Uno strumento di autodifesa per chi vuole mantenere intatta la propria capacità di pensare, apprendere, valutate e quindi agire in modo sensato. Particolarmente utile in un'epoca in cui la manipolazione delle menti è diventa un sofisticato strumento di potere.
La Repubblica, 2 febbraio 2015
Liberi di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.
Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».
Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».
Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?
«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».
È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rappresentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».
La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».
Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».
Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».
Un articolo interessante, ma un titolo sbagliato. Definiremmo "reazione", e non "rivoluzione", l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Reazione feroce a quanto di positivo l'ultima metà del XX secolo ha prodotto sul terreno del lavoro.
La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla
CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.
Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.
Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.
Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.
Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.
Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.
postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.
Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S
bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015
La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.
S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.
Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.
Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.
Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.
È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.
«In questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”».
La Repubblica, 17 febbraio 2015
L’aveva detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.
«A Bruxelles stanno combattendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare Golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. Sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro».
Il manifesto, 15 febbraio 2015
Non so se sono i greci che debbono ringraziarci per questa manifestazione grande, bella, unitaria che abbiamo promosso in tutta fretta perché a Bruxelles capissero bene che quanto lì si decide in questi giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli europei che vogliono un’Unione in grado di garantire più uguaglianza più democrazia più pace.
Un’Europa che almeno la smetta di ritenersi faro della civiltà quando è incapace di accogliere chi fugge da terre devastate dalla pesante eredità coloniale e dalle nostre più recenti, dissennate spedizioni militari. Proprio per questo sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover ringraziare noi, ma noi che ringraziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che ringraziamo Alexis e Yannis - (li chiamiamo ormai per nome perché non sono più solo compagni ma sono diventati amici).
Siamo noi che li ringraziamo perché lì a Bruxelles stanno combattendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare Golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. Sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piuttosto bene. La prova, lo sappiamo, è durissima, ma già dopo questi pochi/ primi giorni sembrano procedere con fermezza, con la sicurezza di rodati statisti). Ne siamo orgogliosi e soddisfatti. (Avete visto le loro immagini in tv, sono loro a dominare la scena, e tutti si affrettano ad avvicinarsi a loro per stringergli la mano).
Perché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capitolo della storia dell’Unione europea: perché hanno avuto la determinazione - che fino ad oggi era mancata a tutti - di dire che così non va, che occorre cambiare proprio se si vuole salvare il progetto d’Europa. Non sono andati a Buxelles a scusarsi per il loro debito e a mendicare aiuto, ma per dire alla troika che deve chiedere scusa.
Scusa per i danni che ha prodotto con le sue politiche. Scusa per essersi irresponsabilmente fidata, di un governo corrotto e incapace. La catastrofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medicine di Bruxelles anziché alleviare i mali e avviare un nuovo corso hanno peggiorato la situazione della Grecia. Qualsiasi menager che avesse prodotto in quattro anni un crollo del Pil pari al 25% e ritenesse questo il metodo migliore per accumulare le risorse per ripagare un debito, verrebbe licenziato. Con tanto parlare di efficienza, il criterio potrebbe esser applicato anche ai funzionari di Bruxelles! Se hanno rovinato così la Grecia vanno messi in condizione di non nuocere più. È necessario farglielo capire.
Noi siamo qui per far sentire anche la nostra voce. Buon lavoro Alexis, buon lavoro Yannis.
ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.
Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.
Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.
Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.
Una volta tanto su un giornale italiano si riconosce che i due "eroici marò" hanno ucciso due giovani e inoffensivi pescatori.
«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015
Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.
A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».
In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.
«Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico».
Il manifesto, 14 febbraio 2015
Oggi, a Roma, scendiamo in piazza per la vita, la dignità e la democrazia del popolo greco. È un ritorno - importante da non sottovalutare - della buona, antica solidarietà internazionale, dopo anni e anni di chiusura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Perché manifestando per «salvare la Grecia», noi manifestiamo anche e soprattutto per salvare noi stessi: per salvare l’Italia. Per salvare l’Europa.
Se l’azione di Tsipras e Varoufakis riuscirà ad aprire una breccia nel muro di Berlino dell’austerità, ci sarà una speranza anche per noi, che annaspiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi, massacrati socialmente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimostrare che la volontà popolare non può essere cancellata con un tratto di penna dai banchieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bundesbank o della Cancelleria della Bundesrepublik, sarà un passo importante nel passaggio dall’Europa della moneta e una vera Europa politica. La sola che può sopravvivere.
Lo sanno benissimo a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino, che se i greci ce la fanno - se riescono a dimostrare che «si può» - potrà innescarsi una reazione a catena, nel fronte mediterraneo dell’Europa, ma non solo, in grado di scardinare i dogmi mortali che ci stanno soffocando. Per questo resistono contro ogni buon senso, negando l’evidenza, trincerandosi dietro il ritornello delle «regole che vanno rispettate» anche se quelle regole si sono rivelate con tutta evidenza devastanti. E per questo, dalla nostra parte, ci si mobilita nelle principali piazze del continente: per dimostrare che quella reazione a catena è già iniziata. Che il cambiamento è già in corso.
Sfileremo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo eccidio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tragedia del mare» ma una «tragedia degli uomini». Una tragedia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove centinaia di morti testimoniano dell’egoismo, criminale, di un’Europa che chiude occhi orecchie e braccia di fronte alla parte più sofferente dell’umanità. E lesina gli spiccioli, con spirito da usuraio, tagliando persino sui soccorsi, perché questo è il senso del passaggio da Mare nostrum a Triton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in questi anni di «commissariamento» la Grecia al coma sociale, e quello con cui le classi dirigenti europee, impassibili, hanno trasformato il canale di Sicilia in un cimitero liquido. La stessa logica, impersonale, delle cifre e dei protocolli «a distanza», con decisioni prese in luoghi asettici, dove non si sente la puzza della miseria e l’odore della morte per annegamento. Senza neppure guardare in faccia le proprie vittime: la «banalità del male», appunto, come direbbe Hannah Arendt.
