Quando Renzi pretende (proprio lui!) di essere l'unico a poter rivendicare l'uso di quella parola esprime il più arcaico dei modelli della vecchia sinistra. Che la nuova sinistra trovi la bussola per non ricadere nell'errore.
La Repubblica, 31 marzo 2015
La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.
Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.
Un'analisi riferita alla situazione francese, ma perfettamente calzante per l'Italia e l'Europa. In estrema sintesi, la risposta al titolo è questa: il popolo tradisce la "sinistra" perché la sinistra non c'è.
La Repubblica, 30 marzo 2015
PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.
Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.
Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.
Traduzione di Fabio Galimberti
«Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustizia sociale. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?».
Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla
Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.
Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.
Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.
In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.
Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.
Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.
Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.
Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?
Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.
Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.
L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)
presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.
Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.
Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.
Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.
Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.
L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.
Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.
Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?
postilla
Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?
«Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della 'Biennale Democrazia' di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea».
Il manifesto, 26 marzo 2015
Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali. Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea. Non un «radicale» dunque, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Postdemocrazia, entrambi pubblicati da Laterza - sono stati considerati una corrosiva critica del neoliberismo. Colin Crouch sarà ospite della «Biennale Democrazia».
Sono anni che la discussione sulla democrazia occupa un posto rilevante nella riflessione di filosofi, economisti, sociologi. Lei ha scritto diffusamente di regimi politici postdemocratici, caratterizzati da un paradosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e politici acquisita dalla modernità, ma i centri decisionali sono caratterizzati da logiche che difficilmente possono essere sottoposte al controllo dei cittadini. Stiamo cioè assistendo a una cambiamento della forma-stato. Può spiegare cosa intende per postdemocrazia?
Parallelamente alla discussione della democrazia, c’è quella sul «deperimento» dello stato-nazione, vista la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, come l’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale, il Wto o la Banca mondiale. Eppure assistiamo a una superfetazione dell’intervento statale in termini di norme amministrative che regolano la vita dei singoli. In Inghilterra, ciò è stato qualificato come «politica della vita». Da una parte dunque, perdita della sovranità, dall’altra aumento delle sfere di intervento dello Stato. Come vede lei questa situazione?
Il "deperimento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono complesse. Alla luce della globalizzazione, un fenomeno che ritengo positivo, abbiamo bisogno di trascendere lo stato-nazione, perché è un modo di organizzare e gestire la vita pubblica inadeguato rispetto i compiti politici che abbiamo di fronte. Abbiamo bisogno di queste istituzioni sovranazionali. Più che abolirle dobbiamo però lavorare a una loro democratizzazione. Questo vale anche per l’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direculer pour mieux sauter, come dicono i francesi, cioè di arretrare un po’ per meglio compiere un balzo in avanti. È infine vero che la politica nazionale ormai si interessa, forse troppo, delle piccole cose, in una miscela di superfetazione degli interventi sulla vita dei singoli e incapacità di fronteggiare i problemi derivanti dalla globalizzazione».
L’Europa politica e sociale è l’oggetto del desiderio del riformismo socialdemocratico europeo. Tuttavia, l’Europa sembra essere un laboratorio sociale e politico di un neoliberismo in crisi, certo, ma ancora abbastanza forte da definire draconiane politiche di austerità. Cosa nel pensa della situazione europea?
C’è stata sempre una tensione nella politica europea tra il neoliberalismo e una politica sociale, con una egemonia del primo aspetto. D’altronde non possiamo dimenticare che il progetto iniziale era di fare un mercato comune. Ma la «mercatizzazione», benché porta alcuni vantaggi, produce danni sociali. Da questo punto di vista la definizione di politiche sociali è indispensabile per riparare i «danni» prodotti dalle politiche neoliberali. Per sintetizzare: più si diffonde la «mercatizzazione», più deve crescere l’impegno per sviluppare interventi politico-sociali per stabilirne limiti e argini. Questo è accaduto, seppur parzialmente, durante i lavori delle commissioni europee presiedute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilanciamento» che può essere esercito da parte della politica. È questo un aspetto del trionfo della postdemocrazia. Affinché si sviluppi un’Europa sociale servono proteste e mobilitazioni dei cittadini. Solo in questo modo i governi, le banche e le altre istituzioni (sia nazionali, che europee che internazionali) potranno cambiare la loro agenda».
In tutto il mondo sono cresciute le diseguaglianze sociali. Anche questo rimette in discussione la democrazia. È come se nei gloriosi, meglio sarebbe dire infausti trenta anni di neoliberismo ci sia stato uno spostamento rilevante di potere nella società. Poche centinaia di migliaia di persone hanno redditi e poteri di gran lunga superiore a quelli della maggioranza della popolazione. Lei ha scritto un saggio su questo elemento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di questa tendenza alla crescita delle crescita delle disuguaglianze sociali?
Questo è il tema al centro delle analisi non solo di studiosi autorevoli come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ma anche di organismi come l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale. Dalle loro analisi emerge un elemento comune: il negativo impatto economico dovuto alla crescita delle disuguaglianze. Concordo però con Stiglitz quando afferma che ci sono anche aspetti politici scaturiti dalle disuguaglianze sociali. Il principale è che la ricchezza economica può trasformarsi in potere politico; il quale, a sua volta, può essere usato per acquisire ulteriori vantaggi economici. Ma sta a noi interrompere questa spirale alimentata dalla «crescita incardinata sulla crescita delle disuguaglianze sociali».
Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Alessandro Pizzorno, è pervaso dalla convinzione che il conflitto di classe avesse portato a compimento la definizione dei diritti sociali di cittadinanza. Uscì quando era cominciato a spirare il vento neoliberista. Da allora i diritti sociali di cittadinanza sono stato il bersaglio preferito di molte politiche in Europa, mentre la precarietà ha fatto crescere a dismisura l’esercito dei «working poor», che hanno bassi salari e pochissimi diritti. Come vede la situazione dei rapporti di lavoro nel capitalismo?
Il declino dei sindacati - causato principalmente dal declino della gran industria e la crescita dei settori postindustriali non organizzati - ha reso più facile un attacco contro i diritti sociali di cittadinanza. Ora però è importante capire i cambiamenti nel lavoro. Le conquiste operaie e sindacali degli anni Settanta hanno come sfondo un’economia industriale, che non è ovviamente scomparsa, ma è tuttavia segnata da una sistematica condizione «congiunturale» dovuta ai continui e repentini mutamenti nell’economia. Prendiamo, ad esempio, l’articolo 18 del vostro Statuto dei lavoratori. È una norma pensata e valida in un preciso contesto storico-produttivo tesa a garantire alcuni diritti dei lavoratori, come ad esempio il licenziamento ingiustificato. L’esito delle profonde e drammatiche trasformazioni economiche è la «sparizione» di interi settori produttivi in alcuni paesi europei. Da qui la necessità di elaborare nuove tipologie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavoratori sono costretti a vivere periodi più o meno lunghi di disoccupazione, hanno bisogno di un compenso generoso per continuare a vivere. Allo stesso tempo devono accedere a corsi di formazione professionale finalizzati a trovare un nuovo lavoro. Politiche di questo tipo sono particolarmente deboli in Italia. I sindacati, più che attestarsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovrebbero attivarsi anche per lo sviluppo di politiche del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limitarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe sviluppare nuovi diritti adeguati per l’economia attuale».
