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Quando Renzi pretende (proprio lui!) di essere l'unico a poter rivendicare l'uso di quella parola esprime il più arcaico dei modelli della vecchia sinistra. Che la nuova sinistra trovi la bussola per non ricadere nell'errore.

La Repubblica, 31 marzo 2015

La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.

Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.

«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?

La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.

Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.

La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.

Un'analisi riferita alla situazione francese, ma perfettamente calzante per l'Italia e l'Europa. In estrema sintesi, la risposta al titolo è questa: il popolo tradisce la "sinistra" perché la sinistra non c'è.

La Repubblica, 30 marzo 2015

PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.

Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.

Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.

Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.

La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.

Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?

Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.

L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.

Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.

Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.

Traduzione di Fabio Galimberti

«Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustizia sociale. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?».

Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla

Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.

Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.

Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.

In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.

Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.

Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.

Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.

Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?

Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.

Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.

L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)

presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.

Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.

Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.

Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.

Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.

L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.

Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.

Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?

postilla

Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?

«Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della 'Biennale Democrazia' di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Colin Crouch appar­tiene alla esi­gua, ma auto­re­vole schiera di eco­no­mi­sti, filo­sofi, socio­logi «rifor­mi­sti» che, rima­nendo fedeli alle loro con­vin­zioni, sono ormai indi­cati, dai media main­stream, come teo­rici radi­cali. Ne fanno parte stu­diosi come Richard Sen­nett, Zyg­munt Bau­man, Ales­san­dro Piz­zorno e Luciano Gal­lino. Negli anni tutti loro si sono appli­cati ad inda­gare le tra­sfor­ma­zioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle iden­tità col­let­tive che hanno carat­te­riz­zato il Nove­cento. Si sono appli­cati al loro spe­ci­fico campo disci­pli­nare, regi­strando le con­ti­nuità e le discon­ti­nuità nello svi­luppo capi­ta­li­stico. Non hanno mai nasco­sto la con­vin­zione che l’economia di mer­cato potesse con­ti­nuare a pro­spe­rare solo in pre­senza di robu­sti, sep­pur fles­si­bili diritti sociali di cit­ta­di­nanza che garan­tis­sero una «ragio­ne­vole» redi­stri­bu­zione della ricchezza.

Crouch è inol­tre lo stu­dioso che ha, come gli altri, indi­vi­duato nel wel­fare state il punto più avan­zato rag­giunto durante «il secolo social­de­mo­cra­tico», per usare un’espressione coniata da Ralph Daren­d­horf, altra figura chiave di que­sta cul­tura poli­tica demo­cra­tica euro­pea. Non un «radi­cale» dun­que, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Post­de­mo­cra­zia, entrambi pub­bli­cati da Laterza - sono stati con­si­de­rati una cor­ro­siva cri­tica del neo­li­be­ri­smo. Colin Crouch sarà ospite della «Bien­nale Democrazia».

Sono anni che la discus­sione sulla demo­cra­zia occupa un posto rile­vante nella rifles­sione di filo­sofi, eco­no­mi­sti, socio­logi. Lei ha scritto dif­fu­sa­mente di regimi poli­tici post­de­mo­cra­tici, carat­te­riz­zati da un para­dosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e poli­tici acqui­sita dalla moder­nità, ma i cen­tri deci­sio­nali sono carat­te­riz­zati da logi­che che dif­fi­cil­mente pos­sono essere sot­to­po­ste al con­trollo dei cit­ta­dini. Stiamo cioè assi­stendo a una cam­bia­mento della forma-stato. Può spie­gare cosa intende per postdemocrazia?

«Si, viviamo una situa­zione para­dos­sale, come lei sug­ge­ri­sce. Oltre che un para­dosso, i regimi poli­tici euro­pei e sta­tu­ni­tense sono una forma di atro­fia della demo­cra­zia. La glo­ba­liz­za­zione lo rende evi­dente, così come rende mani­fe­sto il fatto che la demo­cra­zia (che rimane prin­ci­pal­mente nazio­nale) cessa di esi­stere sulla soglia dei posti dove si pren­dono le deci­sioni più impor­tanti sull’economia. Il declino delle iden­tità di classe e della reli­gione, ele­menti fon­da­men­tale nella defi­ni­zione delle iden­tità poli­ti­che nei primi decenni dei pro­cessi di demo­cra­tiz­za­zione, priva gli elet­tori di legami con il mondo poli­tico. Ma anche i par­titi poli­tici ormai si sen­tono lon­tani dalla popo­la­zione e usano i metodi del «mar­ke­ting» come sur­ro­gato dei legami venuti meno con chi dovreb­bero rappresentare. La cat­tura dell’attenzione creata dal mar­ke­ting poli­tico crea però legami arti­fi­ciali, con­tin­genti; e dun­que non con­vin­centi. La cre­scita della dise­gua­glianza rende infine molto più facile che le élite e le grandi imprese con­trol­lino la poli­tica. Que­sto com­porta una tra­sfor­ma­zione della forma dello stato. Ciò che stiamo assi­stendo è la for­ma­zione di uno stato post-feudale sal­da­mente nelle mani della nuova ari­sto­cra­zia delle grandi imprese. Uno stato, tut­ta­via, che ha una legit­ti­ma­zione demo­cra­tica. Alle élite non serve quindi più una dit­ta­tura per eser­ci­tare il potere.

Paral­le­la­mente alla discus­sione della demo­cra­zia, c’è quella sul «depe­ri­mento» dello stato-nazione, vista la ces­sione di sovra­nità ad orga­ni­smi sovra­na­zio­nali, come l’Unione euro­pea, il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale, il Wto o la Banca mon­diale. Eppure assi­stiamo a una super­fe­ta­zione dell’intervento sta­tale in ter­mini di norme ammi­ni­stra­tive che rego­lano la vita dei sin­goli. In Inghil­terra, ciò è stato qua­li­fi­cato come «poli­tica della vita». Da una parte dun­que, per­dita della sovra­nità, dall’altra aumento delle sfere di inter­vento dello Stato. Come vede lei que­sta situazione?

Il "depe­ri­mento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono com­plesse. Alla luce della glo­ba­liz­za­zione, un feno­meno che ritengo posi­tivo, abbiamo biso­gno di tra­scen­dere lo stato-nazione, per­ché è un modo di orga­niz­zare e gestire la vita pub­blica ina­de­guato rispetto i com­piti poli­tici che abbiamo di fronte. Abbiamo biso­gno di que­ste isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali. Più che abo­lirle dob­biamo però lavo­rare a una loro demo­cra­tiz­za­zione. Que­sto vale anche per l’Unione Euro­pea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direcu­ler pour mieux sau­ter, come dicono i fran­cesi, cioè di arre­trare un po’ per meglio com­piere un balzo in avanti. È infine vero che la poli­tica nazio­nale ormai si inte­ressa, forse troppo, delle pic­cole cose, in una miscela di super­fe­ta­zione degli inter­venti sulla vita dei sin­goli e inca­pa­cità di fron­teg­giare i pro­blemi deri­vanti dalla globalizzazione».

L’Europa poli­tica e sociale è l’oggetto del desi­de­rio del rifor­mi­smo social­de­mo­cra­tico euro­peo. Tut­ta­via, l’Europa sem­bra essere un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di un neo­li­be­ri­smo in crisi, certo, ma ancora abba­stanza forte da defi­nire dra­co­niane poli­ti­che di auste­rità. Cosa nel pensa della situa­zione europea?

C’è stata sem­pre una ten­sione nella poli­tica euro­pea tra il neo­li­be­ra­li­smo e una poli­tica sociale, con una ege­mo­nia del primo aspetto. D’altronde non pos­siamo dimen­ti­care che il pro­getto ini­ziale era di fare un mer­cato comune. Ma la «mer­ca­tiz­za­zione», ben­ché porta alcuni van­taggi, pro­duce danni sociali. Da que­sto punto di vista la defi­ni­zione di poli­ti­che sociali è indi­spen­sa­bile per ripa­rare i «danni» pro­dotti dalle poli­ti­che neo­li­be­rali. Per sin­te­tiz­zare: più si dif­fonde la «mer­ca­tiz­za­zione», più deve cre­scere l’impegno per svi­lup­pare inter­venti politico-sociali per sta­bi­lirne limiti e argini. Que­sto è acca­duto, sep­pur par­zial­mente, durante i lavori delle com­mis­sioni euro­pee pre­sie­dute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilan­cia­mento» che può essere eser­cito da parte della poli­tica. È que­sto un aspetto del trionfo della post­de­mo­cra­zia. Affin­ché si svi­luppi un’Europa sociale ser­vono pro­te­ste e mobi­li­ta­zioni dei cit­ta­dini. Solo in que­sto modo i governi, le ban­che e le altre isti­tu­zioni (sia nazio­nali, che euro­pee che inter­na­zio­nali) potranno cam­biare la loro agenda».

In tutto il mondo sono cre­sciute le dise­gua­glianze sociali. Anche que­sto rimette in discus­sione la demo­cra­zia. È come se nei glo­riosi, meglio sarebbe dire infau­sti trenta anni di neo­li­be­ri­smo ci sia stato uno spo­sta­mento rile­vante di potere nella società. Poche cen­ti­naia di migliaia di per­sone hanno red­diti e poteri di gran lunga supe­riore a quelli della mag­gio­ranza della popo­la­zione. Lei ha scritto un sag­gio su que­sto ele­mento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di que­sta ten­denza alla cre­scita delle cre­scita delle disu­gua­glianze sociali?


Que­sto è il tema al cen­tro delle ana­lisi non solo di stu­diosi auto­re­voli come Joseph Sti­glitz e Tho­mas Piketty, ma anche di orga­ni­smi come l’Ocse e il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Dalle loro ana­lisi emerge un ele­mento comune: il nega­tivo impatto eco­no­mico dovuto alla cre­scita delle disu­gua­glianze. Con­cordo però con Sti­glitz quando afferma che ci sono anche aspetti poli­tici sca­tu­riti dalle disu­gua­glianze sociali. Il prin­ci­pale è che la ric­chezza eco­no­mica può tra­sfor­marsi in potere poli­tico; il quale, a sua volta, può essere usato per acqui­sire ulte­riori van­taggi eco­no­mici. Ma sta a noi inter­rom­pere que­sta spi­rale ali­men­tata dalla «cre­scita incar­di­nata sulla cre­scita delle disu­gua­glianze sociali».

Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Ales­san­dro Piz­zorno, è per­vaso dalla con­vin­zione che il con­flitto di classe avesse por­tato a com­pi­mento la defi­ni­zione dei diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Uscì quando era comin­ciato a spi­rare il vento neo­li­be­ri­sta. Da allora i diritti sociali di cit­ta­di­nanza sono stato il ber­sa­glio pre­fe­rito di molte poli­ti­che in Europa, men­tre la pre­ca­rietà ha fatto cre­scere a dismi­sura l’esercito dei «wor­king poor», che hanno bassi salari e pochis­simi diritti. Come vede la situa­zione dei rap­porti di lavoro nel capitalismo?

Il declino dei sin­da­cati - cau­sato prin­ci­pal­mente dal declino della gran indu­stria e la cre­scita dei set­tori postin­du­striali non orga­niz­zati - ha reso più facile un attacco con­tro i diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Ora però è impor­tante capire i cam­bia­menti nel lavoro. Le con­qui­ste ope­raie e sin­da­cali degli anni Set­tanta hanno come sfondo un’economia indu­striale, che non è ovvia­mente scom­parsa, ma è tut­ta­via segnata da una siste­ma­tica con­di­zione «con­giun­tu­rale» dovuta ai con­ti­nui e repen­tini muta­menti nell’economia. Pren­diamo, ad esem­pio, l’articolo 18 del vostro Sta­tuto dei lavo­ra­tori. È una norma pen­sata e valida in un pre­ciso con­te­sto storico-produttivo tesa a garan­tire alcuni diritti dei lavo­ra­tori, come ad esem­pio il licen­zia­mento ingiu­sti­fi­cato. L’esito delle pro­fonde e dram­ma­ti­che tra­sfor­ma­zioni eco­no­mi­che è la «spa­ri­zione» di interi set­tori pro­dut­tivi in alcuni paesi euro­pei. Da qui la neces­sità di ela­bo­rare nuove tipo­lo­gie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavo­ra­tori sono costretti a vivere periodi più o meno lun­ghi di disoc­cu­pa­zione, hanno biso­gno di un com­penso gene­roso per con­ti­nuare a vivere. Allo stesso tempo devono acce­dere a corsi di for­ma­zione pro­fes­sio­nale fina­liz­zati a tro­vare un nuovo lavoro. Poli­ti­che di que­sto tipo sono par­ti­co­lar­mente deboli in Ita­lia. I sin­da­cati, più che atte­starsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovreb­bero atti­varsi anche per lo svi­luppo di poli­ti­che del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limi­tarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe svi­lup­pare nuovi diritti ade­guati per l’economia attuale».

