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La Sinistra europea,l’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente, ha un candidato per le elezioni del presidente della Commissione europea.

Il manifesto, 18 dicembre 2013

Il dado è tratto. Dall’altro ieri il par­tito della Sini­stra euro­pea (Se) ha un can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea: il 39enne lea­der della greca Syriza, Ale­xis Tsi­pras. L’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente ha chiuso dome­nica il pro­prio con­gresso a Madrid, indi­vi­duando nel poli­tico elle­nico la figura che dovrà con­durla nella sfida elet­to­rale del pros­simo mag­gio. La scelta della Se – che segue quella del Par­tito socia­li­sta euro­peo (Pse), che ha desi­gnato il tede­sco Mar­tin Schulz – è impor­tante, per­ché aiuta a dare un signi­fi­cato dav­vero «euro­peo» all’appuntamento elet­to­rale di primavera.

In realtà, a mag­gio i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno diret­ta­mente il suc­ces­sore del con­ser­va­tore por­to­ghese José Manuel Bar­roso: le norme «costi­tu­zio­nali» dell’Unione euro­pea non pre­ve­dono un sistema pre­si­den­ziale. Il numero uno della com­mis­sione – l’esecutivo dell’Ue – è scelto dai capi di governo riu­niti nel con­si­glio euro­peo, che devono obbli­ga­to­ria­mente tenere conto delle ele­zioni del par­la­mento euro­peo. L’eurocamera di Stra­sburgo ha un ruolo non secon­da­rio, per­ché detiene un potere d’investitura: se non con­vince la mag­gio­ranza asso­luta dei depu­tati euro­pei, il pre­si­dente inca­ri­cato dai lea­der nazio­nali deve farsi da parte, e si rico­min­cia da capo. Almeno poten­zial­mente, si tratta di rela­zioni poli­ti­che non così lon­tane da quelle vigenti in una (pur imper­fetta) demo­cra­zia rappresentativa.

Natu­ral­mente, oltre al pre­si­dente ci sono i sin­goli com­mis­sari (i «mini­stri» della Ue), che ven­gono desi­gnati da cia­scun governo nazio­nale: una pro­ce­dura che di fatto impe­di­sce che la com­mis­sione di Bru­xel­les sia poli­ti­ca­mente omo­ge­nea. L’europarlamento ha comun­que un’ulteriore carta da gio­care, per­ché deve con­ce­dere la «fidu­cia» anche alla com­mis­sione nel suo con­giunto: nel caso in cui la sua com­po­si­zione fosse pale­se­mente in con­tra­sto con l’indirizzo poli­tico emerso dalle urne, i depu­tati di Stra­sburgo potreb­bero negargliela.

Den­tro que­sta com­plessa archi­tet­tura isti­tu­zio­nale, lo spa­zio per un’autentica lotta poli­tica è cer­ta­mente molto ridotto, ma la Se appare inten­zio­nata ad occu­parlo. Dalla tri­buna del con­gresso di Madrid il lea­der di Syriza ha sot­to­li­neato la dop­pia sfida che attende la Se: lot­tare con­tro le poli­ti­che di auste­rità, «minac­cia per i popoli d’Europa», e con­tro l’estrema destra, «un peri­colo per la demo­cra­zia». Pro­prio secondo l’esempio della Gre­cia, dove la for­ma­zione di Tsi­pras con­tra­sta sia il governo di «grande coa­li­zione» fra i con­ser­va­tori del pre­mier Anto­nis Sama­ras e i socia­li­sti, sia i neo­na­zi­sti di Alba dorata. Fra le idee-forza della Se, il neo­can­di­dato ha ricor­dato la tra­sfor­ma­zione della Banca cen­trale di Fran­co­forte in un pre­sta­tore di ultima istanza per gli stati Ue (come le nor­mali ban­che cen­trali), la lotta con­tro l’elusione fiscale, un «new deal» per com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione e una diversa gestione della crisi dei debiti sovrani. Nella piat­ta­forma finale votata dai dele­gati com­pa­iono anche il «no» al Trat­tato di libero scam­bio Ue-Usa e alla pri­va­tiz­za­zione delle risorse natu­rali, e l’introduzione del diritto al refe­ren­dum su scala europea.

Men­tre la nomina di Tsi­pras non ha incon­trato osta­coli, la rie­le­zione alla pre­si­denza della Se del fran­cese Pierre Lau­rent (segre­ta­rio del Pcf) ha sca­te­nato malu­mori interni. Dovuti a que­stioni che di euro­peo hanno pochis­simo, essendo tutte interne alla sini­stra tran­sal­pina: il Par­tie de gau­che dell’ex can­di­dato pre­si­den­ziale Jean-Luc Mélen­chon ha annun­ciato la pro­pria auto­so­spen­sione dall’organizzazione con­ti­nen­tale in pole­mica con la ricon­ferma di Lau­rent. Motivo: il Pcf e il movi­mento di Mélen­chon sono ai ferri corti per le muni­ci­pali del pros­simo marzo, causa l’alleanza dei comu­ni­sti con i socia­li­sti del pre­si­dente Hol­lande. Un «effetto col­la­te­rale» delle assise di Madrid, che rischia di ren­dere arduo il cam­mino della Se in uno stato-chiave come la Fran­cia. Come se già non bastasse, a com­pli­care la mis­sione di Tsi­pras, la debo­lezza strut­tu­rale della Se nei Paesi dell’Europa centro-orientale, dove, con la sola ecce­zione della Repub­blica ceca, rac­co­glie per­cen­tuali da pre­fisso tele­fo­nico o è com­ple­ta­mente assente. Senza dimen­ti­care, ovvia­mente, l’Italia, dove la lista col­le­gata alla Se dovrà fare i conti con lo sbar­ra­mento al 4%.

«Renzi è il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale modellata sul paradigma del liberismo finanziario». FondazionePintor.net, dicembre 2013

Occorrerà tornare con attenzione sul significato e sulle conseguenze della clamorosa scalata di Matteo Renzi al vertice del Pd attraverso il plebiscito delle primarie. Intanto però una cosa è certa. Renzi è senza dubbio il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di costruire e di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale, modellata sul paradigma del liberismo finanziario americano.
Ma il nuovo segretario fiorentino è anche un frutto maturo della Bolognina, quando Occhetto sciolse il Pci tagliando le radici del movimento operaio e cancellando un’intera esperienza storico-politica su cui si è costruita la Repubblica democratica. Cosicché, invece di rinnovare la sinistra e di promuovere innovazione, ha prodotto subalternità alla cultura liberista e ai poteri dominanti nell’economia e nella società, separando le nuove forme della politica dalla base operaia e popolare, abbandonata alla deriva senza rappresentanza e rappresentazione. Non è difficile vedere che tra i due fenomeni vi è un intreccio.
Come un lampo che illumina la scena, Reichlin ha dato un giudizio da tenere sempre a mente, e che non mi stanco di ripetere: “abbiamo confuso il liberismo con il riformismo”. È la dichiarazione esplicita della subalternità del Pd, che nella mutazione genetica che lo ha allontanato anche dalla socialdemocrazia e persino dalla sinistra - come testimonia il nome stesso - ha generato una crisi di rappresentanza oggi diventata esplosiva e un modo di fare politica, capovolto nelle sue finalità, che con il Pci nulla ha a che fare. Non per caso Occhetto ha dichiarato al Mattino che Renzi è un suo legittimo erede.
Almeno fino a Berlinguer, il Pci si proponeva di trasformare la società sulla via costituzionale della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà, e dell’accesso della classe lavoratrice alla direzione dello Stato. Quelli che a torto si sono dichiarati suoi eredi, da Occhetto a D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, avevano l’obiettivo massimo di amministrare quel che passa il convento, senza alcun disegno strategico alternativo. Ma neanche questo sono stati capaci di fare, e alla fine sono apparsi come gli immobili conservatori dello statu quo.
Ora, di fronte a un dato di fatto inoppugnabile, e alla cancellazione del Pci dal sistema politico da più di vent’anni, che senso ha presentare da più parti, con grande frastuono di tromboni e di trombette, la vittoria di Renzi come una resa dei conti definitiva con i comunisti? Evidentemente, non si tratta di un semplice fraintendimento, e neppure della constatazione ovvia che il vincitore proviene dalla componente ex Dc, o che l’appeal di D’Alema è sceso sotto i tacchi. C’è qualcosa di più profondo che muove la classe dirigente del capitalismo italiano e i media ad essa connessi, di cui occorre indagare le motivazioni e le finalità. Non mi riferisco solo al fatto che le Tv e la stampa dominante - a cominciare da la Repubblica nonostante l’avverso parere di Scalfari - hanno spinto in tutti i modi il compulsivo pifferaio di Firenze. In tanti acclamano Renzi come il nuovo eroe che schiaccia l’idra del comunismo. È una novità che dà da pensare, soprattutto se viene interpretata come un’indicazione programmatica per il presente e per il futuro. Qualche esempio ci aiuta a capire. “Il Pci non esiste più”. Con le primarie del Pd “si è consumato un evento epocale per la politica italiana: finalmente è stato chiuso il Pci”, annuncia trionfante in prima pagina il Giornale diretto dal condannato e graziato Salustri. Quindi, viva Berlusconi (anche lui condannato ma non graziato), che finalmente con il sindaco fiorentino ha debellato il suo nemico storico. Davvero un risultato epocale.
Anche il Corriere della sera applaude per il felice decesso, ma con i necessari distinguo, come si addice a un celebrato serbatoio del pensiero della borghesia una volta illuminata. Il Pci morto e sepolto? Non proprio, sottilizza il prof. Panebianco, a quanto pare esperto anche in necrologia: meglio dire “forse agonizzante”. Sebbene lui, in tutta sincerità, preferirebbe scolpire un bell’epitaffio sulla tomba del morente. Ma per giungere a questo esito, precisa il politologo-necrologo, Renzi deve agguantare “l’ oro del Pci”. Che non è il famoso oro di Mosca, bensì il patrimonio immobiliare del vecchio partito, ossia le sedi dei circoli e le case del popolo costruite con le mani e con il cuore da milioni di donne e di uomini. In tal modo il becchino del Pci dovrebbe prosperare con il patrimonio di chi il Pci l’ha costruito.
Se le parole hanno un senso, questa sarebbe a dir poco appropriazione indebita. Comunque, una bella lezione di moralità politica, messa a punto da un addottorato ed esperto professore. Le variazioni sul tema sono infinite, essendo il Corriere ricco di benpensanti teste anticomuniste, a cominciare dal capostipite Mieli. Così, se Battista è contento perché il noto pensatore e scienziato della politica Oscar Farinetti prende il posto di Enrico Berlinguer, e Di Vico ci spiega che la strumentalizzazione del movimento dei forconi altro non è se non “la vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e Paese reale”, un Cazzullo di giornata tira le somme: “sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale diventava per l’élite della penisola giusta o comunque nobile”.
Quando la storia ha tanti buchi come un colabrodo, fa brutti scherzi. E allora ci si dimentica che il Pci in Italia, per quanti errori possa aver commesso, ha sempre combattuto per la democrazia e la libertà, per i diritti dei lavoratori e per l’uguaglianza sostanziale; che in Italia i comunisti non hanno incarcerato nessuno, al contrario il loro capo Antonio Gramsci è stato fatto morire in carcere dal fascismo; che non hanno attentato alla vita dei loro avversari politici, al contrario Palmiro Togliatti ha subito un attentato che lo ha ridotto in fin di vita. Non sono stati i comunisti italiani a incendiare le Camere del lavoro, e dopo la Liberazione a sparare contro i contadini a Portella della Ginestra e gli operai a Reggio Emilia. O a organizzare trame eversive e il terrorismo, messo in atto fino alla esecuzione dell’operaio comunista Guido Rossa, proprio per impedire che i comunisti potessero governare e cambiare l’Italia secondo i principi della democrazia costituzionale. Diciamolo con chiarezza, senza tema di smentite.
Tutte le principali conquiste sociali, civili e politiche ottenute in Italia a cominciare dalla Costituzione - che oggi si vorrebbero rovesciare nel loro contrario - non sarebbero state possibili senza la presenza e lotta dei comunisti. Il Pci ha dato dignità, rappresentanza e forza politica agli operai, ai lavoratori “del braccio e della mente”, alle donne, ai giovani e anche agli anziani: a tutti coloro che deprivati del potere economico e politico hanno lottato per un avanzamento di civiltà costruendo un vasto sistema di alleanze.
Oggi, di fronte a una crisi e a politiche regressive che distruggono la vita di tante persone e l’intero ambiente in cui la vita si riproduce, le parole di Enrico Berlinguer ci appaiono di sconcertante attualità: “La difesa del potere d’acquisto dei salari per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe, e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo tipo di sviluppo generale dell’economia italiana”. Per lui era chiaro che bisognasse aprire la strada a una civiltà più avanzata nel cuore dell’Europa, che superasse il modo di produzione capitalistico fondato sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’emarginazione di strati sempre più ampi di popolazione, liberando nel contempo lo Stato dall’occupazione dei partiti e combattendo i privilegi ovunque annidati. Tanto più che in mancanza di un’alternativa al potere della classe dominante la democrazia degrada e si corrompe, convertendosi in oligarchia. E la barbarie è alle porte. Un tema che oggettivamente si ripropone oggi, sebbene sia stato cancellato dal sistema politico il soggetto della trasformazione, e il lavoro, frantumato e diviso, non abbia alcun peso nella configurazione della politica. Mentre nella società monta il malessere, il disincanto e la rabbia che non trovano sbocchi, e affiorano qua e là pessimi segnali di squadrismo fascista. Sotto la dittatura del capitalismo finanziarizzato globale, che intende sostituire alla centralità del lavoro la centralità dell’impresa in ogni ambito della vita, stiamo andando verso una regressione storica.
Una Restaurazione, che però non è un semplice ritorno al passato, giacché la dittatura del capitale ha bisogno in Italia di una cospicua modernizzazione che elimini vaste sacche di parassitismo e di inefficienze del sistema, e di una controriforma istituzionale verso il decisionismo presidenzialista. Ma che più in generale, per realizzarsi compiutamente, deve impiantare una sofisticata costruzione ideologica, che cancelli la discriminante di classe tra capitale e lavoro, e dunque anche nell’immaginario sopprima la sua antitesi. Vale a dire le lavoratrici e i lavoratori postfordisti del nostro tempo, figli della rivoluzione digitale e scientifica, politicamente organizzati come soggetto libero e autonomo. Il lavoro che si organizza e si rappresenta in forma politica nella sua libertà e autonomia: è questa fondamentale conquista storica del Novecento che vogliono definitivamente eliminare in Italia e in Europa, senza il rischio di possibili ricadute e riviviscenze. Insomma, una sepoltura tombale per l’eternità.
Precisamente a questo scopo serve l’abbattimento della Costituzione, pericoloso riferimento ideale e simbolico, oltre che progetto di un possibile cambiamento. E poiché i comunisti italiani sono quelli che più si sono avvicinati a una trasformazione in senso socialista di una società capitalisticamente avanzata per una via democratica e costituzionale diversa dal modello sovietico e dalla socialdemocrazia, questo spiega il rigurgito di anticomunismo postdatato ma anche preventivo e a futura memoria, specificatamente italiano e non solo berlusconiano, che è stato rilanciato in occasione del plebiscito per Renzi. Dei comunisti italiani va cancellata dunque la storia e anche la memoria: perché a nessuno venga in mente che ci si possa organizzare e lottare in forme democratiche e di massa per un sistema economico diverso e per una società solidale di diversamente uguali, in cui il massimo profitto non sia la stella polare e l’economia venga posta al servizio dell’uomo e non viceversa, e in cui buongiorno voglia dire davvero buongiorno. Quello che ci fanno sapere, a scanso di equivoci risuscitando la gogna anticomunista, è che dal capitalismo non si può uscire, e che questa società ingiusta e insostenibile non si può rovesciare. Non solo: il governo - ci dicono - è cosa nostra, di noi che stiamo sopra. Voi che state sotto non avete voce in capitolo, e lì dovete restare. Questa è la sostanza. E queste sono le questioni di fondo che emergono dopo la mirabolante ascensione del segretario fiorentino.
«Con­trap­porsi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una lotta poli­tica che la classe diri­gente con­duce con­tro beni pub­blici, beni comuni, pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo». Il

