Ancora una smentita alle bugie di chi sostiene che Tsipras vuole "uscire dall'euro": «Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo Syriza non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento».
Corriere della Sera, 7 Gennaio 2015
La Grecia è davanti a una svolta storica. non è più una semplice speranza per il popolo greco: incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche. La vittoria di Syriza darà slancio alle forze che spingono per il cambiamento. Perché se la Grecia è finita in una strada senza uscita, l’Europa di oggi è destinata a fare la stessa fine.
«Sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, la vittima è lo Stato, che diamine!».
Lavoce.info, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
Il decreto sul penale tributario
Il decreto legislativo sul diritto penale tributario ha suscitato forti polemiche, tanto che il Consiglio dei ministri sarà chiamato a una nuova deliberazione. Tuttavia, al di là delle polemiche, sembra utile ragionare sulla ratio del provvedimento e sulle sue possibili conseguenze economiche. Secondo la teoria di base sull’evasione fiscale, l’entità e la certezza delle pene rappresentano un importante, anzi irrinunciabile, elemento di deterrenza nei confronti dei potenziali evasori. Se la sanzione, anziché solo pecuniaria, è anche penale e detentiva, l’effetto di deterrenza è ovviamente maggiore.
Nella situazione italiana attuale la percezione del cittadino comune nei confronti della normativa penale tributaria non è certo quella di un eccesso di severità; i detenuti per evasione fiscale (se esistono) non sono certo tanti da contribuire all’affollamento delle carceri. Quindi, l’attesa del cittadino comune non appare certo a favore di una generale depenalizzazione. È vero che in un paese ad alto tasso di illegalità fiscale bisogna evitare il rischio di ingolfare i tribunali con decine di migliaia di processi per evasione fiscale anche di modeste dimensioni, ma a questo fine è sufficiente prevedere limiti di punibilità adeguati e differenziati in base alla gravità del comportamento.
Comunque, è evidente che in questa materia sarebbe auspicabile una certa severità che, a rigor di logica, non dovrebbe essere inferiore a quella che si applica in altri paesi.
Depenalizzazione generalizzata
Il decreto nella formulazione uscita dal Consiglio dei ministri prevede invece una generale depenalizzazione di tutti i reati tributari. La prima questione che viene affrontata è quella del cosiddetto abuso del diritto, cioè dell’elusione fiscale, che viene totalmente depenalizzato (e a furor di popolo!). Se si guarda ai modelli degli economisti, in verità non è possibile riscontrare una differenza analitica tra evasione ed elusione fiscale: in ambedue i casi il contribuente evita di pagare le imposte dovute o violando direttamente la legge o schivandone sapientemente l’applicabilità. La sostanza non cambia; e infatti, non a caso, l’elusione viene definita “l’evasione dei ricchi”.
Naturalmente da un punto di vista giuridico si può sostenere che l’evasione è illegale e l’elusione no, ma questo è proprio l’argomento utilizzato dalle grandi multinazionali di internet nelle audizioni presso il Congresso americano per giustificare il fatto di non pagare praticamente imposte: “noi facciamo quello che le leggi dei diversi paesi ci consentono.”. Vi è quindi una certa contraddizione tra la decisione di depenalizzare tali comportamenti e al tempo stesso sostenere gli sforzi dell’Ocse e del G20 per venire a capo dell’elusione fiscale internazionale.
Le misure discutibili
Ma al di là dell’abuso del diritto che si esprime compiutamente nella eliminazione della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” come fattispecie di reato, vi sono numerose altre misure inquietanti nel decreto:
1) Viene introdotto il limite di 1000 euro per la punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false o simili, come se da un punto di vista logico in una ipotesi del genere l’ammontare potesse avere una qualche rilevanza.
2) Si depenalizzano tutte le operazioni di simulazione, interposizione di persona (giuridica) e frodi finanziarie, mediante uso di derivati, strumenti finanziari ibridi, eccetera, richiedendo a questo fine che esse abbiano dato luogo “a flussi finanziari annotati nelle strutture contabili”. Cioè sempre. Si vanificano quindi gli effetti penali di molte operazioni poste in essere dalle banche negli anni passati.
3) Si alzano le soglie di non punibilità da 50 a150mila euro con finalità deflattive dei processi, ma depenalizzando di fatto evasioni fino a 3-400mila euro di base imponibile, il che sembra eccessivo.
4) Si stabilisce la non punibilità della dichiarazione di costi non inerenti alla attività dell’impresa, e cioè della pratica molto diffusa di imputare come costi consumi personali o familiari del contribuente.
5) Ci si dimentica di inserire tra i reati punibili l’ipotesi di omessa dichiarazione da parte dei sostituti di imposta.
6) Si introduce una franchigia del 3 per cento del reddito dichiarato (e analogo limite per l’Iva) per la punibilità di tutti i reati, vanificando l’intero sistema delle soglie di esclusione su cui è costruito il decreto che così diventano inutili e di fatto variabili in base al reddito dei contribuenti (maggior reddito, maggiore possibilità di evasione).
7) Si elimina la possibilità del raddoppio dei termini di accertamento per i casi di frode fiscale, con il rischio di una perdita di gettito immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.
In sostanza, sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, e non può essere equiparata ai comportamenti lesivi della proprietà privata (furto, rapina, eccetera): la vittima è lo Stato, che diamine!
Il rimpallo di responsabilità
Infine, è inquietante il fatto che la responsabilità delle modifiche al testo originario preparato da una Commissione presieduta da Franco Gallo, rimbalzi tra il Tesoro e Palazzo Chigi. Il ministero responsabile della formulazione del provvedimento e della sua presentazione al Consiglio dei ministri è infatti quello dell’Economia e delle finanze (di concerto con la Giustizia). Se il testo uscito dal Consiglio dei ministri è stato modificato, delle due l’una: o il ministro dell’Economia era d’accordo, o (ipotesi più grave) né lui né i suoi collaboratori si sono accorti che il testo era stato cambiato.
In conclusione, speriamo che superato lo sconcerto attuale si possa tornare a una soluzione equilibrata. Infatti non va dimenticato che la reputazione del nostro paese e del nostro sistema economico all’estero non dipende soltanto dalla maggiore o minore flessibilità del mercato del lavoro, ma anche, e soprattutto, dal grado di legalità (o illegalità) prevalente nel sistema: evasione fiscale, corruzione, bilanci falsi, malavita organizzata rappresentano handicap molto gravi per l’Italia. Dare l’impressione di allentare le misure di controllo anziché inasprirle è molto pericoloso.
Tre articoli (di Tommaso Di Francesco, Anna Maria Merlo, Pavlos Nerantzis) sull'evento possibile che fa tremare il mondo della finanza e i suoi servi disseminati nelle istituzioni e nei mass media: la vittoria, in Grecia, di una sinistra che vuole andare alla radice della crisi. Il manifesto, 6 gennaio 2015
GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco
Quello che accade in questi giorni e in queste ore in Grecia ci riguarda direttamente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finanziario del capitalismo globalizzato. Sono sette anni che il mondo occidentale è in aperta recessione e le sole timide uscite segnalate sono quelle di paesi che hanno la capacità di scaricare su quelli più deboli contraddizioni e costi, come fanno la Germania con i neosatelliti dell’est e gli Stati uniti con l’intera economia europea. Il fatto che la sinistra rappresentata da Syriza sia riuscita a sventare a fine anno la manovra del premier Samaras di eleggere un “suo” presidente della repubblica per negare e rimandare la verifica elettorale è un avvenimento di portata continentale.
Tutta l’Europa in questo momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspettativa. I mercati, vale a dire la finanza internazionale occidentale, teme che la rinegoziazione dei termini del debito greco metta in discussione i criteri con cui l’Unione europea ha salvaguardato le banche invece degli investimenti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alternativa di sinistra faccia saltare l’impianto dei diktat che hanno portato alla crisi umanitaria non solo la Grecia. Ad Atene invece si apre uno spiraglio di luce, una grande possibilità. Noi che in Italia lavoriamo a ricostruire una sinistra alternativa italiana, mentre siamo alle prese con la scomparsa della sinistra e con le scelte neoliberiste di un governo come quello del leader Pd Matteo Renzi all’attacco dei diritti dei lavoratori e del welfare, vediamo l’occasione straordinaria di una svolta possibile anche in Italia e in tutta Europa. È un’opportunità europeista, perché l’Unione europea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il continente dei diritti e della democrazia.
Sorprende e allarma, in una parola preoccupa, il dispositivo — fin qui — di terrorismo psicologico di massa che i governi europei e i rappresentanti della stessa Commissione europea hanno messo in campo. Dal presidente Juncker con le sue dichiarazioni contro Syriza, al governo di ferro di Berlino, a quello di destra di Madrid alle prese con elezioni proprio nel 2015 e con la nuova formazione di sinistra Podemos; con l’eccezione del presidente francese Hollande che almeno invita Merkel e i governi Ue a riconoscere che alla fine «il popolo è sovrano». Questo attacco subdolo e scellerato è contro il popolo greco che vuole decidere il proprio destino. Dopo tante chiacchiere sulla democrazia, scopriamo dunque che i leader e i governi europei la temono anziché difenderla e vorrebbero impedire che chi ha subìto i costi della crisi del capitalismo finanziario possa votare contro la violenza istituzionale che i tagli riformisti hanno rappresentato per la condizione di vita di milioni e milioni di cittadini e lavoratori con l’aumento della miseria e delle diseguaglianze. Così si strappa un velo: il capitalismo globalizzato non ama la democrazia reale ma solo quella rituale e svuotata di senso — vista l’equivalenza dei partiti — che allrga il baratro tra governanti e governati, alimenta qualunquismo e antipolitica, mentre crollano le percentuali di voto e vince ovunque l’astensionismo di massa e il conflitto di tutti contro tutti. Fino a favorire una nuova destra estrema xenofoba, razzista, ipernazionalista che difende nella crisi i più forti e usa i deboli contro i più deboli.
Allora, giù le mani dalle elezioni greche. Solo la democrazia reale salverà la Grecia e l’Europa dal disastro. Una democrazia reale che chiami il 25 gennaio non ad un voto qualsiasi ma ad un impegno di protagonismo milioni di giovani, di donne, di lavoratori e disoccupati. Perché sostengano l’alternativa che Syriza e il suo programma già rappresentano, perché cresca la sua forza e si allarghi il suo sostegno — nessuno a sinistra può restare solo a guardare. E perché il forte consenso che avrà, e che noi auspichiamo, sia il primo passo per coinvolgere il popolo e i lavoratori nel governo della Grecia e nella svolta in Europa
L'EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo
Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche
Con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria, la Germania, minacciando Atene di Grexit – uscita dall’euro — in caso di vittoria di Syriza alle legislative anticipate del 25 gennaio, ha squarciato un velo che rischia di avere un effetto boomerang in tutta Europa: la democrazia sarebbe diventata soltanto un’operazione formale nella Ue, ingabbiata dal rispetto del Fiscal Compact e delle regole di austerità? I cittadini non avrebbero quindi più nessuna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euroscettici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella maggior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spiegel, per Angela Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble non c’è «nessuna alternativa» all’applicazione del Memorandum, mentre il Grexit sarebbe addirittura «quasi inevitabile» se Syriza al potere rifiuterà di continuare ad imporre le riforme impopolari – e inefficaci — che hanno ridotto gran parte dei cittadini greci alla povertà. Se Syriza chiederà una moratoria sul rimborso del debito, la Grecia potrebbe venire costretta ad abbandonare la moneta unica, dice la Germania dominante. E questo non avrà conseguenze per la zona euro secondo Berlino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a differenza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è protetto dal parafulmine del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, dotato di 500 miliardi) e le sue banche sono a riparo della recente riforma del settore.
I grossi zoccoli con cui Merkel e Schäuble sono entrati in campagna elettorale ad Atene non hanno nessun riscontro nei Trattati. La cancelleria ha smentito mollemente le rivelazioni di Der Spiegel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spaventare l’elettore greco: o sceglie Samaras e l’euro, oppure Tsipras e il caos. Già Jean-Claude Juncker ci aveva provato, il 12 dicembre scorso, sperando di influire sul voto parlamentare per il presidente della repubblica: in un’intervista alla tv austriaca, il presidente della Commissione aveva affermato di preferire dei «volti familiari« (cioè Stavros Dimas) perché «non mi piacerebbe che delle forze estremiste prendessero il potere». Il risultato di questo intervento è stato la non elezione del presidente e la conseguente convocazione di elezioni anticipate. Con un comunicato, è intervenuto nel fine settimana anche il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, invitando i greci a dare «un ampio sostegno» al «necessario processo di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Democrazia e Pasok). Ma Berlino (e Moscovici) hanno esagerato. Ieri una portavoce della Commissione, Annika Breidthardt, ha cercato di spegnere l’incendio affermando che l’appartenenza all’euro è «irrevocabile», stando ai Trattati. Il Trattato di Lisbona prevede la possibilità di un’uscita dalla Ue, su decisione del paese interessato (e non su imposizione di altri), ma formalmente un paese non Ue potrebbe continuare ad utilizzare l’euro (succede con Kosovo e Montenegro, che usano l’euro senza essere nella Ue). François Hollande ha preso ieri mattina le distanze da Angela Merkel: «I greci sono liberi di decidere sovranamente sul loro governo – ha affermato il presidente francese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Grecia alla zona euro, tocca ad essa decidere». Però il governo, qualunque esso sia, deve «rispettare gli impegni presi».
In Germania c’è imbarazzo per le rivelazioni dello Spiegel. Solo gli euroscettici dell’Afd hanno approvato l’intervento muscolare di Berlino. Die Linke e i Verdi hanno denunciato le pressioni inappropriate sugli elettori greci, il vice-cancelliere Spd, Sigmar Gabriel, ha cercato di correggere il tiro, indicando che «l’obiettivo del governo tedesco, della Ue e anche del governo di Atene è di mantenere la Grecia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tedesca deve smettere di comportarsi come uno sceriffo in Grecia» perché «non è solo inaccettabile ma anche sbagliato: atteggiamenti del genere possono solo produrre rabbia e rifiuto della Ue», con il rischio di «erosione democratica» nella Ue.
Syriza vuole rinegoziare con la trojka i termini del rimborso del colossale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, persino stando alle prese di posizione di Bruxelles. L’Eurogruppo, nel novembre 2012, si era impegnato con Atene a rivedere i termini del rimborso quando la Grecia avesse raggiunto l’equilibrio di bilancio primario (esclusi cioè gli interessi sul debito): Atene, al prezzo del rigore assoluto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Merkel non vuole soprattutto che vengano ridiscussi i termini del Memorandum: Syriza propone riforme diverse, concentrate sul funzionamento dello Stato, mentre la troika insiste sui tagli ai salari e al numero di dipendenti pubblici. In Germania, anche la Cdu ha espresso preoccupazione per la manifestazione di arroganza tedesca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pubblica tedesca Kfw, che ha in cassa una parte consistente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai principali stati membri della zona euro e alla Bce. La Germania si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di principio, potrebbe causare il Grexit, tagliando i crediti alle banche greche. Ma così Draghi metterebbe fine alla difesa dell’euro «a qualunque costo», aprendo il vaso di Pandora di un possibile effetto domino. A cui neppure la Germania potrebbe resistere: Berlino pensa di sopravvivere senza la Grecia, ma l’economia tedesca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia
SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis
La speranza per un avvenire migliore in Grecia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà politica di applicare il programma economico a favore degli strati sociali maggiormente colpiti dalla crisi. È la risposta di Syriza alla strategia della paura promossa dai conservatori della Nea Dimokratia e i loro sostenitori, terrorizzati dai sondaggi che continuano a dare in testa la sinistra radicale greca, tre settimane prima delle elezioni del 25 gennaio.
