il manifesto
«Dopo il voto. Per evitare un possibile sfibramento del sistema politico o i 5Stelle scelgono la via consociativa (con la destra) o confluiscono come perno in un nuovo centrosinistra»
Secondo una visione prevalente, il deficit della sinistra era quello di avere paura del leader. E quindi la ricetta vincente consisteva nell’accelerare le procedure verso i riti di investitura del capo.
Esiste una slavina lunga che coinvolge Prodi, Veltroni e precipita sino a Renzi che ha scelto la destrutturazione di antiche cose della sinistra. Non solo le sezioni, ma persino i circoli erano sopravvivenze vetuste. Non si tratta di una semplice modellistica dell’organizzazione. L’opzione per le primarie aperte nella corsa verso il partito leggero presidenzializzato, che eliminava la parola stessa congresso sciogliendola nei gazebo, sanciva la de-ideologizzazione del soggetto politico e la sua omologazione alle pratiche di un partito delle cariche elettive, senza radici identitarie per la rinuncia ad ogni idea di società da progettare con la grande politica.
La slavina che ha disgregato
la sinistra politica
La marcia della Lega nelle antiche regioni dell’insediamento comunista rappresenta la più rilevante cesura in termini storico-politici avvenuta nel voto di marzo. La destra ha spiantato le ultime finzioni di un partito erede della tradizione del civismo del movimento operaio e contadino, e ha mutato radicalmente la geografia delle culture politiche. Non esiste più l’Italia rossa, e tutti i simulacri politici che la ricordavano sono stati falcidiati.
Le conseguenze di questa mutazione genetica dell’Italia di mezzo sono incalcolabili. Collassa ciò che di residuale restava ancora di una subcultura che anche come area di cuscinetto garantiva una sorta di collante nazionale capace di frenare le pulsioni di destra che nel nord produttivo erano diventate dominanti nella seconda repubblica. La differenziazione territoriale tra un centro nord a forte trazione leghista e un centro sud a trascinamento 5Stelle rappresenta una incognita nella capacità di persistenza del sistema politico. Se la polarizzazione tra destra e M5S è al tempo stesso una frattura tra gli spazi, e se le proposte economico-sociali alternative (reddito di cittadinanza o politiche redistributive e flat tax o Stato minimo in funzione dei produttori) si legano a un antagonismo a fondamento territoriale è evidente il rischio di sfibramento del sistema.
O si dà un approdo consociativo alla eruzione determinata dalle urne per ricucire il sistema (governabilità condivisa tra i due vincitori) o i Cinque stelle confluiscono, come componente egemonica, in un schieramento plurale di forze di centro e di sinistra ostili alla destra: oltre queste evoluzioni sistemiche, si restringono i margini per aggiustamenti disegnati da una forte spinta di sinistra.
L'altro grande malato: il sindacato
Ma il dato politico della crisi del sistema non può offuscare il volto dell’altro grande malato: il sindacato del conflitto. Malconcia, oltre a quella dei simulacri di partito, pare anche l’immagine del sindacato: non solo non orienta voti alle espressioni politiche “amiche”, ma palesa una perdita di insediamento e un deficit di cultura politica che ne dissolve la funzione storicaAl centro nord l’operaio atomizzato e senza classe è stato sedotto dal verbo leghista (con più marcate adesioni però, e anche tra i quadri, verso il simbolo del M5S) e al centro sud è stato attratto dalle rivendicazioni sociali del M5S. Solo in questi termini deteriori il sindacato conserva una parvenza di coesione nazionale.
Si sgretola la connessione tra classe e politica, e il sindacato privo di rappresentanza appare come destinatario di una pura delega corporativa. Ciò segna la crisi radicale del sindacato, che non riesce più a pensare in termini politici. Dinanzi alla lunga caduta del partito amico incapace di interpretare un ruolo nei conflitti della società, al sindacato restava una ined
ita opzione strategica, che però non è stata afferrata: invertire il rapporto gerarchico novecentesco tra partito guida e sua cinghia sindacale per farsi regista di un nuovo partito del lavoro, espresso dalle forze organizzate.La formula della «coalizione sociale» qualcosa del genere comportava, ma è scomparsa e non ha lasciato né invenzioni organizzative né precisazioni politiche. Se la Lega è il tribuno del Nord e il M5S diventa il tribuno del Sud ciò vuol dire che non solo la politica ma anche il sindacato ha contribuito alla crisi democratica.
Certi discorsi interrotti, su come innestare soggetti del pluralismo sociale con la ridotta identitaria che comunque ha consentito di varcare la soglia di sbarramento,vanno al più presto riannodati.
I sottotitoli sono nostri [n.d.r.]

La "mossa del cavallo di cui si parla La mossa del cavallo proposta da Paolo Flores d’Arcais a Luigi Di Maio potrebbe riuscire non solo a risolvere nel modo più avanzato lo stallo post-elettorale, ma darebbe anche corpo ai più profondi desideri del popolo della sinistra, oggi ridotto a «volgo disperso che nome non ha»: un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una piena attuazione del progetto della Costituzione.
Un simile governo, argomenta Flores, non potrebbe che essere sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali. Ora, è perfettamente legittimo che il Pd decida di rigettare questa proposta, ma è davvero impossibile condividere le considerazioni di ordine politico, e addirittura morale, che vengono in queste ore avanzate per giustificare un simile diniego.
Per bocca di molti suoi autorevoli dirigenti, il Pd ha affermato che sostenere un governo insieme ai 5 Stelle significherebbe tradire il mandato degli elettori, i quali – si dice – avrebbero voluto collocare il Pd all’opposizione. Per rispettare questo mandato, dunque, il Pd sarebbe disposto ad accettare l’eventualità di un governo del centrodestra a guida Salvini, o quella di una lunga assenza di un governo. «Siamo incompatibili con i 5 stelle», ha detto Andrea Orlando. «Non c’è bisogno di dire che siamo all’opposizione. C’è bisogno di dire che ci siamo presentati con una proposta alternativa ai Cinque Stelle e che, pertanto, non possiamo farci un governo», ha aggiunto Carlo Calenda.
Alla base di queste dichiarazioni non c’è solo l’intollerabile ipocrisia di chi – in regime maggioritario – ha governato con i voti di Verdini e formato governi con i vari Lupi e Alfano. C’è, più profondamente, una sostanziale incomprensione della legge elettorale voluta dallo stesso Partito Democratico, oltre che una radicale ignoranza dei meccanismi elementari del funzionamento di una repubblica parlamentare.
Il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisca la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’articolo 48 della Costituzione.
Invece, in queste ore si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica la convinzione che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile proprio a causa del Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere.
Dal voto emerge che nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). La realtà è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%).
In effetti, il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.
Dati questi numeri, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? Evidentemente, auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!
Come si può leggere qui (e pur con tutte le cautele del caso), l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta né se si fosse votato con il Porcellum, né se si fosse votato con Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.
Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebbe certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.
Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge (basti ricordare che sono state dalla Consulta tra l’altro motivate proprio con riferimento alle modalità del ballottaggio, eccessivamente distorsive della volontà popolare). A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà.
La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali. Possibile sia tanto difficile cogliere che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri? Nelle situazioni come quella in cui ci troviamo, il compromesso politico trasparente e argomentato non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è certo della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali (altro è l’«inciucio», vale a dire l’accordo esclusivamente rivolto alla spartizione del potere).
Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un soggetto in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare dei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme furono realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.
Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico separato in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di costruire consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri.
E qui si tocca un punto cruciale per la tenuta stessa della nostra democrazia. L’articolo 67 della Costituzione stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I vertici del Movimento 5 Stelle, sbagliando, vorrebbero sopprimere o limitare decisivamente questo articolo, sperando di fermare così la piaga del trasformismo parlamentare e di tagliare le unghie al dissenso interno. Ma per disincentivare decisivamente il trasformismo si possono usare altri mezzi assai efficaci (per esempio la riforma dei regolamenti parlamentari, come peraltro si è appena fatto al Senato), senza toccare questa fondamentale difesa del dissenso come forza vitale della democrazia. Ma il fascino del vincolo di mandato è oggi fortissimo: e proprio a causa della suggestione del modello maggioritario, che semplifica per via irriducibilmente oppositiva la dinamica parlamentare. In una sostanziale negazione della democrazia indiretta mediata dalla rappresentanza si pretende che l’elettore vincoli non solo il singolo parlamentare, ma tutto il gruppo e il partito, rendendo di fatto inutile l’esistenza stessa del parlamento (basterebbe far votare i capigruppo) e rendendo impossibile (in un sistema proporzionale) la creazione di un governo.
Ora, non sarà sfuggito che ad agire, di fatto, come se nessun vincolo ci fosse, e dunque a interpretare nel modo più maturo e virtuoso le dinamiche della democrazia indiretta e del libero gioco del Parlamento è oggi proprio il Movimento 5 Stelle con Luigi Di Maio. Mentre sono Matteo Renzi, la dirigenza Pd e una larga parte dei commentatori politici (per esempio su “Repubblica”) a pensare e ad esprimersi come se il vincolo di mandato ci fosse eccome, e dunque come se fossimo in una democrazia (più) diretta, negando ogni margine, e dunque ogni senso, alla dinamica del Parlamento.
Questo ribaltamento di ruoli è assai eloquente. Certo a causa della sua posizione di vantaggio, ma oggi è un fatto che il Movimento 5 Stelle sta dimostrando di saper giocare con senso di responsabilità istituzionale sulla scacchiera di un sistema parlamentare e proporzionale.
Si tratta ora di andare fino in fondo: fino ad accettare di compiere la mossa del cavallo proposta da Paolo Flores. A quel punto sarebbe il Pd a dover dimostrare che l’uscita di scena del plebiscitarismo renziano può segnare il ritorno alla pratica delle virtù politiche e alla piena accettazione del funzionamento di una democrazia parlamentare senza vincolo di mandato.
La mossa del cavallo sarà fatta? E la contromossa sarà adeguata?
Con il fascioleghismo che incombe e con il Paese devastato da povertà e diseguaglianze la posta di questo gioco è altissima: è il futuro della nostra stessa democrazia.
La “mossadel cavallo" (nel gioco degli scacchi il cavallo fa un passo avanti e uni di fianco) consisterebbe nel fatto che «il Movimento 5 stelle proponga al capodello Stato un governo con gli elementi portanti del proprio programma, la cuiguida sia affidata a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministritutti della società civile. Sarebbe difficile, per i parlamentari Pd, anche serenziani, dire di no a una proposta che il presidente Mattarella presentasse (eche sarebbe) come la soluzione migliore per l'interesse generale».
«Durand e Spinelli - I due eurodeputati di sinistra ai Dem: “Compiacersi all’opposizione non è all’altezza della sfida”»
“Quando il 13 marzo Matteo Renzi ha annunciato le sue dimissioni dalla guida del Partito democratico dichiarando che il posizionamento naturale delPd sarà ora all’opposizione, ha incitato i sostenitori del negoziato con il Movimento Cinque Stelle a esprimersi apertamente.
E dunque noi osiamo dirlo apertamente. Pensiamo che il Partito democratico debba tentare un negoziato con M5S e Liberi e Uguali.
Noi, figli di militanti antifascisti, di chi ha resistito all’oppressione e all’odio, noi che ricordiamo ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato: che il fascismo si alimenta sempre della codardia e della rassegnazione degli altri, oltre che dell’ostinazione a preservare, sia pure momentaneamente, l’illusoria purezza della loro immagine.
Noi, parlamentari europei, noi che a ogni scadenza elettorale vediamo l’estrema destra avanzare, i ripiegamenti identitari rafforzarsi, gli autoritarismi crescere, noi che vediamo la democrazia ovunque in pericolo.
Noi, responsabili politici espressi da movimenti e partiti diversi, che lavoriamo quotidianamente con gli eletti del Movimento Cinque Stelle e che sappiamo come le nostre voci si uniscano sempre nel Parlamento europeoquando si tratta di promuovere la solidarietà e la democrazia.
Noi, con l’umiltà e la gravità che ci conferisce il nostro mandato europeo, al servizio di 500 milioni di cittadine e cittadini europei, vi chiediamo di mettere per un istante da parte le posture e petizioni di principio, i calcoli elettorali o le valutazioni d’immagine e di tentare tutto ciò che è in vostro potere per permettere all’Italia di dotarsi di un governo nel quale l’estrema destra non avrà posto.
Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto una sconfitta elettorale per il Partito democratico, non lo neghiamo. Ma gli sconfitti non escono dalle battaglie godendo di speciali esenzioni dalle proprie responsabilità Compiacersi in una confortevole opposizione, rinunciare a sporcarsi le mani col pretesto che i vostri alleati potenziali non sono di vostra convenienza, non è un comportamento all’altezza della sfida di oggi, cioè difendere in Europa i diritti e le libertà fondamentali, i principi comuni sui quali si è costruita l’unione del nostro continente.
Diceva Charles Péguy che la filosofia politica di Kant ha le mani pure ma è purtroppo sprovvista di mani. La stessa cosa si può dire di tutti i responsabili che scelgono di guardare altrove quando il fascismo è alle porte, con la scusa che per fare argine dovrebbero unire le proprie forze ad alleati troppo imperfetti.
Voi non siete obbligati a voltarvi dall’altra parte. Avete la capacità concreta di costruire nelle prossime settimane l’alternativa a un governo che aprirebbe le porte al nazionalismo, al razzismo, alla xenofobia. Forse non avrete successo. Ma avete la facoltà di tentare. E le radici filosofiche e politiche del Partito Democratico rendono questa facoltà un dovere. Cari amici del Partito democratico, ci sono scenari ben peggiori di quello, indicato da Renzi, di divenire “la stampella di un governo anti-sistema”. Potreste diventare il predellino di un governo neo-fascista.
Pascal Durand èeurodeputato francese dei Verdi. Barbara Spinelli è eurodeputata del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl)
il manifesto,
«L’animo nostro informe. Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina»
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza. In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
Non è una "sconfitta storica, storica", come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un "esodo". Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’altra parte un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità.
Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici…
Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
Invece niente: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
Si discuterà a lungo degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
Per questo non basta fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
postilla
Forse se non si rimanesse ancorati a ciò che era la Sinistra nel millennio scorso e, partendo da una riflessione su quella preziosa eredità storica, si cercasse si comprendere quali sono oggi, nel nostrosecolo, le condizioni, le occasioni e i compiti di una politica che volesse significare oggi ciò che la sinistra storica ha espresso a suo tempo, si potrebbe fare qualche passo avanti. Noi l'abbiamo tentato, nell'articolo "La parola sinistra". Provate a leggerlo
Internazionale giornale,
Negli anni trenta mio padre ha perso due zii in una battaglia contro i fascisti ad Al Jawsh, un paesino nella Libia occidentale a ventisette chilometri circa da Shakshuk, la città d’origine di mio padre e della nostra tribù. Quel giorno per i tre fratelli era cominciato proprio come nella canzone Bella ciao: “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”. Mio nonno è stato l’unico a sopravvivere. Si chiamava Khalifa.
Non ho conosciuto mio nonno, tutto quello che so di lui viene dai racconti che me ne faceva mio padre quand’ero bambino. Quelle storie sono una delle poche cose che condividevamo. Io preferivo i racconti di mia madre, non solo perché mi è più vicina ma anche perché mi descriveva le persone e il loro modo di vestire, di camminare e di parlare, e poi i luoghi e gli odori, i colori e le sensazioni che lei provava.
Ricordo un cartone animato che io e mio fratello adoravamo guardare da piccoli. In uno degli episodi c’era la storia di due fratelli che litigano in continuazione e che per questo finiscono trasformati in cani (credo c’entrasse la magia, ma non lo ricordo con precisione). Mio padre, in silenzio fino a quel punto, sorrideva e diceva: “Visto cosa è successo? Se continuate a litigare capiterà lo stesso anche a voi”.
Gli ultimi testimoni
Ci sono alcune persone, come mio padre, che danno continuamente lezioni di vita, e altre, come mia madre, che ti raccontano una storia e poi lasciano che sia tu a trarre le conclusioni. Da quando sono diventato adulto, forse il periodo più lungo che ho trascorso da solo con mio padre è stato l’anno scorso, quando per qualche settimana è stato ricoverato in ospedale mentre Tripoli era sull’orlo di un’altra lotta tra milizie. Io e mio fratello avevamo deciso di fare turni di ventiquattr’ore per stare con lui, così da essere sicuri che non sarebbe rimasto da solo in caso gli scontri avessero bloccato le strade in direzione dell’ospedale.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Ho capito allora che i testimoni dell’epoca dell’occupazione italiana e della seconda guerra mondiale sono anziani, e che i ricordi di queste generazioni spariranno con loro. Senza le loro voci, nessuno potrà più parlare di quell’epoca a partire da un’esperienza personale e l’unica fonte a nostra disposizione resterà il sapere che ci ha trasmesso il regime, con una notevole “sintesi” storica. Questo ha determinato un divario tra le generazioni, e tutte le volte che si crea un divario si crea anche la necessità di riempirlo. Oggi il dibattito su quell’epoca è complicato, e nessuno è interessato a comprendere le complessità.
Per esempio, agli studenti a scuola non s’insegna che molti libici collaborarono con i fascisti, che intere brigate e molti capi tribù lavorarono e combatterono per loro e si divisero al proprio interno per questo. Non leggiamo delle reclute che marciarono al fianco dei soldati italiani per conquistare l’Etiopia. Per non parlare del dibattito sui crimini commessi contro gli ebrei libici: era ed è ancora un tabù. In realtà alcune delle famiglie più ricche nella Libia di oggi devono la loro prosperità a quel periodo, ai soldi e alle proprietà che rubarono agli ebrei costretti a lasciare il loro paese.
Alle generazioni postbelliche sono stati insegnati solo alcuni fatti, che non potevano in nessun modo essere contestati. Per più di quarant’anni il governo libico ha scelto di ignorarne alcuni e amplificarne altri. Lo strumento principale è stato il Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici. Fondato nel 1977 con il nome di Centro per le ricerche e gli studi sul jihad libico, nel 1980 era diventato il Centro del jihad libico per gli studi storici. Questo centro è stato istituito soprattutto con l’obiettivo di “condurre ricerche di tipo documentario, raccogliere manoscritti, documenti e opere legate al suo scopo, e documentare tutte le fasi del jihad libico contro la colonizzazione italiana”. Il 24 marzo 2009 lo hanno unito al Centro nazionale per i manoscritti e gli archivi trasformandolo appunto in Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici.
All’inizio del 2009 era stato diffuso un “annuncio importante”: “Il Centro del jihad libico sta registrando i nomi dei fratelli che hanno combattuto con l’Italia in Abissinia, Eritrea, Somalia e nella seconda guerra mondiale, e gli impiegati e gli operai libici che hanno collaborato con l’amministrazione coloniale italiana dal 1911 al 1942. I fratelli in questione, i loro nipoti o parenti devono affrettarsi per andare al centro del jihad di Tripoli o alle sue filiali in tutta la Jamahiriya (Libia) per riempire il modulo di registrazione”.
Perché questo improvviso interesse per un argomento fino ad allora trascurato? Il motivo per cui il Centro era stato incaricato di preparare quelle liste è che il governo italiano aveva accordato “il ripristino del pagamento delle pensioni ai titolari libici e ai loro eredi che, sulla base della vigente nominativa italiana, ne abbiano diritto”, secondo quanto si leggeva nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Libia e la repubblica italiana firmato a Bengasi nel 2008.