manifesto, 12 dicembre 2013

Con il socio­logo tori­nese Luciano Gal­lino riflet­tiamo sulla con­sta­ta­zione della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso secondo la quale «nell’attuale qua­dro eco­no­mico e sociale non è più suf­fi­ciente evo­care lo scio­pero gene­rale come unica moda­lità in cui si deter­mina il con­flitto sul tema del lavoro». Su que­sta affer­ma­zione si è tor­nati a riflet­tere ieri a Roma durante la pre­sen­ta­zione del libro Orga­niz­zia­moci (Edi­tori Riu­niti) che rac­conta alcune forme alter­na­tive di pro­te­sta: il «com­mu­nity orga­ni­zing» teo­riz­zato dal grande teo­rico ame­ri­cano Saul Alin­sky, quello pra­ti­cato oggi da sin­da­ca­li­sti come Valery Alzaga nella sua forma di «labour organizing».

«È un’affermazione che cerca di rispon­dere ad una tra­sfor­ma­zione epo­cale — risponde Gal­lino — La pro­du­zione è stata fram­men­tata nelle catene glo­bali del valore e que­sto ha inde­bo­lito il potere dei sin­da­cati e dei lavo­ra­tori. Un conto è quando uno scio­pero inter­rompe la pro­du­zione in uno sta­bi­li­mento. Un altro è quando quella stessa pro­du­zione è divisa in dieci sta­bi­li­menti in quin­dici paesi. In que­ste catene il peso del sin­golo anello pro­dut­tivo o azien­dale è molto dimi­nuito ed è anche facil­mente sosti­tui­bile. Se un’azienda in Thai­lan­dia non fun­ziona, si passa in India».

I sin­da­cati hanno capito come con­tra­stare que­sta stra­te­gia?
«Non mi pare si sia fatto abba­stanza. Lo scio­pero è sto­ri­ca­mente nato per recare danno ad un’impresa. Si sup­pone che l’interruzione della pro­du­zione per un giorno o più sia un danno per il capi­tale. Con la gra­vis­sima crisi in cui spro­fonda l’Europa, e il mondo intero, è para­dos­sale con­sta­tare che que­sta asten­sione con­viene alle imprese che sof­frono di un eccesso di capa­cità pro­dut­tiva. Que­sta con­co­mi­tanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione poli­tica con­tro i sin­da­cati che nel nostro paese reg­gono ancora in qual­che modo, men­tre in altri paesi le iscri­zioni sono crol­late. Ciò non toglie che i sin­da­cati abbiano respon­sa­bi­lità non da poco nella loro dif­fi­colta a chia­mare a rac­colta i lavoratori».

Lo scio­pero, tut­ta­via, non è affatto tra­mon­tato come forma di lotta. Basti pen­sare a quelli auto-organizzati dai tran­vieri a Genova o a Firenze con­tro la pri­va­tiz­za­zione del tra­sporto pub­blico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?
«Que­gli scio­peri hanno avuto un obiet­tivo spe­ci­fico e impor­tante: cer­care di inter­rom­pere la folle corsa con­tro la pri­va­tiz­za­zione, per modi­fi­care le poli­ti­che gestio­nali ma soprat­tutto, come è acca­duto anche a Torino, per fare cassa. Genova su que­sto tema ha richia­mato una note­vole atten­zione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è pri­va­tiz­zare. Con­trap­porsi oggi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una forma di lotta poli­tica che la classe diri­gente del nostro paese con­duce con­tro i beni pub­blici, i beni comuni e la pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare in qual­che modo alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non mi pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo».

Com’è cam­biato il ruolo della Cgil dalla mani­fe­sta­zione al Circo Mas­simo nel 2002 alla quale par­te­ci­pa­rono 3 milioni di per­sone?
«È cam­biato molto. Biso­gna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tam­po­nando lo scop­pio della bolla delle dot com, le imprese inter­net con miliardi in borsa. Il pro­cesso che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avan­zato. Allora però c’era ancora la domanda aggre­gata e ciò per­met­teva una libertà di mano­vra che oggi non c’è più. Anche per que­sto lo scio­pero diventa un’arma spuntata».

Nel frat­tempo sem­bra essere defi­ni­ti­va­mente sal­tato il clas­sico legame tra par­tito e sin­da­cato, tra Cgil e Pd che sem­brava essere assi­cu­rato ancora da Epi­fani e oggi sem­bra escluso con Renzi. Un rap­porto che già ai tempi di Cof­fe­rati aveva cono­sciuto ten­sioni, in par­ti­co­lare con la «sini­stra» Pd…
Già ai tempi di Cof­fe­rati c’erano pro­blemi, figu­ria­moci adesso che il rap­porto è eva­ne­scente, visto che per quello che si sa, le pro­po­ste eco­no­mi­che e sul lavoro di Renzi vanno in dire­zione di un ulte­riore allon­ta­mento. Quel po’ di sini­stra che esi­steva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cam­bia­menti si sia ridotta ulte­rior­mente. Il sin­da­cato, parlo soprat­tutto della Cgil, ha biso­gno di un par­tito a cui appog­giarsi. Se non c’è un rife­ri­mento cul­tu­rale o poli­tico, si ritrova solo. Con la segre­te­ria di Renzi quel po’ di soste­gno che nono­stante tutto c’era nel Pd scen­derà ulte­rior­mente. Mi pia­ce­rebbe essere smentito.

Cosa pensa di forme di lotta come quelle con­tro le grandi opere o per i beni comuni?
Ser­vono, figu­ria­moci. In più abbiamo la neces­sità di pen­sare a migliaia di pic­cole opere per ridare un certo pre­gio alle cose che sono dege­ne­rate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimen­sione strut­tu­rale del capi­ta­li­smo non c’è o è molto pal­lida. Que­ste lotte hanno un’utilità per certi scopi spe­ci­fici, come si è visto con il refe­ren­dum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infi­schiati. Lo si è visto nello scio­pero dei tra­sporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Biso­gna però chie­dersi per­chè i poli­tici insi­stono per dare sem­pre più spa­zio alla vul­gata neo­li­be­rale. Ci sono ecce­zioni, ma la mag­gio­ranza dei comuni è domi­nata dall’ideologia neo­li­be­rale che domina nel governo e nei par­titi poli­tici, nes­suno escluso, o quasi.

Dun­que, insieme alla ricerca di forme di pro­te­ste alter­na­tive biso­gna par­tire da una bat­ta­glia cul­tu­rale che con­tra­sti l’ideologia domi­nante?
È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la demo­cra­zia, dall’altro il capi­ta­li­smo. È pos­si­bile avere l’una senza l’altro? È pos­si­bile un qual­che tipo di accet­ta­bile con­ci­lia­zione tra i due come nel tren­ten­nio dopo la seconda guerra mon­diale? Lo sarà solo se alcuni milioni di per­sone si sve­glie­ranno, insieme ai par­titi poli­tici. Oggi, pro­ba­bil­mente, una qual­che solu­zione è pos­si­bile. Altri­menti andremo verso un capi­ta­li­smo senza demo­cra­zia o con forme dav­vero povere di democrazia.

Prologo a

Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli) che è molto più di quanto promette. Non solo esperienza di vita, dalla giovinezza alla maturità, di un comunista attraverso le stagioni del suo partito, ma profonda riflessione sul mondo d'oggi, inganni e possibili destini.

Se avessi vent’anni, oggi, andrei in piazza. Passerei le mie giornate a organizzare le lotte popolari. Così facevo del resto all’epoca dei miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili. Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima; eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è quasi più difficile che viverlo.
Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo. Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati comunisti – da sempre all’opposizione – hanno avuto la fortuna di poter dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme sono irreversibili.
La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.

Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.

Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.

Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.

La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.

Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.

Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?

Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.

Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.

Roma, settembre 2013

Indice

I. Una storia a ritroso
1. Collasso
2. Il bilancio di una generazione
3. Due dissolvenze dall’Ulivo
4. La fede nuda
5. Identità per sottrazione
6. Il «populismo» comunista
7. L’obsolescenza del «partito nuovo»
8. La svolta e le sue alternative
9. L’eredità di Berlinguer
10. Dopo il compromesso storico
11. Le aspettative dei moderati
12. Innovazione e conformismo
13. Mille rivoli o modello di sviluppo

II. La divagazione della seconda Repubblica
1. La prima Repubblica non è mai finita
2. Le lunghe macerie dell’89
3. Partiti in franchising
4. Riformatore ottimista o pessimista
5. Troppe norme, nessuna decisione
6. Umiltà costituzionale

III. Teoria e pratica dell’Inganno
1. Il destino dell’Occidente
2. Il discorso capitalistico
3. La decisione perduta

IV. Alla rovescia del mondo
1. Paesaggi italiani
2. Le chiamiamo ancora città
3. Utopie-eterotopie
4. Le mura e la piazza
5. Luoghi del saper fare
6. C’eravamo dimenticati della rendita
7. Capitalisti no-global e postcomunisti anglosassoni
8. Potenza e potere del lavoro
9. Breve storia dell’ingegno italiano
10. Le disuguaglianze della conoscenza
11. Salvare il merito dalla meritocrazia
12. Le istituzioni della conoscenza

V. Sulla dignità del Politico
1. Oltre l’irrequietezza
2. La dignità costituente
3. Non è un tempo senza politica
4. Fino a quando sinistra senza popolo?

Postfazione. La civetta e la sentinella

«il manifesto, 3 dicembre 2003

La tragedia operaia dei cinesi di Prato illumina, per qualche ora, le condizioni di vita e di lavoro in un pezzo d'Asia italiana, «la più vasta area di lavoro nero d'Europa» - parole del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi - in quell'«Italia di mezzo» generalmente additata come modello di buen vivir nostrano. La Grande Crisi europea e la recessione c'entrano poco o niente, in questo caso: nei capannoni della Chinatown toscana, a lavorare per sottomarche low cost e grandi griffe del mercato globale, sono passate due generazioni di cinesi, senza che la politica, i sindacati, la società civile muovessero un dito non per arginare il fenomeno, come piacerebbe a vecchie e nuove destre, bensì per portarlo nell'alveo del riconoscimento di diritti e protezione sociale. Della cittadinanza, in buona sostanza.

Quello toscano non è l'unico caso e neppure un'eccezione. Il «terzo mondo» di casa nostra è una realtà che colpevolmente facciamo finta di non vedere. Tutte le mattine nella piazza principale di Villa Literno si svolge un mercanteggiamento che ha per oggetto una merce particolare: braccia umane, africane soprattutto ma da qualche tempo anche rumene, da sfruttare in agricoltura come i ragazzini messi in vendita ogni 15 agosto nella piazza del Duomo di Benevento e raccontati da Corrado Alvaro. Nella cittadina del casertano la chiamano «piazza degli schiavi», e mai come in questo caso la vox populi è riuscita a trovare le parole giuste per descrivere la realtà.

Nella Terra di lavoro campana vive e lavora in condizioni terribili la più ampia comunità africana d'Italia. L'Italia si indignò solo quando, nel 2008, un commando dei Casalesi sterminò sette persone in una rappresaglia di stampo nazista.

Chi si trovasse a percorrere, sul far dell'alba, la via Pontina dalle parti di Sabaudia, potrà incrociare centinaia di ciclisti con i turbanti. Sono i bufalari sikh della «little India», dove le bufale non si chiamano più cantando, come faceva il Cosimo Montefusco incontrato da Rocco Scotellaro in Contadini del sud. «Un'immigrazione silenziosa e operosa», come l'ha definita il sociologo Marco Omizzolo, che fa notizia solo quando qualcuno di loro finisce vittima di un pirata della strada, meritandosi al massimo una breve nelle cronache locali.

Qualche giorno fa, a Rosarno, un africano è morto di stenti. Nelle campagne calabresi i raccoglitori di arance e mandarini vivono e lavorano in condizioni disumane, come ai tempi di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. La situazione è talmente precaria che Emergency ha aperto per loro un ambulatorio come in Afghanistan o in Sudan. Neppure la rivolta del 2010 è riuscita a modificare la loro condizione: quando le acque si sono calmate, sono tornati invisibili come il Garabombo di Manuel Scorza.

