati e anche in questo giornale occorre studiare e studiare: quel che scriviamo dovrà essere almeno contemporaneo.

Ma mi pare utile una considerazione sul presente. Le crisi capitalistiche hanno innanzitutto colpito, e duramente, il movimento operaio e la democrazia. Ricordo solo gli sbocchi di destra che ebbe in Europa la grande crisi del 1929. Il capitalismo in crisi diventa feroce. «L'autunno del capitalismo» è quasi sempre il duro inverno del proletariato. L'unico esempio, a mia memoria, di uscita a sinistra da una crisi è stato quello della Rivoluzione d'ottobre; ma in tutt'altro contesto; sconfitta militare e anche lotta armata.

Siamo in una situazione assai brutta, ma, come tu scrivi, la storia non è finita e c'è più di una ragione per continuare a dirsi comunisti e, aggiungerei con più ragioni che ai tempi di Marx. Vale qui ricordare che quando il capitalismo va in crisi, per sopravvivere chiede l'intervento pubblico, statale, che nega le sue ragioni di fondo e apre, non dico prospettive, ma lampeggiamenti, di gestione pubblica dell'economia. Dopo la crisi del '29 e sotto il fascismo, in Italia nacque l'Iri, che era una negazione dell'economia privatistica e la direzione dell'Iri non fu affidata a un fascista.

È in questo contesto che rinascono e crescono le ragioni del comunismo, che, forse, probabilmente, saranno ancora sconfitte, ma saranno nuove testimonianze dell'irrinunciabilità del comunismo. La realizzazione del comunismo non è cosa facile, né realizzabile in tempi brevi. Anche la presa del potere (l'Urss insegna) non bastò a realizzare il comunismo. Pensiamo solo per quanti secoli è durata la schiavitù e come ancora permangono forme di schiavitù civilizzata. E pensiamo a quanti secoli ci sono voluti per la nascita del capitalismo. Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo, è una trasformazione storica epocale, che si realizza anche attraverso l'acculturamento degli umani.

E, proprio perché non vedo e non ho mai visto il comunismo dietro l'angolo, penso che sia giusto sentirsi comunisti. Il che non deve portare a ridurre il dichiararsi comunista alle solitudini idealistiche, ma deve comportare lavoro, organizzazione, contributo alla formazione di una forza politica che abbia sulle proprie bandiere il comunismo. E così dovrebbe essere anche per un giornale. E, soprattutto per il nostro giornale, il manifesto.

Certamente la sua attuale crisi va in parallelo con la crisi della sinistra, ma che cosa scriviamo noi su questa crisi e su come fronteggiarla, su come dare avvio alla costruzione di una sinistra forte e unita? Attualmente il nostro giornale è fatto giorno per giorno (sarebbe utile una riunione settimanale di programmazione), coglie i fatti, ne dà il significato, ma manca di un programma di medio periodo, non apre campagne sulle quali muovere e orientare l'opinione pubblica, tentare di costruire la nuova sinistra. C'è la crisi, ne denunciamo i danni, ma non analizziamo a fondo, non ci sforziamo di individuare i punti di rottura sui quali unire e accrescere un'opinione, e quindi anche una forza di opposizione. Non basta denunciare i danni, senza cercare di individuare anche i terreni sui quali si possa formare la nuova sinistra. Anche la crisi - che certamente colpisce e indebolisce i lavoratori - tuttavia crea punti di rottura nel fronte avverso, sui quali si può formare una nuova forza. Insomma un «quotidiano comunista» deve anche lavorare e far emergere la nuova sinistra. E, a tal fine, può essere utile dare più attenzione e rilievo alla crisi di quelle forze (direi debolezze) che si dicono ancora di sinistra, ma anche loro in seria crisi.

Certo, ora si tratta soprattutto di sopravvivere, ma questa sopravvivenza esige, per realizzarsi, una forte riaffermazione della funzione politica e culturale di questo manifesto, che non è solo nostro.

All'articolo di Rossana Rossanda cui si fa riferimento nel testo sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2) e Luciana Castellina (28/2)

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