Syriza, secondo gli ultimi due sondaggi, si conferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, contro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimokratia del premier Antonis Samaras. Al terzo posto si trovano i nazisti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due sondaggi, mentre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Partito comunista di Grecia (Kke) con il 4,8 per cento. I socialisti del Pasok, invece, che hanno sostenuto il governo di Samaras, rischiano di non essere eletti al parlamento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior premier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Samaras contro il 33,4 per cento che preferisce Tsipras. Il 74,2 per cento poi ha risposto che la Grecia deve a ogni costo rimanere nella zona euro.
La prospettiva della vittoria di Syriza non piace, però, ai mercati come anche a una parte della stampa internazionale, che insiste sull’ eventualità di un Grexit, nonostante Alexis Tsipras non smetta di sottolineare che il suo partito non ha la minima intenzione di uscire dalla zona euro. A questi timori è stato attribuito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la tensione registrata sullo spread ellenico, che è balzato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.
Pure la Grande coalizione a Berlino, a leggere il settimanale Der Spiegel, si prepara a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «questo fatto non avrebbe ripercussioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Berlino per il momento smentisce. Ieri il portavove di Angela Merkel ha detto che il governo tedesco non ha cambiato posizione. Anzi, ha aggiunto, la cancelliera tedesca «insieme ai suoi partner lavorano per rafforzare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi membri, Grecia inclusa».
L’ipotesi di un Grexit è stata respinta anche da Parigi e da Bruxelles che, oltre a far ricordare ad Atene che ci sono impegni che «vanno ovviamente rispettati», ribadiscono che in base ai trattati dell’Ue non è possibile l’uscita di un paese membro dalla zona euro. In altri termini, come ha precisato un portavoce della Commissione europea, la partecipazione all’euro è irreversibile, secondo l’articolo 140, paragrafo 3 del Trattato Ue. Quindi per un Grexit sarebbe prima necessaria una modifica del trattato, «la cui procedura prevede l’ unanimità dei paesi membri, l’approvazione del parlamento europeo e ovviamente da parte dei parlamenti nazionali».
Per il momento quindi i partner europei, alleati di Antonis Samaras, fanno una manovra: sembrano abbandonare la strategia della paura e le interferenze, come era successo durante le elezioni presidenziali, lasciando Atene libera di decidere il proprio destino. Almeno apparentemente, perché dietro le quinte lavorano per affrontare la questione principale, che il nuovo governo greco se sarà guidato da Alexis Tsipras metterà sul tavolo dei colloqui: il taglio del debito pubblico greco. Una richiesta che, nel caso venisse accettata da Berlino e ovviamente da Bruxelles — perché di fatto questi prestiti ad Atene non saranno mai rimborsati per intero — rischierebbe un contagio politico a Roma e a Madrid. Allora lo scontro tra un governo delle sinistre e la cancelliera tedesca sarebbe inevitabile e solo a quel punto si potrebbe parlare del rischio di un Grexit provocato da Berlino.
Intanto l’arresto ad Atene di Christodoulos Xiros, esponente dell’organizzazione “17 Novembre”, condannato a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione ed evaso un anno fa dal carcere di Krydallos, è diventato un altro motivo di scontro tra Nea Dimokratia e Syriza. Il premier Samaras, che pure nel passato aveva accusato Tsipras di «andare a braccettocon i terroristi» e di «rapporti tra Syriza e organizzazioni terroristiche», ieri ha accusato la sinistra radicale di non aver emesso un comunicato stampa a favore degli agenti che hanno arrestato il ricercato numero uno in Grecia. Xiros stava preparando un attacco contro le carceri di Korydallos per far evadere i detenuti dell’organizzazione “Cospirazione dei nuclei di fuoco”
«Il presidente del Consiglio ha varato la sua «rivoluzione copernicana». In realtà il nuovo contratto "a tutele crescenti" cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi, apre la strada alle discriminazioni. Le imprese potranno disfarsi dei lavoratori - sotto ricatto continuo - in ogni momeno» Ma non è detta l'ultima parola.
Il manifesto, 27 dicembre 2014
Non è inutile, comunque, ma anzi assai istruttivo, ripercorre alcuni momenti salienti della vicenda e le consapevolezze che ha consentito di acquisire. In primo luogo, infatti, nessuno si azzarda più a definire «di sinistra» il governo Renzi-Poletti che si è dimostrato tanto violento e prevaricatore nella sua azione contro i diritti fondamentali dei lavoratori, quanto falso e mistificante nell’uso del suo strapotere mediatico.
In cosa consiste, infatti, la «rivoluzione copernicana» di cui straparla Matteo Renzi a proposito dei contenuti del decreto attuativo? Puramente e semplicemente nel consentire al datore di lavoro che voglia per qualsiasi motivo (anche il più ignobile) sbarazzarsi di un lavoratore di «inventarsi» una inesistente ragione economico produttiva per procedere al licenziamento, e di farlo senza timore che il suo carattere pretestuoso venga smascherato in giudizio perché anche in tal caso gli basterebbe pagare la classica «multarella» (per ogni anno di servizio due mensilità con il massimo di 24) per lasciare comunque il lavoratore sulla strada nella condizione disperata discendente dalla disoccupazione di massa.
Tutto il resto del decreto attuativo, compresa la dibattuta questione della parziale della reintegra nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, è soltanto fumo negli occhi, perché tutti i datori imboccheranno, invece, la comodissima strada del «falso» motivo economico produttivo. Il «progressista» Renzi e il «comunista» Poletti e tutti i loro accoliti dovranno spiegare un giorno che cosa vi sia di moderno, di socialmente utile, di progressivo, di «copernicano» in questa sfacciata e disgustosa ingiustizia che ripugna prima ancora che al diritto al comune senso etico.
Il secondo insegnamento della vicenda ha riguardato il presentarsi, ancora una volta del classico «tradimento dei chierici» per tale intendendo i tecnici, i tecnici politici e i politici puri che avrebbero dovuto garantire i diritti fondamentali dei lavoratori assicurati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricattatoria. Da una parte, dunque, vi sono stati i tecnici politici che hanno lavorato intensamente alla formulazione della legge delega e dei decreti attuativi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un gruppetto di antichi transfughi del movimento sindacale che con l’accanimento tipico di chi «è passato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gratuitamente — per la sistematica demolizione di ogni tutela dei lavoratori. Ma dall’altra parte purtroppo vi sono stati politici ossia i parlamentari della cosiddetta «sinistra del Pd», a parole del tutto contrari al Jobs act, ma che nel concreto hanno collaborato in modo assolutamente decisivo alla sua emanazione, e lo hanno fatto con piena consapevolezza. Prima vi è stato il «salvagente» offerto al governo dal presidente della Commissione lavoro della Camera e consistito nell’apparente miglioramento, con alcune precisazioni, del progetto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di salvare il progetto di delega cercando di renderlo compatibile con l’articolo 76 Cost. e di questo abbiamo detto sulle colonne del manifesto. Poi vi è stato, in data 3 dicembre 2014, l’episodio deprimente e squallido che mai potrà essere dimenticato. Sembrava che il destino avesse voluto preparare un momento della verità: il testo del Jobs Act modificato alla Camera per salvarlo dall’incostituzionalità era conseguentemente tornato al Senato, dove però la maggioranza del governo era assai più sottile. E al Senato vi erano 27 senatori del Pd che si erano dichiarati contrari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di decidere, hanno invece approvato il testo legislativo giustificandosi con il classico documento «salva-anima» sulla necessità di non provocare crisi di governo. Ebbene, il risultato della votazione li inchioda per sempre alla loro responsabilità: vi sono stati 166 voti favorevoli, 112 contrati e un astenuto. Se i 27 «amici» dei lavoratori e dei loro diritti avessero coerentemente votato contro il progetto il risultato sarebbe stato di 139 favorevoli, 139 contrari e un astenuto e poiché l’astensione al Senato conta voto negativo il Jobs Act sarebbe andato in soffitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 senatori lo hanno poi raggiunto nella chiusura di quel documento di giustificazione promettendo massima vigilanza in sede di formulazione dei decreti attuativi: enunciazione ridicola, visto che come tutti sanno, i decreti attuativi il legislatore delegato «se li fa da solo» senza il concorso del Parlamento.
Accanto a queste brutture, che è triste ma giusto ricordare, vi sono stati, però, importanti fatti positivi: l’ottima riuscita della manifestazioni del 25 ottobre e del 12 dicembre e l’affiancamento quanto mai importante, in occasione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le premesse per un lieto fine: infatti per i contratti di lavoro già in essere non cambia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, reintegra compresa, e occorrerà un bel po’ di tempo perché i nuovi contratti, detti «a tutele crescenti» ma in realtà privi di tutela prendano piede. Nel frattempo sarà allora possibile sottoporre tempestivamente il decreto attuativo ad un referendum abrogativo, e cioè al giudizio popolare e di quei lavoratori che di continuo Matteo Renzi cerca di ledere e insieme di ingannare. La via del referendum abrogativo appare quanto mai semplice e fruttuosa perché in sostanza il decreto attuativo introduce per i nuovi contratti un tipo di sanzione dei licenziamenti ingiustificati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rapporti: pertanto una volta abrogato per referendum il decreto la sanzione dell’articolo 18 torna ad essere generale per rapporti vecchi e nuovi secondo il principio di «autoimplementazione» dell’ordinamento. Chi scrive si permette di rivendicare l’onore di poter personalmente redigere i quesiti referendari
«L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline. La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole».
La Repubblica, 27 dicembre 2014
Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.
Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».
Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta ».
Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».
Quando i diritti diventano una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi ».
Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».
Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire ».
Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera ».
Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».
Traduzione di Luis E. Moriones © 2-014 Berna González Harbour ( Ediciones El País, Sl)
«Il problema è che chi già detiene posizioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difendersi. Tanto più in politica, dove da tempo è giunta al vertice una classe dirigente «pura», priva d’ogni contatto con la società».
Il manifesto, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il Presidente, se è permesso semplificare, è risalito alla crisi del ’92–94 imputandola ad «abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali». Dopo quella crisi, tuttavia, una salutare opera di risanamento sarebbe stata a suo dire intrapresa, conseguendo «risultati non certo irrilevanti». Qualcosa, il Presidente Napolitano riconosce, «allora mancò». Ma la critica antipolitica si è ostinatamente rifiutata di riconoscere sia i risultati allora conseguiti, sia gli «impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento».
Ma proprio su questa affermazione è legittimo avanzare dubbi. Perché se Mani Pulite sanzionò un vistoso e protratto decadimento della vita pubblica, il ventennio successivo è stato molto peggio. Anzi: c’è motivo di ritenere che le risposte allora allestite, ovvero, nelle parole del Presidente, il «rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi» e «la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni», anziché migliorare la situazione l’abbiano aggravata. Il Presidente non può forse dirlo, ma l’Italia sta uscendo con le ossa rotte — economicamente e moralmente — da un ventennio «berlusconiano» di cui gli scandali romani sono solo la più recente, ma forse non l’ultima, manifestazione.
Ci sarebbe cioè da stupirsi se, dopo vent’anni di così disastroso malgoverno, non fossero comparse «rappresentazioni distruttive del mondo della politica». Ha ragione il Presidente a ricordare che non tutto è andato storto. Nel Mezzogiorno, ad esempio, si sono registrati apprezzabili progressi nella lotta al crimine organizzato. Ma non si può negare che gli italiani mediamente stiano peggio e che la vita pubblica sia afflitta da inefficenze e fallimenti d’ogni sorta. Il costo del ventennio che il paese sta pagando è altissimo. Sappiamo bene che tutto si regge: il malgoverno ha impedito di affrontare adeguatamente il declino industriale, il debito pubblico è cresciuto a dismisura perché il paese non cresceva e sprecava per ragioni di consenso e in malaffare. Adesso le spietate misure di risanamento imposte dall’Europa stanno strangolando l’economia e l’intera società. E gli unici rimedi pare siano l’abolizione del Senato, un’ indecente legge elettorale, la rimozione manu militari dell’art. 18 e le Olimpiadi a Roma nel 2024.
Presidente, come si fa a non essere antipolitici in queste condizioni? Eppure, Napolitano una parte di ragione ce l’ha. L’antipolitica si nutre dei fallimenti della politica, ma pure dei discorsi irresponsabili pronunciati contro di essa. Discorsi che oggidì possiamo attribuire a Grillo e a Salvini, ma che sono stati pronunciati anche da molti altri. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
L’antipolitica risale a molto indietro nel tempo. Era antipolitica già il movimento referendario dei primi anni 90. È stato antipolitica il leghismo, ma anche il berlusconismo, che l’ha anzi portata al governo. E, per venire a casi più recenti, Renzi non scherza affatto in materia. Non lesina espressioni offensive nei confronti degli avversari politici e non risparmia demagogici appelli al popolo sovrano. A ben vedere, un po’ di antipolitica l’ha fatta anche Lei, Signor Presidente, quando, collassato il berlusconismo, anziché seguire la via maestra delle urne, commissariò la politica chiamando a Palazzo Chigi un Sommo Tecnico, che aggiunse disastro a disastro.
Come se ne esce? La ricetta è tanto semplice quanto irrealizzabile. Rimettendo in moto economia, società e politica. Una delle ragioni della corruzione dilagante è lo stallo dell’economia, le cui classi dirigenti cercano di rifarsi corrompendo la politica dei loro insuccessi sul mercato, esattamente come invece che fare impresa fanno finanza. Non solo gran parte della classe politica, ma anche una buona parte della classe dirigente economica sarebbe da cambiare. Il problema è che chi già detiene posizioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difendersi. Tanto più in politica, dove da tempo è giunta al vertice una classe dirigente «pura», priva d’ogni contatto con la società, cresciuta dentro le attività rappresentative e di governo e mai adoperatasi nella cura della militanza e dell’elettorato. Renzi incarna questo modello come nessun altro. Solo che il modello del politico «puro» è in giro da un pezzo. Dagli anni 70 in poi, allorché pure nel Pci il partito degli amministratori travolse quello dei militanti. Le ragioni dell’antipolitica cominciarono a montare in quel momento. Gli amministratori, era successo già nella Dc e nel Psi, avevano meno remore morali dei militanti. La questione morale berlingueriana fu archiviata. Gli scandali si accelerarono, crebbe il malumore e qualcuno cominciò a cavalcarlo seminando antipolitica. Lo cavalcarono anche amministratori e aspiranti amministratori di tutti i partiti - specie i politici «puri» - con un preciso obiettivo: decidere e non mediare, ossia liberarsi di tutti gli oneri che comporta una politica socialmente radicata. Pragmatismo anziché ideologia.