Ora il nostro capo del governo, con cinismo degno della sua biografia, getta il problema al di là del Mediterraneo, dicendo che la questione sta in Libia, non qui o a Bruxelles. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo contribuito a creare? – non noi il problema, come se non avessimo nessuna responsabilità e nulla da modificare, rinviando tutto a una crisi nord-africana con tutta evidenza ingovernabile. È lo stesso atteggiamento tenuto nei confronti della Grecia, quando ebbe a definire non solo «legittima» ma anche «opportuna» la decisione della Bce di togliere ossigeno alle banche greche, proprio quando la minaccia maggiore era la fuga dei capitali dei grandi miliardari ed evasori greci, appena due giorni dopo aver abbracciato – gesto degno del dodicesimo apostolo – Alexis Tsipras a Palazzo Chigi…
Anche per dimostrare che quest’uomo non ci rappresenta, scendiamo oggi in piazza a Roma. Non è una manifestazione come tante altre. È il segno che una nuova politica può nascere. In un nuovo «spazio della politica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qualche modo oltre i confini.
Non dimenticherò mai il 25 gennaio, in piazza Omonia ad Atene, quando Tsipras finì il proprio discorso di chiusura della campagna elettorale e salì sul palco Pablo Iglesias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluentemente) infine in spagnolo per dire «Syriza, Podemos, venceremos», e la piazza, tutta, attaccò a cantare Bella ciao. In italiano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chiarezza, che eravamo ormai in un «oltre».
In un altro spazio in cui le vecchie scatole degli stati nazionali si rompevano – senza che i popoli perdessero le proprie caratteristiche, anzi! — per lasciar confluire le nuove sfide in un’altra dimensione, vorrei dire in un altro «paradigma», della politica, che si muove ormai in uno spazio compiutamente continentale. E che si apriva per noi una grande occasione. Unita a una grande responsabilità: di allineare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse mediterraneo, contribuendo anche nel nostro Paese alla costruzione di una grande «casa comune» per questa nuova soggettività ribelle.
Roma, testimone il Colosseo, è una prima occasione per mostrare che anche qui si apre un processo in cui «coalizione sociale» e «coalizione politica» possono - anzi devono - marciare insieme, strettamente intrecciate, perché l’una è condizione dell’altra.
E se sapranno farlo, pur nella consapevolezza delle grandi difficoltà - non tanto culturali quanto «tecniche», pratiche, comportamentali e lessicali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abitante di quel nuovo «spazio», in grado di offrire rappresentanza all’oceano di spaesati e di homeless della politica in Italia come in Europa.
Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spagna e come ripeteremo a Roma — è, davvero, ora!
Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’é configurato nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla produzioni di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegate al “tempo libero.
MicroMega, 11 febbraio 2014
Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro
Flexicurity
suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .
Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.
Flexicurity e tecno-nichilismo
Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.
Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.
«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.
Flessicurezza e “doppia alienazione”
Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.
Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.
La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.
Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.
Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”
Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:
a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);
b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;
c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».
Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.
Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.
I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.
Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione
Ma vi è di più.
Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).
I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.
Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.
Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.
Flessibilità senza sicurezza
Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?
Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.
Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.
Il paradosso dell’improduttività
Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.
Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.
Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.
Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.
Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.
Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.
E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.
Una via d’uscita: il reddito minimo universale
Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.
Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.
Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.
Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.
Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione
Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?
Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.
Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.
Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA
di Susanne Böhme Kuby
Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.
Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.
Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.
E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.
Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”
La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.
Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)
Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).
Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.
Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)
Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)
Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.
Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).
Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).
Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.
Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).
La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).
Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.
Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]
Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.
Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.
Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .
La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).
La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.
Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!
Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).
La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.
Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.
E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]
La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.
E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.
Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.
Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).
Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.
Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.
E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.
si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:
Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).
«Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto».
La Repubblica, 8 febbraio 2014
Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.
Comune.info, 7 febbraio 2015
Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.
La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).
Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.
Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.
Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.
Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).
La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.
Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.
I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.
Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.
Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.
Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.
Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?
La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.
Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.
La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.
Riprendiamo da
Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri
«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.
Qual è il suo ritratto del premier?
«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».
Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.
«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».
La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?
«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».
Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».
«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».
Che cos’è oggi il diritto al dissenso?
«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».
Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?
«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».
In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?
«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».
La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?
«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».
Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.
«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».
Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?
«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».
La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?
«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».
In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.
«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».
Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?
«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».
Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.
«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».
Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?
«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».
Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.
«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».
Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?
«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».
Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.
«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».
L'errore di fondo dell'attuale pensiero dominante (e azione governativa) sulla scuola, alla luce di due giganti del pensiero rivoluzionario del XX secolo.
Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015
Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.
Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.
Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).
Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.
Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.
Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)
Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.
La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.
Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.
Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.
«La vittoria di Tsipras genera entusiasmo. Dimostra che la politica può unire e dare gioia. In Italia c’è un’emergenza dovuta alla fine dei partiti di massa come spazi deliberativi. La democrazia non rinasce senza ricostruire tali spazi, mettendo insieme sociale e politico».
Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
Ad unirla, per il momento, è il successo politico di Alexis Tsipras e di Syriza in Grecia. Riunita ieri al tempio di Adriano a Roma, la sinistra italiana istituzionale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune componenti della «sinistra Pd», si è espressa con le maiuscole commentando l’intervista che il primo ministro greco ha rilasciato in un libro di Teodoro Andreadis (Bordeaux edizioni).
Per Vendola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo processo politico continentale che può salvare la civiltà europea dai disastri economici e sociali prodotti dalle politiche di austerity». Per Smeriglio (Sel) «Tsipras dimostra che si può vincere fuori dalle compatibilità politiche». Smeriglio ha anche rivendicato la scelta di avere schierato il congresso di Sel dalla parte di Tsipras, e non dei socialisti formato «larghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsipras alle Europee».
In questo contesto malinconico e autoironico in cui è difficile riunire personalità scisse, Fassina si è impegnato a rendere «il governo italiano proattivo rispetto alla piattaforma di Syriza. Le sue proposte non sono utili solo alla Grecia. Il problema del debito non riguarda solo la Grecia». E ha proposto una «piattaforma di consultazione sistematica». Proposte in cui non sono mai stati citati i movimenti (Italia sulla casa, contro lo Sblocca Italia o dello sciopero sociale). Gli stessi (o analoghi) che rappresentano invece la base di Syriza in Grecia. La prospettiva sembra essere un’altra. L’ex viceministro dell’Economia del governo Letta ha suggerito di considerare la «critica radicale ma non estrema al capitalismo» di Papa Francesco.