È come se annunciaste la possibilità di pagare i collaboratori del regime nazista nei paesi europei occupati dalla Germania durante la seconda guerra mondiale, compresi quelli che hanno lavorato nei campi di concentramento nazisti e quelli che hanno contribuito a reprimere la resistenza. Quante persone o familiari sarebbero orgogliosi di fare un passo avanti e annunciare che il loro padre o nonno hanno collaborato con i fascisti e ritirare la loro pensione? Non molti, immagino, ed era proprio questo lo scopo di quell’articolo: per quanto umiliante possa essere, non sarà mai davvero applicato, non è altro che un trucco dell’accordo.
L’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha dichiarato a proposito dell’accordo: “C’è un riconoscimento completo e morale dei danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo coloniale”. Nonostante le dichiarazioni, esaminando gli articoli del trattato e prestando attenzione non solo a quello che è scritto ma anche a quello che non è scritto, si nota qualcos’altro.
“L’Italia, sulla base delle proposte avanzate dalla Grande Jamahiriya e delle successive discussioni intervenute, si impegna a reperire i fondi finanziari necessari per la realizzazione di progetti infrastrutturali di base che vengono concordati tra i due Paesi nei limiti della somma di cinque miliardi di dollari americani, per un importo annuale di 250 milioni di dollari americani per 20 anni”. Il pacchetto di risarcimento comprende progetti di costruzione, borse di studio per studenti (cento) e pensioni per i soldati libici che hanno prestato servizio nell’esercito italiano durante il periodo coloniale.
Se avessero davvero voluto risarcire le vittime dei fascisti, avrebbero dovuto offrirsi di pagare le vittime dei campi di concentramento e dei tribunali militari, che hanno condannato a morte tanti libici dopo processi sommari. Quello che è stato vagamente annunciato come un “risarcimento completo e morale” non è andato oltre quella frase.
Di fatto l’accordo non solo ha ignorato i crimini dei fascisti, ma ha cercato di premiare i libici che hanno contribuito a commetterli. In quei campi di concentramento è stato ucciso un terzo della popolazione della Cirenaica: quelli che non sono stati giustiziati o non sono morti a causa di epidemie, sono morti di fame o uccisi dalle lunghe marce forzate”. Tutto ebbe inizio quando Mussolini – “il più grande bluff d’Europa”, come lo definì Hemingway – assunse il controllo dell’Italia.
Il genocidio libico
Dopo la marcia su Roma, Mussolini dichiarò dal suo balcone che avrebbe reso di nuovo grande l’Italia. Forse offrì alla folla eccitata una delle sue pose da supereroe; per lui quel balcone era l’equivalente di un account Twitter. La Libia era il primo articolo da spuntare nella sua lista di cose da fare per rendere di nuovo grande l’Italia, e così iniziò la “pacificazione della Libia”, o meglio il “genocidio libico”.
La campagna partì nel 1923, quando soldati armati fino ai denti e sostenuti da aeroplani e mercenari marciarono contro i libici, che possedevano solo vecchi fucili ottomani, cavalli e cammelli. Alla fine del 1924 la Tripolitania era interamente sottomessa. Le tribù erano troppo impegnate a combattere le une contro le altre, e la resistenza disorganizzata ne rese più facile la sconfitta. Nel 1929 le due regioni e il Fezzan del nord furono unificate. La resistenza era ridotta a piccoli gruppi in Cirenaica, sotto la guida di Omar al Mukhtar. Continuarono a condurre una guerra di guerriglia sfruttando la loro conoscenza del territorio e la loro facilità di spostamento.
Distruggere ciò che restava della resistenza divenne la missione del generale Graziani. Per riuscirci era disposto a tutto, anche all’uso di bombe all’iprite, nonostante l’Italia avesse firmato nel 1925 la convenzione di Ginevra sulla messa al bando delle armi chimiche in battaglia. Pensava che il modo migliore per affrontare la resistenza fosse isolarla. Poi diede il via alle deportazioni di massa dei libici rinchiudendoli nei campi di concentramento.
Per descrivere uno di questi campi prenderò in prestito alcuni paragrafi scritti da un sopravvissuto al campo di concentramento di El Aghelia, Ibrahim al Arabi al Ghamari:
«La terra era desolata. Circondati da sabbia e acquitrini, priva di popolazione. C’era un piccolo forte per le ispezioni, circondato da torri, a loro volta circondate da filo spinato per poter contenere il maggior numero possibile di detenuti. C’era un cancello presidiato da agenti di polizia. Fuori a farmi la guardia c’erano contingenti di mercenari somali ed eritrei. Avevano costruito loro le torri con gli uffici del forte per il personale, era compito loro registrare i detenuti e ispezionarli, ogni mattina.
Ogni mattina tutti i detenuti dovevano presentarsi negli uffici del personale per registrare la loro presenza. Se qualcuno non si presentava, voleva dire che era he era morto. Malati e disabili invece dovevano essere portati sulle spalle senza discussione.
Ogni mattina dopo l’appello sceglievano i più giovani e quelli in grado di lavorare e li dividevano in quattro squadre: una era addetta alla pulizia degli uffici, delle latrine e delle stalle, e chi ne faceva parte doveva trasportare sulla schiena i rifiuti fuori dal campo. Un’altra squadra doveva pulire il campo e svolgere altri lavori. I membri di una terza squadra dovevano trasportare sulla schiena le merci dal porto ai negozi, destinati a rifornire soltanto i militari. A una quarta squadra spettava il compito di trasportare fino ai negozi la legna da ardere. Io appartenevo a quest’ultima squadra.
Agli anziani spettava il compito di trasportare i cadaveri e seppellirli.
Ogni giorno c’erano almeno centocinquanta morti. Venivano seppelliti in fosse poco profonde. Non avevano la forza di scavare buche profonde, perciò i cadaveri erano vulnerabili agli attacchi delle iene, dei lupi, delle volpi e dei cani. I corpi andavano in putrefazione e questo ha contaminato tutto il sito, costringendo i responsabili a trasferirlo a un chilometro di distanza.
Tra i detenuti era pericolosamente diffusa la carestia, e molti hanno iniziato a morire di fame. Dopo la morte di un gran numero di detenuti per la fame, la maggior parte dei quali anziani e bambini, le guardie hanno iniziato a distribuire grano importato dalla Tunisia. A ogni persona spettavano due chili di grano ogni due settimane. I detenuti lo cuocevano sul fuoco per migliorarne il sapore e bevevano l’acqua per riempirsi le pance. Molti avevano ulcere in bocca e gengive sanguinanti.
La diffusione di terribili malattie tra i detenuti ha eliminato quasi tutti gli altri. I pazienti venivano ricoverati in tende situate in una angolo lontano del campo, accanto al filo spinato. Se una persona mostrava i sintomi della malattia, la sua famiglia era obbligata a trasferirlo immediatamente in una di queste tende e lasciarlo lì a morire. Nessuno poteva stargli accanto, era proibito. Ogni mattina un parente andava a trovarlo. Se lo trovava morto doveva informare l’ufficio per la registrazione dei detenuti. Questa era l’unica cura consentita. Se una persona ammalata moriva a casa prima di essere stata trasferita nella tenda per i pazienti, venivano inflitte dalle 300 alle 500 frustate ai familiari, che venivano inoltre privati della razione settimanale di grano.
Abbiamo patito molto in queste condizioni disumane: fame, sete e umiliazione erano parte della nostra quotidianità. Non importava se davanti avevano un giovane o un anziano, un uomo o una donna, erano indifferenti a tutto. Le donne venivano frustate sulle gambe e gli uomini sul petto e sulla schiena, dopo averli legati a un palo conficcato per terra.
In occasione di una conferenza stampa durante la sua visita a Roma, Gheddafi ha detto “il mio amico Berlusconi, un amico che oggi tutti i libici conoscono, dopo che con le sue tante utilissime visite in Libia ha aperto la via a questo trattato”. Beh, tutti i libici conoscono Berlusconi solo per la squadra del Milan, e lo ricorderanno per sempre, dopo la sua visita in Libia per firmare il trattato, come il leader italiano che ha baciato la mano di Gheddafi. L’unico e solo canale televisivo nella Libia dell’epoca ha continuato a mandare in onda quel bacio all’infinito. Nel caso non lo aveste visto, ecco a voi un link.
Gheddafi voleva solo questo, apparire. Dal suo punto di vista, voleva dimostrare al mondo e ai suoi cittadini che era ancora “l’uomo di ferro”, come lo definiva Berlusconi. Ha sempre dichiarato di voler rendere di nuovo grande la Libia, addirittura ha rinominato il paese “Grande Jamahiriya araba”. Questa grandezza si manifestava soprattutto nell’ostilità contro le altre nazioni, nei discorsi di odio, nell’eliminazione di ogni opposizione e nell’acquisto di miliardi di dollari di armi con le ingenti riserve petrolifere della Libia.
L’accordo ha inoltre offerto a Gheddafi l’opportunità di ricompensare il suo amico per “’importante contributo dell’Italia al fine del superamento del periodo dell’embargo nei confronti della Grande Jamahiriya”, come sottolineato nell’introduzione all’accordo. Berlusconi non è solo un politico e uomo d’affari, è anche un uomo di spettacolo, come lo stesso Gheddafi, e ha così sintetizzato il vero scopo dell’accordo: “Grazie al trattato siglato oggi, l’Italia potrà vedere ridotto il numero dei clandestini che giungono sulle nostre coste e disporre anche di maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità”. In poche parole, finché farete scorrere il vostro petrolio e terrete i migranti nella vostra parte di Mediterraneo saremo amici e potremo far finta che nel vostro paese non succeda niente di male.
I nuovi campi
È paradossale che, oltre a ignorare i campi di concentramento e premiare i collaboratori che ci lavoravano, l’accordo abbia gettato le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente. L’unica differenza oggi è che eritrei e somali sono dentro quei campi e non fuori a fare la guardia.
Nel 2011, durante i suoi ultimi mesi al potere, Gheddafi ha spalancato la strada alle barche: chiunque avesse un’imbarcazione veniva pagato per riempirla di migranti e mandarli in mare. Quando il diavolo che conoscevano è andato via, la Libia si è divisa tra molti nuovi diavoli sconosciuti. Il nuovo accordo firmato con Al Sarraj ha revocato e cancellato molti articoli contenuti nella precedente versione. L’ultimo aggiornamento dell’accordo è andato ancora più dritto al punto: ridurre i migranti e tenerli in Libia in cambio di denaro. Stavolta però niente baciamano.
Però c’era un tranello: i nuovi diavoli non sono stati in grado di offrire quello che aveva offerto Gheddafi, ossia il silenzio più assoluto. Per quarant’anni di dittatura Gheddafi ha avuto il totale controllo dei mezzi d’informazione e ha represso tutte le voci, mentre i nuovi signori della guerra non possono controllare del tutto ciò che succede nel mondo. E non si può dire certo che non ci provino.
Tuttavia la parte di questo accordo che preferisco è questa: “A partire dal corrente anno, il giorno del 30 agosto viene considerato, in Italia e nella Grande Jamahiriya, Giornata dell’amicizia italo-libica”. Questa data segna e rappresenta esattamente il contrario, è un promemoria di questo accordo vergognoso e disonorevole. Niente al mondo mi farebbe più piacere oggi di un vero giorno per festeggiare l’amicizia tra Italia e Libia, per avviare una vera cooperazione, uno scambio culturale e un dialogo sincero, distante da loschi accordi disumani.
Libici e italiani non sono responsabili delle azioni dei peggiori tra i loro concittadini. Credo che le persone siano responsabili solo delle loro azioni, di ciò che hanno fatto e anche di ciò che non hanno fatto. Chi approva in silenzio è colpevole tanto quanto chi commette un crimine. Dopo aver letto un libro o guardato un film sulla seconda guerra mondiale e sui crimini orribili commessi da nazisti e fascisti, chiunque a un certo punto si sarà chiesto cosa avrebbe fatto se fosse stato lì, se fosse vissuto in quel periodo. Adesso abbiamo la possibilità di conoscere la risposta. Viviamo in tempi interessanti, oggi sta succedendo di nuovo. Cambiano i nomi e le giustificazioni, ma oggi di nuovo ci sono persone gettate nei campi di concentramento finanziati dai soldi dei contribuenti italiani (adesso mi sembro proprio mio padre).
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
LINKIESTA
«La docente della Columbia University spiega: “Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?”»
I partiti si sono indeboliti. La sinistra è in crisi profonda. Il populismo avanza. Mentre le elezioni italiane hanno celebrato la vittoria del Movimento cinque stelle e della Lega Nord, Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, ha pubblicato l’ebook La sfida populista, curato insieme a Paul Blokker e Manuel Anselmi e presentato in occasione di “Democrazia Minima”, il primo forum sul futuro della politica e della cittadinanza attiva organizzato da Fondazione Feltrinelli.
«Dietro l’esito delle elezioni c’è certamente il declino della sinistra», spiega Urbinati. «Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?».
Professoressa, cosa è successo alla sinistra italiana?
«Dal Pd ai cosiddetti secessionisti, oggi la sinistra non è più un punto di riferimento per larghi strati della popolazione. È diventata (e considerata) a tutti gli effetti il partito delle classi medie e medio-alte ben integrate, non in tensione verso l’emancipazione (a parte i diritti civili), ma attenta a conservare il proprio status. Un Pd che vince ai Parioli e perde nei quartieri popolari fa pensare».
Ma è un problema solo italiano?
«No, in Germania come ci ha detto Wolfgang Merkel è accaduta la stessa cosa. Il problema è che la sinistra è diventata l’élite intellettuale liberal-cosmopolita con valori non radicati nel Paese ma nel mondo vario. E invece il popolo più bisognoso, o comunque con meno strumenti culturali ed economici, è attaccato a delle comunità. Che sia la nazione - da qui arriva la rinascita del nazionalismo - o la rabbia collettiva delle plebi contro chi sta dentro il Palazzo - anche questo è il populismo dei Cinque stelle».
Ma Cinque stelle e Lega sono in grado di andare a colmare questo spazio vuoto lasciato dalla sinistra?
«Un po’ ci stanno provando e anche bene, con una divisione del lavoro che è ben evidente in Italia. A Nord e Sud avevamo due sinistre (poiché ci sono sempre state differenza tra sinistra del Sud e del Nord, di stile e contenuti) e ora abbiamo due anti-sinistre. Dove la sinistra storica ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione, anche questi diversi geograficamente».
Partiamo dal Nord, dove ha prevalso la Lega.
«Al Nord avevamo una sinistra molto organizzata e radicata, con associazioni, solidarietà strutturata a livello istituzionale (municipale e regionale), con un sistema di servizi e di reti di supporto, dalle cooperative ai sindacati alle associazioni, che hanno fatto il benessere e l’emancipazione di tre generazioni, dalla Seconda guerra mondiale agli anni Settanta. Nel mondo che deve difendere se stesso da un lato contro il liberismo imperante, e dall’altro contro le frontiere che si aprono non solo per merci e denaro, ma anche per gli esseri umani, si registra un rischio di abbassamento del livello della vita e del lavoro. Le esigenze di protezione si traducono in attaccamento al corrispettivo contemporaneo del vecchio partito identitario, il Partito comunista, che è la Lega. La Lega è il Partito comunista rovesciato perché ha simili caratteristiche organizzative e territoriali, radicate e identitarie, ma non ha una identità di classe. I leghisti non sono universalisti, ma sono identitari-localisti, difendono l’identità nazionale con il famoso “prima gli italiani degli altri”. Danno così un’ancora a questi beneficiari dello stato sociale che vogliono mantenere la loro condizione contro i rischi nuovi che vengono da fuori. Questa è la sinistra del centro Nord che si è tramutata in un’altra forma di identità».
E al Sud?
Al Meridione c’è stata tradizionalmente un’altra sinistra, più movimentista e populista, più adatta ad aderire alle pieghe di una società meno organizzata e con forme di degrado non tipiche di una società industriale. Pensiamo a com’era il Partito comunista napoletano che ha vinto con Bassolino, molto diverso da quello del Nord. O a quello che si è manifestato in tante forme di ribellione e rivolta, da Portella della Ginestra fino alle rivolte dei disoccupati o contro il degrado ambientale. Il Sud è stato sempre una fucina di lotta e contestazione, più che di radicamento organizzativo come al Nord. Lì ha vinto con facilità il Movimento Cinque stelle. È chiaro che questa spiegazione è un idealtipo che non spiega ogni aspetto della realtà, ma come modello interpretativo può essere utile.
Però c’è anche molta destra in questi movimenti.
«Certo, c’è tanta destra. Come diceva Marx, se la classe non viene assunta all’interno di un discorso universalista di emancipazione e di rivoluzione, guarda al passato, quindi diventa identitaria, nazionalista, corporativa. Davanti alla povertà, alla necessità di soddisfare i bisogni fondamentali, ti rivolgi a coloro che ti sembrano più in sintonia al tuo sentire. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”.
E il Pd sui territori non c’è?
«Non c’è davvero mai stato il Pd nei territori. Anzitutto ha abolito le sezioni, costruendo i circoli. I circoli sono entità neutre e con funzioni di incontro per chi è dentro o vicino al partito. Contrariamente alla sezione, i cui iscritti e soprattutto dirigenti conoscevano il loro territorio, le condizioni di vita e i problemi, i circoli si aprono e si chiudono in base alle necessità di discussione del partito.
«Non sono luoghi che raccolgono bisogni e problemi. Sono luoghi che servono a coloro che già fanno politica per incontrarsi, per fare le loro strategie. Però non sono legati ai territori, sono legati ai politici che già sono dentro la politica, a coloro che già sono iscritti, che fanno parte del gruppo. Ma non servono per avvicinare gli altri e nemmeno per fare un lavoro di conoscenza del territorio. Il passaggio da sezione a circolo è stata l’indicazione di un nuovo partito che non vuole tanto essere vicino ma lontano, per avvicinare l’elettore mediano. Il circolo non fa proselitismo e nemmeno fa discutere gli iscritti sulla linea nazionale (ci furono riunioni per discutere la proposta di riforma costituzionale?). Fa emergere potenziali candidati, è in funzione elettorale. C’è stato un divorzio tra dimensione nazionale e territoriale, causa di progressiva ignoranza dei bisogni di vita reale. Eppure, dice Gramsci, l’una senza l’altra non vive».
E qui si inseriscono Cinque stelle e Lega.
«Il Movimento Cinque stelle e la Lega non sono la causa, ma il segnale della transizione da un partito che aveva un progetto di emancipazione per tutti a un partito che è diventato un progetto di conservazione di chi sta bene. Un partito di centro – è la classe sociale di riferimento a dirlo. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”»
Contrariamente a quel che si diceva inizialmente, però, l’analisi del voto dice che i Cinque stelle sono stati votati da molti laureati, giovani e giovanissimi, e non solo dai ceti meno abbienti e meno istruiti.
