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Uno strumento di autodifesa per chi vuole mantenere intatta la propria capacità di pensare, apprendere, valutate e quindi agire in modo sensato. Particolarmente utile in un'epoca in cui la manipolazione delle menti è diventa un sofisticato strumento di potere.

La Repubblica, 2 febbraio 2015

Liberi di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.

Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».

Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».

Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?

«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».

È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rappresentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».

La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».

Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».

Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».

Un articolo interessante, ma un titolo sbagliato. Definiremmo "reazione", e non "rivoluzione", l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Reazione feroce a quanto di positivo l'ultima metà del XX secolo ha prodotto sul terreno del lavoro.

La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla

VENTITRÉ marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi. Venti febbraio 2015: il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi approva i decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act.

CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.

Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.

Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.

Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.

Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.

Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.

La dura realtà economica del presente conduce così a un inevitabile paradosso: i più interessati a un successo dei decreti attuativi del Jobs Act soprattutto in termini occupazionali diventano quei sindacati che ne dissentono apertamente. Perché, allo stato, solo nella riuscita della scommessa renziana potrebbero ritrovare il potere perduto.

postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della
democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.

Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S

bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015

La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.

S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.

Soprattutto si denunciava l’“internità” del suo progetto all’“agenda liberista” della finanza internazionale e della cupola che domina l’Europa, mascherata sotto una retorica tribunizia da “palingenesi totale”. Un novum, nel panorama antropologico-politico, che permetteva fin da allora di parlare dell’“apertura di una nuova fase”, segnata da uno stile di governo ormai pienamente post-democratico (e sostanzialmente a-democratico).

Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.

Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.

Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.

È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.

«In questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”».

La Repubblica, 17 febbraio 2015

L’aveva detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.

E anche in questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”. Entrare nel Palazzo del Quirinale significa camminare sulla cresta sottile del vertice dell’arte barocca: quando Roma era, per l’ultima volta, la capitale artistica del mondo. Nemmeno i Palazzi Apostolici del Vaticano possono sfoggiare un appartamento di Stato delle dimensioni e della solennità del nesso costituito dall’immensa Sala Regia (oggi detta Salone dei Corazzieri) e dalla contigua Cappella Paolina, separate e unite da un portale di marmo degno di una basilica, disegnato da Carlo Maderno (autore, tra l’altro, della navata e della facciata di San Pietro) e scolpito dal dimenticato (ma bravissimo) Taddeo Landini. In questi spazi straordinari, che sfociano in una serie infinita di sale e gallerie, Paolo V Borghese (papa dal 1605 al 1621) riceveva gli ambasciatori, circondato dalle figure dipinte dai seguaci dei due grandi rivoluzionari di primo Seicento, Annibale Carracci e Caravaggio.
Come spesso succede nell’arte barocca, nella Sala Regia va eternamente in scena uno spettacolo, basato sullo sdoppiamento: grazie agli affreschi del fregio, anche quando è vuoto il salone sembra gremito di diplomatici, giunti ad omaggiare il papa da ogni angolo del mondo. Tra i tanti volti esotici che si affacciano dalle balconate dipinte è possibile riconoscere quelli degli inviati del re del Congo, e quello del dignitario giapponese Hasekura Rokuemon, che fu a Roma nel 1616. È una scena che si presta ad una doppia lettura: da una parte essa sottolinea l’aspirazione universale, oggi diremmo globale, del potere papale. Ma è solo il trucco di un bravo pittore illusionista: perché già al tempo di Paolo V il papato era ridotto al rango di potenza regionale, e per giunta di seconda fila. Dopo quattro secoli il messaggio colpisce con la stessa forza, e ci ricorda che la proiezione internazionale dell’Italia rischia di rimanere un’aspirazione, anzi un’illusione: la lama della retorica barocca è a doppio taglio, e noi non siamo cambiati.
Ma il Quirinale non è solo una scenografia piena di specchi (reali e metaforici), è anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte (che vanno dall’antichità ai nostri giorni) e di una importantissima serie di arredi (dagli arazzi ai mobili) provenienti dalle regge degli antichi sovrani di tutta la Penisola, e qui concentrati (anche troppo disinvoltamente, per la verità) dai Savoia. Non c’è davvero alcun bisogno di pensare di trasformare questo luogo unico in un museo, perché è già un meraviglioso racconto del nesso profondissimo tra nazione italiana e patrimonio culturale. Bisogna solo farlo “parlare”: ed entrarci - da sovrani - ci verrà perfettamente naturale.
«A Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro».

Il manifesto, 15 febbraio 2015

Non so se sono i greci che deb­bono rin­gra­ziarci per que­sta mani­fe­sta­zione grande, bella, uni­ta­ria che abbiamo pro­mosso in tutta fretta per­ché a Bru­xel­les capis­sero bene che quanto lì si decide in que­sti giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli euro­pei che vogliono un’Unione in grado di garan­tire più ugua­glianza più demo­cra­zia più pace.

Un’Europa che almeno la smetta di rite­nersi faro della civiltà quando è inca­pace di acco­gliere chi fugge da terre deva­state dalla pesante ere­dità colo­niale e dalle nostre più recenti, dis­sen­nate spe­di­zioni mili­tari. Pro­prio per que­sto sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover rin­gra­ziare noi, ma noi che rin­gra­ziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che rin­gra­ziamo Ale­xis e Yan­nis - (li chia­miamo ormai per nome per­ché non sono più solo com­pa­gni ma sono diven­tati amici).

Siamo noi che li rin­gra­ziamo per­ché lì a Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piut­to­sto bene. La prova, lo sap­piamo, è duris­sima, ma già dopo que­sti pochi/ primi giorni sem­brano pro­ce­dere con fer­mezza, con la sicu­rezza di rodati sta­ti­sti). Ne siamo orgo­gliosi e sod­di­sfatti. (Avete visto le loro imma­gini in tv, sono loro a domi­nare la scena, e tutti si affret­tano ad avvi­ci­narsi a loro per strin­ger­gli la mano).

Per­ché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capi­tolo della sto­ria dell’Unione euro­pea: per­ché hanno avuto la deter­mi­na­zione - che fino ad oggi era man­cata a tutti - di dire che così non va, che occorre cam­biare pro­prio se si vuole sal­vare il pro­getto d’Europa. Non sono andati a Buxel­les a scu­sarsi per il loro debito e a men­di­care aiuto, ma per dire alla troika che deve chie­dere scusa.

Scusa per i danni che ha pro­dotto con le sue poli­ti­che. Scusa per essersi irre­spon­sa­bil­mente fidata, di un governo cor­rotto e inca­pace. La cata­strofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medi­cine di Bru­xel­les anzi­ché alle­viare i mali e avviare un nuovo corso hanno peg­gio­rato la situa­zione della Gre­cia. Qual­siasi mena­ger che avesse pro­dotto in quat­tro anni un crollo del Pil pari al 25% e rite­nesse que­sto il metodo migliore per accu­mu­lare le risorse per ripa­gare un debito, ver­rebbe licen­ziato. Con tanto par­lare di effi­cienza, il cri­te­rio potrebbe esser appli­cato anche ai fun­zio­nari di Bru­xel­les! Se hanno rovi­nato così la Gre­cia vanno messi in con­di­zione di non nuo­cere più. È neces­sa­rio far­glielo capire.

Noi siamo qui per far sen­tire anche la nostra voce. Buon lavoro Ale­xis, buon lavoro Yannis.

«La Repubblica, 15 febbraio 2015

ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.

Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.

Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.

Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.

Una volta tanto su un giornale italiano si riconosce che i due "eroici marò" hanno ucciso due giovani e inoffensivi pescatori.

«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015

NELLA casa linda e spoglia della famiglia di Celestine Galestine, ucciso esattamente tre anni fa dai militari di una petroliera italiana, una volta tanto si ride di gusto. Dora, la vedova di Celestine, ha una voce argentea in un corpo massiccio, e sorridono con gli occhi bassi anche i figli Derrick, 21 anni, al terzo anno di ingegneria, e Jwen, 13 anni.
È il racconto di un sacerdote del Kerala di ritorno da un anno in Italia a riportare un po’ di buon umore nel terzo anniversario di una vicenda dolorosa che coinvolge diverse famiglie: anche quella di Ajesh Binki, il giovane tamil ucciso il 15 febbraio 2012 insieme a Celestine su una barca da pesca scambiata per una goletta di pirati, così come le famiglie dei due marò italiani sospettati di aver sparato.
Padre Tommy era stato parroco in Abruzzo e ricorda a Dora di quando lo scorso anno si recò a visitare i suoi ex parrocchiani. «Una signora mia amica era molto arrabbiata con l’India perché secondo lei teneva in ostaggio ingiustamente Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Allora propose a un gruppo di persone che era con lei di sequestrarmi per uno scambio...».
Anche Dora è una kadel puram kaar, il popolo della spiaggia, uomini e donne che conoscono il mare e odiano le grandi navi che da tutto il mondo vengono a pescare con enormi reti nelle acque internazionali lasciando senza cibo i pescatori locali. Per questo - ci dice il loro leader - «gente come me e Celestine deve andare sempre più al largo con delle barchette e il rischio che comporta, come si è visto ».
Tutti nel villaggio di Muthakkara conoscono bene le ultime vicende: le dure prese di posizioni dell’Ue rivolte all’India, l’operazione al cuore di La Torre e l’autorizzazione dei giudici al rinvio del suo rientro per il processo, che non si è ancora celebrato né sembra destinato a iniziare presto. Ma per Dora è un capitolo chiuso. «Ho già detto di non serbare alcun rancore - ci spiega - e per me i due marò possono tornare per sempre dalle loro famiglie, perché so bene cosa significa l’assenza di chi è caro». Seduto col fratello e la madre sotto al ritratto del padre morto, il figlio maggiore Derrick ci tiene però a dire che - a parte aver ricevuto i soldi per gli studi di ingegneria - «nessuno ci ha mai chiesto scusa».

Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.

A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».

In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.