Nel suo ultimo libro tradotto in Italia - Quanto capitalismo può sopportare la società - lei scrive diffusamente sulla «socialdemocrazia assertiva». Cosa intende con questa espressione?
In ogni paese europeo, i socialdemocratici sono attestati su una posizione difensiva. Credono che il trionfo del mercato e del neoliberalismo li abbiano ridotti a dinosauri in via di estinzione o a pezzi da museo. Ritengo che per i socialdemocratici si aprono nuove e inedite strade politiche da percorrere. Come ho già detto, il mercato crea problemi sociali; è proprio in questa situazione di potere del mercato che abbiamo bisogno delle politiche sociali della socialdemocrazia. Il potere del mercato, delle grandi e spesso globali imprese più mercato, la crescita delle disuguaglianze sociali prevedono la forte presenza della socialdemocrazia che può rappresentare gli interessi sociali, civili, culturali di chi è penalizzato dall’egemonia dell’economia di mercato. Certo, dovrebbe essere una socialdemocrazia innovativa, nel senso di una democrazia «femminilizzata» e verde. Il neoliberalismo non può infatti riuscire a risolvere i problemi sociali e di svuotamento della democrazia creati proprio del neoliberalismo».
«La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia».
Il manifesto, 26 marzo 2015
Che cosa significa “coalizione sociale”? Il susseguirsi delle precisazioni e dei distinguo indica che la risposta non è semplice né univoca. Di certo il nome non è conseguenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indicherebbero piuttosto una società poco incline alle coalizioni, tutt’ora pervasa da pulsioni corporative saldamente radicate nella sua storia, attraversata da conflitti che faticano a parlarsi e riconoscersi a vicenda. Se non si tratta di una formula generica da spendersi nelle dispute interne ai contesti politici canonizzati per ridefinirne gli equilibri, tuttavia, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tardiva, delle trasformazioni che hanno investito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rapporti sociali, delle prospettive di vita individuali e collettive.
Il problema che l’idea stessa di “coalizione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una soggettività politica all’altezza dei tempi. La quale precede, e spesso contraddice, il tema, ampiamente screditato dalle poco brillanti avventure elettorali, parlamentari e convegnistiche dell’agognato “nuovo soggetto politico”. Una “soggettività politica” è, in primo luogo, un modo di guardare alle cose e di relazionarsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.
Il fatto che mette in gioco l’idea della “coalizione sociale”, a prescindere dalle forme che potrà assumere e dalle sue possibilità di successo, è l’indiscutibile indebolimento della prospettiva sindacale. Insidiata su due fronti principali. Il più evidente è quello del lavoro intermittente e precario, del lavoro autonomo impoverito, e del “non lavoro” produttivo ma a reddito zero che non solo lo statuto degli anni’70, ma l’intera cultura sindacale e la sua organizzazione per categorie non abbraccia, non contempla e nemmeno capisce. Avendo lungamente coltivato l’idea, ingenua a voler essere clementi, che si trattasse di una “anomalia” provvisoria destinata ad essere riassorbita nel lavoro a tempo indeterminato. Un atteggiamento, questo, che ha agevolato quanti giocavano il precariato, senza peraltro tutelarlo in alcun modo, contro l’”egoismo” degli occupati. Con un discreto successo di pubblico.
È in questo contesto di radicale mutamento e commistione delle condizioni lavorative ed esistenziali che hanno cominciato a svilupparsi, per approssimazione, concetti come quello di “sindacalismo sociale” e strumenti di lotta, ancora piuttosto indistinti, come lo “sciopero sociale”. Alla ricerca di una soggettività politica che faccia dello “stare in società”, meglio del “produrre società” il teatro di un agire efficace, che cancelli il confine, scomparso nei fatti, ma persistente nella dottrina, tra dimensione sindacale e dimensione politica. Questa divisione dei compiti tra partito e sindacato risale a una impostazione antropologica fondata sulla distinzione tra l’immediatezza dei bisogni e la lungimiranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tradizione socialista) o sulla capacità “professionale” di tenere in equilibrio interessi contrastanti proteggendo adeguatamente l’ordine proprietario (per quanto riguarda il parlamentarismo liberale). Su un’idea di soggettività, dunque, quella proletaria e quella borghese, che dovevano essere “completate” da una guida “specializzata”, dagli strateghi della classe di appartenenza.
Su questa prospettiva incombono, tuttavia, due probabili derive. La prima è quella di una sommatoria di associazioni e soggetti collettivi gelosi delle rispettive identità, ma accomunati dalla denuncia di una politica divenuta “asociale” e ostile ai segmenti più deboli della società. Qualcosa di non molto dissimile dal mito della “società civile” in cui defluì il movimento altermondialista dei primi anni 2000 con l’esperienza, presto trasformatasi in “alterparlamentare”, dei social forum. Ma senza lo slancio, l’azzardo e l’entusiasmo che caratterizzarono quegli anni. Una “coalizione”, insomma, nella quale obiettivi apprezzabili e settori specifici di intervento sociale e politico si affianchino senza però stabilire nessi cogenti. Nella quale interessi comuni e reciproche indifferenze convivano in una condizione fragile e sostanzialmente instabile tenuta insieme da occasionali mobilitazioni.
La seconda deriva possibile, di segno contrario, è una pretesa di sintesi, l’aspirazione a istituire una rappresentanza dei movimenti intesi come semplici portatori di “istanze” che altri dovranno poi trasformare in programma politico. In poche parole, una restaurazione, in altri termini, della divisione di compiti e dei rapporti gerarchici tra la dimensione politica e quella sindacale.
Come sfuggire a queste alternative fallimentari resta un problema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comunque si voglia chiamare la direzione in cui muovere, “coalizione sociale”, “nuovo soggetto politico” o “sindacalismo sociale”, non basterà affiancarsi come una sorta di “terzo settore” alla sfera della politica e a quella del sindacato lasciandone intatti poteri e dispositivi di perpetuazione. Quando si tratta di reinventare la politica bisognerà pure entrare in rotta di collisione con le forze che si sono insediate al suo posto.
La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movimenti lo è. Ma se non riusciranno, in un modo o nell’altro, a entrare in relazione con la dimensione politica (forza, efficacia, durata, organizzazione) non è fuori luogo profetizzare, anche in questo caso, una soluzione a destra: quella neocorporativa.
«Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica».
La Repubblica, 25 marzo 2015
l manifesto, 22 marzo 2015
La crisi dei sindacati, e l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, sono le cause principali delle diseguaglianze economiche e della manipolazione del sistema politico ed economico da parte di chi possiede una quota maggiore di capitali. È quanto emerge da uno studio in via di pubblicazione sulla rivista «Finance & Development» delle economiste del Fondo monetario Internazionale Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron.
