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«Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia

gender», ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti». Ne siamo proprio sicuri? Corriere della Sera, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Parte del mondo cattolico ha manifestato la sua disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che sradica l’umanità da se stessa. È stata fornita un’immagine implicitamente polemica verso l’atteggiamento «accomodante» del Papa.

Stavolta il mondo laico non se la può prendere come al solito con le ingerenze vaticane, le intromissioni della Chiesa, il confessionalismo delle gerarchie. Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia gender», indicata come tirannica manipolazione della natura e degli stessi fondamenti umani della società, ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti. È l’antitesi di ciò che è accaduto in Irlanda con il referendum sui matrimoni gay. Lì, in assenza di una massiccia partecipazione dell’episcopato di Dublino, l’elettorato cattolico ha disobbedito esprimendosi a favore. Qui, nella città che è il luogo simbolico dove il Vicario di Cristo è anche il vescovo di Roma, le strade si sono riempite di cattolici che hanno manifestato la loro disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che a loro avviso sradica l’umanità da se stessa.
È la prima volta che accade nell’era di papa Francesco. È la prima volta che il sesso, il genere, ciò che è uomo e ciò che è donna, l’atto stesso del congiungimento carnale da cui scaturisce la procreazione entra a pieno titolo nei «valori non negoziabili», in quella sfera di scelte che riguarda le questioni prime e ultime della vita e della morte. È la prima volta che la piazza viene mobilitata e riempita non semplicemente per quello che è chiamata «unione tra coppie dello stesso sesso», ma in una sfera di interrogativi che hanno a che fare con la cultura, la concezione del mondo, l’idea stessa della natura.
È un terreno su cui papa Francesco ha deciso di non intervenire con forza. Certo, non per rinunciare ai fondamenti della visione cristiana delle cose, ma per non esasperare la conflittualità con il mondo secolare. La chiesa «infermeria» di papa Francesco non vuole fare altri feriti, non vuole scavare trincee contro lo spirito del tempo, non vuole scatenare la guerra santa contro la deriva secolarista. La manifestazione di ieri invece sì. È stata l’espressione di un fronte del rifiuto che è più esteso di quanto i media non riescano a immaginare. È stata la rinascita di un movimento di guerra culturale contro la modernità che sembrava essersi spenta con il nuovo papato. Ecco l’altra differenza con movimenti come quello francese «Manif pour tous». In quel caso l’episcopato francese spinse l’acceleratore della protesta, sancì l’armonia tra un sentimento diffuso e le istituzioni preposte alla irreggimentazione del mondo cattolico. Qui a Roma si è visto il segno di uno scarto, di una sottile linea di frattura, di una insofferenza che le gerarchie ecclesiastiche difficilmente potranno ignorare. Questo è il vero segnale d’allarme per il mondo laico, o comunque per quella parte dell’opinione pubblica che ritiene indispensabile il riconoscimento delle tutele e del diritto per le coppie dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente, senza discriminazioni.
La guerra culturale era invece alla base dell’azione del cardinale Camillo Ruini quando dirigeva l’episcopato italiano. Lui la chiamava «progetto culturale» e voleva ribadire l’idea che il cristianesimo non dovesse essere solo vissuto nel chiuso delle coscienze, nella dimensione privata, ma imponesse i suoi valori culturali nell’arena pubblica. La battaglia sui «valori non negoziabili» aveva questa base: la guerra sull’aborto, sulla fecondazione assistita, sulla difesa dell’embrione, sul rifiuto dell’eutanasia. Tutti temi che toccavano direttamente la sfera della vita e della morte, o meglio dell’intervento umano sull’origine della vita e sulla sua fine, la protesta contro una tecnoscienza che voleva prendere con prepotenza il posto del Creatore nella determinazione della vita e della morte.
Ma l’azione di Ruini aveva direttamente l’appoggio di due Pontefici: Giovanni Paolo II (che già all’inizio degli anni Ottanta assecondò la mobilitazione cattolica nel referendum poi perso, sull’aborto) e poi papa Ratzinger.
Oggi è tutto diverso. Una parte del mondo cattolico fa da sé, riempie le piazze senza un comando ecclesiastico, fornendo un’immagine di sé implicitamente polemica nei confronti dell’atteggiamento «accomodante» di papa Bergoglio. E lo fa su un tema, quello del «gender», che oramai nella sensibilità del mondo moderno, e di una parte stessa dell’universo cattolico come è accaduto in Irlanda, è stato assimilato senza più traumi e crisi di rigetto. L’idea che su una visione filosofica del mondo, considerata però essenziale per l’integrità della fede, il mondo cattolico manifesti come ieri una sensibilità esasperata e risentita, è una novità che tutti noi stentavano a considerare così sentita e centrale. Nel cattolicesimo italiano si è aperta una spaccatura profonda che arriva dritta al cuore delle istituzioni ecclesiastiche. La manifestazione antigender è insieme uno spauracchio e un avvertimento. La fonte di un nuovo, imprevisto conflitto. Il mondo laico non può dormire sonni tranquilli.
«Con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli».

Il manifesto, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

C’è un debito estero dei Paesi poveri che non viene con­do­nato, e anzi si è tra­sfor­mato in uno stru­mento di con­trollo mediante cui i Paesi ric­chi con­ti­nuano a depre­dare e a tenere sotto scacco i Paesi impo­ve­riti, dice il papa (e la Gre­cia è lì a testi­mo­niare per lui). Ma il “debito eco­lo­gico” che il Nord ricco e dis­si­pa­tore ha con­tratto nel tempo e soprat­tutto negli ultimi due secoli nei con­fronti del Sud che è stato spo­gliato, nei con­fronti dei poveri cui è negata per­fino l’acqua per bere e nei con­fronti dell’intero pia­neta avviato sem­pre più rapi­da­mente al disa­stro eco­lo­gico, all’inabissamento delle città costiere, alla deva­sta­zione delle bio­di­ver­sità, non viene pagato, dice il papa (e non c’è Troika o Euro­zona o Banca Mon­diale che muova un dito per esigerlo).

La denun­cia del papa («il mio appello», dice Fran­ce­sco) non è gene­rica e rituale, come quella di una certa eco­lo­gia “super­fi­ciale ed appa­rente” che si limita a dram­ma­tiz­zare alcuni segni visi­bili di inqui­na­mento e di degrado e magari si lan­cia nei nuovi affari dell’economia “verde”, ma è estre­ma­mente cir­co­stan­ziata e pre­cisa: essa arriva a lamen­tare che la deser­ti­fi­ca­zione delle terre del Sud cau­sata dal vec­chio colo­nia­li­smo e dalle nuove mul­ti­na­zio­nali, pro­vo­cando migra­zioni di ani­mali e vege­tali neces­sari al nutri­mento, costringe all’esodo anche le popo­la­zioni ivi resi­denti; e que­sti migranti, in quanto vit­time non di per­se­cu­zioni e guerre ma di una mise­ria aggra­vata dal degrado ambien­tale, non sono rico­no­sciuti e accolti come rifu­giati, ma sbat­tuti sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o al di là di muri che il mondo anche da poco appro­dato al pri­vi­le­gio si affretta ad alzare, come sta facendo l’Ungheria. L’«appello» del papa giunge poi fino ad accu­sare che lo sfrut­ta­mento delle risorse dei Paesi colo­niz­zati o abu­sati è stato tale che dalle loro miniere d’oro e di rame sono state pre­le­vate le ric­chezze e in cam­bio si è lasciato loro l’inquinamento da mer­cu­rio e da dios­sido di zolfo ser­viti per l’estrazione.

Que­sta enci­clica rap­pre­senta un salto di qua­lità nella rifles­sione sull’ambiente, si potrebbe dire che apre una seconda fase nella ela­bo­ra­zione del discorso eco­lo­gico, così come accadde nel costi­tu­zio­na­li­smo quando dalla prima gene­ra­zione dei diritti, quelli rela­tivi alle libertà civili e poli­ti­che, si passò alla con­si­de­ra­zione dei diritti di seconda e terza gene­ra­zione, sociali, eco­no­mici, ambien­tali, e cam­biò il con­cetto stesso di democrazia.

Ora il discorso della giu­sti­zia sociale e della con­di­zione dei poveri, a cui nei Paesi del Sud «l’accesso alla pro­prietà dei beni e delle risorse per sod­di­sfare le pro­prie neces­sità vitali è vie­tato da un sistema di rap­porti com­mer­ciali e di pro­prietà strut­tu­ral­mente per­versi», viene intro­dotto orga­ni­ca­mente da papa Fran­ce­sco nella que­stione eco­lo­gica, sic­ché essa non riguarda più sem­pli­ce­mente l’ambiente fisico, il suolo, l’aria, l’acqua, le fore­ste, le altre spe­cie viventi, ma assume la vita e il destino di tutti gli esseri umani sulla terra, diventa un’«ecologia inte­grale», a cui è dedi­cato l’intero capi­tolo quarto dell’enciclica: «Non ci sono due crisi sepa­rate, una ambien­tale e un’altra sociale, bensì una sola e com­plessa crisi socio-ambientale», dice il papa; e la prima cosa da sapere, come dicono i vescovi boli­viani ma anche molte altre Chiese, è che i primi a essere col­piti da «quello che sta suc­ce­dendo alla nostra casa comune» sono i poveri. E il salto di qua­lità è anche nel rigore dell’analisi, nella cura con cui ven­gono ricer­cate tutte le con­nes­sioni tra i diversi feno­meni ed eco­si­stemi, e anche nell’onestà con cui si dice che non tutto pos­siamo sapere, che la scienza deve fare ancora un grande cam­mino, e che non si può pre­su­mere di pre­ve­dere gli svi­luppi futuri, sic­ché il prin­ci­pio di pre­cau­zione diventa un obbligo di sag­gezza e di rispetto per l’umanità di domani, con­tro l’ideologia della ricerca imme­diata del pro­fitto e dell’egoismo realizzato.

Si può capire allora come con que­sta enci­clica che comin­cia con un can­tico di san Fran­ce­sco e fini­sce con una pre­ghiera in forma di poe­sia, l’idillio del mondo ricco con papa Fran­ce­sco sia finito. «Tocca i cuori di quanti cer­cano solo van­taggi a spese dei poveri e della terra», dice il papa nella sua pre­ghiera. «Non occu­parti di poli­tica, per­ché l’ambiente è poli­tica», gli dicono i ric­chi. E men­tre da un lato quello che negli Stati Uniti non si fa chia­mare Bush per ripren­dersi in fami­glia il governo dell’America dice che non si farà det­tare la sua agenda dal papa, dall’altro quello che da noi pub­blica sulle sue felpe mes­saggi di raz­zi­smo e di guerra dice che non c’è pro­prio di che essere per­do­nati per le porte chiuse in fac­cia ai pro­fu­ghi e tutti i «clan­de­stini» vor­rebbe met­terli a Santa Marta.

«Que­sto papa piace troppo» diceva la destra più zelante, allar­mata al vedere masse intere di per­sone in tutto il mondo affa­sci­nate da un pen­siero diverso dal pen­siero unico. Però si faceva finta di niente, spe­rando che la gente non capisse. Il papa diceva che l’attuale sistema non ha volto e fini vera­mente umani, e sta­vano zitti. Diceva che que­sta eco­no­mia uccide, e sta­vano zitti. Diceva che l’attuale società, in cui il denaro governa (Marx diceva «il capi­tale») è fon­data sull’esclusione e lo scarto di milioni di per­sone, e sta­vano zitti. Diceva ai poli­tici che erano cor­rotti, e sta­vano zitti. Diceva ai disoc­cu­pati di lot­tare per il lavoro e ai poveri di lot­tare con­tro l’ingiustizia, e face­vano il Jobs Act.

Ma con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché non sta facendo una pre­dica, sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli per­ché, scrive Fran­ce­sco «dob­biamo rico­no­scere che alcuni cri­stiani impe­gnati e dediti alla pre­ghiera, con il pre­te­sto del rea­li­smo e della prag­ma­ti­cità, spesso si fanno beffe delle pre­oc­cu­pa­zioni per l’ambiente».

Quello che infatti da Fran­ce­sco è posto davanti al mondo è il pro­blema vero: «il grido della terra» è anche il «grido dei poveri», ma nel monito che si leva dai poveri per­ché la loro vita non vada per­duta, c’è un monito che riguarda tutti, per­ché senza un rime­dio, senza un cam­bia­mento, senza un’assunzione di respon­sa­bi­lità uni­ver­sale la vita di tutti sarà perduta.

Ed è per que­sto che l’enciclica di papa Fran­ce­sco è rivolta a «ogni per­sona che abita que­sto pia­neta»: non ai cat­to­lici, e nem­meno agli «uomini di buona volontà», come faceva la «Pacem in ter­ris» di Gio­vanni XXIII, in cui si poteva sospet­tare ancora un resi­duo di esclu­sione, nei con­fronti di qual­cuno che even­tual­mente fosse di volontà non buona. Qui papa Fran­ce­sco abbrac­cia vera­mente tutti (come ne sono figura essen­zia­lis­sima per il cri­stiano le brac­cia di Cri­sto aperte sulla croce) e si pone non come capo di una Chiesa, e nem­meno come pro­feta dei cre­denti, ma come padre della intera uma­nità. Per­ché il mes­sag­gio è il seguente: non que­sta o quella Potenza o Isti­tu­zione, non que­sto o quello Stato, non quel par­tito o movi­mento, ma solo l’unità umana, solo la intera fami­glia umana giu­ri­di­ca­mente costi­tuita e agente come sog­getto poli­tico può pren­dere in mano la terra e assi­cu­rarne la vita per l’attuale e le pros­sime generazioni.

«Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico». L'accettazione dello slogan della politica come cosa sporca e l'indifferenza nei coinfronti del genocidio dei profughi dalla misera e dalla guerra sono due facce della stessa medaglia.

Il manifesto, 14 giugno 2015
Qual­che giorno fa sul Cor­riere della sera è apparso un arti­colo che si inter­ro­gava sulle radici della cor­ru­zione dila­gante in Ita­lia. Gio­vanni Belar­delli invi­tava a con­si­de­rare le fina­lità per­se­guite da uomini poli­tici «spinti in via esclu­siva da mise­ra­bili aspi­ra­zioni di arric­chi­mento per­so­nale» e pun­tava il dito sulla sca­dente qua­lità di una classe diri­gente «priva di ogni aspi­ra­zione od obiet­tivo di natura poli­tica, come non era invece nella Prima Repub­blica». L’ascesa di una razza padrona del tutto indif­fe­rente alle sorti della cosa pub­blica era indi­cata tra le cause prin­ci­pali del ver­mi­naio sco­per­chiato ogni giorno dalle cro­na­che politico-giudiziarie.

In que­sto argo­mento c’è indub­bia­mente del vero, ma è pro­ba­bile che esso vada svi­lup­pato sino a coin­vol­gere gli stessi corpi sociali. Forse il tra­monto della poli­tica aiuta a com­pren­dere un feno­meno tra i più allar­manti: che il paese con­vive paci­fi­ca­mente con quella cloaca a cielo aperto che in molti ter­ri­tori (a comin­ciare dalla capi­tale) e in tanti gan­gli dello Stato cen­trale ha di fatto sosti­tuito le isti­tu­zioni della poli­tica e dell’amministrazione pub­blica. Certo non tutti appa­iono cini­ca­mente indif­fe­renti. Ma anche la rea­zione anti­po­li­tica con­verge nella pas­si­vità, tra­dendo un radi­cale disin­canto. La poli­tica appare ai più una «cosa sporca» con la quale il paese è costretto a con­vi­vere. Se pen­siamo al trauma che fu, venti e rotti anni fa, la sco­perta di Tan­gen­to­poli, non c’è para­gone. Non solo la piaga della cor­ru­zione è oggi ben più vasta e infetta. Non c’è nep­pure l’ombra dell’indignazione che allora scosse l’opinione pubblica.

Il fatto è che se non c’è più la poli­tica – il con­fronto tra cul­ture, modelli di società, pro­getti, con­ce­zioni diverse dei valori e dei fini della con­vi­venza civile – suben­tra il natu­ra­li­smo. Ci si iden­ti­fica imme­dia­ta­mente con l’esistente senza nem­meno imma­gi­nare la pos­si­bi­lità di un’alternativa. Magari si mugu­gna e si pro­te­sta, cia­scuno nel suo pic­colo. Ma intanto, forse incon­sa­pe­vol­mente, ci si ras­se­gna, per­ché così va il mondo. Il tra­monto della poli­tica è la morte della cri­tica, o nel silen­zio del risen­ti­mento o nelle grida della depre­ca­zione fine a se stessa.

Tutto ciò aiuta a spie­gare anche un’altra vicenda scon­vol­gente all’ordine del giorno: la rispo­sta ver­go­gnosa, inau­dita delle lea­der­ship euro­pee (a comin­ciare dai prin­ci­pali paesi dell’Unione) alla dram­ma­tica emer­genza uma­ni­ta­ria costi­tuita dall’arrivo in massa dei pro­fu­ghi dall’Africa. Che i Came­ron, i Mer­kel, gli Hol­lande e i Rajoy, per non par­lare dei com­mis­sari euro­pei e degli altri capi di Stato e di governo, non siano dei giganti, non c’è dub­bio. Ma biso­gna rico­no­scere che essi non mil­lan­tano affer­mando che, ove deci­des­sero di coin­vol­gere i pro­pri paesi in que­sta tra­ge­dia, rischie­reb­bero di per­dere buona parte del con­senso di cui ancora godono, e fareb­bero per di più il gioco degli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo, del nazio­na­li­smo e della xenofobia.