Nel suo ultimo libro tra­dotto in Ita­lia - Quanto capi­ta­li­smo può sop­por­tare la società - lei scrive dif­fu­sa­mente sulla «social­de­mo­cra­zia asser­tiva». Cosa intende con que­sta espressione?

In ogni paese euro­peo, i social­de­mo­cra­tici sono atte­stati su una posi­zione difen­siva. Cre­dono che il trionfo del mer­cato e del neo­li­be­ra­li­smo li abbiano ridotti a dino­sauri in via di estin­zione o a pezzi da museo. Ritengo che per i social­de­mo­cra­tici si aprono nuove e ine­dite strade poli­ti­che da per­cor­rere. Come ho già detto, il mer­cato crea pro­blemi sociali; è pro­prio in que­sta situa­zione di potere del mer­cato che abbiamo biso­gno delle poli­ti­che sociali della social­de­mo­cra­zia. Il potere del mer­cato, delle grandi e spesso glo­bali imprese più mer­cato, la cre­scita delle disu­gua­glianze sociali pre­ve­dono la forte pre­senza della social­de­mo­cra­zia che può rap­pre­sen­tare gli inte­ressi sociali, civili, cul­tu­rali di chi è pena­liz­zato dall’egemonia dell’economia di mer­cato. Certo, dovrebbe essere una social­de­mo­cra­zia inno­va­tiva, nel senso di una demo­cra­zia «fem­mi­ni­liz­zata» e verde. Il neo­li­be­ra­li­smo non può infatti riu­scire a risol­vere i pro­blemi sociali e di svuo­ta­mento della demo­cra­zia creati pro­prio del neoliberalismo».

«La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Che cosa signi­fica “coa­li­zione sociale”? Il sus­se­guirsi delle pre­ci­sa­zioni e dei distin­guo indica che la rispo­sta non è sem­plice né uni­voca. Di certo il nome non è con­se­guenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indi­che­reb­bero piut­to­sto una società poco incline alle coa­li­zioni, tutt’ora per­vasa da pul­sioni cor­po­ra­tive sal­da­mente radi­cate nella sua sto­ria, attra­ver­sata da con­flitti che fati­cano a par­larsi e rico­no­scersi a vicenda. Se non si tratta di una for­mula gene­rica da spen­dersi nelle dispute interne ai con­te­sti poli­tici cano­niz­zati per ride­fi­nirne gli equi­li­bri, tut­ta­via, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tar­diva, delle tra­sfor­ma­zioni che hanno inve­stito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rap­porti sociali, delle pro­spet­tive di vita indi­vi­duali e collettive.

Il pro­blema che l’idea stessa di “coa­li­zione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una sog­get­ti­vità poli­tica all’altezza dei tempi. La quale pre­cede, e spesso con­trad­dice, il tema, ampia­mente scre­di­tato dalle poco bril­lanti avven­ture elet­to­rali, par­la­men­tari e con­ve­gni­sti­che dell’agognato “nuovo sog­getto poli­tico”. Una “sog­get­ti­vità poli­tica” è, in primo luogo, un modo di guar­dare alle cose e di rela­zio­narsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.

Per­sino Susanna Camusso la riven­dica al suo sin­da­cato, ma si tratta, appunto, di una “sog­get­ti­vità poli­tica” pri­gio­niera dell’ottica sin­da­cale, che guarda anche a que­stioni gene­rali, ma dal punto di vista di spe­ci­fi­che con­di­zioni di esi­stenza, par­ziali, sem­pli­fi­cate e cir­co­scritte, per giunta, ai loro aspetti “sin­da­ca­liz­za­bili”. Per scen­dere nel con­creto tra­mite un esem­pio, una sif­fatta “sog­get­ti­vità” dif­fi­cil­mente potrà venire a capo di una con­trad­di­zione, tipica del nostro tempo, come quella tra indu­stria­liz­za­zione e que­stione ambientale.

Il fatto che mette in gioco l’idea della “coa­li­zione sociale”, a pre­scin­dere dalle forme che potrà assu­mere e dalle sue pos­si­bi­lità di suc­cesso, è l’indiscutibile inde­bo­li­mento della pro­spet­tiva sin­da­cale. Insi­diata su due fronti prin­ci­pali. Il più evi­dente è quello del lavoro inter­mit­tente e pre­ca­rio, del lavoro auto­nomo impo­ve­rito, e del “non lavoro” pro­dut­tivo ma a red­dito zero che non solo lo sta­tuto degli anni’70, ma l’intera cul­tura sin­da­cale e la sua orga­niz­za­zione per cate­go­rie non abbrac­cia, non con­tem­pla e nem­meno capi­sce. Avendo lun­ga­mente col­ti­vato l’idea, inge­nua a voler essere cle­menti, che si trat­tasse di una “ano­ma­lia” prov­vi­so­ria desti­nata ad essere rias­sor­bita nel lavoro a tempo inde­ter­mi­nato. Un atteg­gia­mento, que­sto, che ha age­vo­lato quanti gio­ca­vano il pre­ca­riato, senza peral­tro tute­larlo in alcun modo, con­tro l’”egoismo” degli occu­pati. Con un discreto suc­cesso di pubblico.

Il secondo fronte, quello meno evi­dente, è la muta­zione che ha inve­stito la stessa figura del lavo­ra­tore sta­bil­mente occu­pato (ma sem­pre più ricat­ta­bile e minac­ciato). Que­sta figura è dive­nuta più com­plessa e sfac­cet­tata di un tempo, non più inte­ra­mente cen­trata sull’identità con­fe­rita dal lavoro, ma arric­chita da domande cul­tu­rali, da desi­deri di libertà, da inte­ressi mol­te­plici e aspi­ra­zioni di cre­scita indi­vi­duale che mal si con­ci­liano con i “sacri­fici” sem­pre più pesanti, scam­biati con il man­te­ni­mento del posto di lavoro. La stessa espres­sione “mer­cato del lavoro” suona oggi, nella sua pre­sunta auto­no­mia “tec­nica”, come una ingan­ne­vole astrazione.
Le per­cen­tuali ver­ti­gi­nose della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile discen­dono, anche se solo par­zial­mente, da que­sto genere di resi­stenze esi­sten­ziali, effet­tive o anche solo temute dalle imprese, deci­sa­mente restie ad assu­mere pos­si­bili pian­ta­grane. Sono soprat­tutto que­sti ele­menti ad avere gra­ve­mente ridotto la forza con­trat­tuale del sin­da­cato e, soprat­tutto, la sua capa­cità di par­lare all’insieme della società. Senza con­tare l’insufficienza della dimen­sione nazio­nale per qual­siasi ipo­tesi di cam­bia­mento o anche di pura e sem­plice difesa dei diritti acqui­siti. La pro­spet­tiva sin­da­cale, arroc­cata nella sua tra­di­zione, è altret­tanto impo­tente quanto quella nazio­nale abbar­bi­cata alle sue anti­che prerogative.

È in que­sto con­te­sto di radi­cale muta­mento e com­mi­stione delle con­di­zioni lavo­ra­tive ed esi­sten­ziali che hanno comin­ciato a svi­lup­parsi, per appros­si­ma­zione, con­cetti come quello di “sin­da­ca­li­smo sociale” e stru­menti di lotta, ancora piut­to­sto indi­stinti, come lo “scio­pero sociale”. Alla ricerca di una sog­get­ti­vità poli­tica che fac­cia dello “stare in società”, meglio del “pro­durre società” il tea­tro di un agire effi­cace, che can­celli il con­fine, scom­parso nei fatti, ma per­si­stente nella dot­trina, tra dimen­sione sin­da­cale e dimen­sione poli­tica. Que­sta divi­sione dei com­piti tra par­tito e sin­da­cato risale a una impo­sta­zione antro­po­lo­gica fon­data sulla distin­zione tra l’immediatezza dei biso­gni e la lun­gi­mi­ranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tra­di­zione socia­li­sta) o sulla capa­cità “pro­fes­sio­nale” di tenere in equi­li­brio inte­ressi con­tra­stanti pro­teg­gendo ade­gua­ta­mente l’ordine pro­prie­ta­rio (per quanto riguarda il par­la­men­ta­ri­smo libe­rale). Su un’idea di sog­get­ti­vità, dun­que, quella pro­le­ta­ria e quella bor­ghese, che dove­vano essere “com­ple­tate” da una guida “spe­cia­liz­zata”, dagli stra­te­ghi della classe di appartenenza.

Di quel mondo, e del rap­porto tra eco­no­mia e poli­tica che lo carat­te­riz­zava, non v’è più trac­cia. Resta, invece, flut­tuando nel vuoto di una sto­ria con­clusa, la difesa, tipica di una antica tra­di­zione cor­po­ra­tiva, delle rispet­tive sfere di “com­pe­tenza”, dei “segreti pro­fes­sio­nali” tra­man­dati dai mae­stri agli appren­di­sti anche quelli appa­ren­te­mente più ribelli. Par­titi che si auto­ri­pro­du­cono in vitro con pochi elet­tori e ancor meno iscritti, com­prese le fol­klo­ri­sti­che oppo­si­zioni interne; sin­da­cati ben attenti a rima­nere “parte sociale” senza immi­schiarsi in ciò che non li riguarda, ma che riguarda, eccome, la vita di coloro che pre­ten­dono di rap­pre­sen­tare, non­ché di molti altri la cui esi­stenza, con­su­man­dosi fuori dalla sfera di azione sin­da­cale, non è che un “dramma” impre­vi­sto e ingom­brante. Se “coa­li­zione sociale” signi­fica che la poli­tica non abita più né dalla prima, né dalla seconda parte è una pro­spet­tiva ben­ve­nuta. Se prende atto della crisi della rap­pre­sen­tanza, senza la pia illu­sione di poterla ripri­sti­nare, può essere un’occasione.

Su que­sta pro­spet­tiva incom­bono, tut­ta­via, due pro­ba­bili derive. La prima è quella di una som­ma­to­ria di asso­cia­zioni e sog­getti col­let­tivi gelosi delle rispet­tive iden­tità, ma acco­mu­nati dalla denun­cia di una poli­tica dive­nuta “aso­ciale” e ostile ai seg­menti più deboli della società. Qual­cosa di non molto dis­si­mile dal mito della “società civile” in cui defluì il movi­mento alter­mon­dia­li­sta dei primi anni 2000 con l’esperienza, pre­sto tra­sfor­ma­tasi in “alter­par­la­men­tare”, dei social forum. Ma senza lo slan­cio, l’azzardo e l’entusiasmo che carat­te­riz­za­rono que­gli anni. Una “coa­li­zione”, insomma, nella quale obiet­tivi apprez­za­bili e set­tori spe­ci­fici di inter­vento sociale e poli­tico si affian­chino senza però sta­bi­lire nessi cogenti. Nella quale inte­ressi comuni e reci­pro­che indif­fe­renze con­vi­vano in una con­di­zione fra­gile e sostan­zial­mente insta­bile tenuta insieme da occa­sio­nali mobilitazioni.

La seconda deriva pos­si­bile, di segno con­tra­rio, è una pre­tesa di sin­tesi, l’aspirazione a isti­tuire una rap­pre­sen­tanza dei movi­menti intesi come sem­plici por­ta­tori di “istanze” che altri dovranno poi tra­sfor­mare in pro­gramma poli­tico. In poche parole, una restau­ra­zione, in altri ter­mini, della divi­sione di com­piti e dei rap­porti gerar­chici tra la dimen­sione poli­tica e quella sindacale.

Come sfug­gire a que­ste alter­na­tive fal­li­men­tari resta un pro­blema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comun­que si voglia chia­mare la dire­zione in cui muo­vere, “coa­li­zione sociale”, “nuovo sog­getto poli­tico” o “sin­da­ca­li­smo sociale”, non basterà affian­carsi come una sorta di “terzo set­tore” alla sfera della poli­tica e a quella del sin­da­cato lascian­done intatti poteri e dispo­si­tivi di per­pe­tua­zione. Quando si tratta di rein­ven­tare la poli­tica biso­gnerà pure entrare in rotta di col­li­sione con le forze che si sono inse­diate al suo posto.

La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movi­menti lo è. Ma se non riu­sci­ranno, in un modo o nell’altro, a entrare in rela­zione con la dimen­sione poli­tica (forza, effi­ca­cia, durata, orga­niz­za­zione) non è fuori luogo pro­fe­tiz­zare, anche in que­sto caso, una solu­zione a destra: quella neocorporativa.

«Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica».

La Repubblica, 25 marzo 2015

Il più radicale degli utopisti, Platone, decise che la repubblica doveva impedire che la classe politica avesse famiglia e proprietà, le due condizioni che compromettevano la selezione dei guardiani in base al merito richiesto per il governo della città (coraggio e conoscenza) perché inevitabile ragione di parzialità: prima vengono i figli e la famiglia (allargata ai clientes che valgono a renderla più rispettabile) e prima viene la cura dei propri averi (che si somma a quella per la famiglia).

L’utopia platonica della società armonica governata da un’avanguardia di virtuosi ha ispirato fanatici della giustizia e tribunali speciali. Ma la sua diagnosi delle ragioni dell’ingiustizia è diventata un monito per chi fa le leggi: i padri tendono a riprodursi nei figli, i possidenti negli eredi. Gaetano Mosca cercò di fare di questa generalizzazione una regola: in ogni società, gli individui lottano per la preminenza e la conservazione dello che li posiziona in alto, e quindi per il controllo dei mezzi che li agevolano in questo compito. Nelle società politiche basate sulla selezione elettorale, questi mezzi sono quelli che consentono la creazione della reputazione e della fama: circa la reputazione è la costruzione di un cerchio di amici o accoliti che più conta; circa la fama presso gli elettori che dovranno convalidare la selezione è il controllo dei mezzi di propaganda e informazione.
Ma il primo stadio della scalata della classe politica è la conquista di un gradino di preminenza per la famiglia, perché da qui si può con più facilità procedere alla conservazione dello status. In una ricerca sul nepotismo nella società americana, Seth Stephens-Davidowitz ha calcolato la probabilità statistica con la quale i figli dei politici entreranno in politica stimando che un “figlio di” (il caso esemplare è quello dei Bush, poiché Jeb potrebbe essere il futuro presidente) ha 1.4 milioni di possibilità in più di fare carriera politica di un ordinario cittadino.
La distribuzione ineguale dell’opportunità di emergere è più alta quando il criterio di selezione è l’opinione - quindi politici e uomini e donne dello spettacolo sono particolarmente agevolati. A queste categorie se ne aggiunge un’altra che è la più arbitraria: quella dei ricchi, dei super-ricchi, dei miliardari, i quali si riproducono con regolarità e faciltà, potendo fare affidamento solo sulla loro libera scelta. Se ai politici viene richiesto comunque un poco di appealing presso il pubblico, nel caso dei ricchi lo è semplicemente ereditato senza sforzo alcuno.
Ma è la riproduzione di potere politico quel che più interessa, se non altro perché viviamo, nominalmente almeno, in una democrazia. In un sistema oligarchico non avrebbe senso spendere parola. Né ha senso nel nostro sistema perché il nepotismo, il familismo, il favore che riproduce reputazione e fama, sono insopportabili a tutti. E il sistema di giustizia, per principio fondato sull’imparzialità e il governo della legge, è lì a dimostrare che non ci deve essere giustificazione né tanto meno tolleranza per l’uso del potere anche solo per dare una mano ai propri famigliari.
Per questo Platone pensava che fosse stato desiderabile che la funzione politica venisse ricoperta da chi non aveva famiglia e proprietà. La Chiesa, che ha seguito alla lettera Platone, non ha per questo brillato di giustizia e rigore, è vero. Tuttavia, la società moderna, che riconosce la famiglia e la proprietà come fondamentali e che nello stesso tempo si impegna ad applicare la “legge uguale” per tutti, è naturalmente più esposta dei chierici al procacciamento del privilegio privato via mezzi politici.
Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica: poiché il sostegno dell’opinione è qualcosa di cui i sistemi rappresentativi non possono fare a meno, e poiché il centro dell’opinione è il sentimento di fiducia, ne deriva che l’uso preferenziale del potere, non importa quanto ampio o grave, farà crescere nei cittadini il tarlo del dubbio e della diffidenza vero tutti, con gravissimo danno al sistema. Attendere che la giustizia faccia il suo corso non è per questo prudente nel campo politico, dove è il dubbio, o l’opinione prima delle prove, ad alimentare la sfiducia.

l manifesto, 22 marzo 2015

La crisi dei sin­da­cati, e l’indebolimento del potere con­trat­tuale dei lavo­ra­tori, sono le cause prin­ci­pali delle dise­gua­glianze eco­no­mi­che e della mani­po­la­zione del sistema poli­tico ed eco­no­mico da parte di chi pos­siede una quota mag­giore di capi­tali. È quanto emerge da uno stu­dio in via di pub­bli­ca­zione sulla rivi­sta «Finance & Deve­lo­p­ment» delle eco­no­mi­ste del Fondo mone­ta­rio Inter­na­zio­nale Flo­rence Jau­motte e Caro­lina Oso­rio Buitron.

La ricerca, inti­to­lata «Power from the peo­ple» e ispi­rata alla can­zone di John Len­non «Power to the peo­ple», esa­mina diverse misure dell’iniquità (dalla quota di red­dito del 10% più ricco della popo­la­zione all’indice di Gini) per i paesi ad eco­no­mia avan­zata dal 1980 al 2010. La tesi, ispi­rata agli studi del pre­mio Nobel per l’economia Joseph Sti­glitz, sostiene che «l’indebolimento dei sin­da­cati riduce il potere con­trat­tuale dei lavo­ra­tori rispetto a quello pos­ses­sori di capi­tale, e aumenta la remu­ne­ra­zione del capi­tale rispetto a quella del lavoro».

Una crisi, quella dei sin­da­cati, che si riflette anche nel calo degli iscritti, pari al 50% nel lungo tren­ten­nio della contro-rivoluzione neo­li­be­ri­sta. Venuto meno il potere sociale, e la rela­tiva capa­cità di nego­zia­zione sul sala­rio, così come i numeri che per­met­te­vano ai sin­da­cati di fare pres­sione sul capi­tale e i governi al fine di otte­nere una mode­rata redi­stri­bu­zione del plu­sva­lore in eccesso, dal 1980 i red­diti si sono con­cen­trati verso l’alto: il 5% in più è finito nelle mani del 10% della popo­la­zione più ricca nei paesi avan­zati. Anche con­si­de­rando l’impatto della tec­no­lo­gia, della glo­ba­liz­za­zione, della libe­ra­liz­za­zione finan­zia­ria e del fisco, per Flo­rence Jau­motte e Caro­lina Oso­rio Bui­tron i risul­tati con­fer­mano che «il declino della sin­da­ca­liz­za­zione è for­te­mente asso­ciato con l’aumento della quota di red­dito» nelle mani dei ricchi.

L’analisi di Jau­motte e Oso­rio Bui­tron si con­cen­tra anche sugli stru­menti che pos­sono modi­fi­care la distri­bu­zione dei red­diti verso le classi lavo­ra­trici e il ceto medio, i due prin­ci­pali set­tori vit­time degli effetti del neo­li­be­ri­smo. La lotta con­tro la «disper­sione dei red­diti, la disoc­cu­pa­zione e per la redi­stri­bu­zione» può rina­scere attra­verso una nuova ondata di sin­da­ca­liz­za­zione, la crea­zione di un sala­rio minimo. La gene­ra­liz­za­zione del sala­rio minimo a livello inter­na­zio­nale non aumenta la disoc­cu­pa­zione, come invece sostiene una fitta schiera di eco­no­mi­sti, ma per­mette di con­te­nerla, sosten­gono le ricer­ca­trici. Le solu­zioni sug­ge­rite da Jau­motte e Oso­rio Bui­tron sono quelle tra­di­zio­nali for­di­ste. Quella più impor­tante con­si­ste nel restau­rare il ruolo del sin­da­cato come «media­tore sociale» uni­ver­sale e la sua iden­tità di «cin­ghia di tra­smis­sione» con i par­titi poli­tici. «Sin­da­cati più forti – scri­vono – pos­sono mobi­li­tare i lavo­ra­tori a votare per i par­titi che pro­met­tono di redi­stri­buire il reddito».

Una tesi che ha susci­tato una rea­zione entu­sia­sta di Fur­lan (Cisl): «Il sin­da­cato è fon­da­men­tale per la cre­scita». Bar­ba­gallo (Uil): «Biso­gna lot­tare innan­zi­tutto per difen­dere il potere d’acquisto di salari e pen­sioni e, inol­tre, per evi­tare una ridu­zione delle tutele, dei diritti e delle pro­te­zioni». Camusso (Cgil) ha soste­nuto: «Quando il sin­da­cato è pre­sente, i risul­tati di pro­te­zione eco­no­mica sono molto mag­giori di qual­siasi altro stru­mento, sia esso il red­dito di cit­ta­di­nanza o il sala­rio minimo deciso dalla poli­tica». Una pie­tra tom­bale sul ten­ta­tivo (anche di una parte della sini­stra e dei movi­menti sociali, oltre che dei Cin­que Stelle) di isti­tuire un red­dito minimo in Italia.

Que­sto non è l’unico para­dosso di uno stu­dio pro­ve­niente dall’Fmi, cioè il prin­ci­pale attore della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, che riscuote il con­senso tra i sin­da­cati che ne sono stati le prin­ci­pali vit­time. Si sco­pre che le ricette con­si­gliate sono più avan­zate di quelle dei sin­da­cati per i quali, al momento, il sala­rio minimo non rien­tra nella con­trat­ta­zione. Si tratta di un equi­voco indotto anche dalla ricerca di Jau­motte e Oso­rio Bui­tron per le quali i corpi inter­medi pos­sono essere restau­rati come se la crisi della forma sin­da­cato fosse stata indotta dall’esterno, e non anche per motivi sto­rici ed endogeni.

L’obiettivo di «riaf­fer­mare stan­dard del lavoro che per­met­tano a lavo­ra­tori moti­vati di nego­ziarli col­let­ti­va­mente» potrà essere rag­giunto a con­di­zione che una nuova forma della «nego­zia­zione» sociale includa pre­cari, lavo­ra­tori indi­pen­denti o inter­mit­tenti non sin­da­ca­liz­za­bili secondo le regole che pro­teg­gono solo il lavoro sala­riato. Anche a que­sto ser­vono stru­menti come il sala­rio minimo o il red­dito di bas

Due temi importanti, maltrattati dal governo (e trascurati dal Parlamento): il rapporto tra politica e struttura burocratica dello Stato e dimensione politica dell'Unione europea.

La Repubblica, 22 marzo 2015

La corruzione. Sì, la corruzione. Esiste dovunque in tutti i Paesi del mondo ma nel nostro più che altrove perché il nostro è un Paese strano e si fa governare da una altrettanto strana classe dirigente che, per pigra indifferenza, rinuncia a controllare.

Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacchè. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell’elenco dei Paesi “virtuosi” noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all’ultimo posto in quella europea perché in quest’ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell’Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l’anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel ‘96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.

L’attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. «Non c’è attenzione che quando si ha fame/ non c’è guardiano attento se non dorme/ non c’è tranquillità senza paura /non c’è una fede senza infedeltà». Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.

Purtroppo il popolo (sovrano) presto si riaddormenta e il Cavaliere nero di quel momento gli rimonta in groppa e lo conduce a colpi di sproni e di briglia dove a lui conviene portarlo. Non tutti i popoli si svegliano così poco ma il nostro purtroppo è dormiglione.

***

Il fattaccio Lupi rende attuale queste riflessioni, ma non è di quello che voglio parlare. Cerco di capire dove si annida il serpente della corruzione, sempre cercato e mai trovato.

Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d’alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.

Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro po- sti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d’età.

In apparenza qualche cosa di buono c’è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l’apparenza della sua sovranità e diventa plebe.

Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.

Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su La politica e la pubblica amministrazione. La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L’applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai “grand commis” cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.

Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l’interesse legittimo dei cittadini inquinasse l’amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.

Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L’effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.

Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente.

***
C’è un altro tema, forse ancor più importante di quello che fin qui è stato messo sotto osservazione. Anch’esso è avvenuto nella settimana appena trascorsa e riguarda l’Europa (e quindi anche l’Italia).

Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.

L’Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c’è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l’Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.

Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall’uscita dall’euro.

Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d’Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.

Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un’apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.

Per uscire dalla crisi,sul tema cruciale del lavoro occorre rovesciare il punto di vista di Renzi : partire il punto di vista dei lavoratori, non quello delle imprese. Articoli di Grazia Naletto, Claudio Gnesutta e Giulio Marcon.

Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2015


TORNIAMO AL LAVORO
di Grazia Naletto

Workers act/Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0

Un miliardo e 508 milioni di euro. È l'ammontare dell'evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, INPS e INAIL nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.

Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?

Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l'economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l'unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la "competitività" del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese.

E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell'attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell'ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa.

Servirebbe un Workers Act.

Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neo-liberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.

Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro.

Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c'è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.

Significa non rimuovere l'urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione.

Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.

Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano.

Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un'occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l'hanno già o perché non lo hanno ancora.

UN WORKERS ACT PER USCIRE DALLA CRISI
di Claudio Gnesutta

Workers act/Un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro e un welfare universalistico. Perchè quello di cui c'è bisogno è l’esigenza che di garantire a tutti un’attività che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa

Oggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati “ufficiali”; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Job Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Basti pensare che il CNEL stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1 % (scenario ritenuto “ottimista”) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con “l’aria nuova” di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima generazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale.

Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché – data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misura, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.

Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.

Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.

UN NEW DEAL O IL DISASTRO
Di Giulio Marcon

Workers act/Il governo Renzi non esce fuori dal dogma del mercato capace di autoregolarsi. Senza politiche pubbliche la crisi non finisce

Una volta – per essere competitivi – si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme “strutturali” cui Renzi affida la speranza di rilanciare l'occupazione e l'economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l'esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Né queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull'economia. Proprio nel DEF si dice che l'impatto del Jobs Act sul PIL sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent'anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.

L'assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno “sostitutivi”, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell'economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c'è una politica industriale, non c'è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c'è una politica del lavoro.

Non c'è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell'offerta, dove – per quel che ci riguarda – non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati ISTAT ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.

L'idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all'ottocento, anche se “2.0”. Un lavoro senza qualità porta con sé una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di “competere”. Un'impresa che si serve del lavoro “usa e getta”, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).

Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, “piccole opere”, ecc.) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente – nella creazione di posti di lavoro, attraverso un'agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosevelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti “pazienti” (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell'innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell'orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell'inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.

La nostra politologa preferita ci regala un'illuminante analisi del regime verso il quale, a colpi di frusta, ci avviamo. Segnaliamo in particolare il suo scritto a chi ancora nutre qualche illusione sulla democraticità del piccolo Cesare, oppure tarda a staccarsene.

Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).

Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione

di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.

Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere 
tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non 
barare al gioco e non cambiare le regole in corso
d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future
consultazioni e senza far saltare il banco.

Il governo
rappresentativo vuole un consenso delle norme e
delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.

La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.

Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.

Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà
stava procedendo da più di due decenni: il bisogno
di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro

prio come quando descrisse il destino bonapartista
 della Repubblica francese del 1848, nel contesto
della trasformazione globale del capitale. L’Italia
microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce-
nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere
la revisione cesaristica della Costituzione del 1948.
La Costituzione è un nobile compromesso tra par
ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap
sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno
di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.

La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.

La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.

E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.

È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.

Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.

Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.

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«E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa di pace e pro­spe­rità. Anche que­sta è una guerra. Con vit­time umane». Non una guerra, un suicidio collettivo.

Il manifesto, 13 marzo 2015

«Gliela faremo pagare». In que­sta frase che le cro­na­che sull’ultima riu­nione dell’Eurogruppo ci riman­dano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni que­stione di merito, è evi­dente che a Bru­xel­les si sta gio­cando una par­tita poli­tica di mas­sima impor­tanza e che ci riguarda: biso­gna punire chi, per la prima volta in 58 anni di sto­ria, ha osato sfi­dare i ver­tici dell’Unione euro­pea e ha messo in discus­sione i cri­teri di con­du­zione di quella che dovrebbe essere una comu­nità. Que­sto è quel che conta: non deve più acca­dere, chi ci ha pro­vato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla poli­tica. Cioè alla condivisione.

Per­ciò il signor Jeroen Dijs­se­bloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci bastano, ne vogliamo venti. La pros­sima volta diranno 25, chissà. Con­tro Varou­fa­kis ci sono dicias­sette robot che con­ti­nuano a chie­dere al governo Tsi­pras, forte di un appog­gio popo­lare senza pre­ce­denti, di pagare per le male­fatte accu­mu­late da chi sarà pur greco, ma è com­pa­gno di par­tito, e di casta, pro­prio di chi vor­rebbe impar­tire lezioni di mora­lità: i mini­stri del governo Sama­ras. Pro­prio nelle stesse ore in cui que­sta scena andava in onda uno di loro, anzi il più impor­tante per­ché l’ex mini­stro delle Finanze, Gikas Har­dou­ve­lis, veniva accu­sato di aver espor­tato ille­gal­mente 450 mila euro in un para­diso fiscale inglese. «Volevo met­tere al sicuro il capi­tale per i miei figli», si è scu­sato. Poveretto.

Non sono pas­sati nep­pure due mesi da quando ine­diti per­so­naggi, diver­sis­simi da chi da sem­pre aveva coman­dato il paese, hanno preso le redini della Gre­cia, tro­van­dosi a dover gestire un immane disa­stro eco­no­mico e ormai uma­ni­ta­rio. Ma la mera­vi­gliosa Europa non è dispo­ni­bile a dar­gli tempo affin­ché pos­sano ripa­rare e riav­viare lo svi­luppo del paese, nono­stante sem­pre più nume­rosi siano gli avver­ti­menti di eco­no­mi­sti euro­pei ed ame­ri­cani, che invi­tano Bru­xel­les a ragio­nare anzi­ché ad emet­tere editti imperiali.

La par­tita in atto è duris­sima. Del resto sape­vamo che così sarebbe stato. Ma è stato fon­da­men­tale avere accet­tato la sfida. Per la Gre­cia e per tutti noi che vor­remmo un’altra Europa. Final­mente la grande que­stione di cosa voglia dire essere una comu­nità, che è cosa diversa da un mer­cato, è stata posta sul tap­peto. Non si potrà più nascon­derla sotto. E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, ripe­tere le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa che ha por­tato pace e pro­spe­rità. Anche que­sta in corso è una guerra. Con le sue vit­time umane.

Ci sono per­ples­sità, e anche cri­ti­che per come Varou­fa­kis e Tsi­pras hanno con­dotto le cose? Sì, certo. Pro­ve­nienti dal loro stesso par­tito e Con­si­glio dei mini­stri. È com­pren­si­bile. Credo però che esse siano ingiu­ste. Si tratta di una guerra di lunga durata, non di una rapida e con­clu­siva bat­ta­glia, desti­nata a cono­scere arre­tra­menti e passi in avanti, per molti versi una vera guer­ri­glia. Ma biso­gna tenere i nervi saldi: i risul­tati non pos­sono esser misu­rati nell’immediato, è già una vit­to­ria aver impo­sto un nuovo discorso, aver aperto con­trad­di­zioni (che nono­stante l’apparente unità del fronte di Bru­xel­les già emer­gono), aver forse, anche que­sto per la prima volta, ani­mato un movi­mento popo­lare dav­vero euro­peo in soli­da­rietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già molto. Ha dato corag­gio a tutti. Per que­sto rin­gra­ziamo i com­pa­gni di Syriza e li invi­tiamo a continuare.

Una giornata memorabile. Con tristezza per oggi, e timore per domani.Articoli di Massimo Villone, Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi.

Il manifesto, 11 marzo 2015

UNA COSTITUZIONE DI MINORANZA

di Massimo Villone, 10.3.2015

Un brutto giorno per la Repub­blica. Come era nelle pre­vi­sioni, la Camera approva la riforma costi­tu­zio­nale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 aste­nuti, che alla Camera non con­tano. Movi­mento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favo­re­voli a Renzi. Ma è facile vedere, richia­mando il con­senso ai sog­getti poli­tici real­mente espresso nel voto del 2013, che una Camera depu­rata dalla droga del pre­mio di mag­gio­ranza dichia­rato ille­git­timo con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale oggi avrebbe boc­ciato la pro­po­sta. Non è la Costi­tu­zione della Repub­blica. È la costi­tu­zione del Pd con escre­scenze. Una costi­tu­zione di minoranza.

Que­sto con­ferma tutte le cri­ti­che sulla man­canza di legit­ti­ma­zione a rifor­mare la Costi­tu­zione di un par­la­mento ful­mi­nato nel suo fon­da­mento elet­to­rale. E dun­que non abbiamo affatto un paese più sem­plice e giu­sto, come esulta Mat­teo Renzi. Invece, abbiamo in pro­spet­tiva una Costi­tu­zione che non riflette la realtà del paese.

Il voto della Camera ci con­se­gna quel che sarà, molto pro­ba­bil­mente, il testo defi­ni­tivo della riforma. Si richiede un nuovo pas­sag­gio in Senato per chiu­dere con l’approvazione di un iden­tico testo la fase della prima deli­be­ra­zione richie­sta dall’art. 138 della Costi­tu­zione. Ma è ragio­ne­vole pre­ve­dere che Renzi alzerà bar­ri­cate con­tro ogni ulte­riore modi­fica, che potrebbe del resto toc­care solo le parti ora emen­date dalla Camera.

Immu­tata la sostanza. Lie­ve­mente miglio­rata la “ghi­gliot­tina” per cui il governo poteva pre­ten­dere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e pro­prio potere di vita o di morte sui lavori par­la­men­tari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata mate­ria riser­vata all’autonomia delle Camere attra­verso i rego­la­menti par­la­men­tari. Da domani — scritta in Costi­tu­zione — sarà invece un vin­colo sul par­la­mento nei con­fronti del governo. Peg­gio­rata la riforma del Titolo V, dove viene annac­quato con ine­dite com­pli­ca­zioni il pro­po­sito — in sé apprez­za­bile — di una sem­pli­fi­ca­zione del rap­porto Stato-Regioni.

Ma su tutto pre­vale la inac­cet­ta­bile scelta — che rimane — di un Senato non elet­tivo, di seconda mano e di dop­pio lavoro, tut­ta­via inve­stito di poteri rile­vanti, tra cui spicca quello di revi­sione della Costi­tu­zione. Man­ten­gono piena vali­dità le cri­ti­che più volte espresse su que­ste pagine. Soprat­tutto per la siner­gia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo signi­fi­cato. E se ne accen­tua il rilievo nel momento in cui la riforma costi­tu­zio­nale rimane pes­sima, e l’Italicum peg­giora. Al già inac­cet­ta­bile impianto di base, inos­ser­vante dei prin­cipi posti con la sen­tenza 1/2014, si aggiun­gono ora il pre­mio alla sola lista, la beffa dei capi­li­sta bloc­cati e can­di­da­bili in più col­legi, il bal­lot­tag­gio. Il colpo alla rap­pre­sen­ta­ti­vità delle isti­tu­zioni e ai pro­cessi demo­cra­tici si aggrava.

La fine dichia­rata da Ber­lu­sconi del patto del Naza­reno aveva susci­tato qual­che spe­ranza. La let­tera dei “ver­di­niani” — Ver­dini è noto­ria­mente in odore di ren­zi­smo — fa nascere dubbi sul con­trollo di Ber­lu­sconi sul par­tito. Forse una parte dei suoi si appre­sta a cam­biare padrone, se non casacca. Nel pros­simo voto in Senato — ancora in prima deli­be­ra­zione — non sarà pre­scritta una par­ti­co­lare mag­gio­ranza. Ma sarà una prova gene­rale per la seconda deli­be­ra­zione ex art. 138, per cui si richiede il voto favo­re­vole della metà più uno dei com­po­nenti l’assemblea. In Senato il dis­senso potrebbe allora essere deci­sivo. E affos­sare la riforma tra­sci­ne­rebbe con sé anche l’Italicum, che nulla pre­vede per il Senato assu­men­done il carat­tere non elettivo.

Sapremo dun­que già nel voto che si avvi­cina se la sini­stra del Pd ha numeri e attri­buti. Sapremo se il patto del Naza­reno è dav­vero morto. Ber­lu­sconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgam­betto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la pro­po­sta che Fi aveva votato in Com­mis­sione bica­me­rale Allora, pur avendo i numeri, la mag­gio­ranza di cen­tro­si­ni­stra si fermò. Que­sta volta non gli è riu­scito. In Senato pro­vaci ancora, Sil­vio. Magari faremo il tifo per te.

Nel frat­tempo, biso­gnerà spie­gare al popolo sovrano che nelle isti­tu­zioni si for­giano le poli­ti­che di governo. Per le donne e gli uomini di que­sto paese le scelte isti­tu­zio­nali non sono indif­fe­renti. Isti­tu­zioni sem­pli­fi­cate e poco rap­pre­sen­ta­tive, assem­blee elet­tive con la mor­dac­chia, governi che fun­zio­nano come giunte comu­nali (for­mula ren­ziana), par­titi della nazione pro­du­cono poli­ti­che con­ser­va­trici, disat­tente verso i diritti, subal­terne ai poteri forti, sorde alle diver­sità, e invece tol­le­ranti verso le dise­gua­glianze. Già accade.