Accantonata quella che Rita Di Leo ha definito la politica-progetto, la crescita dell’antipolitica diventò incontenibile. Anzi, è divenuta un florido business. Le riforme istituzionali dei prima anni 90, le suggestioni leaderistiche che hanno alimentato, l’abbattimento degli obsoleti e burocratici controlli di legalità, figlie dell’antipolitica, non hanno curato il malaffare, ma l’hanno aggravato. E Grillo e Salvini, signor Presidente, non sono i soli che ci speculano sopra.
LEFT, 13 dicembre 2014
Succede anni fa: una delegazione dei comitati del centro storico di Roma espone al prefetto un “dossier” fitto di abusi, irregolarità, palesi illegalità, con una mappa di catene di ristoranti e pizzerie che sono qui solo napoletane, là solo calabresi o siciliane. Il prefetto prende atto e tutto continua come e peggio di prima. Fino al solito magistrato che pazientemente individua la matrice malavitosa di quelle reti di locali di ristorazione, le sottrae alle varie mafie ponendole sotto amministrazione controllata. Erano legali quelle licenze? Quante attività illegali ci sono? Chi le controlla? Il Comune di Roma? La Camera di commercio? La Prefettura? Nei mesi scorsi la giunta Marino e il I° Municipio, incalzati da campagne molto pressanti dei Comitati e di Nathalie Naim, consigliere del Municipio (Lista civica per Marino) hanno riportato ordine nella invasione selvaggia dei tavolini, ridando un volto accettabile a piazza Navona e dintorni. Pochi giorni dopo, in qualche strada, tavolino “selvaggio” è ricomparso. Non c’è un vigile urbano che, a piedi o in bicicletta, passi a controllare ogni giorno e faccia rispettare leggi e regolamenti. La stragrande maggioranza dei vigili romani sta negli uffici, come la stragrande maggioranza dei dipendenti dell’Ama pur aumentati di migliaia di unità con la Parentopoli targata Alemanno-Panzironi e C.
Piccoli esempi? Mica tanto, e poi proprio questa illegalità diffusa e incontrollata è il brodo di coltura più fertili per il “pizzo” di massa (di cui molto si parla molto anche a Roma), per i lavori abusivi tutti in “nero”, per lo spaccio di droga, per tanti favori reciproci dei più pericolosi fra criminali e politici. Di fronte alla marea maleodorante che rischia di sommergere il Campidoglio provenendo dall’era Alemanno, dalle alleanze sistematiche fra “neri” e malavitosi organizzati, con qualche esponente del Pd però che figurerebbe “a libro paga”, possiamo soltanto alzare l’indice accusatore chiedendo ogni sorta di azzeramenti? O non dobbiamo anche analizzare le cause di simili percorsi perversi, le elusioni palesi delle regole e porvi al più presto rimedio?
Ha sostenuto di recente il presidente della commissione nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone - già paragonato da Maurizio Gasparri uno dei “vecchi” ormai delle centurie neofasciste - al dittatore cambogiano Pol Pot: «Dopo Tangentopoli si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi, in alcuni casi sono stati privatizzati, si è sventrato il sistema dei controlli sugli enti locali». Ma chi gli fa eco? Cantone accusa la depenalizzazione del falso in bilancio, le prescrizioni troppo brevi, l‘autoriciclaggio che rendono impuniti e impunibili tanti reati di corruzione, peculato, concussione. E conclude: «La lotta alla corruzione non può essere lasciata soltanto al giudice penale». Oggi è così. Quindi, fa bene Renzi a proclamare «Via tutti i corrotti». Ma farebbe ancor meglio ad approvare la riforma della giustizia col falso in bilancio, l’autoriciclaggio e prescrizioni meno brevi. Da domani. E non invocare o attuare - come con lo Sblocca Italia - una “semplificazione” che elimina controlli tecnici invece fondamentali. Più che mai.
Difatti, se anche si riesce in questo “repulisti” generale e profondo, come prevenire in futuro che si riformi la marea nera di una corruzione che, nonostante Tangentopoli, si insinua quasi ovunque inquinando la vita democratica e inceppando la macchina già ansimante dell’economia e dei servizi? Nessuno o quasi si è posto il problema dei controlli preventivi sulle amministrazioni, sugli eletti, sulle delibere (sempre più di giunta e sempre meno di consiglio). Proviamoci. Nel dopoguerra, fino alle Regioni, cioè al 1970, esistevano le Giunte Provinciali Amministrative (Gpa), esecrate dagli amministratori comunali e provinciali, soprattutto da quelli di sinistra perché i prefetti risultavano, specie negli anni ’40 e ’50 fortemente legati alla Dc. Eravamo ancora allo Stato “verticale”, all’Italia dei prefetti, fortemente restrittiva anche se la corruzione politico-amministrativa era assai più limitata. Se c’erano grandi scandali, erano nazionali, come quello della Federconsorzi, dei mille miliardi del suo debito sanato, di fatto, dallo Stato. Quelli locali erano collegati alla speculazione, già forsennata, sulle aree fabbricabili.
Con le Regioni, nel 1971, sono stati istituiti i Coreco, organismi di controllo decentrati, che dovevano rendere virtuose le Regioni e gli enti provinciali e locali. Illusione. Ben presto sono stati trasformati da organismi tecnici in organismi politici e addio controlli penetranti. E’ successo di tutto. Poi sono spariti. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (sciagurata come poche) ha messo sullo stesso piano “orizzontale” Comuni, Province, Regioni e Stato. Tutte le istituzioni dovevano “autocorreggersi”, magari chiedendo pareri preventivi alle Corti dei conti regionali. Questa “autocorrezione” si è rivelata una utopia. In conclusione, esiste un problema di efficienza, rigore e tempestività nei controlli tecnici. Pochi ma strategici e penetranti. Ma esiste anche un problema di controlli politici, interni agli organismi di governo. Una volta il controllo lo esercitavano le opposizioni nelle assemblee elettive. Ma, con le elezioni dirette di sindaci e “governatori”, come sono ridotte? Lascio la parola a Manin Carabba presidente emerito della Corte dei conti: «Restano le esigenze di rafforzare le assemblee elettive, la democrazia ha bisogno di esse, e noi ne abbiamo visto il totale svuotamento, nei Comuni e nelle Regioni». E poi: «I Consigli regionali sono in condizioni terribili di vacuità e di perdita di peso». Il governo Renzi tende a rendere impossibili i controlli delle Soprintendenze su edilizia e territorio e si appresta a nominare i segretari comunali quali fiduciari dei sindaci e delle giunte senza più selezionarli per concorso. Via altri controlli “neutrali”. Perché o per chi? Non credo per i cittadini.
Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo
Susanna Camusso «il segretario generale della Cgil ospite di Repubblica Tv alla vigilia dello sciopero generale. "Renzi ha avuto il merito di accendere una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la
Troika. Traduca quella speranza in lavoro"». Repubblica.it, 11 dicembre 2014
ROMA - «Non credo che la decisione sia stata presa in solitudine, perché è un atto grave. La nostra risposta è in atto, con forme di protesta e di denuncia di questo intervento a gamba tesa. Chiediamo la revoca della precettazione. Se il governo la dovesse mantenere, la rispetteremo, ma è un atto grave». Susanna Camusso, ospite del videoforum di Repubblica Tv, reagisce così alla decisione del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, di richiamare al lavoro i ferrovieri che venerdì avrebbero aderito allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro Jobs act, legge di stabilità, politiche economiche e industriali, mancato rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
«Stiamo valutando, non finisce lì perché secondo noi si viola la legge e c'è un uso strumentale della legge - osserva la leader Cgil -. Noi abbiamo proclamato lo sciopero più di un mese fa. Non abbiamo ancora avuto il testo dell'ordinanza, che valuteremo. Abbiamo appreso della precettazione dai giornali. Poi si chiede a noi di non alimentare la conflittualità». «Vorrei sottolineare - aggiunge Camusso - come le procedure non siano rispettate, con atti unilaterali che alzano i toni del conflitto». Il segretario generale della Cgil venerdì mattina parlerà a Torino, ma la manifestazione, connotata dallo slogan "Così non va", si estenderà a oltre 50 piazze italiane.
In 20 anni di Berlusconi mai tanti scioperi come contro Renzi. (domanda dai lettori Rosario Giosa e Fulvio Castellani)
Non è vero, la lunga stagione dei governi di centrodestra è coincisa col maggior numero di scioperi. Li abbiamo sempre contrastati. Poi capisco, la domanda è legittima da chi ha sperato che Renzi fosse il grande cambiamento. Ma in nome della speranza ci prendiamo i licenziamenti senza giusta causa? Sono sentimenti che attraversano tutto il popolo della Cgil e dei lavoratori. Il mondo del lavoro non può rinunciare a lavoro e diritti.
"Cara Camusso, sei riuscita a convincermi a dare la disdetta all'Inps relativamente alla trattenuta pro Cgil. Mi sembra che niente sia cambiato dal 1984 quando la Cgil era in piazza contro l'abrogazione della scala mobile". La domanda riassume quanto molti pensano: Cgil oggi è retroguardia, meglio togliere le tutele purché ci sia lavoro. (domanda dal lettore Enzo Reali)
E' un Paese che ha scelto di competere solo sulla riduzione dei costi, con un lavoro che costi meno e non abbia diritti. E' un'illusione, che va rispettata nelle singole persone, la povertà induce a certi comportamenti. Ma la responsabilità deve essere che per quella via il nostro Paese è diventato fragile. La vera retroguardia e grande sconfitta sarebbe ridurre i diritti sul lavoro. Concentrare tutto sulla diminuzione dei diritti rende il paese fragile e senza sviluppo. Ci sono tutti gli elementi per dire che per quella strada si arriva a forme di schiavitù e guerra tra poveri.
Anche i precari meritano di essere rappresentati.
Noi abbiamo detto al governo, ricevendo disprezzo: abbiamo bisogno di ricostruire il lavoro in Italia. C'è poco lavoro rispetto alla domanda, lo dicono le cifre. La scelta dovrebbe essere di investire, partendo dagli investimenti pubblici. E tutte le risorse andrebbero indirizzate lì. Se si riduce il lavoro si riducono i diritti. In Italia c'è anche un fenomeno nuovo: un milione di persone che con un lavoro, anche a tempo pieno, è comunque sulla soglia della povertà. Non vediamo nelle politiche del governo come si distribuisca la ricchezza per generare il lavoro. Si può reagire contrastando l'austerità, non solo dicendolo in Europa, ma facendolo anche in Italia. Mentre c'è questa strana dicotomia.
Dipendenti pubblici che scioperano "solo" per il contratto. E attacchi al "senso di responsabilità" di chi nel Pd ha votato il Jobs Act, in riferimento soprattutto alla minoranza dem. Un elenco di "tradimenti".(domanda dai lettori Nicola Verdicchio, Claudio De Biase e Maria Genova)
E' l'effetto di una situazione, un mondo del lavoro che ha una sua proposta, che va in conflitto con chi faceva del lavoro il suo riferimento centrale. Questa frammentazione non fa bene a nessuno, il governo fa male ad alimentarla. Ma è questo il grande tema: il lavoro non ha rappresentanza politica, quindi cambia anche il rapporto tra le organizzazioni sindacali e i partiti. Mi ricordavano una preoccupante assonanza: il Codice del lavoro del 1927 diceva che per il licenziamento ingiusto c'è l'indennizzo, si torna a quella logica col Jobs Act. Ma non tutto è monetizzabile, la dignità delle persone ad esempio.
Uno studio della Uil dimostra che le misure del Jobs Act incentiveranno a licenziare piuttosto che ad assumere.
C'è una strana e poco trasparente discussione sui decreti attuativi del Jobs Act. I ministri competenti sono desaparecidos e questo dopo che Renzi aveva detto che dovevano parlare con i sindacati. Dopo aver deciso che la strada è la monetizzazione, si discute su come risparmiare. E se tutto si gioca sulle risorse, si dà un vantaggio alle imprese che licenziano, che hanno sgravi e pagano poco chi sarà assunto dopo. Ma con le tutele crescenti, cresce nel tempo anche l'indennizzo da corrispondere ai nuovi assunti in caso di licenziamento. Il che incentiva a interrompere quel rapporto il prima possibile. Vedo che una parte del Parlamento si è accorto di questo. E, in un Paese normale, dovrebbe essere obbligato a cambiare quello schema.
Assieme allo sciopero generale, non ci vorrebbe anche altro tipo di sciopero, quello dei consumi? (domanda dalla lettrice Angela Castellero)
La domanda della lettrice arriva da una parte del Paese che ci comunica il senso di abbandono che si prova oggi. Anche noi ci interroghiamo su forme diverse. Ma nello specifico, lo sciopero dei consumi è già in atto a causa della crisi. Forme alternative di mobilitazione, un ottimo suggerimento. Ma, vista la situazione, credo si debba sperimentare in altre direzioni.
Lo sciopero si poggia su un pacchetto vasto di temi. Su quale vorrebbe ottenere una risposta positiva?
Sul lavoro, un cambiamento di impostazione che metta tutte le risorse e le energie a disposizione del lavoro, per il futuro. Dando concretezza a quel senso di speranza che il governo intende dare.
Colpisce che due donne alla testa dei sindacati, Camusso e Furlan, nuova segretaria della Cisl, non siano riuscite a creare un'intesa. Furlan non ha escluso che su alcuni temi si possa parlare con la Cgil. Strano, considerando che la Cisl non è affatto morbida con Renzi.
Infatti, credo che da parte della Cisl ci sia una pregiudiziale, non sui contenuti ma sul "non ci si può mobilitare". Ma io dico che non ci si può nemmeno rassegnare. Se si crede che con un'intervista arrivino risposte positive non andiamo da nessuna parte. Ci siamo sentiti rimproverare che quando al governo c'era Monti abbiamo fatto poco. Di fronte a un simile attacco, non si può restare fermi. La Cisl non capisce che i nostri iscritti non comprenderebbero una mancata risposta, lo interpreterebbero come rassegnazione.
Forse sarebbe stato necessario un approccio diverso. Ovvero, la Cisl che va allo sciopero "insieme" alla Cgil, non "aderisce" allo sciopero Cgil.
In realtà, noi abbiamo discusso molto. La nostra idea è stata proposta, ma c'è un tempo per fare le cose. E quel tempo è adesso. Se non ci sono risposte bisogna trarre le conseguenze. Se i lavoratori hanno diritto, bisogna scegliere se esercitare le proprie capacità di pressione per cambiare le politiche o stare un passo indietro. Noi abbiamo scelto di fare il passo avanti. Il governo Renzi non può non sapere che si sono cumulati degli effetti che provocano la reazione delle persone.
Il suo giudizio su Renzi.
Penso che abbia il merito di avere acceso una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la Troika. Evocare quella speranza è stata anche la sua fortuna. Ora la traduca in lavoro.
Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.
Micromega, 2 dicembre 2014
La democrazia ha dei fondamenti individualistici e procedurali che il populismo non riesce a rispettare e anzi manomette nel profondo. Ma l’errore dei critici del proceduralismo democratico è soprattutto di renderlo corresponsabile di quelle ingiustizie sociali ed economiche che invece sono generate nelle nostre società contemporanee dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario.