Ad aprire, e chiudere, l’incontro moderato dalla giornalista Lucia Goracci è stata Luciana Castellina che ha messo da parte le mediazioni puntando dritto all’entusiasmo «che la vittoria di Tsipras ha generato. Dimostra che la politica può unire e dare gioia. In Italia c’è un’emergenza democratica dovuta alla fine dei partiti di massa come spazi deliberativi. La democrazia non rinasce senza ricostruire tali spazi, mettendo insieme sociale e politico».
«Riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza».
Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014
La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.
Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».
Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».
È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.
Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.
Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca per vincere.
Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.
Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.
Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.
Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.
E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.
Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.
Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.
Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.
«Non c’è stata nessuna istigazione. De Luca ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente».
Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 (m.p.r.)
Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.
Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.
È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.
Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.
Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.
Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.
Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.
Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.
De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto «non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota». Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.
«Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società» .intervista a Stefano Rodotà di Giacomo Russo Spena, Micromeg onlinea, 22 gennaio 2015
«E’ un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà. Una parola tutt’altro che logorata e storicamente legata al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei “30 anni gloriosi” e del Welfare State. Poi il termine è stato accantonato e abbandonato. La solidarietà serve a individuare i fondamenti di un ordine giuridico: incarna, insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito”, un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili. La crisi del Welfare non può sancire la fine del bisogno di diritti sociali. Sono legato anche al sottotitolo del libro, “un’utopia necessaria”, la solidarietà va proiettata nel presente ed utilizzata come strumento di lavoro per il futuro: l’utopia necessaria è la visione».
Lei ha parlato di “costituzionalismo arricchito”. Quali sono le pratiche da cui ripartire per riaffermare i diritti sociali in tempo di crisi economica, privatizzazioni e smantellamento dello Stato Sociale?
«Mutualismo, beni comuni, reddito di cittadinanza sono gli elementi innovativi e costitutivi di un nuovo Stato Sociale, almeno rispetto a quello che abbiamo conosciuto e costruito nel Novecento. Durante la Guerra Fredda, i sistemi di Welfare sono stati una vetrina dell’Occidente di fronte al mondo comunista, una funzione benefica volta ad umanizzare il capitalismo in risposta al blocco sovietico. Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità ed oggi è necessario arricchire le prospettive del Welfare. Ad esempio il reddito, inteso in tutte le sue fasi legate alle condizioni materiali, significa investimenti ed è possibile solo grazie ad un patto generazionale e ad una logica solidaristica dell’impiego delle risorse».
«Il discorso esamina la capacità ricostruttiva della solidarietà che è frutto di una logica di de-mercificazione di ciò che conduce al di là della natura di mercato: ristabilire la supremazia della politica sull’economia. Qual è stata la logica in questi anni? Avendo un tesoretto ridotto, sacrifichiamo i diritti sociali. Tale ragionamento va respinto al mittente. Quali sono i criteri per allocare tali fondi? Come li distribuiamo? Finanziamo la guerra e gli F35 o utilizziamo quei soldi contro lo smantellamento dello Stato Sociale? La scuola pubblica, come dice la nostra Carta, non va resa funzionale al diritto costituzionale all’istruzione? Invece si finanziano le scuole private…»
E i famosi 80 euro del governo Renzi possono essere considerati come forma solidaristica e di Welfare?
«No, manca l’intervento strutturale. La Cgil ha reso pubblici alcuni dati: con quei soldi si sarebbero potuti creare 400mila posti di lavoro. Appena si è parlato del bonus per le neomamme, ho pensato fosse più utile stanziare quelle risorse per la costruzione degli asili nido. Solo un vero discorso sulla solidarietà ci consente di stilare una gerarchia che pone al primo posto i diritti fondamentali. E per questo la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il pareggio di bilancio, è un duro colpo per la democrazia. Abbiamo posto fuori legge Keynes».
«Dobbiamo guardare all’Europa, il discorso sulla solidarietà ha un senso esclusivamente se usciamo dalla logica nazionalista, altrimenti si impiglia. Solidarietà implica un’Europa solidale tra Stati con una politica comune e coi diritti sociali come fari. Con Jürgen Habermas dico che è un principio che può attenuare l’odio tra i Paesi debitori e quelli creditori. Persino Lucrezia Reichlin ha parlato di Syriza con benevolenza perché sta avendo il merito di riaprire una riflessione in Europa su alcuni temi non più rimandabili. L’austerity ha fallito ed aumentato le diseguaglianze. Fino a qualche mese fa, i difensori del rigore giustificavano l’enorme forbice tra redditi alti e minimi affermando di aver tolto migliaia di persone dalla soglia di povertà. La diseguaglianza come conseguenza del contrasto allo sfruttamento. Una tesi smentita dagli stessi eventi».
«E’ una vecchissima discussione che si svolse già a Parigi nel 1789. E la Costituzione italiana ha legato diritti e doveri: l’art. 2 si apre col riconoscimento dei diritti delle persone ma poi afferma che tutti devono adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema dei doveri viene sbandierato per chiedere sacrifici alle fasce più deboli mentre rimangono al riparo i soggetti privati forti e le istituzioni pubbliche. Vogliamo discutere dei doveri? Facciamolo senza ipocrisie. Ad esempio, si dovrebbe riaffermare l’obbligo di non esercitare l’iniziativa economica e la libera impresa in contrasto con sicurezza e dignità dei lavoratori. Tale strategia ha fallito e politicamente ha generato un’enorme crisi della rappresentanza: il rifiuto della Casta non sarebbe così forte se non ci fosse stato un ceto politico dipendente dal denaro pubblico».