Con pen­sosa paca­tezza Ber­sani final­mente avverte che l’Italicum non è vota­bile per la siner­gia per­versa con la riforma costi­tu­zio­nale. Corra ai ripari. Qual­cuno dovrebbe spie­gare a lui e all’evanescente sini­stra Pd che la ditta li ha già messi in cassa inte­gra­zione a zero ore. Anche il nuovo par­tito non più leg­ge­ris­simo di cui Renzi favo­leg­gia li met­te­rebbe in mobi­lità. Per loro, solo con­tratti a tutele decrescenti.

RIFORMA, NON È FINITA MA QUASI
di Andrea Fabozzi

La pre­si­dente Bol­drini, la mini­stra Boschi, il sot­to­se­gre­ta­rio Scal­fa­rotto, trenta depu­tati e nes­sun altro alle dieci alla camera, quando si aprono le dichia­ra­zioni di voto sulla riforma costi­tu­zio­nale. Aula vuota, sei­cento assenti per una seduta che durerà solo due ore e mezza. Par­tenza lenta di una gior­nata non memo­ra­bile, eppure deci­siva per la legge che riscrive 47 arti­coli della Costi­tu­zione. Epi­logo (quasi) di trent’anni di chiac­chiere, secondo la nota rico­stru­zione ren­ziana offerta in replica dal vice Gue­rini. Per il voto i ban­chi si riem­piono, e anche con il no di Forza Ita­lia la riforma figlia del patto del Naza­reno con­qui­sta una comoda mag­gio­ranza asso­luta: 357 sì.

Ai gover­na­tivi man­cano una qua­ran­tina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), 7 sono assenti giu­sti­fi­cati e 11 non par­te­ci­pano per­ché in dis­senso. Una mino­ranza, que­sti ultimi, della mino­ranza; il dis­senso era stato più forte al senato nel primo pas­sag­gio sette mesi fa. La gran parte dei ber­sa­niani vota sì: rico­no­scono nella riforma un peri­co­loso «cam­bia­mento pro­fondo della forma di demo­cra­zia par­la­men­tare» (Bindi) eppure valu­tano che «non si può far fal­lire il per­corso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assi­cu­rano che «è l’ultima volta» se «non si ria­prirà il con­fronto» se «non ci sarà equi­li­brio» con la legge elet­to­rale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripe­tuto di non voler cam­biare.

Due spic­chi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movi­mento 5 Stelle che non rinun­cia all’Aventino. Appare solo il dele­gato Toni­nelli e la sua dichia­ra­zione di voto comin­cia con «fasci­sti» e fini­sce con «diso­ne­sti». Ma in mezzo ha una cita­zione impor­tante: le parole di fuoco con­tro la riforma costi­tu­zio­nale impo­sta dal governo Ber­lu­sconi, discorso del 2005 di Ser­gio Mat­ta­rella.

Sel invece torna in aula, depu­tati e depu­tate quando con una mano votano (no) con l’altra alzano una copia della Costi­tu­zione. Ora la legge costi­tu­zio­nale torna a palazzo Madama. Se il senato appro­verà l’identico testo della camera, da ieri si pos­sono comin­ciare a con­tare i tre mesi di «pausa di rifles­sione» prima che Mon­te­ci­to­rio possa dare l’ultimo sì a mag­gio­ranza asso­luta: dun­que nel caso più favo­re­vole al governo il 10 giugno.

È dif­fi­cile, dal momento che ci sono le ele­zioni regio­nali die­tro l’angolo: saranno giorni di con­trap­po­si­zioni accese e di pause nei lavori par­la­men­tari. Ma non impos­si­bile, visto che al senato spetta adesso un com­pito assai limi­tato. Solo gli arti­coli che la camera ha modi­fi­cato rispetto al testo votato dai sena­tori potranno essere rimessi in discus­sione. E solo gli emen­da­menti stret­ta­mente legati alle novità potranno essere ammessi.

È diret­ta­mente il rego­la­mento dell’assemblea a rispon­dere alle spe­ranze ecces­sive della mino­ranza Pd. Meglio dimen­ti­care da subito gli «ulte­riori miglio­ra­menti al testo di riforma costi­tu­zio­nale» in cui dicono di con­fi­dare i ber­sa­niani. I sena­tori potranno rimet­tere mano solo a una decina di arti­coli. Il dop­pio voto con­forme esclude modi­fi­che alla com­po­si­zione del nuovo senato, alla moda­lità di ele­zione di secondo livello, alla gra­tuità del man­dato, al fatto che la fidu­cia sarà votata solo alla camera, al potere di ini­zia­tiva legi­sla­tiva, al nuovo quo­rum del refe­ren­dum… C’è spa­zio solo per rive­dere le fun­zioni di quello che sarà il nuovo senato e per poche altre que­stioni. Alcune effet­ti­va­mente miglio­rate dalla camera, dun­que da maneg­giare con cura: le regole del pro­ce­di­mento legi­sla­tivo, le moda­lità di ele­zione dei giu­dici costi­tu­zio­nali, la pos­si­bi­lità di esame pre­ven­tivo della Con­sulta sulla leggi elet­to­rali. Altre al con­tra­rio modi­fi­cate solo in appa­renza, come i quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica e per la dichia­ra­zione di stato di guerra: due pas­saggi deli­cati che restano sostan­zial­mente nella dispo­ni­bi­lità del primo par­tito. Sarà pos­si­bile anche inter­ve­nire sugli elen­chi delle mate­rie di com­pe­tenza sta­tale e di com­pe­tenza regio­nale, le modi­fi­che della camera sono state all’insegna del centralismo.
Ma a que­sto punto sarà più facile sabo­tare la riforma che cor­reg­gerla. Ecco allora l’incognita: visti i numeri del senato, se Ber­lu­sconi non rien­trerà nella par­tita e i suoi lo segui­ranno ancora, i dis­si­denti del Pd (che ad ago­sto furono 16) potreb­bero essere deci­sivi. La trat­ta­tiva si gio­cherà in paral­lelo con l’Italicum che dopo le regio­nali dovrebbe appro­dare alla camera. Renzi vuole che sia appro­vato defi­ni­ti­va­mente a Mon­te­ci­to­rio, ma è una legge che, accanto ai difetti strut­tu­rali, con­tiene un certo numero di errori tec­nici che andreb­bero (almeno quelli) cor­retti. La mino­ranza Pd dovrebbe però muo­versi tra camera e senato in maniera com­patta. Quello che è suc­cesso ieri porta a escluderlo.

BERSANI: COSÌ SIAMO ALL’IMPENSABILE.
«L’ULTIMOSÌ» DELLA SINISTRA PD. FORSE
di Daniela Preziosi


«La riforma costi­tu­zio­nale è nel campo del pen­sa­bile. Ma se la si abbina al modello dell’Italicum, un modello iper-maggioritario con par­la­men­tari per lo più nomi­nati e senza che si capi­sca chi sia il nomi­nante, si entra nel campo dell’impensabile. E non ci può essere disci­plina di par­tito che tenga». Fac­cia scura, tono alte­rato, Pier Luigi Ber­sani esce dall’aula e si sfoga con i cro­ni­sti. In mat­ti­nata è stato rice­vuto dal pre­si­dente Mat­ta­rella.
«Que­sto è l’ultimo sì», giura in Tran­sa­tlan­tico. «Il patto del Naza­reno non c’è più, ora non si dica che non si tocca niente. O si modi­fica in modo sen­sato l’Italicum o io non voto più sì sulla legge elet­to­rale e di con­se­guenza sulle riforme per­ché il com­bi­nato dispo­sto crea una situa­zione inso­ste­ni­bile per la demo­cra­zia». Poi l’offerta a Renzi: «Se accetta di modi­fi­care l’Italicum chi dis­sente come me gli garan­ti­sce che al senato i voti ci saranno tutti». Ma l’offerta cade nel vuoto. La mino­ranza Pd chiede meno nomi­nati e pre­mio di mag­gio­ranza alla coa­li­zione (e non alla lista) e appa­ren­ta­menti al secondo turno. Ma in molti si accon­ten­te­reb­bero di un gesto: come sul jobs act. Per ora avver­tono, si appel­lano, si aggrap­pano alla spe­ranza che Renzi ’apra’. C’è chi dà per pros­simo «un tavolo con Gue­rini». Ma in serata la mini­stra Boschi è sprez­zante: «Se chi ha vinto il con­gresso non può dare dik­tat, non lo può fare nem­meno chi l’ha perso».

Ren­zi­sem­bra irre­mo­vi­bile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua deter­mi­na­zione a non ripor­tare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Ita­lia nega i voti. Dun­que la legge non si tocca «nean­che di una vir­gola». Così l’ex area Cuperlo, che pre­para la «reu­nion» per il 21 a Roma (il 14 a Bolo­gna però Spe­ranza riu­ni­sce l’ala ’dia­lo­gante’) vede deli­nearsi all’orizzonte la scom­messa finale: o un ’ser­rate i ran­ghi’ o il defi­ni­tivo ’si salvi chi può’.

Le cin­quanta sfu­ma­ture della mino­ranza Pd pra­ti­cano tre voti diversi. In tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), in sette non par­te­ci­pano al voto (fra gli altri Fas­sina, Boc­cia, Civati, Pasto­rino), gli altri votano sì turan­dosi il naso. La dichia­ra­zione a nome del gruppo è affi­data a Lorenzo Gue­rini, non a Spe­ranza, pre­si­dente dei depu­tati. Per Alfredo D’Attorre que­sto sì è «l’ultimo atto di respon­sa­bi­lità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favo­re­vole» per­ché senza modi­fi­che «nelle vota­zioni pre­ce­denti», vuole dire ’suc­ces­sive ma è un lap­sus rive­la­tore, «non par­te­ci­però al voto e nel refe­ren­dum starò dalla parte dei cit­ta­dini». Il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo è uno degli spet­tri: «Che faremo, una cam­pa­gna con­tro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annun­cia il sì ma avverte che «senza modi­fi­che cia­scuno si assu­merà le sue respon­sa­bi­lità». Più tardi la sua area Sini­stra­dem riba­sce l’ultimatum in un docu­mento fir­mato da 24 par­la­men­tari (fra gli altri Amici, Argen­tin, Bray, De Maria, Fon­ta­nelli, Miotto, Pollastrini).

Ste­fano Fas­sina non par­te­cipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal pre­si­dente del Con­si­glio l’indisponibilità a cor­reg­gere la legge elet­to­rale». Come dire: è inu­tile pro­met­tere bat­ta­glia se poi alla fine vi alli­neate sem­pre. Pippo Civati lo dice espli­ci­ta­mente: «Dopo il voto di sta­mani quasi l’intero testo della riforma risulta inat­tac­ca­bile. Chi ha votato a favore con­di­vide le scelte com­piute e ne porta la respon­sa­bi­lità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosid­detta mino­ranza Pd ci sono dif­fe­renze poli­ti­che profonde».

Che la mino­ranza sia spap­po­lata e che la gran parte avrebbe votato sì lo si è pla­sti­ca­mente visto alla riu­nione di lunedì sera. Cuperlo è orien­tato per il non voto, ma a deve pren­dere atto che le sue truppe si stanno sfi­lac­ciando, per attra­zione verso Renzi ma anche per mani­fe­sta impo­tenza dell’opposizione interna. Idem Ber­sani. Il risul­tato è la solita pro­messa: la bat­ta­glia è riman­data alla pros­sima volta. Oggi tutti giu­rano che sull’Italicum andranno fino in fondo.
Ma sono in pochi a cre­dere di impres­sio­nare Renzi. Ci crede Davide Zog­gia: «Renzi non è sicuro di avere i voti sull’Italicum, lo dimo­stra il fatto che ha riman­dato il voto a dopo le regio­nali». Anche per­ché, spiega D’Attorre, «per la psi­co­lo­gia del par­la­men­tare medio una nuova legge elet­to­rale equi­vale a ele­zioni anti­ci­pate, anche se nella realtà non è così». Quindi sull’Italicum i più agguer­riti della mino­ranza si sono auto­con­vinti che non saranno soli. «Vi vedo per­plessi», dice D’Attorre ai cro­ni­sti allon­ta­nan­dosi. Poi si ferma un attimo: «Lo sono anche io»
Donna, Uomo. Vite e destini che più congiunti non si può, anche nella riflessione: ma questa, per ora, è arricchita solo sul versante femminile.