«Certo, ma bisogna fare delle differenze. Al Nord è prevalso il discorso che, se si voleva cambiare il Pd, non si poteva votare Leu perché era troppo limitrofo. Occorreva votare l'anti per eccellenza. Molti voti anti-Pd da ex-Pd sono andati a Cinque stelle: un voto di rivolta contro il Pd per far cambiare il Pd. Ma nell’altra parte del Paese, dove ci sono le situazioni di disagio, questo non importava. Non dimentichiamo che mezza Italia, dalle Marche al Molise, ha subito il terremoto. Noi ce lo siamo dimenticati, ma loro sono lì da due anni in attesa. Hanno vissuto e vivono in situazioni disumane, in alloggi provvisori. Poi c’è il Sud più profondo: Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. L’unica cosa che hanno ricevuto dal governo è stato aver chiuso gli occhi su una evasione fiscale mastodontica. Questa idea malsana di accettare una condizione di illegalità per il quieto vivere non funziona più perché la gente comunque non ha lavoro. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd? Vivere limitrofi dell’illecito è come un bonus ma non dà futuro.
Ma c’è differenza tra le due forze populiste, Cinque stelle e Lega?
«Ciò che tiene insieme questi movimenti è l’anti-establishment. Cioè la distinzione tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori. Riviviamo nelle forme moderne la polarizzazione che era dell’antica Roma con la distinzione tra la plebe e i patrizi. Un dualismo non tanto di classe ma tra inclusi e non inclusi, i molti e i pochi. La Lega però non è semplicemente populista, anche se usa stili retorici populisti, ma resta un partito tradizionale di destra con un’ideologia non ecumenica ma escludente. I Cinque stelle invece sono il nucleo di una forma democratica populista. Di Maio nella lettera a Repubblica ha parlato di “Repubblica di cittadini”, che è la stessa cosa che ha sottolineato Trump, quando è stato incoronato presidente, dicendo “non sono io è il popolo americano che è qui”. È come se senza questi leader non ci fosse la voce del popolo. I Cinque stelle sono il gentismo in assoluto: noi siamo tutti unificati perché contrapposti a loro. È la contrapposizione all’establishment, non l’appello alla nazione, che unifica i molti.
E come si esce ora dall’impasse in cui siamo?
«I Cinque stelle sono cresciuti e crescono nella critica e nell’attacco, per questo dovrebbero essere messi alla prova. Il problema di questo momento è che non c’è fiducia tra le parti. Nessuno si fida dell’altro, persino dentro le stesse coalizioni. Vogliono vincere tutti da soli, non vogliono allearsi con nessuno. È un fenomeno che ritorna in Italia periodicamente e che ricorda le fazioni delle antiche Repubbliche del Rinascimento: nessun gruppo si fidava dell’altro e l’unico obiettivo era quello di ostacolare gli avversari bloccando se necessario il governo e anche rinunciando alla libertà. Più che fare, bloccare il fare. E questo mi sembra sia ancora il modus operandi più praticato».
http://www.linkiesta.it/it/article/2018/03/10/nadia-urbinati-lega-e-cinquestelle-hanno-sostituito-la-sinistra-ce-lav/37387/
Barbara-Spinelli.it,
Per la sinistra, questo è stato un giorno di fallimenti monumentali ma anche di chiarimenti, di possibili ma lente riprese. La nascita di Potere al Popolo è un buon segnale, anche se in soli tre mesi non poteva raggiungere i risultati sperati. Resta la verità più profonda delle elezioni del 4 marzo: gli italiani hanno chiesto un radicale cambiamento di rotta, e la sinistra non è stata presente all’appello. Globalmente la sinistra esce distrutta e lacerata da questa prova, e rischia di consegnare il Paese – una volta che saranno contati esattamente i seggi – alla destra di Salvini e a una Lega radicalmente spostata verso posizioni xenofobe.
Sono almeno dieci anni che la sinistra storica perde sistematicamente e in maniera continuativa il proprio “popolo”, ormai saldamente e convintamente ancorato nel voto Cinque Stelle o nell’astensione. Con la sola esclusione di Potere al Popolo, ha inseguito la destra per quando riguarda sia la politica economica sia quella concernente i rifugiati, corteggiando un elettorato che su ambedue i temi ha preferito in definitiva votare l’originale, cioè la destra.
Avvenire
«Nella richiesta di ampliamento la consociata italiana della multinazionale tedesca prevede un'area per «prove di scoppio»
«Realizzazione del nuovo campo prove R140». È questa una delle istanze presentate da Rwm per testare e produrre ordigni da guerra in Sardegna. La consociata italiana della multinazionale tedesca intende cioè realizzare un nuovo poligono di tiro per perfezionare gli esplosivi da provare sul campo prima della messa in commercio. La procedura per l’ampliamento dell’area produttiva è in piedi da mesi. La compagnia, spinta dai ricchi affari per le forniture di bombe aeree alla coalizione saudita che sta combattendo nelle Yemen, deve fronteggiare la crescente richiesta di armi.
Se per un verso è stato avviato uno stabilimento proprio in Arabia Saudita, per l’altro Rwm si appresta a fare della Sardegna il poligono per perfezionare le micidiali bombe e studiare nuovi 'prodotti'. «Per soddisfare le esigenze si prevede di inglobare all’interno dell’area dello stabilimento una zona di proprietà della Rwm Italia SpA, sul lato nord – si legge nelle relazioni consegnate alla Regione Sardegna – attualmente esterna alla porzione recintata ed utilizzata direttamente per le attività dell’opificio».
Dai documenti della società tedesca, rivelati dalla redazione di Youtg.net, si evince che l’azienda intende recintare un’area di sua proprietà, attualmente esterna al muro perimetrale della fabbrica di Domusnovas, per realizzare un campo prove che consisterà in un cratere circondato da «robusti terrapieni» alti 4 metri, e realizzati in cemento e terra.
Stando alle carte su cui dovranno esprimersi le autorità per la concessione dei permessi di ampliamento, «il reparto R140, destinato ad area per prove di scoppio, è costituito da uno spazio piano circondato da robusti terrapieni dell’altezza minima di 4 m». Inoltre, «il piano d’appoggio per i campioni di esplosivo destinati alle prove di scoppio sarà costituito da un letto in sabbia fine che avrà spessore di 1,5 m. Tutta la zona terrapienata verrà recintata con rete metallica alta 2,5 m con un unico cancello di accesso». A distanza di sicurezza dovrà essere realizzato un bunker che servirà come riparo per i lavoratori durante le esplosioni. La relazione contiene anche precisazioni per rassicurare sulla eventuale dispersione di sostanze tossiche.
Nelle settimane scorse Fabio Sgarzi, amministratore delegato della società che produce armamenti a Domusnovas, aveva dichiarato che «non c’è alcuna possibilità di riconvertire la Rwm Italia. Nessun cambio di attività è possibile, la prospettiva sarebbe solo la chiusura della fabbrica e il licenziamento dei dipendenti». Se Regione e Comune di Iglesias respingessero il piano di ampliamento, dunque, Rwm potrebbe ipotizzare «la chiusura della fabbrica e il licenziamento dei dipendenti ». Un ricatto, secondo attivisti e operatori del volontariato, oltre che per gli esponenti del Comitato per la riconversione. Nel marzo del 2016 la multinazionale tedesca, appoggiandosi alla controllata sudafricana Rheinmetall Denel Munition (Rdm) e d’intesa con la Saudi Military Industries Corporation (Samic), ha inaugurato a sud di Riad uno stabilimento nel quale vengono prodotte e assemblate bombe da artiglieria e ordigni aerei del tipo attualmente commissionato allo stabilimento sardo.
Un investimento con un suo specifico peso politico: all’inaugurazione erano presenti il principe ereditario Mohammed bin Salman bin Abdelaziz e l’allora presidente sudafricano Jacob Zuma. La fabbrica saudita, dove attualmente lavorano 130 addetti, ha però necessità di un periodo di rodaggio, perciò Domusnovas resterà ancora per qualche tempo il principale sito di approviggionamento.
il Fatto quotidiano,
Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il Parlamento doveva votare la fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti che, per la prima volta dal 1947, avrebbe avuto il sostegno esterno del Pci, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Dc, e trucidarono i cinque uomini della sua scorta (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi).
Quel giorno entrarono in azione almeno una decina di brigatisti che sarebbero stati arrestati tutti – l’ultima, Rita Algranati, nel 2004 – tranne Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. Alcune testimonianze oculari attestarono la partecipazione all’agguato anche di due individui su una moto Honda mai identificati, una presenza però sempre negata dai brigatisti. In quella tiepida mattina romana che già anticipava una primavera rosso sangue, mentre, il presidente del consiglio incaricato Andreotti, raggiunto dalla notizia del rapimento di Moro, era aggredito da conati di vomito, iniziavano i 55 giorni più bui della storia della Repubblica.
Se i brigatisti avessero voluto uccidere Moro e basta, lo avrebbero fatto già il 16 marzo, insieme con la scorta. In realtà l’obiettivo della loro “propaganda armata” era più raffinato: eliminare l’ostaggio dopo avere destabilizzato il quadro politico e istituzionale mediante il suo rapimento, funzionale a distruggerne l’immagine sul piano civile e morale affinché il suo progetto di allargamento della base democratica dello Stato non avesse eredi. Il governo, con il sostegno del Pci, respinse con fermezza qualsiasi trattativa pubblica sin dalla giornata del 16 marzo secondo un doppio principio: il rifiuto di accettare un eventuale scambio di prigionieri, cedendo così al ricatto imposto dai brigatisti dopo avere ucciso cinque servitori dello Stato; la rinuncia a compiere qualsiasi atto che potesse implicare un riconoscimento giuridico delle Br in qualità di forza combattente poiché ciò avrebbe significato legittimare la violenza armata come metodo ordinario di lotta politica e propiziare nuovi sequestri. Come i brigatisti avevano preventivato, le lettere che il prigioniero cominciò a spedire ai suoi famigliari, al papa Paolo VI e ai principali uomini politici italiani e autorità dello Stato aprirono un lacerante dibattito tra le ragioni della fermezza e quelle della trattativa, che fece da corollario alla non meno insidiosa discussione se quelle missive fossero autentiche o estorte con la violenza.
A intorbidire le acque concorse la presenza in entrambi i fronti di quanti disprezzavano Moro e la sua politica di accordo con i comunisti al punto da guardare con cinica indifferenza alla sua scomparsa. Moro, infatti, era destinato quasi sicuramente a diventare capo dello Stato nell’autunno 1978, a coronamento dell’accordo raggiunto tra la Dc e il Pci, un’intesa foriera di ulteriori sviluppi che lo avrebbero visto nel ruolo di supremo garante istituzionale. Senonché, anche tra i seguaci della trattativa pubblica, in particolare tra gli esponenti del movimento extra-parlamentare, si celavano quanti, soffiando sul fuoco della necessità di un negoziato palese che portasse allo scambio dei prigionieri e a un riconoscimento delle Br, offrivano una comoda sponda all’iniziativa brigatista, alimentando un prevedibile irrigidimento tra le parti che avrebbe portato alla soppressione dell’ostaggio.
L’esecutivo e l’antiterrorismo, supportato da un esperto statunitense, Steve Pieczenick, inviato sullo scenario di crisi dal Dipartimento di Stato, adottarono una strategia a tre livelli: sul piano politico, quello pubblico e propagandistico, sostennero la linea della fermezza; riservatamente attivarono un canale di comunicazione con il mondo brigatista (così come consigliato da Pieczenick) che si servì dell’intermediazione dell’ex leader di Potere operaio Franco Piperno e dei suoi rapporti con ambienti giornalistici de L’Espresso e con alti dirigenti socialisti. Costoro provarono a imbastire un negoziato intorno a un atto unilaterale di clemenza dello Stato nei riguardi di un detenuto malato e costruirono una catena di contatti che raggiunse certamente la prigione giacché Moro ne accennò in una delle sue lettere. Sul piano segreto, dopo avere consultato il 3 aprile i segretari dei partiti di maggioranza e quindi anche Berlinguer che diede il suo assenso, il presidente del Consiglio Andreotti si disse disponibile a pagare un riscatto per ottenere la liberazione di Moro. Oggi sappiamo con certezza che la raccolta di questa somma coinvolse la famiglia pontificia e Paolo VI in persona, legato a Moro sin dai tempi della Fuci. Proprio durante il sequestro, Casimirri, presente con sua moglie in via Fani e appartenente a un’influente famiglia di cittadini del Vaticano, venne fermato dalle forze dell’ordine, ma rilasciato.
Col passare dei giorni l’operazione Moro rivelò una duplice dimensione simile a un gomitolo che invece di sciogliersi si ingarbugliava sempre di più: procedette come un normale sequestro di persona, tuttavia, in ragione della qualità dell’ostaggio, ebbe anche un rilievo spionistico-informativo, funzionale a raccogliere notizie segrete o riservate riguardanti la sicurezza nazionale e atlantica dello Stato. Ciò avvenne attraverso l’espediente mediatico del “processo al regime democristiano”. Gli originali di questo interrogatorio (il “memoriale”) sono a tutt’oggi scomparsi, mentre si sono recuperate, ufficialmente soltanto nel 1990 dentro l’intercapedine di un covo brigatista a Milano già perquisito nell’ottobre 1978 dalle forze dell’ordine e da allora rimasto sotto sequestro giudiziario, delle fotocopie dei manoscritti, incomplete, ma di sicuro autografe di Moro.
Il tardivo ritrovamento di queste carte, avvenne soltanto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, ma l’interrogatorio risultò tagliato delle parti riguardanti, fra le altre cose, la fuga di Herbert Kappler, il golpe Borghese e il conflitto arabo-israeliano, incluso l’accordo di intelligence dell’ottobre 1973, cui l’ostaggio aveva accennato più volte in modo criptico in alcune lettere inviate a selezionati e informati destinatari. Si trattava di una serie di vicende intorno alle quali nel 1978 erano in corso delicate inchieste giudiziarie che coinvolgevano i vertici militari e dei servizi segreti italiani e stranieri (ad esempio il processo Borghese e quello relativo ad “Argo 16”). Di conseguenza le parti espunte riguardavano dei fatti ancora aperti sul piano giudiziario (di cui la conoscenza delle rivelazioni di Moro nel 1978 avrebbe potuto condizionare l’esito) oppure episodi relativi ai rapporti internazionali dell’Italia con Paesi amici, ad esempio con la Germania ovest, Israele, la dirigenza palestinese, tutelati da un vincolo di segretezza che si svolgeva lungo il tagliente filo della ragione di Stato.
Quella ragione di Stato cui Moro aveva fatto esplicito riferimento nella sua prima lettera a Francesco Cossiga il 29 marzo, laddove aveva spiegato che “nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel mio caso significa […] che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato […] con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”.
Una giornata decisiva del sequestro Moro fu il 18 aprile 1978, quando, a pochi minuti l’uno dall’altro, avvennero due episodi altamente destabilizzanti. Una fuga d’acqua, volutamente provocata da una mano ancora ignota, fece scoprire il covo di via Gradoli, abitato da Mario Moretti, ossia da colui che stava interrogando l’ostaggio. Il nome di Gradoli, un paese in provincia di Viterbo, era emerso già il 2 aprile in una seduta spiritica organizzata da un gruppo di professori bolognesi, fra cui Romano Prodi, Alberto Clò e Mario Baldassarri. Le indagini avrebbero dimostrato che la polizia già il 18 marzo aveva interrogato gli occupanti dell’abitazione adiacente il covo di via Gradoli. L’appartamento in quei giorni era abitato da un’informatrice della polizia e dal suo sedicente fidanzato che, solo negli anni Novanta, dopo lo scandalo dei fondi neri del Sisde, si sarebbe scoperto essere stato nel 1978 domiciliato in uno studio commercialista collegato a società immobiliari di copertura dei servizi situate nello stesso stabile e in via Gradoli.
L’espediente investigativo della seduta spiritica, a volte utilizzato dagli psicodetective angloamericani per nascondere le origini delle informazioni, sarebbe servito a coprire una fonte che, a rischio della sua stessa vita, stava segretamente collaborando con le autorità e che voleva, per ragioni politiche più che umanitarie, determinare il fallimento dell’operazione Moro, ma non l’arresto di Moretti e degli altri brigatisti, i quali restavano dei “compagni che sbagliano”.
Sempre il 18 aprile un comunicato apocrifo, realizzato da un abile falsario legato alla banda della Magliana e in rapporti con i servizi segreti italiani, di nome Antonio Chichiarelli, annunciava che il cadavere di Moro giaceva nei fondali del lago della Duchessa, in Abruzzo. Oggi, sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dal magistrato Claudio Vitalone, vicino ad Andreotti, nel processo per l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli che vide entrambi imputati e poi assolti, sappiamo che le forze dell’antiterrorismo confezionarono il falso comunicato per ottenere una prova dell’esistenza in vita di Moro, necessaria al proseguimento della trattativa. Le Brigate rosse, per smentire il comunicato, vennero costrette a divulgare il 20 aprile una foto dell’ostaggio con una copia de La Repubblica del 19 aprile e indicarono in “Andreotti e i suoi complici” i veri autori del depistaggio, cogliendo dunque nel segno.
Il falso comunicato servì assai probabilmente anche ad accreditare presso il Vaticano la figura di Chichiarelli, l’autore, come intermediario segreto, affinché il riscatto raccolto dal papa non finisse nelle mani dei brigatisti a finanziare la lotta armata, bensì in quelle di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato anche se legato alla criminalità comune. Il piano del governo e dell’antiterrorismo fallì perché il Vaticano dovette subodorare l’inganno e non consegnò il denaro. L’accaduto, però, indusse Paolo VI a rivolgere il 22 aprile un accorato appello “agli uomini delle Brigate rosse” affinché rilasciassero Moro “senza condizioni”. Evidentemente perché quelle fino ad allora pattuite si erano rivelate mendaci e fosse possibile così riallacciare i fili di una trattativa non con degli impostori, ma con quanti effettivamente detenevano il prigioniero.
Ogni sforzo del papa, capo di uno Stato estero impegnato in un duro quanto nascosto scontro con il governo italiano che mal tollerava quell’ingerenza umanitaria i cui effetti destabilizzanti avrebbero avuto sanguinose ricadute sulle forze dell’ordine e sui cittadini italiani, fu inutile, come rivelano le ultime struggenti lettere di Moro alla moglie Noretta: “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo […]”; “Ora improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”.
Incomprensibilmente. E già. Gli ultimi giorni di Moro rimangono oscuri non soltanto per le incongruità nelle versioni fornite dai sequestratori, ma anche perché l’ostaggio in diverse lettere e in una lunga parte del memoriale si mostrò certo di essere a un passo dalla liberazione tanto da spingersi a ringraziare i brigatisti per il loro atto di magnanimità (“io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà”).
Rispetto alla versione ufficiale accertata in numerose inchieste giudiziarie (l’ultima è tuttora in corso mentre una nuova Commissione di inchiesta parlamentare ha indagato in questa legislatura) e in seguito ribadita in alcuni libri di memorie scritti dai brigatisti, la trepidazione dimostrata in quelle ore dagli ambienti della famiglia pontificia, da autorevoli ed esperti esponenti politici e dallo stesso prigioniero apparirebbe sul piano logico del tutto ingiustificata, ma evidentemente rinvia a un’altra dimensione della storia rimasta occulta.