«Il voto di domenica ha un’importanza enorme soprattutto dopo il deludente semestre italiano a guida Matteo Renzi. Il suo arrivo a Bruxelles aveva generato aspettative per le sue promesse di mettere in discussione gli assetti costituzionali europei. Nulla di tutto ciò, nessun negoziato, eppure non era così costoso intraprendere il discorso dell’“utopia necessaria” della riforma dei trattati. Tsipras può rappresentare la riapertura della fase costituente europea. È la mia speranza. Riapertura perché nel 1999 il Consiglio europeo di Colonia stabilisce la centralità della Carta dei diritti ma poi il processo si è chiuso nel ciclo dell’economia. Una vera e propria controriforma costituzionale. L’Unione europea oltre ad avere un deficit di democrazia ha un deficit di legittimità. Il deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Altrimenti i rischi sono gravi, e non si parla di uscita dall’euro ma di deflagrazione dell’eurozona e di sviluppo di movimenti xenofobi ed antieuropei come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvin»i.
«In Italia siamo indietro e rischiamo di rifare alcuni errori. Mentre capisco la scelta del “papa straniero” Tsipras, non condivido l’idea di una “Syriza italiana”. È una forzatura. In Grecia Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati. In Italia la situazione è differente».
«In questi anni c’è stata una drammatica deriva oligarchica e proprietaria dei partiti e la capacità rappresentativa è venuta meno anche per la consapevolezza che il potere decisionale fosse esterno alle sedi legittime e in mano a poche persone. La Corte Costituzionale ha emesso due importanti sentenze: una contro il Porcellum, decretando illegittima la legge elettorale in vigore, l’altra contro i soprusi del marchionnismo, stabilendo che non potesse essere esclusa la Fiom dagli stabilimenti. Lego queste due fondamentali sentenze perché entrambe pongono il problema della rappresentanza. E lo pongono nell’impresa e nella società cioè nel lavoro e nella politica, nei diritti sociali e in quelli civili. E’ un punto importante sul quale non abbiamo riflettuto abbastanza ed è la via per far recuperare legittimità alle istituzioni e alla politica».
«La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra. Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. Rifondazione è un residuo di una storia, Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».
«Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni '60-'70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone».
«Non so se i 5 stelle siano definitivamente perduti, di certo stanno perdendo molteplici chance. Il movimento ha deluso le aspettative: non ha ampliato spazi di democrazia, non ha inciso in Parlamento e in qualche modo ha accettato le logiche interne. Serpeggia una profonda delusione tra gli stessi elettori grillini. Mentre la vera novità è lo sviluppo di un'opposizione sociale al renzismo, l’embrione della coalizione sociale di cui parlavo prima».
»Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada. Nessuno in grado di contrastarlo, nemmeno Giorgio Napolitano che secondo le mie valutazioni politiche aveva investito sul governo Letta. Ora si sta muovendo qualcosa: Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario. Persino la Uil è stata costretta a schierarsi. Si è rivitalizzato il sindacato. Il governo Renzi ha cancellato tutti i corpi intermedi e la Camusso, rendendosi conto dell’attacco subito, deve riconquistare il suo ruolo. Individuare soggetti sia rappresentativi che di opposizione sociale è un dato istituzionalmente interessante. Oltre ad essere un dato politico rilevante. Si è manifestata un’opposizione sociale».
«Sono confronti impensabili, il tessuto del nostro Paese è stato logorato da mille fattori nell’ultimo decennio. Anche dalla crisi economica. Con l’impoverimento drammatico le frizioni e le condizioni di convivenza obbligata diventato più difficili. Una situazione conflittuale che va oltre alla “guerra tra poveri”. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte».
«Prima mettiamo in relazione i soggetti sociali, in primis il sindacato, con le reti civiche e strutturiamo un minimo di organizzazione, rilanciando l’attivismo dei cittadini. Da tempo propongo alcune riforme e modifiche dei regolamenti parlamentari per dare maggiore potere alle leggi di iniziativa popolare. Ad inizio legislatura, in concerto con il gruppo del Teatro Valle, abbiamo inviato ai parlamentari una serie di proposte su fine vita e reddito minimo garantito… non sono nemmeno arrivate in Aula. In questo momento nella democrazia di prossimità, quella dei Comuni, si diffondono pratiche virtuose, penso ai registri per le coppie di fatto, per il testamento biologico, ai riconoscimenti nei limiti possibili di diritti fondamentali delle persone. A Bologna si è proposto di cogestire alcuni beni e il nuovo statuto di Parma è pieno di esperienze simili. C’è una democrazia di prossimità che va presa in considerazione. Così come il ruolo della magistratura».
«I partiti di massa erano i referenti delle domande sociali, le selezionavano e le portavano in Parlamento. Io c’ero, me lo ricordo. Questo non esiste più. Regna un modo autoritario di individuare le domande sociali e il vuoto politico è stato colmato dalla magistratura. La Consulta è intervenuta in questi anni su diritti civili, dal caso Englaro alla Fini Giovanardi sulle droghe o alla legge più ideologica, quella sulla fecondazione assistita. Poi le già citate sentenze su legge elettorale e conflitto Fiom-Fiat. Qui non c’è giustizialismo, ma il ruolo di una magistratura – attaccata e in trincea per difendersi dagli attacchi di Berlusconi e salvaguardare autonomia e indipendenza – che ha maturato una propria elaborazione culturale per fronteggiare emergenza politica e garantire la legalità costituzionale. L’aver individuato nella figura di Raffaele Cantone un soggetto politico ha un’importanza storica visto che in Italia la corruzione è ormai strutturale».
«Bah, spesso si cita il nome di Landini ma mi astengo dal rispondere. Non è prioritaria la questione. È palese che oggi la coalizione sociale ha una sua maggiore evidenza perché la presenza del sindacato è il dato nuovo e accresce le responsabilità di Landini e della Fiom. L’importante è uscire dagli schemi classici e visti finora: non dobbiamo pensare al recupero dei perdenti dell’ultima fase o ai pezzetti ancora incerti (minoranza del Pd). Così non possiamo basare l’iniziativa sul M5S. Sarebbe un errore. I 5 stelle hanno una loro storia, vediamo che faranno in futuro e semmai una coalizione sociale riuscisse a rafforzarsi, capire come reagiranno. Questo è il punto».