Il manifesto, 10 marzo 2014

Non è da ora che nume­rose parole-chiave cul­tu­ral­mente e media­ti­ca­mente for­tu­nate ci avver­tono di qual­cosa di inquie­tante: viviamo un tempo che sem­bra inca­pace di defi­nirsi per il suo pre­sente o anche per il suo desi­de­rio di futuro, e che si ras­se­gna quindi a iden­ti­fi­carsi con espres­sioni un po’ vuote, il cui senso imme­diato è quello di annun­ciare sol­tanto che un tempo pre­ce­dente è finito.

È la cele­bre con­di­zione «post-moderna» descritta alla fine degli anni ’70 da Lyo­tard, riem­pita via via da un modo di lavo­rare dive­nuto «post-fordista», da una cul­tura cri­tica «post-marxista» e «post-strutturalista», e via decli­nando que­sto sen­tirsi immersi in qual­cosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse defi­ni­zioni al pre­sente non sono poi per nulla ras­si­cu­ranti: viviamo in un mondo «liquido», in una «società del rischio», strut­tu­rata in «non luo­ghi». Anche le anti­che cer­tezze patriar­cali sono venute meno. Ne scri­veva il gio­vane Lacan già negli anni ’30, e un testo del fem­mi­ni­smo ita­liano del 1996 (Sot­to­so­pra rosso. E’ acca­duto non per caso) ha dichia­rato la “fine” del patriar­cato, giac­ché al pre­do­mi­nio maschile è venuto meno il cre­dito femminile.

Che cosa ne è seguito? La discus­sione è aperta. Una delle ipo­tesi – viviamo nel tempo del «Post-patriarcato», nell’«agonia di un ordine sim­bo­lico» non ancora con­clusa — è avan­zata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una gio­vane stu­diosa fem­mi­ni­sta, Irene Straz­zeri. Va subito detto che l’autrice, pur non esclu­dendo che da una fase per­corsa da «sin­tomi» allar­manti e da «sfide» dif­fi­cili possa anche rie­mer­gere una forma di «neo­pa­triar­cato», si dimo­stra fidu­ciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vis­suto in modo posi­tivo. E lo annun­cia in esergo come solo una donna può fare, dedi­cando il testo «al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro».

Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elet­tra Deiana – è utile anche per incro­ciare le ela­bo­ra­zioni di un gio­vane neo­fem­mi­ni­smo che sta aprendo vari ter­reni di ricerca met­tendo le ela­bo­ra­zioni del fem­mi­ni­smo sto­rico (ita­liano e occi­den­tale, ma anche post-coloniale) a con­fronto con la let­tura dell’attuale crisi glo­bale e del domi­nio della «ragione» neo­li­be­ri­sta. Una fase nella quale il capi­ta­li­smo sem­bra in grado di sus­su­mere ogni istanza cri­tica alter­na­tiva. Per esem­pio rico­no­scendo il «valore» della dif­fe­renza fem­mi­nile ma fina­liz­zan­dola all’efficienza della pro­du­zione e della com­pe­ti­ti­vità dell’economia data. Oppure ampli­fi­cando lo scan­dalo della vio­lenza maschile con­tro le donne, ma tra­du­cen­dolo in poli­ti­che di con­tra­sto e in para­digmi capaci di costrin­gere nuo­va­mente le donne nel ruolo di vit­time biso­gnose di «protezione».

La via di uscita indi­cata da Irene Straz­zeri è quella di una rilet­tura del con­cetto e della pra­tica dell’«autorità fem­mi­nile» così come è stata indi­cata soprat­tutto nei recenti testi di Luisa Muraro (Auto­rità, Rosem­breg & Sel­lier) e di Anna­rosa But­ta­relli (Sovrane, Il Sag­gia­tore). Un’idea di auto­rità diversa e distinta da quella di potere che con­nota la poli­tica maschile. Auto­rità come frutto della rela­zione e dello scam­bio lin­gui­stico. Come figura cir­co­lante indi­spen­sa­bile all’agire poli­tico, che può supe­rare gli stessi limiti della demo­cra­zia della rappresentanza.
Straz­zeri pro­pone di con­si­de­rare intrin­seca alla pro­du­zione di auto­rità anche la dina­mica del rico­no­sci­mento. Un dispo­si­tivo che può acco­mu­nare donne e uomini, senza il biso­gno di nuove tra­di­zioni e reli­gioni, per libe­rarsi da quell’agonia in un pre­sente final­mente capace di rico­no­scere se stesso

Una dittatura che si fa chiamare governance. Del resto, er un regime tirannico è impensabile sottoporre i massmedia (un potere che è Quarto solo per ragioni cronologiche) a una gestione pluralistica: occorre riportarlo sotto il governo del tiranno. Perciò Renzi...

La Repubblica, 9 marzo 2015

Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.

È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.

In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.

Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.

L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.

Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.

Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».

«Nelle formazioni politiche a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette in discussione per costruire qualcosa di nuovo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, e nemmeno Die Linke o Front de Gauche».

Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015

Da quando la sinistra alternativa in Italia è in difficoltà ha cominciato a identificarsi in modelli esterni. Dopo la disfatta del 2008 con la Sinistra Arcobaleno, a seconda delle stagioni, abbiamo assistito a diversi “innamoramenti”: Die Linke poi Front de Gauche, adesso è il momento di Syriza e Podemos. La cosa che mi colpisce, in tutto ciò, è la rimozione delle abissali differenze che esistono tra le realtà che hanno prodotto queste esperienze e la nostra. In particolare, quando si dice facciamo come Syriza e Podemos, si paragona la nostra realtà con quella della Grecia e della Spagna, senza considerare che la nostra situazione è profondamente diversa.

In primo luogo la devastazione che la crisi economica ha prodotto in Grecia, ma anche in Spagna, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quanto ha prodotto in Italia. In secondo luogo, soprattutto in Grecia, ma anche in Spagna, le formazioni socialiste sono crollate (Pasok) o in fortissima crisi (Psoe). In Italia possiamo pensare quello che vogliamo di Renzi, ma il consenso elettorale del Pd è il più alto da quando è stato sciolto il Pci. In terzo luogo in Italia, da diversi anni, esiste una formazione politica (che non esiste né in Spagna, né in Grecia), il M5S, che sarà pure in crisi, ma che ancora oggi raccoglie il 20 per cento del consenso elettorale.
Sono solo battute messe lì, ma penso che non ci sarà nessuna Syriza e nessun Podemos in Italia se non si aprirà una crisi di consenso nel PD e nel M5S. Per esempio, nelle recenti elezioni regionali in Emilia Romagna ha votato solo il 37% degli aventi diritto. 700.000 elettori del Pd (su 3.400.000 aventi diritto al voto), non sono andati a votare. Una enormità, in una regione dove votare è sempre stato considerato un dovere, prima che un diritto. 700.000 elettori che non hanno votato nessuno.
Eppure non mancavano le opzioni a sinistra del Pd: Sel dentro la coalizione, L’Altra Emilia Romagna fuori. Ma nemmeno uno di questi 700.000 elettori, delusi dal Pd, ha scelto una di queste due opzioni. Mi sembra una cosa rilevantissima che da sola dimostra quanto non siano attrattive le offerte politiche in campo oggi a sinistra del Pd. Eppure nessuno ne ha discusso o ne discute in modo approfondito.

Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.

Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'

incontro internazionale sul tema “Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo socialismo” promosso da Futura Umanità, Rosa Luxemburg (Germania), Nicos Poulantzas (Grecia) e GUE/NGL. Qui si può scaricare il testo in formato .pdf e leggerlo con calma, anche in tram

Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo



1.

Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.

Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.

Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.

Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.

Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.

2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].

Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].

3.Spinelli coglieva nel segno. Esattamente in questa saldatura, ossia nel nesso organico e inscindibile tra democrazia (come valore storicamente universale) e socialismo (come civiltà più elevata lungo il contrastato cammino di liberazione umana) si situa la visione europeista connessa a un «nuovo socialismo» per la quale ha lottato il segretario del Pci. Come egli stesso osserva, nel Pci e in diversi partiti comunisti d’Europa, pur con notevoli diversità di orientamento, «si è venuta affermando la convinzione che la lotta per il socialismo e la sua costruzione debbano attuarsi nella piena espansione della democrazia e di tutte le libertà». Ed «è questa - precisa - la scelta dell’eurocomunismo»[4].
Vale a dire di un’impostazione che, senza cancellare il valore della rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, intendeva aprire un altro percorso e un’altra prospettiva al socialismo in Occidente. Riprendendo e rinnovando le elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, che nell’impianto della Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro hanno trovato originali e significativi riferimenti, in effetti Berlinguer apriva un orizzonte nuovo nei punti alti del capitalismo in crisi. Come mai prima di allora era avvenuto, il segretario del Pci andava delineando un processo rivoluzionario di trasformazione della società del tutto inedito, da realizzarsi nello sviluppo pieno della democrazia e della legalità costituzionale.

Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.

Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.

Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].

4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.

Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.

Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].

Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].

Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.

Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].

6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.

Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].

Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].

In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.

«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.

7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].

«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.

La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].

Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.

8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.

Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.

Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].

Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.


9.Essenziale, in questo processo che comporta una vasta convergenza di forze democratiche e progressiste, è elevare il movimento operaio in Europa al ruolo di classe dirigente. Giacché solo la messa in mora dei vecchi e screditati gruppi di comando e l’avanzata di forze nuove potranno arrestare, nella visione di Berlinguer, il declino dell’Europa occidentale restituendole una funzione di primo piano nel progresso della civiltà e nel far avanzare uno nuovo sviluppo del socialismo.

Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].

Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].

Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.

10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.

La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].

Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.

Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.

All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].

Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.

Note

[1] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015
[2] L’intervista di Enrico Berlinguer è stata ripubblicata dal Fatto Quotidiano il 19 maggio 2014
[3] Intervista di Altiero Spinelli a Romano Ledda, L’Unità, 11giugno 1984
[4] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 37.
[5] E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984 a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti university press, Roma 2014, p. 58
[6] Ivi, pp.131, 130
[7] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC e alla CCC in preparazione del XIV congresso del Pci, in La questione comunista, Editori Riuniti, Roma !975, p. 827
[8] Ivi, p.844
[9] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2014, pp. 26, 27
[10] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 71
[11] Il Foglio, 16 dicembre 2013
[12] Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014
13] E. B., Un’altra idea del mondo, cit., p. 160
[14] Ivi, p. 201
[15] Ivi, pp.175, 179
[16] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC…, cit.pp.827-28, 843
[17] E. Berlinguer, Discorsi al Parlamento europeo, Editori Riuniti, Roma 2015, pp. 21-22
[18] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso…, cit., p. 36
[19] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 22,23
[20] Alexander Höbel, Berlinguer e la politica internazionale, in Critica marxista, n. 3-4 2014. Vedi anche: Raffaele D’Agata, Jalta e oltre. Sicurezza collettiva, stabilità geopolitica e prospettiva socialista, Ciclostilato; Fiamma Lussana, Il confronto con le socialdemocrazie e la ricerca di un nuovo socialismo nell’ultimo Berlinguer in Francesco Barbagallo e Albertina Vittoria, Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale, Carocci, Roma 2007
[21] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, cit., p. 27
[22] Ivi, p.32
[23] Ivi, p.38
[24] Ibidem, p. 36
[25] Cit., p. 36
[26] Benedetto Vecchi, il manifesto, 11 novembre 2014
[27] E, Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p.306
[28] Critica Marxista, 1984

«».

Il manifesto

In una paese nor­male, abi­tato da gente nor­male, dove anche i media di con­se­guenza sono nor­mali, le noti­zie che appa­iono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pen­sando il Vimi­nale, quindi il mini­stro Alfano, su Decoro/Degrado fareb­bero accap­po­nare la pelle.

Leggo testuale dal gior­nale di ieri “Sicu­rezza, più mili­tari e accat­to­nag­gio vie­tato vicino ai monu­menti”. E aggiungo “Più poteri ai sin­daci di difen­dere i cen­tro sto­rici ed i monu­menti delle nostre città. Al sin­daco dovreb­bero essere con­cessi dei poteri di ordi­nanza rela­tivi all’ordine pub­blico, modello movida, per ren­dere alcune zone del cen­tro off limits anche all’attività di accat­to­nag­gio e carità mole­sta”. Oggi invece prende forma una idea che a giu­di­care folle, se non bestiale, è dir poco. Sem­pre dal Mes­sag­gero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipo­tesi Daspo per pro­sti­tute e men­di­canti”. E nell’articolo viene spie­gato meglio “Affi­dare mag­giori poteri di poli­zia a que­stori e pre­fetti anche in mate­ria di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire su temi che vanno dalla pro­sti­tu­zione al cosid­detto accat­to­nag­gio, pas­sando per i locali not­turni troppo rumo­rosi, con prov­ve­di­menti inter­dit­tivi. Per fare l’esempio più noto alle cro­na­che, l’ipotesi su cui sta lavo­rando il mini­stero dell’Interno, darebbe a que­stori e pre­fetti la pos­si­bi­lità di appli­care anche in que­ste mate­rie ordi­nanze ana­lo­ghe al Daspo, il prov­ve­di­mento col quale attual­mente pos­sono impe­dire l’ingresso allo sta­dio ad alcuni tifosi, a pre­scin­dere da even­tuali respon­sa­bi­lità penali.”