Il fallimento del negoziato segreto ha contribuito ad alimentare un’area di opacità e di reciproco ricatto che ha condizionato i soggetti coinvolti nella vicenda: le linee della fermezza e della trattativa e quella della reticenza si sono paradossalmente rafforzate per sempre grazie alla scomparsa di Moro. Resta il fatto che il prigioniero è morto e che gli originali dei suoi scritti sono spariti: un epilogo sghembo e forse beffardo di una storia tragica nella sua asciutta ferocia, che ben presto, grazie alla penna di Leonardo Sciascia, si sarebbe trasformata nel cosiddetto Affaire Moro.
Il 9 maggio 1978 i sequestratori abbandonarono il cadavere di Moro nel cuore del centro storico di Roma, ai bordi del ghetto ebraico, a poche centinaia di metri dalla sede nazionale del Pci. Vale a dire in una delle zone più controllate al mondo dai servizi segreti al tempo della guerra fredda. L’operazione Moro vide la convergenza di interessi, a livello internazionale, tra il blocco orientale e quello occidentale e, a livello nazionale, tra un fronte reazionario (legato all’oltranzismo atlantico, alla destra anticomunista e ad ambienti massonici prossimi alla P2) e i gruppi rivoluzionari del “partito armato” intorno a una comune matrice sovversiva. Il principale obiettivo era continuare a destabilizzare l’Italia per stabilizzarla in senso centrista e moderato nell’ambito degli equilibri consolidati della guerra fredda stabiliti a Jalta che non potevano tollerare mutazioni di sorta. A causa della convergenza di queste forze, che pure agirono in modo autonomo l’una dall’altra, l’operazione Moro può essere considerata il punto più drammatico raggiunto dalla strategia della tensione in Italia.
Una settimana dopo la fine di Moro si votò per le elezioni amministrative in alcune città: la Dc aumentò i suoi voti, mentre il Pci, per la prima volta dal 1953 arretrò. Soltanto allora l’operazione Moro poté dirsi conclusa: l’Italia sarebbe sopravvissuta, senza però essere più la stessa. All’indomani della scomparsa dell’uomo politico, i suoi congiunti rilasciarono uno scarno comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica, o cerimonia o discorso, nessun lutto nazionale, né funerale di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Uno schiaffo a forma di epitaffio a suggello di una tragedia italiana che, quarant’anni dopo, non ha smesso di interrogare la coscienza politica e civile del nostro Paese.
postilla
Dopo anni di inchieste e ricerche ormai è chiaro che il rapimento e assassinio di Aldo Moro è stato ordito dalle forze, soprattutto negli Usa )ma anche in Francia, Germania e soprattutto Gran Bretagna), che volevano interrompere il dialogo intessuto da tempo tra il mondo cattolico e il mondo comunista. A raggiungere l' accordotra queste due realtà era finalizzata la proposta strategica di Enrico Berlinguer del "compromesso storico", avanzata dal leader comunista quando l'assassinio di Salvator Allende,leader del Cile, fece comprendere che strade democratiche per superare il capitalismo a guida yankee erano impraticabili. Nella stessa linea di Berlinguer si collocava il tentativo tattico di Aldo Moro, tessitore di un accordo tra Dc e Pci. Perciò venne condannato e ucciso [agg.16 marzo 2018] (e.s.)
Articolo tratto da " Fatto Quotidiano" qui raggiungibile: Moro, il sequestro della Repubblica
Eddyburg
8 marzo2003 – Oggi è una festa, ma la sua radice è un dramma, e la sua storia è quella di una lotta. Forse vittoriosa. Era l’8 marzo 1908 quando nella fabbrica Cotton, a Chicago (USA), occupata dalle operaie tessili in sciopero, scoppiò un incendio. 129 donne, operaie, morirono. Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna.
| Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna. Da allora, l’8 marzo si è intrecciato alla vicenda del progressivo affrancamento delle donne dalle condizioni imposte alla loro umanità e dignità dall’altro sesso (e più precisamente, dalle regole dei sistemi economico-sociali che si sono succeduti nei secoli).
È una festa quindi, quella di oggi, che sollecita a riflettere in molte direzioni. Perché è nelle molte direzioni che il progresso economico, politico, sociale e culturale ha percorso nel secolo scorso che il movimento delle donne ha dato il suo contributo: non solo all’affermazione dei diritti di un genere maggioritario me emarginato, ma a quello della società nel suo insieme. ”Che ‘a piasa, ‘a tasa e ‘a staga a casa”, è il vecchi detto veneto: se avesse accettato questo tabù posto al suo ruolo (piacere, tacere, fare la casalinga) molte delle conquiste di cui oggi tutti ci gioviamo non sarebbero state raggiunte (o lo sarebbero stato molto molto più tardi). Vogliamo ricordarne alcune?
Il suffragio universale, che ha reso la democrazia lo strumento realmente utilizzabile per basare il governo sulla volontà del popolo: il migliore degli strumenti fin qui inventati dall’uomo, nonostante i suoi difetti. Condizioni di lavoro migliori per tutti nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, ottenuti grazie all’ingresso delle donne nelle vertenze sindacali. I nuovi diritti civili di tutti i soggetti, maschi e femmine, raggiunti nel nostro paese grazie alle grandi battaglie per la liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta. E l’odierna campagna mondiale per la pace, che si ricollega alle infinite manifestazioni animate dalle donne (quasi geneticamente ostili a tutto ciò che minaccia la specie) in tutto il corso del secolo che sta alle nostre spalle.
Poiché sono urbanista, voglio ricordare il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di uno strumento essenziale per rendere più vivibile la città: gli standard urbanistici. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne, per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse a stabilire, per legge (765/1968), che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico. Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti, e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo.
Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso, troppo stesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.
Spesso, non sempre. E uno degli auguri che vorrei fare oggi a tutte le donne (e a tutti gli uomini) è che gli esempi positivi si moltiplichino e si generalizzino. Che le conquiste quantitative strappate nei decenni trascorsi non vengano tradite, ma tradotte nella qualità di una città finalmente resa amica delle donne e degli uomini.
L’altro augurio nasce da questi giorni, in cui governi inetti minacciano di gettare il mondo nell’abisso di una guerra targata USA. Queste tre lettere ci spingono oggi a ricordare che la festa di oggi esprime anche la solidarietà con le 129 donne che, quasi un secolo fa, morirono negli USA per i loro e i nostri diritti. Mimosa e pace, sulle due sponde dell’Atlantico, come un arcobaleno. |
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Corriere della sera, 27sima ora
Sono per oltre il 70% italiani, tra il 30 e i 50 anni, gli uomini accusati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, stalking, femminicidio. Oltre il 48% sono mariti, fidanzati o persone che fanno parte del contesto familiare. Anche o soprattutto per questo, 1 denuncia su 4 viene archiviata ed una percentuale variabile - ma comunque significativa - di dibattimenti si conclude con una assoluzione (dal 12,6% del distretto di Trento fino al 43,8% dei casi nella provincia di Caltanissetta).
27sima ora
È questo uno dei motivi principali per cui, nonostante il numero resti elevato, si è registrato negli ultimi mesi un calo delle denunce per maltrattamenti: come ci racconta la cronaca, sono molte le donne che decidono di non denunciare per timore di non essere adeguatamente protette e forse, ancora, per la paura di essere giudicate. La relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio sottolinea la inadeguatezza dell’Italia anche solo nel fornire i dati richiesti dalla Convenzione di Istanbul, non essendo previsto un reato di “femminicidio” e nemmeno – fino al luglio 2015 - un sistema integrato di raccolta e di elaborazione dati.
Solo il 36% degli uffici giudiziari lavora in rete e la mano destra non sa cosa fa la sinistra: il tribunale civile non comunica con quello penale e viceversa, ed accade così che un padre condannato per violenze domestiche venga definito “adeguato genitore affidatario” da quello civile, permettendo che il bambino continui a subirne i comportamenti, con il supporto di CTU (Consulenti Tecnici d’Ufficio) e Servizi Sociali. Sono molte (ma non sappiamo quante) le madri che rinunciano a proseguire nelle denunce per timore di essere giudicate alienanti e vedersi sottrarre i figli invece di poterli proteggere.
Tutto questo viene perfettamente fotografato dalla Rassegna Stampa che curo del primo mese del 2018. Sono 4 italiani e 1 cinese gli autori dei 5 femminicidi accertati compiuti a gennaio. Si chiamano Fabrizio Vitali, che ha ucciso una ragazza nigeriana all’interno di un albergo in provincia di Bergamo; Pasquale Concas, che – dopo aver già scontato una pena di 23 anni per l’uccisione di una donna – è tornato ad uccidere a Modena, dove ha gettato una giovane ungherese lungo i binari ferroviari; Gabriele Lucherini, accusato dell’omicidio preterintenzionale della compagna, che lo aveva riaccolto in casa, a Novara, dopo averlo già denunciato per maltrattamenti; Davide Mango, che a Caserta ha ucciso la moglie sparando all’impazzata e ferendo altre cinque persone. Potrebbe essere italiano anche l’assassino di Lin Suqing, la prostituta cinese trovata imbavagliata e seminuda in un appartamento in provincia di Salerno. Wu Yongqin, invece , che ha ucciso la moglie e un bimbo di tre anni nel loro appartamento a Cremona, è di origine cinese, anche se viveva in Italia da ormai 15 anni. Fino al 30 gennaio, è lui l’unico autore “straniero” di femminicidio: ha ucciso altri cinesi.
Il 31 gennaio viene ritrovato il cadavere di Pamela Mastropietro, una 18enne con problemi di droga, il cui corpo è stato smembrato e abbandonato all’interno di due valigie. Un delitto orribile con una vittima giovane e bella. Fermato, la sera stessa del ritrovamento, un pusher nigeriano, il cui nome – Innocent - stride terribilmente con il resto della vicenda . Ignorando le grida di difesa di Innocent e le indagini ancora in corso, intorno alla tremenda sorte di Pamela si crea più di un fronte: si parla di immigrazione, di stranieri che odiano le donne, di razzismo, di politica che non ha controllo o di partiti che favorirebbero questi drammi, arrivando al fanatismo e alla vendetta. L’uccisione della ragazza fuggita dalla comunità di recupero viene definita - prematuramente e inopportunamente - “femminicidio” (se la ragazza è morta di overdose non si può dire “uccisa in quanto donna”) e diventa pretesto per battaglie politiche, proclami ideologici e sparatorie razziste. Niente di nuovo, insomma.
Così come niente di nuovo, purtroppo, rivela la rassegna stampa delle aggressioni subite dalle donne e quella degli episodi che vedono coinvolti i bambini, utilizzati spesso come strumento di ricatto: dal padre separato che strappa il figlio dalle braccia della mamma a Salerno a quello che si barrica in casa con un neonato a Catania, dall’avvocato di Torino che ha abbandonato il bimbo sul balcone a quello che fugge con la figlia a Latina, dai tanti che picchiano la mamma davanti ai bambini (a Padova come a Foggia, ad Ancona come a Trieste e in tutto il resto della penisola) a quelli che minacciano di uccidere o sfregiare i figli (a Firenze, Mantova, Savona eccetera).
E ancora nulla di nuovo sembra esserci nella diffidenza con cui persino alcune madri accolgono le denunce delle figlie, negli attacchi che riceve chi denuncia pubblicamente, fino agli schieramenti di incomprensibile difesa nei confronti degli uomini maltrattanti.
Ma oltreoceano la Giudice Rosemarie Aquilina fa qualcosa di nuovo, gettando con disprezzo la memoria del medico pedofilo Larry Nassar, condannandolo a ben 175 anni di prigione ed invitando le donne a «tornare del mondo e fare cose meravigliose».

Nel nostro piccolo, anche noi italiani registriamo qualche timido segnale di cambiamento: due giornali locali (della provincia di Trapani e di Reggio Calabria) hanno deciso di pubblicare la foto degli uomini violenti. Matteo Foggia e Ion Marian Raulet, hanno così goduto inaspettatamente del loro momento di notorietà per aver picchiato le rispettive compagne. Al posto delle banali foto di agenzia che generalmente ritraggono anonime volanti, finalmente in primo piano i volti di due uomini maltrattanti, con nomi, cognomi e curriculum. A fargli compagnia, le foto di Massimo De Angelis, l’insegnante “innamorato” della studentessa quindicenne, e quelle del magistrato destituito Francesco Bellomo, inventore del “dress code” per diventare giudice. Ne mancano ancora tante, ma confidiamo nello spirito emulativo.
La vera differenza, infatti, la fanno le vere denunce: quelle con nomi e cognomi, quelle che mostrano le facce, quelle che pretendono davvero che chi ha sbagliato paghi e sia di monito a tutti gli altri, quelle che vogliono che sia il colpevole ad essere giudicato con disprezzo, e non chi ha subito. Sarebbe bello, in questo mese di febbraio, poter segnalare la novità di un sostegno totale ed incondizionato alle donne che decidono di denunciare, a cominciare dalle madri per finire agli organi di polizia e giudiziari: scoprire insomma il vero e profondo cambiamento di un paese.
il Post
Questo è il consueto post elettorale sulla sconfitta della sinistra. Sono un po’ stufo di scriverlo, ma la sinistra continua a perdere. Se c’è una buona notizia in questa giornata terribile è che forse è l’ultimo che scriverò, non perché da qui in poi vinceremo tutte le elezioni, ma perché forse smetteremo di esistere per un po’. Come sempre si tratta di un post chilometrico nemmeno troppo amareggiato ma estremamente lucido nel dichiarare qualcosa che è peggio di una sconfitta. L’ho scritto un po’ di getto e con uno stato d’animo un po’ ballerino. Abbiate pazienza. Anche perché ne serve molta.
Ha vinto la destra. Anzi, di più: l’Italia è la destra. La ragioneria a volte è una pratica crudele. A conti fatti, tutto ciò che è assimilabile alla sinistra, anche stando larghi e includendo proprio tutto tutto tutto, anche partiti imbarazzanti e incompatibili tra loro, vale il 25%-30% dei voti espressi.
E li vale in un’elezione in cui l’affluenza non è stata bassa (anzi, è in lieve crescita rispetto al referendum e comparabile con le elezioni del 2013 in cui si votava in due giorni).
I numeri parlano chiaro: più del 70% degli italiani ha votato per un partito o movimento o apertamente di destra o assimilabile a essa per programmi, metodo politico e totale disinteresse per valori come la solidarietà e la tolleranza. Non solo, il 50% circa ha votato per partiti apertamente filo-Putin e, probabilmente, da lui finanziati.
Di fronte a risultati simili non è nemmeno concepibile parlare di sconfitta. Sta succedendo qualcosa di diverso. Questo non è un semplice risultato elettorale: è un evento storico che segna un totale shift di paradigma in Italia e l’insediamento di un blocco di potere totalmente nuovo. Non siamo soli: è qualcosa che sta succedendo, in modo più sfumato (qui in Italia ci teniamo ad avere il primato delle brutture), in tutto l’Occidente, dove crollano le sinistre e si impongono le destre xenofobe e sovraniste e i populismi.
Non so bene cosa sia questa “cosa” che avanza e che per me è il male assoluto o quasi. Non so nemmeno bene cosa voglia in dettaglio e a quali esigenze politiche e umane risponda. So che è la nemesi dei miei valori, del mio modo di concepire la vita, dei miei comportamenti. Il problema è che questa “cosa” non ha vinto a sorpresa e per il rotto della cuffia come Trump negli Stati Uniti e non è stata fermata da sani anticorpi democratici come in Francia. Qui ha stravinto con una marcia trionfale attesa e prevista da tutti, percentuale più o percentuale meno.
Insomma, qui si è affermata chiaramente una volontà popolare indiscutibile e netta: il popolo italiano, nella sua stragrande maggioranza, vuole più destra. E la vuole populista, rabbiosa, xenofoba, antiscientifica, bigotta e vogliosa di menare le mani.
La resistenza è inutile. L’unità, pure. Se i numeri in gioco fossero altri, sprecherei un paragrafo a tentare di smontare le ragioni di quel voto scriteriato. Ma le destre populiste hanno preso il 70%: ci dobbiamo rassegnare all’idea che noi di sinistra siamo, dati alla mano, una minoranza esigua e divisa in modo irreparabile. E anche se ci unissimo non otterremmo nulla di più. Siamo meno della metà degli “altri”. Capiamolo.
Di fronte a cose così non c’è niente di utile da fare. Mi fanno sorridere gli amici che, a caldo, delirano di “resistenza”, “torniamo in montagna” e altre menate retoriche da sinistra in fase di elaborazione del lutto. Signori, se ci mettiamo a fare la resistenza, la facciamo contro la stragrande maggioranza degli italiani. Qui non c’è nessuno da liberare da un potere sgradito e impostore. Finiremmo come i “liberatori” antiborbonici, presi a roncolate a Sapri dai contadini stessi che volevano liberare.
Probabilmente passeremo buona parte del nostro tempo a cercare di dare la colpa a qualcuno, cioè, a seconda dei gusti, Renzi, Fratoianni, Bersani, D’Alema, Civati, Grasso e perfino qualche dirigente di Potere al Popolo, che è andato malissimo (contando che Rifondazione da sola, che è inglobata in quel partito, prendeva l’1,5%-2% a livello nazionale in ogni elezione).
Cambiamo pure tutti i leader delle tante versioni incompatibili della sinistra, mandiamone pure qualcuno in pensione, spediamone un paio su Marte, sono d’accordo. Dopo un risultato simile è sano e doveroso e chi non si dimette va contestato duramente. Facciamolo. Non servirà a niente, ma è una questione di igiene politica. Lo stand delle salamelle al festival vegano. Credo che il problema alla base di questa enorme sconfitta politica della sinistra non sia una questione di offerta politica. Anzi, in queste elezioni non mancavano le opzioni. Si passava dal centrosinistra moscio e in certi casi venato di destra del PD fino ai filo-venezuelani di Potere al Popolo, attraverso una gamma piuttosto ampia di posizioni intermedie, ciascuna con la propria lista, i propri leader, i propri programmi. Ce n’era per tutti i gusti, davvero.
Eppure né i renziani, né gli anti-renziani in diverse gradazioni, né i rivoluzionari, né i comunisti duri e puri hanno ottenuto voti dignitosi. Sono andati tutti male. Tutti. Quindi evitiamo polemiche su Renzi vs D’Alema e altre polemiche illusorie da abitanti della bolla di “quelli di sinistra”.
Il problema è la domanda
Forse il problema non è l’offerta politica della sinistra. Il problema – ed è una brutta notizia – è la domanda. In Italia nel 2018, insomma, è drammaticamente in minoranza chi ritiene di avere bisogno della sinistra e di ciò che promette: giustizia sociale, solidarietà, equità, tolleranza, laicità, diritti.
Attenzione: non ci sono partiti non di sinistra che promettono meglio della sinistra di fare propri questi valori e realizzarli. È proprio successo che quei valori sono passati di moda in Italia, sono diventati non necessari e visti anche come un ostacolo alle magnifiche sorti (regressive) del paese.
Nessuno ci ha portato via i voti promettendo meglio le nostre cose. Semplicemente la gente ha sposato valori diversi, si è proprio spostata eticamente e sentimentalmente verso altri lidi. Sembra quasi che in Italia sia venuta meno la necessità storica di certi valori. Questa cosa qui ha un nome: crisi di senso. La sinistra, piaccia o no, non ha più senso per il paese, per il momento storico che attraversa, per la psicologia e la narrazione collettiva dominante, che tende alla distruzione e all’accusa più che alla soluzione.