La rabbia delle comunità locali - come ci racconta un testimone di quei giorni a Kochi - montò a maggio quando ai due marò consegnati dal capitano alla polizia del Kerala fu concesso di stare in un albergo da 10mila rupie a notte, 180 dollari, con pasti di uno chef italiano, e ospitalità per 20.30 persone in occasione degli arrivi dei familiari. Al loro seguito c’erano sempre anche tre ufficiali di Marina, un colonnello dei carabinieri e una psicologa, con un cambio trimestrale del team, tanto che per tagliare le spese ormai stratosferiche si pensò di affittargli una casa.
La fine delle costose missioni è arrivata con la decisione di ospitare Girone e La Torre nell’ambasciata di Delhi. Da allora nessun rappresentante dell’Italia è tornato in Kerala, né ha mai pensato di mandare un segno a lungo atteso da Dora e dai suoi figli che non credono più alla giustizia degli uomini: «Almeno una corona di fiori o una preghiera» - dicono - in occasione delle tre messe celebrate ogni vigilia del 15 febbraio nella chiesetta del Bambin Gesù, dov’è sepolto un onesto pescatore scambiato per pirata.
«Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico».

Il manifesto, 14 febbraio 2015

Oggi, a Roma, scen­diamo in piazza per la vita, la dignità e la demo­cra­zia del popolo greco. È un ritorno - impor­tante da non sot­to­va­lu­tare - della buona, antica soli­da­rietà inter­na­zio­nale, dopo anni e anni di chiu­sura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Per­ché mani­fe­stando per «sal­vare la Gre­cia», noi mani­fe­stiamo anche e soprat­tutto per sal­vare noi stessi: per sal­vare l’Italia. Per sal­vare l’Europa.

Se l’azione di Tsi­pras e Varou­fa­kis riu­scirà ad aprire una brec­cia nel muro di Ber­lino dell’austerità, ci sarà una spe­ranza anche per noi, che anna­spiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spa­gnoli, i por­to­ghesi, gli irlan­desi, mas­sa­crati social­mente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimo­strare che la volontà popo­lare non può essere can­cel­lata con un tratto di penna dai ban­chieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bun­de­sbank o della Can­cel­le­ria della Bun­de­sre­pu­blik, sarà un passo impor­tante nel pas­sag­gio dall’Europa della moneta e una vera Europa poli­tica. La sola che può sopravvivere.

Lo sanno benis­simo a Bru­xel­les, a Fran­co­forte, a Ber­lino, che se i greci ce la fanno - se rie­scono a dimo­strare che «si può» - potrà inne­scarsi una rea­zione a catena, nel fronte medi­ter­ra­neo dell’Europa, ma non solo, in grado di scar­di­nare i dogmi mor­tali che ci stanno sof­fo­cando. Per que­sto resi­stono con­tro ogni buon senso, negando l’evidenza, trin­ce­ran­dosi die­tro il ritor­nello delle «regole che vanno rispet­tate» anche se quelle regole si sono rive­late con tutta evi­denza deva­stanti. E per que­sto, dalla nostra parte, ci si mobi­lita nelle prin­ci­pali piazze del con­ti­nente: per dimo­strare che quella rea­zione a catena è già ini­ziata. Che il cam­bia­mento è già in corso.

Sfi­le­remo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo ecci­dio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tra­ge­dia del mare» ma una «tra­ge­dia degli uomini». Una tra­ge­dia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove cen­ti­naia di morti testi­mo­niano dell’egoismo, cri­mi­nale, di un’Europa che chiude occhi orec­chie e brac­cia di fronte alla parte più sof­fe­rente dell’umanità. E lesina gli spic­cioli, con spi­rito da usu­raio, tagliando per­sino sui soc­corsi, per­ché que­sto è il senso del pas­sag­gio da Mare nostrum a Tri­ton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in que­sti anni di «com­mis­sa­ria­mento» la Gre­cia al coma sociale, e quello con cui le classi diri­genti euro­pee, impas­si­bili, hanno tra­sfor­mato il canale di Sici­lia in un cimi­tero liquido. La stessa logica, imper­so­nale, delle cifre e dei pro­to­colli «a distanza», con deci­sioni prese in luo­ghi aset­tici, dove non si sente la puzza della mise­ria e l’odore della morte per anne­ga­mento. Senza nep­pure guar­dare in fac­cia le pro­prie vit­time: la «bana­lità del male», appunto, come direbbe Han­nah Arendt.

Ora il nostro capo del governo, con cini­smo degno della sua bio­gra­fia, getta il pro­blema al di là del Medi­ter­ra­neo, dicendo che la que­stione sta in Libia, non qui o a Bru­xel­les. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo con­tri­buito a creare? – non noi il pro­blema, come se non aves­simo nes­suna respon­sa­bi­lità e nulla da modi­fi­care, rin­viando tutto a una crisi nord-africana con tutta evi­denza ingo­ver­na­bile. È lo stesso atteg­gia­mento tenuto nei con­fronti della Gre­cia, quando ebbe a defi­nire non solo «legit­tima» ma anche «oppor­tuna» la deci­sione della Bce di togliere ossi­geno alle ban­che gre­che, pro­prio quando la minac­cia mag­giore era la fuga dei capi­tali dei grandi miliar­dari ed eva­sori greci, appena due giorni dopo aver abbrac­ciato – gesto degno del dodi­ce­simo apo­stolo – Ale­xis Tsi­pras a Palazzo Chigi…

Anche per dimo­strare che quest’uomo non ci rap­pre­senta, scen­diamo oggi in piazza a Roma. Non è una mani­fe­sta­zione come tante altre. È il segno che una nuova poli­tica può nascere. In un nuovo «spa­zio della poli­tica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qual­che modo oltre i confini.

Non dimen­ti­cherò mai il 25 gen­naio, in piazza Omo­nia ad Atene, quando Tsi­pras finì il pro­prio discorso di chiu­sura della cam­pa­gna elet­to­rale e salì sul palco Pablo Igle­sias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluen­te­mente) infine in spa­gnolo per dire «Syriza, Pode­mos, ven­ce­re­mos», e la piazza, tutta, attaccò a can­tare Bella ciao. In ita­liano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chia­rezza, che era­vamo ormai in un «oltre».

In un altro spa­zio in cui le vec­chie sca­tole degli stati nazio­nali si rom­pe­vano – senza che i popoli per­des­sero le pro­prie carat­te­ri­sti­che, anzi! — per lasciar con­fluire le nuove sfide in un’altra dimen­sione, vor­rei dire in un altro «para­digma», della poli­tica, che si muove ormai in uno spa­zio com­piu­ta­mente con­ti­nen­tale. E che si apriva per noi una grande occa­sione. Unita a una grande respon­sa­bi­lità: di alli­neare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse medi­ter­ra­neo, con­tri­buendo anche nel nostro Paese alla costru­zione di una grande «casa comune» per que­sta nuova sog­get­ti­vità ribelle.

Roma, testi­mone il Colos­seo, è una prima occa­sione per mostrare che anche qui si apre un pro­cesso in cui «coa­li­zione sociale» e «coa­li­zione poli­tica» pos­sono - anzi devono - mar­ciare insieme, stret­ta­mente intrec­ciate, per­ché l’una è con­di­zione dell’altra.

E se sapranno farlo, pur nella con­sa­pe­vo­lezza delle grandi dif­fi­coltà - non tanto cul­tu­rali quanto «tec­ni­che», pra­ti­che, com­por­ta­men­tali e les­si­cali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abi­tante di quel nuovo «spa­zio», in grado di offrire rap­pre­sen­tanza all’oceano di spae­sati e di home­less della poli­tica in Ita­lia come in Europa.

Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spa­gna e come ripe­te­remo a Roma — è, dav­vero, ora!

Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’é configurato nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla produzioni di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegate al “tempo libero.

MicroMega, 11 febbraio 2014


Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro

Flexicurity

suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .

Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.

Flexicurity e tecno-nichilismo

Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.

Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.

Leggiamo un passo, splendido nella sua nettezza, di un grande giurista che così traduce il trionfo del tecno-nichilismo nello specifico campo del diritto:

«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.

Flessicurezza e “doppia alienazione”

Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.

Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.

La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.

Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.

Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”

Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:

a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);

b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;

c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».

Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.

Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.

I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.

Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione

Ma vi è di più.

Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).

I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.

Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.

Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.

Flessibilità senza sicurezza

Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?

Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.

Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.

Il paradosso dell’improduttività

Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.

Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.

Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.

Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.

Lavoro e attività lavorativa

Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.

Distinzione, questa, che pare riflettere l’emergente divisione tra economia sociale ed economia di mercato, e che si sostanzia nella scissione tra attività umane produttive di valore sociale ma non certificate come tali dal “mercato” (trattandosi della produzione di valori “immateriali”, difficilmente quantificabili in forma di prezzo, unità di misura tipica del mercato) e processi lavorativi tradizionali oggetto di un costante processo di svalutazione economica e funzionale. Da qui, nella letteratura lavoristica, il moltiplicarsi delle contrapposizioni tra work e labour, tra opus e labor, tra lavoro e attività.

Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.

E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.

Una via d’uscita: il reddito minimo universale

Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.

Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.

Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.

Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.

Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione

Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?

Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.

Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.

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Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.
A cura di Ateneo Veneto e Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea Susanne Böhme Kuby ha tenuto una conferenza dal titolo "Riflessioni sul ricordo pubblico dell’Holocaust in Germania". La conferenza ha illustrato in modo ampio e documentato le premesse storico-politiche del mainstream della percezione pubblica dell'Holocaust in Germania, dall’immediato dopoguerra fino ai più recenti problemi dei risarcimenti alle vittime che si sono riaffacciati dopo la riunificazione nazionale. La contraddittoria memoria del passato nazista - tra rimozione ed eterno ritorno - rivela che quel passato non è né morto, né "superato", ma proietta le sue ombre sull’attualità.Nonostante l'ampiezza del testo, di affascinante e scorrevole lettura, lo pubblichiamo integralmente (in chiaro). Per consentirne una più meditata lettura ne alleghiamo, con il consenso dell'autrice, anche il file in formato .pdf scaricabile da eddyburg

RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA

di Susanne Böhme Kuby

Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.

Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.

Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.

E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.

Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”

La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.

Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)

Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).

Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.

Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)

Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)

Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.

Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).

Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).

Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.

Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).

La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).

Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.

Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]

Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.

Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.

Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .

La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).

La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.

Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!

Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).

La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.

Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.

E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]

La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.

E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.

Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.

Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).

Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.

Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.

E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.

Susanna Böhme-Kuby, già docente di Letteratura Tedesca presso le Università di Udine e di Venezia,

si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:

Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).

«Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto».

La Repubblica, 8 febbraio 2014

Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?

Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.

Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.

Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».

Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.

«La democrazia è la lotta con cui i popoli costruiscono sistemi politici per impedire il consolidarsi di gruppi di potere. L’Ue si è sottratta a questa concezione. Abbiamo bisogno di rinegoziare i trattati europei, di eliminare misure inique come il fiscal compact e il Patto di stabilità, di tirare fuori l’Ue dalla spirale di guerre innescata dagli Usa».

Comune.info, 7 febbraio 2015

La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.

Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.

La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).

Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.

Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.

Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.

Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).

La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.

Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.

I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.

La reazione di Bruxelles, e delle “teste scambiate” della sinistra, non fa riferimento alla volontà popolare di critica della Troika e delle politiche di austerità, ma alla posizione che questi partiti occupano nella politica nazionale già prima delle elezioni. Sono le posizione espresse da alcuni di questi partiti nel contesto nazionale, di critica delle politiche sociali e d’immigrazione dei propri governi, che sono assunte a valutazione del loro orientamento. L’euroscetticismo cioè si trasforma secondo i soloni e portaborse della CE in xenofobia, nazionalismo, fascismo. Con l’eccezione, ovviamente, dei partiti di sinistra, conservatori e liberali, nonostante la loro responsabilità nel produrre le cause delle guerre e delle immigrazioni in Europa, e la gestione diretta di forme incivili di governo di questi “flussi”.

Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.

Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.

Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.

Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?

La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.

Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.

La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.

Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè e collaboratore di Comune-info, è stato uno degli allievi e collaboratori del noto economista Federico Caffè (nel libro «La stanza rossa», per Città aperta, traccia il significato dell’avventura intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’università di Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è tra i promotori dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi articoli e libri (tra cui «Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro» per Dedalo edizioni; l’ultima pubblicazione è «L’Europa oltre l’Euro», edita da Castelvecchi).

Riprendiamo da

Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri

«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.

Qual è il suo ritratto del premier?

«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».

Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.

«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».

La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?

«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».

Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».

«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».

Che cos’è oggi il diritto al dissenso?

«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».

Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?

«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».

In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?

«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».

La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?

«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».

Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.

«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».

Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?

«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».

La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?

«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».

In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.

«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».

Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?

«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».

Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.

«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».

Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?

«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».

Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.

«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».

Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?

«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».

Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.

«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».

L'errore di fondo dell'attuale pensiero dominante (e azione governativa) sulla scuola, alla luce di due giganti del pensiero rivoluzionario del XX secolo.

Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.

Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.

Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.

Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).

Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.

Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.

Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)

Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.

La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.

Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.

Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.

«Vorrei esprimere preoccupazione per lemisure antiterrorismo che Commissione e Consiglio stanno discutendo, e sui rischidi una legislazione emergenziale che - in nome dei valori - oppone Stato didiritto e sicurezza», ha detto Barbara Spinelli rivolgendosi alcommissario Dimitris Avramopolos durante la miniplenaria di Bruxelles. «Parlo di rischi, di misure giàannunciate da Stati membri: di monitoraggio e rimozione di siti internet, diimpedimenti alla libera circolazione nell'area Schengen, della raccoltasproporzionatamente lunga di dati dei passeggeri (PNR), che questo Parlamento ela Corte europea di giustizia hanno già respinto. Molte di queste misureesistevano prima dei terribili attentati in Francia: non li hanno impediti».

«Parlo del falso legame stabilito, intante scuole e tanti luoghi pubblici, fra terroristi e comunità musulmane», ha continuatol’eurodeputata, alludendo in particolare alla circolare recentemente emessadall’assessore alle Politiche dell’istruzione della Regione Veneto, in cui igenitori degli alunni musulmani vengono invitati a “prendere distanza” dagliattentati di Parigi. «Parlo della grave tendenza generale - s'è vista giàdopo l'attentato alle Torri gemelle - a parlare di guerra contro il terrorismo.Questa non è una guerra».
Nello stesso giorno,Barbara Spinelli ha avviato i procedimenti per depositare un’interrogazione sullacircolare veneta che chiede ai presidi di attivarsi perché «allaluce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e deiloro genitori nelle nostre comunità» è necessaria una condanna del «fatto terroristico di matriceislamica» euna presa di distanza da «una cultura che predica l’odio verso la nostracultura, la nostra mentalità, il nostro stile di vita, fino ad arrivareall’estremo gesto terroristico».
La domanda rivolta alla Commissione è chiara: «Visto il sollevarsi di politicheislamofobiche adottate a livello nazionale e locale da Stati membri, laCommissione ritiene di sviluppare una strategia di integrazione nazionaleeuropea al fine di promuovere un dibattito inclusivo sulle rispettive qualità eprincipi guida, secondo il motto dell’Unione: “unità nella diversità?”»

«La vit­to­ria di Tsi­pras gene­ra entusiasmo. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

Ad unirla, per il momento, è il suc­cesso poli­tico di Ale­xis Tsi­pras e di Syriza in Gre­cia. Riu­nita ieri al tem­pio di Adriano a Roma, la sini­stra ita­liana isti­tu­zio­nale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune com­po­nenti della «sini­stra Pd», si è espressa con le maiu­scole com­men­tando l’intervista che il primo mini­stro greco ha rila­sciato in un libro di Teo­doro Andrea­dis (Bor­deaux edizioni).

Per Ven­dola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo pro­cesso poli­tico con­ti­nen­tale che può sal­vare la civiltà euro­pea dai disa­stri eco­no­mici e sociali pro­dotti dalle poli­ti­che di auste­rity». Per Sme­ri­glio (Sel) «Tsi­pras dimo­stra che si può vin­cere fuori dalle com­pa­ti­bi­lità poli­ti­che». Sme­ri­glio ha anche riven­di­cato la scelta di avere schie­rato il con­gresso di Sel dalla parte di Tsi­pras, e non dei socia­li­sti for­mato «lar­ghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsi­pras alle Euro­pee».

Nes­sun rife­ri­mento al caso «Spinelli-Furfaro» che ha oppo­sto i quar­tier gene­rali dell’Altra Europa e Sel che, dopo vari scos­soni, con­ti­nuano un per­corso che ricorda l’antico motto delle «con­ver­genze paral­lele». Di Tsi­pras si apprezza il «prag­ma­ti­smo» e il «rea­li­smo». E poi «una radi­ca­lità che non si con­fonde con il mas­si­ma­li­smo». L’entusiasmo gene­rato della sua vit­to­ria può por­tare ad un «pro­cesso nuovo». Per que­sto «non pos­siamo stare sull’uscio del Pd per vedere se escono Civati o Fas­sina– ha detto Ven­dola –La novità è la ripresa del con­flitto sociale archi­viato da tempo in Ita­lia».
Un con­flitto iden­ti­fi­cato con la Cgil che si è oppo­sta al Jobs Act. Per Ven­dola biso­gna rac­cor­dare il «sociale» e il «poli­tico» in vista di una o più «coa­li­zioni». Di «uscire dal Pd» Civati e Fas­sina (Pd) in effetti non ci pen­sano pro­prio. Al netto di bat­tute di buon gusto che hanno fatto sor­ri­dere una pla­tea di almeno 500 per­sone, il primo ha riba­dito le sue cri­ti­che a Renzi («Per lui non ci sono alter­na­tive al pen­siero unico, ma qui non c’è nes­sun pen­siero, è rima­sto solo l’unico») e al «tratto equi­voco» del rap­porto tra il Pd e i socia­li­sti euro­pei. Civati ha alluso al ful­mi­nante giu­di­zio di Tsi­pras sul Pd «libe­ri­sta in Ita­lia e social­de­mo­cra­tico in Europa, a dimo­stra­zione di una per­so­na­lità scissa». Una defi­ni­zione che descrive chi si col­loca a sini­stra di que­sto par­tito e vota la riforma del lavoro del «Jobs Act».

In que­sto con­te­sto malin­co­nico e autoi­ro­nico in cui è dif­fi­cile riu­nire per­so­na­lità scisse, Fas­sina si è impe­gnato a ren­dere «il governo ita­liano proat­tivo rispetto alla piat­ta­forma di Syriza. Le sue pro­po­ste non sono utili solo alla Gre­cia. Il pro­blema del debito non riguarda solo la Gre­cia». E ha pro­po­sto una «piat­ta­forma di con­sul­ta­zione siste­ma­tica». Pro­po­ste in cui non sono mai stati citati i movi­menti (Ita­lia sulla casa, con­tro lo Sblocca Ita­lia o dello scio­pero sociale). Gli stessi (o ana­lo­ghi) che rap­pre­sen­tano invece la base di Syriza in Gre­cia. La pro­spet­tiva sem­bra essere un’altra. L’ex vice­mi­ni­stro dell’Economia del governo Letta ha sug­ge­rito di con­si­de­rare la «cri­tica radi­cale ma non estrema al capi­ta­li­smo» di Papa Francesco.

Ad aprire, e chiu­dere, l’incontro mode­rato dalla gior­na­li­sta Lucia Goracci è stata Luciana Castel­lina che ha messo da parte le media­zioni pun­tando dritto all’entusiasmo «che la vit­to­ria di Tsi­pras ha gene­rato. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza demo­cra­tica dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

«Riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza».

Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014

La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.