Quindi, i cer­vel­loni del Vimi­nale, hanno pen­sato di met­tere un freno alla pro­sti­tu­zione (che ad esem­pio nel cen­tro cit­ta­dino è pra­ti­ca­mente ine­si­stente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (per­ché la povertà è un reato ed esi­birla è di cat­tivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accat­toni” daspati non potranno entrare nel cen­tro di Roma e dovranno con­ti­nuare ad arran­giarsi magari but­tan­dosi su qual­che via con­so­lare fuori dai muni­cipi del cen­tro. Oppure le pro­sti­tute oltre a dover fron­teg­giare gli aguz­zini che le schia­viz­zano, la vio­lenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimen­ti­cavo: già esi­stono prov­ve­di­menti simili, visto che è pos­si­bile dare il foglio di via “agli indesiderati”.

Ma che signi­fica “decoro”? Un nor­male dizio­na­rio spiega che il decoro è un “com­plesso di valori e atteg­gia­menti rite­nuti con­fa­centi a una vita digni­tosa, riser­vata, cor­retta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita digni­tosa dovrebbe essere un obiet­tivo di qual­siasi governo, con­tra­stare la povertà idem. Il pro­blema è che non si com­batte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto asso­ciato all’insicurezza. I “blog­gers anti­de­grado” accoz­za­glia discu­ti­bile di per­so­naggi che lan­ciano le loro cro­ciate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto con­tro i dis­ser­vizi della città diven­tano punto di rife­ri­mento per gli stessi ammi­ni­sta­tori cit­ta­dini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovi­sta nei cas­so­netti. Se i mezzi pub­blici sono fati­scenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patri­mo­nio pubblico/artistico di que­sta città è tenuto male è colpa degli hoo­li­gans venuti da fuori o di chi men­dica, crendo un cir­colo vizioso che con­trap­pone gli indi­genti ai cit­ta­dini, come se entrambi non fos­sero parte dello stesso tes­suto sociale. Con i suoi pro e i suoi con­tro. Nel frat­tempo nes­suno denun­cia il fatto che gli stessi gover­narnti, attra­verso i tagli alla cul­tura e ai ser­vizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cer­cano di scon­fig­gere a colpi di ordinanze.

L’esempio romano è asso­lu­ta­mente para­dig­ma­tico: dopo i 5 anni di Ale­manno e le varie ordi­nanze anti-alcol nel cen­tro cit­ta­dino, la nuova giunta aveva pro­messo che non avrebbe con­tra­stato “la movida” a colpi di ordi­nanze varie. Pro­messe man­te­nute per una estate per poi ade­guarsi nean­che un anno dopo alle pre­ce­denti ammi­ni­stra­zioni gra­zie anche a una cam­pa­gna media­tica avvol­gente, che vede schie­rati tutti i media a difesa non del “pub­blico” ma del “pri­vato”. A difesa, dicono, del “cit­ta­dino” men­tre tra­sfor­mano interi quar­tieti in “diver­ti­men­ti­fici”, alla fac­cia del cit­ta­dino stesso.

Ed è sin­go­lare che nella città dello scan­dalo Atac, Ama, Mafia Capi­tale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si con­ti­nui a tro­vare nel “degrado/decoro” il pro­blema da risol­vere, da affron­tare. Il pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, la crisi eco­no­mica, ha di sicuro cre­sciuto le sac­che di povertà in città. Le barac­che, parte del tes­suto urbano dal dopo­guerra fino alla seconda metà degli anni 70, diven­tano inac­cet­ta­bili e peri­co­lose. Ci ripor­tano indie­tro nel tempo è ci mostrano l’altra fac­cia della metro­poli, quella in cui potremmo finire un giorno. Con­ti­nuare a tro­vare il nemico in alcune sac­che di cit­ta­dini, eco­no­mi­ca­mente svan­tag­giate, è la dimo­stra­zione dell’uso poli­tico che si fa del con­cetto di “decoro” è il modo con cui i governi rie­scono a far pas­sare ogni misura secu­ri­ta­ria. Del resto le ordi­nanze cit­ta­dine, di vari sin­daci, in maniera di decoro, sono qual­cosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo tro­vati di fronte a misure tal­mente ridi­cole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così male­det­ta­mente serio.

Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qual­cosa che coin­volge ammi­ni­stra­zioni di destra e di sini­stra, per una tra­sver­sa­lità peri­co­losa. Una ideo­lo­gia per­versa, mora­li­sta, che non crea cit­ta­di­nanza, non crea soli­da­rietà ma pic­coli sce­riffi armati di smart­phone pronti a foto­gra­fare il men­di­cante di turno o chi rovi­sta nei cas­so­netti. I nuovi nemici da com­bat­tere sono quelli che rac­col­gono le bri­ciole di quel che con­su­miamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “acces­si­bi­lità ai con­sumi”. Un egoi­smo sociale, mora­li­sta appunto, che fa del cit­ta­dino edu­cato che non butta le carte in terra, un buon cit­ta­dino. Che crea dise­gua­glianze invece di costruire un tes­suto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di libe­rarci dalle paure. Che trova il degrado nella pro­sti­tuta e non nello sfrut­ta­tore, nelle reti della tratta, o anche sem­pli­ce­mente nel cliente della pro­sti­tuta, il pro­blema. Impor­tante è che non par­cheggi in dop­pia fila e che paghi pun­tual­mente il biglietto

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Cronache di ordinario razzismo

Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.

Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.

Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.

Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.

Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.

Questo ciò che è successo.

La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.

Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?

«». Fondazione Critica Liberale, 1 marzo 2015


Parafrasando il noto motto dell’avv. Agnelli: “solo un governo di sinistra può fare cose di destra”, si potrebbe dire “solo un partito antiberlusconiano può attuare un programma berlusconiano”. E’ il caso dell’attuale Pd.

Riforme istituzionali, art. 18, responsabilità civile dei magistrati, e altro che è ancora allo stato di studio e delle bozze (vedi Rai), o di cui ancora non si parla, sono tutte norme che facevano parte del programma del cavaliere di Arcore. Idee di cui Berlusconi discorreva e deliberava con le ospiti delle serate bunga–bunga e che poi pretendeva che il Parlamento ratificasse.

Anche se posso sembrare grillino, che non sono, penso che poco a poco stia venendo fuori che le polemiche che ogni tanto Forza Italia fa con il governo è pura manfrina e che, come ho già scritto, se Renzi fa il “bravo” e attua il “programma”, il padrone di quel partito è disposto anche a sacrificare la sua creatura consentendo un travaso di voti al nuovo Pd.

L’attuale capo del governo e segretario del Pd dà sempre più l’impressione di essere etero diretto, di attuare un programma per conto di qualcuno, non sembra che porti avanti idee proprie, anche perché non so se sarebbe all’altezza di elaborarle.

Egli, e il suo principale antagonista attuale Salvini, sono cresciuti e si sono formati nell’epoca d’oro della Tv spazzatura. Se non erro, i giornali hanno riportato che entrambi hanno partecipato a quei programmi presi in giro da Arbore, dove rispondendo a domande come “quanto fa due più due” si potevano vincere milioni (“E’ così che si fanno i milioni, evviva le televisioni”, faceva cantare al coro il presentatore pugliese).

Berlusconi, grazie a quel tipo di Tv, ha costruito il suo impero economico e politico; poi, stanco, ha fatto andare avanti i suoi discepoli. Per chi ha avuto come mentore quella televisione, l’importante è avere sempre lo slogan giusto a portata di mano, tanto chi lo segue non andrà mai ad aprire un libro per documentarsi da sé, non andrà mai a verificare di persona se certe affermazioni corrispondono al vero, basta che la frase sintetica (il twitter) sia quella giusta.

E così Renzi può dire che la sua politica è a favore dei giovani, pur prendendo provvedimenti opposti, e i giovani gli credono. Salvini può dire che uscendo dall’Unione Europea staremo meglio e la gente gli crede. D’altro canto anche Mussolini diceva “spezzeremo i reni alla Grecia” o che “l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”, e la gente andava in estasi credendo che ci saremmo divisi il mondo noi e la Germania, salvo poi mandare in Russia soldati con le scarpe di cartone e con la raccomandazione di “portarsi una coperta da casa”.

A volte mi chiedo se ci sia una maledizione sulla testa di noi italiani: Crispi, Mussolini, Giannini, Craxi, Berlusconi, Renzi, Salvini. Politici che risolvono tutto nella parola che infatua le folle. Si dice: è il popolo italiano che è immaturo. Ma no! Il popolo è più o meno uguale dappertutto, quello che da noi è diversa è la cosiddetta classe dirigente, è questa che dovrebbe imprimere la svolta perché ne ha il potere e i mezzi. Ma purtroppo alla nostra borghesia danarosa, alla maggior parte dei nostri intellettuali, questa società, queste istituzioni, questi politici, vanno più che bene.

E i giovani continueranno a emigrare.


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Prima Lan­dini e poi Ber­sani hanno agi­tato le acque della pax ren­ziana vio­lan­dola pro­prio men­tre la pro­pa­ganda gon­fiava i primi segnali tec­nici di ripresa e li attri­buiva al polso ener­gico del con­dot­tiero di Rignano. Non si tratta di pure sca­ra­mucce. Esi­ste un nodo di fondo che si ripro­pone quasi ogget­ti­va­mente: la man­canza di ogni rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica di un mondo di ban­diere rosse che negli anni set­tanta con­qui­stò il con­senso di quasi il 50 per cento del paese.

Se que­sta carenza di una sini­stra poli­tica e sociale è un pro­blema, anche di sistema, che si intende supe­rare, occorre com­pren­dere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e pene­trare, se ci sono, nelle sue zone di debo­lezza. Con Renzi, il Pd porta alle con­se­guenze estreme delle ten­denze interne verso approdi post-ideologici ope­ranti già al tempo del Lin­gotto. Però quest’anima inter­clas­si­sta e mode­rata, con il suo dise­gno di sfon­dare al cen­tro con la pro­messa di una rivo­lu­zione libe­rale, che con Vel­troni e Rutelli si arenò, ora trova espres­sioni ine­dite che sem­brano rivi­ta­liz­zarla. Per­ché Renzi rie­sce dove Rutelli ha già fallito?

Alla spinta cen­tri­sta e moder­niz­za­trice, con­dita con la salsa di un libe­ri­smo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica por­zione di anti­po­li­tica. Met­tendo insieme il nucleo del pro­gramma della Con­fin­du­stria (ridu­zione dello spa­zio pub­blico e sem­pli­fi­ca­zione delle regole del lavoro) e lo stile anti­po­li­tico, Renzi inter­cetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discon­ti­nuità radi­cale, il vec­chio ceto poli­tico di estra­zione comu­ni­sta. Muta anche, con l’assalto al sin­da­cato, la com­po­si­zione sociale del par­tito, al punto da pene­trare in aree e inte­ressi sociali delle microim­prese attratte dalla distru­zione delle cosid­dette rigi­dità del mer­cato del lavoro (e dalla enfasi ren­ziana con­tro i con­trolli buro­cra­tici ecces­sivi, che riscon­trano irre­go­la­rità nel 65 per cento delle aziende visi­tate) e che dif­fi­cil­mente avreb­bero guar­dato a sinistra.

Dalla prima anima, quella in senso lato con­fin­du­striale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un con­for­mi­smo asso­luto (c’è una sorta di gior­nale unico nazio­nale che da Repub­blica passa per il Cor­riere, La Stampa, Il Mes­sag­gero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto poli­tico, egli assorbe un desi­de­rio di vit­to­ria (com­pren­si­bile dopo che il Pd si era acca­sciato a terra pro­prio al momento del trionfo) e una invo­ca­zione di nuovo e di rot­tura verso schemi tra­di­zio­nali.