Si potrebbe continuare menzionando i «clandestini» dell'industria del falso che alimentano i roghi della Terra dei fuochi, o ricordare come, mentre si festeggiava la vittoria dell'Italia ai mondiali del 2006, un rogo in un materassificio ricavato in uno scantinato, in provincia di Salerno, uccise due operaie italiane che lavoravano al nero per due euro l'ora. Una di loro era anche minorenne e per questo la politica si commosse per qualche ora e poi passò a parlar d'altro.

I morti di Prato sono cinesi e non votano neppure alle primarie del Pd, ma come gli africani di Rosarno e i bufalari pontini sono indispensabili a far girare la ruota di un sistema economico che nessuno si sogna di mettere in discussione dalle fondamenta. Se ne parlerà meno e forse è persino preferibile. Almeno evitiamo eccessive ipocrisie.

Trent’anni fa qualcuno aveva già capito che cosa stava succedendo, e cercava di capire perché: quali erano le radici della crisi che era già in atto. Lo ha detto, ma non è stato ascoltato Ma non è mai troppo tardi per cambiare: basta comprendere perchè e come. E lavorare.

Per il partito nuovo, Luglio 2013

L’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e l’attitudine a costruire consenso trasversale, hanno assicurato la vittoria del sistema, oggi in crisi, che ci domina. Sono proprio le abilità che la sinistra avrebbe dovuto avere negli anni settanta.

Da quando la riflessione e l’insegnamento di Franco Rodano furono interrotti dalla morte, il 21 luglio 1983, sono dunque passati esattamente tre decenni. Questa interruzione non ebbe luogo in una situazione che potesse somigliare agli ultimi passi prima dell’apparizione della terra promessa: piuttosto, ebbe luogo quasi un istante prima che il cammino del genere umano cominciasse a svolgersi lungo ciò che egli avrebbe riconosciuto come uno sterminato deserto, e con ragione. Non ne sarebbe restato sorpreso, avendo già dettato per i Quaderni della Rivista Trimestrale, verso la fine degli anni settanta, una serie di lucide analisi circa l’esaurimento di tutte le condizioni che avevano permesso alla democrazia di coesistere con il capitalismo dopo la seconda guerra mondiale, sviluppandosi largamente pur senza mettere in discussione il nucleo fondamentale delle regole di tale sistema.

La serie di saggi il cui titolo generale enunciava il proposito di andare “Alla radice della crisi” merita infatti oggi di essere riletta insieme con il solo testo del periodo che esprima una consapevolezza altrettanto lucida e profonda dei processi allora in corso, cioè il “Rapporto alla Commissione Trilaterale sulla governabilità delle democrazie” scritto in quello stesso periodo da Samuel Huntington con Michel Crozier e Joji Watanuki. La differenza sostanziale tra le due analisi non è grande. Diventa enorme soltanto in termini di giudizi di valore e di scelte pratiche conseguenti. Mentre infatti Huntington & C. non avevano dubbi quanto alla preminenza delle esigenze del capitalismo su quelle della democrazia, e perciò quanto alla necessità che la democrazia cominciasse a fare notevoli passi indietro, Rodano insisteva nel ricordare che il problema sta innanzitutto nel capitalismo.

Ma, se tutto finisse qui, non ci sarebbe molto da imparare, né da dire. In effetti Rodano insisteva con altrettanta energia nell’indicare la presenza di problemi anche nella democrazia; e qui stava la differenza tra il suo pensiero e quella che stava ormai diventando la mentalità prevalente di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra. Dovrebbe essere inutile argomentare quanto la presente situazione di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra possa ben suggerire attente riflessioni circa quella mentalità.

Rodano ci dice oggi, cioè, che la democrazia ha perso perché era stata messa – suo malgrado – in condizione di meritare, quasi, la sconfitta. Questo era il rischio che le sue ultime riflessioni additavano, e non è stato evitato. La democrazia fu cioè effettivamente lasciata, infine, a sostenersi da sola, come il solo ed estremo orizzonte del politico: priva, cioè, non soltanto di strutture sistemiche a sé adeguate, ma anche di ogni serio sforzo di costruire qualcosa di simile. Peggio ancora, la democrazia fu lasciata sostanzialmente a dipendere (per tale funzione) dall’improbabile benevolenza di quella particolare combinazione di potere ed economia che chiamiamo capitalismo (ed è del tutto indipendente, ricordiamo, dall’idea di mercato con la quale viene troppo spesso confusa e addirittura identificata). Tutto ciò accadde in stretta relazione con un esangue affievolimento del pensiero critico e soprattutto della critica pratica tanto sul tema del potere quanto sul tema dell’economia: in altre parole, attraverso la rimozione del concetto di rivoluzione dal pensiero e dall’azione nella sfera del politico.

Al contrario, la rilevanza centrale del concetto di rivoluzione, in tale sfera, rappresenta un motivo chiave in tutto lo sviluppo del lavoro intellettuale di Franco Rodano, insieme con lo sforzo costante di definirlo in modo adeguato, ossia pienamente storico e umano (e, insomma, pienamente politico), distinguendolo e depurandolo da ogni implicazione meta-storica come quelle comportate da filosofie della storia di carattere più o meno esplicitamente teologico (includendo in ciò, per quanto possa interessare, anche il problema rappresentato dalle teologie atee, o per meglio dire anti-teiste).

Attento lettore di Croce, Rodano rivendicò costantemente la scoperta moderna dell’autonomia e della coerenza interna dell’economia, e con essa della politica, nella loro distinzione dall’etica, che tuttavia non è contrapposizione. Coltivava e insegnava il gusto del lavoro ben fatto in relazione a necessità determinate. Le sue riflessioni sul tema del rapporto tra libertà e necessità (ruotanti intorno al fondamentale concetto di “limite”, così ricco di feconde implicazioni in tema di antropologia e di etica) restano affascinanti, innanzitutto come viatico per il mestiere di vivere a beneficio di tante persone che ebbero la fortuna di incontrare e frequentare la sua persona.

Ma ciò che rendeva fecondamente scomoda la sua riflessione a questo riguardo è che il suo concetto di necessità e di limite non aveva niente a che vedere con qualunque idea di fato o di predeterminazione del possibile, come quelle che il clero stabilito del pensiero unico va oggi predicando costantemente da tutti i più invadenti altoparlanti della comunicazione globale, spacciandole per ragionevoli oltre che per moderate. L’idea che il “sistema”, comunque, non debba essere toccato, non poteva che stupirlo ed esasperarlo. E, in effetti, è un’idea stupefacente ed esasperante.

In realtà, la persuasione che il ritmo normale e costante del processo storico sia continuo, anziché marcato da frequenti e necessarie cesure, scomposizioni e ricomposizioni sistemiche, e insomma rivoluzioni, sembra essere penetrata a fondo soprattutto nei ranghi del personale politico e intellettuale di ciò che un tempo fu una sinistra, e attualmente limita il suo orizzonte a quello di una specie di Opposizione di Sua Maestà entro i vincoli sistemici che proprio trent’anni fa furono concepiti e imposti da una spregiudicata e vittoriosa operazione di rottura dei vincoli precedenti (quelli, appunto, del compromesso tra democrazia e capitalismo che il capitalismo non sopportava più, né poteva sopportare). Si trattò di un’operazione che, a propria volta, non condivideva quella persuasione (se non come artificio di linguaggio). E in effetti ebbe successo a livello globale proprio perché adottava, dal proprio punto di vista e per i propri scopi, gli strumenti che Rodano proponeva quasi inascoltato ai grandi partiti democratici ancora robusti ma già in qualche modo irrigiditi (a cominciare dal PCI), per rispondere alle determinate, grandi e ineludibili necessità di quel decennio di svolta cruciale: vale a dire, da una parte l’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e dall’altra l’attitudine a costruire consenso trasversale.

Come è noto, la sua insistenza su quest’ultimo punto, nella sua interpretazione della politica berlingueriana del compromesso storico, lo fece oggetto di attacchi veramente concentrici come antimoderno, nostalgico di visioni organiciste, e via confondendo. Gran parte di questi attacchi, in realtà, andarono poi ad aggiungersi agli ingredienti del consenso trasversale vincente, a sua volta non si sa quanto moderno, fino alla recente e autorevole confessione che ardiva presentare il Governo Introvabile imposto all’Italia lo scorso aprile come – finalmente – l’attuazione della formula berlingueriana del compromesso storico, depurata da strane idee come cambiamenti di sistema al di là dell’orizzonte del capitalismo, e in particolare (oggi) di questo capitalismo, l’unico possibile, combinato con il massimo tasso di democrazia che gli sia tollerabile (cioè, poca), e stabilito dalla sola rottura sistemica che fosse ammissibile.

Se vogliamo veramente fare i conti con questa ideologia, allora, la lezione di Franco Rodano, convenientemente riletta e attualizzata, si presenta oggi tra gli strumenti più moderni e più adeguati di cui possiamo disporre.

Postilla
L'articolo è tratto dalla webzine. Per il partito nuovo. Inseriremo in eddyburg l'ampio saggio citato, e altri scritti di altri autori che solo per il velo d'ignoranza che è sceso sulla politica italiana sembrano oggi profetici

L’anticipazioni da un saggio di Nadia Urbinati ( ,Feltrinelli)sulla crisi della rappresentanza. La Repubblica, 28 novembre 2013

L’11marzo 2013, il parlamento ungherese ha approvato modifiche sostanziali alla Costituzione che limitano i poteri dell’Alta corte e le libertà civili. Il procedimento di revisione è stato promosso dal Partito nazional-populista Fidesz che controlla la maggioranza dei seggi in parlamento. Tra i ventidue articoli modificati spiccano quelli che rendono lecite le limitazioni della libertà d’espressione (...). Alle preoccupazioni sollevate dai rappresentanti dell’Unione europea, Viktor Orbán, leader della maggioranza, ha risposto (...): «La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione ».

Pochi mesi prima, il 20 ottobre 2012, in Islanda i cittadini approvavano con referendum la nuova Costituzione. Al testo erano giunti dopo un processo radicalmente democratico e non pilotato da una maggioranza parlamentare. Nel 2009, un anno dopo lo scoppio della crisi finanziaria che atterrò l’economia islandese, per iniziativa di alcune associazioni della società civile, un’Assemblea di millecinquecento persone (in maggioranza sorteggiate) si riunì per discutere e poi suggerire i punti della riforma della Costituzione. L’anno successivo, un Consiglio costituzionale veniva eletto a suffragio universale in base a candidature che escludevano parlamentari e membri dei partiti. I venticinque eletti, non politici di professione ma ordinari cittadini, giunsero all’approvazione della nuova carta dopo una diretta discussione con i cittadini tramite Facebook e Twitter. (...) Due storie che testimoniano la schizofrenia nella quale il sistema democratico si dibatte. Le democrazie contemporanee manifestano un sorprendente paradosso: il sistema democratico gode di un sostegno egemonico e perfino di un’attrattiva universale (...), eppure le sue esistenti forme di funzionamento sono sotto pressione a causa in primo luogo di un declino di legittimità. (...)

Dall’Italia viene il terzo esempio. A partire dai primi anni del ventunesimo secolo, Beppe Grillo, già conosciuto al largo pubblico per la sua attività di comico, negli anni novanta si è fatto promotore di un movimento di denuncia satirica del fenomeno di corruzione politica a cascata che Tangentopoli ha messo davanti agli occhi della pubblica opinione. In pochi anni, da cantastorie di piazza la sua attività si è trasformata nel 2005 in vera e propria agitazione politica, grazie alla creazione di un blog personale (beppegrillo.it), progettato e gestito dall’azienda di Gianroberto Casaleggio.(...)
A pochi anni dalla sua fondazione, il movimento di Grillo ha operato la trasformazione da movimento di opinione a movimento politico, senza perdere la sua originaria identità non partitica e poi sempre più antipartitica. (...) Pur non avendo riscritto la Costituzione formale, il M5S ha riscritto una parte importante della pratica politica organizzata e gestita dai partiti, introducendo un elemento di “direttezza” nella democrazia rappresentativa, dando vita a quel che con un ossimoro chiamerò democrazia rappresentativa in diretta. Alcuni studiosi propongono di includere questo tipo di movimento nel fenomeno populista, altri invece sostengono che, benché condivida alcuni temi propri dei populismi di destra (per esempio, l’avversione per gli immigrati e l’antieuropeismo), si tratti tuttavia di un soggetto politico di nuovo tipo, caratterizzato non dall’appello al popolo ma dall’orizzontalità comunicativa tra cittadini. (...) Possiamo intanto dire che la democrazia cambia di segno con l’avanzare della politica web-diretta, la quale fa rinascere, trasformandolo, il mito dell’autogoverno diretto (l’antica promessa democratica dell’autonomia), con il rischio tuttavia di generare forme politiche identitarie, demagogiche o populistiche, modi di fare politica che escludono e discriminano, che gettano le basi, come in Ungheria, di una vera e propria tirannia della maggioranza. Ma l’appello all’autogoverno diretto non è un ritorno all’antico e nemmeno una rinascita delle forme assembleari di democrazia proprie della contestazione studentesca e operaia degli anni sessanta (...). È invece una nuova e aggiornata rinascita partecipazionista che non rifiuta le forme indirette di partecipazione, come la rappresentanza parlamentare e il suffragio elettorale, ma le cambia, le adatta, le stravolge (...). Democrazia rappresentativa diretta vuole essere democrazia elettorale in-diretta, dunque, senza i partiti politici e attuata attraverso movimenti in rete che raccordano il dentro e il fuori delle istituzioni, ma senza alcun controllo sulle forme di questo raccordo, senza alcuna certezza procedurale che esso sia realizzato secondo regole che danno ai cittadini un potere censorio non aleatorio o invece secondo il ruolo preminente degli animatori della rete o, come nel caso del M5S, dei proprietari privati del blog.

«Un'antica possibilità di difesa individuale e collettiva dal potere costituito contemplata sin dal medioevo che sempre più viene evocata nell'azione politica in un mondo dove poche istituzioni e imprese globali hanno messo all'angolo la sovranità nazionale».