Rispondo brevemente alla replica dei miei critici ringraziandoli di aver discusso le mie idee con la stessa sincera radicalità con la quale ho discusso e discuto le loro. Non entrerò nel merito delle varie critiche per non scrivere un trattato. Mi limiterò ad avanzare alcune risposte circa il metodo o l’approccio che ci divide. Per esempio, ci sarebbe da discutere molto puntualmente la lettura proposta da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli della democrazia, delle procedure, del rapporto costituzione/politica, e società/stato. Ci sarebbe anche da discutere – e fortemente dissentire – sulla concezione davvero problematica di rappresentanza che i miei due interlocutori propongono, una visione arcaica e anche, se mi è consentito, poco attenta e con evidenti imprecisioni. Ma, appunto, preferisco rispettare le condizioni che mi sono data: ovvero discussione sul metodo.
Comincerò dalle osservazioni di John McCormick, che questa volta pertengono direttamente al mio libro sulla Democrazia sfigurata, con l’accusa di essere un lavoro polemico nello stile e nelle argomentazioni, e perfino poco magnanimo con gli autori che discute e critica. Devo confessare che non capisco questa critica, per due ragioni almeno. Prima di tutto poiché la critica di essere polemica mi è rivolta da un maestro di polemica: ricordo a questo proposito l’articolo di McCormick “Machiavelli and Republicanism” uscito sulla rivista Political Theory nel 2003, costruito interamente intorno e a partire dalla polemica contro la Cambridge School (sulla cui raffigurazione i membri di quella scuola non si sono probabilmente riconosciuti). In sintonia con quell’approccio contro-argomentativo (che egli chiama polemico) McCormick ha costruito la sua visione del repubblicanesimo di Machiavelli e di quello romano. Dunque, il maestro dovrebbe essere più comprensivo con l’allieva!
In secondo luogo, non mi è chiaro perché egli identifica la critica delle idee con la polemica. Nei mei capitoli critici non inveisco contro alcuno, né offendo nessuno. Isolo invece alcune idee e poi cerco di mostrare perché sono in tensione o in contraddizione con i principi democratici; mostro che esiste una pluralità di interpretazioni della democrazia che rendono le classiche definizioni, per esempio quella solo deliberativa o quella solo schumpeteriana, non soddisfacenti. Mettere in evidenza la pluralità delle interpretazioni e mostrare come le proposte epistemiche, o quelle populiste o quelle plebiscitarie non siano malattie, ma forme della democrazia, sue possibili espressioni facciali, se così si può dire: questo è quel che cerco di fare.
Ovviamente restringere in un capitolo la critica di una corrente di pensiero porta con se il rischio di semplificazione; ma è un rischio che si può e a mio parere si deve correre. Per esempio, per sviluppare l’analisi critica delle teorie epistemiche (che non sono qui un oggetto di discussione ma vorrei menzionare) mi concentro su uno o al massimo due autori distillando dai loro scritti principali il nucleo della teoria stessa che è il seguente: le teorie procedurali puramente politiche falliscono nel giustificare il dovere morale di obbedire alle decisioni collettive perché questo dovere può derivare solo dall’assunto che i risultati politici corrispondono a uno standard oggettivo di “verità”. Se la procedura non è orientata a produrre risultati veri non riesce a essere legittimata, anche se la decisione che genera è formalmente legittima. La parola “verità” è al centro della mia obiezione, che intende sostenere la specificità della deliberazione politica (che al massimo genera verosimiglianza, ma non verità) e la ragione per la quale la democrazia ha bisogno di un’arena pubblica nella quale ciascun cittadino si senta libero di partecipare e tratti gli altri come eguali, e nella quale la sorgente delle opinioni e delle informazioni può portare i partecipanti tutti a cambiare idea e a farlo senza interruzione. La libertà è allora il motore di questo meccanismo, non la ricerca della verità. Questa critica non mi pare oltraggiosa o ingenerosa.
La politica, come la discussione pubblica, presume un modello di razionalità che è endogeneamente discorsivo e per questo bisognoso di essere aperto alla diversità non solo come punto di partenza (come pensano gli epistemici) ma anche come punto di arrivo: ci sono differenze di visioni o interessi o di valori che non verranno mai risolti in una unica soluzione. La libertà e il pluralismo sono endogeni, fondamentali. Lo stesso argomento che vale per la democrazia vale per la rappresentanza politica la quale, come anche ha dimostrato Bernard Manin, non può esistere senza una comunicazione aperta e pubblica tra cittadini e istituzioni.
Questa è la figura della democrazia come diarchia alla quale mi riferisco cercando di integrare la concezione procedurale e la concezione deliberativa. Quindi, la valutazione delle procedure democratiche deve essere fatta badando a considerare che cosa esse promettono: non promettono soluzioni vere o corrette ma soluzioni che tengono aperta sempre la possibilità di cambiare, e quindi di rinnovare il dibattito e le maggioranze. Democrazia include il dissenso come sua condizione (il principio di maggioranza presuppone l’opposizione), e questo contraddice la visione epistemica e anche, a mio modo di vedere, la visione populista.
Se il populismo al potere è capace di tener fede a questi criteri di pluralismo e dissenso, allora esso accetta i fondamenti della democrazia rappresentativa, e quindi non è niente altro che una forma più intensa di maggioranza (una larga maggioranza tanto da essere a volte quasi consensuale). Ma allora, come isoliamo il populismo da altre visioni di democrazia? Che cosa esso ha di specifico che ce lo fa riconoscere rispetto a una maggioranza più intensa (un aspetto del libro che non viene discusso per nulla dai miei critici e che a mio modo di vedere è invece un tema molto importante)? Che cos’altro esso è, se non magari un’uscita dai fondamenti individualistici della democrazia costituzionale? E questo mi sembra che i suoi sostenitori vogliono che sia. Ma se così è, allora il populismo ha l’ambizione di creare il governo della maggioranza – questa è la sua vocazione. E qui può essere situata, come a me sembra, l’origine dei suoi problemi rispetto ai diritti e al pluralismo.
McCormick, come Del Savio e Mameli, mi accusa di non riconoscere che il populismo ha avuto diverse coniugazioni. E questo è davvero ingeneroso! Poiché dedico diverse pagine a distinguere tra forme d’essere dei movimenti (popolare e populista non sono la stessa cosa) e poi a riconoscere come il populismo abbia avuto diverse storie in diversi contesti (il caso degli Stati Uniti, per esempio). Più attenzione alla lettura e meno animosità sarebbe stata auspicabile. Di fatto, i miei critici trasformano le mie idee in polemica per poterle controbattere meglio.
Comunque, del populismo m’interessa vedere i problemi, non le cose che sono andate bene (come mi invita a fare invece McCormick). Perché è dalle cose andate male che possiamo meglio vedere gli attriti del populismo con la democrazia costituzionale. Scrive McCormick: “Urbinati è preoccupata dall’inesistenza di meccanismi di accountability iscritti nella logica del populismo, e dunque dalla possibilità che i molti – o più verosimilmente i loro demagoghi – possano usare appelli alla legittimità esistenziale del ‘popolo’ in modo da giustificare l’abrogazione delle norme democratiche e costituzionali. Ma questa preoccupazione è eccessivamente allarmista”. E perché sarebbe “eccessivamente allarmista”? E poi, che cosa vuol dire “eccessivamente”? Quale è il limite dell’allarme affinché di essi ci si debba preoccupare? Ci sono esperienze storiche effettive che devono far pensare alle contraddizioni messe in moto dai movimenti populisti quando diventano forze di governo. Non si tratta dunque di allarmismo (eccessivo o blando) ma di contraddizioni rispetto alla democrazia nella sua complessità, che non è solo regola di maggioranza, ma principio che regola, accetta e rispetta l’opposizione perché il suo fondamento è il rispetto della volontà e dell’opinione del cittadino singolo, non della massa.
Un esempio? La Lega Nord di Salvini: questo è un movimento populista che ha tutti i tratti della democrazia antiliberale. E che dire del movimento che in Ungheria ha conquistato la maggioranza e cambiato la costituzione per darle un carattere maggioritarista (ha McCormick mai letto la nuova costituzione ungherese?). Questi movimenti dimostrano l’esistenza di una interpretazione anti-individualista dei diritti e delle garanzie nel senso che essi interpretano diritti e garanzie come possessi della grande maggioranza, non degli individui (e quindi di chi non ha il potere del numero) perché interpretano la democrazia come il volere del popolo maggioritario, senza possibilmente intralci di diritti e contrappesi. In questa interpretazione, la massa è l’attore, non le sue componenti individuali, non i cittadini appunto (è questa la ragione della mia insistenza sulla dimensione isonomica della democrazia, che la forma rappresentativa non cambia o sovverte).
Ora: è vero che molto spesso, e soprattutto oggi, i movimenti populisti sono il segno di un malessere sociale ed economico. I sistemi liberali sono stati sepolti dai fascismi anche a causa di radicali crisi economiche che hanno impoverito larghe fasce di popolazione. Oggi siamo di nuovo in una situazione di grande sofferenza di molti. È di questa enorme diseguaglianza economica che le democrazie devono preoccuparsi. La politica populista è un segno di questa debolezza, ma dubito fortemente che possa essere la soluzione. Non lo è in Ungheria, non lo è stata in Venezuela. E non credo che la Lega Nord o il partito di Le Pen siano la soluzione che può salvarci dall’ingiustizia economica e sociale. Certo, ci sono anche populismi ‘buoni’ – vi prego di dirmi quali sono e ne discutiamo. In Europa, una democrazia che mette la massa o la nazione o il popolo tutto prima delle sue componenti è un problema, non ci ha mai dato soluzioni buone.
Se ci interessa, come interessa a miei interlocutori e a me, parlare della mutazione antiegualitaria delle società democratiche, dobbiamo portare il discorso oltre la politica e le sue procedure. Dobbiamo evitare di dare alla democrazia responsabilità che sono del sistema economico di capitalismo globale. Il populismo di oggi è il riflesso della debolezza degli stati nazionali, che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici, che non riescono a fare politiche di redistribuzione e di giustizia sociale perché i loro esecutivi e i loro parlamenti sono stretti sotto il ricatto degli interessi bancari. Potremmo dire che le tensioni sociali che crescono ogni giorno sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli stati nazionali, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere, non a somma zero.
La fine della Guerra Fredda, che comunque imponeva dei confini al mondo, ha cambiato il volto alle nostre società. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non essendo un mondo globalmente aperto, non era possibile accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo per accumulare più profitti. Quei confini – per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia – hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi. Il mondo aperto è un mondo maledetto per chi non ha potere. Un mondo senza confini ha serie difficoltà ad essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza su cui riposa la democrazia. Un mondo senza confini è una buona cosa per chi ha potere economico. È pessima per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori, come quelli cinesi o del sud-est asiatico o africani, i quali potere non ne hanno, e nemmeno diritti sociali e sindacali, e che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti.
Qui sta il nocciolo del problema che i movimenti populisti mettono in luce, ma risolvono nel modo peggiore possibile quando puntano il dito accusatore contro gli immigrati, e propongono di togliere i diritti a chi non è parte della comunità di identici. Quando ridefiniscono gli spazi della politica in un modo tutto identitario: il pianerottolo davanti casa loro, la vita nel quartiere, nella regione, nella nazione. E allora, il diverso (chi parla un’altra lingua, chi ha una religione di minoranza, chi parla un dialetto non identico) diventa il nemico. E intanto chi ha il potere di manovrare le decisioni resta nell’ombra, lontano e invisibile.
Per molti populisti nostrani, il nemico è il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom. Il populismo diventa quindi l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership determinata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche di esclusione e autoritarie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che cerca l’appoggio di una larga maggioranza, e spesso lo trova, quando questa maggioranza è fatta di cittadini di una nazione che soffrono una decurtazione dei diritti e del benessere. Certo, è un appoggio che si guadagna anche facendo cose lodevoli: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creato per loro condizioni materiali di vita dignitose, ha dato loro le scuole … il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge … Insomma, il populismo può certamente essere un “grido di dolore”, come scrive McCormick, ma raramente può essere una cura buona a quel dolore.
Se si pensa che la diseguaglianza economica sia il problema, allora occorre andare oltre le proposte procedurali. Torniamo a parlare di lotta di classe: questo mi sembra più pertinente delle proposte molto problematiche come la costruzione per legge di due classi, quella dei pochi e quella dei molti (e quanti gradini sono ammessi tra i molti? E perché la soglia del reddito proposta da McCormick per discriminare pochi e molti dovrebbe essere accettata per buona?). Queste politiche “romane” o massificanti sono problematiche, non meno discrezionali di quelle esistenti e classiste perché introducono altri piani di discrezionalità che forse sono peggiori dei rimedi.
È quindi forviante portare sul terreno delle procedure un problema che è economico e di classe. Si pensa davvero che togliendo il libero mandato si porti giustizia nella società come pensano Del Savio e Mameli? Si pensa davvero che sostituendo il referendum e il plebiscito alle elezioni dei rappresentanti si risolva il problema del dominio del capitalismo finanziario sugli stati? La storia ci dà esempi contrari: alla democrazia plebiscitaria si sono rivolti proprio coloro che nel nome degli interessi del popolo o della nazione hanno tratto profitto per sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La posizione di Del Savio e Mameli è oltre che lacunosa, ingenua. Ed è un’aporia. Infatti, da un lato mi accusano di voler usare le procedure per difendere lo status quo capitalistico (!!) e di proporre una democrazia non sostanziale ma formale e procedurale, dall’altro propongono di risolvere la diseguaglianza di classe con soluzioni che sono solo procedurali (Marx li criticherebbe di riformismo ingenuo). Insomma accusano me di difendere il capitalismo, perché difendo il mandato libero e poi, invece di andare con coraggio dove le loro premesse li potrebbero portare (cioè a Stato e rivoluzione di Lenin), propongono semplicemente di riscrivere l’Articolo 3 della Costituzione italiana!
Ma se davvero le procedure sono così di poco conto, se mi si accusa di difendere lo status quo perché sostengo che la democrazia vive nelle procedure, allora non si capisce perché i miei critici finiscano per proporre di riformare le procedure (appunto mandato imperativo e plebiscito). Ma, con buona pace della loro volontà riformatrice, io penso che dobbiamo preferire l’attuale dicitura dell’Articolo 3 della nostra Costituzione. La nuova dicitura è infatti cosi aperta all’interpretazione discrezionale da lasciare ai magistrati o alla maggioranza o alla forza un potere interpretativo esorbitante. Ecco il testo modificato del secondo comma dell’Articolo 3: “E’ dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”. L’espressione “quelle diseguaglianze che interferiscono” è una porta spalancata alla discrezione – infatti chi lo decide quali sono “quelle” diseguaglianze che “interferiscono” con l’eguale partecipazione? Una costituzione dovrebbe consentire di risolvere i dissensi non di scatenarli: questa riscrittura sarebbe una iattura e la porta aperta alle ostilità, poiché in una democrazia nessuno ha in mano la bilancia politica per decidere senza ombra di dubbio “quali siano” quelle diseguaglianze che “interferiscono” sulla decisione volontaria di partecipare (o di non partecipare?). Alla riforma dell’Articolo 3 proposta dai nuovi populisti dovremmo preferire la dicitura di Lelio Basso, che non era un populista ma un proceduralista politico, per tanto molto attento alle condizioni della partecipazioni politica. Tra le quali, il denaro.