La forza di Renzi (anco­rag­gio ad inte­ressi d’impresa e coper­tura della scena pub­blica con una asfis­siante comu­ni­ca­zione post-politica) è anche la sua debo­lezza. Senza un par­tito strut­tu­rato, privo di un sistema di potere con­so­li­dato che si estenda oltre i meri traf­fici clien­te­lari del giglio magico, senza un vero gruppo diri­gente e una valida classe di governo, privo di un col­le­ga­mento con ampi sog­getti sociali, il grado di auto­no­mia di cui Renzi gode rispetto alle potenze eco­no­mi­che e finan­zia­rie è quasi insus­si­stente.

Sfrutta al mas­simo le loro risorse, le esi­bi­sce in un pub­blico sfarzo alla Leo­polda e ammi­ni­stra spesso con arro­ganza le loro muni­zioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista per­ché il soste­gno dei poteri forti è sem­pre con­di­zio­nato al rapido incasso in moneta sonante. La coa­li­zione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di tran­si­zione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfu­ma­ture, che sor­regge adesso Renzi.

La novità è soprat­tutto il grado di anti­po­li­tica che il fio­ren­tino aggiunge alla com­me­dia e lo sman­tel­la­mento di un par­tito (mai con­so­li­dato) tra­mu­tato in una sua appen­dice per­so­nale. Il domi­nio ren­ziano sem­bre­rebbe incon­tra­sta­bile, con lo spread che si calma, con il tra­sfor­mi­smo del venti per cento dei depu­tati pronti al grande salto nel carro del rot­ta­ma­tore, con l’opportunismo di tanti par­la­men­tari del Pd che hanno fiu­tato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.

Eppure, la man­canza di una sini­stra rico­no­sci­bile sol­leva una latente crisi di legit­ti­ma­zione. L’impressione che la poli­tica odierna suscita è quella che rica­vava Toc­que­ville osser­vando la vita par­la­men­tare del suo tempo. In essa «gli affari ven­gono trat­tati fra i mem­bri di un’unica classe, secondo i suoi inte­ressi e i suoi modi di vedere, non è pos­si­bile tro­vare un campo di bat­ta­glia su cui i grandi par­titi pos­sano farsi la guerra». Con il pre­si­dente del con­si­glio «gasa­tis­simo da Mar­chionne» e gran vene­ra­tore della sacra libertà di licen­zia­mento, nel par­la­mento opera un solo inte­resse pre­va­lente, quello dell’impresa.

Per que­sto è dif­fi­cile al momento pen­sare ad una rina­scita della destra su basi diverse dal popu­li­smo di Sal­vini. Una destra libe­rale non ha alcuna pos­si­bi­lità (e neces­sità) di orga­niz­zarsi col­ti­vando ambi­zioni di alter­na­tiva: il suo spa­zio è già ben pre­si­diato da Renzi. E una sini­stra avrebbe le forze per ripren­dere una fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva? Nel «paese legale», con­ti­nuava Toc­que­ville descri­vendo l’omologazione dei ceti poli­tici fran­cesi, esi­ste una «sin­go­lare omo­ge­neità di posi­zioni, di inte­ressi e, per con­se­guenza di vedute, che toglie ai dibat­titi par­la­men­tari ogni ori­gi­na­lità e ogni realtà, e quindi ogni vera pas­sione». La stessa sen­sa­zione di tra­monto dell’autonomia della poli­tica la si ricava osser­vando le dispute poli­ti­che odierne.

Auto­nomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sin­da­cato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine effi­cace rispetto alle sol­le­ci­ta­zioni della finanza, dell’impresa, dei media. E que­sto ritorno ad un par­la­men­ta­ri­smo mono­classe suscita anche una sen­sa­zione di impo­tenza, di estra­neità in con­si­stenti fasce di opi­nioni. Nel domi­nio di grandi potenze eco­no­mi­che, diceva Toc­que­ville, «i vari colori dei par­titi si ridu­cono a pic­cole sfu­ma­ture e la lotta a una disputa ver­bale». Non è un caso che, in un clima di simi­li­tu­dine nelle basi sociali rico­no­sciute, avvenga il pro­cesso di uni­fi­ca­zione tra Pd e Scelta civica o che sfu­mino del tutto i con­fini distin­tivi con il nuovo cen­tro destra.

Quale per­ce­pi­bile dif­fe­renza iden­ti­ta­ria, e di alte­rità nei rife­ri­menti sto­rici e sociali, si può mai notare tra Gue­rini e Alfano, tra Boschi e Car­fa­gna, tra Picierno e Gel­mini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Ver­dini, tra Faraone e Fitto? Ancora Toc­que­ville: in una poli­tica ad una sola dimen­sione, quella della classe pro­prie­ta­ria, i poli­tici ricor­rono «a tutta la loro per­spi­ca­cia per sco­prire argo­menti di grave dis­senso, senza tro­varne». Con le sue poli­ti­che in tema di lavoro, Renzi si raf­forza per­ché lascia senza scopo una destra di governo. Però, pro­prio con que­sto sci­vo­la­mento, man­tiene sguar­nito un ampio fronte sociale, i cui inte­ressi non coin­ci­dono con il raf­for­za­mento del potere uni­la­te­rale dell’impresa.

Con le sue scor­ri­bande isti­tu­zio­nali, Renzi apre una vistosa vora­gine anche nel campo poli­tico (mal­trat­ta­mento dei prin­cipi dell’antico costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra, demo­li­zione dell’idea di un par­tito non per­so­nale). Col­pita sul piano degli inte­ressi sociali di rife­ri­mento e sfre­giata sull’idea di demo­cra­zia e sul senso della poli­tica, è impen­sa­bile che la sini­stra non provi a rea­gire alle umi­lia­zioni di chi si vanta di averla asfaltata.

Non per un senso dell’onore, che già Bodin esclu­deva quale prin­ci­pio della poli­tica, ammet­tendo la liceità del com­pro­messo e della trat­ta­tiva al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfi­dato di punto. Ma, alla com­pren­si­bile riti­rata, che ha accom­pa­gnato il celere trionfo ren­ziano, non è cor­ri­spo­sta alcuna azione inci­siva per il recu­pero di forza e capa­cità di com­bat­ti­mento. È man­cata quella che Lenin avrebbe chia­mato una «riti­rata con giu­di­zio». La con­trof­fen­siva, dopo la tem­po­ra­nea riti­rata, non è stata nep­pure accen­nata. E invece andrebbe disegnata.

Con una coa­li­zione sociale di pro­te­sta e ostile alla pro­po­sta poli­tica? La spe­ci­fi­cità ita­liana è che men­tre altrove esi­stono due sini­stre, qui non se ne intra­vede nep­pure una. La mino­ranza del Pd deve avere la con­sa­pe­vo­lezza che il suc­cesso di Renzi, e cioè la sua lea­der­ship alle pros­sime ele­zioni, sarebbe il trionfo di una variante di par­tito per­so­nale a voca­zione popu­li­sta entro cui una com­po­nente di sini­stra risul­te­rebbe schiac­ciata e inutile.

Per­ciò deve imma­gi­nare che qual­cosa può nascere oltre Renzi e non biso­gna dare più come senza alter­na­tive il qua­dro attuale di governo. Se le due sini­stre visi­bili solo in potenza, quella sociale e quella poli­tica, non met­tono in atto un pro­cesso di alter­na­tiva a Renzi, devono ras­se­gnarsi alla rapida deca­denza della qua­lità democratica.

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CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo edi­to­riale Euge­nio Scal­fari ha sol­le­vato un tema d’importanza cru­ciale: il declino della demo­cra­zia par­te­ci­pata. Rav­vi­san­done la ragione nell’indifferenza dei cit­ta­dini. Che la demo­cra­zia sia in dif­fi­coltà è fuor di dub­bio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle tra­sfor­ma­zioni cui la demo­cra­zia è sot­to­po­sta e che hanno deru­bri­cato da demo­cra­zia par­te­ci­pante a demo­cra­zia respin­gente. L’Italia non è un caso unico. Le demo­cra­zia respin­genti ci sono ovun­que e in Ita­lia la si è comin­ciata a fab­bri­care da un quarto di secolo fa.

Renzi sta solo met­tendo il tetto all’edificio di una demo­cra­zia che odia i cit­ta­dini. L’odio per i cit­ta­dini si mani­fe­sta anzi­tutto sul ter­reno delle poli­ti­che. L’austerità è comin­ciata tre anni fa. Ma le decur­ta­zioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parec­chio si è aggra­vata a dismi­sura la pres­sione fiscale sui red­diti medi e bassi. E sono enor­me­mente peg­gio­rate le con­di­zioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qua­lità sta decli­nando da un pezzo, nel pub­blico e nel pri­vato. In com­penso chi comanda non pensa a dismet­tere lussi inu­tili e dan­nosi, come la Tav e gli F35, né tan­to­meno si mostra dispo­sto a ridurre gli inde­centi pri­vi­legi di cui godono i poli­tici e butta solo fumo negli occhi.

La seconda mani­fe­sta­zione di odio per i cit­ta­dini sta nel respin­gerli come tali. Votare non è un gesto natu­rale. Per molti, spe­cie i gio­vani, è un atto che va inco­rag­giato. Sia tra­mite le per­for­man­ces della poli­tica, che al momento non aprono nean­che più alla spe­ranza, sia sot­to­li­nean­done l’importanza. Sia mediante un’azione costante di col­ti­va­zione del civi­smo un tempo svolta dalla scuola e dai par­titi.

L’istruzione ha pure la fun­zione di socia­liz­zare i gio­vani alla vita col­let­tiva e alla par­te­ci­pa­zione poli­tica. Ben cono­sciamo le con­di­zioni lamen­te­voli in cui la scuola è ridotta e lo spre­gio con cui sono trat­tati gli inse­gnanti. Quanto ai par­titi, il loro sof­fo­ca­mento è stato deli­be­rato. In nome di una demo­cra­zia che decide, li si è disat­ti­vati, pro­met­tendo che a col­ti­vare il civi­smo avrebbe prov­ve­duto la società civile. Solo che la società civile, peral­tro ambi­gua, non com­pensa l’attività di edu­ca­zione e inci­ta­mento che i par­titi di massa svol­ge­vano su vasta scala. Sono rima­sti i par­titi impro­pria­mente detti per­so­nali, che sono cir­co­scritte cosche affa­ri­sti­che, riser­vate ai super­pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, che non sanno nem­meno com’è fatto il mondo e che nutrono uni­ca­mente ambi­zioni di potere.

I cit­ta­dini non sono scioc­chi e osser­vano tutto que­sto. Pos­sono magari illu­dersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indi­gnati e arrab­biati. Di quali mezzi tut­ta­via dispon­gono per mani­fe­stare la loro sofferenza?

Ci hanno per­fino pro­vato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irri­le­vante di elet­tori ha pro­vato a ribel­larsi votando per Beppe Grillo. Ma per sco­prire ben pre­sto che il suo incon­te­ni­bile nar­ci­si­smo media­tico è solo ser­vito a ste­ri­liz­zare la loro indi­gna­zione, spia­nando la strada alle bru­ta­lità del ren­zi­smo. Quando non c’è nar­ci­si­smo, com’è suc­cesso in Gre­cia, pare stia andando anche peg­gio. Un popolo intero sta san­gui­no­sa­mente pagando le dis­si­pa­zioni di una ristretta casta di poli­ti­canti e di potenti. Ma tutta l’Europa con­giura affin­ché la sua ribel­lione elet­to­rale, che ha cac­ciato i respon­sa­bili, non pro­duca alcun aggiu­sta­mento. Die­tro la grande nar­ra­zione – let­te­ra­ria, cine­ma­to­gra­fica, media­tica, gior­na­li­stica e spesso anche acca­de­mica – del disin­canto e dell’indifferenza, cova insomma una ribel­lione silen­ziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.

Un po’ più di atten­zione andrebbe pre­stata ai dati sull’astensione. Il nostro gar­bato capo del governo si fa forte del 40% di con­sensi otte­nuti alle euro­pee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elet­tori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro con­senso. Non è poco per riven­di­care un grande con­senso popo­lare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elet­tori arrab­biati smet­tesse di aste­nersi e cedesse alle lusin­ghe di uno dei tanti lea­der popu­li­sti che ci sono in giro ne sca­tu­ri­sca un esito elet­to­rale che chiuda per­sino la depri­mente bot­tega della demo­cra­zia respingente

«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015

Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.

Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.

Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.

Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.

Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.

A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.

Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.

La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.

Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015


VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.

Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.

Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.

Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia

«». La Repubblica, 23 febbraio 2015

LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra».

Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale…
Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.

È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.

Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna.
Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologicopolitica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…).
Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente.
Questo articolo di Slavoj Zizek è tratto dal suo libro “L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme (Ponte alle Grazie pagg. 92 euro 9)
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