Non si ferma il vento con le mani, anche se tira a destra.
Per quanto mi riguarda di fronte a un risultato così non c’è nessuna analisi intelligente da fare. E l’autocritica diventa un esercizio di stile, che lascia il tempo che trova. Non c’era niente, né una riforma, né un’azione unitaria, né un programma che avrebbe potuto fermare questo evento epocale (che ha cause “lunghe” e lontane e su cui credo si interrogheranno gli storici, visto che i politologi nel prossimo futuro si divertiranno di più a ridacchiare dei leader sconfitti).
Potrei fare un elenco sterminato di errori che non avrei fatto, di cose che avrei gestito meglio, di alleanze che avrei evitato, di gente che non avrei candidato, ecc. Ognuno ha il suo borsello di sbagli della sinistra, del PD, di Renzi, dei dirigenti locali, ecc. Volendo ce li scambiamo tipo figurine.
Eppure, anche sommandoli tutti, non saltano fuori ragioni sufficienti per giustificare una sconfitta di questo genere.
Non solo, i conti politici non tornano. Faccio due esempi. In un contesto in cui la sinistra è stata accusata di non lavorare a sufficienza per la giustizia sociale e i diritti dei cittadini, hanno trionfato partiti che esibiscono fieri la loro cultura dell’ingiustizia (vedi la flat tax, la promessa di negare i diritti civili appena conquistati). E in uno scenario in cui la sinistra è stata accusata di non avere una politica sufficientemente umana nei confronti degli immigrati e di essere blanda sullo ius soli hanno stravinto i partiti più crudeli e indifferenti nei confronti dell’immigrazione di ogni tipo. Insomma, dovessimo dare retta ai flussi elettorali (che a questo punto non hanno più senso, perché si sono create nuove appartenenze, nuove identità politiche, ecc.), la sinistra perde voti a sinistra che finiscono a politiche apertamente di destra.
Non finisce qui. Nemmeno le divisioni a sinistra sono una spiegazione sufficiente. Non c’era nessuna azione unitaria che sarebbe diventata vincente, visti i miseri risultati delle singole liste della sinistra tutta. Anzi, forse si sarebbe ridotta l’offerta di “biodiversità” della sinistra.
Non vale nemmeno la scusa più ingenua di tutte, cioè pensare che gli elettori di centrosinistra e di sinistra non siano andati a votare e che, sotto sotto, fatto fuori Renzi salterebbero fuori milioni di persone “più di sinistra” pronte a riportare la sinistra ai consueti trionfi. Guardate i dati elettorali e fatevene una ragione: quegli elettori non sono stati a casa, l’affluenza lo dimostra. Semplicemente sono andati a votare e hanno scelto una delle tante destre populiste disponibili. Sicuri sicuri che sia gente che è andata via dal PD perché era troppo poco di sinistra? Pensateci.
Winter has come.
Consoliamoci: questa è una cosa più grande di noi. Anche facendo tutto giusto (e non lo abbiamo fatto) non sarebbe andata tanto diversamente.
E ri-consoliamoci: di fronte a risultati di questo genere e alla portata lunga che sembrano avere è inutile qualsiasi tentativo di lotta e di salvataggio del paese. Possiamo riposarci, fare altro, difenderci (e dovremo difenderci, fidatevi) e aspettare, aspettare, aspettare. Dopo un bel po’ di anni (l’ultimo shift di paradigma di questo tipo, tra l’altro più lieve e meno sguaiato, è avvenuto nel 1994 e ci ha regalato vent’anni di Berlusconi e di diseducazione etica) forse potremo tornare a costruire qualcosa, se ci saremo ancora.
Ma adesso no, non c’è letteralmente niente da fare. Quel 70% di popolo italiano è determinato e vuole andare fino in fondo. Non ha votato così in massa per avere un sistema di potere nuovo en passant. Vuole che i nuovi vincitori si mettano al lavoro, che provino davvero a mettere in campo le soluzioni a cui loro hanno creduto e non si arrenderà ai primi fallimenti. Insomma, questo paese ora è innamorato dei suoi nuovi capi e per un bel po’ darà loro fedeltà assoluta e carta bianca su ogni intervento. Gli italiani dovranno sbattere la faccia più volte contro le conseguenze delle loro scelte (e questo richiede tempo) per iniziare a dubitare del proprio voto.
Noi, nel mentre, litigheremo un po’ e proseguiremo le nostre faide tra sinceri democratici con il cuore più leggero: ora sappiamo che l’unità a sinistra non serve a niente, se non c’è il consenso e se non c’è un paese che ritiene di avere bisogno della sinistra. Quindi litighiamo pure, abbiamo anni per risolvere tutto (con le mani, quando volete).
Poi ci passerà la voglia, faremo altro, faremo qualche blando e illusorio tentativo di recupero e forse otterremo qualche vittoria di Pirro, ma ora si è imposto quello che a breve diventerà un Sistema (sì, con la maiuscola) che è talmente nei cuori degli italiani da essere difficilmente rimovibile. Bisognerà avere il tempo e la pazienza per aspettare che questa “cosa” populista e orribile si abolisca da sola. Non la aboliamo noi di sicuro.
Di sicuro, parlo per me, non farò nessun tentativo per contribuire a migliorare questo paese. No, non sto facendo l’offeso. È che l’Italia in larghissima maggioranza non vuole quello che voglio io, minoranza marginale. E non ci sono punti di contatto o convergenza. È proprio un altro mondo incompatibile. Non posso vivere da cittadino partecipe e leale in un paese che sta per diventare una versione alla vaccinara dell’Ungheria di Orban o della Polonia.
L’Italia non si cura da una malattia che gli italiani credono essere un superpotere.
Mettiamoci al sicuro, difendiamoci, difendiamo i nostri cari e le cose che abbiamo a cuore. Prepariamoci a vedere cose orribili, ingiustizie sui più deboli, violenza di Stato e una riduzione enorme dei diritti. E più povertà, più confini, meno libertà.
Pensiamo ad altro, almeno per un po’, e pazientiamo. In Italia è arrivato l’inverno. Sarà lungo.
Internazionale online
Sotto la noia di quella che è stata univocamente percepita come la campagna elettorale più brutta della nostra storia, sotto la ripetitività compulsiva della giostra televisiva, sotto la comicità involontaria delle promesse impossibili, qualcosa tuttavia è avvenuto. Forse non tanto da spingerci a superare la diffidenza per una legge elettorale ostica e truffaldina, andare al seggio e infilare una scheda valida nell’urna. Né abbastanza da prevedere gli spostamenti politici che il voto certificherà. Quanto basta, però, per percepire gli spostamenti di senso e di sensibilità che eccedono la conta dei voti nonché l’affannosa corsa ai pronostici sulla formula di governo prossima ventura.
1. Ritorni. Cominciata con l’irruzione dell’alieno pentastellato e proseguita all’insegna della rottamazione renziana, l’ultima legislatura “nuovista” della repubblica è finita in un trionfo di ritorni dal passato. Torna, com’era del tutto prevedibile, Silvio Berlusconi, replicante di se stesso accompagnato dai mutanti dei suoi partner del 1994. Ma non solo lui. Torna, dalla sua stessa epoca, la promessa di un centrosinistra ragionevolmente riformista, da parte di una lista come Liberi e uguali che era nata piuttosto come promessa di una nuova sinistra. Da un passato più lontano, quello della cosiddetta prima repubblica, torna il fascino rassicurante dello stile democristiano, depositato nello stile felpato di Paolo Gentiloni, nonché la retorica degli opposti estremismi che di quel fascino è pur sempre una garanzia. E da un passato ancora più lontano torna la rappresaglia fascista, a Macerata e altrove, tollerata nemmeno a mezza bocca più dell’antifascismo perché mossa dalla paura dello straniero, che in questa miserrima campagna elettorale è l’unico sentimento conosciuto e riconosciuto.
Questo girotondo di ritorni rivela un paese che non riesce mai a fare i conti con il proprio passato, ma mostra anche la fragilità delle due narrative, del Pd renziano e del M5S, che più hanno cercato di accreditarsi come portatrici post-ideologiche del nuovo. Per quanto sia prevedibile che il voto di domenica penalizzi il Pd di governo e premi il M5S fin qui d’opposizione (ma ipergovernativo nell’ultima versione firmata Luigi Di Maio), né l’una né l’altra narrativa è riuscita a diventare una rappresentazione convincente ed egemonica di un futuro possibile.
2. Replicanti. Spicca fra tutti il ritorno di Berlusconi, non più in versione imprenditore-prestato-alla politica ma in versione usato sicuro e garantito, non più anfitrione delle “cene eleganti” ma nonno con cagnolino, non più gaudente ma prudente. I giornali di mezzo mondo si sono chiesti giustamente come sia ancora possibile; ma si tratta di un ritorno prevedibile, se solo si riavvolge all’indietro il nastro degli anni e degli eventi. A decretare il tracollo di Berlusconi furono, fra il 2009 e il 2013, tre fattori a rigor di termini extrapolitici (nell’ordine, la denuncia del “regime del godimento” sottostante ai cosiddetti scandali sessuali, con il dibattito pubblico e la mobilitazione femminile che ne conseguì; la crisi economica, l’impennata dello spread, l’isolamento europeo che lo costrinsero a rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio; la condanna giudiziaria per frode fiscale, con la conseguente decadenza da senatore e dagli incarichi pubblici che gli impedisce tuttora di ricandidarsi), che il sistema politico ha usato per detronizzare Berlusconi senza seppellirlo, anzi reintegrandolo subito nelle maggioranze di governo (Mario Monti, Enrico Letta) e nei patti per le riforme, esentandosi da un bilancio critico e autocritico del ventennio precedente. Complice il passaggio cruciale della sostituzione dall’alto del carnevale berlusconiano con la quaresima di Monti, senza il rito elettorale che nell’autunno del 2011 avrebbe potuto sancirne simbolicamente un’uscita effettiva dal basso, Berlusconi è stato rimosso e spettralizzato senza mai essere definitivamente archiviato. E gli spettri, com’è noto, ritornano.
Il replicante, tuttavia, non morde più come l’originale: il paradosso sta precisamente qui, nella sopravvivenza spettrale di un personaggio, e di un tempo, che sono finiti. Berlusconi dà ancora le carte nel gioco politico, ma non domina più l’immaginario sociale, non è più lo specchio in cui il suo popolo si è a lungo riflesso, non detta più le regole dell’estetica e della sensibilità collettive: non fa più, neanche lui, egemonia. Il suo tempo è concluso, i suoi giochi di prestigio si sono infranti nella crisi, il suo regime del godimento non incanta più nessuno. E rischia lui stesso di restare intrappolato nelle sue ripetizioni. Prima fra tutte, la riproduzione della coalizione fra tre diverse destre con cui Berlusconi riordinò il campo politico nel 1994.
Che oggi però non accompagna, come allora, l’introduzione del bipolarismo, bensì supporta una legge elettorale incapace di registrarne fino in fondo la fine; e dunque non fa ordine ma suona provvisoria e strumentale, e al tempo stesso rischia non di confermare la leadership di Berlusconi ma di consegnarla definitivamente al passato.
3. Destra. Qui però non è in gioco solo un passaggio di leadership, né solo l’incerta prospettiva di un sistema che potrebbe riesumare il bipolarismo nel caso di una vittoria del centrodestra o adottare la logica proporzionale qualora non vincesse nessuno. È in gioco anche la natura della destra, il che fa la differenza sostanziale rispetto al 1994. Se è vero infatti che, com’è stato scritto, “l’alleanza di oggi, Berlusconi, Salvini, Meloni, ricalca esattamente lo stesso perimetro politico-culturale dell’alleanza del 1994, Berlusconi, Bossi, Fini” (Paolo Favilli, Le nuove forme del fascismo al governo del paese, il manifesto del 27 febbraio 2018), è vero anche che nel 1994 Gianfranco Fini fu almeno costretto a pagare il pegno di una presa di distanza formale dal fascismo storico e Umberto Bossi quello di un contenimento delle smanie secessioniste della Lega. Laddove oggi gli alleati di Berlusconi a domanda sui loro rapporti con il fascismo storico glissano dicendo che è archiviato “insieme al comunismo” o si barcamenano fra un fascismo “buono” e uno “cattivo”, e intanto attraggono i voti di CasaPound e Forza nuova, vanno a farsi i selfie con Orbán e camuffano le loro inclinazioni squisitamente razziste sotto lo slogan “prima gli italiani”.
La legittimazione di una destra neofascista, ancor più grave dello sdoganamento di quella post-fascista del 1994, è l’unica vera novità di questa campagna elettorale, nonché la sola in cui risuoni un clima internazionale che ci allinea, per il tramite di Marine Le Pen e del Gruppo di Visegrád, agli Stati Uniti di Donald Trump. È l’ultimo regalo di Berlusconi, nonché l’effetto di una delle “guerre culturali” più ossessivamente combattute nel suo ventennio per la rivalutazione di quello di Mussolini e per l’equiparazione fra i due totalitarismi novecenteschi, che come sempre si risolve nell’assoluzione del fascismo e nella damnatio del comunismo. Ma è un regalo che dobbiamo anche alla leggerezza con cui l’informazione ha trattato questa novità, sulla base di un malinteso principio della libertà di espressione che legittima qualunque opinione, anche quando sia palesemente in contrasto con la pregiudiziale antifascista che è alla base della nostra costituzione.
4. Sinistra. Non sono della stessa entità le novità che si registrano nel campo della sinistra. Certo, la presenza di Liberi e uguali (Leu) offre un porto sicuro agli elettori delusi o esasperati dal Pd, e va premiata per la stessa ragione per cui è stato a lungo penalizzato dai media il taglio all’interno del Pd da cui nasce e che ha rimesso in moto un’area altrimenti destinata alla stagnazione. E la presenza di Potere al popolo incanala una parte della sinistra radicale verso un percorso di pratica delle istituzioni che con ogni probabilità acquisterà più spessore in vista delle prossime elezioni europee. Due liste, tuttavia, non sono riuscite finora a fare una sinistra, o meglio, la sinistra di cui ci sarebbe bisogno per lasciarsi alle spalle non Matteo Renzi, ma l’era – ormai quasi quattro decenni – di subalternità della sinistra all’egemonia neoliberale, sulla scia già disegnata altrove da Bernie Sanders o da Jeremy Corbyn con una critica più radicale di ciò che un tempo si sarebbe chiamato sistema. L’insistenza di Leu sulla prospettiva di una riedizione del centrosinistra “ripulito” dal renzismo, da questo punto di vista, non aiuta ad andare avanti ma sposta di nuovo le lancette dell’orologio all’indietro: tornare alle politiche pubbliche a sostegno della scuola, della sanità e del lavoro è il minimo indispensabile per invertire la rotta, ma non basta a offrire quella nuova rappresentazione della società, del mondo e del futuro di cui c’è bisogno per uscire dal “destino” neoliberale.
5. Nord e sud. Di tutte le anticipazioni possibili del voto che i sondaggi hanno fornito, la più plastica, e la più impressionante, è quella che disegna un’Italia nettamente spaccata in due, con un nord consegnato all’egemonia leghista e un sud alla protesta a cinque stelle. Se venisse confermata, si tratterebbe di un segnale inaggirabile del fallimento storico dell’unità del paese, tenuto insieme solo dalla somma di due disagi e di due rivendicazioni d’estraneità dalla politica della prima e della seconda repubblica, e dove l’unica maschera identitaria che funziona è quella, sovranista e comunitarista, dell’ostilità verso lo straniero. Un paese, letteralmente, fuori dal mondo, dove ritessere la tela della politica diventerebbe un’impresa davvero ardua, eppure, finalmente, improcrastinabile.
Preso dall' Internazionale online
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The New York Times2 marzo 2018.
ROMA — La campagna per le elezioni nazionali che si tengono domenica in Italia, è parsa ossessionata, spesso su temi superficiali e assai poco edificanti. Ad ogni modo assai istruttiva almeno su un punto: le forze politiche contrarie a un qualunque ordine globale e all'Unione Europea sembrano essersi definitivamente affermate. I fascisti manifestavano numerosi nelle piazze italiane. Il paese ha sperimentato la peggiore violenza politica da diversi anni, mentre cose un tempo impensabili, come l'idea di deportazioni di massa dei migranti, diventavano temi di quasi routine. Questa resurrezione del fantasma politico nazionale rappresenta un segnale, per l'Unione Europea già indebolita dalla decisione della Gran Bretagna di lasciare, l'arretramento elettorale della cancelliera Angela Merkel in Germania, l'ombra lunga della Russia e l'ascesa di un blocco autoritario negli stati orientali del Continente.
Nelle elezioni, che si tengano negli Stati Uniti o in Europa, la destra estrema è riuscita a spostare l'asse del dibattito politico. Ma in Italia, culla del fascismo, la cosa assume una gravità particolare. Populismo, disinformazione elettronica, polverizzazione della sinistra e ascesa della destra post-fascista anti-immigrati, che aleggiavano sull'Europa da anni, in questa campagna elettorale si sono cristallizzate.
Le elezioni italiane «incarnano perfettamente questo spirito, populismo puro» afferma Stephen K. Bannon, architetto del messaggio populista di Trump, ed ex stratega della comunicazione presidenziale prima delle forzose dimissioni in agosto. Bannon sta visitando l'Italia nel corso di un suo tour europeo per costruire un ampio movimento populista continentale, tema su cui terrà un discorso martedì in Svizzera. Sostiene di aver molto da imparare, dai leader italiani. «Il popolo italiano ha fatto parecchia strada in poco tempo, più dei britannici con la Brexit o gli americani con Trump: l'Italia è una guida». Partiti populisti e della destra estrema oggi sono alla vigilia di una inedita avanzata. Populista è un crescente Movimento 5 Stelle con consensi attorno al 30%, forse il primo partito in un contesto politico molto frammentato.
Il presidente del consiglio di centrosinistra, Paolo Gentiloni, ha provato a lanciare l'allarme dichiarando al Corriere della Sera venerdì scorso che le prossime elezioni saranno le più importanti da un quarto di secolo a questa parte, uno «scontro col populismo», in cui posso essere in gioco sia una società aperta che un sistema di liberi scambi. Gentiloni insieme ad altri lamenta la debole resistenza a queste spinte degli esponenti del mondo politico, economico, intellettuale. Le élites appaiono piuttosto passive, la capacità di indignarsi esaurita. Tutto sembra una nuova normalità, mentre molti analisti temono invece che l'Italia si trasformi nella nuova forza propulsiva di una stagione antieuropeista.
«Bruxelles e atre capitali sono preoccupate, queste elezioni potrebbero produrre il governo meno europeista che l'Italia abbia mai avuto» osserva Stefano Stefanini, già ambasciatore alla NATO oggi consulente della Project Associates. Disoccupazione giovanile, incertezza economica, paura dei fenomeni migratori, tutto contribuisce a «fertile terreno» per una politica estremista, continua Stefanini. «E l'ultima cosa di cui c'è bisogno a Bruxelles è che Roma diventi un problema». Ma pare proprio che sarà così. Il baricentro politico si è spostato, e Silvio Berlusconi, già presidente del consiglio per tre mandati e ancora formalmente leader cel centrodestra, in campagna elettorale prometteva di rimpatriare 600.000 migranti senza permesso. E ancora lo si considera un moderato. I suoi potenziali alleati hanno fatto campagna accusando gli immigrati di qualunque problema italiano, e omaggiando addirittura il premier ungherese autoritario Viktor Orban di una visita.