Il manifesto, 15 novembre 2013

Che cos'è il diritto di resistenza? Qual è il suo senso oggi? Esiste una interpretazione canonica di questo antico istituto avente per sua natura vocazione costituente? È possibile invocarlo oggi in modo rilevante, in via offensiva o difensiva, di fronte al protrarsi dell' illegalità costituzionale in tanti paesi europei incluso il nostro?

La ragione per aprire un dibattito su questo tema oggi è più profonda rispetto al fatto che episodi di ribellione «costituente» si stanno verificando un po' ovunque in Italia e che la magistratura e l'amministrazione stentano ad immaginare risposte diverse rispetto alla repressione penale. Infatti, da più parti è stato osservato che la crisi della sovranità statale ha determinato il risorgere di condizioni istituzionali «neo-medievali» nell'ambito delle quali si sta svolgendo un processo globale di concentrazione del potere dotato di valenza costituente. Proprio come nel corso della prima modernità gli Stati nazionali, pur con notevoli differenze l'uno rispetto l'altro, subivamo dall'alto la sfida dell'Impero e della Chiesa e dal basso quella delle rivolte contadine incentrate sui beni comuni, anche oggi, in piena postmodernità, la sovranità è contesa. I termini della contesa sono ovviamente diversi perché a metà del diciassettesimo secolo il capitalismo era nella sua fase nascente, mentre oggi è in una fase di tarda maturità in gran parte del mondo.

Tradizioni divergenti

La partita dunque è la concentrazione del potere in dimensioni più ampie rispetto alla statualità. Le soggettività sovranazionali in lotta, pubbliche o private, sono oggi immensamente più potenti in rapporto ai sovrani statali del Sacro Romano Impero, della Chiesa di Roma o delle Compagnie delle Indie. Quanto alle sfide «dal basso» è interessante domandarsi se la lunga stagione dei diritti e del costituzionalismo borghese le abbia rafforzate o piuttosto indebolite. È difficile negare che alcune garanzie costituzionali ed alcune innovazioni tecnologiche, prima fra tutti Internet, abbiano reso, almeno in certi contesti, la resistenza al potere costituito meno rischiosa di quanto non fosse un tempo. I contadini guidati da Thomas Muntzer e i Comuneros rivoltosi in Spagna nella prima parte del sedicesimo secolo, i Diggers e Levellers inglesi ai tempi dell'esercito di Cromwell oltre un secolo dopo e i Comunardi parigini rischiarono e subirono repressioni di durezza inaudita. Allo stesso tempo, però, l'appropriazione ideologica dell'illuminismo da parte del capitalismo realizzato e dei suoi cantori ha portato al trionfo ideologie individualizzanti che sono proprio quelle che hanno finito per depotenziare lo stesso senso del diritto di resistenza.

Vale perciò la pena di far tesoro delle conseguenze dell'apparente processo di democratizzazione del diritto di resistenza il quale fu teorizzato dal giusnaturalismo spagnolo, dalla tradizione calvinista e dalla distorsione interpretativa del pensiero luterano, nell'ambito di una visione dello Stato, della sovranità e del popolo molto diversa da quella moderna. Bisognerebbe tener presente che il filosofo e giurista francese Jean Bodin, arruolato fra gli inventori della sovranità moderna, considerava il corpo sociale non già come un aggregato di individui (come fece invece Thomas Hobbes) ma come un aggregato di «famiglie, collegi e corporazioni». In Spagna la stessa visione, condivisa dal giurista Francisco de Vitoria e dal gesuita Francisco Suarez (che da giurista cattolico invocò la resistenza anche armata contro Giacomo I d'Inghilterra che rivendicava sovranità divina) era quella neotomistica dello Stato come un corpo, unità organica.

Tale visione era accompagnata da una nozione trascendente di bene comune come qualcosa di diverso e superiore del semplice aggregato del bene individuale delle sue parti, portatrici di interessi divergenti che necessitavano di una sintesi. Il popolo, il cui governo era basato su leggi civili frutto di una cessione eterna di diritti naturali individuali al governante (era questa dell'irrevocabilità del consenso una visione condivisa dallo stesso Thomas Hobbes ma non da John Locke), era un corpo immortale superiore allo stesso Re. Gli individui muoiono ma il popolo come comunità rimane. Questa concezione del popolo rese possibile la convivenza di diritti naturali individuali con nozioni di sovranità assoluta, accompagnata tuttavia da un diritto di resistenza in casi estremi in cui il sovrano violasse profondamente le stesse ragioni che ne giustificavano il potere.

Durante la prima modernità questa concezione dello Stato, frutto di una visione medievale di diversi corpi politici in vario modo in conflitto per la sovranità, era ancora alla base tanto dei Cahiers de Doleance con cui gli avvocati del Terzo Stato rivendicavano sul finire del sedicesimo secolo di riequilibrare le disarmonie create dai privilegi eccessivi di clero e nobiltà, quanto delle stesse teoriche della resistenza, elaborate in Francia dai costituzionalisti ugonotti Francois Hotman, Theodore Beza (successore di Calvino a Ginevra) e Philippe Du Plessis Mornay, ai tempi delle guerre di religione esplose nel 1562. In tutte queste concezioni - spesso indicate come antenate del costituzionalismo borghese e che che affondavano le radici nella teorica di Niccolò Machiavelli - il diritto di resistenza non poteva configurarsi come individuale ma poteva soltanto appartenere a «magistrature inferiori» o «corpi collettivi» dotati di una pretesa di giurisdizione. Suarez per esempio riteneva necessaria l'autorizzazione del Papa per esercitare il diritto di resistenza; in ogni caso esso era riconosciuto con riluttanza estrema (da Lutero e fra i giuristi da Grotius); non era mai assegnato alla moltitudine popolare. La necessità di sterminare i ribelli, «come cani arrabbiati» secondo Lutero qualora questi si facessero portatori di istanze dal basso (come nel caso delle ribellioni contadine), pareva mettere d'accordo tutti. Fu la struttura istituzionale dell'Inghilterra a modificare in senso moderno il diritto di resistenza producendone quell'individualizzazione che soltanto superficialmente può considerarsi come una sua democratizzazione.

L'emancipazionismo liberale

In Inghilterra infatti la costruzione di uno Stato unitario fu compiuta molto presto e a differenza che in Spagna e Francia fu raggiunto fin dalla Magna Charta un accordo all'interno delle strutture dello Stato fra proprietà terriera e monarchia (naturalmente a spese dei beni comuni). La guerra civile e la Rivoluzione di Cromwell non furono dunque contese per definire quale fosse il luogo della sovranità (e dunque scontri costituenti) ma furono conflitti di potere anche molto aspri ma interni allo Stato costituito. Fu questa essenzialmente la ragione per cui nel sedicesimo secolo si sviluppò una tradizione di pensiero politico nell'ambito del quale gli individui senza mediazioni di corpi intermedi, potevano essere visti come parti costitutive della comunità statale (Commonwealth). Fu Sir Thomas Smith, ambasciatore di Elisabetta in Francia, in un libro pensato anche per il pubblico francese a definire il commonwealth o societé civil come «una società o un agire comune di una moltitudine di uomini liberi legati insieme da un comune accordo per la propria conservazione tanto in pace quanto in guerra», in contrasto chiarissimo con la visione di Bodin fondata sulle corporazioni.

Naturalmente, prima di salutare con il solito entusiasmo acritico le radici emancipative del pensiero liberale, occorre osservare come Smith mettesse in chiaro subito che ci sono uomini liberi che non contano, non governano, non votano, ma possono solo essere governati. Fra questi: «i lavoratori giornalieri, i mercanti e i commercianti che non hanno terra, gli artigiani e i contadini piccoli proprietari, i sarti, i calzolai, i carpentieri i muratori, i produttori di mattoni ecc.. questi non hanno né voce né autorità nel nostro commonwealth».

Ora, lasciando da parte la facile osservazione per cui costoro «contavano» eccome in Francia o in Italia qualora raccolti in corporazioni, merita di osservare che fu un allievo di Thomas Smith, il Vescovo John Ponet che elaborò per primo, correva l'anno 1556, una teoria della resistenza anche violenta ad opera di individui privati (naturalmente solo quelli parte del commonwealth di Thomas Smith) nel caso di usurpazione sovrana dei loro diritti. In materia di resistenza Ponet stava a Smith come i costituzionalisti ugonotti a Jean Bodin. Nelle concezioni inglesi al centro di tutto stava l'individuo (proprietario) portatore di diritti e di potere; altrove il «collegio o la corporazione», ossia un corpo collettivo portatore di doveri e di giurisdizione.

Nella gabbia dello Stato

È noto che fu l'individuo proprietario, principalmente il protocapitalista agrario, il protagonista vero della rivoluzione inglese, del protettorato di Cromwell e di quel grande compromesso del 1688 fra proprietà privata e sovranità pubblica «divisa» celebrato come rule of law. Il diritto di resistenza proprietario, mai proletario, venne mobilitato nel corso delle rivoluzioni del diciottesimo secolo e quando il suffragio elettorale fu finalmente esteso, a capitalismo ormai realizzato, la rule of law è stata guardiana, allora come oggi, di ogni ripensamento profondo dell'accumulo proprietario individuale. Doveva infine essere più di ogni altro John Locke a depotenziare attraverso un capolavoro di ipocrisia politica che gli fruttò fama eterna, ogni pretesa dei levellers (che comunque in gran parte non mettevano in discussione la proprietà privata ma lottavano per il suffragio elettorale) dei diggers e di ogni altra anelito di emancipazione dei subordinati. Egli chiuse così definitivamente, in solo apparente contrasto con Hobbes, la tenaglia dello stato e della proprietà privata su ogni istituzione del comune.

L'appropriazione capitalistica dell'illuminismo e la grossolanità di certa sua critica postmoderna, capace di appiattire luoghi e protagonisti quanto mai diversi, fece il resto fino a giustificare oggi visioni caricaturali dei beni comuni. In ogni caso adesso, quando non mi par tempo di moderazione, la sola politica degna di esser vissuta deve articolare nella teoria e nella prassi un diritto di resistenza collettivo che si emancipi dall'illusione individualistica e sappia interpretare la comunità come libertà.

Welfare, reddito di cittadinanza, reddito medio garantito, esclusione: temi in discussione, che rinviano a due grandi questioni: quella del diritto alla sopravvivenza e quella del lavoro. I

l manifesto, 15 novembre 2013Nel nostro paese il rischio di esclusione sociale e la crescita ininterrotta dei livelli di povertà (assoluta e relativa) sono tanto alti quanto miseri o inesistenti gli strumenti necessari a combatterli. A partire da condizioni così colpevolmente arretrate non si può che apprezzare il fatto che ben tre proposte di legge (di un gruppo di parlamentari Pd, di Sel e, infine del M5S) siano state presentate alle Camere nell'ultimo anno. Incontrando tuttavia una forte resistenza anche a sinistra dove la più grossa di tutte le balle, la promessa della piena occupazione, continua incredibilmente a godere di un vasto credito. Sentire parlare della insostituibile «dignità del lavoro» di fronte alle condizioni semiservili e ultraricattate in cui versa gran parte del lavoro precario e non poco lavoro dipendente fa accapponare la pelle. In realtà la proposta di legge dei 5Stelle, la più dettagliata delle tre, è più che altro una proposta di Reddito minimo garantito (Rmg) il quale a sua volta, ben lungi dall'assumere i caratteri universalistici e incondizionati del reddito di cittadinanza, costituisce una rivisitazione del sussidio di disoccupazione nell'epoca in cui quest'ultima ha assunto caratteri strutturali e permanenti. Cosicché l'erogazione del reddito è sottoposta a un complicato apparato di verifica e di controllo della «disponibilità all'impiego», che facilmente tende a trasformarsi in uno strumento di ricatto, quando non di coercizione. Incompatibile con quella salvaguardia della libertà e della dignità della persona stabilita dalla Carta di Nizza.

L'Rmg, in vigore in quasi tutti i paesi d'Europa, argina solo limitatamente l'imposizione di lavoro sottopagato e sovente a condizioni ben lontane anche dal più elastico concetto di «dignità». Basti pensare ai mini-job della competitiva Germania, molto simili a una istituzionalizzazione del lavoro nero e dei suoi tassi di sfruttamento, ritenuti indispensabili dalla confindustria tedesca per mantenere gli attuali livelli occupazionali.

Ma se perfino in Europa la questione di un reddito che garantisca a tutti i cittadini un livello di vita decente e libero da coazioni è lungi dall'aver trovato una risposta adeguata, in Italia siamo ancora, nel pieno di una crisi disastrosa, a sollevare la «questione morale» di un reddito svincolato dal lavoro che non c'è o non c'è in termini accettabili. E che quindi non può continuare a fungere da unità di misura dell'inclusione sociale, laddove ormai diverse forme di attività, estranee alle categorie classiche del lavoro, contribuiscono a mantenere e perfino a sviluppare quel legame sociale che i «mercati», compreso quello del lavoro, stanno finendo di devastare.

La questione del reddito di cittadinanza è la questione stessa delle società postindustriali, e ci impone un ripensamento complessivo del welfare, capace di contrastare quello smantellamento dello stato sociale che fa leva tanto sulla sua inefficienza burocratica quanto sull'insoddisfazione dei tanti che ne restano esclusi. E non è certo a partire dal sussidio elargito sotto il controllo di un ufficio di collocamento che questo ripensamento può prendere le mosse. Tuttavia il tema del reddito e di una redistribuzione delle risorse è posto. Si tratta di non fermarsi alle versioni minimaliste e inefficaci.

Riferimenti
Su edduburg vedi, tra l'altro, la bozza di "visita guidata" Il lavoro su eddyburg

Sarà il primo democratico a guidare la città dopo vent’anni. Ha ottenuto una vittoria schiacciante grazie a una campagna elettorale contro le disuguaglianze e l’emarginazione. Internazionale n. 1025, 8 novembre 2013; dal N

ew York Times

Il 5 novembre Bill de Blasio, un uomo che è riuscito a trasformarsi da funzionario quasi sconosciuto di un oscuro ufficio cittadino a interprete della frustrazione di una città pronta a una nuova età dell’oro, è stato eletto sindaco di New York. La sua vittoria schiacciante, dai distretti operai di Brooklyn alle aree peri- feriche del Queens sudorientale, è un segnale chiaro: gli elettori della più grande metropoli degli Stati Uniti respingono con decisione lo stile duro e vicino al capitali- smo finanziario del governo cittadino degli ultimi vent’anni e chiedono una netta virata a sinistra.