Perché lei non sarà lo Tsipras italiano?
«Perché mi chiamo Maurizio Landini e faccio il segretario della Fiom e un’esperienza come quella greca non è riproducibile in Italia. Semmai il modello più interessante per la nostra situazione è quello spagnolo di Podemos». Landini ci riceve nel suo studio e fa bella mostra dell’ultimo libro di Papa Bergoglio: «È quello che oggi in Italia fa il discorso più di sinistra. Il problema oggi è proprio quello della scomparsa della sinistra».
Un giudizio drastico.
«Un giudizio vero. La politica si è trasformata in logica di potere e non in strumento di partecipazione. La crisi colpisce tutti, anche i partiti della sinistra se è vero che il 60% non va a votare».

Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».

Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».

È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.

Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.

Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti ‍con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca ‍per vincere.

Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.

Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.

Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.

Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.

E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.

Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.

Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.

Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.

«Non c’è stata nessuna istigazione. De Luca ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente».

Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 (m.p.r.)


Marco Revelli, piemontese, torinese, anti Tav, è storico, sociologo, autore di centinaia di pubblicazioni. Docente universitario. Un intellettuale, insomma. Contrario al Tav, anche lui. «Sì», dice al Fatto, «anche io oggi mi sento sotto processo, proprio come Erri. Credo che quella contro di lui sia una follia giudiziaria, un fatto di costume, se vogliamo. È una brutta pagina, quella che si apre. E indica il decadimento di una città, Torino, di una regione, il Piemonte, e di un’intera popolazione, quella della Val di Susa, che è obbligata a disobbedire. Non ha scelta, deve difendersi».

Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.

Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.

È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.

Lei le ripete quelle parole?
Certo che sì, sono anche mie. Ma le ho ripetute più volte, in altre sedi, forse in altri termini, ma con lo stesso fine di Erri.

Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.

Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.

Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.

Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.

Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.

De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto «non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota». Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.

«Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società» .intervista a Stefano Rodotà di Giacomo Russo Spena, Micromeg onlinea, 22 gennaio 2015

Solidarietà è il titolo del suo ultimo libro. Qual è, professor Rodotà, l’importanza di riaffermare tale concetto nel 2015?

«E’ un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà. Una parola tutt’altro che logorata e storicamente legata al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei “30 anni gloriosi” e del Welfare State. Poi il termine è stato accantonato e abbandonato. La solidarietà serve a individuare i fondamenti di un ordine giuridico: incarna, insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito”, un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili. La crisi del Welfare non può sancire la fine del bisogno di diritti sociali. Sono legato anche al sottotitolo del libro, “un’utopia necessaria”, la solidarietà va proiettata nel presente ed utilizzata come strumento di lavoro per il futuro: l’utopia necessaria è la visione».

Lei ha parlato di “costituzionalismo arricchito”. Quali sono le pratiche da cui ripartire per riaffermare i diritti sociali in tempo di crisi economica, privatizzazioni e smantellamento dello Stato Sociale?

«Mutualismo, beni comuni, reddito di cittadinanza sono gli elementi innovativi e costitutivi di un nuovo Stato Sociale, almeno rispetto a quello che abbiamo conosciuto e costruito nel Novecento. Durante la Guerra Fredda, i sistemi di Welfare sono stati una vetrina dell’Occidente di fronte al mondo comunista, una funzione benefica volta ad umanizzare il capitalismo in risposta al blocco sovietico. Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità ed oggi è necessario arricchire le prospettive del Welfare. Ad esempio il reddito, inteso in tutte le sue fasi legate alle condizioni materiali, significa investimenti ed è possibile solo grazie ad un patto generazionale e ad una logica solidaristica dell’impiego delle risorse».

Nel libro cita gli studi della sociologa Chiara Saraceno la quale si interroga sull’idea di Stato Sociale come bene comune. Qual è il suo giudizio?

«Il discorso esamina la capacità ricostruttiva della solidarietà che è frutto di una logica di de-mercificazione di ciò che conduce al di là della natura di mercato: ristabilire la supremazia della politica sull’economia. Qual è stata la logica in questi anni? Avendo un tesoretto ridotto, sacrifichiamo i diritti sociali. Tale ragionamento va respinto al mittente. Quali sono i criteri per allocare tali fondi? Come li distribuiamo? Finanziamo la guerra e gli F35 o utilizziamo quei soldi contro lo smantellamento dello Stato Sociale? La scuola pubblica, come dice la nostra Carta, non va resa funzionale al diritto costituzionale all’istruzione? Invece si finanziano le scuole private…»

E i famosi 80 euro del governo Renzi possono essere considerati come forma solidaristica e di Welfare?

«No, manca l’intervento strutturale. La Cgil ha reso pubblici alcuni dati: con quei soldi si sarebbero potuti creare 400mila posti di lavoro. Appena si è parlato del bonus per le neomamme, ho pensato fosse più utile stanziare quelle risorse per la costruzione degli asili nido. Solo un vero discorso sulla solidarietà ci consente di stilare una gerarchia che pone al primo posto i diritti fondamentali. E per questo la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il pareggio di bilancio, è un duro colpo per la democrazia. Abbiamo posto fuori legge Keynes».

Altro punto dirimente: la prospettiva europeista. Sappiamo bene quanto le politiche di austerity siano dettate dalla Troika e le nostre democrazie siano ostaggio della finanza; come pensare la solidarietà fuori dai confini nazionali?

«Dobbiamo guardare all’Europa, il discorso sulla solidarietà ha un senso esclusivamente se usciamo dalla logica nazionalista, altrimenti si impiglia. Solidarietà implica un’Europa solidale tra Stati con una politica comune e coi diritti sociali come fari. Con Jürgen Habermas dico che è un principio che può attenuare l’odio tra i Paesi debitori e quelli creditori. Persino Lucrezia Reichlin ha parlato di Syriza con benevolenza perché sta avendo il merito di riaprire una riflessione in Europa su alcuni temi non più rimandabili. L’austerity ha fallito ed aumentato le diseguaglianze. Fino a qualche mese fa, i difensori del rigore giustificavano l’enorme forbice tra redditi alti e minimi affermando di aver tolto migliaia di persone dalla soglia di povertà. La diseguaglianza come conseguenza del contrasto allo sfruttamento. Una tesi smentita dagli stessi eventi».

Spesso le viene rivolta la critica di pensare esclusivamente ai diritti dei cittadini ma mai ai doveri. Come replica all’accusa?

«E’ una vecchissima discussione che si svolse già a Parigi nel 1789. E la Costituzione italiana ha legato diritti e doveri: l’art. 2 si apre col riconoscimento dei diritti delle persone ma poi afferma che tutti devono adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema dei doveri viene sbandierato per chiedere sacrifici alle fasce più deboli mentre rimangono al riparo i soggetti privati forti e le istituzioni pubbliche. Vogliamo discutere dei doveri? Facciamolo senza ipocrisie. Ad esempio, si dovrebbe riaffermare l’obbligo di non esercitare l’iniziativa economica e la libera impresa in contrasto con sicurezza e dignità dei lavoratori. Tale strategia ha fallito e politicamente ha generato un’enorme crisi della rappresentanza: il rifiuto della Casta non sarebbe così forte se non ci fosse stato un ceto politico dipendente dal denaro pubblico».

Le elezioni in Grecia hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti. Siamo davvero davanti ad un passaggio storico per invertire la rotta in Europa?

«Il voto di domenica ha un’importanza enorme soprattutto dopo il deludente semestre italiano a guida Matteo Renzi. Il suo arrivo a Bruxelles aveva generato aspettative per le sue promesse di mettere in discussione gli assetti costituzionali europei. Nulla di tutto ciò, nessun negoziato, eppure non era così costoso intraprendere il discorso dell’“utopia necessaria” della riforma dei trattati. Tsipras può rappresentare la riapertura della fase costituente europea. È la mia speranza. Riapertura perché nel 1999 il Consiglio europeo di Colonia stabilisce la centralità della Carta dei diritti ma poi il processo si è chiuso nel ciclo dell’economia. Una vera e propria controriforma costituzionale. L’Unione europea oltre ad avere un deficit di democrazia ha un deficit di legittimità. Il deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Altrimenti i rischi sono gravi, e non si parla di uscita dall’euro ma di deflagrazione dell’eurozona e di sviluppo di movimenti xenofobi ed antieuropei come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvin»i.

Se il semestre italiano non ha dato nessun segnale di discontinuità in Europa, quel che resta della sinistra nostrana guarda con ammirazione e speranza alla Grecia di Tsipras. È mai possibile la nascita di una “Syriza italiana” che unisca tutte le forze a sinistra del Pd?

«In Italia siamo indietro e rischiamo di rifare alcuni errori. Mentre capisco la scelta del “papa straniero” Tsipras, non condivido l’idea di una “Syriza italiana”. È una forzatura. In Grecia Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati. In Italia la situazione è differente».

Oltre a Syriza, la Troika guarda con preoccupazione al repentino sviluppo di Podemos, il partito spagnolo che sta scuotendo la Spagna. Syriza e Podemos, seppur differenti sotto alcuni aspetti, sembrano le due forze capaci di trasformare gli assetti in Europa. Podemos rompe con tutti gli schemi classici della sinistra novecentesca e fa della Casta e dei banchieri un bersaglio politico. La sinistra italiana, per rinascere, non dovrebbe affrontare anche il tema della crisi della rappresentanza?

«In questi anni c’è stata una drammatica deriva oligarchica e proprietaria dei partiti e la capacità rappresentativa è venuta meno anche per la consapevolezza che il potere decisionale fosse esterno alle sedi legittime e in mano a poche persone. La Corte Costituzionale ha emesso due importanti sentenze: una contro il Porcellum, decretando illegittima la legge elettorale in vigore, l’altra contro i soprusi del marchionnismo, stabilendo che non potesse essere esclusa la Fiom dagli stabilimenti. Lego queste due fondamentali sentenze perché entrambe pongono il problema della rappresentanza. E lo pongono nell’impresa e nella società cioè nel lavoro e nella politica, nei diritti sociali e in quelli civili. E’ un punto importante sul quale non abbiamo riflettuto abbastanza ed è la via per far recuperare legittimità alle istituzioni e alla politica».