Più la spingono sotto il tappeto, più la questione immorale si mostra nella sua sconveniente veste di protagonista della scena politica. Proprio ieri, di fronte a un’aula parlamentare pateticamente vuota, il ministro della giustizia, denunciava «la dimensione intollerabile della corruzione in Italia». Intollerabile specialmente quando mette radici nel partito di cui il ministro fa parte, ma così purtroppo non è. Lo dimostrano alcune recenti vicende, due su tutte: il tentativo, solo rinviato, di salvare l’evasore Berlusconi con la legge sulla delega fiscale, e, di queste ore, i brogli elettorali (con il sospetto di una compra-vendita di voti) nelle elezioni primarie in Liguria.
Due facce della stessa medaglia, visto che il famigerato “patto del Nazareno” è fondativo di questa nuova stagione politica. In piena coerenza con quel conflitto di interessi che il Pd non ha mai risolto nel corso degli ultimi vent’anni. Per questo le dimissioni di Sergio Cofferati sono un fatto politico di prima grandezza, rilevante e rivelatore nello stesso tempo. Perché rilevante è evidente: l’ex segretario della Cgil è stato il simbolo dell’antiberlusconismo di sinistra, capace di organizzare la più grande manifestazione del dopoguerra in difesa dell’articolo 18, a fianco del mondo del lavoro e in rappresentanza di quelle radici che oggi la leadership del Pd ha deciso di recidere, nettamente e orgogliosamente, in profonda sintonia con l’ideologia antisindacale del centrodestra.
Insieme a Camusso e Landini, Cofferati è una bandiera contro il jobs act e la definitiva metamorfosi neoliberista del partito renziano (non “di Renzi”, perché non gli appartiene). Ma il “caso Cofferati” è forse ancor di più rivelatore, cioè specchio limpido, della fisionomia etica del nuovo gruppo dirigente del Nazareno. Lui è il primo politico che in modo clamoroso e drammatico se ne va dal partito — del quale è stato uno dei 45 fondatori — denunciando la presenza di una questione morale: «Me ne vado perché sono stati cancellati i valori stessi su cui è nato il Pd».
Altro che delusione per la sconfitta subita alle primarie (peraltro da dimostrare): è un durissimo attacco al voto di scambio («comprano il voto»), è un j’accuse per la palese offerta e l’altrettanto dichiarata accettazione dei voti portati alla candidata vincente, la renziana Raffaella Paita, da parte dei capicorrente del centrodestra ligure e di personaggi fascistoidi, è la penosa presa d’atto dell’acquisto dei voti dei poveri immigrati.
Così si svende una storia, si svende un partito.
Eppure è ancor più penosa la reazione dei vertici renziani del Pd, a cominciare dai due vicesegretari del partito. Invano Cofferati li aveva, già da alcune settimane, avvertiti di quanto stava accadendo senza ricevere neppure lo straccio di una risposta. Ora, dopo le dimissioni, i due colonnelli, Serracchiani e Guerini, sono diventati particolarmente prodighi di dichiarazioni contro l’ingrato Cofferati, accusato di «inspiegabili» e «ingiustificate» dimissioni. Nemmeno un pizzico di senso del pudore. Avanzano camminando sulle macerie del partito - forse perché convinti delle magnifiche e progressive sorti elettorali in caso di voto anticipato.
E Renzi?
L’immagine più nitida dello specchio che l’addio del dirigente politico riflette è quella del segretario. All’ultima direzione del partito Renzi ha chiuso il “caso” in modo brutalmente provocatorio, facendo i complimenti alla vincitrice per la vittoria e rovesciando sul perdente la definitiva sentenza: «Basta, vogliamo vincere, la discussione è chiusa». Una dimostrazione di arroganza, come è ormai consuetudine di questa nuova leadership, ma particolarmente sottolineata e insistita, perché sia d’esempio a chi in futuro volesse portare all’attenzione del partito fastidiosi problemi etici.
Discutere su come si raccolgono i consensi, su come si finanzia un partito, su quale blocco sociale di riferimento si sceglie sono questioni politiche fondamentali, anche se il personalismo, il leaderismo hanno inquinato il comune sentire della gente di sinistra. Tuttavia è importante discuterne oggi come è stato cruciale per l’allora Pci quando a porre la questione nei termini generali che conosciamo fu Enrico Berlinguer. E vale qui la pena solo accennare alla freddezza, e persino alla derisione, con cui la corrente migliorista di allora, guidata dall’ex capo dello stato, Giorgio Napolitano, accolse la durissima critica berlingueriana alla degenerazione del sistema dei partiti, Pci incluso.
Eravamo negli anni’80 e non a caso la vicenda operaia della Fiat, la battaglia sulla scala mobile e l’esplodere della questione morale tenevano insieme i ragionamenti di Berlinguer verso quell’alternativa di sinistra che, nel momento del craxismo trionfante, la prematura fine non gli consentì di mettere in atto. La questione immorale come “questione democratica” torna, nel Pd di Renzi, a essere derubricata come l’espressione del “tafazzismo” delle minoranze che non si rassegnano a spingere il carro del vincitore. Che, tuttavia, non sembra più tanto trionfante se si dà retta ai sondaggi che, settimana dopo settimana, sgonfiano la bolla elettorale delle ultime elezioni europee di maggio.
In ogni caso se le dimissioni di Cofferati sono rilevanti e rivelatrici del mutamento profondo e irreversibile della natura sociale del Pd, la domanda è: fino a quando le opposizioni interne si acconceranno al ruolo di innocue cassandre, di fiore all’occhiello del segretario?
E, a seguire, adesso può nascere in Italia una forza politica a sinistra che raccolga un consenso significativo, come quello di Syriza?
leader ma con tanti aspiranti al ruolo». Il manifesto, 18 gennaio 2015
Negli ampi spazi del Nuovo cinema Nosadella, esaurito in ogni ordine di posti per l’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras, può succedere anche di trovare nel retrobottega il poster di un film uscito la scorsa estate. Dimenticabile (a partire dalla coppia di protagonisti Barrymore/Sandler) ma con un titolo piuttosto aderente agli sviluppi della giornata: «Insieme per forza». Anche per amore. «Per tutti noi - ricorda fra gli applausi Panos Lamprou di Syriza - il movimento contro la globalizzazione è stato un insegnamento. E siamo convinti che la sinistra italiana possa sorprendere ancora il mondo».