Ma tra i vari possibili risultati elettorali, si può ancora considerare positivamente una vittoria di una coalizione con a capo Berlusconi, dal punto di vista dell'Unione Europea. Molto, molto peggio, anche se certamente possibile, un risultato di instabilità che potrebbe condurre all'alleanza tra gli antisitema Movimento 5 Stelle e gli anti immigrati della Lega. Per esponenti dell'unione e degli investimenti globali, questo è un vero incubo, in grado di far deragliare l'economia italiana, già scossa dall'enorme debito pubblico, e ricacciarla proprio mentre si vedono segnali di ripresa, di nuovo dentro la crisi.
Entrambi i due partiti si sono alimentati della xenofobia, divenuta il tema dominante della campagna elettorale, a indicare come le politiche migratorie siano ad uno stallo, nonostante tutti i tentativi di contenimento dell'Unione per interrompere le rotte dei trafficanti e rendere il continente meno accogliente. In realtà, il governo di centrosinistra ha fatto dei progressi nel ridurre i numeri degli arrivi. Ma tra gli elettori aleggiano rabbia e paura, per la metastasi di milioni di africani e altri negli ultimi anni. Con la segreteria di Matteo Salvini, la Lega Nord ha cancellato quel «Nord» dal nome per proporre meglio un proprio virulento messaggio anti-immigrazione anche agli elettori meridionali, definiti un tempo «puzzolenti».
Fake news su immigrazione e altri temi hanno intasato Facebook e Twitter postate da sostenitori sia della Lega che dei Cinque Stelle, a volte anche col probabile coinvolgimento di siti collegati. Messaggi che spesso esprimono ammirazione per la Russia, e per il suo leader, Vladimir V. Putin, ma che ha liquidato l'idea di un coinvolgimento diretto nelle elezioni italiane, di cui del resto crede non ci sia alcun bisogno. Il Partito Democratico di Matteo Renzi, ha perduto sostegno secondo una tendenza che vale per tutta l'Europa Occidentale. Nel 2014 alle elezioni per il Parlamento Europeo aveva ottenuto il 40%, in quelle attuali che vedono in grandissima difficoltà tutto il centrosinistra, coi risultati negativi della fortissima polarizzazione su Renzi, si è deciso di non avere neppure un candidato esplicito a primo ministro.
Berlusconi, ineleggibile a pubblici uffici sino al 2019 per la condanna definitiva in evasione fiscale, ha appena nominato per la carica un alleato di lunga data, Antonio Tajani, oggi presidente del Parlamento Europeo, per darsi una patina di credibilità ma restando comunque dentro la sua alleanza sempre più antieuropea. E poche ore prima di nominarlo, compariva sullo stesso palco romano coi suoi alleati di coalizione, Salvini e Giorgia Meloni, candidata post-fascista fresca fresca di ritorno dall'Ungheria e dalla visita a Orban. Meloni si è detta convinta che solo i voti a destra possano produrre un governo stabile, e che qualunque altra scelta porterebbe solo «caos». Salvini ha parlato di mettere l'Italia prima dell'Europa, di essere stufo di lottare per un popolo dimenticato dall'Unione. Berlusconi gli asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Seduto in mezzo ai suoi due alleati, Berlusconi li teneva per mano promettendo che mai si sarebbero separati, dopo il voto, «assolutamente». Non è detto che restino insieme.
«Queste non sono elezioni, ma una specie di sondaggio in cui nessuno può vincere» commenta Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes. E certamente si prevede che ci sarà molta confusione e incertezza, in cui nessun partito o coalizione raggiungerà il 40%, soglia indispensabile per la formazione di un governo, e ci saranno settimane di tira e molla. Alcuni osservatori ritengono possa trattarsi della solita trattativa all'italiana, male decisamente minore visti i tempi, ma resta il rischio di non arrivare ad alcuna coalizione di governo. In quel caso, il presidente potrebbe nominarne al solo scopo di arrivare a nuove elezioni.
«È il collasso del sistema dei partiti» spiega Gianfranco Pasquino, professore ordinario alla Scuola di Studi Internazionali della Johns Hopkins University a Bologna. «Nessun governo stabile o leader di partito affidabile, vuol dire situazione in bilico, nessun governo per mesi è una pessima situazione per l'Europa». Roberto D’Alimonte, professore di scienze politiche all'Università Luiss Guido Carli di Roma, è della medesima opinione: «È lo scenario peggiore per l'Italia e l'Europa». Uno dei maggiori pericoli è che le forze populiste, in particolare il Movimento Cinque Stelle, possano guadagnare ulteriore impulso dalla frustrazione italiana. Secondo Bannon, se succedesse questo, o se Berlusconi si alleasse con Renzi formando una coalizione di governo, i populisti conservatori italiani potrebbero vedere «realizzarsi il sogno finale», alleandosi con la Lega. «Stavolta vinciamo» urlavano i sostenitori M5S a Roma in chiusura di campagna. Ma non tutti ne sono così convinti. «Il potere è ancora molto forte, sarà difficile», ne è convinto Tilio Figus, 55 anni, imprenditore e sostenitore del movimento: «Ma se ci tengono fuori sarà un grosso problema per il paese».
laCittàinvisibile,
Care, cari, mi rivolgo ai lettori de La città invisibile, a chi segue l’attività del Laboratorio politico perUnaltracittà, a chi ha seguito l’esperienza della lista in consiglio comunale.
Come sapete domenica si vota, in un pessimo clima, e con una pessima legge elettorale.
In una campagna elettorale piena di veleni, con formazioni razziste e fasciste ormai sdoganate, con un improbabile centrosinistra che insegue la destra facendo leva sui peggiori istinti di un elettorato incattivito da anni di crisi e di spoliazione, di diritti negati e di guerra fra poveri, si distingue una esperienza, quella di Potere al Popolo. Esperienza, perché Potere al Popolo non è un cartello elettorale né una somma di piccoli partiti. Nasce prendendo a pretesto le elezioni ma non ha le elezioni come ragione di vita, perché queste sono solo uno degli strumenti in cui si declina un agire politico volto al cambiamento.
E’ successo che i non rappresentati hanno pensato di rappresentarsi da soli, prendere l’iniziativa e la parola. Precari, disoccupati, lavoratori sempre più sfruttati, studenti, ma anche associazioni, pezzi di sindacato, centri sociali: qualcuno ha alzato la testa e ha gridato “proviamoci”. Ed è successo quello che non era facilmente prevedibile, con l’energia della spontaneità e la forza della necessità si è messo in moto un sommovimento in gran parte autorganizzato che ha portato a decine e decine di assemblee sui territori, alla definizione condivisa e partecipata di un programma, alla scelta delle candidature che provengono tutte dalle lotte e dalle vertenze, dalle esperienze di movimento e di impegno che di quei territori sono espressione.
Nel disinteresse dei media e degli osservatori più o meno mainstream, fra il cinico e il supponente, questa strana cosa è cresciuta, si sono raccolte in pochi giorni il doppio delle firme necessarie a presentare la lista Potere al Popolo in tutte le circoscrizioni del paese, e con zero risorse è stata condotta una campagna elettorale fatta principalmente di contatto diretto con gli elettori, e fuori da una fabbrica in sciopero, nei luoghi della logistica in agitazione, fra i lavoratori dei centri commerciali, fra gli studenti o gli insegnanti, non erano stupiti di vedere i candidati che si presentavano, perché erano quegli stessi che erano sempre stati presenti quando c’era da sostenere una lotta da rivendicare un diritto, da battersi per una maggiore giustizia sociale, e perché questa società non regredisse fino alla barbarie dell’egoismo più becero.
I punti del programma sono quelli che hanno sempre caratterizzato l’azione di
perUnaltracittà, i temi come il lavoro e i diritti, la redistribuzione della ricchezza, sanità, assistenza, istruzione pubbliche e gratuite, il diritto alla casa, i diritti dei migranti, la difesa dell’ambiente e dei territori.
Per tutto questo invito tutte e tutti voi a votare la lista di Potere al Popolo, a seguirne l’attività (
poterealpopolo.org), e a continuare a seguirla anche dopo, perché è stato detto fin dall’inizio che le elezioni del 4 marzo servono "solo" (ed è chiaro che per questo scopo è importante riuscire a ottenere il massimo del risultato) a intercettare le persone che possono avere bisogno di noi, a coinvolgerle, a farle interessare o gettarle dentro a un processo di partecipazione. Processo che per noi deve avere una serie di requisiti: coinvolgere in tutti i modi persone diverse da quelle già presenti nei partiti, riattivare ex militanti o produrne di nuovi, privilegiare soprattutto la partecipazione giovanile, che ha più tempo ed energie e in prospettiva può diventare produttiva, scegliere le persone e i candidati non per appartenenza a un gruppo secondo una logica di spartizione, ma perché rappresentative dei territori e/o più capaci.
Finalmente lieta di andare a votare,
Ornella
Internazionale online,
Si avverte un certo attrito fra le femministe più giovani e quelle più vecchie, provocato dalla recente comparsa dei movimenti #metoo e Time’s up e dalle reazioni negative di Catherine Deneuve e di Germaine Greer. Ho sentito donne mature che non capiscono perché una ragazza abbia definito la sua esperienza con l’attore Aziz Ansari come la notte peggiore della sua vita, e ho sentito donne giovani chiedere alle più anziane di farsi da parte o di tenere la bocca chiusa.
È sempre preoccupante quando gruppi di donne si contrappongono tra loro o si scagliano a vicende calunnie e sospette. Il momento che stiamo vivendo mi sembra decisivo: oggi le donne gridano “siamo incazzate nere e non ne possiamo più!”, e io non ho tempo per chiunque si metta in cattedra dicendo che ai suoi tempi era perfettamente capace di badare a se stessa. Un atteggiamento che nasce da un senso di vergogna e quasi di negazione, come se si dicesse “le botte non mi hanno fatto niente”.
Ondate naturali
Tuttavia questo gap generazionale non è una novità: ogni ondata di femminismo ha visto figlie schierarsi contro le loro madri spirituali e politiche, o in certi casi anche biologiche. Scriveva Rebecca Walker, figlia di Alice Walker e femminista della terza ondata, nell’ormai lontano 1995: “Le giovani femministe si accorgono di badare a come parlano per non turbare le anziane madri femministe. C’è senz’altro un divario tra le femministe che si considerano appartenenti alla seconda ondata e quelle che si definiscono della terza”.
Il mio femminismo si è formato verso la fine degli anni settanta, quando le mie eroine punk erano le Raincoats and Poly Styrene, e poi nei primi anni ottanta, all’università, dove leggevamo Kate Millett, Sylvia Plath, Audre Lorde e Charlotte Perkins Gilman.
Eravamo decisamente antiglamour, ferocemente polemiche e un po’ puritane. Per forza: avevamo letto Contro la nostra volontà di Susan Brownmiller, che nel 1975 definiva la cultura dello stupro “un processo consapevole di intimidazione per mezzo del quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura”.
Le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia
La generazione seguita alla mia, quella degli anni novanta, mi ha provocato un bel po’ di confusione. Mentre un tempo, nella mia classe di letteratura femminista, buttavamo nella spazzatura Histoire d’O, le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia, non avevano peli sulla lingua e non si lasciavano intimidire. Però hanno anche dovuto fare i conti con la cultura del “nuovo maschio”.
Certe volte somigliavano alla cool girl poi descritta da Gillian Flynn nel suo L’amore bugiardo, che, pur di ottenere l’approvazione dei maschi, emulava i rozzi comportamenti di certi uomini. Mi restava il dubbio. Magari quello era un femminismo nuovo e io ero una moralista. O magari era un’altra ondata di riflusso.
Più conoscenza e più ansia
Le mie figlie, ora ventenni, appartengono alla quarta ondata. A scuola hanno fondato un circolo femminista, a 15 anni sono andate a sentir parlare Malala Yousafzai, e siccome sono cresciute online, hanno avuto accesso a tutto un mondo di conoscenza e di esperienza. Non mi vergogno di ammettere che da loro ho imparato varie cose. La loro generazione mi sembra istintivamente più a suo agio con l’intersezionalità, e mi ha insegnato a usare termini come “non binario” e pronomi neutri ben prima che quel modo di parlare fosse adottato da un pubblico più vasto.
Però le mie figlie, per via dei selfie e di Instagram, sono anche più ansiose riguardo al loro aspetto esteriore di quanto lo fossi io, e si assoggettano a standard più elevati di cura della persona e di bellezza.
Noi degli anni settanta eravamo piene di peli e puzzavamo un po’, ma non importava, mentre le attuali pretese nei confronti delle donne mi sembrano impegnative fino allo sfinimento. Sono rimasta allibita leggendo su un giornale che le giovani non vanno neanche a farsi il pap test se prima non si sono fatte la ceretta. Ricordo che ai miei tempi il sottoporsi a un esame interno mi sembrava un rito di passaggio femminista. Non vergognarsi di mostrare quella parte del nostro corpo a un medico era un segno di liberazione, simile al suggerimento di assaggiare il proprio sangue mestruale, lanciato da Germaine Greer.
Ma allora era allora e oggi è oggi e siamo ancora tutte nella stessa barca. A volte non mi ricordo bene a quale ondata o a quale generazione appartengo. Penso di essere una baby boomer, il che significa che potrei facilmente aggiungermi a quelle che oggi liquidano cinicamente le millennial. Invece non voglio farlo. Le ascolto, e le trovo formidabili. Vi sembrerà una sdolcinatezza, ma io preferirei far confluire tutte le ondate in un grande oceano.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è uscito sul settimanale New Statesman. Esso è raggiungibile qui: Il femminismo è un oceano di donne diverse
la Repubblica
«Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso». Questa terribile dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare.
Di quale ‘buon senso’ si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri (peraltro del tutto inverosimili: fino a vagheggiare inesistenti invasioni), o come di minacce (la ‘bomba sociale’). Lo stesso ‘buon senso’ per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd).

Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia, e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro
Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «l’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno).
Nel caso della Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di ‘buon senso’ immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti, possibilmente per turisti di lusso. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui, tra mille difficoltà, è ancora possibile coltivare uno stile di vita non è del tutto appiattito sull’alienazione morale e sulla solitudine esistenziale delle metropoli. Come spiega Vito Teti in Quel che resta. L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni (Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle. «Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il ‘paesologo’ Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il «progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 Cost). Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un terribile bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
Internazionale , 2

“Quando pareva vinta Roma antica, sorse l’invitta decima legione, vinse sul campo il barbaro nemico, Roma riebbe pace con onore”. Le parole della marcetta della
decima flottiglia Mas – un corpo militare della Repubblica sociale italiana (Rsi) – sono scandite da una trentina di reduci e simpatizzanti: sono tutti avanti con l’età e sono venuti nel municipio di Gorizia per celebrare il 73° anniversario della battaglia di Tarnova della Selva contro l’esercito jugoslavo. È la prima volta che gli è concesso entrare nella sala della giunta comunale.
È il 20 gennaio, un sabato mattina: è freddo, ma c’è il sole. Un gruppo di militanti di CasaPound in picchetto sotto al municipio è venuto a sostenere quelli della Decima Mas, mentre un centinaio di antifascisti che protestano contro l’evento sono tenuti a distanza dalle forze dell’ordine. “Onore a chi non ha tradito”, c’è scritto in fasciofont sullo striscione tenuto da alcuni ragazzi di CasaPound.
I cappelli grigioverdi da combattenti calzati sulla testa e in mano i vessilli dell’Rsi: una bandiera con al centro un’aquila che artiglia un fascio, all’apice un fiocco azzurro, il colore della Decima Mas. I reduci del battaglione fascista che collaborò con la Germania nazista sono accolti nel municipio di Gorizia dal consigliere di Forza Italia Fabio Gentile, famoso perché risponde all’appello del consiglio comunale alla maniera fascista: alzando il braccio destro.
L’epica neofascista
Il sindaco Rodolfo Ziberna, di Forza Italia, non assiste alla celebrazione, al suo posto c’è il vicesindaco Stefano Ceretta, della Lega, che intona l’inno della Decima Mas. “Gorizia è italiana perché la Decima l’ha difesa. I nostri caduti si sono sacrificati per la sua difesa”, dice Fiamma Marini, presidente dell’Associazione dei combattenti, durante la commemorazione.
Nell’epica della Repubblica sociale italiana, la battaglia di Tarnova ha un posto speciale: i fascisti sostengono che il battaglione della Decima Mas nel 1945 abbia difeso “l’italianità” di Gorizia dall’invasione dell’esercito jugoslavo, ma la ricostruzione è contestata da molti storici, perché all’epoca la città era occupata dai nazisti, che combattevano al fianco del battaglione fascista.
Il vicesindaco Ceretta ha risposto alle critiche sollevate sulla sua partecipazione alla commemorazione (che hanno portato anche a un’interrogazione parlamentare) dicendo che “i morti sono tutti uguali”. Per la storica Anna Di Gianantonio, presidente dell’Anpi di Gorizia, il fatto che le istituzioni locali abbiano commemorato con i reduci la battaglia di Tarnova è un affronto alla città che è stata medaglia d’oro della resistenza.
I reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia
A Gorizia, soprattutto in provincia, il fascismo coincise con una violenta “italianizzazione”, che passò anche dalla persecuzione di migliaia di cittadini di origine slovena. Lorenzo Filipaz ha provato a sfatare il mito della battaglia di Tarnova e sul tema pubblicherà nel 2018 il libro Prigionieri del ricordo.
Su Giap, Filipaz ha scritto: “Per documentare il loro alquanto dubbio apporto alla difesa dell’italianità al confine orientale i reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia epica contro gli ‘slavocomunisti’ – la presunta battaglia di Tarnova – non riconosciuta da nessun altro, mentre le proteste contro i comandi tedeschi per le scarse forniture di armi si tramutarono in prove incontestabili di opposizione al nazismo”.
La commemorazione in municipio è solo l’ultimo atto di un conflitto ideologico che ha come sfondo una città dalla memoria contesa. “Nei giorni in cui il presidente della repubblica nominava senatrice a vita Liliana Segre – una delle ultime sopravvissute ai campi di sterminio nazisti – a Gorizia si celebrava la Decima Mas con tanto di picchetto di CasaPound”, commenta Andrea Picco, consigliere comunale del Forum per Gorizia, mentre si avvia all’inaugurazione di una pietra d’inciampo dedicata a Elda Michelstaedter Morpurgo, un’ebrea goriziana deportata ad Auschwitz nel 1943.
Gorizia – città “maledetta” per il massacro di migliaia di soldati durante la prima guerra mondiale, estrema periferia orientale dell’Italia, feudo della destra – è una specie di museo a cielo aperto della storia del novecento. E forse proprio per questo rapporto conflittuale con la sua storia la città amplifica alcune tendenze visibili anche a livello nazionale: la strumentalizzazione elettorale dell’ostilità verso i migranti in un contesto di rapido spopolamento e invecchiamento della popolazione, la sensazione di abbandono di chi si sente in periferia, l’inquietudine prodotta dalle trasformazioni del mondo del lavoro, la costruzione artificiosa e continua dell’idea del confine, e la proliferazioni di miti legati alla difesa di una fantomatica identità nazionale.