Secondo i miei lettori, quello del denaro privato in politica sarebbe solo un piccolo problema, anzi un non problema. Eppure, noi stiamo assistendo ad una trasformazione oligarchica della politica che si fa strada immettendo soldi privati: questo si ricava dalla privatizzazione dei partiti, dalla privatizzazione dei deputati eletti, dalla privatizzazione dei mezzi di informazione. Di fronte a questi scempio del pubblico e della politica democratica, i populisti non si scompongono: a loro interessa che si facciano più plebisciti e più referendum!
«». Il manifesto
I risultati delle elezioni parlano chiaro: la “narrazione” renziana è in crisi, ma le forze a sinistra del Pd non appaiono una alternativa credibile.
I sintomi di crisi del renzismo sono nel brusco calo dei votanti in realtà tanto diverse come Emilia e Calabria. Il fenomeno indica non solo l’incrinarsi del potere di attrazione del premier, ma anche consistenti segnali di ribellione dell’elettorato di sinistra verso il Pd. Inoltre, per la prima volta i grillini non intercettano il malcontento. Sembrerebbe una situazione eccellente per chi voglia proporre una alternativa di sinistra. Invece così non è. L’Altra Emilia-Romagna ha raccolto il 4% e Sel, nell’ambito del centro-sinistra, il 3,23%. In Calabria “La Sinistra” (Sel, Pdci, Idv), pur in una coalizione screditata, il 4,36%, e L’Altra Calabria (Prc e Alba, altre componenti della ex Lista Tsipras erano per il non voto) si ferma all’1,32%.
Tutto questo ci dice due cose. In primo luogo, non vi è oggi spazio a sinistra del Pd per più di una proposta politica. In secondo luogo, se le forze a sinistra del Pd si unissero in un Fronte articolato e plurale, lasciando da parte in nome del bene comune le reciproche avversioni, con una leadership collettiva e riconoscibile, questo soggetto politico-elettorale avrebbe di fronte a sé potenzialità rilevanti. Esso potrebbe puntare a conquistare militanti e voti tra i lavoratori sindacalizzati e tra i giovani disoccupati, tra i vecchi iscritti al Pci e tra coloro che sono cresciuti nei movimenti antisistema: insomma, tra i delusi degli ultimi vent’anni di storia politica e sociale del nostro paese.
Parlo di un Fronte della Sinistra (o Fronte del Popolo, o come lo si voglia chiamare) perché l’obiettivo di un unico partito non è realistico. Anzi, i cantieri oggi aperti (Lista Tsipras, Human Factor, nuovo partito comunista) avranno un ruolo positivo solo se non credono di essere autosufficienti, se dialogano fra loro, guardando con rispetto alle forze politiche esistenti, che restano decisive, come al grande mare dei non organizzati o di coloro che lo sono in associazioni e gruppi non partitici.
Bisogna finirla con i veti incrociati e coi risentimenti.
Questo Fronte della Sinistra dovrebbe partire dalle lotte sindacali, dei precari, dei disoccupati: senza radici nel mondo del lavoro non si è sinistra. Ma anche presentare un progetto di rinnovamento e di crescita rivolto a tutta la società. E una elaborazione che prospetti un tipo nuovo di convivenza, alternativa a quella attuale. Credo sia importante avere un duplice programma: uno di misure immediate, per fronteggiare l’emergenza; e un Programma fondamentale, per dire verso quale società si vuole andare.
Da subito poche proposte e chiare: per il lavoro, il Mezzogiorno, i giovani, la scuola e la cultura, la casa, il welfare. Si deve essere in grado di dire dove si troveranno le risorse, colpendo quali interessi: è necessario avere dei nemici. Perché questo nuovo soggetto deve essere di parte, anche se non minoritario. Dovrebbe pronunciarsi, ad esempio, sul ruolo del pubblico, proponendo una economia mista secondo quanto previsto dalla stessa Costituzione. Dovrebbe avviare una Riforma antiliberista.
E, soprattutto, questo Fronte della Sinistra non deve pensare che il suo compito si esaurisca dopo una prima prova elettorale, comunque vada. È un lavoro di lunga lena quello che ci attende, nella società prima che nelle istituzioni. Deve fondarsi sulla promessa reciproca di stare insieme per un lungo tratto di strada, senza cedere a tatticismi e interessi di corto respiro. Non si fa “grande politica” né con una nuova proposta ogni sei mesi né facendo la stampella alla gamba sinistra del Pd. Si metta in cantiere un progetto unitario e partecipato, di alternativa reale. Si lanci una vera sfida egemonica in nome delle classi subalterne, del mondo del lavoro e di chi non ha lavoro, della democrazia e della Costituzione. Oggi si può, la situazione lo richiede.
«La fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Rossi ha compiuto "un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate"».
Articolo9, 3 dicembre 2014
Ha scritto Leonardo: «Poni scritto il nome di Dio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro: vedrai quale fia più riverita». Lo straordinario potere delle immagini: da millenni strumento di elezione della politica.
Sarà per questo potere che la fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Pubblicando una sua foto sorridente con una famiglia Rom, e intitolandola «i miei vicini di casa», Rossi ha compiuto – come ha scritto Michele Serra – «un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate».
Una cosa normale, addiritura banale, in un paese civile. Uno scandalo in un'Italia incattivita e sempre più consegnata agli istinti più bassi e ai bisogni più elementari.
E a colpire non sono (solo) i post razzisti, gli insulti, le incitazioni al pogrom berciati dal branco rabbioso e anonimo che si muove sulla rete, né gli scontati attacchi frontali della Lega o di Fratelli d'Italia. No, a colpire sono i silenzi della Chiesa gerarchica fiorentina (qualcuno li ha avvertiti che il papa si chiama Francesco?). O i toni dei giornali di Firenze: ieri un quotidiano che ci si aspetterebbe civile ha scritto, nell'editoriale di apertura, che il gesto di Rossi «voleva dare voce alla seconda curva ultrà, quella dei "tutti onesti e lavoratori", senza tenere conto delle differenze che ci sono in ogni gruppo sociale». Parole davvero sconcertanti. Rossi non ha postato la foto di un rom che chiede l'elemosina, scrivendoci sotto «avanti così»: no, si è fatto ritrarre con una famiglia normale che vive in una casa vicina alla sua. E questo sarebbe un gesto da ultra? Dire che l'integrazione è possibile, pensare che le responsabilità siano individuali, e non del 'gruppo': tutto questo sarebbe da ultra?
Va peggio con i politici: a parte qualche eccezione, il Pd si è defilato come non avrebbe fatto neanche Forza Italia. Il ministro della Repubblica Maria Elena Boschi ha detto che Salvini deve tacere perché la sua foto a torso nudo sarebbe «più imbarazzante» di quella di Rossi. E perché mai quella di Rossi dovrebbe essere «imbarazzante»? Ma l'apice dell'antipolitica l'ha toccato il segretario del Pd toscano Dario Parrini, che prima ha detto «no comment», e poi si è limitato a sillabare che «la parola doveri è di sinistra quanto la parola diritti».
E uno, davvero, si chiede cosa sia successo al Partito Democratico. Non mi risulta che Parrini si sia mai sentito in dovere di commentare le due foto qua sotto.
È forse di sinistra che la Fiat vada a pagare le tasse altrove? E come stanno ripartiti, qua, i diritti e i doveri? E ancora: è forse di sinistra che la Costituzione venga cambiata in base ad un patto segreto contratto tra questi due signori? E qua, con la faccenda dei doveri come la mettiamo?
Dario Parrini è di Vinci, proprio come Leonardo. Il quale Leonardo scrisse che «il pesante ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che picciolo vento poi lo porta via». Ecco, la furbesca retorica antipolitica sta limando giorno dopo giorno il progetto di Paese che un giorno apparteneva alla Sinistra. Un progetto fondato sull'uguaglianza: quella possibile, quella che sta a noi realizzare. E tra poco basterà il vento forte dell'astensione e il piccolo vento della Lega di Salvini a portarsi via quel futuro possibile.
Come ha scritto ieri Elle Kappa, «il sonno della politica genera destra».
«La grande questione che ha di fronte a sé la sinistra politica è quella di istituzionalizzare il conflitto, dargli cioè una rappresentanza stabile. Ormai la crisi procede per accumulazioni successive, da quantitativa si è fatta qualitativa; si è trasformata in crisi organica, che sconvolge ogni aspetto della Repubblica».
Il manifesto, 22 novembre 2014
«Coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». Già il Machiavelli dei “Discorsi” aveva istituito un saldo legame tra conflitto e rafforzamento delle istituzioni democratiche.
E Giuseppe Di Vittorio, nel presentare all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso un primo progetto di Statuto dei Lavoratori, avvertì che «la democrazia se c’è nella fabbrica c’è anche nel Paese» e, al contrario, «se la democrazia è uccisa nella fabbrica essa non può sopravvivere nel Paese».
La grande questione che ha di fronte a sé la sinistra politica è quella di istituzionalizzare il conflitto, dargli cioè una rappresentanza stabile. Non da oggi, certo.
Ma ormai la crisi procede per accumulazioni successive, da quantitativa si è fatta qualitativa; si è trasformata cioè da crisi congiunturale in crisi organica, che sconvolge ogni aspetto della Repubblica: economico, sociale, istituzionale. Già si intravedono, minacciosi, disegni per una sua soluzione scopertamente reazionaria. Di qui l’urgenza della ricostruzione di un rapporto virtuoso tra conflitto e rappresentanza politica. Per riprendere i termini di Ernesto Laclau, sul momento orizzontale del movimento si deve saldare il momento verticale della lotta per l’egemonia.
I motivi per cui questo intreccio virtuoso non si è fino ad ora prodotto sono molteplici, fortemente radicati in errori soggettivi, primo tra tutti la mancanza di unità tra le varie forze politiche della sinistra. Ma ci sono cause ulteriori da indagare. Prima tra tutte: può essere ancora il partito novecentesco la sintesi tra conflitto sociale e lotta egemonica? Allo stato dei fatti, i partiti tradizionali attraversano una crisi della propria ragione sociale tutt’altro che episodica. Ridotti a comitati elettorali al servizio del leader di turno, risolvono spesso la propria funzione in quella di “uffici di collocamento” per un ceto medio ipertrofico e in crisi di identità sociale, speranzoso di trovare nel “mestiere politico” un’àncora di salvataggio contro l’inesorabile degradare della propria posizione sociale.
Schiere di candidati si aggrappano a quest’àncora ad ogni tornata elettorale, fino a superare talvolta in numero, per sommo paradosso, gli affluenti al voto. Il trasformismo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei corridoi del Palazzo per allungare legislature ingiustificatamente sopravvissute alla fine della spinta propulsiva dei risultati elettorali che le avevano prodotte. Leggi elettorali liberticide sono promulgate nell’assenso acritico della Camere. Gli enti locali, da elementi di democrazia diretta e popolare, sono ridotti a passacarte delle direttive fiscali dei governi centrali, in nome delle ragioni della “ditta” da far prevalere su quelli della cittadinanza.
La destra cavalca questa crisi della funzione sociale dei partiti, mentre la sinistra stenta, per antico abito mentale (comprensibilmente) duro ad estinguersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovrebbero essere oggetto di attenta analisi.
Il partito di massa delle classi subalterne si configura, nei sui albori decimononici, come anti-Stato. Il partito è lo strumento di cui le classi subalterne si dotano per agire all’interno dello Stato liberale, e al tempo stesso trasformarlo. Esso nasce per unificare le lotte e dare loro continuità. Se il partito operaio contiene in sé i germi del pluralismo fin dalla sua formazione, la forza trainante è individuata nel proletariato di fabbrica, inteso come classe generale. Questo schema entra in crisi con la rivoluzione del “lungo ‘68″. In questo periodo il conflitto tra classi subalterne ed élite tradizionali da un lato assume la sua massima intensità; dall’altro, per così dire, esplode; si frantuma. Accanto alle lotte del proletariato di fabbrica, riconoscendone solo in una prima fase la guida, fanno la propria comparsa, e poi via vi acquistano rispetto ad esse un grado crescente di autonomia, quelle degli studenti, per l’emancipazione femminile, per la pace, per la salvaguardia dell’ambiente, tutte egemonizzate da una nuova classe media in ascesa.
L’inizio della restaurazione conservatrice si porta dietro la rottura dell’unità tra il movimento operaio e queste nuove classi medie. Si registra, in questi movimenti, un alto tasso di “integrabilità” nel sistema capitalistico, che ne adotta le istanze di avanguardia per rinnovarsi e rinvigorirsi. Il partito operaio di massa, in questo contesto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capacità di unificazione ed organizzazione del conflitto. All’interno dei partiti, il rapporto tra intellettuali e militanza operaia si inverte, con i primi che ascendono facilmente e frettolosamente ai posti dirigenti e la seconda che è vissuta quasi come un residuo fastidioso. Si giunge per questa via all’espulsione dei ceti subalterni dalla rappresentanza politica diretta. Ceti subalterni i quali, a loro volta, in parte subiscono questo allontanamento, in parte lo promuovono attraverso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discussione l’utilità e la necessità dell’azione collettiva, e di nuovi modelli di consumo del tempo libero.
In questa fase di scomposta ritirata siamo ancora immersi, proprio nel momento in cui il conflitto sociale riprende vigore. Invece di attardarsi in tentativi di riesumazione di una esperienza storica forse irripetibile, serve trovare risposte innovative. È urgente la creazione di un fronte pluralistico della istanze popolari che sorgono dalla società civile in lotta, cercando di ridurle ad unità in base ad una elaborazione collettiva e ad una ricostruzione di un senso comune che sancisca la loro non-contraddizione; e modellando, su queste nuove modalità di istituzionalizzazione del conflitto, adeguate proposte di rinnovamento democratico delle istituzioni repubblicane. Dalla ricostruzione di questo intreccio virtuoso tra conflitto sociale e risposta politica dipende il futuro della nostra democrazia.
.Sbilanciamoci.info, 14 novembre 2014
I poteri forti sono, secondo alcuni, quelli che superano le leggi finora valide a favore di altre ancora più forti e assolutamente obbligatorie anche se non sempre conosciute. Spesso si tratta di un potere esterno fortissimo che viene riconosciuto e accettato o sopportato per causa maggiore; sovrapposto alla normale dinamica degli affari e degli affetti per evitare maggiori sofferenze, maggiori guai. In economia e in politica c'è il caso proverbiale del «quarto partito» richiamato da Alcide De Gasperi sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, come molto più forte degli altri tre: socialisti, comunisti, democristiani. Ma correva allora la piccola Italia della Ricostruzione e della Guerra Fredda. In un mondo ben più vasto e terribile di quello meschino di economia e politica, di democrazia e guerra, vale sempre il famoso comando di Virgilio al traghettatore che protestava: «Caron non ti crucciare: / vuolsi così cola dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare». È il canto III dell'Inferno dantesco: già allora la nostra cultura sapeva dell'esistenza di poteri superiori e inconoscibili, e aspettava tempi migliori.