Sarà un’impresa, nell’Italia del patto del Nazareno. Però ci sono fatti grandi e piccoli che contribuiscono a tenere accesa la fiamma della speranza. Non solo le elezioni greche e i sondaggi spagnoli. C’è ad esempio la presenza qui a Bologna del senatore ex pentastellato Francesco Campanella. E c’è l’addio di Sergio Cofferati al Pd. Il segretario confederale del Circo Massimo, dei tre milioni in piazza con le bandiere della Cgil per difendere l’articolo 18, agli occhi dell’assemblea certifica con la sua decisione la rottura finale fra il mondo del lavoro e il suo partito di riferimento. «C’è grande emozione in sala - sintetizza il bolognese Sergio Caserta - certo l’avesse fatto dieci anni fa…». E Nanni Alleva, neo consigliere regionale dell’Altra Emilia Romagna, amplifica il concetto: «E’ l’ultima dimostrazione del fatto che il Pd è un posto infrequentabile. Anche un politico navigato come Cofferati alla fine si è trovato di fronte a una situazione impossibile. Ora l’importante è che molti italiani che si sono ’messi in sciopero’, non votando, capiscano che c’è un’alternativa: la sinistra. Unita».
«Cofferati – osserva sul punto Curzio Maltese – è l’unico che ha tratto le conseguenze del fatto che nel Pd esiste una questione morale e, subito dopo, una questione politica. Berlinguer avrebbe detto che ’esiste una questione morale nel partito democratico’: basti pensare alla Liguria, all’Expò, alla Tav, allo scandalo del 3%». Quanto alla questione politica, è l’intervento introduttivo della giornata di Marco Revelli a segnalarla puntualmente: «In Italia si è riaperto il conflitto sociale: nel milione di piazza San Giovanni, nello sciopero generale, nello sciopero sociale. E in questi mesi si è anche consumata una frattura storica, fra il mondo del lavoro e il partito che storicamente ne raccoglieva le istanze. Un partito che oggi invece partecipa alla manomissione della Costituzione democratica, e all’attacco al lavoro».
Revelli riassume anche il compito dell’Altra Europa: «Costruire una casa comune, accogliente, della sinistra. E un nuovo linguaggio. Perché da decenni la sinistra ha smarrito il suo, anzi ha assunto quello del neoliberismo». Il sociologo torinese è fra i primi firmatari del manifesto «Siamo a un bivio» presentato ai 700 partecipanti all’assemblea, fra i quali si notano Franco Turigliatto e Antonio Ingroia. A firmare anche Paolo Cento: «L’abbiamo sottoscritto dopo una discussione nel partito — spiega il presidente dell’assemblea di Sel - perché vanno valorizzati gli sforzi di lavorare in un processo politico, aperto e innovativo, ’della sinistra e dei democratici italiani’. Tanti che sono qui oggi saranno anche a Human Factor. E noi pensiamo di poter dare il nostro contributo, ritenendoci importanti ma non certo esclusivi, per allargare lo sguardo e gli spazi a sinistra».
Molti ma non tutti firmano il «manifesto Revelli», che pone la scadenza di una nuova assemblea a marzo per avviare il futuro percorso della forza politica, con chi aderirà, sul duplice binario locale e nazionale. Non firma Barbara Spinelli che dà voce a un gruppo di comitati locali, critici verso quelle che giudicano lentezze eccessive nel processo costituente di un nuovo partito. I giovani under 35 di Act battono invece il tasto del completo rinnovamento del comitato operativo dell’Altra Europa. Sul punto la discussione va avanti per l’intera giornata, e proseguirà anche oggi.
«L'anticipazione. "Governare non significa avere il potere. Siamo all’inizio di un processo di lotta. Come in Brasile col Pt, dobbiamo cercare di mantenere la coesione sociale". Tsipras tratteggia le caratteristiche di un potenziale governo di sinistra: "Ci saranno grandi trasformazioni e la priorità, in questo momento, è la fine dell’austerità».
Il manifesto, 14 gennaio 2015
Teodoro Andreadis Synghellakis, greco ma quasi dalla nascita residente in Italia dove i suoi genitori si erano rifugiati durante la dittatura, ha scritto un libro – Alexis Tsipras. La mia sinistra – che contiene una assai interessante intervista con il leader di Siryza che qui si sofferma soprattutto sulla natura del nuovo partito che la sinistra greca ha saputo darsi.
La prefazione al volume - che sarà nelle librerie da giovedì 15 - è di Stefano Rodotà e contiene anche i giudizi di un certo numero di protagonisti della politica italiana. Ve ne diamo, in anteprima, alcuni stralci.
Il rafforzamento della sinistra è ancora un processo in divenire?
Dovremo sempre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di suscitare tra i nostri sostenitori una presa di coscienza sempre più democratica, radicale, progressista. Non possiamo permetterci il lusso di ignorare il fatto che gran parte della società greca, e anche una percentuale di nostri sostenitori, abbiano assorbito idee conservatrici; che c’è stato un tipo di progresso il quale aveva come punto di riferimento la conservazione.
Dobbiamo, inoltre, separare il significato che ha un governo della Sinistra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sinistra. Il potere è una cosa più complessa, che non viene esercitata solo da chi governa. È qualcosa che ha a che fare anche con le strutture sociali, con chi controlla i mezzi di produzione. Noi rivendicheremo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posizione di forza – a quella grande battaglia ideologica e anche sociale che porterà a cambiamenti e trasformazioni i quali daranno il potere alla maggioranza dei cittadini, sottraendolo alla minoranza.
Ma la gente deve comprendere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non significa automaticamente che il potere passerà al popolo. Significa, invece, che inizierà un processo di lotta, un lungo cammino che porterà anche a delle contrapposizioni - un cammino non sempre lineare - ma che verrà sicuramente caratterizzato dal continuo sforzo di Syriza per riuscire a convincere delle forze ancora più vaste, per accrescere la sua dinamica maggioritaria ed il consenso verso il suo programma, con l’appoggio di forze sociali sempre più ampie.