Piac­cia o meno, si tratta di un timore fon­dato e ciò dà la misura della gra­vità del pro­blema con il quale si tratta di fare i conti. La fuga in massa dalla guerra, dal ter­rore, dalla mise­ria e dalla fame non si arre­sterà. L’Europa rimarrà a lungo per decine di milioni di per­sone una meta irri­nun­cia­bile. Il diritto di chi chiede asilo non è nego­zia­bile, ma l’ipotesi di un’immigrazione illi­mi­tata non è rea­li­stica e il rischio di una rea­zione di stampo raz­zi­sta e fasci­stoide in gran parte dei paesi euro­pei appare con­creto. Si può discu­tere fin che si vuole sulle respon­sa­bi­lità di que­sto stato di cose. Chia­mare in causa chi nell’ultimo quarto di secolo ha con­tri­buito a sca­te­nare una guerra dopo l’altra tra Corno d’Africa e Asia cen­trale, pas­sando per l’Iraq, i Bal­cani, la Libia e la Siria. Denun­ciare l’insipienza delle élite poli­ti­che euro­pee che hanno sem­pre sot­to­va­lu­tato il pro­blema, illu­den­dosi di gover­narlo con misure di tam­po­na­mento. Resta che oggi nes­suno sa come risol­verlo senza vio­lare i diritti dei migranti e al tempo stesso evi­tando in Europa ter­re­moti sociali e poli­tici che potreb­bero resu­sci­tare gli spet­tri più inquie­tanti del nostro passato.

L’Europa si è illusa di essersi libe­rata dal far­dello della pro­pria sto­ria dopo la Seconda guerra mon­diale. In realtà le ceneri dalle quali è rinata non con­te­ne­vano sol­tanto la coscienza demo­cra­tica e l’universalismo, l’illuminismo e la cul­tura dei diritti indi­vi­duali e sociali, ma anche il colo­nia­li­smo, il raz­zi­smo e la xeno­fo­bia, il nazio­na­li­smo e il comu­ni­ta­ri­smo. Nella ten­sione tra que­ste com­po­nenti dell’identità euro­pea la rivo­lu­zione neo­li­be­rale ha influito in modo deci­sivo. Non gover­nati, gli spi­riti ani­mali hanno impo­sto un fine indi­scu­ti­bile nell’impiego delle enormi risorse mate­riali e umane dispo­ni­bili nel Vec­chio con­ti­nente. Hanno decre­tato il ridursi della poli­tica ad ammi­ni­stra­zione, asser­ven­dola alla sovra­nità del capi­tale pri­vato. Come mostra da ultimo la guerra della troika con­tro la Gre­cia, hanno cri­mi­na­liz­zato e messo al bando il con­fronto cri­tico sui valori, i cri­teri di giu­di­zio e i modelli sociali. Ma l’avvento della post­de­mo­cra­zia tec­no­cra­tica ha com­por­tato un prezzo ele­va­tis­simo in ter­mini di con­sa­pe­vo­lezza e di respon­sa­bi­lità – di qua­lità etica – delle popolazioni.

Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico. Le società euro­pee rista­gnano ormai da decenni in una morta gora e nei corpi sociali, ter­ro­riz­zati dalla crisi e con­se­gnati alla ripe­ti­zione di un eterno pre­sente, dila­gano le ansie e il ran­core, e ferve una ricerca mal orien­tata di sicu­rezza. Ci si rin­chiude cia­scuno nel pro­prio micro­mondo pri­vato. Il fuori inquieta, l’importante è non esserne sfio­rati. A chi comanda – non importa se inca­pace o cor­rotto – non si chiede che di essere lasciati in pace. Ma così non solo la cor­ru­zione stra­ripa, non solo l’umana pietà dile­gua. Rischia di tor­nare anche la rimossa fasci­na­zione di un’Europa fatta di caste e gerar­chie e di comu­nità chiuse agli stra­nieri e ai diversi.

Il manifesto, 12 giugno 2015, con postilla

Da set­ti­mane si agita lo spet­tro delle per­sone sbar­cate in Ita­lia per cer­care rifu­gio nel nostro o negli altri paesi euro­pei. In realtà, il loro numero dall’inizio dell’anno al 7 giu­gno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 regi­strati nello stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di que­sto trend è cal­co­la­bile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giu­sti­fi­cano, allora, le posi­zioni estreme e i toni, talora quasi para­noici, rag­giunti nel dibat­tito su que­sto feno­meno in Ita­lia e in Europa? Dav­vero si vuol far cre­dere che l’arrivo di alcune cen­ti­naia di migliaia di per­sone costi­tui­sca una minac­cia per gli equi­li­bri eco­no­mici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ric­chi del mondo?

In realtà, stiamo assi­stendo a una gros­so­lana mistificazione.

Intanto, sem­bra smar­rito ogni senso delle pro­por­zioni e si parla come se s’ignorassero dati di fatto signi­fi­ca­tivi. I paesi mem­bri dell’Ue, alla fine del 2013, con­ta­vano un numero di immi­grati di prima gene­ra­zione (cioè nati all’estero), rego­lar­mente regi­strati ed attivi nelle rispet­tive eco­no­mie assom­manti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non euro­peo. Que­sti immi­grati, come gli altri che li hanno pre­ce­duti, con­cor­rono diret­ta­mente alla pro­du­zione e alla ric­chezza di quei paesi. E non si vede pro­prio come nuovi flussi che si aggiun­gono a quelli regi­stra­tisi negli anni pre­ce­denti non pos­sono essere assor­biti con van­taggi demo­gra­fici, eco­no­mici e socio-culturali, solo che si adot­tino poli­ti­che appro­priate e posi­tive d’inclusione sociale.

In secondo luogo, invece di con­tra­stare sen­ti­menti xeno­fobi, che pure alli­gnano in parti della popo­la­zione, li si stru­men­ta­lizza e inco­rag­gia pur di gua­da­gnare con­sensi elet­to­rali nel modo più spre­giu­di­cato. L’esempio più vicino di tale irre­spon­sa­bile com­por­ta­mento viene dalle dichia­ra­zioni dei gover­na­tori di alcune delle regioni più ric­che del paese. Il loro lepe­ni­smo sem­bra igno­rare che pro­prio la van­tata ric­chezza di quelle regioni è dovuta anche al mas­sic­cio sfrut­ta­mento del lavoro degli immi­grati. Sfrut­ta­mento tanto più facile e pesante con i clan­de­stini. E que­sto ci porta dritto alla seconda misti­fi­ca­zione cui stiamo assi­stendo in Ita­lia e in Europa.

Indi­care gli immi­grati come una minac­cia serve a moti­vare misure di con­tra­sto e leggi restrit­tive che in realtà ser­vono a sfrut­tare al mas­simo il loro lavoro, indu­cen­doli a lavo­rare in nero, in impie­ghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chia­mata e simili. Infatti, sono pro­prio le soglie di sbar­ra­mento all’integrazione, poste sem­pre più in basso, e il man­cato o dif­fi­col­toso rico­no­sci­mento dei diritti ai lavo­ra­tori immi­grati che per­met­tono ai gruppi diri­genti eco­no­mici e ai loro alleati poli­tici di sfrut­tare anche l’immigrazione per spin­gere verso la con­cor­renza al ribasso delle con­di­zioni di lavoro. In tal modo, si ren­dono più age­voli le poli­ti­che di restri­zione dei diritti dei lavo­ra­tori e di sman­tel­la­mento dello Stato sociale.

In terzo luogo, agi­tare lo spet­tro del peri­colo immi­gra­zione occulta altre respon­sa­bi­lità. Il fatto, cioè, che i mag­giori paesi euro­pei, Gran Bre­ta­gna e Fran­cia in testa, ma seguiti anche da Ger­ma­nia e Ita­lia si sono fatti pro­mo­tori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti inter­venti politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L’elenco è lungo. Si può comin­ciare dall’interminabile guerra in Afgha­ni­stan. Si può pro­se­guire con il sup­porto dato alla ribel­lione con­tro il regime siriano, rin­fo­co­lando con­flitti civili e reli­giosi che ora sfug­gono ad ogni con­trollo. Ancor più diretto è stato l’intervento in Libia, col risul­tato di una situa­zione, se pos­si­bile, ancor più con­fusa e ingo­ver­na­bile. Si è sof­fiato sul fuoco di vec­chi con­flitti tra le popo­la­zioni in Africa Centro-orientale per­se­guendo obiet­tivi tutt’altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli inter­venti in Mali e altri paesi.

Nel 2013, il numero di pro­fu­ghi che hanno cer­cato di fug­gire da zone di guerra, con­flitti civili, per­se­cu­zioni e vio­la­zioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a con­si­de­rare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di per­sone che, in quell’anno, si tro­va­vano sotto il diretto man­dato dell’Alto com­mis­sa­riato per i rifu­giati delle nazioni unite e per i quali dispo­niamo di dati certi, vediamo che più della metà era costi­tuito da per­sone che fug­gi­vano dalla guerra in Afgha­ni­stan (2,5 milioni), dall’improvvisa defla­gra­zione del con­flitto in Siria (2,4 milioni), dalla recru­de­scenza degli scon­tri da tempo in atto in Soma­lia (1,1 milione). Ad essi segui­vano i pro­fu­ghi pro­ve­nienti dal Sudan, dalla Repub­blica demo­cra­tica del Congo, dal Myan­mar, dall’Iraq, dalla Colom­bia, dal Viet­nam, dall’Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sem­pre nel solo 2013. Altri richie­denti asilo cer­ca­vano di scam­pare dai «nuovi» con­flitti in Mali e nella Repub­blica Centrafricana.

La grande mag­gio­ranza di que­ste e altri milioni di per­sone fug­gite da situa­zioni di peri­colo e sof­fe­renza, sem­pre nel 2013, non hanno cer­cato e tro­vato acco­glienza nei paesi più ric­chi d’Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dol­lari l’anno. Infatti, fin dallo scop­pio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha tro­vato rifu­gio in Paki­stan. Il Kenya ha accolto la mag­gio­ranza dei somali. Il Ciad molti suda­nesi. Men­tre altri somali e suda­nesi hanno tro­vato rifu­gio in Etio­pia, insieme a pro­fu­ghi eri­trei. I siriani si sono river­sati in mas­sima parte in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia. Di fronte all’entità di que­sti flussi, il numero delle per­sone che, sem­pre nel 2013, hanno cer­cato pro­te­zione inter­na­zio­nale in 8 dei paesi più ric­chi dell’Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dol­lari, assom­mava a 360mila (pari all’83% dei rifu­giati in tutta l’Ue).

Que­sti dati di fatto dimo­strano l’assoluta man­canza di fon­da­mento e la totale stru­men­ta­lità che carat­te­rizza la discus­sione in atto tra i paesi mem­bri e le stesse isti­tu­zioni dell’Ue. Si discute di pat­tu­glia­menti navali, bom­bar­da­menti di bar­coni, per con­clu­dere con quello che viene defi­nito un «salto di qua­lità» nel dibat­tito e che con­si­ste­rebbe nella pro­po­sta di acco­gliere nei 28 paesi mem­bri dell’Ue un totale di 40.000 rifu­giati in due anni. Men­tre, nel 2013, Paki­stan, Iran, Libano, Gior­da­nia, Tur­chia, Kenya, Ciad, Etio­pia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che signi­fica che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell’Ue, ha accolto in un anno un numero di immi­grati e rifu­giati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono dispo­sti ad acco­gliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma per­fino que­sta misera pro­po­sta viene ora messa in discus­sione, dato anche l’atteggiamento nega­tivo di paesi come la Gran Bre­ta­gna e la Fran­cia, che pure si auto­de­fi­ni­scono grandi e civili. Lo spet­ta­colo di tanta pochezza poli­tica e morale induce a chie­dersi se i nostri gover­nanti e i diri­genti di Bru­xel­les si ren­dono conto che stanno asse­stando un altro colpo alla cre­di­bi­lità dell’Unione europea.

postilla

Tanto più indignano le reazioni - di troppi eletti e troppi elettori - in quanto la penisola chiamata Italia è abitata da popoli che hanno conosciuto tutti analoghe storie di fuga dalla miseria o dalla guerra. Quanti di noi italiani sono stati profughi nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, o durante la Seconda per i bombardamenti e l'avanzata nel Sud, o cacciate dai campi e fuggiti nel Belgio o in Argentina, o cacciati dal loro Polesine dall'esondazione del Po... Sono ben pochi che hanno compreso come quella che viviamo sia l'esodo inarrestabile di un un'area che comprende più ancora che un intero continente, e che moltissime responsabilità delle catastrofi attuali hanno la loro origine (e la loro prosecuzione) nelle politiche di sfruttamento rapace delle risorse altrui compiuto dal Primo mondo. Quanto solitario, e quando alto, appare al confronto quel mite argentino che ammaestra il Vaticano.

«In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico».

Il manifesto, 11 giugno 2015

Non si sa se ridere o piangere quando si legge sulla stampa “maggiore” che l’unico interesse rivolto alla Assemblea della coalizione sociale di sabato e domenica a Roma è ancora incentrato sulla presenza silente tra il folto pubblico di Oreste Scalzone e Franco Piperno. Quella assemblea ha tutta la possibilità e il diritto di essere valutata su ben altri criteri.

Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi e modalità.

Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto assottigliata nel proseguo della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di analisi e di proposte.

Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati e portati avanti. La lotta al job act - per fare solo un esempio - va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui il punto dolente - trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare; potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta riflettendo – ad un referendum abrogativo.

Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia - pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata -; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione.

In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.

Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti sociali che per quelli politici.

Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo Renzi - pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto” (definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad una articolazione delle elites europee) di quanto lo era poche settimane fa - non ha per ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.

Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo - quindi ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate - una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.

So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là - e sarebbe un bel passaggio di testimone - all’avvio concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa, quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia. Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione sociale.

«Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce ai cittadini l’uguaglianza di diritti abbia venti servizi sanitari diversi? Non è il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne?».

Corriere della sera, 8 Giugno, 2015 (m.p.r.)

L a crisi delle Regioni è profonda, e per certi versi irreversibile. A certificarlo è il verdetto consegnatoci dalle ultime elezioni: il vuoto assoluto di programmi, il degrado della classe politica, la percezione degli Enti regionali come di istituzioni ipertrofiche, fonti di sprechi e inefficienze, hanno spinto molti elettori a disertare l’appuntamento con le urne. Di fronte a questa situazione, il silenzio dei partiti è assordante. E la riforma del titolo V della Costituzione rischia di essere insufficiente. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a se stessi e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Occorre il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. E occorre porsi domande scomode: hanno senso 20 sistemi sanitari diversi, sedi faraoniche, una quantità enorme di dipendenti? Hanno senso gli statuti speciali? E hanno senso Regioni con un numero di abitanti paragonabili al quartiere di una grande città?

L a crisi delle Regioni è profonda e per certi versi irreversibile. Il verdetto che ci hanno consegnato le ultime elezioni regionali, con il loro strascico di polemiche, veleni e sospetti, è senza appello. La campagna elettorale ha offerto spettacoli indecenti: e non parliamo soltanto della vicenda dei cosiddetti «impresentabili», ma anche di certi spregiudicati traslochi da uno schieramento politico all’altro. Abbiamo assistito a fatti come quelli di un governatore di sinistra che si è candidato con la destra pur di rimanere in partita, o di ex neofascisti accolti a braccia aperte dalla sinistra. Di tutto si è parlato tranne che di contenuti e programmi. Per un semplice motivo: non c’erano.

E se ne sono accorti anche gli elettori. Il drammatico calo della partecipazione al voto, che già aveva toccato il fondo in occasione delle elezioni in Calabria e ancor più in Emilia-Romagna, è una manifestazione di sfiducia da parte dei cittadini che più lampante non si potrebbe. Un cittadino su sei, di quelli che avevano votato alle precedenti regionali, non si è presentato al seggio. Sempre più le Regioni vengono percepite come istituzioni ipertrofiche di dubbia utilità, fonti di sprechi e inefficienze. Ed è sinceramente difficile non sospettare che servano più a chi viene eletto che non agli elettori. Dei consiglieri regionali inquisiti per l’uso improprio di fondi pubblici si è perso il conto. Sono centinaia. Nella generale mediocrità della classe dirigente, il livello di competenze e di moralità di certa politica locale è se possibile ancora più modesto. Con un degrado progressivo e inesorabile, come ha opportunamente sottolineato ieri sulle colonne di questo giornale Sabino Cassese.
Il problema della qualità della classe politica sta diventando drammatico, e nel caso dei consigli regionali (e talvolta anche comunali) ha motivazioni precise. Una volta eletti i candidati alle assemblee non avranno alcun potere concreto, se si eccettua quello di approvare la legge di bilancio e riscuotere un compenso non marginale: a loro viene chiesto soltanto di portare più voti possibile. E siccome il fine giustifica i mezzi, ecco che non si va troppo per il sottile. Non si chiedono credenziali né si accertano i profili morali. Meno che mai si pretende la rinuncia a metodi clientelari. Prevale così chi controlla spregiudicatamente i consensi, e non si fanno domande che sarebbe doveroso rivolgere a chi passa da destra a sinistra e viceversa senza aver avuto crisi di coscienza o particolari folgorazioni sulla via di Damasco: l’unica cosa che importa è il numero di voti che il trasloco garantisce. Un capitale che deve fruttare. L’elezione in un consiglio regionale o di una grande città si tinge così di squallidi toni affaristici. Chi porta in dote migliaia di voti si aspetta evidentemente un ritorno. Ecco la realtà.
Ciò che è peggio, di fronte a questa situazione il silenzio dei partiti è assordante. Nessuno vuole aprire gli occhi, riconoscere la crisi drammatica in cui è precipitata una politica locale mediocre, sempre più concentrata esclusivamente nella sopravvivenza del proprio potere quando non affogata nella corruzione, come dimostrano le storie agghiaccianti di Mafia capitale. Ma che il giocattolo sia ormai rotto, è assodato. Una classe dirigente seria e responsabile ne dovrebbe prendere atto e agire di conseguenza prima che la situazione precipiti.
Cominciando dal nodo oggi sicuramente più critico: le Regioni, appunto. Per la piega che hanno preso le cose, la riforma del titolo V della Costituzione rischia a questo punto di essere solo un pannicello caldo, insufficiente per quel cambiamento radicale di rotta che sarebbe necessario. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a stessi, spreconi e clientelari, e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Servirebbe il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. Fino in fondo, e non soltanto con una riverniciatina al Titolo V. Servirebbe il coraggio di dare risposte a domande che pochi hanno avuto l’ardire di porre.
Ha senso l’esistenza di Regioni come il Molise e la Valle D’Aosta, che hanno un numero di abitanti paragonabile al quartiere di una grande città, oppure come la stessa la Basilicata? Hanno ancora un senso gli statuti speciali che hanno trasformato certe autonomie in privilegi inconcepibili, facendo esplodere le spese? Ha senso che le Regioni abbiano una quantità enorme di dipendenti spesso inutili, e spesso assunti con meccanismi niente affatto trasparenti magari attraverso le centinaia di società controllate, a loro volta quasi sempre inutili? Ha senso che grazie a quei sistemi nei consigli regionali sia impiegato almeno il quadruplo delle persone che lavorano alla Camera dei Deputati? Ha senso che le Regioni investano somme faraoniche in sedi istituzionali scimmiottando lo Stato centrale, imbarcandosi in operazioni immobiliari insensate? Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce sulla carta ai propri cittadini l’uguaglianza dei diritti fondamentali abbia venti servizi sanitari diversi, con Regioni che al Nord garantiscono le cure odontoiatriche gratuite a chi guadagna fino a 80 mila (ottantamila) euro l’anno e al Sud devono invece chiudere i servizi di emergenza per carenze igieniche? Ha un senso tutto questo, e altro ancora? Non è arrivato il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne seriamente?
Peccato che Renzi non sappia scrivere e sappia solo twittare. Ci piacerebbe alimentare il nostro "stupidario" con i suoi testi. Questo cinguettio roco sul "reddito di cittadinanza" è veramente esemplare. Il manifesto, 7 giugno 2015 (m.p.r.)