Il polso del paese
Ali Hassan è un ragazzo pachistano di vent’anni: alto e slanciato. Gira spaesato per i negozi di via XX settembre, nel centro che sembra svuotato, tra i cartelli “vendesi” e “affittasi” appesi alle finestre dei vecchi palazzi. Indossa una giacca blu con il bavero alzato e ogni tanto si ferma a chiacchierare con gli amici. È tornato due settimane fa dalla Germania, dove gli è stato negato l’asilo perché il Pakistan è considerato un paese d’origine sicuro.
In Italia ha presentato di nuovo la richiesta e sta aspettando una risposta. Non pensa di fermarsi a Gorizia: appena avrà i documenti si sposterà più a sud per cercare lavoro, ma per ora dorme per strada o nella struttura termoriscaldata che all’inizio di dicembre è stata costruita da Medici senza frontiere in uno spazio dell’arcidiocesi. Il 20 febbraio però l’arcidiocesi ha annunciato che il tendone di 240 metri sarà smontato, in anticipo rispetto al previsto.
Nelle vie del centro i ragazzi pachistani sono tra i pochi passanti insieme ai pensionati. Più di un quarto della popolazione residente in Friuli-Venezia Giulia ha almeno 65 anni. A Gorizia è il 26,6 per cento (il dato nazionale è del 22,6 per cento). Il Friuli-Venezia Giulia e la Liguria sono le regioni d’Italia con più anziani – in particolare alcuni territori come Trieste e Gorizia – a causa di una diminuzione della natalità che non è compensata dall’immigrazione: i migranti che arrivano qui ci rimangono giusto il tempo di presentare la domanda d’asilo.
“Bisogna dire che a Gorizia non ci sono stati episodi di criminalità o particolari problemi dovuti all’ultima ondata migratoria, ma il sentimento generale verso gli immigrati è di ostilità”, afferma Adriano Ossola, libraio, editore indipendente, insegnante di lettere in un liceo della città e organizzatore del festival di storia, che quest’anno è dedicato alle migrazioni.
“In classe non propongo più da tempo temi sull’immigrazione, perché la maggior parte delle volte leggevo nei testi dei ragazzi odio e aggressività verso i migranti”, racconta Ossola, che ritiene responsabile della diffusa intolleranza il governo guidato dal Partito democratico. “Il Pd ha perso il polso del paese. La tendenza alla mobilità è connaturata nell’indole umana, ma oggi il pianeta è diventato troppo stretto e anche a causa della situazione economica. La migrazione si accompagna a sentimenti di paura sempre più acuta”.
Lui stesso ammette di aver cambiato atteggiamento nell’ultimo anno: “Nel 2015 ero rimasto molto colpito dalla morte di un ragazzo pachistano annegato nell’Isonzo, il fatto mi aveva davvero sconvolto e mi aveva spinto a scriverne, ma ora anch’io ho cambiato posizione e credo che gli arrivi si debbano in qualche modo fermare”. Ossola è convinto che la politica migratoria del Pd sia troppo permissiva. Un mese dopo le elezioni politiche, in Friuli-Venezia Giulia si voterà anche per rinnovare il consiglio regionale guidato da Debora Serracchiani, del Partito democratico.
Campagna elettorale perenne
A differenza di Ossola un’altra parte della popolazione goriziana, minoritaria ma tutt’altro che silenziosa, pensa che la questione dell’immigrazione sia stata strumentalizzata per scopi elettorali. “Prima ci sono state le amministrative, ora ci saranno le politiche e poi le regionali: siamo in una campagna elettorale perenne, che si è giocata tutta sul tema dell’immigrazione”, afferma Andrea Picco, consigliere comunale di Gorizia della lista civica di sinistra Forum, eletto a giugno del 2017.
Rodolfo Ziberna, un ex socialdemocratico entrato nelle file di Forza Italia, figlio di profughi istriani, ha raccolto sotto un unico ombrello otto liste – da Forza Italia alla Lega, fino a Fratelli d’Italia – e ha fatto una campagna molto aggressiva sull’immigrazione con lo slogan “Stop all’immigrazione incontrollata” e “Gorizia prima di tutto”.
Ziberna non ha vinto al primo turno per una manciata di voti, mentre al ballottaggio si è imposto sul candidato del centrosinistra Roberto Collini con il 59,7 per cento dei consensi. Il centrosinistra ha presentato cinque candidati rivali in un territorio considerato un bastione del centrodestra, e i cinquestelle non hanno avuto l’exploit di altri territori, fermandosi al 5,1 per cento.
“Ziberna non ha avuto bisogno di fare la campagna elettorale: ha semplicemente approfittato del fatto che Gorizia non è sufficientemente attrezzata e che i migranti in transito in attesa di una risposta dalla commissione territoriale dormivano in piazza Vittoria”, spiega Picco. “Spargendo messaggi di sospetto e di terrore e promettendo tolleranza zero ha vinto facile”, continua il consigliere comunale di opposizione.
Fino all’agosto del 2017 e per alcuni mesi i migranti che arrivavano a Gorizia dalla rotta balcanica dormivano all’addiaccio nel Parco della Valletta del corno oppure lungo le rive del fiume Isonzo nella cosiddetta jungle, poi sono stati sgomberati. Allora hanno cominciato a dormire davanti alla prefettura, nella piazza centrale di Gorizia, prima di rifugiarsi nella galleria Bombi: un tunnel pedonale sotto al castello della città.
L’articolo è tratto da “Internazionale", ed è qui raggiungibile

«Potere al Popolo. Intervista alla portavoce Viola Carofalo: "CasaPound e Forza Nuova vanno sciolte. La risposta ai neofascisti non può essere solo repressiva ma li hanno lasciati crescere e ora c’è da preoccuparsi della violenza su donne e immigrati"»
Viola Carofalo, portavoce di Potere al Popolo, due vostri militanti sono stati feriti a Perugia e CasaPound sostiene di essere la vittima.
«È un classico, fanno sempre così, ci hanno tentato anche a Napoli quando l’aggressione ai nostri attivisti è stata fatta con mazze e bastoni della X Mas. Quello che è successo a Perugia è inequivocabile, il nostro militante è stato colpito con un coltello e non credo che quelli di CasaPound fossero andati in giro per funghi».
È il primo episodio ai vostri danni?
«Niente affatto, sono già una decina negli ultimi due mesi. Un caso quasi analogo è accaduto a Genova durante la raccolta delle firme, un nostro attivista è stato accoltellato. A Torino alcuni ragazzi dei collettivi studenteschi sono stati massacrati di botte dal Blocco studentesco. C’è un clima orribile».
Potere al Popolo condanna la violenza di Palermo ai danni di un esponente di Forza Nuova?
«Sottoscrivo quello che ha detto il sindaco Orlando: il fascismo si combatte con la cultura e la resistenza. Purtroppo i fascisti sono spesso difesi dallo stato. Dopo un episodio gravissimo come quello di Macerata la preoccupazione del ministro dell’interno è stata cercare spiegazioni al gesto di Traini, ostacolare il corteo antifascista e consentire ai fascisti di fare comizi e iniziative.
Glielo si può impedire? Sono candidati alle elezioni?
«Il problema è quello, dovrebbero essere fuori legge altro che candidati. Evidentemente fanno gioco».
CasaPound e Forza Nuova andrebbero sciolte? E come
?«Assolutamente sì, andrebbero sciolte. Le leggi ci sono. Di Stefano è venuto a Napoli a ribadire che è un fascista erede della repubblica di Salò. Mi rendo conto che si tratta di quattro cretini e che il vero problema non sono loro ma i partiti del 20%. Incluso il Pd di Minniti per il quale Traini si spiega con il fatto che arrivano troppi immigrati. Però a questi quattro cretini si è dato spazio, visibilità e sono cresciuti. Ieri ho registrato l’intervista con Bruno Vespa – gentile – e subito dopo di me hanno montato quella di Fiore che rivendicava di aver detto «non faremo prigionieri». Una frase stupida, ma anche pericolosa».
Avete un programma molto avanzato sulla giustizia, tra le altre cose chiedete una depenalizzazione per i reati politici. Però volete combattere le organizzazioni neofasciste con lo strumento giuridicamente complicato e politicamente discutibile dello scioglimento. Una contraddizione in seno a Potere al Popolo?
«Condivido che la risposta non possa essere solo di carattere repressivo, e noi dell’ex opg a Napoli lo sappiamo bene. La risposta è costruire un tessuto solidale, intervenire nei quartieri, togliere spazio alla guerra tra poveri che altrimenti fa prosperare egoismo e razzismo. Al punto in cui siamo però ho anche paure più immediate. Non per le aggressioni ai militanti, quelle purtroppo ci sono sempre state, ma ho paura delle violenze fasciste sui migranti, sugli omosessuali, sulle donne».
Perché non avete aderito alla manifestazione di sabato a Roma?
«Molti di noi parteciperanno in ogni caso. Ma Macerata è stata una grande occasione sprecata per gli antifascisti, grandi organizzazioni come Anpi e Arci hanno fatto un errore a ritirare l’adesione. Quello era il tempo e quello era il luogo per dare una risposta alla tentata strage razzista. Dopo di che ogni piazza antifascista è una piazza buona».
Vi tiene lontano un antifascismo di tipo elettorale?
«C’è anche questo, sì. I segni li vediamo benissimo. Ci vogliono mettere all’angolo invitando a votare per la stabilità, per quei partiti iper moderati che garantirebbero la tenuta democratica. Ma sono gli stessi partiti che quando si tratta di impedire il diritto democratico di manifestare l’antifascismo si muovono in modo tutt’altro che moderato».
L’ultima domanda è fuori tema: che effetto fa vedere Corbyn con Grasso?
«Secondo me Corbyn si è confuso, era distratto. Noi di Potere al Popolo non possiamo dire di ispirarci direttamente a lui. Ha fatto la sua battaglia all’interno del Labour mentre noi abbiamo lanciato un movimento nuovo. Però sicuramente è un riferimento per il tipo di campagna che ha fatto, Momentum, i giovani, l’utilizzo della rete e del porta a porta. LeU che è il prolungamento del Pd di tutto questo non fa nulla. Corbyn si ricrederà».
il manifesto,
«Chi sta con chi. Tra socialisti radicali e altermondisti moderati, Liberi e Uguali e Potere al Popolo si giocano i testimonial, in qualche caso scippandoli al Pd. Tranne Tsipras, che però appoggia entrambi»
Il blitz londinese di Grasso è un colpo basso per il Nazareno. Che infatti si guarda bene dal commentare. Il laburista antiBlair oggi in corsa per Downing Street è un meme vivente degli errori di Renzi su scala continentale. Dopo la vittoria dell’ultimo congresso del Labour il leader Pd non gli ha neanche inviato i complimenti della buona creanza. Fino a quel momento i renziani definivano il leader laburista «una catastrofe», uno che «gode a perdere». Grasso a sua volta ha portato a casa una foto che parla a molti. Corbyn è un’icona per la sinistra radicale, ma è considerato un modello anche da Prodi. L’ex procuratore si è ispirato a lui dallo slogan «Per molti, non per pochi» che traduce For the many not the few, giù fino alle singole proposte, come l’abolizione delle tasse universitarie, battaglia che ha conquistato la gioventù britannica.
L’abbraccio con Corbyn racconta anche del voto del 2019 per il parlamento di Bruxelles. Dove tutte le famiglie progressiste potrebbero rimescolarsi. E le sinistre europee guardano con preoccupazione alla divisione dei “compagni” italiani fra Liberi e uguale e Potere al Popolo. «Vedo con tristezza che la sinistra con cui potrei identificarmi non è in condizioni di combattere per vincere le elezioni», ha detto al Fatto Pablo Iglesias, leader spagnolo di Podemos. Iglesias si era felicitato con Nicola Fratoianni (Si) per la nascita di Leu, ma non può esplicitamente endorsarla, almeno finché a Bruxelles Mdp farà riferimento al Pse. Un tema che non tarderà ad agitare la Ditta per le europee, sempreché a quel traguardo arrivi unita.
L’allarme per le divisioni italiane, specchio di quelle di tutti, è tale che il partito della Sinistra europea, che raccoglie le sinistre d’alternativa che a Bruxelles siedono nel Gue (il gruppo delle sinistre europee), a gennaio ha inviato una nota riservata agli aderenti: «Sull’Italia non schieratevi» è la sostanza del messaggio. Se ne capisce il motivo: Rifondazione comunista, che aderisce a Se, corre con Potere al Popolo; invece Sinistra italiana, che è solo «membro osservatore», ha fondato Leu, i cui europarlamentari siedono nel gruppo dei Socialisti e democratici. Non è l’unico problema: le sinistre radicali continentali sono attraversate da confronto sui destini dell’Unione. Europeisti da una parte. Euroscettici e sovranisti dall’altra: una parte, quest’ultima, assai più affollata di gruppi di destra.
Il conflitto è emerso clamorosamente a fine gennaio quando Jean-Luc Mélenchon, leader della francese France Insoumise ha chiesto l’espulsione da Se di Tsipras, presidente della Grecia e leader di Syriza, con l’accusa di essere «servile con i diktat liberisti della Commissione europea». Tsipras gli ha replicato duramente: «Noi non siamo di sinistra solo a parole». Poi la crisi è rientrata. Ma il tema si riproporrà appena scoccherà la corsa per le europee.
Per l’intanto l’effetto è che in Italia Leu e Pap si contendono le star internazionali come una vecchia edizione di Sanremo. Mdp, che sul fronte europeo ha partner socialdemocratici e socialisti cioè tifosi del Pd, ha però incassato per Leu la benedizione di Pepe Mujica, mitico ex presidente uruguajano con un passato da Tupamaro.
Con Pap si sono invece schierati la cilena Camilla Vallejos e il regista inglese Ken Loach. E Mélenchon, che lo scorso 16 febbraio è sbarcato a Napoli per studiare il modello mutualistico dell’ex Opg-Je so pazzo, il centro sociale da cui è nata la lista, ha incontrato il sindaco De Magistris: «Sono venuto a Napoli a imparare, qui fate la lotta per la rivoluzione in Europa».
Sinistra italiana a sua volta ha incassato la presenza della leader della tedesca Linke Katja Kipping a un’iniziativa contro le “Groko”, le larghe intese, con Nicola Fratoianni: ma l’iniziativa era organizzata dall’Ars di Vincenzo Vita e Aldo Tortorella. A sua volta l’eurodeputata Eleonora Forenza, del Prc (ma eletta con le insegne di l’Altra Europa) ha raccolto una decina di endorsement «in tutte le lingue» per Pap: fra cui la capogruppo di capogruppo del Gue a Bruxelles Gabi Zimmer (della tedesca Linke), un irlandese dello Sinn Féinn, un portoghese del Pcp, una spagnola di Izquierda unida, un greco del Lae e un comunista basco.
Non entra infine nella mischia italiana il presidente Tsipras che ha portato a casa il ciclopico traguardo di uscire dal Memorandum (a agosto), il pesante programma di tagli con cui ha portato il paese fuori dal baratro, tenendo «la società in piedi», come dice lui. Altrettanto fa Syriza. «Auguriamo la vittoria a tutta la sinistra italiana», spiega Argiris Panagopoulos, responsabile di Syriza per l’Europa del sud, «Grecia e Italia hanno fra loro un legame di sangue costituito dai morti del Mediterraneo. Siamo impegnati insieme su questo fronte e quello che non possiamo permetterci è un governo della destra razzista. Insieme noi greci abbiamo sconfitto Scheuble e gli ultraliberisti. Insieme i socialisti e i comunisti governano in Portogallo. E nonostante le critiche contro di noi, abbiamo aiutato a vincere Mélenchon in Francia. Perché non possiamo permetterci divisioni. Dobbiamo lavorare tutti insieme contro il risorgere dei nazionalismi e dei sovranismi in Europa. Quelli di destra e di sinistra».
il manifesto,
Potere al Popolo. «Noi siamo già una federazione, un processo costituente in quanto tale già aperto e che di certo può aprirsi ancora di più nel futuro»
Una giornata di riflessione sulla sinistra post voto del 4 marzo. Suona paradossale cominciare a organizzare il «dopo» prima di conoscere il risultato delle elezioni, dunque prima di aver «pesato» le forze e le energie in campo, l’opinione dei cittadini votanti. Ma non la pensa così il gruppo dei firmatari dell’appello e dell’assemblea «Parte costituente, proposte per la Costituente del soggetto dell’alternativa» che si sono dati appuntamento domenica a Roma, alla Casa internazionale delle donne. Volutamente prima delle urne, anche se «non a prescindere», giurano.
Sono un nucleo di dirigenti e militanti di Sinistra italiana, per lo più marchigiani e abruzzesi, «ma anche indipendenti, appartenenti all’area dell’Altra Europa con Tsipras, che, più o meno tutti, hanno incrociato nel recente passato l’esperienza del Brancaccio». Fallita la quale non hanno condiviso la nascita di Liberi e uguali – anzi ne prevedono il rapido deragliamento – e votano Potere al popolo.
Non tutti i partecipanti fanno questa analisi e e questa scelta. In ogni caso l’assemblea di domenica guarda oltre la scadenza elettorale e propone da subito la nascita di un «soggetto della sinistra d’alternativa, anticapitalista, radicale ma maturo, capace di coniugare prospettive e immediatezza», così la spiega Edoardo Mentrasti, uno degli organizzatori, «un animale strano a mezz’aria fra il sociale, il culturale e il politico», questa invece la definizione di Sergio Zampini. Ad adesioni individuali («una testa un voto» era la formula usata in esperienze precedenti) e senza sciogliere le organizzazioni preesistenti.
È presto per sapere se avrà miglior sorte delle diverse creature federative che le sinistre hanno consumato nello scorso decennio, dopo elezioni perse o persino vinte. Una delle differenze fra le storie andate e la vicenda di oggi è però cruciale: la nascita della lista Potere al Popolo, «un processo costituente in quanto tale già aperto e che di certo può aprirsi ancora di più nel futuro», spiega Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista e candidato.
Pap ha già in programma un’assemblea nazionale a metà marzo per decidere le modalità di prosecuzione del lavoro. Le due cose possono coincidere?
«Potere al popolo è un soggetto ’radicale e maturo’ basato sul mutualismo», spiega Salvatore Prinzi dell’ex Opg Je so’ pazzo, il centro sociale napoletano epicentro della lista. «Dopo il 4 marzo Pap ci sarà e saremo ben felici di allargarla. La nostra è già l’esperienza di una federazione di realtà di base e forze politiche istituzionali insieme a pezzi di sindacato, non solo di base ma anche Rsu e Cgil». «Ma su una cosa siamo stati sempre chiari anche fra noi: andremo avanti, abbiamo deciso di utilizzare la scadenza elettorale soprattutto per costruire la rete e l’organizzazione del dopo». Non è un caso che il lavoro organizzativo nazionale è affidato a un gruppo di giovani dirigenti non candidati nelle liste, liberi di tessere la rete dei soggetti senza per questo sguarnire il fronte dei collegi.