Tutto questo, per riuscire a compiere passi in avanti assolutamente necessari. Sto descrivendo un cammino che in questo periodo, seguono molti partiti e governi di sinistra in America Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risultare estranea alla quotidianità europea. So bene che la grande domanda che provoca un interesse cosi forte nei nostri confronti, è come tutto ciò potrà diventare realtà nel contesto della globalizzazione e all’interno dell’Unione Europea, visto che la Grecia non è un giocatore solitario.
C’eravamo schierati, ritrovati tutti a Sinistra - anche io, ovviamente - avevamo accettato e sostenuto un modo di vita, che aveva a che fare, principalmente, con la resistenza, con la denuncia ed un approccio teorico tendente ad una società “altra”. Non c’eravamo confrontati, però, con il bisogno pratico di aggiungere ogni giorno un piccolo mattone per poter costruire questa società di cui parlavamo, specie in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Se domani Syriza sarà chiamata a governare, sarà obbligata ad affrontare una situazione sociale, una realtà drammatica: la disoccupazione reale al 30%, una povertà diffusa, una base produttiva praticamente distrutta. E si tratterà – fuor di dubbio – di una scommessa enorme, anche questa di portata storica.
Si potrebbe dire che sarà una scommessa simile a quella del Brasile di Lula, quando venne eletto presidente. Noi, intendo la Sinistra nel suo complesso, dobbiamo cercare (senza trovarci nella difficilissima posizione e nel ruolo del capro espiatorio), di riuscire a mantenere la coesione dei gruppi sociali, all’interno di un progetto di ricostruzione produttiva, di democratizzazione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.
Guardando tutto ciò anche da fuori, si può guardare in questo momento a Syriza quasi come ad un caso unico, dal momento che non appartiene alla famiglia della socialdemocrazia, non si identifica nelle posizioni dei partiti tradizionalmente comunisti e sta cercando di tracciare una strada nuova, creando un spazio nuovo tra queste due grandi famiglie. Si potrebbe parlare di un esperimento che cerca di riformare le posizioni della Sinistra, tenendo insieme, appunto, i suoi “punti forti” e il bisogno di modernità?
Possiamo dire che è cosi, ma si tratta di un processo che è iniziato da metà degli anni Novanta, quando in Grecia è stata creata la Coalizione della Sinistra e del Progresso, Synaspismòs. Parliamo del periodo in cui, in Europa, una serie di partiti post comunisti - dopo la caduta del Muro di Berlino - cercavano di apporre il loro tratto ideologico e politico, andando oltre i confini della socialdemocrazia e della strada seguita sino ad allora dai partiti di area comunista. È in quel periodo che si è formato anche il Partito della Sinistra Europea che comprendeva e continua a comprendere anche alcuni partiti comunisti. Sono dei partiti, tuttavia, che hanno compiuto una seria autocritica riguardo al periodo stalinista ed hanno rinnovato il loro modo di interpretare ed elaborare la realtà. Tra i membri del Partito della Sinistra Europea, ovviamente, ci sono anche forze come Syriza, la coalizione in cui si è trasformato Synaspismòs.
Analizzando la cosa, qualcuno potrebbe dire che questo tratto ideologico è riuscito a raggruppare delle forze appartenenti a una Sinistra indebolita ed in disfacimento, che non riusciva a superare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta rivendicando la guida della Grecia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estremamente positiva il fatto che il nostro sia un partito giovane ma con alle spalle, tuttavia, una lunga tradizione. Le sue radici affondano nel secolo passato, ma quello che abbiamo, appunto, è un partito giovane. Altrettanto positivo è il fatto che non appartenga al blocco di forze le quali continuano a seguire l’ortodossia comunista, e che non faccia parte della famiglia socialdemocratica.
Stiamo parlando, ovviamente, di una socialdemocrazia che oggi è parte integrante della crisi in atto e che ha una grande responsabilità per lo stato in cui si è venuta a trovare l’Europa. È una socialdemocrazia “geneticamente modificata”, che ha adottato quasi tutti i credo neoliberisti. In questo senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri partiti della nuova Sinistra dell’Europa non portano sulle spalle il peso dei “peccati originali” di alcune forze che appartengono alla nostra tradizione. Contemporaneamente, non sono neanche responsabili dei grandi delitti perpetrati dalla socialdemocrazia nel periodo che stiamo vivendo.
Siamo in grado, cioè, di offrire una prospettiva più ampia, di catalizzare ed unire forze ancora maggiori, rispetto a quelle raggruppate, tradizionalmente, dalle forze del blocco socialista.
A chi è solito sottolineare che siamo un partito filoeuropeo - il quale comprende la situazione che si è venuta a creare con la realtà data della globalizzazione - ma non apparteniamo a nessuna grande famiglia politica dell’Europa, vorrei ricordare questo: nel 1981, anche il Partito Socialista del Pasok, di Andreas Papandreou, si trovava esattamente nella nostra stessa situazione: non apparteneva, in realtà, né all’Internazionale Socialista, né ai partiti socialdemocratici e neanche alla sinistra socialista.
Now, when we are all in a state of shock after the killing spree in the Charlie Hebdo offices, it is the right moment to gather the courage to think. We should, of course, unambiguously condemn the killings as an attack on the very substance our freedoms, and condemn them without any hidden caveats (in the style of "Charlie Hebdo was nonetheless provoking and humiliating the Muslims too much"). But such pathos of universal solidarity is not enough – we should think further.
Such thinking has nothing whatsoever to do with the cheap relativisation of the crime (the mantra of "who are we in the West, perpetrators of terrible massacres in the Third World, to condemn such acts"). It has even less to do with the pathological fear of many Western liberal Leftists to be guilty of Islamophobia. For these false Leftists, any critique of Islam is denounced as an expression of Western Islamophobia; Salman Rushdie was denounced for unnecessarily provoking Muslims and thus (partially, at least) responsible for the fatwa condemning him to death, etc. The result of such stance is what one can expect in such cases: the more the Western liberal Leftists probe into their guilt, the more they are accused by Muslim fundamentalists of being hypocrites who try to conceal their hatred of Islam. This constellation perfectly reproduces the paradox of the superego: the more you obey what the Other demands of you, the guiltier you are. It is as if the more you tolerate Islam, the stronger its pressure on you will be . . .