Oggi i poteri forti, economici e culturali, poteri di classe, sono travestiti da Europa. La povera Europa è descritta attentamente nei testi che pubblichiamo in questo speciale: c'è una burocrazia bruxellese senza sentimenti, una finanza crudele, un apparato industriale che, multinazionale e remoto come è, forse risponde a regole ancor più sconosciute. Sono gli articoli di Azzolini, Baranes, Pullano a consentire un rapido sguardo. Poi si parla di poteri più lontani (Diletti), o anche più interni (Martiny), ma pur sempre inarrivabili. Tutti insieme essi descrivono leggi, disposizioni, regolamenti, procedure, abitudini che limitano le nostre scelte nazionali - da dentro oltre che da fuori - ma applicano poteri che valgono anche per noi, a scanso di guai peggiori.
O almeno così crediamo, visto che una minoranza sempre più consistente di nostri connazionali è molto insoddisfatta della situazione attuale e del futuro prossimo venturo che si delinea. Così non teme il cambiamento e sarebbe pronta a rischiare tutto. Decisa, insomma, a scambiare un po' del tranquillo benessere di oggi con una pericolosa e malsicura democrazia, che è l'aspirazione di domani. Il mondo dei poteri forti e sconosciuti da una parte, quello del futuro indecifrabile e molto incerto dall'altra. I poteri sconosciuti cui inchinarsi di qua; e di là altri poteri, difficili da decifrare ma portatori di una magnifica futura democrazia. O rassegnarsi ai poteri forti e sconosciuti o affidarsi agli incerti profitti di un futuro attraente, democratico, ma imprecisato. Tertium non datur.
Ma siamo sicuri che sia così? Se ci dessimo tutti da fare per sostenere e difendere i poteri deboli? Difficile immaginare eresia più invereconda. Gli autori di solito scrivono di poteri deboli per irriderli, per farne un rimprovero alla comunità imbelle che non riesce a esprimere i poteri forti che essi ritengono necessari e che in realtà bramano. I poteri deboli sono invece la capacità di resistere alle oppressioni dei poteri forti, di decidere per sé e per i figli di pochi anni, di andare e di venire. Di imparare e divertirsi, di scegliere e di lavorare, di non essere infastiditi dagli altri, con l'impegno, d'altro canto di non infastidire alcuno.
L'Europa allora sarebbe un paese magnifico, un Erasmus generalizzato, accogliente, nel quale ciascuno può «coltivare il proprio giardino», come suggeriva di fare, con un bel po' di ottimismo, il nostro amato tedesco di Westfalia, francese, concittadino europeo, Candide.
Ecco il documento che Marco Revelli ha scritto come proposta di manifesto per la formazione politica italiana che prosegua il lavoro iniziato con la campagna elettorale per il Parlamento europeo per incarico del coordinamento italiano della lista "L'altra Europa con Tsipras". Ora è in corso la discussione nella vasta area di riferimento di quella lista. Avremmo voluto pubblicare ben prima, ma altre vicende (e l'età del direttore di questo sito) ci hanno distratti. Il suddetto direttore ha scritto a Revelli che, se si costituirà un soggetto politico basato su questo documento, aderirà senza se e senza ma.
perché non si coltivino eccessive aspettative su questo testo che, lo ricordo, è solo una bozza finalizzata alla nostra discussione attuale, voglio precisare che:
1. Non sono le “tesi” del nuovo partito. Non si occupa di tutto ciò che dovrà costituire la nostra identità. Nemmeno del nostro programma (massimo o minimo che dir si voglia) Ha il compito più modesto di mettere a fuoco alcuni aspetti del quadro politico maturati successivamente al 25 maggio (fino ad allora quello che ci univa lo sappiamo) per quanto riguarda la situazione europea creatasi dopo il voto, e la situazione italiana, in particolare segnata dall’accelerazione di Renzi e dalla mutazione genetica del PD.
2. Serve a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che fare” nei prossimi mesi (non in tutta la nostra vita), in particolare per quanto riguarda alcune questioni dirimenti: il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa; il giudizio sul “renzismo”, che considero la vera discriminante tra chi “è dentro” e chi “sta fuori” dal progetto e, connesso a questo, il giudizio sul PD e sulla sua irrecuperabilità come partito a un discorso di sinistra; le tappe del nostro “processo costituente” e il rapporto tra obbiettivi qualificanti (la presentazione di una lista capace di sfidare Renzi alle prossime elezioni politiche nazionali) e passaggi sottoposti a valutazioni tattiche...
3. Non è dunque un punto di arrivo. E’ il punto di partenza della discussione. Certamente qualcuno lo troverà troppo aperto (include troppi) e altri troppo chiuso (esclude troppi), troppo ampio (tutto il tormentone sul renzismo) o troppo sbrigativo (manca un programma articolato, c’è poco la complessità delle questioni economiche, c’è poco l’ambiente, c’è poco la politica estera e la guerra). Soprattutto resta qui sullo sfondo – ma è il presupposto di tutto il discorso – il contesto della crisi economica e finanziaria globale: la più grave crisi mai attraversata, crisi strutturale, “di sistema”, di cui nessuno oggi intravvede la soluzione e da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorate a fondo tutti insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme.
4. Se da questo lavoro scaturisse quanto meno l’uso di un linguaggio comune e l’individuazione delle questioni importanti su cui discutere, allora non sarebbe stato inutile.
Detto questo, buon lavoro a tutti.
Marco Revelli
“Cambiare l’Europa per salvare l’Italia”. Si potrebbe sintetizzare così la proposta che L’altra Europa con Tsipras aveva posto al centro della scorsa campagna elettorale. Significava che la partita vera, quella per la quale un paese sopravvive o va giù, si giocava a quel livello: sulla possibilità di rovesciare l’intero impianto delle politiche europee sostenute dai paesi forti dell’Unione e incentrate sull’Austerità. Che senza una modificazione sostanziale e radicale di quelle politiche comunitarie, l’Italia sarebbe stata condannata o a un brusco default (in caso di fuoriuscita dall’Euro). O a una lunga agonia (nel caso di una permanenza nella sua area).
Ora bisogna aggiungere un secondo passo: “Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa”. Perché l’Europa non ha “cambiato verso”. Nonostante che le elezioni europee abbiano sancito una sostanziale delegittimazione della politica delle “larghe intese” (Ppe e Pse, i due partiti contraenti di quel patto, hanno entrambi perso elettori in presenza di un’astensione che supera di molto il 50% mentre cresce minacciosa l’ondata dei populismi di destra). E nonostante che un’opposizione ferma e intransigente di sinistra sia cresciuta soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi, l’asse tedesco Merkel-Schulz è stato riproposto e imposto all’intero continente.
La nuova Commissione non solo replica le linee della precedente, ma le peggiora, come è stato puntualmente e autorevolmente denunciato dai nostri parlamentari Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che vi si sono opposti strenuamente insieme a tutto il gruppo del GUE. Composta da 13 popolari, 7 socialisti, 5 liberali e un conservatore, voluta dalla Merkel e posta sotto il controllo dei falchi, non farà che aggravare una situazione già drammaticamente compromessa. L’Europa continuerà a funzionare come una grande “macchina imperiale” destinata a prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro, e nelle periferie, in particolare nell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali finanziari) e al centro (ai “Paesi forti”).
E’ il modo con cui la crisi viene usata da parte dei poteri - prevalentemente finanziari - che controllano la politica europea incarnata dalle “larghe intese”: dal lavoro al capitale. Dal salario al profitto. Dai paesi fragili a quelli forti. Dall’economia reale al circuito finanziario, secondo un meccanismo che continua ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità. E’ questa la sostanza delle cosiddette “riforme” che ossessivamente vengono richieste: attacco al reddito e al potere d’acquisto della variegata area del lavoro, privatizzazione di ciò che resta del patrimonio pubblico e che possa essere oggetto di business, riduzione della spesa pubblica e dell’occupazione nelle pubblica amministrazione, eliminazione dei vincoli alla spogliazione del patrimonio paesaggistico, artistico e territoriale e liquidazione del concetto stesso di “bene comune” in nome dell’utilizzo economico privato. Il memorandum imposto alla Grecia e ora generalizzato su scala continentale.
Non solo. Quest’Europa chiusa nei propri egoismi e nelle proprie diseguaglianze all’interno, mostra un volto indecente, sul piano politico e su quello morale, anche all’esterno: nell’assenza assoluta dalla sua agenda – ma anche dall’orizzonte mentale delle scialbe figure che ne occupano i vertici – dei grandi temi che decidono del destino dell’umanità intera, come la questione epocale del crescente degrado ambientale e climatico, la sfida energetica e l’insostenibilità di un modello fondato su un’impossibile crescita illimitata, la mercatizzazione integrale delle risorse e delle fonti della vita contro le esigenze della vita stessa. Per non parlare delle politiche migratorie, scandaloso esempio di chiusura della Fortress Europe, sorda, cieca e muta di fronte alla strage permanente che si consuma lungo i propri confini, testimone-complice di un crimine contro l’umanità reiterato all’infinito; e di una politica estera che non solo non è riuscita a prevenire ed evitare la guerra – secondo il mandato implicito ricevuto nel 1945 di bandire la guerra dalla storia del mondo – ma l’ha disseminata ovunque intorno a sé con decisioni ottuse e colpevoli, dallUkraina (delicatissimo Paese-ponte tra Est ed Ovest, il cui equilibrio avrebbe dovuto essere preservato come un bene prezioso e che invece è stato terremotato da una serie sconclusionata di interventi destabilizzanti) alla Libia, alla Siria e allo sresso Irak… Quella che avrebbe dovuto essere, secondo una felice definizione, una “grande potenza culturale” si è trasformata in un gretto agglomerato di interessi, chiuso nel cerchio opaco del business e della potenza finanziaria come unico criterio di orientamento delle proprie politiche.
Quel cerchio va spezzato. Con una mobilitazione dal basso, forte, transnazionale, di dimensione continentale, che unisca al di là dei confini nazionali (e dei nazionalismi) gli europei che non accettano questo destino, a cominciare dalle vittime di questo uso della crisi e di queste politiche. Ma anche con un’iniziativa che veda protagonisti gli Stati più colpiti, attraverso una politica di alleanze che crei un fronte alternativo alla congregazione dei fondamentalisti dell’Austerità e dei custodi di un Rigore che premia solo i privilegiati, creditori esosi di una massa d’indebitati che non potrà che crescere su se stessa alimentando all’infinito il meccanismo della crisi e della diseguaglianza che ne sta all’origine. Un fronte che abbia al centro i 10 punti che già affermammo in campagna elettorale. E che sono in frontale antitesi alle linee su cui muove la politica e l’ideologia delle “larghe intese”, a cui invece, sciaguratamente, è del tutto interno e subalterno l’attuale governo, nonostante le promesse elettorali di Matteo Renzi e le retoriche che avevano accompagnato la kermesse del “semestre italiano”.
Tra le ragioni del fatidico 40,8% che ne ha certificato la santità come lo scioglimento del sangue di san Gennaro certifica il miracolo, oltre a una buona dose di demagogia comunicativa e all’appoggio monopolistico dei media, c’è anche questa millantata promessa di “farsi sentire” in Europa. La sceneggiata dei “pugni battuti” sul tavolo a Berlino. Gli sfracelli dei sei mesi “alla guida” a Bruxelles. La fine della subalternità montiana, dell’acquiescenza lettiana… Un grande, consapevole imbroglio. Non solo perché al momento buono Matteo Renzi ha approvato senza colpo ferire la Commissione Juncker, col suo pieno di rigoristi e di fustigatori tedeschi e finlandesi, legandosi una macina al collo. E ha scambiato la primogenitura di un Commissario economico con il piatto di lenticchie di una propria fedele a capo di una politica estera che non c’è. Non solo perché si è accucciato buono buono davanti ai diktat della Banca centrale europea, promettendo e consegnando ai banchieri centrali lo scalpo del sindacato italiano appena macellato. Ma anche e soprattutto perché il suo programma è scritto, punto per punto, sul palinsesto della peggiore Europa. Dal primo decreto Poletti, che formalizzava la precarietà del lavoro decretandone la svalorizzazione come destino, al cosiddetto “Sblocca Italia”, giustamente rinominato “Rottama Italia” dai più prestigiosi esperti del patrimonio territoriale, fino alla interpretazione della spending review come prevalente piano di privatizzazioni e al Jobs act come liquidazione della residua civiltà gius-lavoristica moderna. O, in ultimo, alla Legge di stabilità che simula politiche espansive “in libera uscita” rispetto ai “controllori” europei ma scarica in realtà i costi dei “doni” offerti alle imprese sulle amministrazioni locali e quindi sui servizi ai cittadini più bisognosi, in ossequio all’intoccabilità di quel 3% che costituisce (quello sì) il vero totem dell’ideologia tedesca (ed europea) oggi.
Per questo noi diciamo che Matteo Renzi non è l’alternativa alla Troika, al suo minacciato commissariamento, secondo il mantra che ha recitato e che gli ha fruttato la legittimazione. Non è il “male minore”, ultima spiaggia per scacciare il rischio della totale cessione di sovranità. Matteo Renzi è la Troika interiorizzata. E’ la forma personalizzata che assume la cessione di sovranità quando viene camuffata con la retorica del demagogo. Il suo “miracolo” – più simile al gioco di un prestigiatore che al prodigio di un santo – è di far apparire Uno ciò che è Trino (o plurimo), presentando come atto liberatorio ciò che è in realtà una sottomissione servile. Il suo è un Trasformismo di tipo nuovo, non più quello di Agostino Depretis ancor tutto sommato interno alla società politica, ma quello, più adatto alla società dello spettacolo, del “transformer”: dell’illusionista che trucca le carte e se stesso deviando l’ attenzione del proprio pubblico con la tecnica del diversivo.
Allo stesso modo aggiungiamo che Renzi non è la (possibile) soluzione alla crisi economica e sociale. Non ne ha la forza, nei rapporti internazionali, privo com’è di una politica delle alleanze. Non ne ha la cultura e le competenze (la sua squadra di governo, zeppa di figuranti, sembra pensata più per non far ombra al Capo che per trovare soluzioni a una situazione drammatica). Non ha una sola idea adeguata, come dimostra la trovata dell’anticipo in busta del Tfr, sintomo della disperazione di chi per sopravvivere nel presente si mangia il futuro. Lungi dal rappresentarne una qualche, sia pur difficile, via di uscita Renzi è, al contrario, la crisi stessa messa al lavoro in politica. E’ la forma che la crisi assume quando il suo potenziale distruttivo viene trasferito sul piano politico e applicato alla forma di governo. L’”energia” di cui appare dotato il “renzismo” nella sua opera di rottamazione di tutto ciò che si oppone e rallenta il dispiegarsi del suo potere è la stessa energia con cui la crisi distrugge e liquida consolidati equilibri sociali, soggetti collettivi, sistemi di garanzia e di tutela: le forme di mediazione e gli stessi “patti fondamentali” con cui la società industriale aveva mediato i propri conflitti e costruito la propria coesione. Senza la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile. Senza il renzismo la crisi non potrebbe essere utilizzata dai poteri che reggono l’Europa per realizzare il progetto di trasformazione che gli hanno assegnato come compito, e che costituisce l’effettiva (e occulta) legittimazione del suo potere. E quando diciamo “senza il renzismo” intendiamo senza la sua carica torbida di “populismo dall’alto” (o di “populismo di governo”, che è tra le forme peggiori), senza la sua capacità (polimorfa e perversa) di mutare la disperazione di massa in speranza tramite l’espediente dell’illusione, senza la sua tecnica di mutuare linguaggi ribellistici dentro un progetto reazionario.