La ricerca, intitolata «Power from the people» e ispirata alla canzone di John Lennon «Power to the people», esamina diverse misure dell’iniquità (dalla quota di reddito del 10% più ricco della popolazione all’indice di Gini) per i paesi ad economia avanzata dal 1980 al 2010. La tesi, ispirata agli studi del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, sostiene che «l’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, e aumenta la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro».
Una crisi, quella dei sindacati, che si riflette anche nel calo degli iscritti, pari al 50% nel lungo trentennio della contro-rivoluzione neoliberista. Venuto meno il potere sociale, e la relativa capacità di negoziazione sul salario, così come i numeri che permettevano ai sindacati di fare pressione sul capitale e i governi al fine di ottenere una moderata redistribuzione del plusvalore in eccesso, dal 1980 i redditi si sono concentrati verso l’alto: il 5% in più è finito nelle mani del 10% della popolazione più ricca nei paesi avanzati. Anche considerando l’impatto della tecnologia, della globalizzazione, della liberalizzazione finanziaria e del fisco, per Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron i risultati confermano che «il declino della sindacalizzazione è fortemente associato con l’aumento della quota di reddito» nelle mani dei ricchi.
L’analisi di Jaumotte e Osorio Buitron si concentra anche sugli strumenti che possono modificare la distribuzione dei redditi verso le classi lavoratrici e il ceto medio, i due principali settori vittime degli effetti del neoliberismo. La lotta contro la «dispersione dei redditi, la disoccupazione e per la redistribuzione» può rinascere attraverso una nuova ondata di sindacalizzazione, la creazione di un salario minimo. La generalizzazione del salario minimo a livello internazionale non aumenta la disoccupazione, come invece sostiene una fitta schiera di economisti, ma permette di contenerla, sostengono le ricercatrici. Le soluzioni suggerite da Jaumotte e Osorio Buitron sono quelle tradizionali fordiste. Quella più importante consiste nel restaurare il ruolo del sindacato come «mediatore sociale» universale e la sua identità di «cinghia di trasmissione» con i partiti politici. «Sindacati più forti – scrivono – possono mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di redistribuire il reddito».
Una tesi che ha suscitato una reazione entusiasta di Furlan (Cisl): «Il sindacato è fondamentale per la crescita». Barbagallo (Uil): «Bisogna lottare innanzitutto per difendere il potere d’acquisto di salari e pensioni e, inoltre, per evitare una riduzione delle tutele, dei diritti e delle protezioni». Camusso (Cgil) ha sostenuto: «Quando il sindacato è presente, i risultati di protezione economica sono molto maggiori di qualsiasi altro strumento, sia esso il reddito di cittadinanza o il salario minimo deciso dalla politica». Una pietra tombale sul tentativo (anche di una parte della sinistra e dei movimenti sociali, oltre che dei Cinque Stelle) di istituire un reddito minimo in Italia.
Questo non è l’unico paradosso di uno studio proveniente dall’Fmi, cioè il principale attore della globalizzazione neoliberista, che riscuote il consenso tra i sindacati che ne sono stati le principali vittime. Si scopre che le ricette consigliate sono più avanzate di quelle dei sindacati per i quali, al momento, il salario minimo non rientra nella contrattazione. Si tratta di un equivoco indotto anche dalla ricerca di Jaumotte e Osorio Buitron per le quali i corpi intermedi possono essere restaurati come se la crisi della forma sindacato fosse stata indotta dall’esterno, e non anche per motivi storici ed endogeni.
L’obiettivo di «riaffermare standard del lavoro che permettano a lavoratori motivati di negoziarli collettivamente» potrà essere raggiunto a condizione che una nuova forma della «negoziazione» sociale includa precari, lavoratori indipendenti o intermittenti non sindacalizzabili secondo le regole che proteggono solo il lavoro salariato. Anche a questo servono strumenti come il salario minimo o il reddito di bas
Due temi importanti, maltrattati dal governo (e trascurati dal Parlamento): il rapporto tra politica e struttura burocratica dello Stato e dimensione politica dell'Unione europea.
La Repubblica, 22 marzo 2015
Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacchè. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell’elenco dei Paesi “virtuosi” noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all’ultimo posto in quella europea perché in quest’ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell’Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l’anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel ‘96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.
L’attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. «Non c’è attenzione che quando si ha fame/ non c’è guardiano attento se non dorme/ non c’è tranquillità senza paura /non c’è una fede senza infedeltà». Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.
***
Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d’alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.
Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro po- sti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d’età.
In apparenza qualche cosa di buono c’è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l’apparenza della sua sovranità e diventa plebe.
Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.
Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su La politica e la pubblica amministrazione. La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L’applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai “grand commis” cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.
Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l’interesse legittimo dei cittadini inquinasse l’amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.
Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L’effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.
Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente.
Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.
L’Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c’è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l’Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.
Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall’uscita dall’euro.
Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d’Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.
Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un’apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.
Per uscire dalla crisi,sul tema cruciale del lavoro occorre rovesciare il punto di vista di Renzi : partire il punto di vista dei lavoratori, non quello delle imprese. Articoli di Grazia Naletto, Claudio Gnesutta e Giulio Marcon.
Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2015
TORNIAMO AL LAVORO
di Grazia Naletto
Workers act/Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0
Un miliardo e 508 milioni di euro. È l'ammontare dell'evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, INPS e INAIL nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.
Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?
Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l'economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l'unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la "competitività" del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese.
E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell'attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell'ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa.
Servirebbe un Workers Act.
Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neo-liberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.
Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro.
Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c'è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.
Significa non rimuovere l'urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione.
Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.
Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano.
Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un'occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l'hanno già o perché non lo hanno ancora.
UN WORKERS ACT PER USCIRE DALLA CRISI
di Claudio Gnesutta
Workers act/Un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro e un welfare universalistico. Perchè quello di cui c'è bisogno è l’esigenza che di garantire a tutti un’attività che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa
Oggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati “ufficiali”; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Job Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Basti pensare che il CNEL stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1 % (scenario ritenuto “ottimista”) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con “l’aria nuova” di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima generazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale.
Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché – data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misura, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.
Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.
Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.
UN NEW DEAL O IL DISASTRO
Di Giulio Marcon
Workers act/Il governo Renzi non esce fuori dal dogma del mercato capace di autoregolarsi. Senza politiche pubbliche la crisi non finisce
Una volta – per essere competitivi – si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme “strutturali” cui Renzi affida la speranza di rilanciare l'occupazione e l'economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l'esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Né queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull'economia. Proprio nel DEF si dice che l'impatto del Jobs Act sul PIL sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent'anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.
L'assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno “sostitutivi”, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell'economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c'è una politica industriale, non c'è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c'è una politica del lavoro.
Non c'è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell'offerta, dove – per quel che ci riguarda – non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati ISTAT ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L'idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all'ottocento, anche se “2.0”. Un lavoro senza qualità porta con sé una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di “competere”. Un'impresa che si serve del lavoro “usa e getta”, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, “piccole opere”, ecc.) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente – nella creazione di posti di lavoro, attraverso un'agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosevelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti “pazienti” (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell'innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell'orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell'inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.