Per sopperire alla crisi economica e politica nel Paese, il direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais ha più volte insistito sulla necessità di dar vita a una forza “Giustizia e libertà”, un soggetto della società civile. Che ne pensa?

«La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra. Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. Rifondazione è un residuo di una storia, Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».

Il suo giudizio sui partiti esistenti è molto duro. Ma per una coalizione sociale non ci vuole tempo, addirittura anni?

«Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni '60-'70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone».

In tutto questo, qual è il suo giudizio sul M5S? Il grillismo è in una crisi irreversibile?

«Non so se i 5 stelle siano definitivamente perduti, di certo stanno perdendo molteplici chance. Il movimento ha deluso le aspettative: non ha ampliato spazi di democrazia, non ha inciso in Parlamento e in qualche modo ha accettato le logiche interne. Serpeggia una profonda delusione tra gli stessi elettori grillini. Mentre la vera novità è lo sviluppo di un'opposizione sociale al renzismo, l’embrione della coalizione sociale di cui parlavo prima».

Si riferisce alla mobilitazione autunnale contro il Jobs Act?

»Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada. Nessuno in grado di contrastarlo, nemmeno Giorgio Napolitano che secondo le mie valutazioni politiche aveva investito sul governo Letta. Ora si sta muovendo qualcosa: Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario. Persino la Uil è stata costretta a schierarsi. Si è rivitalizzato il sindacato. Il governo Renzi ha cancellato tutti i corpi intermedi e la Camusso, rendendosi conto dell’attacco subito, deve riconquistare il suo ruolo. Individuare soggetti sia rappresentativi che di opposizione sociale è un dato istituzionalmente interessante. Oltre ad essere un dato politico rilevante. Si è manifestata un’opposizione sociale».

Però siamo ben distanti dai 3 milioni portati in piazza da Sergio Cofferati in difesa dell’articolo 18, e la Cgil viene comunque da anni di politiche concertative…

«Sono confronti impensabili, il tessuto del nostro Paese è stato logorato da mille fattori nell’ultimo decennio. Anche dalla crisi economica. Con l’impoverimento drammatico le frizioni e le condizioni di convivenza obbligata diventato più difficili. Una situazione conflittuale che va oltre alla “guerra tra poveri”. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte».


Coalizione sociale, primato della solidarietà e nuovo rapporto tra cultura e politica. Sono questi gli ingredienti necessari per ripartire?

«Prima mettiamo in relazione i soggetti sociali, in primis il sindacato, con le reti civiche e strutturiamo un minimo di organizzazione, rilanciando l’attivismo dei cittadini. Da tempo propongo alcune riforme e modifiche dei regolamenti parlamentari per dare maggiore potere alle leggi di iniziativa popolare. Ad inizio legislatura, in concerto con il gruppo del Teatro Valle, abbiamo inviato ai parlamentari una serie di proposte su fine vita e reddito minimo garantito… non sono nemmeno arrivate in Aula. In questo momento nella democrazia di prossimità, quella dei Comuni, si diffondono pratiche virtuose, penso ai registri per le coppie di fatto, per il testamento biologico, ai riconoscimenti nei limiti possibili di diritti fondamentali delle persone. A Bologna si è proposto di cogestire alcuni beni e il nuovo statuto di Parma è pieno di esperienze simili. C’è una democrazia di prossimità che va presa in considerazione. Così come il ruolo della magistratura».

Come collegare la figura dei magistrati alle questioni sociali?

«I partiti di massa erano i referenti delle domande sociali, le selezionavano e le portavano in Parlamento. Io c’ero, me lo ricordo. Questo non esiste più. Regna un modo autoritario di individuare le domande sociali e il vuoto politico è stato colmato dalla magistratura. La Consulta è intervenuta in questi anni su diritti civili, dal caso Englaro alla Fini Giovanardi sulle droghe o alla legge più ideologica, quella sulla fecondazione assistita. Poi le già citate sentenze su legge elettorale e conflitto Fiom-Fiat. Qui non c’è giustizialismo, ma il ruolo di una magistratura – attaccata e in trincea per difendersi dagli attacchi di Berlusconi e salvaguardare autonomia e indipendenza – che ha maturato una propria elaborazione culturale per fronteggiare emergenza politica e garantire la legalità costituzionale. L’aver individuato nella figura di Raffaele Cantone un soggetto politico ha un’importanza storica visto che in Italia la corruzione è ormai strutturale».

Lo dimostrano gli ultimi casi di cronaca, la criminalità organizzata si è fatta istituzione come abbiamo visto con lo scandalo di Mafia Capitale…
«Prima si parlava solo di tre regioni in mano ai poteri criminali: Calabria, Sicilia, Campania. Quando qualcuno osò parlare, giustamente, di infiltrazioni mafiose al Nord, l’ex ministro Roberto Maroni pretese le scuse. Ora invece grazie ad una serie di inchieste (Ilda Boccassini, Giuseppe Pignatone) sappiamo che questo è un dato strutturale: i poteri criminali occupano il territorio non solo fisico ma ormai anche istituzionale. E la corruzione non passa solo per il denaro pubblico rubato ma come un meccanismo endemico dello Stato. Il giustizialismo assume un fattore centrale e qualsiasi tentativo di silenziare i magistrati va contrastato».
Un’ultima domanda, la questione della leadership. Chi vede a capo della coalizione sociale?

«Bah, spesso si cita il nome di Landini ma mi astengo dal rispondere. Non è prioritaria la questione. È palese che oggi la coalizione sociale ha una sua maggiore evidenza perché la presenza del sindacato è il dato nuovo e accresce le responsabilità di Landini e della Fiom. L’importante è uscire dagli schemi classici e visti finora: non dobbiamo pensare al recupero dei perdenti dell’ultima fase o ai pezzetti ancora incerti (minoranza del Pd). Così non possiamo basare l’iniziativa sul M5S. Sarebbe un errore. I 5 stelle hanno una loro storia, vediamo che faranno in futuro e semmai una coalizione sociale riuscisse a rafforzarsi, capire come reagiranno. Questo è il punto».

«Il ten­ta­tivo di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e i bro­gli elet­to­rali nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria sono due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica». Il manifesto, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)

Più la spin­gono sotto il tap­peto, più la que­stione immo­rale si mostra nella sua scon­ve­niente veste di pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica. Pro­prio ieri, di fronte a un’aula par­la­men­tare pate­ti­ca­mente vuota, il mini­stro della giu­sti­zia, denun­ciava «la dimen­sione intol­le­ra­bile della cor­ru­zione in Ita­lia». Intol­le­ra­bile spe­cial­mente quando mette radici nel par­tito di cui il mini­stro fa parte, ma così pur­troppo non è. Lo dimo­strano alcune recenti vicende, due su tutte: il ten­ta­tivo, solo rin­viato, di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e, di que­ste ore, i bro­gli elet­to­rali (con il sospetto di una compra-vendita di voti) nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria.

Due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica. In piena coe­renza con quel con­flitto di inte­ressi che il Pd non ha mai risolto nel corso degli ultimi vent’anni. Per que­sto le dimis­sioni di Ser­gio Cof­fe­rati sono un fatto poli­tico di prima gran­dezza, rile­vante e rive­la­tore nello stesso tempo. Per­ché rile­vante è evi­dente: l’ex segre­ta­rio della Cgil è stato il sim­bolo dell’antiberlusconismo di sini­stra, capace di orga­niz­zare la più grande mani­fe­sta­zione del dopo­guerra in difesa dell’articolo 18, a fianco del mondo del lavoro e in rap­pre­sen­tanza di quelle radici che oggi la lea­der­ship del Pd ha deciso di reci­dere, net­ta­mente e orgo­glio­sa­mente, in pro­fonda sin­to­nia con l’ideologia anti­sin­da­cale del centrodestra.

Insieme a Camusso e Lan­dini, Cof­fe­rati è una ban­diera con­tro il jobs act e la defi­ni­tiva meta­mor­fosi neo­li­be­ri­sta del par­tito ren­ziano (non “di Renzi”, per­ché non gli appartiene). Ma il “caso Cof­fe­rati” è forse ancor di più rive­la­tore, cioè spec­chio lim­pido, della fisio­no­mia etica del nuovo gruppo diri­gente del Naza­reno. Lui è il primo poli­tico che in modo cla­mo­roso e dram­ma­tico se ne va dal par­tito — del quale è stato uno dei 45 fon­da­tori — denun­ciando la pre­senza di una que­stione morale: «Me ne vado per­ché sono stati can­cel­lati i valori stessi su cui è nato il Pd».

Altro che delu­sione per la scon­fitta subita alle pri­ma­rie (peral­tro da dimo­strare): è un duris­simo attacco al voto di scam­bio («com­prano il voto»), è un j’accuse per la palese offerta e l’altrettanto dichia­rata accet­ta­zione dei voti por­tati alla can­di­data vin­cente, la ren­ziana Raf­faella Paita, da parte dei capi­cor­rente del cen­tro­de­stra ligure e di per­so­naggi fasci­stoidi, è la penosa presa d’atto dell’acquisto dei voti dei poveri immigrati.

Così si svende una sto­ria, si svende un partito.

Eppure è ancor più penosa la rea­zione dei ver­tici ren­ziani del Pd, a comin­ciare dai due vice­se­gre­tari del par­tito. Invano Cof­fe­rati li aveva, già da alcune set­ti­mane, avver­titi di quanto stava acca­dendo senza rice­vere nep­pure lo strac­cio di una risposta. Ora, dopo le dimis­sioni, i due colon­nelli, Ser­rac­chiani e Gue­rini, sono diven­tati par­ti­co­lar­mente pro­di­ghi di dichia­ra­zioni con­tro l’ingrato Cof­fe­rati, accu­sato di «inspie­ga­bili» e «ingiu­sti­fi­cate» dimissioni. Nem­meno un piz­zico di senso del pudore. Avan­zano cam­mi­nando sulle mace­rie del par­tito - forse per­ché con­vinti delle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti elet­to­rali in caso di voto anticipato.

E Renzi?