«Il red­dito di cit­ta­di­nanza? È la cosa meno di sini­stra che esi­sta», «signi­fica negare il prin­ci­pio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addi­rit­tura: «È inco­sti­tu­zio­nale». Renzi boc­cia il soste­gno al red­dito, nono­stante qual­cosa del genere esi­sta in 24 paesi euro­pei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a tro­vare forme di red­dito «in grado di sot­trarre ogni bam­bino, adulto e anziano alla povertà e garan­tire loro il diritto a una vita digni­tosa» (riso­lu­zione del 20 otto­bre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repub­blica inter­vi­stato dal diret­tore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movi­mento 5 stelle, fan della pro­po­sta. Ma con tiro fa strike: pro­prio ieri in 200 città — Genova com­presa — l’associazione Libera di don Luigi Ciotti rac­co­glieva le firme per l’istituzione di «un red­dito minimo o di cit­ta­di­nanza» nell’ambito della (for­tu­nata) cam­pa­gna «Mise­ria Ladra». Cui ha ade­rito, oltre a tutti i par­la­men­tari del M5S e di Sel, anche la sini­stra del suo par­tito, almeno quella parte di Area Rifor­mi­sta rap­pre­sen­tata da Roberto Spe­ranza che il 22 mag­gio ha fir­mato la peti­zione di Libera e auspi­cato «un pro­getto di legge con­di­viso da tutti». In par­la­mento una mag­gio­ranza ci sarebbe. Ma da ieri sap­piamo che il parere del governo, fin qui sfu­mato e pos­si­bi­li­sta, è con­tra­rio. E per que­stioni alla sua maniera ideo­lo­gi­che («non è di sini­stra»), nean­che per più dige­ri­bili obie­zioni di cassa.

Messo a posto il Movi­mento 5 stelle, con il quale in que­sti giorni il Pd incro­cia i ferri (sulle liste degli «impre­sen­ta­bili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capi­tale e infine sul ’caso Orfini’, attac­cato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua mino­ranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capo­luogo della regione che il Pd ha perso rovi­no­sa­mente. Set­tan­ta­tre­mila voti in meno rispetto alle regio­nali del 2010, 140mila in meno rispetto alle euro­pee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crol­lato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un cam­pa­nello d’allarme», poi recita la con­su­mata sto­ria di quelli che se per­dono non hanno «diritto di spac­care tutto». Ma archi­viata la pole­mica con Pastorino&Cofferati è alla mino­ranza ancora nel Pd che invia un avviso di garan­zia: «Basta spac­ca­ture tutto. Se fai così, è finita la sto­ria del Pd». Domani sera alla dire­zione del par­tito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla dire­zione non solo con la mime­tica ma con i reparti spe­ciali’», assi­cura. Lui pro­mette «un dibat­tito vero» ma chie­derà «lealtà nei com­por­ta­menti per­ché ser­vono delle regole di con­dotta», «altri­menti stai in un par­tito anar­chico» (copy­right Mat­teo Orfini).

Dal Pd ren­ziano da giorni si mol­ti­pli­cano i boa­tos di «nuove regole». Ma è dif­fi­cile che la discus­sione interna prenda la curva disci­pli­nare, quella imboc­cata senza com­plessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della mag­gio­ranza sono incerti e che una ven­tina di demo­cra­tici sono pronti a dare bat­ta­glia sul ddl scuola. Al loro indi­rizzo infatti Renzi sag­gia­mente invia un mes­sag­gio di pace: «Siamo pronti a ragio­nare e cer­che­remo di coin­vol­gere più persone».

Il fronte sini­stro del Pd si pre­para al con­fronto in ordine rigo­ro­sa­mente sparso. Un pre­sepe di posi­zioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella mag­gio­ranza ren­ziana. Dall’account uffi­ciale di Area rifor­mi­sta su twit­ter parte un «#Scuola #Senato #Par­tito fac­ciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo pre­pa­rando alla sfida con­gres­suale». Replica Mat­teo Mauri, area ’dia­lo­gante’: «Chi con­ti­nua a con­cen­trarsi su una bat­ta­glia tutta interna al Pd, pen­sando ora al con­gresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sini­stra del Pd». E Davide Zog­gia, altro ber­sa­niano: «Pro­por­remo un patto sul merito dei prov­ve­di­menti, così da arri­vare al 2018, dando all’Italia le rispo­ste di cui ha biso­gno». Per Gianni Cuperlo le mino­ranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discu­tere di cosa inten­diamo per par­tito della nazione», visto che le urne non hanno pre­miato il par­tito che si allon­tana dalla sini­stra «per sfon­dare nell’altro campo».

E qui il discorso di fa inte­res­sante per­ché si tratta della stessa argo­men­ta­zione svolta, all’indomani del voto, dal mini­stro della giu­sti­zia Andrea Orlando. Che è nella mag­gio­ranza ren­ziana, ma su posi­zioni ’tur­che’. E che ha dichia­rato «il par­tito della nazione» un’idea supe­rata, anzi «ambi­gua, a peri­co­losa». E che sulla scon­fitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rive­lando di aver cer­cato «di dare qual­che indi­ca­zione, molto fel­pata», ma di essersi sen­tito rispon­dere «fatti i fatti tuoi».

«Uscire da questo capitalismo non è una "bubbola", come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi». Sbilanciamoci.info, 3 giugno 2015
Ha ragione Valentino Parlato, il quale su Sbilanciamoci del 15 maggio sosteneva che da questa crisi, persistente e distruttiva che investe l’Italia, l’Europa e il mondo, non si esce se non si ricostruisce la politica. Ma - aggiungeva - la politica, e per quel che ci riguarda una politica di sinistra, non si ricostruisce se non si dà una giusta analisi della crisi. Sono convinto che il punto da cui muovere sia esattamente questo, se vogliamo rovesciare la tendenza al declino e aprire la strada a una prospettiva nuova.

Da anni ormai conviviamo con una crisi difficile da afferrare, che nel suo svolgimento ha assunto in continuazione forme nuove. Emersa negli Usa sul finire del 2007 con i mutuisubprime, esplosa successivamente come crisi bancaria e finanziaria, è venuto poi il turno degli Stati nazionali e dell’intera Europa. In un contesto dominato dalla recessione e dalla stagnazione, che alimentano disoccupazione, lavori sottopagati e precarietà, e dunque una condizione di malessere umano e di rischio ambientale crescenti.

Nonostante gli sforzi per occultarne e mistificarne la natura più profonda, se andiamo alla sostanza dobbiamo oggettivamente prendere atto che siamo in presenza di una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, le cui espressioni si manifestano in varia forma. Ormai, sebbene anche le interpretazioni della crisi siano le più diverse, è sempre più difficile negare che viviamo in una società spaccata in due, non solo in Italia e in Europa. Nella quale la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini è costretta a vendere in condizioni di subalternità e di permanente incertezza le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere a una classe dominante di proprietari universali, peraltro sempre più ristretta e parassitaria, che le usa allo scopo di ricavarne il massimo profitto.

Se non si prende atto di questo elementare dato di realtà, non per caso ideologicamente mascherato con destrezza, è difficile compiere qualche significativo passo avanti sul terreno politico. Come insegnava quel tale di Treviri, la lotta di classe è sempre lotta politica. Soprattutto in questa fase storica, giacché il capitale, prima ancora di una cosa o di un semplice algoritmo, di un accumulo di merci e di mezzi finanziari, è una relazione tra esseri umani, un rapporto sociale storicamente determinato. Non statico e sempre uguale a se stesso, bensì in incessante movimento per effetto del rivoluzionamento continuo degli strumenti della produzione e delle conquiste delle scienza e della tecnica, ma segnato da una contraddizione insuperabile, oggi diventata dirompente.

Aldo Tortorella direbbe che il capitale è vittima delle sue stesse macchinazioni. Per accrescere i profitti deve contenere i salari. Ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto impedendo la realizzazione dei profitti. E poiché la capacità di consumo dei produttori diretti è strutturalmente legata alla capacità di generare un plusvalore che è alla base del profitto, se questo plusvalore non viene generato, o non si realizza perché le merci restano invendute, la produzione si ferma e il lavoratore viene licenziato. Cioè, cancellato come produttore e come consumatore. Il suo destino è quello di andare ad accrescere l’esercito dei disoccupati e degli esclusi, con la conseguenza di rendere ancora più acuta la contraddizione tra capitale e lavoro.

Le crisi ricorrenti, come ben sappiamo, sono state finora il mezzo che ha consentito di riportare in temporaneo equilibrio il sistema attraverso la massiccia distruzione di capitali e di forze produttive umane e naturali, fino all’esplosione di guerre catastrofiche per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In teoria, dalla crisi di un sistema il cui fine è l’estrazione del massimo profitto privato dagli esseri umani e dalla natura, su cui si conforma l’intero assetto della società e delle istituzioni, e quindi della politica, si esce in due modi. O attraverso un’ulteriore stretta del dominio del capitale sul lavoro e sull’intera comunità, con la conseguenza di acutizzare tutte le contraddizioni e con esiti imprevedibili. O attraverso l’avvio di un processo di superamento del sistema diventato insostenibile, ponendo dei limiti al dominio del capitale e aprendo la strada a una gestione comunitaria della produzione di ricchezza.

Un’altra soluzione non è data. Non dimentichiamo che dalla Grande Depressione del 1929-33, si è usciti temporaneamente in Europa con il nazismo e la seconda guerra mondiale. Oggi, mentre alle porte dell’Europa premono masse di diseredati e si moltiplicano le guerre guerreggiate, il ricatto cui viene sottoposta la Grecia è il paradigma di una regressione senza precedenti imposta dai poteri capitalistici dominanti: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi la vita delle persone. La finanziarizzazione universale, tipica di questa fase di globalizzazione, non ha attenuato il processo di subordinazione del lavoro. Al contrario, lo ha generalizzato e modernizzato nelle modalità di sfruttamento, con l’intento di contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto e alla perdita di efficienza del sistema.

La spinta a fare denaro con il denaro bypassando la produzione ha generato, come osservava Hilferding, uno «schema mistico» del capitale, rivestendolo di sacralità e impenetrabilità. Nei fatti, garantendo alti rendimenti, ha moltiplicato i valori finanziari rispetto all’economia reale, diffuso la speculazione e la corruzione, accresciuto a dismisura le disuguaglianze. Grazie all’indebitamento di massa inventato dalle economie anglosassoni, si è ottenuto per un certo tempo il miracolo di tenere alti i consumi in regime di bassi salari. Ma il debito come fattore propulsivo dell’economia, in sostituzione della valorizzazione del lavoro, è il segnale vistoso del decadimento di un sistema.

D’altra parte, la rivoluzione scientifica e tecnologica, con l’uso dell’informatica e della microelettronica, non ha posto fine al lavoro, ma rivoluzionando il modo di lavorare e di vivere richiederebbe la formazione di una classe lavoratrice di livello superiore per cultura generale e conoscenze specifiche, e quindi un’attenzione particolare all’istruzione e alla ricerca. Mentre il superamento della tradizionale nozione del tempo e dello spazio consentirebbe di accorciare globalmente i tempi di lavoro allungando i tempi di vita, e di pianificare un’occupazione dignitosa per tutte e per tutti.

Ma alla socializzazione crescente dei processi produttivi, di comunicazione e di ricerca, cui concorre una molteplicità di soggetti diversi, non corrisponde la socializzazione della proprietà e la comune gestione degli strumenti indispensabili per il governo di tali processi. Il risultato è la formazione di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo, disponibile per qualsiasi tipo di lavoro precario. Di qui la concorrenza e la guerra tra poveri. Il rapporto di proprietà capitalistico è diventato una gabbia che imprigiona il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, tra il lavoro e il capitale, è arrivata a un punto limite che è necessario riconoscere e mettere a nudo. Se non si vuole che al conflitto di classe si sostituisca una guerriglia permanente e senza sbocchi tra i subalterni.

Nella controrivoluzione liberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher si si è incarnato al massimo livello il dominio totalitario del capitale sul lavoro. Una vera e propria dittatura, non solo in ambito economico-sociale, ma anche nel linguaggio e nella comunicazione, fino al formarsi di un diffuso senso comune. In una fase di massima espansione della lotta di classe del capitale contro il lavoro è stata teorizzata la fine della lotta di classe, addirittura la fine delle classi. Lo slogan di lady Thatcher detta TINA (There Is No Alternative), secondo cui la società non esiste, esistono solo individui, ha fatto molta strada ed è assurto al rango di principio universalmente riconosciuto anche a sinistra con conseguenze politiche devastanti.

E’ evidente infatti che se si sostiene, come sostenne a suo tempo Giorgio Ruffolo scambiando lucciole per lanterne, che ormai «abbiamo una società di individui» e con ciò la sinistra ha raggiunto il suo scopo, vale a dire «la società senza classi», non ha alcun senso la presenza di una forza politica delle classi subalterne, essendo state le classi sociali cancellate. Peraltro, non da una rivoluzione socialista ma dalla forza egemonica del pensiero unico liberista. Nel deserto popolato da individui egoisti privi di legami sociali anche la visione del capitale come rapporto sociale viene azzerata, e si erge dominante l’homo oeconomicus, l’individuo che dispone dei mezzi necessari per mettere al lavoro a suo piacimento altri individui, ridotti al rango di capitale umano, spossessati anche della loro storia, oltre che della loro comunità sindacale e politica.

L’impianto egemonico neoliberista, nella sostanza acquisito e perfezionato dalla socialdemocrazia di Blair e di Schröder, ha espulso dall’agenda e dalla pratica politica europea e italiana un clamoroso dato di realtà: il conflitto capitale-lavoro, che pure segna il destino di milioni di donne e di uomini. Da una parte, i sindacati sono additati come un ostacolo da abbattere sulla via della piena libertà del capitale. Dall’altra, è stata semplicemente cancellata l’autonoma e libera presenza politica delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo. La politica come protesi dell’economia, cioè del capitale, è stato il punto di approdo. E con ciò è stato definitivamente archiviato il vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. In un sistema politico-rappresentativo monoclasse, in cui i diritti diventano una variabile dipendente dal rendimento dei capitali, la democrazia traligna inevitabilmente in autoritarismo e oligarchia.

Su questa linea, corresponsabile dell’innesco e del dilagare della crisi ma presentata come una novità strabiliante, si è attestato Matteo Renzi. Ormai, dopo le più recenti vicende, il suo obiettivo dovrebbe risultare chiaro anche ai ciechi. Né più né meno, è la definitiva soppressione del fondamento politico della Repubblica democratica. Ma il corrispettivo potenziamento del capitalismo italiano cui mira Renzi attraverso radicali misure di internazionalizzazione e di privatizzazione che lo liberino da storiche inefficienze e incrostazioni, e insieme da ogni residua responsabilità sociale secondo il modello anglosassone, non ci farà uscire stabilmente dalla crisi perché non ne mette in discussione i fattori strutturali.

Un conto è il miglioramento dei parametri europei, definiti stupidi da Romano Prodi, o di quelli imposti dai colossi multinazionali del rating, che li fissano per assicurarsi laute rendite di posizione. Altro conto è affrontare i nodi della piena occupazione; di una remunerazione del lavoro che garantisca a tutte e tutti una vita dignitosa e degna di essere vissuta; di un nuovo welfare universale; della salvaguardia dell’ambiente e della pace; del trasferimento all’intera comunità dei benefici che la rivoluzione scientifica e tecnologica mette a disposizione. Di che parliamo, se non di un altro modello di società? Di un avanzamento di civiltà oltre i limiti imposti dal dominio del capitale? Un nuovo socialismo? Sì, se la parola non fosse stata deturpata e stravolta dai molti che se ne sono abusivamente appropriati.

Muovere nella direzione opposta a quella indicata da Renzi e dai governanti europei vuol dire costruire un’alternativa politica al dominio del capitale. È questa la questione di fondo che non si può eludere. E che innanzitutto richiede, per essere affrontata con qualche probabilità di successo, una visione del lavoro che abbandoni senza rimpianti lo schema novecentesco. In altre parole, c’è bisogno di una visione non limitata alla classe operaia tradizionalmente intesa come unico soggetto trainante dell’antagonismo al capitale, bensì allargata ai nuovi soggetti indotti dalla rivoluzione elettronica e digitale in tutti i campi delle attività lavorative. Perciò aperta al lavoro cognitivo e creativo, seppure erogato in forma individuale e a distanza. E nel contempo in grado di coinvolgere tutti coloro, giovani e donne innanzitutto, ma anche le teste grigie, che da qualunque forma di lavoro vengono esclusi.