La nostra politologa preferita ci regala un'illuminante analisi del regime verso il quale, a colpi di frusta, ci avviamo. Segnaliamo in particolare il suo scritto a chi ancora nutre qualche illusione sulla democraticità del piccolo Cesare, oppure tarda a staccarsene.
Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).
Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione
di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.
Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non barare al gioco e non cambiare le regole in corso d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future consultazioni e senza far saltare il banco.
Il governo rappresentativo vuole un consenso delle norme e delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.
La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.
Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.
Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà stava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro
prio come quando descrisse il destino bonapartista della Repubblica francese del 1848, nel contesto della trasformazione globale del capitale. L’Italia microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce- nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere la revisione cesaristica della Costituzione del 1948. La Costituzione è un nobile compromesso tra par ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.
La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.
La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.
E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.
È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.
Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.
Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.
Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.
«E sarà stridente ascoltare, dopo questa vicenda, le retoriche invocazioni sull’Europa di pace e prosperità. Anche questa è una guerra. Con vittime umane». Non una guerra, un suicidio collettivo.
Il manifesto, 13 marzo 2015
«Gliela faremo pagare». In questa frase che le cronache sull’ultima riunione dell’Eurogruppo ci rimandano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni questione di merito, è evidente che a Bruxelles si sta giocando una partita politica di massima importanza e che ci riguarda: bisogna punire chi, per la prima volta in 58 anni di storia, ha osato sfidare i vertici dell’Unione europea e ha messo in discussione i criteri di conduzione di quella che dovrebbe essere una comunità. Questo è quel che conta: non deve più accadere, chi ci ha provato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla politica. Cioè alla condivisione.
Perciò il signor Jeroen Dijssebloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci bastano, ne vogliamo venti. La prossima volta diranno 25, chissà. Contro Varoufakis ci sono diciassette robot che continuano a chiedere al governo Tsipras, forte di un appoggio popolare senza precedenti, di pagare per le malefatte accumulate da chi sarà pur greco, ma è compagno di partito, e di casta, proprio di chi vorrebbe impartire lezioni di moralità: i ministri del governo Samaras. Proprio nelle stesse ore in cui questa scena andava in onda uno di loro, anzi il più importante perché l’ex ministro delle Finanze, Gikas Hardouvelis, veniva accusato di aver esportato illegalmente 450 mila euro in un paradiso fiscale inglese. «Volevo mettere al sicuro il capitale per i miei figli», si è scusato. Poveretto.
Non sono passati neppure due mesi da quando inediti personaggi, diversissimi da chi da sempre aveva comandato il paese, hanno preso le redini della Grecia, trovandosi a dover gestire un immane disastro economico e ormai umanitario. Ma la meravigliosa Europa non è disponibile a dargli tempo affinché possano riparare e riavviare lo sviluppo del paese, nonostante sempre più numerosi siano gli avvertimenti di economisti europei ed americani, che invitano Bruxelles a ragionare anziché ad emettere editti imperiali.
La partita in atto è durissima. Del resto sapevamo che così sarebbe stato. Ma è stato fondamentale avere accettato la sfida. Per la Grecia e per tutti noi che vorremmo un’altra Europa. Finalmente la grande questione di cosa voglia dire essere una comunità, che è cosa diversa da un mercato, è stata posta sul tappeto. Non si potrà più nasconderla sotto. E sarà stridente ascoltare, dopo questa vicenda, ripetere le retoriche invocazioni sull’Europa che ha portato pace e prosperità. Anche questa in corso è una guerra. Con le sue vittime umane.
Ci sono perplessità, e anche critiche per come Varoufakis e Tsipras hanno condotto le cose? Sì, certo. Provenienti dal loro stesso partito e Consiglio dei ministri. È comprensibile. Credo però che esse siano ingiuste. Si tratta di una guerra di lunga durata, non di una rapida e conclusiva battaglia, destinata a conoscere arretramenti e passi in avanti, per molti versi una vera guerriglia. Ma bisogna tenere i nervi saldi: i risultati non possono esser misurati nell’immediato, è già una vittoria aver imposto un nuovo discorso, aver aperto contraddizioni (che nonostante l’apparente unità del fronte di Bruxelles già emergono), aver forse, anche questo per la prima volta, animato un movimento popolare davvero europeo in solidarietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già molto. Ha dato coraggio a tutti. Per questo ringraziamo i compagni di Syriza e li invitiamo a continuare.
Una giornata memorabile. Con tristezza per oggi, e timore per domani.Articoli di Massimo Villone, Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi.
Il manifesto, 11 marzo 2015
di Massimo Villone, 10.3.2015
Un brutto giorno per la Repubblica. Come era nelle previsioni, la Camera approva la riforma costituzionale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 astenuti, che alla Camera non contano. Movimento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favorevoli a Renzi. Ma è facile vedere, richiamando il consenso ai soggetti politici realmente espresso nel voto del 2013, che una Camera depurata dalla droga del premio di maggioranza dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale oggi avrebbe bocciato la proposta. Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze. Una costituzione di minoranza.
Questo conferma tutte le critiche sulla mancanza di legittimazione a riformare la Costituzione di un parlamento fulminato nel suo fondamento elettorale. E dunque non abbiamo affatto un paese più semplice e giusto, come esulta Matteo Renzi. Invece, abbiamo in prospettiva una Costituzione che non riflette la realtà del paese.
Il voto della Camera ci consegna quel che sarà, molto probabilmente, il testo definitivo della riforma. Si richiede un nuovo passaggio in Senato per chiudere con l’approvazione di un identico testo la fase della prima deliberazione richiesta dall’art. 138 della Costituzione. Ma è ragionevole prevedere che Renzi alzerà barricate contro ogni ulteriore modifica, che potrebbe del resto toccare solo le parti ora emendate dalla Camera.
Immutata la sostanza. Lievemente migliorata la “ghigliottina” per cui il governo poteva pretendere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e proprio potere di vita o di morte sui lavori parlamentari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata materia riservata all’autonomia delle Camere attraverso i regolamenti parlamentari. Da domani — scritta in Costituzione — sarà invece un vincolo sul parlamento nei confronti del governo. Peggiorata la riforma del Titolo V, dove viene annacquato con inedite complicazioni il proposito — in sé apprezzabile — di una semplificazione del rapporto Stato-Regioni.
Ma su tutto prevale la inaccettabile scelta — che rimane — di un Senato non elettivo, di seconda mano e di doppio lavoro, tuttavia investito di poteri rilevanti, tra cui spicca quello di revisione della Costituzione. Mantengono piena validità le critiche più volte espresse su queste pagine. Soprattutto per la sinergia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo significato. E se ne accentua il rilievo nel momento in cui la riforma costituzionale rimane pessima, e l’Italicum peggiora. Al già inaccettabile impianto di base, inosservante dei principi posti con la sentenza 1/2014, si aggiungono ora il premio alla sola lista, la beffa dei capilista bloccati e candidabili in più collegi, il ballottaggio. Il colpo alla rappresentatività delle istituzioni e ai processi democratici si aggrava.