L’immagine più nitida dello spec­chio che l’addio del diri­gente poli­tico riflette è quella del segre­ta­rio. All’ultima dire­zione del par­tito Renzi ha chiuso il “caso” in modo bru­tal­mente pro­vo­ca­to­rio, facendo i com­pli­menti alla vin­ci­trice per la vit­to­ria e rove­sciando sul per­dente la defi­ni­tiva sen­tenza: «Basta, vogliamo vin­cere, la discus­sione è chiusa». Una dimo­stra­zione di arro­ganza, come è ormai con­sue­tu­dine di que­sta nuova lea­der­ship, ma par­ti­co­lar­mente sot­to­li­neata e insi­stita, per­ché sia d’esempio a chi in futuro volesse por­tare all’attenzione del par­tito fasti­diosi pro­blemi etici.

Discu­tere su come si rac­col­gono i con­sensi, su come si finan­zia un par­tito, su quale blocco sociale di rife­ri­mento si sce­glie sono que­stioni poli­ti­che fon­da­men­tali, anche se il per­so­na­li­smo, il lea­de­ri­smo hanno inqui­nato il comune sen­tire della gente di sinistra. Tut­ta­via è impor­tante discu­terne oggi come è stato cru­ciale per l’allora Pci quando a porre la que­stione nei ter­mini gene­rali che cono­sciamo fu Enrico Ber­lin­guer. E vale qui la pena solo accen­nare alla fred­dezza, e per­sino alla deri­sione, con cui la cor­rente miglio­ri­sta di allora, gui­data dall’ex capo dello stato, Gior­gio Napo­li­tano, accolse la duris­sima cri­tica ber­lin­gue­riana alla dege­ne­ra­zione del sistema dei par­titi, Pci incluso.

Era­vamo negli anni’80 e non a caso la vicenda ope­raia della Fiat, la bat­ta­glia sulla scala mobile e l’esplodere della que­stione morale tene­vano insieme i ragio­na­menti di Ber­lin­guer verso quell’alternativa di sini­stra che, nel momento del cra­xi­smo trion­fante, la pre­ma­tura fine non gli con­sentì di met­tere in atto. La que­stione immo­rale come “que­stione demo­cra­tica” torna, nel Pd di Renzi, a essere deru­bri­cata come l’espressione del “tafaz­zi­smo” delle mino­ranze che non si ras­se­gnano a spin­gere il carro del vin­ci­tore. Che, tut­ta­via, non sem­bra più tanto trion­fante se si dà retta ai son­daggi che, set­ti­mana dopo set­ti­mana, sgon­fiano la bolla elet­to­rale delle ultime ele­zioni euro­pee di maggio.

In ogni caso se le dimis­sioni di Cof­fe­rati sono rile­vanti e rive­la­trici del muta­mento pro­fondo e irre­ver­si­bile della natura sociale del Pd, la domanda è: fino a quando le oppo­si­zioni interne si accon­ce­ranno al ruolo di inno­cue cas­san­dre, di fiore all’occhiello del segretario?

E, a seguire, adesso può nascere in Ita­lia una forza poli­tica a sini­stra che rac­colga un con­senso signi­fi­ca­tivo, come quello di Syriza?

«Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale, un po’ bizan­tina, senza un

lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo». Il manifesto, 18 gennaio 2015

Negli ampi spazi del Nuovo cinema Nosa­della, esau­rito in ogni ordine di posti per l’assemblea dell’Altra Europa con Tsi­pras, può suc­ce­dere anche di tro­vare nel retro­bot­tega il poster di un film uscito la scorsa estate. Dimen­ti­ca­bile (a par­tire dalla cop­pia di pro­ta­go­ni­sti Barrymore/Sandler) ma con un titolo piut­to­sto ade­rente agli svi­luppi della gior­nata: «Insieme per forza». Anche per amore. «Per tutti noi - ricorda fra gli applausi Panos Lam­prou di Syriza - il movi­mento con­tro la glo­ba­liz­za­zione è stato un inse­gna­mento. E siamo con­vinti che la sini­stra ita­liana possa sor­pren­dere ancora il mondo».

Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, fis­sato nell’imminenza delle ele­zioni gre­che spe­cial­mente per rin­sal­dare il legame con il nuovo pos­si­bile primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale (soprat­tutto al suo interno), un po’ bizan­tina, senza un lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo. Sin­goli o col­let­tivi. Al tempo stesso, nelle pie­ghe di una discus­sione molto intensa, e nella diver­sità di posi­zioni rap­pre­sen­tata ad esem­pio dall’intervento «basi­sta» di Bar­bara Spi­nelli («non c’è più tempo da per­dere, dob­biamo par­tire subito»), e dalla rea­li­stica rispo­sta di Luciana Castel­lina («non rico­strui­remo la sini­stra se non rico­struiamo un ter­reno comune della sini­stra»), è pos­si­bile capire quali poten­zia­lità avrebbe una forza uni­ta­ria. Poi, per i tanti appas­sio­nati di modelli orga­niz­za­tivi - meglio Syriza o Pode­mos? - vale la rispo­sta di Paolo Fer­rero: «Io penso che l’Altra Europa sia la cosa migliore fatta negli ultimi dieci anni. Ma una sog­get­ti­vità poli­tica non si costrui­sce in ter­mini buro­cra­tici. Né può essere il frutto di una dina­mica ’pat­ti­zia’ fra i ver­tici. Va costruita nel paese».

Sarà un’impresa, nell’Italia del patto del Naza­reno. Però ci sono fatti grandi e pic­coli che con­tri­bui­scono a tenere accesa la fiamma della spe­ranza. Non solo le ele­zioni gre­che e i son­daggi spa­gnoli. C’è ad esem­pio la pre­senza qui a Bolo­gna del sena­tore ex pen­ta­stel­lato Fran­ce­sco Cam­pa­nella. E c’è l’addio di Ser­gio Cof­fe­rati al Pd. Il segre­ta­rio con­fe­de­rale del Circo Mas­simo, dei tre milioni in piazza con le ban­diere della Cgil per difen­dere l’articolo 18, agli occhi dell’assemblea cer­ti­fica con la sua deci­sione la rot­tura finale fra il mondo del lavoro e il suo par­tito di rife­ri­mento. «C’è grande emo­zione in sala - sin­te­tizza il bolo­gnese Ser­gio Caserta - certo l’avesse fatto dieci anni fa…». E Nanni Alleva, neo con­si­gliere regio­nale dell’Altra Emi­lia Roma­gna, ampli­fica il con­cetto: «E’ l’ultima dimo­stra­zione del fatto che il Pd è un posto infre­quen­ta­bile. Anche un poli­tico navi­gato come Cof­fe­rati alla fine si è tro­vato di fronte a una situa­zione impos­si­bile. Ora l’importante è che molti ita­liani che si sono ’messi in scio­pero’, non votando, capi­scano che c’è un’alternativa: la sini­stra. Unita».

«Cof­fe­rati – osserva sul punto Cur­zio Mal­tese – è l’unico che ha tratto le con­se­guenze del fatto che nel Pd esi­ste una que­stione morale e, subito dopo, una que­stione poli­tica. Ber­lin­guer avrebbe detto che ’esi­ste una que­stione morale nel par­tito demo­cra­tico’: basti pen­sare alla Ligu­ria, all’Expò, alla Tav, allo scan­dalo del 3%». Quanto alla que­stione poli­tica, è l’intervento intro­dut­tivo della gior­nata di Marco Revelli a segna­larla pun­tual­mente: «In Ita­lia si è ria­perto il con­flitto sociale: nel milione di piazza San Gio­vanni, nello scio­pero gene­rale, nello scio­pero sociale. E in que­sti mesi si è anche con­su­mata una frat­tura sto­rica, fra il mondo del lavoro e il par­tito che sto­ri­ca­mente ne rac­co­glieva le istanze. Un par­tito che oggi invece par­te­cipa alla mano­mis­sione della Costi­tu­zione demo­cra­tica, e all’attacco al lavoro».

Revelli rias­sume anche il com­pito dell’Altra Europa: «Costruire una casa comune, acco­gliente, della sini­stra. E un nuovo lin­guag­gio. Per­ché da decenni la sini­stra ha smar­rito il suo, anzi ha assunto quello del neo­li­be­ri­smo». Il socio­logo tori­nese è fra i primi fir­ma­tari del mani­fe­sto «Siamo a un bivio» pre­sen­tato ai 700 par­te­ci­panti all’assemblea, fra i quali si notano Franco Turi­gliatto e Anto­nio Ingroia. A fir­mare anche Paolo Cento: «L’abbiamo sot­to­scritto dopo una discus­sione nel par­tito — spiega il pre­si­dente dell’assemblea di Sel - per­ché vanno valo­riz­zati gli sforzi di lavo­rare in un pro­cesso poli­tico, aperto e inno­va­tivo, ’della sini­stra e dei demo­cra­tici ita­liani’. Tanti che sono qui oggi saranno anche a Human Fac­tor. E noi pen­siamo di poter dare il nostro con­tri­buto, rite­nen­doci impor­tanti ma non certo esclu­sivi, per allar­gare lo sguardo e gli spazi a sini­stra».

Molti ma non tutti fir­mano il «mani­fe­sto Revelli», che pone la sca­denza di una nuova assem­blea a marzo per avviare il futuro per­corso della forza poli­tica, con chi ade­rirà, sul duplice bina­rio locale e nazio­nale. Non firma Bar­bara Spi­nelli che dà voce a un gruppo di comi­tati locali, cri­tici verso quelle che giu­di­cano len­tezze ecces­sive nel pro­cesso costi­tuente di un nuovo par­tito. I gio­vani under 35 di Act bat­tono invece il tasto del com­pleto rin­no­va­mento del comi­tato ope­ra­tivo dell’Altra Europa. Sul punto la discus­sione va avanti per l’intera gior­nata, e pro­se­guirà anche oggi.