In secondo luogo, occorre prendere atto una volta per sempre che l’esperienza del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue forme, è davvero definitivamente conclusa. E non è ripetibile. Sia nella forma del cosiddetto socialismo realizzato nella Russia sovietica, sia nella forma socialdemocratica nell’Occidente europeo, che ha sposato i dogmi della controrivoluzione liberista. Come aveva intuito Enrico Berlinguer, esaurite le due fasi novecentesche del movimento operaio, adesso «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico», e dunque di «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo».

Una sinistra nuova ha senso, e avrà un avvenire, se assume questa prospettiva, peraltro delineata con sufficiente chiarezza dalla Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un progetto di portata europea per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare, attraverso l’espansione massima di una democrazia progressiva e partecipata. Uscire da questo capitalismo non è una «bubbola», come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi.

Dopodomani non è la festa della nazione, ma quella della Repubblica. Oggi, nei tempi bui nei quali gli egoismi nazionalistici, il degrado della democrazia e il tradimento dei principi della Costituzione sembrano prevalere, non dimentichiamo il significato delle elezioni che condussero a quel risultato. E torniamo a votare.

La Repubblica, 31 maggio 2015

IL CONSOLATO generale d’Italia di New York offre alla comunità italiana e italo-americana un ricco programma di attività per le celebrazioni del 2 giugno. Cinema, storia, letteratura, arte: un panorama della cultura dell’Italia repubblicana che inorgoglisce e rende giustizia a quel che il nostro Paese ha realizzato in questi settant’anni di libertà politica. Le celebrazioni della Festa della Repubblica sono pubblicizzate come “Italian National Day”. Una scelta che lascia perplessi in questo tempo di rinascita del fenomeno nazionalista, soprattutto in Europa, dove alle forme populiste si affiancano in questi giorni le resistenze degli stati membri alla politica comunitaria delle quote di accoglienza dei rifugiati nel nome della priorità della nazione. Ma più ancora desta perplessità che si interpreti il 2 giugno come una festa genericamente nazionale, perché questo rischia di alterare il significato della Festa della Repubblica.

In quella prima domenica di giugno del 1946, gli italiani e le italiane decisero con un solenne plebiscito di voler essere una Repubblica democratica. Il loro fu un atto di fondazione che diede vita a un nuovo ordine politico. I cittadini e le cittadine furono per la prima volta nella storia della nazione italiana chiamati a decidere sull’ordinamento politico e la loro identità pubblica, a farsi volontà sovrana. La nazione italiana ha avuto tre ordinamenti dal tempo della sua unificazione nel 1861: quello monarchico costituzionale, quello fascista, e quello repubblicano. Il 2 giugno non si festeggiano tutti e tre questi ordinamenti, e in questo senso non è il giorno della nazione; se ne festeggia uno solo, l’ultimo. Se si fa perno sull’aggettivo “nazionale” si rischia di perdere il senso storico e politico di ciò che si festeggia: la nazione repubblicana e solo quella.

Soprattutto, si mette in secondo piano il significato politico del plebiscito del 2 giugno 1946 e si normalizza quell’evento eccezionale traducendolo con un termine onnicomprensivo e diversamente interpretabile. La nazione comprende infatti tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese, non soltanto quella parte che ha preso avvio nel 1946. Certo, come ci insegnano gli storici, lo Stato italiano nelle sue strutture burocratiche e anche nel suo personale amministrativo ha registrato una sostanziale continuità dal fascismo alla Repubblica. Non così la sovranità politica, che con quel plebiscito cambiò radicalmente, passando da una casa monarchica a milioni di cittadini che compongono il popolo, come recita la nostra Costituzione, esito diretto di quel plebiscito.

Un esempio può aiutare a comprendere meglio perché la Festa della Repubblica non é semplicemente una festa della Nazione: prima del 1946, le italiane erano sia parte della nazione che suddite dello Stato italiano, ma non erano soggetti politici liberi. Come loro anche molti uomini; ma nel caso delle donne l’esclusione politica era totale, e l’appartenenza alla stessa nazione non valse a correggerla.

La nazione non è stata capace di rappresentare le donne italiane come cittadine. Fu il plebiscito del 2 giugno che cambiò il loro status, insieme a quello dei loro connazionali e dell’intera società. Si trattò di uno spartiacque politico fondamentale, documentato dalle cronache che raccontano l’emozione con la quale le cittadine e i cittadini si recarono alle urne, moltissimi di loro per la prima volta in assoluto, tutti vestiti a festa come per le ricorrenze più importanti.
Quel sasso di carta che gettarono nell’urna abbatté la monarchia. Il plebiscito fu come una simbolica “decapitazione” del Re con il solo potere del voto e la decretazione della fine della vecchia nazione politica, quella nella quale solo alcuni erano liberi. Si trattò di una rivoluzione pacifica fatta da milioni di donne e di uomini che, uno dopo l’altro, espressero il loro voto, in silenzio, incolonnati, pazienti e con la dignità che viene dal sapersi sovrani e non sudditi. Nella fondazione della Repubblica convergevano anni di fatiche, di dissensi, di lotte cruente, di guerra civile. E il 2 giugno fu il punto di inizio di una nuova convivenza politica nella quale solo con il voto e in maniera pacifica si sarebbero decisi i governi e i leader. Per non smarrire questo senso di libertà politica, di potere del suffragio universale, festeggiamo il 2 giugno come giorno della Repubblica.

«Libia, le rivelazioni di Wikileaks sui piani di attacco dell'Europa. Una missione militare a tutti gli effetti e non un'operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni».

Il manifesto, 27 maggio 2015

Se ci fosse stato biso­gno di una con­ferma che di guerra si tratta per il docu­mento stra­te­gico di 19 pagine pre­sen­tato da Moghe­rini all’Onu nem­meno due set­ti­mane fa su «Libia, migranti e sca­fi­sti», ecco la rive­la­zione di Wiki­leaks — anti­ci­pata dall’Espresso — che rende noti due pro­to­colli riser­vati della Ue sull’operazione. È una mis­sione mili­tare in Libia a tutti gli effetti e non un’operazione di poli­zia per sal­vare migranti, come invece rac­con­tano i mini­stri Alfano e Gen­ti­loni. La Ue con la sua flotta navale unita — final­mente l’Unione — com­menta Wiki­leaks «schie­rerà la forza mili­tare con­tro infra­strut­ture civili in Libia per fer­mare il flusso di migranti. Dati i pas­sati attac­chi in Libia da parte di varie paesi euro­pei della Nato e date le pro­vate riserve di petro­lio della Libia, il piano può por­tare ad altro impe­gno mili­tare in Libia».

Pro­prio men­tre la Com­mis­sione Ue rivede al ribasso il «piano Junc­ker» per le quote dei migranti che quasi tutti i paesi euro­pei rifiu­tano; e men­tre al Cairo fal­li­scono gli enne­simi incon­tri tri­bali per avere in Libia un accordo di governo — utile solo ad appro­vare la nostra impresa bel­lica. La nuova guerra durerà un anno e comun­que tutto il tempo neces­sa­rio a «fer­mare il flusso migra­to­rio». All’infinito dun­que, visto che la dispe­ra­zione di chi fugge da guerre (spesso nostre) e mise­ria (spesso pro­vo­cata da noi) è inarrestabile.

Per que­sto «l’uso della forza deve essere ammesso, spe­cial­mente durante le atti­vità come l’imbarco, e quando si opera sulla terra o in pros­si­mità di coste non sicure o nell’interazione con imbar­ca­zioni non adatte alla navi­ga­zione». Quindi ci sono le ope­ra­zioni a terra, come scri­veva The Guar­dian. E per «la pre­senza di forze ostili, come estre­mi­sti o ter­ro­ri­sti come lo Stato Isla­mico», la mis­sione «richie­derà regole di ingag­gio robu­ste e rico­no­sciute per l’uso della forza».

Ma la vera novità è l’invito espli­cito dei mini­stri della difesa Ue: «Per l’operazione mili­tare sarà fon­da­men­tale il con­trollo delle infor­ma­zioni che cir­co­lano sui media». Per­ché il Comi­tato Mili­tare dell’Ue «cono­sce il rischio che ne può deri­vare alla repu­ta­zione dell’Unione Euro­pea… qual­siasi tra­sgres­sione per­ce­pita dall’opinione pub­blica in seguito alla cat­tiva com­pren­sione dei com­piti e degli obiet­tivi, o il poten­ziale impatto nega­tivo nel caso in cui la per­dita di vite umane fosse attri­buita, cor­ret­ta­mente o scor­ret­ta­mente, all’azione o all’inazione della mis­sione euro­pea. Quindi il Con­si­glio Mili­tare dell’Unione Euro­pea con­si­dera essen­ziale fin dall’inizio una stra­te­gia media­tica per enfa­tiz­zare gli scopi dell’operazione e per faci­li­tare la gestione delle aspet­ta­tive. Ope­ra­zioni di infor­ma­zione mili­tare dovreb­bero essere parte inte­grante di que­sta mis­sione europea».

Avete capito bene: ci saranno tante vit­time inno­centi, vale a dire i migranti, desti­nati alle fosse del Medi­ter­ra­neo e sot­to­po­sti sem­pre più ad arre­sti e vio­lenze in Libia. E ser­vi­ranno infor­ma­zioni «mirate» dai ver­tici mili­tari e un gior­na­li­smo veli­naro e/o embed­ded con «robu­ste regole d’ingaggio».

, nell'ultimo mezzo secolo, hanno condotto alla frantumazione della sinistra e al trionfo del renzismo. Una novità nelle posizioni dell'autrice: il riconoscimento delle ragioni dell'ambientalismo. S

bilanciamoci.info, newsletter n. 420, 26 maggio 2015


Dietro le formule nebulose del Jobs Act del governo si rivela la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile sia in entrata che in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione che nel licenziamento. Ma un'alternativa è possibile. ll testo dell'introduzione al Workers Act di Sbilanciamoci!

Le pagine che seguono spiegano, nella prima parte, il Jobs act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perche l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.

Il lavoro diventa soggetto a tutte le versioni e forme diverse di precariato; il contratto a tempo indeterminato, definito in modo ingannevole “a tutele crescenti”, allarga tempi e spazi di precariato a cominciare senza remora alcuna dai primi tre anni, quando è perfino esente da imposizione fiscale per l’impresa. La troppo vasta tipologia dei contratti, con regolamenti relativi, non è stata corretta salvo in parte nel contratto a progetto, dov’era diventata scandalosa. In genere la molteplicità delle misure recepisce quella che – quando l’attuale Pd era ancora Pci e il sindacalismo cattolico aveva i suoi anni di gloria – era comunemente definita “giungla contrattuale”. I ripetuti annunci di semplificazione sono brutalmente smentiti da una legislazione il cui arruffamento non è indice di confusione, quanto moltiplicazione delle vie offerte al datore di lavoro di trattare i suoi dipendenti con il metodo “usa e getta”.
Si tratta di un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione – almeno presentata come tale – di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia, come se la sua attuale fluttuazione dallo zero allo zerovirgola si dovesse alle pretese eccessive imposte dai dipendenti, dai “lacci e lacciuoli” da loro messi allo sviluppo. L’assenza di qualsiasi piano di reindustrializzazione e di riduzione della disoccupazione crescente in Italia dimostra la miopia dell’attuale esecutivo nell’operare questa stretta.
Essa non è dovuta alla crisi, ma ne profitta per ridurre le tutele dei lavoratori e l’importo dei salari, insomma per allargare i profitti dell’impresa e indurre una ripresa degli investimenti a spese dei salariati, senza modificare il prodotto o le tecniche di produzione. È una svolta di 180 gradi rispetto alla linea keynesiana che aveva sorretto la crescita del dopoguerra; una svolta che non solo penalizza i dipendenti ma non riesce a vivificare il mercato, che già fa sapere di non contare su più di un punto di crescita come conseguenza dell’applicazione del Jobs act. Il cardine della politica di austerità si rivela non solo socialmente ingiusto, ma inefficace, producendo tensioni sociali e soffocamenti; l’esempio più negativo è quello che Bruxelles insiste ad imporre alla Grecia con filosofia del rimborso totale e in tempi stretti del debito, ma è una politica che pesa su tutti i paesi del sud Europa, mettendone in pericolo l’integrazione. È evidente l’intenzione di dare all’Europa una configurazione squilibrata fra nord e sud, confermando il potere dei primi, mentre si accantona ogni tentativo di definire condizioni uguali per tutti nella fiscalità e nelle strutture produttive.
Il Jobs act ha imposto di forza una diminuzione dei diritti del lavoro che interpella il parlamento e i partiti decisivi in esso, in primis il Pd, sulla svolta culturale avvenuta in questi anni; l’idea che un paese si fa del rapporto di lavoro è infatti fondamentale per la qualità della democrazia e della socialità che si persegue. L’idea del lavoro ha conosciuto una crescita difficoltosa ma costante dalla seconda guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo fino agli anni novanta del secolo scorso, e un’involuzione decisiva nella legificazione dell’attuale governo; è significativo che essa avvenga sotto l’egida di un premier espresso dal più grande partito di sinistra, fino a venti anni fa simbolo del movimento operaio. Non siamo una eccezione, sono chiamati governi di sinistra o di coalizione con la sinistra quelli che trascinano l’Europa sulla via dell’austerità, con la restrizione dei diritti sociali, del welfare e della spesa pubblica.
Questa svolta culturale ha radici lontane. C’è da riflettere sul fatto che il movimento sociale più partecipato e liberatorio, quello del 1968, che esplode alla fine di un decennio di lotte, apre in Italia la strada a due nuove e decisive forme del politico: il movimento delle donne (femminista) e quello ecologico, fra loro disuniti, ma prorompenti su strati e soggetti sociali nuovi rispetto al movimento operaio, e spinti più che a integrarlo a metterlo sotto accusa per la balbuzie con i quali i suoi esponenti politici e sindacali, piuttosto che sposarne gli intenti, vi restano in concreto estranei. Femministe e verdi accusano la già eccessivamente conclamata “fabbrica” di sordità sulla questione delle donne (sordità dovuta al maschilismo dominante sia a destra che a sinistra) e, peggio, di aver appoggiato o addirittura spinto a uno sviluppismo industriale sconsiderato, cieco ai limiti del pianeta e quindi opposto alla sostenibilità della produzione e dei territori.
Sta di fatto che questi grandi filoni di critica del presente investono masse crescenti ma divise e incapaci di parlarsi, ciascuna in contrapposizione alle altre e aspirante all’egemonia. La cosiddetta crisi della politica è stata una porta spalancata al liberismo che pareva espulso dall’orizzonte e vi è trionfalmente rientrato, e con tanto più impatto in quanto che essa si verifica contemporaneamente al precipitare delle società dette comuniste. L’Unione sovietica, la Repubblica popolare cinese e Cuba, rivoluzioni nate in condizioni storiche diverse ma che hanno avuto in comune l’obiettivo della liberazione del lavoro dal capitale sono tutte e tre passate – dopo il 1989 – a forme esplicite di capitalismo di stato, aperto all’iniziativa privata.
È stato il caso più evidente di eterogenesi dei fini di un movimento internazionale giovanile che, mirando a un approfondimento inedito del pensiero politico moderno e delle sue principali istituzioni attraverso uno scavo delle radici dell’autoritarismo ai fini di una più compiuta liberazione della persona, perde di vista la mondializzazione del capitale, e ritenendo impossibile metterla in causa , ha finito con l’offuscare dalle coscienze l’importanza del rapporto di lavoro, un tempo considerato “centrale”.
Certo non da solo; le modifiche dell’organizzazione proprietaria e della produzione, il venir meno della grande fabbrica, già contenitore della parte essenziale della forza lavoro e quindi luogo deputato delle sue elaborazioni politiche e sindacali, ha favorito la presa profonda nella società di alcune realtà e di alcune favole: la fine della figura operaia, proprio mentre essa assumeva proporzioni inedite sul globo, la fine di una identificabile proprietà del mezzo di produzione, il moltiplicarsi delle esternalizzazioni e delle tipologie contrattuali, il dilagare del prodotto immateriale rispetto alla fisicità del prodotto industriale, l’immaterialità delle tecniche del processo produttivo, la crescita, rispetto alle capacità elementari del lavoro parcellizzato, del ricorso a un “intelletto generale” che implicava facoltà e molteplici saperi della vita urbana. Tutto questo ha prodotto e accompagnato la frammentazione della coscienza dei lavoratori e il minore impatto delle loro organizzazioni tradizionali. Sta di fatto che dagli anni ottanta in poi l’aderenza di una “coscienza operaia” alle trasformazioni proprietarie e del processo produttivo è andata sfocandosi e indebolendosi, mentre nel formarsi in misura crescente di movimenti puntuali ma separati, appare perduta un’interpretazione comune dell’avversario capitalistico e del “che fare” degli sfruttati. I gruppi di ricerca infittiscono ma non comunicano, neanche nelle forme razionali: c’è la separatezza dei sindacati anche in Europa, il frantumarsi di un’opinione politica comune, fatta eccezione per Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Neanche quando il governo lancia un’operazione capitalistica su grande scala, come il Jobs act, essa produce una scossa immediata di percezione da parte del blocco popolare, probabilmente perché di “blocco” non si può più, o non ancora, parlare – e qui si viene alla proposta di coalizione sociale di Maurizio Landini. In Italia occorre molto tempo perché si realizzi una manifestazione nazionale di protesta, mentre l’infiacchirsi dei meccanismi maggioranza/opposizione in democrazia induce reazioni scomposte del governo.
Non va dimenticato infatti che il frutto più velenoso della “crisi della politica”, visibile specialmente negli eventi elettorali, è l’impoverimento della rappresentanza e delle sue regole primarie che dà luogo al confuso emergere di un “partito della nazione” immaginato da Renzi, in cerca di un’investitura popolare, che rinnovi i fasti del 40% ottenuto alle elezioni europee, sul quale si basa l’autorità di cui fa sfoggio per indebolire il patto costituzionale. La ricezione inizialmente senza intoppi – tranne quelli venuti dalla Cgil o, come questo lavoro, da Sbilanciamoci!, nel silenzio del Partito democratico – è significativa di un’ennesima caduta culturale e morale del paese. Di qui l’importanza negativa del Jobs act e di questo tentativo di opporgli una critica e un’alternativa, offerte come materiale di lavoro alla classe operaia e ai suoi gruppi di studio, cui spetta discuterle ed eventualmente modificarle.