De Blasio, 52 anni, democratico, difensore civico di New York, ha sconfitto l’ex presidente dell’azienda cittadina dei trasporti Joseph J. Lhota. La sua vittoria, la più schiacciante nella corsa a sindaco dal 1985, quando Edward I. Koch vinse con un margine di 68 punti, legittima inequivocabilmente de Blasio a seguire il suo programma di sinistra.

“Cari concittadini, oggi avete detto con fermezza che volete un cambio di rotta per questa città”, ha detto ai suoi elettori durante la grande festa a Park slope, nel quartiere di Brooklyn, dove i suoi figli adolescenti hanno ballato sul palco. De Blasio, che ha origini italiane, ha ringraziato la folla in inglese, in spagnolo e perfino con qualche parola di italiano. “Nessuna esitazione: le persone di questa città hanno scelto una strada progressista e stasera siamo pronti a metterci in marcia, insieme”.

Al di là del curriculum formidabile del candidato, la vittoria di de Blasio è il trionfo di un messaggio populista in una campagna elettorale che era diventata un referendum su un’intera epoca, quella cominciata con Rudolph W. Giuliani e finita con Michael R. Bloomberg, rieletto sindaco per tre volte.

Durante la sua corsa de Blasio ha messo in ombra gli avversari canalizzando la crescente frustrazione dei newyorchesi su temi come la disuguaglianza, la politica di sicurezza troppo aggressiva e la mancanza di alloggi a prezzi ragionevoli, e affermando che la città non deve lasciare indietro nessuno. Come forse nessuno prima di lui, ha puntato sulla sua famiglia multirazziale per comunicare con un elettorato sempre più vario, appassionando gli elettori con uno spot televisivo in cui compare Dante, il carismatico figlio quindicenne con la sua appariscente capigliatura afro. De Blasio sarà il primo democratico a guidare New York do- po vent’anni. Il suo messaggio ha risvegliato lo scontento più profondo e la voglia di cambiare degli abitanti delle cinque circoscrizioni cittadine.

Pochi errori

Il suo rivale Lhota, vicesindaco durante l’amministrazione Giuliani e con un passato di banchiere a Wall street, è entrato in gara in pompa magna e con molte promesse: un repubblicano moderato, un manager scaltro dalla forte personalità, noto per le sue citazioni dal film Il padrino e i suoi tweet poco sobri. Ma nei suoi comizi si è rivelato monotono e poco convincente. I suoi attacchi a de Blasio, descritto come un “socialista” che avrebbe riempito le strade di delinquenti, non sono sembrati di gran classe. Inoltre, nonostante i suoi legami con il mondo della finanza, è riuscito a racimolare solo 3,4 milioni di dollari di donazioni, un terzo della somma raccolta da de Blasio.

Lhota è stato spiazzato dall’incredibile ascesa del suo avversario. Cresciuto in Massachusetts, fan dei Red Sox, da ragazzo de Blasio ha abbracciato gli ideali di sinistra dei sandinisti in Nicaragua, poi ha sposato una donna che prima si dichiarava lesbica, e non ha mai diretto un’organizzazione di più di 300 persone. Ma il nuovo sindaco, che è in politica da molti anni ed è stato il responsabile delle campagne elettorali di Hillary Clinton e del deputato democratico Charles B. Rangel, ha diretto una macchina disciplinata, che ha commesso pochi errori e non ha dato niente per scontato, contrariamente a Lhota.

Per il giorno del voto de Blasio ha chiamato a raccolta circa diecimila volontari distribuendoli in quaranta punti della città per incentivare l’affluenza alle urne. Lhota è riuscito a reclutare 500 persone, pagate, in nove postazioni. Secondo gli exit poll realizzati dalla Edison Research, gli sforzi per un impegno coordinato sono stati ripagati, facendo guadagnare a de Blasio i voti di elettori di ogni etnia, genere, età, religione, reddito e livello d’istruzione.

Il manifesto, 30 ottobre 2013

Tanti discorsi, tante polemiche, sempre più uguali a se stessi. Da quanto tempo? Almeno da vent'anni, il tempo della lenta agonia della sinistra italiana (e non soltanto). Ora il dibattito impazza - che novità - sulla legge elettorale, con gli ultimi proclami del sindaco di Firenze contro il proporzionale degradato a fabbrica di ammucchiate. E sulla povera Costituzione del '48, non abbastanza sfigurata e tradita. Della quale si intende abbattere il presidio procedurale, come se non fosse proprio quella la prima regola da salvaguardare, come se non incombesse il rischio di creare il più velenoso dei precedenti, che già domani altri potrebbe legittimamente invocare per la spallata definitiva.

Oppure si parla della crisi e delle sue conseguenze rovinose per milioni di individui, che sono poi le rovinose conseguenze di questa forma di società, in cui il pubblico è rigorosamente asservito al privato. Fingendo - tutti: dal presidente della Repubblica all'ultimo cronista - di ignorare che la crisi non è un'anomalia o un incidente di percorso, ma il prodotto più tipico del meccanismo che presiede alla riproduzione del modello. Nella fattispecie, del fallimento di finanziarie e banche specializzate nella speculazione sulla pelle degli ultimi e poi salvate a spese dello Stato, con la più spettacolare socializzazione delle perdite private che la storia del capitalismo ricordi. Se non ci fosse stata, la si sarebbe dovuta inventare questa crisi. Occasione preziosa per assestare alle masse degli ignari e dei subordinati l'ennesimo colpo basso e per inchiodarle alla colpa di «aver vissuto al di sopra delle loro possibilità». Di qui il lasciapassare per altri colossali saccheggi attraverso la leva fiscale, le privatizzazioni, i nuovi tagli al reddito e ai diritti sociali, l'aumento dell'orario di lavoro, l'abbattimento dei diritti e delle tutele, la riduzione dell'occupazione...

Si dice da più parti, simulando pensosa solidarietà, che mai la politica è stata tanto distante dalla vita reale, dai problemi, dalle ansie e dalle difficoltà dei più. E intanto si continua come niente fosse a sfornare minacce travestite da promesse. Ormai la "gente" non sa più che pensare, è sin troppo evidente. C'è chi ancora crede in qualche grillo parlante, che minaccia e lusinga. Chi, nauseato, ha staccato la spina. Chi magari seguita a onorare antiche appartenenze, più per omaggio al proprio super io che per convinzione. Ma è evidente, ogni giorno di più, che non c'è partita. La cosiddetta politica viaggia alla velocità di un accelerato. La crisi - che è sociale e delle istituzioni; morale e della speranza; economica e delle relazioni tra le persone - a quella di un meteorite. Non sono Cassandre quelle che ripetono che stiamo seduti su una santabarbara. È la pura verità. Di questo passo, o salta in aria l'euro o salta in aria direttamente l'Europa. E sarà l'inizio di un domino inarrestabile. E non sono Cassandre nemmeno quelle che mettono in guardia dalla marea montante dei populismi. Il ventre delle nostre società ribolle di pulsioni retrive. La politica ha rinunciato da decenni a civilizzarle. Da quando si è assegnata il compito di aprire la strada al mercato, che della civilizzazione non sa che farsene, anzi la vede come il fumo negli occhi.

Per questo servirebbe, oggi più che mai, uno scatto, un gesto che interrompesse finalmente questa litania di formule stanche e squarciasse il velo dell'ipocrisia. Non è vero che non si sappia che cosa si debba e si possa fare, che cosa milioni di persone desiderano, sentendo che si tratta dei loro diritti violati. Molti professionisti della politica - molti di quelli che si pensano in qualche misura di "sinistra", ovunque collocati - sanno ancora bene di che cosa si tratta. Come lo sapevano i loro predecessori fino a un passato tutto sommato recente, se è vero che questo paese ha saputo malgrado tutto camminare lungo una strada di sviluppo civile sino ai primi anni Ottanta. Contrastato, ma civile. Riuscendo a combattere contro poteri arcaici radicati.

Redistribuire la ricchezza, in primo luogo. Perché l'Italia è ancora molto ricca, solo sempre più ineguale e ingiusta. Tornare a programmare sviluppo, spesa produttiva e investimenti, cosa che solo il pubblico può fare all'altezza delle necessità di un paese in declino. Puntare su un grande programma di piena occupazione per la manutenzione del territorio e delle città, per il rilancio della scuola e dell'università pubblica, della sanità pubblica, dei servizi alla persona, delle infrastrutture materiali e immateriali. E per questo farla finita, una volta per tutte, con lo scandalo assoluto di un gigantesco furto perpetrato a danno del fisco da grandi evasori ed elusori che invece la politica coccola e remunera, pagando con gli interessi (quanto incide il servizio del debito sulla crescita esponenziale del debito stesso?) ciò che sarebbe dovuto in forma di imposte su grandi patrimoni, profitti e rendite. Non è vero che non si sappia tutto questo. Basta frequentare un qualsiasi gruppo, leggere qualsiasi rivista, seguire qualsiasi convegno che la sinistra promuove da anni a questa parte per toccare con mano importanti convergenze di analisi e propositi. E non è nemmeno vero che non lo si potrebbe fare, se lo si volesse. Pur in presenza dei vincoli iugulatori europei, di cui peraltro l'Italia potrebbe imporre la riscrittura. E comunque non è vero che - se ci si battesse con coerenza, a viso aperto per un programma di questo genere - nulla cambierebbe nello stagno della politica italiana. È vero il contrario. Si determinerebbe un terremoto, che spazzerebbe via nani e ballerine, sepolcri imbiancati e profeti di finti tsunami.

Quel che è mancato sinora è il coraggio. E la generosità. Ed è questa la maggiore responsabilità di chi - capopartito, capocorrente o capopopolo - potrebbe dire basta una buona volta a questo stato di cose, e muoversi senza riserve per innescare un processo che basterebbe poco a mettere in moto. Ci sono oggi dieci, forse quindici persone in Italia - inutile fare i nomi - che avrebbero, per ruolo o per virtù personali, la possibilità di produrre una rottura nella tendenza verso l'agonia del paese. Che potrebbero, insieme, trasmettere al paese il messaggio di fiducia e di determinazione di cui c'è urgente bisogno. Mettendo da parte calcoli di bottega e cure personali. E scommettendo sull'immenso patrimonio di forze, di intelligenze, di risorse morali che il popolo della sinistra italiana, oggi disperso e depresso, ancora possiede.

«Diritti civili e sociali, revisione dei vincoli finanziari, riconversione ambientale della produzione, una nuova classe dirigente. E il filo rosso dei beni comuni. Il programma c’è, manca la forza che lo realizza».

Il manifesto, 24 ottobre 2013

Non siamo più, e da tempo, cittadini italiani; siamo sudditi di un "sovrano" che si chiama governance europea: un'entità mai eletta, che risponde solo al "voto" dei "mercati". E' un governo di fatto che definisce le politiche dei paesi dell'Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità, fino a concedere, con l'accordo two-packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Se le cose stanno così - come ci ricorda il ritornello "ce lo chiede l'Europa" - per riappropriarsi della possibilità di far sentire la nostra voce, per restituire alle comunità capacità di autogoverno, occorre creare un'opposizione in ambito e di respiro europei. Ma come colmare l'abisso tra le politiche imposte dalla governance europea e, per suo tramite, dalla finanza internazionale, e le istanze dei movimenti e delle mille organizzazioni che si battono, ciascuno a suo modo e spesso per proprio conto, per diritti fondamentali che i governi dei paesi dell'Ue stanno erodendo: dignità, lavoro, reddito, casa, salute, istruzione cultura, vecchiaia serena, accoglienza, rispetto della vita di tutti? C'è nella rivendicazione di quei diritti l'embrione di un programma comune in cui si riconoscerebbero facilmente i partecipanti alle manifestazioni sia del 12 che del 19 ottobre, che i rispettivi promotori hanno invece concorso a tener separate per cautele politiche e aggressività verbali in entrambi i casi inaccettabili (se si vuole tutte radunare le forze disponibili).

A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell'Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali. Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l'occupazione e le condizioni di vita nell'Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all'Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati - soprattutto, ma non solo, di prossimità - la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.

Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente - già in gran parte all'opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche - che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata - anche tecnicamente - in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell'establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.

Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.

Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.

In Italia e in gran parte dell'Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall'altro, la necessità di offrire nuove opportunità all'esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive. Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell'Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.

Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo - è esperienza quotidiana - per depredare l'azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull'intervento statale; e non certo per il fatto che l'Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate. E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell'IRI, di manager in grado di gestire un'impresa (tanto che ricorre sempre all'ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come "beni comuni", né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.

L'altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell'Europa e, innanzitutto, dei paesi dell'Ue più colpiti dall'austerity. Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica. Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica - case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni - insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso.

Ovviamente, con il coinvolgimento delle comunità di riferimento e di governi locali sottratti al giogo del patto di stabilità e di sindaci e giunte sottratti ai richiami del business; cominciando dalla requisizione dei beni contesi. Ma solo grandi lotte e grandi mobilitazioni potranno avere questo esito. E' un progetto di lunga lena, ma andiamo incontro a tempi difficili che richiederanno soluzioni estreme; sottometterlo oggi a un pubblico dibattito è un buon punto di partenza.

omune_info, 21 ottobre 2013

Quello di Agrigento è uno strano rito funebre, nel quale sono assenti i corpi dei migranti annegati da respingimento e accanto alle massime rappresentanze del governo italiano siedono non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. Nei “grandi” media si sono spese migliaia di parole per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto. “Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti e ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’Italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico – scrive Pina Piccolo – Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto”. Se l’attività del tombarolo consiste nella cinica ed egoista raccolta dei frutti del rito funebre, allora questo non è che un governo tombarolo, di larghe intese naturalmente.

Cercavo un appellativo o una metafora che potesse calzare l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine ho dovuto coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi restava nel senso che nel rito si riaffermava una certa “normalità” dello status del defunto, continuava a condividere interessi anche estetici con chi continuava invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consisteva nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.

Oggi ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presta a un’ulteriore operazione di spoliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare nuovamente il corpo in absentia di oltre trecento giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).

Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga. Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico. Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.

Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento, accanto alle massime rappresentanze del governo italiano sederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni (le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).

Quindi oggi i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita, procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani. La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni).

Credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.

Pina Piccolo, traduttrice e insegnante italo-americana, vive a Imola e, tra le altre cose, si occupa di xenofobia e antirazzismo. Questo articolo è stato pubblicato anche su Alma blog

Liberate finalmente le pagine dei giornali dai resti di Priebke pubblichiamo un testo che forse molti giovani non conoscono, e molti anziani hanno dimenticato. Non ci sembra che in questi giorni sia stato ripreso, ma forse si. Comunque, è anche un bel testo: ed era uno dei tanti buchi negli archivi di

eddyburg

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Nota informativa
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento.

A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista.

«Contro una misura ragionevole e urgente si leveranno obiezioni per non turbare fragili equilibri, fare i conti con varie “sensibilità” all’interno della maggioranza. Miserie di una politica che rivelerebbe l'incapacità a cogliere i temi del nostro tempo».

La Repubblica, 8 marzo 2013

LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.

Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.

In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea.
I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia
di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

«In Italia esiste una messinscena della politica. Politica e' confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica». Un’intervista di Luana Milella a uno dei promotori del 12 ottobre prossimo.

L’Unità, 6 ottobre 2013

Letta e la fine del ventennio? «Un’affermazione valida per la messinscena della politica». Lo scontro dentro il Pdl? «Vedo un tentativo di eliminare gli “incommoda”». Si va verso una nuova Repubblica? «Non vedo né la prima né la seconda né la terza». Berlusconi è finito? «Non mi interessa lui, ma i problemi che lui ha contribuito a creare». Il professor Gustavo Zagrebelsky non si smentisce. Caustico. Netto nel non assolvere “questa” politica. Ma pronto a negare la prospettiva di una prossima avventura nella politica.

Lei, Rodotà, don Ciotti, Landini e Carlassare. Nomi che fanno rumore se si ritrovano assieme. Come succede il 12 ottobre. Che accade, alla fine voi di Libertà e giustizia vi siete decisi a far nascere un nuovo partito?
«Sgomberiamo il campo fin da subito. La risposta è no e aggiungo, siccome da diverse parti si è fatto credere il contrario, che è un “no” evangelico: Quel che è sì è sì, quel che no è no, e tutto è opera del maligno ».

Però il Vangelo non mette mai un limite alla provvidenza...
«Se fosse sì, non sarebbe la provvidenza, ma la “sprovvidenza”. Ci mancherebbe solo che si pensasse di fare un nuovo, ulteriore, partitino».

Però... però... mi lasci dire, quando il manifesto dell’incontro, che non a caso si intitola “La via maestra”, parla di «miserie, ambizioni personali, rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato» non può che venire in mente il rifiuto di “questa” politica. Che ne richiama una nuova.
«Certamente. Ma per operare un rinnovamento o addirittura un ribaltamento delle pratiche politiche e sociali che ci affliggono in questi anni non c’è bisogno “di nuovi soggetti politici” - espressione, tra le tante, che io odio -. C’è bisogno invece, secondo noi, che ciascuno, quale che sia il suo impegno nella società, faccia valere nelle sedi che gli sono proprie (politica, sindacato, cultura, scuola, tutto insomma ciò che ha riguardo con la vita civile) l’esigenza del rinnovamento. Comprenda e faccia comprendere che, continuando così, il nostro Paese si mette su un binario morto».

Lei, come sempre, è bravissimo nello scegliere espressioni e concetti forbiti, ma parliamo politichese: ci giura che un partito nuovo non nascerà?
«Nessuno di noi è profeta. Ma il 12 ottobre non c’è la fondazione di alcun partito. Anzi, il nostro intento è quello di raccogliere le preoccupazioni e le forze, non di dividerle ulteriormente».

Scusi se insisto, ma mi pare che qualcuno sia convinto che state proprio lavorando verso quell’approdo.

«Ribadisco, il nostro è un intento politico, ma non nel senso dei partiti. Se si può dir così, è un intento anche più ambizioso: lavorare alla rinascita di una politica, nel senso autentico della parola».

Lei non vede la politica “giusta” in Italia?

«In Italia esiste solo una messinscena della politica. La politica comporta il confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica. Venendo meno la politica, la democrazia stessa deperisce. Perché mai i cittadini si dovrebbero impegnare, anche solo nella cabina elettorale, se tanto tutto è destinato a restare quello che è? Viviamo da alcuni anni in stato di necessità. Ma la democrazia è lo stato della libertà».

Come mai, però, associazioni che pur avrebbero potuto rispondere al vostro appello solo rimaste silenti?
«L’adesione è larghissima. Chi si è tenuto in disparte, l’ha fatto, mi sia permesso di osservare, perché è caduto nell’equivoco del “nuovo soggetto politico”. Chiarito il quale, mi auguro che ci siano ripensamenti».

La nostra Costituzione. Lei torna lì, alla Carta del ‘48. Contestata, e che si cerca di riscrivere. Perché va tenuta ferma?
«C’è un paradosso. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto. C’è poi la seconda parte, che riguarda l’organizzazione della politica, e quindi i mezzi necessari per promuovere quel tipo di società. Oggi la discussione riguarda la riforma di questa seconda parte. Ma prima e seconda parte sono collegate e alcune delle modifiche che si prospettano, modifiche che definirei oligarchiche, si muovono nella direzione opposta all’attuazione della prima parte».

Costituzione e costituzionalisti. La Moralità pubblica. Che pensare quando si legge dello scandalo dei professori sotto accusa per i concorsi truccati?
«Nel campo universitario c’è un ineliminabile aspetto di cooptazione. Naturalmente, quella che dovrebbe essere cooptazione dei migliori può degenerare in corruzione. La linea di confine è labilissima. Anche se, oltre un certo limite, lo scandalo diventa evidente. Mi auguro che si chiarisca che quella linea di confine non è stata superata».

Letta ha detto che mercoledì «si è chiuso un ventennio». Alfano ha vinto su Berlusconi, il Parlamento ha confermato il governo. Davvero un ventennio è finito?«Chi e come lo si può dire?».

Letta lo dice.
«Temo che sia un’affermazione valida per la messinscena, quello che volgarmente si definisce il teatrino della politica. Quando evochiamo “ventenni” che si chiudono, credo che si debba pensare a quel rinnovamento profondo della politica di cui dicevo prima. Qualcuno potrebbe ipotizzare che si tratti solo di una razionalizzazione di ciò che ci sta appena alle spalle e che sta cercando di mettere ai margini gli “incommoda”».

A proposito di “incommoda”, guardiamo all’estate di Berlusconi, al disperato tentativo di evitare la condanna, una politica concentrata su questo mentre la gente è sempre più povera. Lei pensa davvero che si possa tornare indietro? Non c’è troppa prima repubblica, addirittura peggio della prima, in questa seconda?
«È difficile non vedere una profonda continuità nelle strutture e nelle concezioni profonde del potere politico, economico e sociale, e perfino criminale, della nostra società. Da questo punto di vista non c’è stata né una prima, né una seconda, né una terza Repubblica. Sono mutate le forme esteriori. Il 12 ottobre ci interrogheremo non sulle forme, ma sulla sostanza. E ci auguriamo che da qui possa nascere un vero rinnovamento».

Un giudizio flash su Berlusconi. È ancora “vivo” politicamente, ha ancora appeal da spendere o è politicamente già in archivio?
«A me non interessa tanto questo; mi interessa piuttosto che, Berlusconi o non Berlusconi, ci si occupi dei problemi del nostro Paese, la cui gravità Berlusconi ha contribuito ad accentuare e che rimarranno tali e quali davanti a noi, anche senza di lui».

Lo spauracchio delle elezioni. Minacciato da mesi. Che vantaggi avrebbero gli italiani da un nuovo voto?
«Un voto che riproduca la situazione attuale non serve a niente. Un voto che rimetta in moto il confronto politico sarebbe invece essenziale. Ma per questo occorrerebbe un’altra legge elettorale».

«Un intervento della sociologa americana, ospite al festival Internazionale di Ferrara. Le "autorità illegittime" dell'Europa sono le imprese transnazionali: come un governo ombra, agiscono attraverso le lobby e gli oscuri comitati di esperti, decidendo tutto ciò che riguarda la nostra vita quotidiana.

Il manifesto, 4 ottobre 2013

Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la sicurezza finanziaria vostra e quella della vostra famiglia, le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, vi è un importante cambiamento politico di cui dovete essere consapevoli. Io chiamo questo cambiamento la «ascesa di autorità illegittima». Il governo di rappresentanti chiaramente identificabili e democraticamente eletti viene gradualmente soppiantato da un nuovo governo ombra in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo di più in più decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana.

Essi possono agire attraverso le lobby o oscuri «comitati di esperti»; attraverso organismi ad hoc che ottengono un riconoscimento ufficiale; talvolta, attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da executive delle imprese al più alto livello. Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all'interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle corporate. Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere. Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico.

Tecniche da mercenario

Cominciamo con le lobby ordinarie, attori famigliari ai margini dei governi per un paio di secoli. Hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati. Negli Stati Uniti, devono almeno dichiararsi al Congresso e dire quanto sono pagate e da chi.

A Bruxelles, c'è solo un registro «volontario», che è una presa in giro, mentre dieci-quindicimila lobbisti si interfacciano ogni giorno con la Commissione europea e con gli euro-parlamentari. Difendono il cibo spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaceutici rischiosi, difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra e le grandi banche.

Meno conosciute delle lobby favorevoli a singole imprese transnazionali, ma in crescita a livelli di comparto industriale sono «istituti», «fondazioni» o «consigli», spesso con sede a Washington DC, che difendono anche l'alcool, tabacco, cibo spazzatura, prodotti chimici, gas serra, ecc, ma con un approccio diverso. Essi impiegano esperti influenzati per scrivere articoli che creino dubbi nella opinione pubblica anche in merito a fatti scientificamente assodati; creano falsi «comitati» o gruppi di «cittadini» finalizzati a difendere i loro prodotti e a sostenere che la «libertà di scelta» del consumatore viene limitata dalla invadenza di chi vuole prendere le decisioni al posto dei singoli.

Tornando su Bruxelles, decine di «comitati di esperti» formate da personale Tnc, praticamente prive di partecipazione da parte dei cittadini o delle Ong, preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. Dalla metà degli anni 1990, le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso cinque miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l'amministrazione Roosevelt negli anni '30, che avevano protetto l'economia americana per sessant'anni. Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati.

Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici «derivati», come i pacchetti di mutui sub-prime, senza alcuna regolamentazione. Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza e nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di $ 2.300.000.000.000 al giorno, un terzo in più di sei anni fa. Tutti noi conosciamo i risultati delle attività di lobby finanziaria: la crisi del 2007-2008, in cui siamo ancora invischiati.

Ci sono poi organismi quali l'International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99 per cento della popolazione europea. Quando l'Ue si è confrontata con l'allargamento a ventisette e con l'incubo di ventisette diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili, ha chiesto supporto a un gruppo ad hoc di consulenti provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile.

Nel corso degli anni successivi, questo gruppo è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb, ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma che adesso sta elaborando regolamenti per sessantasei paesi membri, tra cui l'intera Europa. Lo Iasb è diventato ufficiale grazie agli sforzi di un Commissario Ue non eletto dai cittadini, Charlie MacCreevy, un neoliberista irlandese, egli stesso un esperto contabile, senza alcun controllo parlamentare. Per chi fosse interessato a saperlo, è stato detto che l'agenzia era «puramente tecnica».

Gli evasori competenti

Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati per paese, continueranno a pagare - abbastanza legalmente - pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività. Le aziende possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità.

Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza. Piccole imprese nazionali o famigliari con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale o a fare a meno dei servizi pubblici che una tassazione equa delle Tnc avrebbe potuto garantire.

Ho contattato lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata per paese fosse nella loro agenda, e mi hanno cortesemente risposto che non lo era. Non c'è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione.

Nel luglio di quest'anno, sono iniziati i negoziati della Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Ttip. Questo accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale - gli Stati Uniti e l'Europa - e sono in preparazione dal 1995, quando le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell'oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue per lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore. I negoziatori stanno ora lavorando sulla bozza di progetto che il Tabd ha redatto.

Il commercio transatlantico ammonta a circa mille e cinquecento miliardi dollari all'anno, ma c'è poco da negoziare sull'aspetto delle tariffe, questi pesano media solo un tre per cento. L'obiettivo è invece di privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano «ostacoli commerciali». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento oggi è la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti «attesi».

Il Trans-Atlantic Business Dialogue ha recentemente cambiato il suo nome in Consiglio economico transatlantico e descrive il suo lavoro come volto a «ridurre i regolamenti per potenziare il settore privato». Si definisce un «organo politico» e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue / Usa».

Con questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche ai regolamenti riguardanti la sicurezza dei prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, prodotti chimici, ecc; stabilità finanziaria (libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso); nuove proposte fiscali, come la finanziaria tassa sulle transazioni; sicurezza ambientale (ad esempio il diritto di imporre norme più rigorose sulle industrie inquinanti) e così via. I governi non potranno privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto (una parte significativa di ogni economia moderna). Il processo negoziale si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini.

Democrazia a rischio

Come se non bastasse l'infiltrazione nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario da parte delle imprese transnazionali, anche le Nazioni Unite sono ormai un obiettivo delle Tnc. Alla conferenza Rio + 20 sull'ambiente delle Nazioni Unite nel 2012, le imprese transnazionali formavano la più grande delegazione e misero in scena il più grande evento, noto come «Business Day». Il rappresentante permanente della Camera di commercio internazionale presso le Nazioni Unite dichiarò tra fragorosi applausi, «Siamo (...) la più grande delegazione d'affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite... Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Le multinazionali chiedono ora un ruolo formale nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite.

Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare, spesso dall'interno, i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune. Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi. Se i cittadini che hanno a cuore la democrazia le ignorano, lo fanno a loro rischio.

Susan George, sociologa, politologa e scrittrice franco-statunitense, dirige il Transnational institute di Amsterdam. Ha fatto parte del comitato direttivo di Greenpeace International e di Corporate Europe Observatory. Il suo ultimo libro è Come vincere la guerra di classe»

(Feltrinelli).
«Non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento».