Il renzismo non è dunque un punto di caduta temporaneo di una democrazia malata ma ancora vitale. Non è un incidente di percorso, un’occasionale irruzione di Iksos fiorentini che attende di essere riassorbita in una qualche normalità istituzionale romana. Il renzismo porta a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce, certo (perché essa è il risultato di un processo lungo di deterioramento, svuotamento e degrado), ma la “mette in sicurezza”, per così dire: la certifica e la dichiara normale e definitiva. Anzi, utilizza spregiudicatamente il discredito e la sfiducia di massa – il rancore e il risentimento - nei confronti della classe politica e dei propri “rappresentanti” come leva del proprio consenso personale e del ruolo demiurgico di esecutore fallimentare del parlamento e del sistema parlamentare, considerandosene ormai “oltre”. Irreversibilmente “oltre”, in una post-democrazia plebiscitaria in cui le consolidate istituzioni costituzionali sono poste in disuso (come, appunto, le auto in attesa di rottamazione), e ciò che ancora ne resta viene sistematicamente manomesso.
Così è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier (vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa” aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e, tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa, risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene alle più alte cariche dello Stato.
Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo – costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo) relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica) di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto, con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva” dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori, modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale, con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla “libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti. Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più devastante del nostro stato di civiltà.
Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica” di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico incentrato sulla contrapposizione bipolare centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.
Quando diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza, per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica all’altezza dei tempi. Un fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.
In quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo. Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente ritorna.
Il principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua stessa gravità. Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’ intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto, dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e ogni ribellione esterna. Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che radunano troppo spesso i già convinti.
Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura – del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto – inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?). L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa – per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica, naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto “usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.
Ma qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità, il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine, la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete, stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività, spregiudicatezza, conoscenza perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni – alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni, al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo ancora. Allo stesso modo la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili: dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi, ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”, delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in tutta la sua drammaticità. Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo, sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il problema, quello vero, di cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è inabissato: quale forma di organizzazione della soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione delle soggettività, dell’inoperosità della politica al livello della dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività di un “Noi” attivo e consapevole.
Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente” – di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando, forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “SOGGETTO POLITICO EUROPEO DELLA SINISTRA E DEI DEMOCRATICI ITALIANI”, per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di sinistra italiana.
Per questo la prima tappa intermedia, da dichiarare subito, senza indugi, è a sua volta l’obbiettivo di giungere alle prossime elezioni politiche – quale che sia il momento in cui si terranno – con una lista in grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal renzismo, determinata a sfidarlo in modo credibile sul doppio terreno dell’egemonia e della capacità d’innovazione nel senso migliore di questo termine, cioè facendo proprio il bisogno radicale di mutamento dei tanti sacrificati dalla crisi e dall’austerità. La sfida elettorale sul livello nazionale è senza dubbio la competizione giusta per lanciare il processo qui descritto con tutta la forza e l’estensione rese necessarie dall’importanza della sfida. Alla sua piena riuscita è necessario commisurare ogni altra nostra mossa. D’altra parte per il successo dell’iniziativa è fondamentale lo sviluppo di una proposta programmatica articolata e precisa, con un ventaglio di punti programmatici completo (dal lavoro e dai diritti, naturalmente, all’ ambiente, alla sanità, ai trasporti, all’ istruzione e ricerca, dalla politica estera alla questione dei migranti…) per cui abbiamo ottime basi in quello che abbiamo presentato alle europee ma che deve essere sviluppato e precisato, senza perdere chiarezza e comprensibilità, in una discussione collettiva che richiederà per lo meno qualche mese di lavoro intenso e partecipato per cui è bene che tutti si attrezzino.
In quest’ottica di percorso (di ampliamento della nostra base e di approfondimento dei nostri contenuti) il risultato della Lista L'altra Europa con Tsipras il 25 maggio, può essere considerato, sia pur moderatamente, un buon punto di partenza, date le condizioni in cui era la sinistra italiana, e un incoraggiamento per il futuro: si è evitato il rischio - il "paradosso" come l' aveva definito Tsipras - che per la seconda volta la sinistra italiana non fosse rappresentata in Europa (sono stati portati al PE tre rappresentanti di alto livello); si è dimostrato che anche la soglia incostituzionale del 4% poteva essere superata; si è data a 1.103.000 elettori la possibilità di esprimersi con una scelta limpidamente di sinistra; si è aperta una strada per un percorso che altrimenti, in caso di fallimento, sarebbe stata irrimediabilmente chiusa. Né va sottovalutato il ruolo di Alexis Tsipras, che ci ha permesso di dare con chiarezza al nostro progetto – unico tra tutti - un respiro di esperienza, di pratica e di organizzazione politica trans-nazionale con respiro europeo.
Quel (ancora parziale) successo si è ottenuto con il concorso di diverse forze e realtà: la rete delle associazioni in lotta per un’alternativa e parti dei movimenti critici dell’esistente, a cominciare da quello per l'acqua e i beni comuni; un'area di opinione democratica, impegnata nella difesa della Costituzione e dei diritti e preoccupata della deriva autoritaria dei governo Renzi; le diverse realtà organizzate in forma di partito, fino ad allora divise e talvolta contrapposte; e infine, ma non meno importante, anzi, un robusto gruppo di intellettuali e di esponenti del mondo della cultura che hanno "fatto la differenza" per quanto riguarda l'immagine della lista, oltre al gran numero di persone, cittadini, attivisti, simpatizzanti che si sono impegnati nei comitati (e anche fuori di essi, spontaneamente). E' convinzione condivisa – ed è d’altra parte un dato di fatti evidente - che nessuna di tali componenti sia stata prevalente, perché tutte sono state INDISPENSABILI per garantire il superamento della soglia.
Per questa ragione il percorso oltre l'esperienza elettorale europea per la nascita di una sinistra italiana deve proporsi di mantenere entro i limiti del possibile il coinvolgimento di tutti i soggetti e le realtà che hanno contribuito a quel successo, con l'obbiettivo dichiarato non solo di consolidarlo ma di ampliarlo. Non ci si nasconde infatti che quel 1.103.000 elettori è solo una parte, sottile, di elettorato potenziale: rappresenta un voto ancora prevalentemente d'opinione, concentrato negli strati più colti e informati di popolazione. Occorrerà lavorare molto per radicarci nei territori e tra gli strati di popolazione più sofferenti per la crisi, in parte rifugiatisi nell' astensione, in parte convinti dal populismo grillino, in parte sedotti dalle elemosine di Renzi. Un lavoro inevitabilmente lungo, perché ogni realtà locale ha la propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità”di luogo”, rispetto delle differenti dinamiche di territorio (sfuggendo allo schema da “partito novecentesco” che imponeva la presentazione automatica delle proprie liste a ogni livello elettorale e in ogni sede territoriale), capacità di “governare” il rapporto tra progetto generale e domanda locale secondo logiche non schematiche e soprattutto con attenzione intelligente al rapporto “mezzi-fini”.
Siamo consapevoli che non sarà facile: le condizioni della campagna europea erano in qualche modo eccezionali e ci favorivano, sia per il riferimento a Tsipras, sia perché era senso comune che o si faceva come si è fatto, con una certa forzatura anche verso le forze più organizzate in forma di partito, o non si sarebbe concluso nulla. Quelle condizioni non ci sono più: ora bisogna condurre un percorso condiviso, che porti ad una definizione di forme di rappresentanza pienamente legittimate, e procedere a un complesso lavoro diplomatico di cucitura e convergenza, rispettoso di tutte le storie e di tutte le identità ma anche consapevole della necessita di superare distinzioni e sopravvivenze sempre più parziali e meno riconosciute, consapevoli dell’insufficienza, sempre più palese, di un approccio affidato alla vecchia pratica degli accordi tra apparati di partito o frazioni di ceto politico tanto più dopo che l’attesa di una rottura significativa nei gruppi dirigenti del PD si è rivelata clamorosamente vana (altro discorso, naturalmente, riguarda l’elettorato di quel partito e quanto resta del suo corpo militante).
Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, iniziare a tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. E, in connessione con ciò, la proposta che chiediamo di discutere è di aprire l’Associazione L’Altra Europa con Tsipras, a tutt’oggi rappresentante legale della Lista, all’adesione individuale di massa, scrivendone lo Statuto (entro mesi 9 dall’avvio dalla campagna di adesione) in una chiave partecipativa e democratica e rivolgendoci a tutti coloro che hanno partecipato alla campagna per le europee, che appartengano o meno a partiti o a movimenti o ad altre formazioni. Ai soggetti collettivi, d’altra parte, (partiti, movimenti, associazione) non è richiesto di sciogliersi come condizione di partecipazione al percorso (ogni soggettività è titolare delle proprie scelte), ma ne auspichiamo l’impegno convinto e l’assunzione dell’obbiettivo finale (la necessità e l’urgenza di dar vita a una forma di rappresentanza unitaria nella scena politica nazionale), così come è stato per le elezioni europee.
D’altra parte, intorno a noi, c’è un mondo di donne e di uomini che ogni giorno si sbatte per resistere e per cambiare, o comunque che “non ci sta”: c’è una “sinistra fuori dalla sinistra”, che non trova sponda in ciò che c’è (o che si vede) e che meriterebbe una rappresentanza politica degna di questo nome. E’ con loro che dobbiamo camminare.
Ci saranno senza dubbio tensioni e difficoltà, lungo questo cammino, ma siamo convinti che la forza del progetto generale, come nel modello tracciato da Syriza, sarà più forte.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.
’Espresso, 17 novembre 2014
Maledetto liceo classico. Tutta colpa sua: il degrado del Paese, l’inconcludenza dei politici, la poca competitività delle aziende, la credulità della gente... Tutti i mali d’Italia nascono da qui. Anche se ormai lo sceglie solo il sei per cento degli studenti (e per la maggioranza ragazze, statisticamente destinate più a una carriera da insegnanti che a manovrare le leve del potere) è comunque considerato la fucina delle élite intellettuali di un Paese che ormai, delle élite e degli intellettuali, pensa di poter fare una sola cosa: rottamarli.
Benedetto liceo classico. È l’anima dell’Italia migliore. Prepara alle professioni del futuro (Umberto Eco), insegna a ragionare e a resistere (Luciano Canfora), e questo perché grazie alle “lingue morte” propone veri “ problemi da risolvere ” e non semplici “esercizi da eseguire” (Dario Antiseri). Gli dobbiamo gran parte di quello che di buono ha ancora l’Italia: da Fabiola Gianotti a Daniele Dorazio , fisico incompreso chiamato dal Cern ma bloccato dal suo liceo di Brindisi, ben più del sei per cento degli italiani che fanno fortuna all’estero hanno in tasca una maturità classica.
Eppure ogni volta che si parla di limiti della scuola italiana, il primo imputato è il liceo classico: protagonista in questi giorni di un vero “ Processo”, organizzato dalla Fondazione San Paolo al Teatro Carignano di Torino (all’accusa l’economista Andrea Ichino , alla difesa Eco). Critiche periodiche che sono destinate a riattizzarsi con la scadenza (il 15 novembre) dei termini per commentare il progetto di riforma per “ La buona scuola ” del governo Renzi. Il 3 dicembre saranno presentati i nuovi dati sullo stato delle scuole superiori raccolti dal consorzio Almalaurea, il 4 e 5 dicembre e si farà il punto su dieci anni di test Invalsi per la valutazione dell’istruzione scolastica.
Di certo un pregio ce l’ha, il classico, e dovrebbero riconoscerglielo anche i suoi detrattori più accaniti: basta sparargli contro per conquistare ben più di un quarto d’ora di attenzione.
Sciopero sociale. Migliaia di studenti e precari sfilano a Milano sfidando i manganelli. La cattiva gestione della piazza della polizia non rovina la strana giornata milanese percorsa da tre cortei, diversi ma uniti dalla stessa voglia di tornare a lottare per difendere i diritti ed estenderli a tutti».
Il manifesto 15 novembre 2014 (m.p.r.)
Non per enfatizzare le solite mazzate che «rovinano» i giorni di lotta, ma le cariche democratiche distribuite gratuitamente ieri a Milano dimostrano ancora una volta che in questo paese c’è una gran voglia di menare le mani. Sul campo è rimasto qualche contuso e un punto interrogativo sul perché a un certo punto la polizia abbia deciso di dare una’energica riordinata alla strana giornata milanese, con tre cortei diversi (ma non troppo) che per tutta la mattina hanno girato intorno alla questione «più diritti per tutti». A volte incrociandosi, spesso ignorandosi, e sempre desiderando di convergere tutti insieme chissà dove, forse in un mondo nuovo con un popolo nuovo che ha perso memoria di sigle, sette, sommatorie e impossibili «unità» a sinistra. Erano tutti lì, concentrati in pochi chilometri quadrati. Decine di migliaia griffati Fiom diretti in Duomo, qualche migliaio dietro agli striscioni dei sindacati di base sbucati in piazza San Babila dopo tanto girovagare e più di 5.000 scioperanti sociali, una prima assoluta, un esperimento tanto suggestivo quanto complicato che ha anche emozionato alcuni lavoratori — «ho preso mezza giornata, questo è il mio primo sciopero». A 32 anni, sono conquiste.
Forse si comincia a comprendere che lo sfruttamento non avviene piú solo in fabbrica e sui campi, che gli sfruttati non sono soltanto gli operai e i braccianti, ma che lo sono tutti gli abitanti del pianeta nelle loro città e nei loro territori.
Il manifesto, 12 novembre 2014
Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza. I bersagli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le rivendicazioni perfettamente comprensibili: dal salario minimo europeo al reddito di cittadinanza. Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere.
Come la quadratura del cerchio nessuna approssimazione esaurisce il problema, tanto da lasciarne sospettare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gordiano consiste, in sintesi, nel fatto che la produzione di valore e la sua appropriazione avvengono in larga misura al di fuori del lavoro dipendente e perfino al di fuori da una sfera di attività agevolmente identificabili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il termine «sciopero» rischia di assumere un significato sinistro.
Una larga parte della società resta comunque esistenzialmente esposta all’ «estrazione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinunciato, chi va a ingrossare gratuitamente le schiere governate dall’economia politica della promessa, chi si ingegna nell’individuare nuove forme produttive, chi agisce semplicemente la propria socialità è condannato ad alimentare i dispositivi dell’accumulazione e della diseguaglianza in una condizione di «autonomia eterodiretta» e indebitata.
Per il lavoratore precario lo sciopero può costare lo straccio di lavoro con cui sbarca il lunario, per il lavoratore gratuito la perdita di una pur fievole speranza, per chi cerca di inventare la propria strada una perdita di tempo. Quanto a chi smettesse di cercare lavoro, a chi importerebbe? Esistono naturalmente, e non sono affatto pochi, i lavoratori salariati, fabbriche, uffici, servizi che, per quanto sotto crescente ricatto, possono essere fermati.
Il 14 novembre sciopererà la Fiom e questo sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la solidarietà e una partecipazione alle manifestazioni di piazza per affermare «ci siamo anche noi, siamo tanti, produttivi e privi di reddito e diritti».