Contro questa pessima riforma della "buona scuola", perché è nella «struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano». La Repubblica, 19 maggio 2015 (m.p.g.)

La scuola è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.

La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer.

Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca — privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”.

Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese. E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.

Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi. Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside.

Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione. È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.

Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?

Dopo l’intervento di Nadia Urbinati del 6 maggio scorso su La Repubblica, contrario alla Buona Scuola renziana nel suo nucleo centrale -scuola azienda che realizzerà compiutamente la privatizzazione della scuola pubblica- mi aspettavo, se non un profluvio, almeno qualche altra presa di posizione dei nostri intellettuali. Invece niente. Hanno disertato. Storia italiana antica: anche questa volta spicca dunque il silenzio dei chierici. Alla fine della fiera insegnanti, studenti e sindacati, tranne qualche lodevole mosca bianca, nel dibattito pubblico sulla riforma della scuola sono stati lasciati soli.
Dove sono i filosofi, i letterati, gli scrittori, gli storici, i sociologhi, gli scienziati? Che cosa pensano i nostri illustri accademici, seduti sulle loro cattedre? Un silenzio assordante ha circondato questa riforma, il che significa che il mondo della cultura italiano – tanto la cultura scientifica, come quella “umanista” (Renzi docet)- non ha nulla da dire su questo tema, centrale per il paese. Mi aspettavo che qualche brillante linguista analizzasse, che so, quante volte ricorrono le parole “cultura” o “alfabetizzazione” nel disegno di legge e in quale accezione compaiano. O che qualche sociologo ci illustrasse in che senso Renzi, occupandosi “soltanto” di organizzazione della scuola ne uccida il nucleo profondo, quello della Costituzione: promuovere il pieno sviluppo della persona umana, lo sviluppo della cultura e la ricerca, rimuovere gli ostacoli, sostenere il diritto allo studio. Studio, studio... si chiama studio quello che si dovrebbe fare a scuola.

Gli intellettuali ne dovrebbero sapere qualcosa... Si sono chiesti se la Buona Scuola lo ha a cuore? Hanno speso qualche ora del loro tempo per capire quali sono le vere priorità di questa riforma e quale lo scopo di quel linguaggio da marketing così caro al premier? Si sono chiesti quale posto occupi nel DdL l’alfabetizzazione di base degli studenti? Quale spazio ci sarà nella nuova scuola disegnata dal trio Renzi-Farone-Giannini per costruire alfabeti forti: linguistico-matematico innanzitutto, proprio gli alfabeti dove i nostri ragazzi sono quasi sempre messi malissimo? Mi chiedo davvero come mai siano così mancate le analisi serie di questo testo renziano, come mai nessuno abbia tentato un confronto tematico e di stile fra la Buona Scuola del trio di governo e la LIP (Legge di iniziativa popolare) promossa dall’interno del mondo della scuola e caduta nel più totale oblio. Ma dove è finita la semiotica in questo paese?

Da tempo, si sa, la ricerca ha reciso ogni legame con la scuola, anche in sede istituzionale. Chi si ricorda più della libera docenza? La scuola ha stufato, troppo incasinata, si capisce poco. E poi l’esperienza autobiografica qui la fa da padrona: ognuno è stato a scuola e ognuno ha figli e nipoti che ci vanno. C’è sempre qualche maestro inadeguato da punire o qualche professore troppo severo che ha ferito il narcisismo familiare da ricordare con rabbia. E così assistiamo impotenti e muti alla campagna mediatica di Renzi. L’ultimo spettacolino, dismesse le slide, è il video davanti alla lavagna, tipo maestro Manzi. Seguono articolesse di colore su stampa e TV, che trasudano ampia ammirazione per le capacità comunicative del premier. Ma sul merito pochi si sono avventurati davvero e sempre con grande timidezza.

I conti delle riforme della scuola arrivano dopo decenni, quando maturano le generazioni. Molti di noi non ci saranno più, ma porteremo tuttavia la responsabilità di questa devastazione ignorante.

< i>L'autrice è insegnante di scuola secondaria< /i>

Gli italiani che credono davvero nella democrazia, e che al tempo stesso riescono a informarsi di ciò che il Palazzo Renzi gli sta preparando devono essere davvero pochi, se così pochi ne scendono in piazza .

Il manifesto, 17 maggio 2015

Quel che sarà il par­la­mento ita­liano dopo che il dise­gno ren­ziano sarà giunto in porto è ampia­mente noto. La Camera dei nomi­nati e della mag­gio­ranza gover­na­tiva a priori fun­zio­nerà senza intoppi come cassa di riso­nanza e rati­fica; il Senato dei gerar­chi e dei pode­stà per­fe­zio­nerà l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Il tutto per la legit­ti­ma­zione «demo­cra­tica» delle deci­sioni di palazzo Chigi. A quel punto l’Italia sarà un caso unico di Repub­blica mono­cra­tica domi­nata da un capo di governo ple­ni­po­ten­zia­rio, eletto da una mino­ranza di cit­ta­dini e posto in con­di­zione di con­trol­lare le auto­rità di garan­zia e tutti i poteri dello Stato, ecce­zion fatta (fino a quando?) per la magistratura.

Tra poco — pro­ba­bil­mente tra un annetto — que­sto pro­gramma comin­cerà a rea­liz­zarsi orga­ni­ca­mente. Ma non dob­biamo aspet­tare nem­meno pochi mesi per assa­po­rarne i primi frutti avve­le­nati. Quanto sta acca­dendo con la «riforma» della scuola è un’anticipazione molto istrut­tiva di ciò che ci attende. Un indi­zio e una prova tec­nica, som­mi­ni­strata per testare il paese e per assue­farlo al nuovo che avanza.

Rara­mente, forse mai prima d’ora, si era assi­stito alla scena di un ramo del par­la­mento ita­liano che vota in tran­quil­lità a favore di un prov­ve­di­mento di indi­scu­ti­bile rile­vanza (che modi­fica in pro­fon­dità strut­ture e modo di ope­rare di un set­tore vitale della società, e le con­di­zioni mate­riali di lavoro e di vita di milioni di cit­ta­dini) men­tre l’intero com­parto inve­stito da quel prov­ve­di­mento esprime la pro­pria asso­luta con­tra­rietà. Lo scio­pero del 5 mag­gio e la mani­fe­sta­zione con­tro le prove Invalsi pos­sono essere giu­di­cati come si vuole, ma su una cosa non sarebbe serio ecce­pire. Entrambi atte­stano l’unanime avver­sione del com­plesso mondo della scuola — inse­gnanti, stu­denti, per­so­nale tec­nico e ammi­ni­stra­tivo — a un modello che non per caso ruota intorno a due car­dini della costi­tu­zione neo­li­be­rale: la sedi­cente meri­to­cra­zia (foglia di fico pro­pa­gan­di­stica a coper­tura del ritorno a logi­che cen­si­ta­rie, auto­ri­ta­rie e oli­gar­chi­che) e la pri­va­tiz­za­zione della sfera pubblica.

C’è tutto som­mato di che stu­pirsi per la pron­tezza e pre­ci­sione della dia­gnosi che inse­gnanti e stu­denti hanno fatto della «buona scuola» ren­ziana. Evi­den­te­mente l’ideologia mer­ca­ti­sta non ha ancora total­mente invaso l’anima del paese. O forse la realtà della scuola ita­liana è tal­mente evi­dente nelle sue con­trad­di­zioni e mise­rie da non per­met­tere quelle ope­ra­zioni di cosmesi — di camou­flage, direbbe qual­cuno — che fun­zio­nano altrove. Stu­denti, ope­ra­tori della scuola e tanti geni­tori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde die­tro la ver­go­gnosa reto­rica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della «sele­zione» e della logica pre­miale del «merito». E die­tro il ricatto della sta­bi­liz­za­zione della metà dei pre­cari in cam­bio dell’accettazione dell’intera «riforma».

In un paese che figura sta­bil­mente all’ultimo posto della clas­si­fica Ocse per la per­cen­tuale di Pil inve­stita nella for­ma­zione dei gio­vani le chiac­chiere restano a zero. A chia­rire come stanno le cose prov­ve­dono gli edi­fici fati­scenti e i tanti soldi come sem­pre rega­lati alle pri­vate. Le col­lette per com­prare la carta igie­nica e il toner delle stam­panti. E i bassi salari degli inse­gnanti di ogni ordine e grado, respon­sa­bili anche del poco rispetto che taluni geni­tori mostrano nei riguardi di chi si impe­gna per istruire i loro vene­rati rampolli.

Sta di fatto che con­tro la «riforma» ren­ziana la scuola ha messo in campo una pro­te­sta pres­so­ché uni­ver­sale, ben­ché anni di divi­sioni tra le orga­niz­za­zioni sin­da­cali e un’eccessiva timi­dezza nelle ini­zia­tive di lotta rischino di vani­fi­care le mobi­li­ta­zioni. Non solo la scuola si è fer­mata in occa­sione delle agi­ta­zioni, ma è in fer­mento da set­ti­mane e mani­fe­sta senza reti­cenze un con­sa­pe­vole e argo­men­tato dis­senso. Pec­cato che tutto que­sto al par­la­mento non inte­ressi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli osser­va­tori è uno scon­cer­tante paral­le­li­smo, quasi che «paese legale» e «paese reale» non fos­sero distinti ma dia­let­ti­ca­mente con­nessi, bensì pro­prio dislo­cati su pia­neti diversi. Per cui quanto accade nell’uno - le agi­ta­zioni, le pre­oc­cu­pa­zioni, il disa­gio, la pro­te­sta - non turba l’impermeabile auto­re­fe­ren­zia­lità dell’altro, ormai (di già) assor­bito nella rece­zione e pro­mo­zione della volontà del reuc­cio che si balocca alla lava­gna col suo appros­si­ma­tivo idioma burocratico.

Certo, non è la prima volta che si assi­ste a un feno­meno del genere. Qual­cosa di simile è già acca­duto col Jobs act, varato men­tre le fab­bri­che erano in sub­bu­glio per la can­cel­la­zione dell’articolo 18. Ma si sa che le que­stioni di lavoro e in par­ti­co­lare di lavoro ope­raio divi­dono il paese (e gli stessi sin­da­cati) e offrono ai governi ampi var­chi per ope­rare for­za­ture. Il caso della scuola è diverso per la sua con­no­ta­zione essen­zial­mente inter­clas­si­sta e per que­sta ragione pre­fi­gura pla­sti­ca­mente il qua­dro al quale dovremo abi­tuarci nel pros­simo futuro. Pro­te­sti pure il paese, scen­dano pure in piazza i cit­ta­dini, si mobi­liti quel che resta dell’opinione pub­blica. La cit­ta­della della poli­tica non si degna nem­meno di veri­fi­care la per­ti­nenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé, in una mise­ra­bile rie­di­zione dell’autocrazia di antico regime. Può darsi che que­sta non sia che un’illusione e che un pro­gramma incen­trato sull’autonomia del poli­tico si riveli, oltre che inde­cente, impra­ti­ca­bile in virtù della reat­ti­vità del corpo sociale. Ma di certo risulta evi­dente a quale pove­ris­sima cosa si saranno ridotti, in tale sce­na­rio, par­la­men­tari e par­titi. Men­tre la poli­tica avrà negato se stessa con l’essersi anche for­mal­mente ridotta a mera fun­zione di domi­nio di una casta sulla cit­ta­di­nanza costretta a obbedire.

La dissociazione di Barbara Spinelli dagli eredi formali della lista italiana "L'Altra Europa con Tsipras" ha provocato un ampio dibattito nelle mailing list della sinistra extrapartitica. Qualcosa ne è trapelato nella stampa. Su eddyburg abbiamo ripreso alcuni testi che ci sembravano più significativi. Tra questi segnaliamo, e pubblichiamo, questa nota di Guido Viale il quale - come il lettore comprenderà subito - replica molto argomentatamente a chi ha criticato l'iniziativa di Spinelli.

Non credo che possa destare stupore la dissociazione di Barbara Spinelli da L’Altra Europa. Aveva postato, insieme ad altri, tra cui il sottoscritto, una lettera aperta di critica alla gestione dell’organizzazione. Non ha avuto alcuna risposta. Che cosa ci si poteva aspettare di diverso? Vorrei comunque tranquillizzare coloro che se ne dispiacciono: non cambia niente. La delegazione degli europarlamentari dell’Altra Europa, come corpo unitario, non è mai esistita. Ciascuno di loro continuerà a fare, bene o male, quello che ha fatto finora, cose coerenti con l’impostazione che ha dato finora al proprio lavoro. E continueranno anche a firmare insieme comunicati importanti come quello sulle violenze poliziesche di Pozzallo; anche, si spera, con altri parlamentari del GUE o di altre liste, magari accodandosi, come in questo caso, al lavoro fatto da lei sola.
Nemmeno si interromperanno i loro rapporti con gli organismi “centrali” de L’Altra Europa, perché anche questi rapporti, a mia conoscenza, non ci sono mai stati. Eleonora ha partecipato con maggiore frequenza alle audio-riunioni del CON e del COT e gira come una trottola (il che va a suo merito) per partecipare a iniziative dell’Altra Europa. Ma lo veniamo in gran parte a sapere a posteriori. Del lavoro e dei programmi dei tre parlamentari gli “organi centrali” dell’Altra Europa non si sono mai occupati (o, se lo hanno fatto con alcuni, è stato “a latere” delle riunioni ufficiali, senza renderne conto). Meno che mai, scusate se insisto, si sono occupati di come venissero spesi i fondi a disposizione del gruppo parlamentare (o anche questo è stato fatto, probabilmente, “a latere”).

C’è però da chiedersi se è Barbara Spinelli a non volersi più considerare parte de L’Altra Europa o è L’Altra Europa – o i suoi “organi centrali” – a non considerarla più, e da tempo, parte del proprio “progetto”. Vi sembra un modo normale di tenere i rapporti tra colleghi di uno stesso gruppo parlamentare definire in una riunione pubblica “un carnevale” le scelte di Barbara Spinelli, come ha fatto Curzio Maltese, e senza che il COT abbia sentito il bisogno di eccepire alcunché (e ricevendone in premio l’assunzione negli organi direttivi di Sel)? Ma non si tratta purtroppo di una novità,

Barbara Spinelli, senza alcuna difesa da parte dei suoi colleghi o del COT, è stata fatta oggetto per mesi di una campagna che ne denunciava l’assenteismo, quando le uniche votazioni che ha mancato - in un anno, ormai, di sedute parlamentari - sono dovute all’assenza di un giorno, in cui le era stato fissato un incontro con Tsipras. Incontro a cui avevano peraltro partecipato anche gli altri due parlamentari, senza mai essere sfiorati da alcuna accusa di assenteismo (e senza sentire il bisogno di chiedersi perché). E certamente non è estraneo a questa campagna sul suo presunto assenteismo il fatto che, subito dopo il 25 maggio, una foto di Roberto Musacchio, sedutosi non autorizzato al seggio di Barbara Spinelli, abbia campeggiato per giorni, senza esserne rimosso, sul profilo FB de L’Altra Europa, mentre su un’altra pagina FB de L’Altra Europa qualcuno la dipingeva addirittura sgozzata.
Tralascio qui tutti gli improperi di cui è stata fatta oggetto su altre pagine di FB, alcune delle quali appartenenti a noti esponenti della nostra organizzazione che oggi si travestono da mammolette. Ma la denigrazione di Barbara era cominciata ben prima del 25 maggio, subito dopo la sortita di Paola Bacchiddu in bichini che ha offerto il destro ad attacchi, molti dei quali provenienti dalle nostre file, per dipingerla come bacchettona e autoritaria. O ci siamo dimenticati che l’impareggiabile Nicolò Ollino, che oggi lamenta il fatto di venir esposto “al pubblico ludibrio” dalle scelte di Barbara, aveva inaugurato la nostra campagna elettorale chiedendo, su FB, perché mai la nostra comunicazione fosse stata affidata “a una vecchia di 160 anni”? C’è un perché di tutto ciò (e altro ancora)? Sì, soprattutto se si passa dal personale, che personale non è, al politico (che meglio sarebbe chiamare partitico).

Barbara Spinelli è stata, fin dall’inizio di questa vicenda, per il suo nome, per il suo lavoro di giornalista, per i suoi interessi, testimone e garante non solo dell’orizzonte europeo del progetto, che è la prima delle grandi novità che fanno la differenza dell’Altra Europa rispetto a tutte le altre formazioni politiche; ma anche del suo carattere unitario ma apartitico, che è ciò che ha permesso a quel progetto di arrivare là dove tutte le precedenti “iniziative unitarie” non erano più da tempo riuscite ad arrivare. La lista Arcobaleno, quella Ingroia o la Federazione della sinistra avevano già abbondantemente dimostrato come anche gli elettori di sinistra avessero ormai voltato le spalle a qualsiasi lista con una caratterizzazione partitica.

Ma il vero grande fallimento della sinistra italiana si chiama in realtà Beppe Grillo. Quando ci si chiede perché in Italia non si sia riusciti a realizzare una Syriza o un Podemos, ma neanche una Linke o un Front de Gauche, che pure non sono altrettanto entusiasmanti, non si tiene conto del fatto che negli anni in cui quelle iniziative si andavano formando o consolidando, la sinistra italiana ha lasciato campo libero alla costruzione del movimento Cinque stelle, che ha raccolto e convogliato verso un’organizzazione padronale e monocratica non solo un grande malcontento diffuso, ma anche gran parte dei temi che i movimenti più vari erano andati elaborando nel corso di anni di lotta. Così il movimento Cinque stelle ha potuto avere il suo primo exploit, non a caso, proprio contestualmente allo scippo di “Cambiare si può” da parte delle segreterie dei partiti che avevano finto di appoggiare quel progetto. Questo solo fatto avrebbe dovuto e potuto convincere chiunque della necessità di un nuovo inizio.
E un nuovo inizio infatti c’era stato: mai, da anni, tanti intellettuali, artisti e studiosi si erano raccolti intorno a un progetto politico come era successo con L’Altra Europa. Mai tanti movimenti diffusi in tutto il paese avevano guardato con interesse, a volte, certo, misto a diffidenza, nei confronti di uno schieramento che affrontava una competizione elettorale. Ma di quella temperie non è rimasto niente. Perché? La colpa, ci sentiamo dire, e proprio da parte di chi è responsabile di quello scialo, è di Barbara Spinelli; delle sue scelte; della sua irresponsabilità, del suo disprezzo per la quotidianità.