La Repubblica, 2 ottobre 2013

Indipendentemente dagli esiti del sommovimento interno al Pdl, è certo che il Paese sta subendo (non da oggi) le conseguenze della crisi della democrazia dei partiti e della rappresentanza. Paga il prezzo di una democrazia deformata. Le comunità politiche come le persone hanno una figura che le rende identificabili. Tra i tratti distintivi della democrazia costituzionale ci sono elezioni regolari, separazione dei poteri, diritti civili fondamentali e, non ultimo, l’autonomia dei rappresentanti tanto da chi li elegge quanto da chi li mette in lista. La rappresentanza senza mandato imperativo è una componente essenziale dell’immagine della democrazia perché da essa dipende l’autonomia decisionale del Parlamento e, per diretta derivazione, la libertà politica dei cittadini. Alterare lo statuto della rappresentanza equivale a sfigurare la democrazia, a deformarla.

Nel corso di questi anni la democrazia italiana ha subito deformazioni evidenti rispetto al profilo originale definito dalla Costituzione. Tra queste, vi sono i tentativi ripetuti e a volte riusciti di assoggettare i rappresentanti alla volontà di qualcuno. Qui sta il segno macroscopico della crisi dei partiti politici i quali, proprio come la rappresentanza che contribuiscono a creare, non sono equiparabili ad associazioni di interessi o a imprese private, nemmeno se (come la deludente proposta di legge ora in discussione vorrebbe) a contribuire alla loro esistenza sono direttamente i privati, con i loro finanziamenti e le loro donazioni. La crisi politica che si sta abbattendo sul Paese è il segno esplicito dell’assalto alla rappresentanza e ai partiti, del tentativo di catturarli nell’orbita di un qualche interesse particolare. Il fondatore, sponsor e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, strumentalizzando la debolezza oggettiva del quadro parlamentare, tiene da settimane sotto ricatto il Paese con la richiesta di conservare il seggio al Senato e quindi l’immunità parlamentare. Perciò ha imposto ai ministri del suo partito di dimettersi. Al momento dell’insediamento, questi ministri avevano giurato nelle mani del presidente della Repubblica con la seguente formula di rito: »Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione» .

La fedeltà alla legge e alla nazione può entrare in conflitto con altre fedeltà; non dovrebbe succedere ma può succedere. E quel giuramento serve a tutelare i ministri (e noi tutti) da possibili fedeltà a poteri che sono antitetici alla legge e all’interesse “esclusivo” della nazione. Berlusconi ha cercato di imporre ai “suoi” ministri di stracciare quel giuramento nel nome di una fedeltà superiore alla loro stessa coscienza e alla loro ragione (una richiesta umiliante, come si intuisce). Quale che sia il destino di questa maggioranza, l’immagine della Repubblica ne risulta gravemente compromessa. Se non corretta, la deturpazione della rappresentanza può cambiare la fisionomia della nostra democrazia, facendone un campo di battaglia tra due sovranità, quella della nazione e della legge e quella dell’uomo forte. Il rischio è altissimo. Da anni assistiamo ad attacchi all’autonomia delle istituzioni. L’emergenza che si sta consumando in queste ore è però di una gravità estrema. La lotta verte sull’autorità degli eletti dal committente: di chi sono i ministri e in quali mani hanno giurato? Se sono ministri della nazione essi non dipendono da nessuno in particolare e sono autonomi da ogni volontà. Lo stesso vale per i rappresentanti, come recita l’Art. 67 della Costituzione. La richiesta del mandato imperativo era già stata ventilata da Beppe Grillo, quando si avvide che una volta eletti in Parlamento i rappresentanti del M5S avevano il potere di rivendicare la loro libertà di decisione. Anche in quel caso si trattò di una lotta tra fedeltà inconciliabili: alla legge o alla volontà del capo di partito. La tensione ritorna periodicamente, e non sembra destinata a rientrare in tempi brevi.

Essa mette in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento o di chi, come ministro, giura fedeltà alla Nazione. Come sanno bene i partiti politici, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. La dignità delle istituzioni e quella personale coincidono. Da questa coincidenza dipende la nostra libertà come cittadini.
La tensione in corso nel Pdl sta a dimostrare che un partito politico non può essere un’azienda, anche qualora lo voglia il suo fondatore. Non lo può perché non può preventivamente escludere il dissenso interno e quindi la libertà dei suoi aderenti. Il partito politico è per necessità un’associazione pubblica e libera, insofferente a padronanze e a una dipendenza più o meno suddita. Ridare alla nostra democrazia la sua immagine originale, quella tratteggiata dalla Costituzione, significa mettersi sulla strada maestra della rigenerazione dei partiti politici e della rappresentanza. Liberando entrambi da lealtà private e da mesmerismi carismatici che mentre saziano le emozioni trascurano i problemi del Paese e deturpano l’immagine della nostra Repubblica.

Il manifesto, 28 settembre 2013
Fino a ieri dicevano che il problema non era il Movimento No Tav ma le sue frange estremiste e violente. Fino a ieri. Oggi la maschera è caduta. Con la criminalizzazione politica e mediatica finanche di Stefano Rodotà, con la riesumazione dei reati di opinione, con la perquisizione domiciliare nei confronti di Alberto Perino (leader storico del movimento) tutto è diventato più chiaro. Il nemico da battere è il Movimento di opposizione all'alta velocità in Val Susa. Ma la percezione della natura dell'operazione in corso comincia - qua e là - a farsi strada. Anche in alcune inchieste televisive e in alcune decisioni del Tribunale del riesame di Torino.

Così la corrazzata bipartisan degli sponsor dell'opera - la lobbie politico affaristico scoperchiata dall'arresto dell'ex presidente Pd della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti - spara le sue ultime cartucce, mettendo in campo persino - come tutore della legalità (sic!) - l'incredibile Angelino Alfano. Fin qui tutto secondo copione. Ma accade che tra i sostenitori dell'opera si arruolino anche intellettuali come Massimo Cacciari, spintosi ad affermare, in una recente intervista, che il Tav fa schifo, ma lo si deve fare perché così ha deciso la maggioranza. A fronte di suggestioni siffatte, che inquinano il dibattito, è bene ripassare i fondamentali.

Identificare tout court la democrazia con le decisioni contingenti della maggioranza è un pericoloso errore. Basti ricordare uno dei padri del pensiero liberale, quell'Alexis de Tocqueville che, nel 1831-32, scriveva: «Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere». Il senso è evidente e attuale.

Il principio di maggioranza serve per diffondere il governo delle società, sottraendolo all'arbitrio di uno solo o di pochi, ma una scelta ingiusta non cessa di essere tale sol perché adottata dalla maggioranza. Tanto ciò è vero che alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza, sulla scorta dell'art. 21 del progetto di Costituzione francese del 19 aprile 1946 secondo cui: «Qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza, sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Interessante ricordare che una analoga proposta («Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è un diritto e un dovere del cittadino») venne formulata alla nostra assemblea costituente dall'on. Dossetti e non fu approvata solo perché ritenuta implicita nel sistema...

La democrazia non coincide con il principio di maggioranza, che pure ne è uno dei cardini. Non per caso l'articolo 1 della nostra Carta fondamentale prevede che la sovranità del popolo si «esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». E tra i limiti invalicabili dell'attività legislativa e dell'azione politica ci sono quelli posti dagli articoli 9 e 32 a tutela dell'ambiente e della salute: i diritti previsti da tali norme hanno carattere assoluto, a differenza, per esempio, del diritto di iniziativa economica che - secondo l'art. 41 - è bensì «libera» ma «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

In questo contesto il confronto con le popolazioni e le istituzioni locali (mai realizzato in Val Susa, dopo il timido tentativo della fase iniziale dell'Osservatorio, presto superato dalla pregiudiziale secondo cui «di tutto si può discutere ma non della necessità che l'opera sia fatta»...) non è un lusso o un di più ma un passaggio ineludibile in un sistema democratico e continuare a ignorarlo realizza non solo una rottura sempre più difficile da sanare con la valle ma anche una ferita profonda alla democrazia dell'intero Paese.

Qualche anno fa - nel volumetto Imparare democrazia (Einaudi, Torino, 2007) - Gustavo Zagrebelsky ha scritto parole su cui farebbero bene a riflettere i troppi «maestri di democrazia» che pontificano sul Tav: «La ragione d'essere e di operare delle minoranze è la sfida alla bontà della deliberazione presa, nell'aspettativa di prenderne un'altra diversa. Per questo, ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond'è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

«Nell'ultimo libro di Mario Tronti,

Per la critica del presente il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna. Da qui la critica dell'autore ai movimenti sociali, ritenuti "un'istanza simbolica". Ma così facendo l'obiettivo di una "potenza politica organizzata" rimane una visione». Il manifesto, 26 settembre 2013

Voci e visioni.

È da questa partizione che converrà partire per intendere lo spirito che anima il breve scritto (breve solo quanto al numero di pagine che lo compongono, non certo ai temi che tocca) che Mario Tronti dedica alla critica del presente (Ediesse, pp. 152, euro 12). Voci, dunque. Non quelle di un dizionario, di un glossario, di un lessico aggiornato della politica. Che dizionari e lessici definiscono, non problematizzano le definizioni. Qui è invece la dimensione della ricerca a prevalere. Non a partire da un vuoto, o dalla pretesa di assoluto del «nuovo», che ha smesso di avanzare e si è prepotentemente accomodato. Ma muovendo dal lato ignoto, irrisolto, divenuto tale o forse mai del tutto compreso, delle «voci» che hanno segnato la storia e la politica del Novecento: Autonomia, Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi. È una tonalità, una Stimmung, quasi nietzschiana a pervadere questo scritto, a conferirgli la forza evocativa e, al tempo stesso, frammentariamente perentoria dell'aforisma. La consapevolezza, più lucidamente severa che rabbiosa, di una sorta di indebolimento patologico dell'epoca in cui viviamo, di una soddisfatta apatia su cui prospera il potere di pochi. Deriva, decadimento. E la necessità di tornare a «filosofare con il martello», senza timore di schiacciarsi le dita. Rompendo il senso comune, l'idea, vuoi compiaciuta, vuoi rassegnata, che non si diano alternative allo stato di cose presente, se non nei termini di modesti aggiustamenti o di un evoluzionismo beatamente e sconsideratamente ottimista. Un pensiero, insomma, che orienti il cambiamento senza subire l'egemonia di ciò che è dato, che compenetri l'agire collettivo conferendogli potenza creativa, solidità e durata.

Autonomia, dunque, è la voce decisiva, quella con cui tutte le altre debbono misurarsi. L'elemento fondativo che non si limita a regolare, ma abbatte e istituisce, distrugge e crea. Non c'è rottura dell'esistente senza scontro con il nomos che lo fonda. Ma «Autonomia» non unisce, divide. Non è semplicemente il punto di vista incondizionato di una parte, ma anche i punti di vista che la attraversano e la lacerano. Che si fronteggiano e si scontrano. È la politica stessa, non una sua prerogativa esclusiva. Non basta rivendicare l'autonomia della politica dai poteri economici che la hanno asservita o sostituita. Autonomia è anche dalla tradizione, dall'influenza di paradigmi logorati, dall'uso paralizzante della storia, da quel concetto di esperienza, oggi in gran voga, che ci sconsiglia dal tentare qualsiasi esperienza ulteriore. Individui e collettività, movimenti e partiti, classi e corporazioni, governanti e governati, stati e istituzioni sovranazionali si fronteggiano in nome della propria «autonomia», aspirano cioè a darsi la propria legge, all'esercizio in proprio della Politica. Dove sta, allora, il confine tra le pretese degli interessi particolari e la politica come autonomia? Sta appunto in quella determinazione a istituire altro, a costruire un diverso paradigma, a gettare le fondamenta di un nuovo assetto che il tempo presente ha escluso perfino dal campo del nominabile.

Gli incerti confini

Ma quale è la mano in grado di impugnare il martello? Una classe dirigente, una élite (una avanguardia?) - risponde Tronti - capace di trasformare il popolo impolitico del populismo nel popolo politico dei lavoratori e orientarne l'azione. I lavoratori dunque. Chi sono costoro? Un arcipelago dagli incerti confini, la piena occupazione tanto integralmente realizzata da includere financo il suo contrario, coscienza e inconsapevolezza, indipendenza e subalternità, competizione e coopeazione, rabbia e ottundimento. È il capitale, in primo luogo quello finanziario che scorre nelle vene dell'intero pianeta, a governare questo puzzle di contrasti, a impugnare saldamente il martello, e non per fare della filosofia. A imporre la prevalenza del «dentro» sul «contro», della rendita sui bisogni e le aspirazioni della collettività umana. Fuori da ogni contratto sociale e dunque da ogni mediazione. Il raggio di azione della mediazione politica si limita oggi a quanto dentro il patto sociale è rimasto, sia pure l'esagerazione simbolica del 99 per cento. È invece indifesa e inefficace nei confronti dei poteri che ne sono usciti verso l'alto, godendo della più piena autonomia. Ma fuori dal contratto sociale vi è solo un crudo rapporto di forze. Non si può mettere allora a tema la politica senza mettere a tema la violenza. Chiedersi di che cosa si tratti, quale sia la forza e il modo di esercitarla che vinca senza annientare chi la mette in campo e le sue ragioni. È una «voce» che manca, anche se tutte le altre (stato, partito, crisi), ne sono attraversate, nei loro geni e nella loro storia. E gran parte dell'umanità la subisce in forme quotidiane ed estreme. Voce roca o addirittura impronunciabile, che Luisa Muraro ha preso in esame non molto tempo fa con un coraggio inconsueto per i tempi che corrono.

I lavoratori e l'élite dunque. Ma come si configura questo rapporto a partire da una condizione disomogenea, stratificata, perfino contraddittoria? Forse il motore delle lotte e la soggettività che le organizza non possono più essere pensati come un gruppo dirigente (che si rivela, più che altro, rissosa estensione della politica personalizzata). Piuttosto come un luogo di elaborazione, un blocco teorico e un tavolo operativo al quale si sovrappongono e si susseguono diversi commensali, portandovi sapere diffuso e molteplice esperienza, all'altezza del tempo presente e a confronto con la vita reale. Autonomia che non germoglia dalla separatezza, dalla professione intesa come corporazione, ma dall'aver appreso a orientarsi tra i paradossi della contemporaneità.