«L'anticipazione. "Governare non significa avere il potere. Siamo all’inizio di un processo di lotta. Come in Brasile col Pt, dobbiamo cercare di mantenere la coesione sociale". Tsipras tratteggia le caratteristiche di un potenziale governo di sinistra: "Ci saranno grandi trasformazioni e la priorità, in questo momento, è la fine dell’austerità».

Il manifesto, 14 gennaio 2015

Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, greco ma quasi dalla nascita resi­dente in Ita­lia dove i suoi geni­tori si erano rifu­giati durante la dit­ta­tura, ha scritto un libro – Ale­xis Tsi­pras. La mia sini­stra – che con­tiene una assai inte­res­sante inter­vi­sta con il lea­der di Siryza che qui si sof­ferma soprat­tutto sulla natura del nuovo par­tito che la sini­stra greca ha saputo darsi.

La pre­fa­zione al volume - che sarà nelle libre­rie da gio­vedì 15 - è di Ste­fano Rodotà e con­tiene anche i giu­dizi di un certo numero di pro­ta­go­ni­sti della poli­tica ita­liana. Ve ne diamo, in ante­prima, alcuni stralci.

Il raf­for­za­mento della sini­stra è ancora un pro­cesso in divenire?
Dovremo sem­pre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di susci­tare tra i nostri soste­ni­tori una presa di coscienza sem­pre più demo­cra­tica, radi­cale, pro­gres­si­sta. Non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare il fatto che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale di nostri soste­ni­tori, abbiano assor­bito idee con­ser­va­trici; che c’è stato un tipo di pro­gresso il quale aveva come punto di rife­ri­mento la conservazione.

Dob­biamo, inol­tre, sepa­rare il signi­fi­cato che ha un governo della Sini­stra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sini­stra. Il potere è una cosa più com­plessa, che non viene eser­ci­tata solo da chi governa. È qual­cosa che ha a che fare anche con le strut­ture sociali, con chi con­trolla i mezzi di pro­du­zione. Noi riven­di­che­remo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posi­zione di forza – a quella grande bat­ta­glia ideo­lo­gica e anche sociale che por­terà a cam­bia­menti e tra­sfor­ma­zioni i quali daranno il potere alla mag­gio­ranza dei cit­ta­dini, sot­traen­dolo alla minoranza.

Ma la gente deve com­pren­dere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non signi­fica auto­ma­ti­ca­mente che il potere pas­serà al popolo. Signi­fica, invece, che ini­zierà un pro­cesso di lotta, un lungo cam­mino che por­terà anche a delle con­trap­po­si­zioni - un cam­mino non sem­pre lineare - ma che verrà sicu­ra­mente carat­te­riz­zato dal con­ti­nuo sforzo di Syriza per riu­scire a con­vin­cere delle forze ancora più vaste, per accre­scere la sua dina­mica mag­gio­ri­ta­ria ed il con­senso verso il suo pro­gramma, con l’appoggio di forze sociali sem­pre più ampie.

Tutto que­sto, per riu­scire a com­piere passi in avanti asso­lu­ta­mente neces­sari. Sto descri­vendo un cam­mino che in que­sto periodo, seguono molti par­titi e governi di sini­stra in Ame­rica Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risul­tare estra­nea alla quo­ti­dia­nità europea. So bene che la grande domanda che pro­voca un inte­resse cosi forte nei nostri con­fronti, è come tutto ciò potrà diven­tare realtà nel con­te­sto della glo­ba­liz­za­zione e all’interno dell’Unione Euro­pea, visto che la Gre­cia non è un gio­ca­tore solitario.

Si tratta di una realtà che negli ultimi anni pone anche delle forti limi­ta­zioni, dal punto di vista economico…
Asso­lu­ta­mente. Ed è per que­sto, tut­ta­via, che io credo che la con­di­tio sine qua non per­ché Syriza possa con­ti­nuare a seguire un cam­mino frut­tuoso, è che rie­sca a con­qui­stare, da una parte il con­senso della mag­gio­ranza della società greca e dall’altra, a garan­tirsi un appog­gio mag­gio­ri­ta­rio anche in tutta Europa. È chiaro che la prio­rità, in que­sto momento, non è il socia­li­smo, ma è pro­prio la fine dell’austerità (…)
Il fatto che gli elet­tori di Syriza pro­ven­gano sia dall’area comu­ni­sta che da quella del cen­tro pro­gres­si­sta è una risorsa o un problema?
Credo che Syriza sia riu­scito ad arri­vare dal 4% al 27% per­ché abbiamo avuto la capa­cità poli­tica di indi­vi­duare in modo molto veloce i cam­bia­menti poli­tici e sociali che hanno pro­vo­cato la crisi.
Intendo lo sbri­cio­la­mento, la distru­zione dei sog­getti sociali cau­sata dalla poli­tica dei memorandum. Allo stesso tempo, abbiamo offerto una via di uscita poli­tica a tutti i cit­ta­dini che ave­vano l’esigenza di potersi espri­mere per fer­mare que­sto pro­cesso di distru­zione. Ci siamo tro­vati, quindi, in modo quasi “vio­lento”, repen­tino, dal 4% al 27%, e que­sta “vio­lenza” ci mette ancora alla prova, per­ché ci costringe, comun­que, a cam­biare orien­ta­mento. Abbiamo avuto l’istinto di com­pren­dere, espri­mere e rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei gruppi sociali che erano rima­sti senza alcuna rap­pre­sen­tanza poli­tica, senza una casa, ma devo con­fes­sare che non ave­vamo la cul­tura pro­pria di un par­tito che riven­dica il potere.

C’eravamo schie­rati, ritro­vati tutti a Sini­stra - anche io, ovvia­mente - ave­vamo accet­tato e soste­nuto un modo di vita, che aveva a che fare, prin­ci­pal­mente, con la resi­stenza, con la denun­cia ed un approc­cio teo­rico ten­dente ad una società “altra”. Non c’eravamo con­fron­tati, però, con il biso­gno pra­tico di aggiun­gere ogni giorno un pic­colo mat­tone per poter costruire que­sta società di cui par­la­vamo, spe­cie in un momento dif­fi­cile come quello che stiamo vivendo. Se domani Syriza sarà chia­mata a gover­nare, sarà obbli­gata ad affron­tare una situa­zione sociale, una realtà dram­ma­tica: la disoc­cu­pa­zione reale al 30%, una povertà dif­fusa, una base pro­dut­tiva pra­ti­ca­mente distrutta. E si trat­terà – fuor di dub­bio – di una scom­messa enorme, anche que­sta di por­tata storica.

Si potrebbe dire che sarà una scom­messa simile a quella del Bra­sile di Lula, quando venne eletto presidente. Noi, intendo la Sini­stra nel suo com­plesso, dob­biamo cer­care (senza tro­varci nella dif­fi­ci­lis­sima posi­zione e nel ruolo del capro espia­to­rio), di riu­scire a man­te­nere la coe­sione dei gruppi sociali, all’interno di un pro­getto di rico­stru­zione pro­dut­tiva, di demo­cra­tiz­za­zione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.

Guar­dando tutto ciò anche da fuori, si può guar­dare in que­sto momento a Syriza quasi come ad un caso unico, dal momento che non appar­tiene alla fami­glia della social­de­mo­cra­zia, non si iden­ti­fica nelle posi­zioni dei par­titi tra­di­zio­nal­mente comu­ni­sti e sta cer­cando di trac­ciare una strada nuova, creando un spa­zio nuovo tra que­ste due grandi fami­glie. Si potrebbe par­lare di un espe­ri­mento che cerca di rifor­mare le posi­zioni della Sini­stra, tenendo insieme, appunto, i suoi “punti forti” e il biso­gno di modernità?
Pos­siamo dire che è cosi, ma si tratta di un pro­cesso che è ini­ziato da metà degli anni Novanta, quando in Gre­cia è stata creata la Coa­li­zione della Sini­stra e del Pro­gresso, Syna­spi­smòs. Par­liamo del periodo in cui, in Europa, una serie di par­titi post comu­ni­sti - dopo la caduta del Muro di Ber­lino - cer­ca­vano di apporre il loro tratto ideo­lo­gico e poli­tico, andando oltre i con­fini della social­de­mo­cra­zia e della strada seguita sino ad allora dai par­titi di area comu­ni­sta. È in quel periodo che si è for­mato anche il Par­tito della Sini­stra Euro­pea che com­pren­deva e con­ti­nua a com­pren­dere anche alcuni par­titi comu­ni­sti. Sono dei par­titi, tut­ta­via, che hanno com­piuto una seria auto­cri­tica riguardo al periodo sta­li­ni­sta ed hanno rin­no­vato il loro modo di inter­pre­tare ed ela­bo­rare la realtà. Tra i mem­bri del Par­tito della Sini­stra Euro­pea, ovvia­mente, ci sono anche forze come Syriza, la coa­li­zione in cui si è tra­sfor­mato Synaspismòs.

Ana­liz­zando la cosa, qual­cuno potrebbe dire che que­sto tratto ideo­lo­gico è riu­scito a rag­grup­pare delle forze appar­te­nenti a una Sini­stra inde­bo­lita ed in disfa­ci­mento, che non riu­sciva a supe­rare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta riven­di­cando la guida della Gre­cia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estre­ma­mente posi­tiva il fatto che il nostro sia un par­tito gio­vane ma con alle spalle, tut­ta­via, una lunga tra­di­zione. Le sue radici affon­dano nel secolo pas­sato, ma quello che abbiamo, appunto, è un par­tito giovane. Altret­tanto posi­tivo è il fatto che non appar­tenga al blocco di forze le quali con­ti­nuano a seguire l’ortodossia comu­ni­sta, e che non fac­cia parte della fami­glia socialdemocratica.