Il fatto che Barbara si fosse “rimangiato” l’impegno a non accettare un eventuale seggio nell’Europarlamento, così come era stata indotta a “rimangiarsi” la decisione di non candidarsi, come tutti gli altri garanti (ma allora senza alcuna protesta) avrebbe potuto e dovuto essere accolto come un altro grande passo avanti lungo la strada intrapresa. Nessuno infatti osava negarlo; tanto che persino il segretario e il coordinatore dei due principali partiti che avevano sostenuto la lista erano stati concordi nel riconoscerlo. E l’autentica rappresentante, nel nome e nei fatti, della lista l’Altra Europa avrebbe potuto entrare nell’aula del Parlamento Europeo intitolata a suo padre come prova vivente di quel nuovo inizio. Invece ci è dovuta entrare accompagnata sì, dall’entusiasmo di tanti di noi, ma anche inseguita dagli insulti e dai lazzi di molti di coloro che avrebbero dovuta sostenerla (non poi così tanti; ma sufficienti a fare caciara, anche con il rincalzo di tanti nemici giurati della lista). Che cosa era mai successo? Era successo che Barbara aveva “portato via” il posto non a un altro candidato de L’Altra Europa (cosa che nelle liste elettorali è ordinaria amministrazione); ma all’”Europarlamentare di SEL”, rompendo quell’equilibrio così diligentemente illustrato dai cultori dell’alta politica (uno a Rifondazione, uno alla “società civile” e uno a Sel) che avrebbe dovuto riportare la lista a quella condizione di mera aggregazione di organizzazioni diverse a cui si era cercato in tutti i modi di sottrarla; peraltro non sempre riuscendoci, come evidenziato in molte situazioni da una conduzione separata della campagna elettorale.

Quella guerra contro Barbara, scatenata dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione, è stata in realtà una guerra contro il progetto dell’Altra Europa; che da allora è rimasta paralizzata, nell’attesa di arrivare a un qualche compromesso con le sue presunte “componenti”. Che da allora, poco per volta, sono diventate tre: Rifondazione, Sel, ma anche l’Altra Europa: al tempo stesso (presunto) contenitore sia delle altre due componenti che di se stessa… Oggi si rinfaccia a chi non ha un partito il lavoro che i membri dei partiti hanno fatto per raccogliere le firme e fare campagna elettorale (i volantini, i manifesti, i comizi, i viaggi, i soldi, il tempo…). Ma non hanno fatto le stesse cose anche quelle e quelli senza partito? E non eravamo, o non avremmo dovuto essere, tutti della stessa partita? Invece oggi si invoca invece quell’impegno come se dovesse legittimare la compartecipazione alla gestione de L’Altra Europa non di chi vi milita, il che sarebbe normale, ma degli apparati dei relativi partiti. E perché mai? Perché questa è la strada che è stata imboccata da L’Altra Europa.

In realtà, una scelta o una decisione ufficiale non c’è mai stata; c’è stata una pratica che si è andata trascinando per mesi e mesi nell’inconcludenza: niente gruppi di lavoro (quindi niente elaborazione); niente apertura dell’associazione (perché Sel non voleva; ma chi l’ha deciso?); niente appoggio alle liste regionali Altra Emilia Romagna e Altra Calabria (il silenzio, in una situazione del genere, si chiama boicottaggio, che significa non “vendere” e non “comperare” un prodotto. Ma Sel si presentava con il PD, e non bisognava “dividersi”); niente rapporto con i movimenti (tutti) e, in particolare con No-triv e No-expo per non disturbare governanti e amministratori di Sel; niente autofinanziamento e quindi niente comunicazione per mesi e mesi (10); niente regole di funzionamento fino a che non sono state messe a punto quelle che, scimmiottando un congresso, hanno garantito al gruppo permanente al comando la propria perpetuazione; niente, ovviamente, dibattito su quelle regole, da prendere o lasciare. Ma abbiamo appoggiato la Grecia, Syriza e il governo Tsipras! Ci mancherebbe solo che non si fosse fatto… Ma una scelta del genere non basta a tenere in piedi un’organizzazione che si pretende politica. (di associazioni Italia-qualcosa ne abbiamo tante; tutte o quasi meritorie, anche se certo meno importanti). Ma quanto maggiore è stato il riferimento, sacrosanto, alla Grecia, di altrettanto si è affievolita la capacità di misurarsi con i maggiori processi sociali in corso nel nostro paese. Il punto di approdo di questa parabola è stato l’appoggio alla lista Pastorino. Certo è una lista che potrebbe anche avere un certo successo: non per proprio merito, ma per l’incancrenimento del PD. Dubito però, per come si è costituita, che possa pescare gran che tra tutti coloro che non votano più perché sono disgustati dalla politica, e non solo dal PD così com’è ora.

Ma è il modo in cui il gruppo al comando dell’Altra Europa è arrivato a questa decisione che è scandaloso: passando come un bulldozer sopra il lavoro di mesi e mesi delle compagne e dei compagni dell’Altra Liguria, senza nemmeno interpellarle. Passando cioè sopra un lavoro, quello sì, unitario, di base, costruito a partire dai temi centrali per la Liguria, come la lotta contro le privatizzazioni, contro il nesso Grandi Opere-dissesto idrogeologico e finanziario, contro il razzismo e per il sostegno ai migranti, per un diverso modo di vivere, e convivere, nella quotidianità. Quel punto di approdo è la negazione del valore del lavoro politico di base tra e con in movimenti in nome di un accordo tra vertici stipulato a prescindere dal programma e dalle persone chiamate a rappresentarlo. Tutto ciò, se permettete, non ha niente a che fare con l’essere pro o contro i partiti in astratto; ha molto di più a che fare con l’idea che abbiamo, e che vogliamo diffondere, della politica come presa di parola e autogoverno e non come rappresentanza autoreferenziale. Che cosa resterà di tutto questo dopo le elezioni? Certamente resterà la possibilità di continuare il lavoro iniziato mesi fa, grazie al fatto che quel processo unitario promosso dal basso sarà stato in qualche modo “tenuto insieme” dai molti o pochi che non si sono lasciati illudere dall’ennesima riproposizione di una lista calata dall’alto. Il lavoro dell’Altra Liguria.

Ma quel punto di approdo era nella logica delle cose. Dal documento Siamo a un bivio, che è stata la bandiera del finto congresso di aprile dell’Altra Europa, si era esplicitamente voluto escludere una clausola – ed è stato il motivo per cui ho rifiutato di sottoscriverlo - che prevedeva di darsi “una struttura provvisoria, democraticamente eletta, che abbia il suo fulcro nei comitati e nelle associazioni dell’Altra Europa che si sono andati costituendo o si costituiranno nei territori”. La si è esclusa con l’esplicita affermazione che quei comitati “non contano nulla”, e che occorreva guardare al di là: alle decine di migliaia di firmatari dell’appello iniziale (quelli che così facendo abbiamo in gran parte perso) e al milione e passa di nostri elettori (idem): apparentemente un rapporto demiurgico tra il “centro” e una platea tutta da costituire; in realtà, la predisposizione di una sommatoria di “componenti” da non mettere in discussione.

E’ ovvio che queste ed altre decisioni fanno di me, come di molti altri e altre che hanno vissuto con passione la vicenda dell’Altra Europa (e in primis, credo, di Barbara Spinelli) degli e delle “esuli”, che si riconoscono sì nell’appello e nel progetto iniziali, ma non possono più accettare questo modo di procedere. Non ho difficoltà a riconoscere la buona fede di tante altre compagne e compagni che attribuiscono anche loro tutti questi difetti, o altri ancora, o qualcuno in meno, a ciò che L’Altra Europa è diventata nel frattempo. Ma che contano di poter ancora raddrizzarne la rotta (mentre ce ne sono molti altri, al suo interno, che considerano quell’esperienza conclusa, e che stanno pensando solo a come venirne fuori “onorevolmente”, con una aggregazione di partiti e correnti su cui, per non guastare la manovra, è opportuno, per ora, dire il meno possibile). Se quei tentativi di “cambiare rotta” avranno successo – ne dubito – sicuramente ci rincontreremo da qualche parte. Con alcune e alcuni forse anche prima di quanto ciascuno di noi riesca a pensare. Perché i tempi corrono.
Un tema finalmente all'ordine del giorno. Mentre il premier mostra di credere giusto un mondo in cui qualche persona non abbia un reddito, il dibattito oscilla tra lotta alla povertà e nuova concezione del lavoro.

La Repubblica, 15 maggio 2015

«IL reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e siamo disponibili a parlare con i 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i vincoli di bilancio». Così ha dichiarato Renzi nella conversazione con Repubblica . Ma ciò che propongono i Cinquestelle è esattamente questo, una misura contro la povertà. Sbagliano a chiamarla reddito di cittadinanza, perché questo termine evoca altre proposte che circolano a livello internazionale e sono sostenute da studiosi di tutto rispetto, come Atkinson e Van Parijs, e da un network internazionale, che auspicano, appunto, un reddito di base per tutti. Ma la proposta dei Cinquestelle si riferisce a chi si trova in povertà, come quelle della Alleanza contro la povertà con il Reis (Reddito di inclusione sociale), della commissione Guerra con il Sia (Sostegno di inclusione attiva), di una proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Bin (Basic Income Network) Italia, e prima ancora del lontano reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.

Non mancano, infatti, le proposte e neppure le sperimentazioni, anche se Maroni, che oggi a sorpresa annuncia di voler sperimentare il “reddito di cittadinanza” in Lombardia sembra aver dimenticato di aver affossato il reddito minimo di inserimento appena diventato ministro del welfare, chiudendo la sperimentazione e dichiarandola fallita, senza spiegazioni né discussioni.

Al di là dei nomi, ciò di cui si parla, e che esiste già nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, in molti Paesi Ocse e in diversi Paesi dell’America Latina, è una misura universalistica, non categoriale (cioè non limitata a una o un’altra categoria di poveri) di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, solitamente accompagnata dalla richiesta di disponibilità ad accettare richieste di lavoro per chi ne ha la capacità, o a partecipare a corsi di formazione per chi ne ha necessità, di fare in modo che i figli (per chi ne ha) frequentino regolarmente la scuola e abbiano le cure mediche necessarie e così via. Il termine “di cittadinanza” (anche se io non lo userei proprio perché si presta ad equivoci) si riferisce al diritto di ricevere sostegno se si è in condizione di bisogno (così come si ha diritto di ricevere una istruzione di base, o cure mediche quando si è malati), a prescindere dalla appartenenza ad una o un’altra categoria.

Si può discutere dell’importo base di questa misura, di come debbano essere definiti i diritti e i doveri di chi la riceve e dei doveri di chi deve fare funzionare le attività integrative e di accompagnamento (dalla scuola ai servizi per l’impiego), su come e con quale periodicità si devono effettuare i controlli. E si deve, ovviamente, ragionare su come finanziarla (senza tuttavia metterla sempre in coda rispetto ad altre priorità non adeguatamente discusse). Ma, ripeto, si tratta di misure che già esistono in altri Paesi (incluso il Portogallo, molto più povero dell’Italia) da diversi decenni. Sono state sperimentate anche in Italia e alcuni comuni hanno da tempo qualche cosa di simile. La provincia di Trento ha messo a regime il proprio reddito minimo da oltre due anni. Sono esperienze da cui si può imparare senza iniziare ennesime sperimentazioni che servono solo per rimandare la questione creando ulteriori disparità tra chi è coinvolto nella sperimentazione e chi no: una disparità che può essere accettabile una volta, ma che non può essere sistematicamente ripetuta, senza che si vada mai a regime.

Nei dibattiti di questi giorni, incluso “Ballarò” e “Di martedì” scorsi, si sono sentiti pareri, commenti, fondati su una intollerabile ignoranza da parte anche di illustri commentatori e commentatrici. Peraltro, nessuno sembra abbia pensato di sentire, oltre ai Cinquestelle, chi di queste cose si occupa da anni e ha fatto proposte argomentate (ad esempio l’Alleanza contro la povertà). Il dibattito sembra limitato a politici (inclusi quelli del Pd) e giornalisti apparentemente scelti tra chi ne sa meno ed ha meno memoria storica. Con il risultato di aumentare la confusione, delegittimando in partenza ogni proposta, lasciando aperto il campo ad ennesime sperimentazioni più o meno idiosincrasiche, o all’invenzione di qualche ennesima misura categoriale con cui vengono disperse risorse già scarse.

La parola alla saggezza. Se queste tre omissioni non saranno corrette vivremo «un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica».

L’internazionale, 11 maggio 2015

Il disegno di legge Giannini e altri, “Riforma del sistema nazionale di istruzione”, e i documenti governativi che lo hanno preceduto e lo accompagnano sono stati colpiti da molte critiche puntuali, tante da rendere difficile il compito di riassumerle. Lo hanno fatto su Internazionale due recenti messe a punto di Christian Raimo il 5 maggio e Mauro Piras il 7 maggio e mi rimetto a queste.

Tutti i critici, direi, si sono concentrati nel contrastare, smentire, sforzarsi di correggere singoli punti del disegno di legge fino a chiederne con ragione il ritiro, senza fermarsi a segnalare quel che nei testi non c’è. Però, come imparano gli studenti di prima annualità di buoni corsi di linguistica generale o filosofia del linguaggio o semiotica e comunicazione, un testo ci parla di un argomento non solo con quel che ci dice in esplicito, ma anche con quel che ne tace.

Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola.

1. La buona scuola che c'è


Il primo silenzio è il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola ha fatto e fa. Se non abbiamo voglia o capacità di guardare in faccia la realtà del nostro paese, non capiamo che cosa dobbiamo alla scuola sia pure in assai diversi gradi a seconda dei suoi diversi livelli. Dobbiamo moltissimo ai livelli di base, alle scuole dell’infanzia ed elementari, assai meno, purtroppo, alle scuole medie superiori.

Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti.

All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti confessi (per l’Istat si era ed è analfabeti se tali ci si dichiara). Nelle classi giovani in età scolastica, per ragazzine e ragazzini, il titolo di licenza elementare (non il diploma, non la laurea) era riservato a un’élite, un terzo. Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei.

Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, Esperienze pastorali, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello, nella convinzione che lontano dalla città avrebbe fatto meno danni. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, direbbe Ludovico Ariosto. Il ritardatario aggregato alla pattuglia, il rompiscatole mandato al confino si chiamava Lorenzo Milani.

Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta. Anche gli odiatori del populismo devono ammetterlo. La reazione cominciò dagli strati popolari, dalle campagne più povere del latifondo. Le famiglie capirono, sentirono, che dovevano mandare figlie e figli a scuola, sola alternativa al dispatrio.

Le statistiche ancora raccontano con i loro numeri, per chi si dà la briga di andarle a consultare, questa storia. Ragazze e ragazzi tra tardi anni quaranta e metà cinquanta affollarono le elementari e cominciarono a conquistare in grande maggioranza la licenza elementare prima preclusa invece alla grande maggioranza dei genitori, a non parlare dei nonni.

Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti, ma ancora lontane dal 100 per cento.

Il fatto è che una gran parte degli insegnanti resisteva e continuò a resistere. Erano convinti che il loro compito fosse censire, fermare e mandar fuori dai piedi i somari, gli svogliati, i testoni. Non erano stati attrezzati a capire che il loro compito era esattamente il contrario: fare in modo che i somari imparassero a non ragliare, gli svogliati ad avere voglia di studiare, i testoni a usare la testa per capire e orientarsi nella società. Facile a dirsi, non a farsi. Nel corso degli anni, gli e le insegnanti non solo delle elementari, ma anche delle medie inferiori hanno imparato a farlo. Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza.

Interessante: il massimo di inclusività va a braccetto con la qualità più elevata dei risultati. Così è nel resto del mondo, così è stato ed è per la nostra scuola elementare. Comunque, in complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee.

Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere. Questa scuola è la sola istituzione che ha aiutato la società italiana a evadere dalla prigione dell’analfabetismo primario, totale, e a conquistare almeno l’alfabetizzazione strumentale per il 95 per cento e quella pienamente funzionale (vedremo poi) per il 30 per cento. Mai erano stati raggiunti livelli così alti in tre mezzi secoli di storia patria.

“Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi. E sapeva benissimo quante cose non funzionavano nella nostra scuola, come ha ricordato giorni fa Claudio Giunta.

Ma, interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.

2. La Costituzione


C’è un secondo silenzio. Guardiamo con freddezza e distacco alle cose. Nel fare quel che ha fatto e fa, la scuola ha fatto e, tra tagli e insulti, continua a fare il dover suo, occorre dire. È un dovere costituzionale, le scuole non possono sottrarsi. L’insegnamento è libero, dice la Costituzione (articolo 33, primo comma), ma la scuola no, non è libera o lo è solo entro i paletti che la Costituzione ha fissato.

Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli.

1.La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via.

2.La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo).

3.Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare sempre libera degg’io: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo).

In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto).

Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…)
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo).

La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere.

La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. È un’omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani?

3. Il neoanafletismo


Terzo silenzio, infine. Almeno dagli anni ottanta, alcuni sospettavano che gli analfabeti in Italia non fossero solo quelli che si autocertificavano tali ai censimenti dell’Istat. Furono tentate stime. Poiché si accertava che il 20 per cento delle ragazze e dei ragazzi uscivano dalla scuola media con più o meno gravi difficoltà di accesso a testi scritti, si ipotizzò che questa percentuale potesse proiettarsi sulla popolazione adulta. L’ipotesi era ottimistica.

Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi. Quasi due anni fa Internazionale ha pubblicato l’essenziale di questi dati. In paesi con scuole eccellenti, come Giappone, Finlandia, Olanda la percentuale di persone adulte al di sotto dei livelli minimi necessari a capire un testo e a usare basilari concetti matematici e scientifici tocca quasi il 40 per cento. Tocca il 50 per cento in Corea del Sud, altro paese di buona scuola, buona davvero, supera la metà nel Regno Unito e Germania, arriva a toccare e superare il 60 per cento in Francia e Stati Uniti, raggiunge infine il 70 per cento in Spagna e Italia.

Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono, Per l’Italia va osservato che, se si tengono presenti anche i dati sulla capacità di problem solving (uso delle conoscenze per risolvere problemi non routinari nelle singole discipline), la percentuale delle persone sotto i livelli minimi di competenza sale all’80 per cento.

Questa massa cospicua di neoanalfabeti interessa due volte la scuola ordinaria. Interessa una prima volta perché in qualche misura la scuola, specie quella media superiore, è complice della dealfabetizzazione adulta, nel senso che non riesce a fare abbastanza per garantire che i livelli buoni cui porta ragazze e ragazzi si fissino e durino nel tempo dell’età adulta e anziana. Cosa relativamente di poco peso di fronte al danno che la scuola riceve da questa massa.

Sappiamo bene da studi di ogni sorta e paese che il livello culturale delle famiglie incide in modo determinante sull’andamento degli apprendimenti scolastici dei ragazzi. Otto su dieci dei ragazzi e delle ragazze che la scuola si trova di fronte vengono da famiglie in cui non entrano libri e giornali e non si praticano collegamenti a banda larga con internet e Google.

Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. Una commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Gli estensori dei testi renziani devono averlo considerato materiale da rottamare e fare stare sereno.

Male assai: proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è life long learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: la sconoscono come si dice in Sicilia. Secondo norme già vigenti e secondo le analisi della commissione di cui s’è accennato sono le scuole il luogo deputato a far da centro a un sistema di life long learning e anche di continuum training, formazione continua. Esse possono e devono diventare “fabbriche della cultura”. Su tutto ciò silenzio tombale di Renzi e di quelli che omericamente si possono dire “quelli a lui d’intorno”.

Matteo Renzi pareva partito con buone intenzioni. La prima era ottima: aveva fatto capire che di scuola , del complesso della scuola, si sarebbe occupato in prima persona, quale capo del governo. Sembrava che avesse capito che così in effetti richiede la intricata complessità economica, amministrativa, culturale e politica della realtà scolastica di un grande paese sviluppato. Così, di conseguenza, nei maggiori paesi del mondo le grandi svolte delle politiche scolastiche ed educative sono gestite direttamente dai capi di governo o di stato.

Così invece non è stato nella tradizione italiana, dove, a parte casi isolati come quello di Giovanni Giolitti e lampi di interesse di Romano Prodi ai tempi del Prodi uno, si è creduto che le politiche scolastiche potessero esser lasciate ai ministri dell’istruzione. Questi però non hanno competenze e poteri rispetto a troppe facce del problema, a cominciare dai riassetti del bilancio dello stato necessari se davvero si vuole intervenire sul complesso della realtà educativa. Sono riassetti che comportano decisioni che può e deve prendere solo chi guida l’intera compagine governativa, non un singolo ministro, a meno che non abbia una delega in bianco come (ma solo per due anni) fece Mussolini con Giovanni Gentile.

4. Matteo Renzi
Matteo Renzi pareva deciso a innovare prendendo in mano lui stesso il gran groviglio educativo e l’intento era e resta in sé positivo. Il risultato per ora è molto insoddisfacente.

Una seconda buona intenzione manifestata all’inizio è stata insistere sulla natura solo parziale degli interventi che annunziava: non chiamatela riforma, ebbe a dire il presidente, sono solo singoli provvedimenti più immediatamente necessari, la riforma la faremo, ma verrà dopo. Invece e però da un certo punto in poi la buona intenzione è svanita e in comunicazioni governative, nei mezzi di informazione e infine nel testo consegnato al parlamento si è parlato di riforma, parola pesante che, a usarla correttamente, implica l’esistenza di un ripensamento adeguato e di una revisione radicale e complessiva di uno stato di cose.

Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.

Nella lettera con cui l'europarlamentare comunica il suo distacco dalla lista italiana "L'altra Europa con Tsipras" , e nel dibattito che ne è nato si fa riferimento a una lettera nella quale, a metà aprile scorso sono state comunicate le ragioni del dissenso. Crediamo sia utile pubblicarla oggi per i frequentatori di

eddyburg. In calce le prime firme

Abbiamo condiviso e continuiamo a condividere l’appello iniziale L’Europa a un bivio, che alcuni di noi hanno contribuito a redigere e che altri hanno sostenuto con la propria candidatura e con la propria militanza, ma – nonostante molte mediazioni – non possiamo condividere il percorso che l’attuale gruppo dirigente dell’Altra Europa sta perseguendo.

Durante l’ultima assemblea nazionale di Bologna, il 18 e 19 gennaio, non è stato definito alcun programma, dato che quell’assemblea era stata messa nell’impossibilità di esprimere un voto.

Non votare e non contarsi significa sempre eludere la sostanza: cioè i temi politici fondamentali su cui non c’è eventualmente accordo.

Era stato però designato un “Comitato operativo transitorio” formato dalle stesse persone che avevano dato corpo in precedenza ai molti e spesso stravaganti acronimi (Con, Cot) che indicavano organismi non eletti, incaricati di condurre all’assemblea successiva. Di assemblea in assemblea, con sempre meno militanti e sempre più invisibili al mondo, siamo giunti a compiere quel presunto “percorso unitario” – mai votato e mai deciso, reso possibile dall’immobilismo e dalla subalternità ai piccoli ceti partitici della sinistra – che ha portato a delegittimare il lavoro di aggregazione fatto con continuità e abnegazione dai comitati regionali nati in vista delle elezioni.

Fino a giungere al caso esemplare dell’Altra Liguria, di cui la dirigenza di Altra Europa ha ignorato o misconosciuto le scelte – analogamente a quanto accaduto per L’altra Sardegna, L’altra Calabria e L’altra Emilia Romagna - insieme a quelle delle tante forze con cui questa struttura locale era riuscita a costruire un primo embrione di coalizione sociale. Un disconoscimento volto ad appoggiare la candidatura Pastorino che, per le passate prese di posizione, contrasta con gran parte dei principi ispiratori e dei punti programmatici della nostra comunità. In particolare, contrasta con uno dei cardini dell’appello istitutivo de L’Altra Europa: quello di non candidare personaggi che ricoprissero o avessero ricoperto cariche elettive o ruoli dirigenti in altri partiti nella passata e nella presente legislazione, onde salvaguardare il carattere sostanzialmente apartitico della lista.

Il superamento delle piccole identità partitiche era la caratteristica che aveva maggiormente distinto il nostro progetto, permettendoci di raggiungere il risicato quattro per cento che ci aveva fatto esistere come forza politica: un principio che per l’Altra Europa dovrebbe avere valore statutario.

Le cose sono andate diversamente. La dirigenza che gestisce oggi quel che resta dell’Altra Europa ha voluto perseguire ciò che già aveva enunciato nel documento Siamo a un bivio: l’unità, in vista di una fantomatica e sempre di nuovo rinviata unificazione, tra i piccoli partiti della cosiddetta sinistra radicale, e dell’ancor più fantomatica unificazione con una frangia della sinistra Pd di cui non si conoscono le reali prospettive.

Il nucleo di una ventina di persone che, pur non essendo mai state elette, si sono insediate al comando dell’Altra Europa, si è di fatto ritagliato, all’interno dei circa quarantamila sottoscrittori dell’appello iniziale, un proprio “corpo sociale” costituito da poco più di settemila adesioni (dopo averne preannunciate decine di migliaia e aver detto che il vero referente erano il milione e centomila elettori), ormai formato in gran parte da militanti di partiti (soprattutto Rifondazione comunista) che tutt’ora hanno forti legami con le proprie case di appartenenza.

Il cosiddetto Comitato di Transizione ha trasformato la prossima assemblea nazionale del 18-19 aprile in un congresso per delegati – un ossimoro, e in buona parte un tradimento delle intese inziali – che eleggerà un organismo su lista unica bloccata, un comitato centrale inamovibile, solo formalmente legittimato “democraticamente”. Si sono tenute assemblee territoriali con la pretesa di voto su mozioni (una della quali, per altro, ritirata dagli stessi estensori) e con “controllori” centrali a verificare il rispetto dei criteri imposti. In questo modo, migliaia di militanti sono stati esclusi dal corpo sociale dell’Altra Europa. Dei sei promotori iniziali (poi garanti) del progetto, ne è rimasto solo uno. Tutti gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi, gli esponenti di rilievo dei tanti movimenti che si erano raccolti intorno al progetto – un gran numero di persone, tra cui decine dei nostri candidati e candidate – ci hanno lasciato strada facendo.

Il risultato è che la linea politica dell’Altra Europa si piega ormai di volta in volta alle esigenze tattiche imposte dalla sua subalternità agli interessi dei partiti con cui vorrebbe unificarsi: basti pensare al voltafaccia sulla nostra costituzione in associazione, che Sel non gradiva e che per questo non si è più fatta, o al voltafaccia sulla partecipazione alle elezioni regionali, prima scartata perché “le Regioni non contano nulla”, poi sostenuta per offrire uno spazio a Sel, dove questo partito non riesce ad accordarsi con il Pd; o, ancora, al voltafaccia nei confronti del tema “coalizione sociale”, prima marginalizzato e addirittura irriso, e poi, dopo le prese di posizione di Landini e Rodotà, riannesso in modo posticcio al percorso della “Casa comune della sinistra e dei democratici”. Per non dire dei contorsionismi necessari a stare con i movimenti No Tav, No Triv, No Expo e al tempo stesso mantenersene fuori, così da non costituire una minaccia per chi, pur abbracciando astrattamente una posizione, ne pratica un’altra, spesso diametralmente opposta, quando siede in giunte comunali e regionali. Lo stesso vale per la vicenda di Tempa Rossa e per i movimenti che lottano contro le Grandi Opere, l’erosione del suolo in Liguria, il No Muos in Sicilia, le Grandi Navi e il No Mose in Veneto.

Tutto questo ha disgregato ciò che era unito: molti di coloro che hanno sostenuto la nascita dell’Altra Europa si sentono ormai come esuli in patria, alcuni si sono allontanati, altri hanno ritrovato entusiasmo riavviando un processo partecipativo. Tutti però sono convinti che il percorso seguito attualmente non abbia futuro, essendo una stanca e ancor più contorta riedizione di progetti di aggregazione tra forze politiche prive di una propria ragion d’essere, per quanto ben decise a salvaguardare la propria sopravvivenza, la propria identità e, il più delle volte, i propri apparati (o zavorra, come li definisce Stefano Rodotà).

Stanno tuttavia prendendo forma e moltiplicandosi molti punti da cui partire per far rivivere quello spirito unitario – fondato su partecipazione orizzontale e attenzione ai processi sociali, anziché sugli schieramenti partitici – che aveva animato l’adesione al nostro progetto iniziale. Li ritroviamo nelle reti fra movimenti, nella trasversalità delle mobilitazioni per i migranti, nella perseveranza di tanti militanti e comitati, nella fierezza con cui L’Altro Veneto e molte “Altre” Regioni hanno deciso di affrontare le elezioni regionali con slogan come “basta cemento, basta tangenti”, chiedendo che la politica ritrovi un rapporto con l’etica del bene comune e sappia mettere al primo posto la solidarietà, l’accoglienza, le persone. La politica vera dell’Altra Europa, per noi, si fa lì.

15aprile 2015. Primi firmatari: Antonella Leto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Barbara Spinelli, Guido Viale

Sulla posizione di Barbara Spinelli vedi anche qui.
Barbara Spinelli presenta un'interrogazione a Bruxelles. Per chiedere alla Commissione europea d'indagare sul rispetto dei diritti dei profughi in Italia. Partendo da un video in cui i bambini dichiarano di aver subito percosse nella struttura di prima assistenza di Ragusa. Mentre la questura smentisce: Sono calunnie».

L'Espresso online, 12 maggio 2015
Uno sbarco a Pozzallo Dalla recinzione escono solo le grida. Voci di bambini, che urlano in arabo. Frasi che gli interpreti volontari traducono come un appello disperato: «Vogliamo uscire!». Gli viene chiesto: siete stati picchiati? La risposta è presentata in modo raccapricciante: «Si, con la corrente elettrica». Sono le cronache del centro ragusano di Pozzallo, dove vengono raccolti i profughi che hanno attraversato il Mediterraneo, riferite dai volontari siciliani in un video pubblicato il 24 aprile da MeridioNews .

La polizia ha smentito con decisione questa ricostruzione, presentando una querela. Ma la questione di Pozzallo adesso arriva a Bruxelles con un'interrogazione di Barbara Spinelli , che chiede di fare chiarezza: «Cittadini stranieri, anche minori, hanno dichiarato di aver subito percosse con manganelli elettrici, e un adulto ha mostrato segni di una bruciatura». L'eurodeputata invoca un'indagine perché in quel centro si sarebbe verificato «un uso illegittimo della forza». E domanda se «ciò che continua a registrarsi non violi la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione».

Dietro la denuncia c'è una questione decisiva, che rischia di esplodere con il nuovo esodo di disperati dalle coste dell'Africa. I profughi non vogliono essere registrati in Italia, perché questo li obbliga a restare nel nostro paese fino al completamento dell'istruttoria. Che da noi – come ha evidenziato un'inchiesta de “l'Espresso” - spesso richiede più di un anno. Durante Mare nostrum migranti e rifugiati venivano lasciati andare senza imporre la registrazione, in modo che potessero presentare la domanda di asilo in altri paesi. Più ospitali o più efficienti: solo nel 2014 in centomila hanno attraversato la frontiera senza lasciare traccia negli schedari della polizia. Adesso, in base alle ultime intese tra governi, questo non viene più tollerato.

vedi anche:

Migranti, in centomila sono scomparsi

La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari

Secondo l'Ansa, nel giorno in cui è stato reso noto il video, il 24 aprile 2015, sarebbe scattata una protesta dei rifugiati nella struttura di Pozzallo. I profughi, in prevalenza siriani e palestinesi, avevano rifiutato il pasto e la colazione, perché volevano essere trasferiti al più presto dalla Sicilia. Quel giorno la struttura ospitava 113 migranti. L'indomani il direttore, Angelo Zaccaria, ha assicurato che tutti avevano consumato il pranzo di mezzogiorno.

Ma la videodenuncia è arrivata fino a Bruxelles. Scrive Barbara Spinelli (che ha appena lasciato la lista Tsipras) : «Il 25 aprile 2015, nel centro di Pozzallo, risultavano trattenuti da sette giorni 113 cittadini siriani e palestinesi. Con particolare riferimento a Pozzallo, fonti diverse e concordanti documentano l’uso illegittimo della forza per costringere i migranti, anche minori, all’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali in violazione delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo».

La Polizia ha smentito questa versione: «Sono state seguite con la consueta professionalità le rituali procedure relative all'accoglienza e alla successiva identificazione dei migranti», ha scritto la Questura di Ragusa in una nota diffusa lo stesso giorno del video: «Coloro che hanno mostrato resistenze, sono stati puntualmente denunciati per il rifiuto di sottoporsi alle procedure di foto-segnalamento», e conclude dichiarando di aver depositato alla procura della Repubblica una denuncia per diffamazione.

Ma le tensioni per il segnalamento dei profughi sono destinate ad aumentare con i nuovi sbarchi. Siriani, eritrei, palestinesi, spesso anche afghani, iracheni e nigeriani in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni religiose chiedono di potere raggiungere altri paesi europei, dove vivono i loro familiari e ci sono maggiori possibilità di inserimento. La legge europea, applicata ora con rigore dalle nostre forze dell'ordine, non lo permette.

E almeno al Brennero adesso le polizie tedesche e austriache bloccano tutti i profughi. Solo l'approvazione delle nuove misure sulla distribuzione dei rifugiati in tutte le nazioni dell'Unione potrebbe offrire una soluzione diversa. Ma le trattative sono lontane da un accordo. Adesso però i governi europei si devono domandare quali siano i limiti per costringere all'identificazione e se sia tollerabile che venga imposta con la forza.

Una recensione di due testi di Stefano Massini ( "Sette minuti" e "Lehman Trilogy") sul dramma del lavoro nel capitalismo.

L'Indice dei libri, aprile 2015

I grandi momenti dell’economia politica non sono quelli dei modelli matematici raffinati, magari premiati con un Nobel, ma quelli che ci spiegano i grandi paradossi economici con i quali siamo costretti a vivere. Nella crescita economica i ricchi diventano sempre più ricchi e - per legge economica che oggi detta più legge di qualsiasi altra - i poveri non riescono nemmeno a tenere il passo. What’ s wrong? Altri paradossi riguardano il lavoro: Il fatto che si debba lavorare meno mentre la produzione aumenta, finisce per essere una pessima notizia. Gli “esuberi” perdono il loro reddito. Per gli occupati rimanenti spesso l’ orario di lavoro viene addirittura prolungato. La scoperta di paradossi di questo tipo gettò gli economisti classici (Townsend, Malthus, Ricardo) in un profondo pessimismo. Anche la letteratura reagì trattando stimoli e idee da questi nuovi misteri (Swift e Defoe con un certo sarcasmo). I romanzieri dell’ 800, Austen, Balzac e altri (come ha raccontato recentemente Piketty) fecero con grande precisione i conti in tasca ai loro eroi per poter serbarli dal destino del lavoro salariato, mentre nasceva tutta una letteratura di ispirazione sociale che rimpianse i poveri. Oggi i paradossi assurdi del nostro sistema economico vengono accettati come “naturali”, una normalità che fa piangere (perfino un ministro), ma non desta nessuna meraviglia.