I firmatari della convocazione di domenica propongono da subito un «processo costituente» anche in vista delle europee del 2019. E qui si porrà un tema cruciale per la collocazione di un eventuale soggetto politico. Sulle prospettive, sull’idea stessa di Unione c’è una linea di confronto ruvido che attraversa tutte le sinistre europee, dalle posizioni più europeiste a quelle che bordeggiano il sovranismo e il ritorno ai confini e alle monete nazionali. Discussione aperta anche in Italia, che presto impatterà sulle altre questioni – e c’è da scommettere che non saranno poche – che investiranno le sinistre nel post-voto.
la Stampa
Il fascismo è morto e sepolto. Non è un pericolo il fascismo: sono tutti morti. Il fascismo, nato come movimento socialista, ha avuto bisogno che arrivasse Mussolini o Hitler. Se non c’è in giro un Mussolini o un Hitler non succede niente. Pericoloso è semmai il movimento dell’antifascismo con i centri sociali, come si è visto a Piacenza con l’aggressione al carabiniere. Così Berlusconi l’altro giorno ospite di Fabio Fazio su Rai 1.
Dirsi sconcertati è ormai impossibile, tali e tante sono le sciocchezze che ci vengono ammannite in questa campagna elettorale. Ma non può passare senza un commento l’incredibile ricostruzione secondo la quale il fascismo sarebbe stato Socialismo+Mussolini, morto il quale non potrebbe più esserci fascismo. E poco merita di esser detto dell’offensiva assimilazione dell’antifascismo, radice della Costituzione, all’azione di pochi criminali violenti che abusivamente si nascondono dietro una bandiera con cui nulla hanno a che fare.
Né bisogna scrollare le spalle, pensando che si tratta di parole in libertà, che durano lo spazio di un passaggio in televisione. Gli elettori della destra nostalgica si sentiranno legittimati nell’arena politica. E si può immaginare l’effetto nell’Europa alle prese con ciò che accade in Ungheria e Polonia, quando nelle varie capitali verranno lette le note informative inviate dai loro ambasciatori a Roma.
In realtà quanto detto dal sorridente e rassicurante Berlusconi va preso molto sul serio, perché quelle parole cadono su un terreno di altre parole che da qualche tempo tanti non esitano più a pronunciare. Una di queste è fascismo. Del fascismo viene taciuto l’uso e l’esaltazione del manganello contro gli avversari, l’abolizione del Parlamento (e l’uccisione del socialista Giacomo Matteotti), il partito unico, il carcere e il confino per gli antifascisti, le leggi razziali, le guerre coloniali e quella accanto ai nazisti. Ma, si dice, il fascismo ha anche fatto cose buone. Il giornale «Libero» ha pubblicato un elenco di 100 cose buone del fascismo. Salvini poi, capo della Lega, ha contraddetto il presidente Mattarella, ricordando il sistema pensionistico e la bonifica delle Paludi Pontine. Mattarella, il giorno della memoria della Shoah, aveva detto: «Non dimentichiamo, né nascondiamo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo». Aveva aggiunto: «Sorprende sentir dire, ancora oggi da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione». Il fascismo, ha detto il Presidente, «non ebbe meriti». Affermazione, quest’ultima in sé facilmente criticabile, se si pensa che qualunque regime fa pur qualcosa di buono. Nel regime di Hitler ad esempio fu costruita la prima rete autostradale in Germania. Ma chi direbbe ora, nel dibattito politico, che Hitler fece anche cose buone. Se lo dicesse, se ne facesse argomento, così come avviene oggi in Italia attorno al fascismo, farebbe un’operazione politica ben precisa. Si dice infatti che certo vi sono state le leggi razziali (ma la colpa fu di Hitler) e la guerra. Ma c’è stato anche del buono. E dunque non bisogna esagerare. Si può discutere e insomma si può storicizzare e archiviare un sistema morto insieme ai suoi protagonisti. Divenuto discutibile il fascismo, diventa discutibile l’antifascismo. In fondo anche l’antifascismo di oggi fa cose cattive, come le violenze dei centri sociali. Ed ecco che si torna al Berlusconi dell’altro ieri.
Relativizzando il giudizio sul fascismo e rifiutando ogni attualità di una prospettiva fascista si esclude il tema dal campo delle questioni serie di cui discutere. Una simile posizione si inserisce in un contesto segnato da gruppi politici che rivendicano la loro radice fascista, simboli fascisti vengono usati e sono centinaia le pagine web dedicate al fascismo e ai suoi meriti. Ma anche se quei siti e quelle rivendicazioni da parte di gruppi e gruppuscoli richiamano l’adesione di numeri necessariamente limitati, il problema non può essere facilmente liquidato.
Tracce di fascismo emergono in vasta parte del mondo politico e dell’opinione pubblica, anche se non si pensa più a manganello e camicia nera. L’ideologia e la pratica dell’odio per il diverso, l’attacco al Parlamento come luogo di discussione e mediazione politica, l’esaltazione di un’impossibile democrazia diretta, facilmente plebiscitaria, il nazionalismo autarchico rivendicato per attaccare l’Europa. Ed anche il linguaggio che nel dibattito politico ha perso ogni freno e rispetto per gli avversari. Non questo o quell’episodio, non questa o quella dichiarazione, ma il complesso del clima presente è motivo di allarme e non consente disattenzione.
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Intervista a Viola Carofalo, ricercatrice precaria di 37 anni e portavoce di Potere al Popolo, lista di sinistra che correrà alle prossime elezioni politiche: “Enormi ricchezze sono in mano a pochissime persone. Occorre prendere quei soldi e redistribuirli verso il basso”.
Uno spettro si aggira per l'Italia, e se sarà destinato a rimanere tale o acquisirà corpo e concretezza dipenderà dalle prossime due settimane e dall'esito della raccolta firme necessarie per la presentazione della lista. Lo "spettro" – per citare il Manifesto del Partito Comunista, saggio scritto da Karl Marx e Friedrich Engels tra il 1847 e il 1848 – si chiama Potere al Popolo: un progetto di sinistra, elettorale ma non solo, nato due mesi fa da un appello del centro sociale napoletano Ex Opg "Je So Pazz": una pazzia, per l'appunto, che però ha avuto conseguenze che probabilmente neppure i promotori si aspettavano, con centinaia di riunioni in tutta Italia, due "sold out" in altrettante assemblee nazionali nei teatri romani e soprattutto una lista costruita effettivamente dal basso. Di Potere al Popolo fanno parte realtà di movimento, partiti come Rifondazione Comunista e PCI e realtà come Eurostop. A capo della lista una donna napoletana di 37 anni, Viola Carofalo.
Chi è Viola Carofalo, "capo politico" di Potere al Popolo?
Una persona come tante, che vive una condizione comune a molti della nostra generazione. Quella della precarietà lavorativa ed esistenziale, quella del non sentirsi rappresentati dalla politica attuale, che non dà risposte ai nostri bisogni, che non interviene sulle ingiustizie, anzi, le rinforza. Io ho 37 anni, una passione per lo studio che mi ha portato a fare due dottorati in filosofia, oggi lavoro con contratti precari all’università.
Cerco ogni giorno di portare avanti i miei valori: l’onestà, la solidarietà, il rispetto dell’altro. In quanto donna e meridionale sento sulla mia pelle certe forme di oppressione e di discriminazione che mi sembra assurdo ancora vigano nell’Italia del 2018. E le vorrei cambiare. Per questo, più che un “capo politico”, mi sento una “capa tosta”. Perché come tanti non mi rassegno a questa situazione e da più di vent’anni faccio politica nei movimenti sociali per cercare di migliorarla, anche a partire da piccole cose.
All’Ex OPG “Je so’ pazzo” di Napoli, il centro sociale che due mesi fa ha lanciato il video-appello per costruire “Potere al popolo!”, mi occupo di mutualismo, di attività per il quartiere, di antirazzismo. Forse per questo mi hanno scelto per essere portavoce del movimento. Dico “portavoce” perché ciò che ci contraddistingue è di essere innanzitutto un collettivo, di rifiutare i personalismi, di mettere al centro le idee e le pratiche, e soprattutto i bisogni delle persone.
Perché avete scelto questo nome – Potere al Popolo – in una fase storica in cui il populismo di destra è egemonico anche nelle classi sociali popolari?
In realtà “Potere al popolo!” è solo la traduzione letterale della parola democrazia. Oggi molti lo hanno dimenticato, e pensano che democrazia sia andare a votare una volta ogni cinque anni partiti tutti uguali, e per il resto subire le decisioni che vengono prese altrove, non solo in parlamenti che ormai non rispecchiano più il paese, non solo da governi che sono macchine sempre più autoritarie, ma magari in qualche incontro riservato fra banche, finanza, associazioni di impresa, in qualche riunione di tecnocrati dell’Unione Europea…
Con “Potere al Popolo!” vogliamo innanzitutto mandare un messaggio: le decisioni sulla nostra vita e sui nostri territori spettano a noi. Oggi non decidiamo nemmeno dove passeremo la nostra esistenza, visto che per trovare un lavoro andiamo ovunque. Non decidiamo quando avere un figlio, perché dipende dal contratto che qualcuno ci farà. Non decidiamo come gestire il bilancio di una municipalità o di una città, anche perché ce lo tagliano. Figuriamoci se decidiamo su questioni di politica economica e internazionale…
Ecco, noi pensiamo che una democrazia sia tale se non è formale ma sostanziale, se è radicale nel senso che parte dalle radici; se le classi popolari possono effettivamente contare ed esercitare il potere. “Potere” può essere anche una bella parola, è la possibilità di fare, di creare. Pensiamo che non debba essere negata ad alcun essere umano, che sia bianco o nero, povero o ricco.
Poiché diciamo queste cose che non dice nessuno, non temiamo di essere confusi con la destra che oggi, nelle varianti di PD, 5 Stelle e Lega/Forza Italia, è di fatto l’unica forza politica. Nessuno di questi partiti vuole una partecipazione reale dei cittadini, nessuno vuole mettere in discussione le basi economiche di questa società, o la disuguaglianza. Quando anche sembrano parlare nell’interesse del popolo, è per ingannarlo, per dividerci e governarci meglio.
Il 4 marzo milioni di persone vedranno sulla scheda elettorale i soliti partiti che fanno gli interessi di vari gruppi imprenditoriali in lotta fra loro. E poi vedranno un movimento nuovo, che manda un messaggio di rottura, non ha dietro nessuno se non le persone che lo stanno costruendo. Ci sembra una bella novità!
Mai come oggi il "popolo" sembra propenso ad accettare un discorso razzista e securitario: i cittadini comuni sono disposti a scendere in piazza contro inesistenti invasioni di migranti e riscontrano pieno successo petizioni come quelle sul possesso di armi e la "legittima difesa". Che "popolo" è quello di Potere al Popolo?
Guarda, noi non pensiamo che il razzismo sia maggioritario in Italia. In generale la barbarie ci sembra più diffusa dall’alto che provenire dal basso. Sono i media e i politici che cavalcano le peggiori pulsioni di questo paese. E questo per uno scopo ben preciso: bisogna dare alle persone qualcuno o qualcosa da odiare. Bisogna creare falsi problemi per distogliere l’attenzione da quelli reali. Così il sistema si può conservare a vantaggio dei pochi.
È chiaro che un popolo terrorizzato, diviso, rassegnato, arrabbiato spesso senza nemmeno sapere perché, finisce poi effettivamente per ammalarsi di odio. E però noi che viviamo i quartieri popolari facciamo anche esperienza del contrario. Il nostro popolo esiste: è quello che resta umano, che anche se è in difficoltà economica aiuta il prossimo, quello degli sfruttati che si riconoscono, dei lavoratori che sui posti di lavoro non abbassano la testa, delle insegnanti che continuano a dare valori ai ragazzi anche quando altri li distruggono, dei cittadini che intervengono quando vedono consumarsi un’ingiustizia, di chi resiste alle mafie e alle prepotenze, di chi ha il coraggio di denunciare…
I razzisti, i fascisti, i mafiosi, sono una minoranza, solo che è una minoranza rumorosa e coccolata dall’alto, che si sente forte e protetta, mentre i buoni si sentono isolati, frammentati. Dobbiamo spezzare questo circolo vizioso che sta portando questo paese al decadimento, dare forza alle energie giovani, alla creatività, alla gentilezza, alle lotte.
Nel vostro programma vi sono l'abrogazione della riforma Fornero e del Jobs Act, oltre a un grande piano di messa in sicurezza del territorio e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Si tratta evidentemente di un programma molto ambizioso: dove prendereste i soldi per realizzarlo?
I soldi ci sono. In dieci anni di crisi sono anche aumentati. Il problema è che sono finiti nelle mani di sempre meno persone. Tutti i dati dicono che se da un lato aumenta la povertà, da un altro lato è aumentata la concentrazione delle ricchezze: l'1% degli italiani detiene il 25% della ricchezza nazionale. Questi soldi non vengono dal cielo, sono il prodotto del lavoro di cui qualcuno si appropria in vari modi (non corrispondendo il giusto salario, con una tassazione iniqua etc). Se vogliamo fare una società più giusta e salvare questo paese, si tratta quindi innanzitutto di andare a prendere questa massa di capitali e redistribuirla verso il basso.
Immaginiamo una serie di misure concrete innanzitutto sulla fiscalità generale, che oggi si configura come un vero furto ai danni della maggioranza. Vogliamo colpire l’evasione fiscale, a partire da quella delle grandi multinazionali, delle rendite e dei capitali finanziari: l’evasione sottrae oltre 130 miliardi ogni anno ai salari e alla spesa sociale. Poi vogliamo una vera tassazione progressiva, come previsto dalla Costituzione. L'Irpef, quando fu introdotta, prevedeva 32 scaglioni di reddito, con l'aliquota più bassa al 10% e la più alta al 72%, mentre ora gli scaglioni sono 5, con la prima aliquota al 23% e l'ultima al 43%.
Ancora, vogliamo il recupero dei capitali migrati verso i paradisi fiscali. E vogliamo una patrimoniale, che è davvero una misura minima di civiltà mentre troppi dei nostri concittadini fanno la fila alla Caritas per mangiare…
Esiste inoltre, come sottolineano anche Podemos, France Insoumise etc, una reale necessità di disobbedire al Fiscal Compact e al pagamento del debito finanziario che ci stritola – di fatto, anche se da anni siamo in pareggio di bilancio, continuiamo a pagare interessi infiniti, una vera e propria usura.
In più, le politiche dei governi Renzi e Gentiloni non hanno fatto altro che regalare risorse alle imprese, oltre 40 miliardi solo negli ultimi tre anni. Questi soldi non sono stati usati per lo sviluppo del paese, tantomeno per garantire stabilità ai lavoratori, ma sono finiti nelle tasche dei datori di lavoro, già ricchi. Per non parlare dei soldi regalati alle banche… Ecco, noi immaginiamo, con tutti questi soldi, di creare lavoro stabile e sicuro, di mettere in sicurezza i territori e gli edifici, di assumere nel pubblico, visto che il servizio pubblico italiano è inferiore quantitativamente e qualitativamente a molti dei più importanti paesi europei.
Infine vogliamo tagliare le spese militari o i programmi inutili e costosi come “strade sicure”. Parliamo di miliardi di euro all’anno usati per riempire le tasche di industrie belliche, di vere e proprie fabbriche di morte. Noi vogliamo la vita, non la morte.
Ripetiamo: i soldi ci stanno, dobbiamo solo toglierli a chi oggi ne ha troppi e metterli a disposizione delle classi popolari per lavorare, studiare, crescere in un paese più funzionante e coeso. In fondo chiediamo soltanto che sia finalmente attuato l’articolo 3 della Costituzione: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Testo ripreso da "Fanpage, originale raggiungibile qui:Fanpage
Riferimenti
il Fatto quotidiano
Potrebbe essere il sintetico commento a questa pessima campagna elettorale, che sembra basata essenzialmente su tre pilastri: la scelta dei candidati sulla base della fedeltà al capo (complimenti vivissimi a chi ha scritto e approvato questa legge elettorale), le promesse sempre più mirabolanti (aboliremo il lunedì pare fra le più sobrie e realiste), e la rincorsa dei peggiori istinti che attraversano la pancia di un paese incattivito, che applaude ad una tentata strage razzista.
Ma
c’è chi va controcorrente: una piccola esperienza, ogni giorno meno piccola in realtà, cammina ostinatamente in direzione contraria.
Potere al popolo è una lista nata dal basso, anzi è nata proprio per unire le esperienze di movimento, di resistenza e di lotta presenti sui territori. Un’esigenza che evidentemente era
latentema
viva: dopo l’appello lanciato da
Je so’ pazzo – ex OPG di
Napoli, con una rapidità sorprendente si sono moltiplicate le adesioni e le mobilitazioni di moltissime realtà, associazioni, movimenti, collettivi, centri sociali, spezzoni sindacali, che si sono autorganizzati attorno a quella
idea iniziale: dare voce ai non rappresentati, gli esclusi, lavoratrici e lavoratori, precari, studenti, quel popolo che ormai
è (scarsamente) presente solo nelle parole del ceto politico anche di un centrosinistra sempre più centro e sempre più omologabile al centrodestra.
In poche settimane si sono tenute centinaia di assemblee in cui sono stati discussi e condivisi indirizzi generali, punti del
programma e candidature, tutte espressione dei territori, con candidate (oltre il 60%) e candidati che rappresentano vertenze, lotte ed esperienze attive nel tessuto sociale e politico locale.
A Firenze in lista ci sono esponenti dei movimenti contro le grandi opere e la Tav, dei sindacati di base, delle Brigate di Solidarietà Attiva e dei Clash City Workers, attivisti che da anni attraversano le strade cittadine, le periferie e i luoghi dei conflitti, lottando per diritti, giustizia e libertà. Anche la partecipazione di un partito già strutturato come Rifondazione ha seguito la stessa strada e le stesse modalità, senza verticismi o notabili da calare, che so, a Bolzano.
Sono state raccolte le firme per presentare le liste in tutti i collegi del paese, in numero doppio rispetto al necessario. Quelle firme che facevano tremare la Bonino, che pur di non raccoglierle ha preferito allearsi con Tabacci.
Quello che colpisce è l’attivismo e l’entusiasmo che tutto questo ha suscitato, un fermento che rincuora, e che per stessa dichiarata intenzione iniziale è parte fondamentale di tutta l’avventura, che deve sostenere la fase elettorale, ma soprattutto proseguire dopo, farsi corpo sociale, iniziativa politica viva.
Intanto si moltiplicano adesioni e interesse, dall’appello del mondo della cultura a quello degli urbanisti, architetti, agronomi, ecologi, ambientalisti, dal videomessaggio di Ken Loach a quello di Moni Ovadia.
Quello che colpisce è anche il disinteresse, al limite del boicottaggio, da parte dell’informazione mainstream, un oscuramento mediatico che va dalla Rai alla carta stampata fino ai canali multimediali di informazione. Fino all’assurdo che in molte rilevazioni, come in alcune app sui posizionamenti dei lettori (come il “partitometro” di Repubblica online) Potere al Popolo non c’è, mentre figurano ben rappresentate formazioni di estrema destraal limite della irrilevanza elettorale, e ben oltre quello dellalegittimità costituzionale e della decenza, come Forza Nuova.