Il cattivo nuovo

Si dice che le rivoluzioni divorino i propri figli, e anche i loro padri. Lo si è visto, sempre. Che se così non fosse non si tratterebbe di rivoluzioni. Tra Rivoluzione e Partito non c'è rapporto lineare, c'è attrito, c'è contraddizione. La fondazione travolge i fondatori, e forse sarà proprio per questo che nessuno intende fondare più nulla. Ma Rivoluzione di tutte le «voci» è la più impronunciabile, in un tempo in cui non vi è tecnologo, pubblicitario o mattatore che non annunci quotidianamente la sua «rivoluzione». Rassegniamoci, non è una faccenda all'ordine del giorno, se non in questa inflazione retorica del termine.

Partito non gode di miglior fama. «Casta» o forse, più precisamente, milizia mercenaria, quella di cui Machiavelli ci invitava a diffidare, pronta a tradire per maggior guadagno e incline a fingere di menar le mani senza farsi troppo male. Ma non è vero che i partiti non rappresentino - scrive Tronti - rappresentano fin troppo, riproducono l'esistente, rispecchiano, non hanno nulla da dire o da proporre, inseguono i vizi e i capricci della cosiddetta società civile. Vero. Eppure c'è un rispecchiamento «contro». Quello che rovesciava l'organizzazione di fabbrica nel partito operaio, l'esercito industriale in esercito rivoluzionario. E oggi? Quali caratteristiche, quali forme dei poteri che ci dominano possono essergli rovesciate contro? Questo è il problema del partito oltre il partito, della «macchina da guerra», quella vera, non quella «gioiosa» della guerra dei bottoni. Il problema di maneggiare la realtà, compreso il «cattivo nuovo» che la pervade. Qualcuno, guardando al capitale finanziario, indica la parte dei debitori, la loro organizzazione contro la rendita (Maurizio Lazzarato), il sacrosanto rifiuto di pagare i costi della crisi, di piegarsi alla potenza del denaro che produce denaro. È un terreno interessante, temuto dai padroni della finanza, ma accidentato, infestato di compromissioni, minacciato da derive nazionaliste.

Oggetto della visione è invece la sinistra. Ci vorrebbe Bernadette per carpirne i segreti. Ha perduto molto. Cultura, radicamento, qualità antropologiche, concezione del mondo. Le ha tentate tutte: strategie mimetiche, «alleggerimenti», lo smart e il cool. Ha preso commiato dal vecchio linguaggio, ma non ne ha creato uno nuovo oltre l'imitazione impacciata di quello del mercato. Si è arenata sulla secca della «responsabilità». Ecco: essere di sinistra è essere responsabili! Verso chi e che cosa? Verso i patti a cui il capitale ci vincola senza esserne vincolato? Verso la Nazione e l'idea di popolo che ne discende? Verso il sistema delle leggi esistenti? Verso le regole della competitività? Poco importa, la «responsabilità» è diventata una qualità senza referenti, una sacralizzazione del limite che lo sottrae alla contingenza e lo proietta verso l'eternità. È la mancanza di alternative come dogma e come identità. Ma sinistra non è solo questo. C'è una storia e un retaggio concettuale che la collocano dalla parte degli oppressi, che oppongono il basso all'alto, un pensiero che svela gli equilibri oligarchici del potere e ricerca gli strumenti per scardinarli. C'è o c'era? Sinistra può ancora significare questa scelta di campo?

L'impasse della ambivalenza

I movimenti dal basso - scrive Tronti - sono la domanda, non la risposta. Idea non realizzata, ma da realizzare, una «istanza simbolica». Non credo sia produttivo porre la questione in questi termini. Né l'una, né l'altra cosa. Nella domanda stessa c'è buona parte della risposta, nell'idea i criteri della sua realizzazione, nelle forme dell'agire un principio di organizzazione, non testimonianza simbolica, ma imposizione di stati di fatto, pratica dell'obiettivo, come si diceva una volta. Certo, i movimenti possono perdere e, da un bel pezzo, continuano a perdere. Ma non è così anche per le forze organizzate della sinistra? Da dovunque partiamo siamo nella stessa impasse. Ma se non altro i movimenti quando perdono la partita lo capiscono ed è solo questa comprensione che permette di ricominciare, di radunare le fila e andare avanti. Se vi è un luogo dove l'autonomia, del pensiero e della pratica, ha ancora cittadinanza, è lo spazio dei movimenti. L'unico nel quale la politica si sforzi di sciogliere le ambivalenze del presente. Non ci riesce? Non basta? Certo che non basta. Ma se continuiamo ad attenerci allo schema delle masse che chiedono, delle élites che ascoltano, raccolgono e traducono in programma, già per il fatto che tutto questo non è accaduto, non accade né promette di accadere, i contorni di una «potenza politica organizzata» resteranno una visione, per la quale, appunto, servirebbe la mediazione di Bernadette.

Denaro crea denaro crea potere crea denaro... è l’uroboro, serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la Polis. Azione suicida tra pratiche oscene nel rapporto tra politica ed economia, dominato da religione del Mercato e mito della crescita.

LaRepubblica, 26 settembre 2013

Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros,dove ourà staper “coda” e boròs sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.

C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari:«crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit»(Giovenale,Satire,V, II, 140-1, che aggiunge:«Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.

Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici.

Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio.

Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.

Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza,irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.

Abbiamo udito, e forse qualcunosi ricorda, l’affermazioned’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solo con qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.

Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica,sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide,La guerra del Peloponneso,II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.

Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e rico-struita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute — è vero — dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme — quelli indicati nella prima parte della Costituzione — tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.

Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.

Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno, stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?

NotaSi inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. L’intervento di Zagrebelsky sarà svolto oggi, 26 settembre, alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati

«Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là. il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva».

La Repubblica, 23 settembre 2013

A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su
 Rinascita 
tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire,
di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.


Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in
Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.


Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.
C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo
 aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».
Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera,
Amarcord,
 rivolte nelle carceri e
 Jesus Christ superstar.


Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra,
davanti a parecchi fogli».
Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un...». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.


Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò
 Gorresio; «vaga e rozza», scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui - ma in verità disse “anche noi” e non era
plurale maiestatis,
 ma il più profondo sintomo d’identificazione - parlava di calcio.


A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso
storico teneva insieme due termini in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro - e suonò inaudito - che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno
se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» - ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi,
 Er compromesso rivoluzzionario.
Più tardi il Bagaglino mise in scena
 I compromessi sposi.
Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.


Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.

In eddyburg potete trovare un'intera cartella dedicata scritti di e su Enrico Berlinguer.

«La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri».

La Repubblica, 23 settembre 2013

LO STATO laico è un aspetto della secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al saeculum; da Dio agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio.
La secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una dimensione trascendente della vita collettiva. Senza una forma di trascendenza, non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta, e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra».

Ciò che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal monopolio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti, esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le teorie politiche di questa concezione. Non esistono più sovrani di diritto divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del popolo o della nazione.
Noi siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme, formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più, non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di soddisfarla è vario nel tempo.

Quest’esigenza, che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”. Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti?

Qui entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente. Più si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio, della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, la religio civilis, cioè il culto dovuto ai propri dei, assurgeva a fondamento della virtù repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana.

Facciamo un salto nel tempo. Nell’ “allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici dell’Antico Regime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione, entrava in vigore la Legge di pratile, la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso: “dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento e, perfino, “terrore”.

In un saggio del 1967, dal titolo La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà». Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla” individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime che voglia rendersi assoluto.

La denuncia teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti, è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità, l'invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria: la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humus s’innesta una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società. Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste – secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una volta, la veste confessionale.

Il Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il “mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi a fianco dei non cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro. Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare le proprie verità.

Ora, il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi, le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è mai abrogato definitivamente).

Uno spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole del papa attuale, Francesco. Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti».
Nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di «cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare un tratto di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione ».

In ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però, raggiungere la pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano “in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo” tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia.

Tutti siamo nella dimensione del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del “tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro che si protendono la mano sarebbe necessaria.

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The Guardian, 10 settembre 2013 (f.b.)

Titolo originale: Italy's racism is embedded – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Settimana scorsa a Roma poco prima della visita del ministro Cécile Kyenge, prima esponente di pelle nera a occupare questa carica, sono stati trovati davanti all'edificio pubblico dei manichini spruzzati di finto sangue. E sparpagliati dei volantini che dicevano: “L'immigrazione è genocidio dei popoli, Kyenge dimettiti!”. Si tratta solo dell'ultimo di una serie di sconvolgenti attacchi e minacce da quando la Kyenge è entrata in carica a aprile. L'ha paragonata a un orango un ex ministro; l'ha accostata a una prostituta un vicesindaco; le hanno scagliato addosso delle banane mentre teneva un discorso.

Con la sua nomina non solo ha gettato luce sui problemi del paese con la tolleranza razziale, ma si è anche cominciato a capire quanto sia stereotipato il concetto di italiano caro e gentile, affettuoso e sorridente, capace soltanto di cercare le migliori cose. Un popolo in fondo più mediterraneo che europeo, magari un po' disorganizzato, ma sempre pronto ad accogliere tutti a braccia aperte, mai a insultare o minacciare. Un'idea riassunta dal modo di dire “italiani brava gente” [in italiano nel testo n.d.t.]. Questa è l'idea che mi ha condotta in Italia a preparare il mio libro. Perché contrastava con l'esperienza di mio nonno, della sua generazione che aveva combattuto contro l'invasione fascista dell'Etiopia, subendo poi cinque anni di occupazione italiana. Una contraddizione che mi ha portata a Roma, dove ho abitato per parecchio tempo, e dove ho fatto ricerche negli archivi dell'era coloniale.

Benito Mussolini e il suo partito fascista hanno governato dal 1922 al 1943, periodo nel quale l'Italia ha costruito il suo impero allargandosi dalla Libia, Eritrea e Somalia. Nel 1935 viene invasa l'Etiopia. Quel popolo subisce in modo devastante e contemporaneo un assalto dall'aria e da terra. Vengono usati i gas, i campi di concentramento, i massacri. Tattiche che l'Italia aveva già usato il Libia, nel corso di una brutale guerra durata trent'anni, ed eufemisticamente definita “campagna di pacificazione”.

I resoconti dalla guerra di Etiopia erano regolarmente censurati, e gli articoli enfatizzavano invece la missione civilizzatrice del paese. Il linguaggio dei pezzi è accuratamente scelto per per convincere gli italiani non solo del loro diritto ad occupare quel territorio, ma delle ottime intenzioni del gesto. Si sottolineano le realizzazioni di infrastrutture, senza dire che quelle strade, ponti, linee telefoniche, servono a migliorare le comunicazioni tra le forze militari, e costano anche vite umane per la costruzione. Certo il tentativo dell'Italia di mascherare gli aspetti sanguinari delle proprie ambizioni imperiali non è diverso da quello delle altre potenze coloniali, ma la cosa che colpisce è la quasi assenza di queste cose dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996 – 60 dopo gli eventi – il ministero della difesa italiano ammetterà che sono stati usati i gas.

La Germania ha avuto il Processo di Norimberga, il Sud Africa la sua Commissione per la Riconciliazione, ma in Italia manca del tutto quel tipo di bilancio post-bellico che obbliga a far luce sugli aspetti più gravi, e iniziare il difficile percorso di riconciliazione. Questi momenti di riflessione collettiva ci hanno dimostrato come affrontare fatti dolorosi possa contribuire a costruire una memoria condivisa, fissare un ethos, sviluppare un dialogo. Unire quelli che avevano il potere di colpire, e quanti hanno quello di perdonare. Attraverso questo tipo di linguaggio un paese si trasforma, costruisce identità nazionale. Dal momento dell'unificazione nel 1861, l'obiettivo dell'Italia è stato di forgiare unità a partire da gruppi straordinariamente diversi e spesso in conflitto. C'è una frase molto nota, attribuita allo statista Massimo d'Azeglio, che recita: “Abbiamo fatto l'Italia. Adesso dobbiamo fare gli italiani”. Qualunque carattere collettivo deriva da una consapevole e attenta costruzione. E storicamente questa costruzione comprende la pelle bianca. Quanto la presenza della Kyenge mette in discussione.

L'Italia, che le piaccia o meno, sta subendo una trasformazione. Nuovi italiani di prima e seconda generazione, e italiani da sempre, la stanno innescando: lottano contro leggi discriminatorie, e lottano non solo per una maggiore consapevolezza del passato, ma anche per le potenzialità del futuro. C'è speranza, ma molta strada da fare. Ricordo di una cena a Roma insieme a degli amici e colleghi. L'occasione festosa fu guastata da un commento urlato a proposito del colore della mia pelle, condito da allusioni sessuali. Gli amici attorno a me erano esterrefatti. Mi guardai attorno, e c'era un anziano che mi faceva l'occhiolino. Alle mie proteste rispose con una risata e sollevando le mani. E immediatamente tornò alla sua conversazione, ignorandomi.

Se non si fosse fatto caso a quel che aveva detto, la scena poteva sembrare quella di un piccolo equivoco da parte di un simpatico signore, e una reazione un po' esagerata. Insomma un altro italiano bonaccione, uno della “brava gente”. Certo gli attacchi alla Kyenge sono molto più violenti: difficile vederci l'italiano gioviale. Ma il mito resiste, finché non si interviene in qualche modo contro i politici e i gruppi che ne sono responsabili. Ci deve essere una riflessione nazionale che coinvolga tutti. Ascoltato dell'ultimo insulto alla Kyenge, ho sentito un'amica italiana di origine somala per chiederle cosa ne pensa. “Questo è il mio paese – mi ha risposto – e lavoriamo per cambiarlo. Ora più che mai l'Italia ha bisogno di persone come me”.

Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg un'intera cartella raccoglie scritti su "italiani brava gente". In particolare vi raccomando gli scritti di Nello Aiello, Angelo Del Boca e moltissimi altri che scoprirete sfogliando le pagine dei sommari di quella cartella.

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