This is why I also find insufficient calls for moderation along the lines of Simon Jenkins's claim (in The Guardian on January 7) that our task is “not to overreact, not to over-publicise the aftermath. It is to treat each event as a passing accident of horror” – the attack on Charlie Hebdo was not a mere “passing accident of horror”. it followed a precise religious and political agenda and was as such clearly part of a much larger pattern. Of course we should not overreact, if by this is meant succumbing to blind Islamophobia – but we should ruthlessly analyse this pattern.
What is much more needed than the demonisation of the terrorists into heroic suicidal fanatics is a debunking of this demonic myth. Long ago Friedrich Nietzsche perceived how Western civilisation was moving in the direction of the Last Man, an apathetic creature with no great passion or commitment. Unable to dream, tired of life, he takes no risks, seeking only comfort and security, an expression of tolerance with one another: “A little poison now and then: that makes for pleasant dreams. And much poison at the end, for a pleasant death. They have their little pleasures for the day, and their little pleasures for the night, but they have a regard for health. ‘We have discovered happiness,’ - say the Last Men, and they blink.”
It effectively may appear that the split between the permissive First World and the fundamentalist reaction to it runs more and more along the lines of the opposition between leading a long satisfying life full of material and cultural wealth, and dedicating one's life to some transcendent Cause. Is this antagonism not the one between what Nietzsche called "passive" and "active" nihilism? We in the West are the Nietzschean Last Men, immersed in stupid daily pleasures, while the Muslim radicals are ready to risk everything, engaged in the struggle up to their self-destruction. William Butler Yeats’ “Second Coming” seems perfectly to render our present predicament: “The best lack all conviction, while the worst are full of passionate intensity.” This is an excellent description of the current split between anemic liberals and impassioned fundamentalists. “The best” are no longer able fully to engage, while “the worst” engage in racist, religious, sexist fanaticism.
However, do the terrorist fundamentalists really fit this description? What they obviously lack is a feature that is easy to discern in all authentic fundamentalists, from Tibetan Buddhists to the Amish in the US: the absence of resentment and envy, the deep indifference towards the non-believers’ way of life. If today’s so-called fundamentalists really believe they have found their way to Truth, why should they feel threatened by non-believers, why should they envy them? When a Buddhist encounters a Western hedonist, he hardly condemns. He just benevolently notes that the hedonist’s search for happiness is self-defeating. In contrast to true fundamentalists, the terrorist pseudo-fundamentalists are deeply bothered, intrigued, fascinated, by the sinful life of the non-believers. One can feel that, in fighting the sinful other, they are fighting their own temptation.
It is here that Yeats’ diagnosis falls short of the present predicament: the passionate intensity of the terrorists bears witness to a lack of true conviction. How fragile the belief of a Muslim must be if he feels threatened by a stupid caricature in a weekly satirical newspaper? The fundamentalist Islamic terror is not grounded in the terrorists’ conviction of their superiority and in their desire to safeguard their cultural-religious identity from the onslaught of global consumerist civilization. The problem with fundamentalists is not that we consider them inferior to us, but, rather, that they themselves secretly consider themselves inferior. This is why our condescending politically correct assurances that we feel no superiority towards them only makes them more furious and feeds their resentment. The problem is not cultural difference (their effort to preserve their identity), but the opposite fact that the fundamentalists are already like us, that, secretly, they have already internalized our standards and measure themselves by them. Paradoxically, what the fundamentalists really lack is precisely a dose of that true ‘racist’ conviction of their own superiority.
The recent vicissitudes of Muslim fundamentalism confirm Walter Benjamin's old insight that “every rise of Fascism bears witness to a failed revolution”: the rise of Fascism is the Left’s failure, but simultaneously a proof that there was a revolutionary potential, dissatisfaction, which the Left was not able to mobilize. And does the same not hold for today’s so-called “Islamo-Fascism”? Is the rise of radical Islamism not exactly correlative to the disappearance of the secular Left in Muslim countries? When, back in the Spring of 2009, Taliban took over the Swat valley in Pakistan, New York Times reported that they engineered "a class revolt that exploits profound fissures between a small group of wealthy landlords and their landless tenants". If, however, by “taking advantage” of the farmers’ plight, The Taliban are “raising alarm about the risks to Pakistan, which remains largely feudal,” what prevents liberal democrats in Pakistan as well as the US to similarly “take advantage” of this plight and try to help the landless farmers? The sad implication of this fact is that the feudal forces in Pakistan are the “natural ally” of the liberal democracy…
So what about the core values of liberalism: freedom, equality, etc.? The paradox is that liberalism itself is not strong enough to save them against the fundamentalist onslaught. Fundamentalism is a reaction – a false, mystifying, reaction, of course - against a real flaw of liberalism, and this is why it is again and again generated by liberalism. Left to itself, liberalism will slowly undermine itself – the only thing that can save its core values is a renewed Left. In order for this key legacy to survive, liberalism needs the brotherly help of the radical Left. THIS is the only way to defeat fundamentalism, to sweep the ground under its feet.
To think in response to the Paris killings means to drop the smug self-satisfaction of a permissive liberal and to accept that the conflict between liberal permissiveness and fundamentalism is ultimately a false conflict – a vicious cycle of two poles generating and presupposing each other. What Max Horkheimer had said about Fascism and capitalism already back in 1930s - those who do not want to talk critically about capitalism should also keep quiet about Fascism - should also be applied to today’s fundamentalism: those who do not want to talk critically about liberal democracy should also keep quiet about religious fundamentalism.
Una piattaforma chiara per una nuova politica di sinistra, indispensabile per uscire compiutamente dalla crisi strutturale che ci sta affogando, possibile solo se ciascuno riuscirà a uscire dal proprio guscio.
Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015
Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.
Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.
Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.
Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.
Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.
Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).
In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.
Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?
O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.
Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.
Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.
Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.
Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.
Raffaele D’Agata