La fine dichiarata da Berlusconi del patto del Nazareno aveva suscitato qualche speranza. La lettera dei “verdiniani” — Verdini è notoriamente in odore di renzismo — fa nascere dubbi sul controllo di Berlusconi sul partito. Forse una parte dei suoi si appresta a cambiare padrone, se non casacca. Nel prossimo voto in Senato — ancora in prima deliberazione — non sarà prescritta una particolare maggioranza. Ma sarà una prova generale per la seconda deliberazione ex art. 138, per cui si richiede il voto favorevole della metà più uno dei componenti l’assemblea. In Senato il dissenso potrebbe allora essere decisivo. E affossare la riforma trascinerebbe con sé anche l’Italicum, che nulla prevede per il Senato assumendone il carattere non elettivo.
Sapremo dunque già nel voto che si avvicina se la sinistra del Pd ha numeri e attributi. Sapremo se il patto del Nazareno è davvero morto. Berlusconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgambetto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la proposta che Fi aveva votato in Commissione bicamerale Allora, pur avendo i numeri, la maggioranza di centrosinistra si fermò. Questa volta non gli è riuscito. In Senato provaci ancora, Silvio. Magari faremo il tifo per te.
Nel frattempo, bisognerà spiegare al popolo sovrano che nelle istituzioni si forgiano le politiche di governo. Per le donne e gli uomini di questo paese le scelte istituzionali non sono indifferenti. Istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia, governi che funzionano come giunte comunali (formula renziana), partiti della nazione producono politiche conservatrici, disattente verso i diritti, subalterne ai poteri forti, sorde alle diversità, e invece tolleranti verso le diseguaglianze. Già accade.
Con pensosa pacatezza Bersani finalmente avverte che l’Italicum non è votabile per la sinergia perversa con la riforma costituzionale. Corra ai ripari. Qualcuno dovrebbe spiegare a lui e all’evanescente sinistra Pd che la ditta li ha già messi in cassa integrazione a zero ore. Anche il nuovo partito non più leggerissimo di cui Renzi favoleggia li metterebbe in mobilità. Per loro, solo contratti a tutele decrescenti.
Ai governativi mancano una quarantina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), 7 sono assenti giustificati e 11 non partecipano perché in dissenso. Una minoranza, questi ultimi, della minoranza; il dissenso era stato più forte al senato nel primo passaggio sette mesi fa. La gran parte dei bersaniani vota sì: riconoscono nella riforma un pericoloso «cambiamento profondo della forma di democrazia parlamentare» (Bindi) eppure valutano che «non si può far fallire il percorso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assicurano che «è l’ultima volta» se «non si riaprirà il confronto» se «non ci sarà equilibrio» con la legge elettorale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripetuto di non voler cambiare.
Due spicchi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movimento 5 Stelle che non rinuncia all’Aventino. Appare solo il delegato Toninelli e la sua dichiarazione di voto comincia con «fascisti» e finisce con «disonesti». Ma in mezzo ha una citazione importante: le parole di fuoco contro la riforma costituzionale imposta dal governo Berlusconi, discorso del 2005 di Sergio Mattarella.
È difficile, dal momento che ci sono le elezioni regionali dietro l’angolo: saranno giorni di contrapposizioni accese e di pause nei lavori parlamentari. Ma non impossibile, visto che al senato spetta adesso un compito assai limitato. Solo gli articoli che la camera ha modificato rispetto al testo votato dai senatori potranno essere rimessi in discussione. E solo gli emendamenti strettamente legati alle novità potranno essere ammessi.
Renzisembra irremovibile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua determinazione a non riportare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Italia nega i voti. Dunque la legge non si tocca «neanche di una virgola». Così l’ex area Cuperlo, che prepara la «reunion» per il 21 a Roma (il 14 a Bologna però Speranza riunisce l’ala ’dialogante’) vede delinearsi all’orizzonte la scommessa finale: o un ’serrate i ranghi’ o il definitivo ’si salvi chi può’.
Le cinquanta sfumature della minoranza Pd praticano tre voti diversi. In tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), in sette non partecipano al voto (fra gli altri Fassina, Boccia, Civati, Pastorino), gli altri votano sì turandosi il naso. La dichiarazione a nome del gruppo è affidata a Lorenzo Guerini, non a Speranza, presidente dei deputati. Per Alfredo D’Attorre questo sì è «l’ultimo atto di responsabilità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favorevole» perché senza modifiche «nelle votazioni precedenti», vuole dire ’successive ma è un lapsus rivelatore, «non parteciperò al voto e nel referendum starò dalla parte dei cittadini». Il referendum confermativo è uno degli spettri: «Che faremo, una campagna contro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annuncia il sì ma avverte che «senza modifiche ciascuno si assumerà le sue responsabilità». Più tardi la sua area Sinistradem ribasce l’ultimatum in un documento firmato da 24 parlamentari (fra gli altri Amici, Argentin, Bray, De Maria, Fontanelli, Miotto, Pollastrini).
Stefano Fassina non partecipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal presidente del Consiglio l’indisponibilità a correggere la legge elettorale». Come dire: è inutile promettere battaglia se poi alla fine vi allineate sempre. Pippo Civati lo dice esplicitamente: «Dopo il voto di stamani quasi l’intero testo della riforma risulta inattaccabile. Chi ha votato a favore condivide le scelte compiute e ne porta la responsabilità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosiddetta minoranza Pd ci sono differenze politiche profonde».
Donna, Uomo. Vite e destini che più congiunti non si può, anche nella riflessione: ma questa, per ora, è arricchita solo sul versante femminile.
Il manifesto, 10 marzo 2014
Non è da ora che numerose parole-chiave culturalmente e mediaticamente fortunate ci avvertono di qualcosa di inquietante: viviamo un tempo che sembra incapace di definirsi per il suo presente o anche per il suo desiderio di futuro, e che si rassegna quindi a identificarsi con espressioni un po’ vuote, il cui senso immediato è quello di annunciare soltanto che un tempo precedente è finito.
È la celebre condizione «post-moderna» descritta alla fine degli anni ’70 da Lyotard, riempita via via da un modo di lavorare divenuto «post-fordista», da una cultura critica «post-marxista» e «post-strutturalista», e via declinando questo sentirsi immersi in qualcosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse definizioni al presente non sono poi per nulla rassicuranti: viviamo in un mondo «liquido», in una «società del rischio», strutturata in «non luoghi». Anche le antiche certezze patriarcali sono venute meno. Ne scriveva il giovane Lacan già negli anni ’30, e un testo del femminismo italiano del 1996 (Sottosopra rosso. E’ accaduto non per caso) ha dichiarato la “fine” del patriarcato, giacché al predominio maschile è venuto meno il credito femminile.
Che cosa ne è seguito? La discussione è aperta. Una delle ipotesi – viviamo nel tempo del «Post-patriarcato», nell’«agonia di un ordine simbolico» non ancora conclusa — è avanzata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una giovane studiosa femminista, Irene Strazzeri. Va subito detto che l’autrice, pur non escludendo che da una fase percorsa da «sintomi» allarmanti e da «sfide» difficili possa anche riemergere una forma di «neopatriarcato», si dimostra fiduciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vissuto in modo positivo. E lo annuncia in esergo come solo una donna può fare, dedicando il testo «al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro».
Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elettra Deiana – è utile anche per incrociare le elaborazioni di un giovane neofemminismo che sta aprendo vari terreni di ricerca mettendo le elaborazioni del femminismo storico (italiano e occidentale, ma anche post-coloniale) a confronto con la lettura dell’attuale crisi globale e del dominio della «ragione» neoliberista. Una fase nella quale il capitalismo sembra in grado di sussumere ogni istanza critica alternativa. Per esempio riconoscendo il «valore» della differenza femminile ma finalizzandola all’efficienza della produzione e della competitività dell’economia data. Oppure amplificando lo scandalo della violenza maschile contro le donne, ma traducendolo in politiche di contrasto e in paradigmi capaci di costringere nuovamente le donne nel ruolo di vittime bisognose di «protezione».
La via di uscita indicata da Irene Strazzeri è quella di una rilettura del concetto e della pratica dell’«autorità femminile» così come è stata indicata soprattutto nei recenti testi di Luisa Muraro (Autorità, Rosembreg & Sellier) e di Annarosa Buttarelli (Sovrane, Il Saggiatore). Un’idea di autorità diversa e distinta da quella di potere che connota la politica maschile. Autorità come frutto della relazione e dello scambio linguistico. Come figura circolante indispensabile all’agire politico, che può superare gli stessi limiti della democrazia della rappresentanza.
Strazzeri propone di considerare intrinseca alla produzione di autorità anche la dinamica del riconoscimento. Un dispositivo che può accomunare donne e uomini, senza il bisogno di nuove tradizioni e religioni, per liberarsi da quell’agonia in un presente finalmente capace di riconoscere se stesso
Una dittatura che si fa chiamare governance. Del resto, er un regime tirannico è impensabile sottoporre i massmedia (un potere che è Quarto solo per ragioni cronologiche) a una gestione pluralistica: occorre riportarlo sotto il governo del tiranno. Perciò Renzi...
La Repubblica, 9 marzo 2015
Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.
È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.
In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.
Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.
L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.
Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.
Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».
«Nelle formazioni politiche a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette in discussione per costruire qualcosa di nuovo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, e nemmeno Die Linke o Front de Gauche».
Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015
Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.
Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'
Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo
1.
Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.
Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.
Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.
Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.
Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.
2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].
Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].
Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.
Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.
Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].
4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.
Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.
Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].
Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].
Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.
Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].
6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.
Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].
Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].
In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.
«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.
7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].
«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.
La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].
Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.
8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.
Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.
Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].
Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.
Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].
Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].
Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.
10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.
La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].
Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.
Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.
All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].
Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.
Note
«».
Il manifesto
In una paese normale, abitato da gente normale, dove anche i media di conseguenza sono normali, le notizie che appaiono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pensando il Viminale, quindi il ministro Alfano, su Decoro/Degrado farebbero accapponare la pelle.
Leggo testuale dal giornale di ieri “Sicurezza, più militari e accattonaggio vietato vicino ai monumenti”. E aggiungo “Più poteri ai sindaci di difendere i centro storici ed i monumenti delle nostre città. Al sindaco dovrebbero essere concessi dei poteri di ordinanza relativi all’ordine pubblico, modello movida, per rendere alcune zone del centro off limits anche all’attività di accattonaggio e carità molesta”. Oggi invece prende forma una idea che a giudicare folle, se non bestiale, è dir poco. Sempre dal Messaggero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipotesi Daspo per prostitute e mendicanti”. E nell’articolo viene spiegato meglio “Affidare maggiori poteri di polizia a questori e prefetti anche in materia di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la possibilità di intervenire su temi che vanno dalla prostituzione al cosiddetto accattonaggio, passando per i locali notturni troppo rumorosi, con provvedimenti interdittivi. Per fare l’esempio più noto alle cronache, l’ipotesi su cui sta lavorando il ministero dell’Interno, darebbe a questori e prefetti la possibilità di applicare anche in queste materie ordinanze analoghe al Daspo, il provvedimento col quale attualmente possono impedire l’ingresso allo stadio ad alcuni tifosi, a prescindere da eventuali responsabilità penali.”
Quindi, i cervelloni del Viminale, hanno pensato di mettere un freno alla prostituzione (che ad esempio nel centro cittadino è praticamente inesistente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (perché la povertà è un reato ed esibirla è di cattivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accattoni” daspati non potranno entrare nel centro di Roma e dovranno continuare ad arrangiarsi magari buttandosi su qualche via consolare fuori dai municipi del centro. Oppure le prostitute oltre a dover fronteggiare gli aguzzini che le schiavizzano, la violenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimenticavo: già esistono provvedimenti simili, visto che è possibile dare il foglio di via “agli indesiderati”.
Ma che significa “decoro”? Un normale dizionario spiega che il decoro è un “complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita dignitosa dovrebbe essere un obiettivo di qualsiasi governo, contrastare la povertà idem. Il problema è che non si combatte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto associato all’insicurezza. I “bloggers antidegrado” accozzaglia discutibile di personaggi che lanciano le loro crociate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto contro i disservizi della città diventano punto di riferimento per gli stessi amministatori cittadini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovista nei cassonetti. Se i mezzi pubblici sono fatiscenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patrimonio pubblico/artistico di questa città è tenuto male è colpa degli hooligans venuti da fuori o di chi mendica, crendo un circolo vizioso che contrappone gli indigenti ai cittadini, come se entrambi non fossero parte dello stesso tessuto sociale. Con i suoi pro e i suoi contro. Nel frattempo nessuno denuncia il fatto che gli stessi governarnti, attraverso i tagli alla cultura e ai servizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cercano di sconfiggere a colpi di ordinanze.
L’esempio romano è assolutamente paradigmatico: dopo i 5 anni di Alemanno e le varie ordinanze anti-alcol nel centro cittadino, la nuova giunta aveva promesso che non avrebbe contrastato “la movida” a colpi di ordinanze varie. Promesse mantenute per una estate per poi adeguarsi neanche un anno dopo alle precedenti amministrazioni grazie anche a una campagna mediatica avvolgente, che vede schierati tutti i media a difesa non del “pubblico” ma del “privato”. A difesa, dicono, del “cittadino” mentre trasformano interi quartieti in “divertimentifici”, alla faccia del cittadino stesso.
Ed è singolare che nella città dello scandalo Atac, Ama, Mafia Capitale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si continui a trovare nel “degrado/decoro” il problema da risolvere, da affrontare. Il progressivo impoverimento, la crisi economica, ha di sicuro cresciuto le sacche di povertà in città. Le baracche, parte del tessuto urbano dal dopoguerra fino alla seconda metà degli anni 70, diventano inaccettabili e pericolose. Ci riportano indietro nel tempo è ci mostrano l’altra faccia della metropoli, quella in cui potremmo finire un giorno. Continuare a trovare il nemico in alcune sacche di cittadini, economicamente svantaggiate, è la dimostrazione dell’uso politico che si fa del concetto di “decoro” è il modo con cui i governi riescono a far passare ogni misura securitaria. Del resto le ordinanze cittadine, di vari sindaci, in maniera di decoro, sono qualcosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo trovati di fronte a misure talmente ridicole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così maledettamente serio.
Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qualcosa che coinvolge amministrazioni di destra e di sinistra, per una trasversalità pericolosa. Una ideologia perversa, moralista, che non crea cittadinanza, non crea solidarietà ma piccoli sceriffi armati di smartphone pronti a fotografare il mendicante di turno o chi rovista nei cassonetti. I nuovi nemici da combattere sono quelli che raccolgono le briciole di quel che consumiamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “accessibilità ai consumi”. Un egoismo sociale, moralista appunto, che fa del cittadino educato che non butta le carte in terra, un buon cittadino. Che crea diseguaglianze invece di costruire un tessuto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di liberarci dalle paure. Che trova il degrado nella prostituta e non nello sfruttatore, nelle reti della tratta, o anche semplicemente nel cliente della prostituta, il problema. Importante è che non parcheggi in doppia fila e che paghi puntualmente il biglietto
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Cronache di ordinario razzismo
Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.
Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.
Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.
Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.
Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.
Questo ciò che è successo.
La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.
Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?
Anche se posso sembrare grillino, che non sono, penso che poco a poco stia venendo fuori che le polemiche che ogni tanto Forza Italia fa con il governo è pura manfrina e che, come ho già scritto, se Renzi fa il “bravo” e attua il “programma”, il padrone di quel partito è disposto anche a sacrificare la sua creatura consentendo un travaso di voti al nuovo Pd.
L’attuale capo del governo e segretario del Pd dà sempre più l’impressione di essere etero diretto, di attuare un programma per conto di qualcuno, non sembra che porti avanti idee proprie, anche perché non so se sarebbe all’altezza di elaborarle.
Egli, e il suo principale antagonista attuale Salvini, sono cresciuti e si sono formati nell’epoca d’oro della Tv spazzatura. Se non erro, i giornali hanno riportato che entrambi hanno partecipato a quei programmi presi in giro da Arbore, dove rispondendo a domande come “quanto fa due più due” si potevano vincere milioni (“E’ così che si fanno i milioni, evviva le televisioni”, faceva cantare al coro il presentatore pugliese).
Berlusconi, grazie a quel tipo di Tv, ha costruito il suo impero economico e politico; poi, stanco, ha fatto andare avanti i suoi discepoli. Per chi ha avuto come mentore quella televisione, l’importante è avere sempre lo slogan giusto a portata di mano, tanto chi lo segue non andrà mai ad aprire un libro per documentarsi da sé, non andrà mai a verificare di persona se certe affermazioni corrispondono al vero, basta che la frase sintetica (il twitter) sia quella giusta.
E così Renzi può dire che la sua politica è a favore dei giovani, pur prendendo provvedimenti opposti, e i giovani gli credono. Salvini può dire che uscendo dall’Unione Europea staremo meglio e la gente gli crede. D’altro canto anche Mussolini diceva “spezzeremo i reni alla Grecia” o che “l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”, e la gente andava in estasi credendo che ci saremmo divisi il mondo noi e la Germania, salvo poi mandare in Russia soldati con le scarpe di cartone e con la raccomandazione di “portarsi una coperta da casa”.
A volte mi chiedo se ci sia una maledizione sulla testa di noi italiani: Crispi, Mussolini, Giannini, Craxi, Berlusconi, Renzi, Salvini. Politici che risolvono tutto nella parola che infatua le folle. Si dice: è il popolo italiano che è immaturo. Ma no! Il popolo è più o meno uguale dappertutto, quello che da noi è diversa è la cosiddetta classe dirigente, è questa che dovrebbe imprimere la svolta perché ne ha il potere e i mezzi. Ma purtroppo alla nostra borghesia danarosa, alla maggior parte dei nostri intellettuali, questa società, queste istituzioni, questi politici, vanno più che bene.
E i giovani continueranno a emigrare.
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Se questa carenza di una sinistra politica e sociale è un problema, anche di sistema, che si intende superare, occorre comprendere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e penetrare, se ci sono, nelle sue zone di debolezza. Con Renzi, il Pd porta alle conseguenze estreme delle tendenze interne verso approdi post-ideologici operanti già al tempo del Lingotto. Però quest’anima interclassista e moderata, con il suo disegno di sfondare al centro con la promessa di una rivoluzione liberale, che con Veltroni e Rutelli si arenò, ora trova espressioni inedite che sembrano rivitalizzarla. Perché Renzi riesce dove Rutelli ha già fallito?
Alla spinta centrista e modernizzatrice, condita con la salsa di un liberismo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica porzione di antipolitica. Mettendo insieme il nucleo del programma della Confindustria (riduzione dello spazio pubblico e semplificazione delle regole del lavoro) e lo stile antipolitico, Renzi intercetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discontinuità radicale, il vecchio ceto politico di estrazione comunista. Muta anche, con l’assalto al sindacato, la composizione sociale del partito, al punto da penetrare in aree e interessi sociali delle microimprese attratte dalla distruzione delle cosiddette rigidità del mercato del lavoro (e dalla enfasi renziana contro i controlli burocratici eccessivi, che riscontrano irregolarità nel 65 per cento delle aziende visitate) e che difficilmente avrebbero guardato a sinistra.
Dalla prima anima, quella in senso lato confindustriale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un conformismo assoluto (c’è una sorta di giornale unico nazionale che da Repubblica passa per il Corriere, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto politico, egli assorbe un desiderio di vittoria (comprensibile dopo che il Pd si era accasciato a terra proprio al momento del trionfo) e una invocazione di nuovo e di rottura verso schemi tradizionali.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La novità è soprattutto il grado di antipolitica che il fiorentino aggiunge alla commedia e lo smantellamento di un partito (mai consolidato) tramutato in una sua appendice personale. Il dominio renziano sembrerebbe incontrastabile, con lo spread che si calma, con il trasformismo del venti per cento dei deputati pronti al grande salto nel carro del rottamatore, con l’opportunismo di tanti parlamentari del Pd che hanno fiutato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.
Eppure, la mancanza di una sinistra riconoscibile solleva una latente crisi di legittimazione. L’impressione che la politica odierna suscita è quella che ricavava Tocqueville osservando la vita parlamentare del suo tempo. In essa «gli affari vengono trattati fra i membri di un’unica classe, secondo i suoi interessi e i suoi modi di vedere, non è possibile trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi la guerra». Con il presidente del consiglio «gasatissimo da Marchionne» e gran veneratore della sacra libertà di licenziamento, nel parlamento opera un solo interesse prevalente, quello dell’impresa.
Per questo è difficile al momento pensare ad una rinascita della destra su basi diverse dal populismo di Salvini. Una destra liberale non ha alcuna possibilità (e necessità) di organizzarsi coltivando ambizioni di alternativa: il suo spazio è già ben presidiato da Renzi. E una sinistra avrebbe le forze per riprendere una funzione rappresentativa? Nel «paese legale», continuava Tocqueville descrivendo l’omologazione dei ceti politici francesi, esiste una «singolare omogeneità di posizioni, di interessi e, per conseguenza di vedute, che toglie ai dibattiti parlamentari ogni originalità e ogni realtà, e quindi ogni vera passione». La stessa sensazione di tramonto dell’autonomia della politica la si ricava osservando le dispute politiche odierne.
Autonomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sindacato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine efficace rispetto alle sollecitazioni della finanza, dell’impresa, dei media. E questo ritorno ad un parlamentarismo monoclasse suscita anche una sensazione di impotenza, di estraneità in consistenti fasce di opinioni. Nel dominio di grandi potenze economiche, diceva Tocqueville, «i vari colori dei partiti si riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale». Non è un caso che, in un clima di similitudine nelle basi sociali riconosciute, avvenga il processo di unificazione tra Pd e Scelta civica o che sfumino del tutto i confini distintivi con il nuovo centro destra.
Quale percepibile differenza identitaria, e di alterità nei riferimenti storici e sociali, si può mai notare tra Guerini e Alfano, tra Boschi e Carfagna, tra Picierno e Gelmini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Verdini, tra Faraone e Fitto? Ancora Tocqueville: in una politica ad una sola dimensione, quella della classe proprietaria, i politici ricorrono «a tutta la loro perspicacia per scoprire argomenti di grave dissenso, senza trovarne». Con le sue politiche in tema di lavoro, Renzi si rafforza perché lascia senza scopo una destra di governo. Però, proprio con questo scivolamento, mantiene sguarnito un ampio fronte sociale, i cui interessi non coincidono con il rafforzamento del potere unilaterale dell’impresa.
Con le sue scorribande istituzionali, Renzi apre una vistosa voragine anche nel campo politico (maltrattamento dei principi dell’antico costituzionalismo democratico della sinistra, demolizione dell’idea di un partito non personale). Colpita sul piano degli interessi sociali di riferimento e sfregiata sull’idea di democrazia e sul senso della politica, è impensabile che la sinistra non provi a reagire alle umiliazioni di chi si vanta di averla asfaltata.
Non per un senso dell’onore, che già Bodin escludeva quale principio della politica, ammettendo la liceità del compromesso e della trattativa al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfidato di punto. Ma, alla comprensibile ritirata, che ha accompagnato il celere trionfo renziano, non è corrisposta alcuna azione incisiva per il recupero di forza e capacità di combattimento. È mancata quella che Lenin avrebbe chiamato una «ritirata con giudizio». La controffensiva, dopo la temporanea ritirata, non è stata neppure accennata. E invece andrebbe disegnata.
Con una coalizione sociale di protesta e ostile alla proposta politica? La specificità italiana è che mentre altrove esistono due sinistre, qui non se ne intravede neppure una. La minoranza del Pd deve avere la consapevolezza che il successo di Renzi, e cioè la sua leadership alle prossime elezioni, sarebbe il trionfo di una variante di partito personale a vocazione populista entro cui una componente di sinistra risulterebbe schiacciata e inutile.
Perciò deve immaginare che qualcosa può nascere oltre Renzi e non bisogna dare più come senza alternative il quadro attuale di governo. Se le due sinistre visibili solo in potenza, quella sociale e quella politica, non mettono in atto un processo di alternativa a Renzi, devono rassegnarsi alla rapida decadenza della qualità democratica.
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CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo editoriale Eugenio Scalfari ha sollevato un tema d’importanza cruciale: il declino della democrazia partecipata. Ravvisandone la ragione nell’indifferenza dei cittadini. Che la democrazia sia in difficoltà è fuor di dubbio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle trasformazioni cui la democrazia è sottoposta e che hanno derubricato da democrazia partecipante a democrazia respingente. L’Italia non è un caso unico. Le democrazia respingenti ci sono ovunque e in Italia la si è cominciata a fabbricare da un quarto di secolo fa.
Renzi sta solo mettendo il tetto all’edificio di una democrazia che odia i cittadini. L’odio per i cittadini si manifesta anzitutto sul terreno delle politiche. L’austerità è cominciata tre anni fa. Ma le decurtazioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parecchio si è aggravata a dismisura la pressione fiscale sui redditi medi e bassi. E sono enormemente peggiorate le condizioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qualità sta declinando da un pezzo, nel pubblico e nel privato. In compenso chi comanda non pensa a dismettere lussi inutili e dannosi, come la Tav e gli F35, né tantomeno si mostra disposto a ridurre gli indecenti privilegi di cui godono i politici e butta solo fumo negli occhi.
La seconda manifestazione di odio per i cittadini sta nel respingerli come tali. Votare non è un gesto naturale. Per molti, specie i giovani, è un atto che va incoraggiato. Sia tramite le performances della politica, che al momento non aprono neanche più alla speranza, sia sottolineandone l’importanza. Sia mediante un’azione costante di coltivazione del civismo un tempo svolta dalla scuola e dai partiti.
L’istruzione ha pure la funzione di socializzare i giovani alla vita collettiva e alla partecipazione politica. Ben conosciamo le condizioni lamentevoli in cui la scuola è ridotta e lo spregio con cui sono trattati gli insegnanti. Quanto ai partiti, il loro soffocamento è stato deliberato. In nome di una democrazia che decide, li si è disattivati, promettendo che a coltivare il civismo avrebbe provveduto la società civile. Solo che la società civile, peraltro ambigua, non compensa l’attività di educazione e incitamento che i partiti di massa svolgevano su vasta scala. Sono rimasti i partiti impropriamente detti personali, che sono circoscritte cosche affaristiche, riservate ai superprofessionisti della politica, che non sanno nemmeno com’è fatto il mondo e che nutrono unicamente ambizioni di potere.
I cittadini non sono sciocchi e osservano tutto questo. Possono magari illudersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indignati e arrabbiati. Di quali mezzi tuttavia dispongono per manifestare la loro sofferenza?
Ci hanno perfino provato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irrilevante di elettori ha provato a ribellarsi votando per Beppe Grillo. Ma per scoprire ben presto che il suo incontenibile narcisismo mediatico è solo servito a sterilizzare la loro indignazione, spianando la strada alle brutalità del renzismo. Quando non c’è narcisismo, com’è successo in Grecia, pare stia andando anche peggio. Un popolo intero sta sanguinosamente pagando le dissipazioni di una ristretta casta di politicanti e di potenti. Ma tutta l’Europa congiura affinché la sua ribellione elettorale, che ha cacciato i responsabili, non produca alcun aggiustamento. Dietro la grande narrazione – letteraria, cinematografica, mediatica, giornalistica e spesso anche accademica – del disincanto e dell’indifferenza, cova insomma una ribellione silenziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.
Un po’ più di attenzione andrebbe prestata ai dati sull’astensione. Il nostro garbato capo del governo si fa forte del 40% di consensi ottenuti alle europee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elettori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro consenso. Non è poco per rivendicare un grande consenso popolare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elettori arrabbiati smettesse di astenersi e cedesse alle lusinghe di uno dei tanti leader populisti che ci sono in giro ne scaturisca un esito elettorale che chiuda persino la deprimente bottega della democrazia respingente
«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015
Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.
Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.
Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.
Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.
Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.
A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.
Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.
La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.
Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
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LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra».
È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.