È una occasione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza propria, poiché è su quella del lavoro salariato che si continua a poggiare chiedendo (non senza ragioni che lo riguardino direttamente) di veicolare i bisogni e le rivendicazioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa politica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.
Lo «sciopero sociale» rimane una affermazione di principio, la «generalizzazione dello sciopero» un fatto argomentativo che spesso si risolve in azioni generose ma frequentemente rituali e che non varcano i confini del simbolico. Si può puntare alla sospensione di stage e tirocini, si può immaginare il picchettaggio dei luoghi del lavoro gratuito, ma spesso quest’ultimo non ha luoghi o è talmente disperso e frammentato da risultare fisicamente irrintracciabile, cosicché l’astensione stessa da queste forme di prestazione d’opera rischia di rimanere invisibile, salvo assumere dimensioni tanto estese che è difficile immaginare nella condizione di estrema ricattabilità in cui versano.
Si può conquistare come palcoscenico delle proprie ragioni qualche luogo di visibilità, un monumento, una piazza, ma anche questo non risolverebbe il problema dello «sciopero» inteso come sottrazione temporanea della propria capacità creativa alla produzione di ricchezza e al funzionamento della macchina economica. Per dirla in modo classico, servirebbe uno sciopero del valore d’uso contro il valore di scambio.
Il fatto è che «sciopero sociale», preso alla lettera, significa smettere di fare società, sospendere cioè quelle azioni e interazioni che caratterizzano il normale svolgimento della vita sociale, mantenendo quest’ultima, depurata dei suoi caratteri «funzionali», in una dimensione altra che ne contraddica l’asservimento alla condizione del lavoro e della produzione in senso più generale. Un altro tempo e un altro spazio.
Senza alcun intento blasfemo o irrispettoso, semmai il contrario, un modello assai radicale lo indicherei nello Shabbat ebraico. In quella festività, sebbene nella forma del divieto religioso che non coincide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e attività che caratterizzano il normale funzionamento della macchina sociale. Shabbat esclude appunto, con una geniale intuizione, tutti quegli aspetti della vita che sono sospettati di essere «messi al lavoro», valorizzando invece quei tratti della vita umana privi di significato strumentale.
Non si tratta certo di stilare una lista di attività (Shabbat ne prevede 39) proibite ma di cercare di individuare, con la massima fantasia e inventiva, i terreni della sottrazione possibile e quelli di pieno esercizio della libertà individuale e collettiva. Il paragone è decisamente strampalato e vale semplicemente come suggestione, tuttavia mi sembra utile a orientare lo sguardo in una materia che è finora rimasta oscura o del tutto indefinita.
Tornando, però, alle più consuete categorie laiche, lo «sciopero sociale» non può che trasformarsi in una nuova forma di «sciopero politico» che, messo da parte il miraggio della presa del potere, riesca a esercitarne il più possibile, rendendo ogni gesto di sottrazione una critica esplicita dell’ordine sociale ed economico esistente.
Forse, tra quelle riprese su eddyburg, la più bella e condivisibile testimonianza e la piú convincente analisi di un evento e un momento che segnarono la crisi del mondo al di qua e al di lá del Muro di Berlino.
Il manifesto, 8 novembre 2014
Un pezzetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scrivania: un frammento di intonaco colorato che strappai con le mie mani quando accorsi anche io a Berlino mentre ancora, a frotte, quelli dell’est esondavano verso l’agognato Occidente. Furono giornate gioiose attorno a quel simbolo di una guerra – quella fredda – che era scoppiata meno di due anni dopo la fine di quella calda.
Per oltre quarant’anni quella frontiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attraversata solo illegalmente: negli anni ’50 perché il mio governo non mi dava un passaporto valido per i paesi oltre la cortina di ferro (dovevamo rimanere chiusi nell’area della Nato) e perciò per parlarsi con tedeschi della Ddr, ungheresi o bulgari si prendeva il metro a Berlino e dall’altra parte ti fornivano una sorta di passaporto posticcio.
Poi, dopo la costruzione del muro, quando noi potevamo legalmente andare ad est e invece quelli di Berlino est non potevano più venire a ovest, ridiventammo clandestini: per potere incontrare, senza incappare nella sorveglianza della Stasi, i nostri compagni pacifisti del blocco sovietico, dissidenti rispetto ai loro regimi, ma convinti che a una evoluzione democratica non sarebbero serviti i missili perché solo il disarmo e il dialogo avrebbero potuto facilitarla.
Per questo, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgoglio per il merito che per questo esito aveva avuto anche il nostro movimento pacifista, l’End «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». Avevamo prodotto una deterrenza politica, contribuendo ad isolare chi, per abbattere il muro, avrebbe voluto scegliere la più sbrigativa via delle bombe.
E però l’89 non fu solo gioiosa rivoluzione libertaria. Fu un passaggio assai più ambiguo, gravido di conseguenze, non tutte meravigliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolorosamente nella memoria che evoca in me. Peraltro quel 9 novembre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dissociabile dalle date che seguirono di pochi giorni: il 12 novembre, quando Achille Occhetto, alla Bolognina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comunicò ufficialmente alla traumatica riunione della direzione del partito di cui, dopo che il Pdup era confluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così imponendoci – a tutti – la vergogna di passare per chi sarebbe stato comunista perché si identificava con l’Unione sovietica e le orribili democrazie popolari che essa aveva creato.
Non c’era bisogno della caduta del muro per convincersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo possibile che volevamo, non solo per noi che avevamo dato vita al Manifesto, ovviamente, ma nemmeno più per la stragrande maggioranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trattava soltanto della sinistra italiana, il mutamento che segnò l’89 ha avuto portata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vittoria a livello mondiale di questa globalizzazione che tuttora viviamo, accelerata dalla conquista al dominio assoluto del mercato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riuscito a fare il socialismo gli era tuttavia rimasto estraneo.
Ci fu, certo, liberazione da regimi diventati oppressivi, ma solo in piccola parte perché non aveva vinto un largo moto animato da un positivo disegno di cambiamento: c’era stata, piuttosto, la brutale riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Tatcher, Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio, sradicando valori e aggregazioni nella società civile, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, corruzione, violenza. Il coraggioso tentativo di Gorbaciov non era riuscito, il suo partito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rimasero passive.
E così il paese anziché democratizzarsi divenne preda di un furto storico colossale, ci fu un vero collasso che privò i cittadini dei vantaggi del brutto socialismo che avevano vissuto senza che potessero godere di quelli di cui il capitalismo avrebbe dovuto essere portatore. (A proposito di democrazia: chissà perché nessuno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liquidato Gorbaciov, arrivò a bombardare il suo stesso Parlamento colpevole di non approvare le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hobsbawm nel ventesimo anniversario del crollo «il socialismo era fallito, ma il capitalismo si avviava alla bancarotta».
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte)E allora è lecito dire che c’erano altri possibili scenari e che se la storia ha preso un’altra strada non è perché il «destino è cinico e baro», ma perché a quell’appuntamento di Berlino si è giunti quando si era già consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le responsabilità sono molteplici. Perché se è vero che il campo sovietico non era più riformabile e che una rottura era dunque indispensabile, altro sarebbe stato se i partiti comunisti , in Italia e altrove, avessero avanzato una critica aperta e complessiva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limitarsi – come avvenne nel ’68 in occasione dell’invasione di Praga – a parlare solo di errori.
In quegli anni i rapporti di forza stavano infatti positivamente cambiando in tutti i continenti ed era ancora ipotizzabile una uscita da sinistra dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata. E così nell’89, anziché avviare finalmente una vera riflessione critica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socialismo che proprio non si poteva fare.
Gorbaciov restò così senza interlocutori per portare avanti il tentativo di dar almeno vita, una volta spezzata la cortina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva perseguito con tenacia, offrendo più volte lui stesso alla Germania la riunificazione in cambio della neutralizzazione e denuclearizzazione del paese.
Fu l’Occidente a rifiutare. Mancò all’appello, quando unilateralmente il presidente sovietico diede via libera all’abbattimento della cortina di ferro, il più grande partito comunista d’occidente, quello italiano, frettolosamente approdato all’atlantismo e impegnato ad accantonare, quasi con irrisione, il tentativo di una “terza via” fondata su uno scioglimento dei due blocchi avanzata da Berlinguer alla vigilia della sua morte improvvisa.
E mancò la socialdemocrazia, che aveva in quell’ultimo decennio marginalizzato gli uomini che pure si erano con lungimiranza battuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Kreiski. È così che l’89 ci ha consegnato un’altra sconfitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi finalmente un ruolo e una soggettività autonome, quella “Casa comune europea” che Gorbaciov aveva sostenuto e indicato, e che trovò solo un simpatizzante – ma debolissimo — in Jaques Delors, allora presidente della Commissione europea.
Nell’89 l’Unione Europea avrebbe finalmente potuto coronare l’ambizione di liberarsi dalla sudditanza americana che l’esistenza dell’altro blocco militare aveva facilitato, e invece si ritrasse quasi spaventata. Avviandosi negli anni successivi lungo la disastrosa strada indicata dalla Nato: ricondurre al vassallaggio le ex democrazie popolari per poter estendere i propri confini militari fino a ridosso della Russia.
Non andò molto meglio neppure in Germania. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riunificazione del paese che aveva vissuto la dolorosissima ferita della divisione, ma anche qui, più che di un nuovo inizio, si trattò di una annessione condotta secondo le regole di un brutale vincitore.
A 25 anni di distanza la disuguaglianza fra cittadini tedeschi dell’ovest e dell’est è più profonda di quella fra nord e sud d’Italia, perché la «Treuhand» incaricata di privatizzare quanto era pubblico nell’economia della Ddr preferì azzerare le imprese per lasciar il campo libero alla conquista di quelle della Rft. Cinque anni fa nel commemorare il crollo del muro il settimanale Spiegel rese noti i risultati di un sondaggio: il 57% degli abitanti della ex Germania dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne avevano nostalgia
Oggi probabilmente quella che viene chiamata «Ostalgie» è cresciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scomparsa: tornava da un giro ad est in occasione della prima campagna elettorale del paese riunificato ed era desolato per come la riunificazione era stata condotta. La Spd non aveva del resto nascosto, sin dall’inizio, la sua contrarietà a come era stato avviato il processo).
Per tutte queste ragioni non condivido la spensierata (agiografica) festosità che accompagna, anche a sinistra, la celebrazione del crollo del Muro. Soprattutto perché – e questa è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende fine la speranza – e persino la voglia – di cambiare il mondo, quasi che il socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via è finita per passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo anche da noi era stata vana perdita di tempo.
Un colpo durissimo inferto alla coscienza e alla memoria collettiva, alla soggettività di donne e uomini che per questo avevano lottato. E nessuno sforzo per riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato nuovo progetto. Non è un caso che anche i posteriori tentativi di dar vita a nuovi partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto impasticciate: perché incapaci di fare davvero i conti con la storia. E perciò qualche ristagno ideologico o la resa a un pensiero unico che indica il capitalismo come solo orizzonte della storia.
Nel dire queste parole amare rischio come sempre di fare la nonna noiosa che continua a rimuginare sul passato senza guardare al presente. So bene che ci sono oggi nuovi movimenti animati da generazioni nate ben dopo la famosa storia del Muro che si propongono a loro modo di inventarsi un mondo diverso.
Ma non mi rassegno a subire senza reagire il disinteresse che avverto in tanti di loro per il nostro passato, non perché vorrei ci assolvessero dai nostri errori, ma perché non sono convinta si possa andar lontano se non si ha rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella ufficialmente celebrata in questo venticinquennale del Muro — così meschina da apparire arretrata persino rispetto alla rivoluzione francese dove almeno era stato aggiunto uguaglianza e fraternità, ormai considerati obiettivi puerili e controproducenti: il mercato, infatti, non li può sopportare.
Non ho molta credibilità nel proporre la creazione di partiti, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straordinario successo. E tuttavia ora ne vorrei davvero fare uno: il partito dei nonni. Non perché insegnino ai giovani cosa devono fare, per carità, ma perché vorrei che almeno due generazioni uscissero dal mutismo in cui hanno finito per rinchiudersi, intimiditi da rottamatori di destra e di sinistra.
Vorrei che riprendessero la parola, riacquistassero soggettività: per dire che sulla storia di prima del crollo del muro vale la pena di riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie ( a cominciare dalla rivoluzione d’ottobre di cui giustamente Berlinguer disse che aveva perso la sua spinta propulsiva, non che era meglio non farla). Buttare tutto nel cestino significa incenerire ogni velleità di cambiamento, di futuro.
Per finire: da quando è caduto il muro di Berlino ne sono stati eretti altri mille, materiali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disuguaglianza globale e i muri europei «a mare» nel Mediterraneo e di terra a Melilla, contro i migranti). Non proprio una festa.
Critiche sensate ai padri di Renzi, ma significativa elusione di un nodo centrale: qual'è il giudizio sul sistema capitalistico, e quale la conseguente strategia? e quali i principi e valori da assumere a fondamento della societa'? Il manifesto, 30 ottobre 2014, con postilla
postilla
Il tema proposto da Della Seta è indubbiamente centrale. La questione del lavoro è certamente decisiva per chi voglia affrontare una lotta seria contro il renzismo e la “emergenza democratica” che esso ha provocato. Così come lo è la questione dell'ambiente. La connessione tra queste due questioni è anzi la chiave di volta per riconnettere quelle che per semplicità chiamero’ la vecchia e la nuova sinistra: quella che abbiamo conosciuto e quella che vogliamo costruire. Ma porre quelle due questioni volendo effettivamente risolvere ( e non mitigare, addolcire, depeggiorare) significa recuperare la tensione che è la ragione stessa del “comunismo”: la tensione, e la prospettiva, del superamento del capitalismo. In particolare del capitalismo di oggi: quello che ha ormai esaurito ogni sua “forza propulsiva” ed è diventato meramente distruttivo. Hic Rhodus, hic salta, caro Roberto Della Seta.
Per chi si pone in questa prospettiva il declino e la definitive sconfitta della sinistra ex PCI inizia forse ben prima della rottura di Occhetto: nasce quando all’interno stesso del PCI la visione di Enrico Berlinguer fu sconfitta, e la grande proposta strategica del “compromesso storico” fu immiserita riducendola al rango di una intesa di potere tra
quel PCI, ormai disideologizzato, e quella DC, opportunamente privata della leadership di Aldo Moro. E forse è anche utile sottolineare - visto che, seguendo Della Seta, abbiamo ricordato la “cosa” di Occhetto - che il primo successore del PCI, il PDS, aveva tra i suoi obiettivi strategici la “riconversione ecologica dell’economia”, che evocava una trasformazione radicale del sistema economico sociale, rapidamente degenerate in “green economy”.
Tutti i nomi (per ora) della rete del potere occulto che avvolge quanto resta della democrazia italiana.
L'Espresso online, 23 ottobre 2014Luca Lotti è “lampadina”, il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo “zio saggio”, il mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca, Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano “la trinità”, il gruppo scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.
Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.
Gli uomini neri
Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.
L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.
La Trinità
Piccoli Letta crescono
L'epurazione
L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.
I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.
Chi sale e chi scende
Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.
Il vecchio e il giovane
Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra.
«». La Repubblica