Stiamo par­lando, ovvia­mente, di una social­de­mo­cra­zia che oggi è parte inte­grante della crisi in atto e che ha una grande respon­sa­bi­lità per lo stato in cui si è venuta a tro­vare l’Europa. È una social­de­mo­cra­zia “gene­ti­ca­mente modi­fi­cata”, che ha adot­tato quasi tutti i credo neo­li­be­ri­sti. In que­sto senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri par­titi della nuova Sini­stra dell’Europa non por­tano sulle spalle il peso dei “pec­cati ori­gi­nali” di alcune forze che appar­ten­gono alla nostra tra­di­zione. Con­tem­po­ra­nea­mente, non sono nean­che respon­sa­bili dei grandi delitti per­pe­trati dalla social­de­mo­cra­zia nel periodo che stiamo vivendo.

Siamo in grado, cioè, di offrire una pro­spet­tiva più ampia, di cata­liz­zare ed unire forze ancora mag­giori, rispetto a quelle rag­grup­pate, tra­di­zio­nal­mente, dalle forze del blocco socialista.

A chi è solito sot­to­li­neare che siamo un par­tito filoeu­ro­peo - il quale com­prende la situa­zione che si è venuta a creare con la realtà data della glo­ba­liz­za­zione - ma non appar­te­niamo a nes­suna grande fami­glia poli­tica dell’Europa, vor­rei ricor­dare que­sto: nel 1981, anche il Par­tito Socia­li­sta del Pasok, di Andreas Papan­dreou, si tro­vava esat­ta­mente nella nostra stessa situa­zione: non appar­te­neva, in realtà, né all’Internazionale Socia­li­sta, né ai par­titi social­de­mo­cra­tici e nean­che alla sini­stra socialista.

La consueta analisi fuori dal coro del filosofo sloveno che ci invita ad uno sforzo di riflessione, oltre l'emozione e la molta ipocrisia circolante. New Statesman, 10 gennaio 2015 (m.p.g.)
Superando le banalizzazioni relativistiche ("anche noi Occidentali abbiamo le nostre colpe") e il senso di colpa di una "falsa" sinistra che predica la tolleranza a prescindere, come pure, all'opposto, la demonizzazione dei terroristi, Zizek smonta anche la contrapposizione filosofico-psicologica fra un Occidente esausto e ormai incapace di vivere profondamente i propri valori e i fondamentalisti, come uomini di intense passioni e convinzioni.
Al contrario, secondo Zizek, la furiosa reazione del fondamentalismo islamico si spiega solo come derivata dall'accettazione ormai ineluttabile dello stile di vita e dei valori occidentali: sintomo di debolezza estremo, quindi, ma non solo. Per il filosofo sloveno la contrapposizione fra liberalismo e fondamentalismo è una falsa contrapposizione che si spiega - risalendo a Benjamin e Horkheimer - con le contraddizioni interne al liberalismo stesso.
Come negli anni '30, il fascismo islamico è quindi il risultato di una sconfitta rivoluzionaria e si nutre delle contraddizioni del capitalismo. Solo con una profonda riflessione sulla società capitalistica, potremo sconfiggere l'islamofascismo dei terroristi. Anche in questo frangente storico, quindi, per eradicare il terrore, occorre una nuova sinistra.

SLAVOJŽIŽEK ON THE CHARLIE HEBDO MASSACRE: ARE THE WORST REALLY FULL OF PASSIONATE INTENSITY?

Now, when we are all in a state of shock after the killing spree in the Charlie Hebdo offices, it is the right moment to gather the courage to think. We should, of course, unambiguously condemn the killings as an attack on the very substance our freedoms, and condemn them without any hidden caveats (in the style of "Charlie Hebdo was nonetheless provoking and humiliating the Muslims too much"). But such pathos of universal solidarity is not enough – we should think further.

Such thinking has nothing whatsoever to do with the cheap relativisation of the crime (the mantra of "who are we in the West, perpetrators of terrible massacres in the Third World, to condemn such acts"). It has even less to do with the pathological fear of many Western liberal Leftists to be guilty of Islamophobia. For these false Leftists, any critique of Islam is denounced as an expression of Western Islamophobia; Salman Rushdie was denounced for unnecessarily provoking Muslims and thus (partially, at least) responsible for the fatwa condemning him to death, etc. The result of such stance is what one can expect in such cases: the more the Western liberal Leftists probe into their guilt, the more they are accused by Muslim fundamentalists of being hypocrites who try to conceal their hatred of Islam. This constellation perfectly reproduces the paradox of the superego: the more you obey what the Other demands of you, the guiltier you are. It is as if the more you tolerate Islam, the stronger its pressure on you will be . . .

This is why I also find insufficient calls for moderation along the lines of Simon Jenkins's claim (in The Guardian on January 7) that our task is “not to overreact, not to over-publicise the aftermath. It is to treat each event as a passing accident of horror” – the attack on Charlie Hebdo was not a mere “passing accident of horror”. it followed a precise religious and political agenda and was as such clearly part of a much larger pattern. Of course we should not overreact, if by this is meant succumbing to blind Islamophobia – but we should ruthlessly analyse this pattern.

What is much more needed than the demonisation of the terrorists into heroic suicidal fanatics is a debunking of this demonic myth. Long ago Friedrich Nietzsche perceived how Western civilisation was moving in the direction of the Last Man, an apathetic creature with no great passion or commitment. Unable to dream, tired of life, he takes no risks, seeking only comfort and security, an expression of tolerance with one another: “A little poison now and then: that makes for pleasant dreams. And much poison at the end, for a pleasant death. They have their little pleasures for the day, and their little pleasures for the night, but they have a regard for health. ‘We have discovered happiness,’ - say the Last Men, and they blink.”

It effectively may appear that the split between the permissive First World and the fundamentalist reaction to it runs more and more along the lines of the opposition between leading a long satisfying life full of material and cultural wealth, and dedicating one's life to some transcendent Cause. Is this antagonism not the one between what Nietzsche called "passive" and "active" nihilism? We in the West are the Nietzschean Last Men, immersed in stupid daily pleasures, while the Muslim radicals are ready to risk everything, engaged in the struggle up to their self-destruction. William Butler Yeats’ “Second Coming” seems perfectly to render our present predicament: “The best lack all conviction, while the worst are full of passionate intensity.” This is an excellent description of the current split between anemic liberals and impassioned fundamentalists. “The best” are no longer able fully to engage, while “the worst” engage in racist, religious, sexist fanaticism.

However, do the terrorist fundamentalists really fit this description? What they obviously lack is a feature that is easy to discern in all authentic fundamentalists, from Tibetan Buddhists to the Amish in the US: the absence of resentment and envy, the deep indifference towards the non-believers’ way of life. If today’s so-called fundamentalists really believe they have found their way to Truth, why should they feel threatened by non-believers, why should they envy them? When a Buddhist encounters a Western hedonist, he hardly condemns. He just benevolently notes that the hedonist’s search for happiness is self-defeating. In contrast to true fundamentalists, the terrorist pseudo-fundamentalists are deeply bothered, intrigued, fascinated, by the sinful life of the non-believers. One can feel that, in fighting the sinful other, they are fighting their own temptation.

It is here that Yeats’ diagnosis falls short of the present predicament: the passionate intensity of the terrorists bears witness to a lack of true conviction. How fragile the belief of a Muslim must be if he feels threatened by a stupid caricature in a weekly satirical newspaper? The fundamentalist Islamic terror is not grounded in the terrorists’ conviction of their superiority and in their desire to safeguard their cultural-religious identity from the onslaught of global consumerist civilization. The problem with fundamentalists is not that we consider them inferior to us, but, rather, that they themselves secretly consider themselves inferior. This is why our condescending politically correct assurances that we feel no superiority towards them only makes them more furious and feeds their resentment. The problem is not cultural difference (their effort to preserve their identity), but the opposite fact that the fundamentalists are already like us, that, secretly, they have already internalized our standards and measure themselves by them. Paradoxically, what the fundamentalists really lack is precisely a dose of that true ‘racist’ conviction of their own superiority.

The recent vicissitudes of Muslim fundamentalism confirm Walter Benjamin's old insight that “every rise of Fascism bears witness to a failed revolution”: the rise of Fascism is the Left’s failure, but simultaneously a proof that there was a revolutionary potential, dissatisfaction, which the Left was not able to mobilize. And does the same not hold for today’s so-called “Islamo-Fascism”? Is the rise of radical Islamism not exactly correlative to the disappearance of the secular Left in Muslim countries? When, back in the Spring of 2009, Taliban took over the Swat valley in Pakistan, New York Times reported that they engineered "a class revolt that exploits profound fissures between a small group of wealthy landlords and their landless tenants". If, however, by “taking advantage” of the farmers’ plight, The Taliban are “raising alarm about the risks to Pakistan, which remains largely feudal,” what prevents liberal democrats in Pakistan as well as the US to similarly “take advantage” of this plight and try to help the landless farmers? The sad implication of this fact is that the feudal forces in Pakistan are the “natural ally” of the liberal democracy…

So what about the core values of liberalism: freedom, equality, etc.? The paradox is that liberalism itself is not strong enough to save them against the fundamentalist onslaught. Fundamentalism is a reaction – a false, mystifying, reaction, of course - against a real flaw of liberalism, and this is why it is again and again generated by liberalism. Left to itself, liberalism will slowly undermine itself – the only thing that can save its core values is a renewed Left. In order for this key legacy to survive, liberalism needs the brotherly help of the radical Left. THIS is the only way to defeat fundamentalism, to sweep the ground under its feet.

To think in response to the Paris killings means to drop the smug self-satisfaction of a permissive liberal and to accept that the conflict between liberal permissiveness and fundamentalism is ultimately a false conflict – a vicious cycle of two poles generating and presupposing each other. What Max Horkheimer had said about Fascism and capitalism already back in 1930s - those who do not want to talk critically about capitalism should also keep quiet about Fascism - should also be applied to today’s fundamentalism: those who do not want to talk critically about liberal democracy should also keep quiet about religious fundamentalism.


Una piattaforma chiara per una nuova politica di sinistra, indispensabile per uscire compiutamente dalla crisi strutturale che ci sta affogando, possibile solo se ciascuno riuscirà a uscire dal proprio guscio.

Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015

Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.

Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.

Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.

Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.

Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.

Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).

In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.

Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?

O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.

Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.

Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.

Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.

Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.

Raffaele D’Agata

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