Con “7 minuti” Stefano Massini è riuscito a portare in teatro un fatto normale facendoci meravigliare. Undici operaie tessili di un consiglio di fabbrica intorno a un contratto da rinnovare. L’ azienda va bene, è stata venduta, la nuova proprietà in cambio di una garanzia dell’ occupazione e dello stipendio propone alle maestranze di rinunciare a 7 minuti “dell’ intervallo pattuito in sede di contratto premiando lo sforzo della proprietà di venirvi incontro in questo delicato passaggio storico”. La prima reazione delle donne è un grande sollievo. Perfino un sentimento di gratitudine. Questa garanzia, la tranquillità di un lavoro e di uno stipendio, valgono il sacrificio di 7 minuti al giorno. Altre fabbriche chiudono, ma qui si continua a lavorare. L’ offerta va accettata subito. Solo Blanche, trent’ anni al telaio, ha una strana „sensazione alla bocca dello stomaco“. Vuole discutere, vuole vedere chiaro. “Perché ho sempre la sensazione che noi dobbiamo ringraziare? Non è uno scambio alla pari?”.

Non lo è. Tutte le donne lo sanno, anche se non hanno studiato l’ asimmetria di potere inerente al mercato del lavoro. Sentono il ricatto che su ciascuna pesa in modo diverso. Chi ha figli, chi un marito disoccupato, chi è giovane, chi immigrata. Tutte, meno Blanche, sono decise a firmare. “Ma se il lavoro lo perdessimo proprio votando sì?”. Il calcolo è presto fatto. Sette minuti di lavoro in più al giorno per 200 operaie vuol dire 600 ore di lavoro al mese. “E’ come se entrassero altre operaie” non pagate. Poi a qualcuno potrebbe anche venire l’ idea che così si crei un “esubero”. Le donne discutono malvolentieri, soprattutto perché hanno la sensazione che comunque non possono fare niente. Per ognuna la perdita di 7 minuti al giorno è accettabile ed è sempre meglio della perdita del posto di lavoro.
Ma dalla discussione reticente emergono una dopo l’ altra le domande. “Noi ci teniamo il posto, va bene, loro si prendono sette minuti: fine della storia?” Quale sarà il prossimo sacrificio da fare? Che effetto avrà questo “sì” su altre fabbriche e altri contratti? Dopo anni di sacrifici non sarebbe meglio rischiare una volta un “no”? Fosse solo per dignità? “Loro non mi regalano niente, perché dobbiamo fargli regali noi?”. La risposta a ognuna di queste domande può costare l’ esistenza. Alle operaie, non ai manager, non alle “cravatte”. Il consiglio si spacca e probabilmente anche il pubblico si dividerà. Che cosa vogliamo di più da un testo teatrale?

Massini ci porta fino alle soglie del mistero economico. Andare oltre è il compito del lettore o dello spettatore che legge/vede cose che forse già sa, ma delle quali difficilmente si rende conto: Il lavoratore salariato appartiene non al singolo capitalista, ma al capitale, perché le sue condizioni di vita dipendono dai movimenti e dalle esigenze del capitale che la nostra società considera essere oggettive. La dipendenza può assumere forme attenuate da diritti conquistati, può diventare sopportabile e perfino confortevole. Ma periodicamente la legge del profitto si affaccia con la sua maschera ferrea e richiede, come gli dei degli aztechi, i suoi sacrifici umani. Infatti, il capitalismo può essere considerato ormai una delle grandi religioni. E’ il dio denaro che dà senso alle nostre azioni, regola la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri sogni. Nella sua “” Massini racconta attraverso le vicende di una dinastia di banchieri e finanzieri, che sono i sacerdoti di questa religione, i suoi fasti e la sua gloria fin dalla sua incarnazione nel mito americano. La forza che dà fiato al suo canto epico scaturisce da una catastrofe: Il 15 settembre 2008 crolla la Lehman Brothers provocando il fallimento più grande nella storia delle bancarotte mondiali. La banca era considerata too big to fail. Eppure questa volta il sistema bancario e lo stesso governo americano hanno voluto statuire un esempio facendo squillare le trombe del giudizio universale. Un epoca è finita. Ma che cosa significa questa affermazione e che tipo di Requiem stiamo cantando?

La Lehman Trilogy ci illumina sui passaggi cruciali da un capitalismo arcaico della “roba” a quello trascendentale della finanza. I Lehman, ebrei poveri immigrati dalla Germania, vendono attrezzi agricoli, passano alla compra-vendita di cotone, si trasferiscono dopo la guerra civile dall’ Alabama a New York dove figurano tra i fondatori della Borsa di Cotone, lontani da attrezzi, campi e carri. Capiscono il bisogno di nuovi mezzi di trasporto, investono in ferrovie e petrolio, in aerei e armi di guerra, si sposano bene, rimangono attaccati alla religione dei padri e conducono una vita da capitalisti “protestanti”, direbbe Max Weber. Sono tra gli artefici dell’ industrializzazione di un continente, creatori, come scriveva Marx, di “meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche”.

Ma nelle ultime pagine della terza parte della trilogia tutto cambia. Il cuore degli affari del gruppo è diventato la compravendita di denaro nelle sue forme molteplici chiamate “prodotti finanziari”. Queste forme di denaro si staccano dal mondo dei beni reali e dagli investimenti per produrli e conducono una propria vita irreale in altre sfere. Entriamo nei regni dei miliardi, bilioni, trilioni di dollari dove ci si orienta in modo diverso dal mondo degli ottanta Euro concessi ai lavoratori dipendenti e assimilati. L’ origine dell’ alto tasso di rendimento delle nuove forme di denaro rimane nascosta e nessuno la vuole conoscere. Nessuno poteva nemmeno aspettarsi questi frutti sopranaturali. Eppure il terreno è stato a lungo preparato. “L’ America, guardiano del pianeta, armato fino ai denti”. Riempire il mondo di merci, di mezzi di comunicazione, di computer, di programmi. Il computer non significa solo calcolo, ma anche linguaggio “per non far crollare la torre di Babele”. I have a dream di Martin Luther King trasformata in una formula per vendere vendere vendere in modo che il mondo possa redimersi nel comprare comprare comprare. Metamorfosi infernali del denaro. E tutti ballano, banchieri e operai, tutta l’ America. Crisi. Il dio denaro sacrifica la Lehman Brothers, il suo figlio primogenito. Fine dell'Antico Testamento.
«Il motivo per cui ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile».

La Repubblica, 13 maggio 2015 con postilla

Barbara Spinelli, la sua decisione di lasciare la lista in cui era stata eletta all’europarlamento, “L’Altra Europa con Tsipras”, ha scatenato le polemiche. Il coordinatore di Sel, Fratoianni, la accusa di essere incoerente, rimproverandole di aver voluto tenere il seggio proprio per garantire la tenuta di quel progetto di cui oggi dichiara il fallimento. E sui social network c’è addirittura chi la accusa di tradimento. Come risponde?
«Io non trovo che ci siano né incoerenza né tradimento. Il motivo per cui, da tempo ormai, ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che secondo me è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile. E soprattutto non dominato dai vecchi partiti della sinistra radicale. In questo anno e mezzo, piano piano ho avuto invece l’impressione di un predominio dei piccoli partiti che avevano promesso di sciogliersi ma non si sciolgono mai».

Cosa è successo? Siete in tre, a Strasburgo: non andavate più d’accordo?
«Gli altri deputati de “L’Altra Europa” sono al tempo stesso in un partito: Curzio Maltese, sia pure come indipendente, è entrato nel comitato direttivo di Sel, Eleonora Forenza è nella segreteria di Rifondazione. Io ero espressione solo della Lista, ma nel frattempo “L’Altra Europa” è stata monopolizzata da Sel e Rifondazione. Nell’assemblea del 18 aprile è stata resa nota una lettera aperta di buona parte dei militanti, firmata anche da me, che si sono dissociati e sono praticamente usciti da “L’Altra Europa”. Tra questi: Luciano Gallino e Guido Viale».
Provo a mettermi nella testa di un elettore di sinistra, che forse si starà chiedendo: ma come, in Grecia ha vinto Tsipras, in Spagna il consenso di Podemos cresce, e in Italia la sinistra frana?
«Non si può dire che sia solo colpa della nostra lista se in Italia non c’è Tsipras né Podemos. Sicuramente c’è un difetto: “L’Altra Europa” si è rivelata un’aggregazione di mini-partiti, non è riuscita a rappresentare strati più ampi della società. Però in Italia c’è anche il Movimento 5 Stelle, che prende una gran parte dell’elettorato antigovernativo di sinistra».
Lei considera di sinistra il Movimento 5 Stelle?
«Nel Movimento 5 Stelle ci sono molte componenti. Una è senz’altro quella che fa importanti battaglie sociali che sono tradizionali della sinistra. La battaglia che stanno facendo i Cinquestelle sul reddito di cittadinanza è una battaglia che secondo me avrebbe dovuto fare “L’Altra Europa”. Ma non l’ha fatta. Quando al Parlamento europeo il M5S ha fatto un’iniziativa sul reddito minimo, ho aderito».
Lei crede che ormai la sinistra fuori dal Pd sia condannata alla frammentazione?
«Non necessariamente. Io sono favorevole all’idea di Landini di una “coalizione sociale”. È un progetto ancora timido, che deve strutturarsi, ma proprio la sua nascita segnala che l’esperienza della lista Tsipras è ormai superata. Sicuramente bisogna pensare a qualcosa che non sia un partito classico. Prima che Syriza diventasse un partito sono passati anni. Podemos non è un partito. Il M5S non è un partito. Il peso degli apparati deve ridursi al minimo, e lasciare spazio ai movimenti, alla società».
Ha letto i commenti su Facebook? Molti le chiedono: ma se hai lasciato la lista, perché non ti dimetti da europarlamentare?
«Perché in Europa continuo a battermi per le idee che ho difeso in campagna elettorale, per il programma che ho in parte scritto. Sono stata eletta dagli elettori, non dagli apparati ».
Sotto quale bandiera? Ha detto che non intende fondare un altro partitino.
«L’Italia ha una nobile tradizione di indipendenti, soprattutto in Europa. Molti eurodeputati, tra cui mio padre, sono stati indipendenti di sinistra. O lo sono, come Sergio Cofferati. Lo sarò anch’io».

postilla

Quando ho letto la lettera di presa di distanza dalla lista ho scritto a Barbara Spinelli: «sono molto addolorato ma ti comprendo». Sono convinto che in un nuovo soggetto politico all'altezza dei problemi di oggi, che voglia promuovere una mobilitazione di massa, deve rivolgersi alle persone e non alle organizzazioni. Sono altrettanto convinto che la tecnica della lottizzazione delle posizioni di responsabilità sulla base delle appartenenze di gruppo non sia accettabile da parte di quanti hanno espresso la loro diffidenza verso la vecchia politica con l'astensionismo. Sono altrettanto convinto che oggi il pericolo maggiore sia rappresentato da Matteo Renzi, e che combattere dall'interno della sua macchina di guerra sia del tutto perdente. Infine, sono convinto che la priorità della lotta al renzismo non consenta alleanze con chi di Renzi è alleato. Per quanto riguarda la permanenza di Spinelli nel parlamento europeo ho votato con entusiasmo per lei non perchè la consideravo un buon capopartito, ma un ottimo parlamentare europeo e un magnifico rappresentante, in quella sede, di una nuova sinistra. Come ha dimostrato di saper essere. (e.s.)

Sembra che il reddito di cittadinanza, sinora teorizzato da isolate avanguardie, abbia fatto finalmente il suo ingresso nel cuore del Palazzo. Non ci sono solo i parlamentari di Sel e del movimento 5 Stelle, ma anche uomini del PD, il partito al governo, a premere per una sua realizzazione, che potrebbe trovare una strada praticabile nelle aule del Senato. E bisogna riconoscere che ancora una volta è stato Grillo e il suo movimento a imprimere una accelerazione di interesse politico sul tema.

Trasformare la tradizionale sfilata Perugia Assisi, la marcia della pace, in un percorso rivendicativo del reddito di cittadinanza, è una trovata di non comune intelligenza politica. Ci si appropria di una iniziativa altamente simbolica, un itinerario di San Francesco, una delle più nobili manifestazioni pacifiste del mondo, per dare anche alla battaglia per il reddito la colorazione solidale e il timbro di fratellanza che essa contiene. Duole dirlo, ma la nostra sinistra (quella alla quale io appartengo) non appare altrettanto capace di determinazione nel perseguire un singolo, ma grande obiettivo e non sa inventarsi forme di lotta diverse dalle vecchie sfilate a Piazza del Popolo o a San Giovanni.

Non sono così ingenuo da non sapere che la scarsa determinazione nel perseguire tale obiettivo non è solo dovuta a inerzia politico-organizzativa. A sinistra e soprattutto all'interno del sindacato, covano riserve tenaci nei confronti di questa misura assistenziale. Si teme la creazione di sacche di parassitismo, soprattutto fra la gioventù. E' la vecchia etica del lavoro, così radicata nel mondo comunista. L'etica del lavoro, introiettata da secoli di ideologia capitalistica, è stata certo trasformata col tempo dalle lotte del movimento operaio in fierezza di classe, un nuovo ethos civile che ha fatto delle classe operaia l'avanguardia sociale del Novecento.

Ma oggi che tipo di capitalismo abbiamo di fronte? In questa fase il sindacato e la sinistra tradizionale sembrano interpretare la società industriale come un nastro, una pellicola che si riavvolge dopo uno strappo. Pensano che dopo la crisi gli anni venturi replicheranno le sequenze già viste. E non vedono la gigantesca metamorfosi che ha cambiato la natura del capitalismo contemporaneo. Un modo di produzione che da tempo ha sparigliato le carte, imposto un nuovo gioco. E il cuore del nuovo gioco è la scomparsa della piena occupazione, obiettivo keynesiano messo da parte come un ferrovecchio da un ceto politico- oggi il PD di Renzi – che ha capito quali servigi chiede il capitalismo finanziario per elargire i suoi favori. Ma, insieme alla scomparsa della piena occupazione, quale orizzonte di una politica possibile, si è schiusa un'altra dirompente novità.
Per paradossale che possa sembrare, oggi la fasce d'età della vita lavorativa, si vanno visibilmente restringendo. Si entra sempre più tardi nel mondo del lavoro. Spesso i giovani sono spinti a continuare gli studi perché non trovano occupazione e continuano a gravare sui redditi familiari, anche quando aspirerebbero a formarsi una vita autonoma. Al tempo stesso, si esce dal lavoro molto prima di un tempo. E' vero che le riforma Fornero e le altre riforme pensionistiche in Europa tendono ad allungare la permanenza nel lavoro, ma gli imprenditori hanno altre vedute. Essi premono per espellere le maestranze anziane, perché incapaci di gestire le innovazioni tecnologiche che entrano continuamente nelle attività produttive.
Oggi un ingegnere meccanico che lavori in una fabbrica automobilistica vede le sue competenze rese obsolete nel giro di un decennio. Come possono reggere i tecnici generici, i semplici operai? Gli imprenditori vogliono in fabbrica giovani pescecani dai denti affilati, che “reggano la competizione”, preferibilmente minacciabili di licenziamento, se non tengono il ritmo giusto o se non raggiungono gli obiettivi richiesti. A meno che non si tratti di grandi manager, naturalmente. Quelli si premiano sempre, con altissimi compensi, per dare il buon esempio.

Questo restringimento dell'età lavorativa in Italia ha almeno due gravi esiti. I giovani (almeno la maggioranza più fortunata) cercano protezione nel guscio della famiglia, rattrappendo aspirazioni e prospettive. Coloro che non ce l'hanno o non si accontentano, si rivolgono al welfare criminale. Spacciare droga non è un lavoro tranquillo, né eticamente apprezzabile, ma toglie tanti giovani dalla disperazione. E' dunque auspicabile che sia lo Stato a fornir loro un reddito, guastando l'etica capitalistica del lavoro, o preferiamo - come sempre più per tutto il resto, la scuola, la sanità, i trasporti - affidarci al mercato? Un mercato criminale, naturalmente, fra i più efficienti della Penisola. Ma naturalmente la questione giovanile riguarda, più gravemente, l'avvenire del nostro Paese. Stiamo perdendo le migliori intelligenze della presente generazione, che scappano nei grandi centri d'Europa e degli USA mentre il presidente del Consiglio e il suo governo ingannano gli italiani con le fumisterie della cosiddetta “buona scuola”.

Ma la condizione degli anziani che perdono il lavoro e non hanno ancora la pensione è tragica. Queste figure, esistenti da tempo in Italia, che la riforma Fornero ha fatto ingigantire, facendone le vittime sacrificali di una riforma ispirata dal panico e da una cultura produttivistica, non hanno nessuna famiglia a cui appoggiarsi. Quella famiglia in genere debbono reggerla loro, coi loro magri redditi. E spesso non pochi di loro si trovano in situazioni che nessuno potrebbe immaginare all'interno di una società opulenta come la nostra. Non solo devono provvedere spesso a mogli e figli disoccupati, ma talora hanno a carico anche qualche genitore anziano, tenuto in vita da una delle tante sontuose pensioni che allietano gli ultimi anni dei nostri vecchi.

Ci auguriamo che ne tengano conto i nostri parlamentari. Il reddito minimo toglierebbe dalla disperazione tante persone che hanno decenni di fatiche alle spalle e un futuro di incertezza. Aumenterebbe la domanda interna, di cui l'economia italiana ha un evidente bisogno. Costituirebbe la strada per ridurre le disuguaglianze sociali, offrirebbe a tanti nostri giovani un punto di partenza per intraprendere, studiare, continuare ricerche avviate. I giovani non si assopirebbero per un modesto reddito, vivendo da parassiti: si tranquillizzino sindacalisti e vetero comunisti. Questo lo credono coloro che dei giovani hanno solo sentito parlare.

Un reddito minimo potrebbe creare quel margine di sicurezza in grado di spingere tanti nostri ragazzi a fare volontariato: volontariato di assistenza alle persone, di cura del decoro urbano, di difesa dell'ambiente e del paesaggio, di assistenza ai bambini e ai ragazzi che abbandonano la scuola. Tutto dipende dal clima che si respira nel paese, se è di lealtà tra governanti e governati, di esaltazione e difesa del bene comune. Tutto dipende dalla creatività della politica, che deve uscire dalla routine impiegatizia che l'affligge, e deve saper suscitare le energie latenti della nostra società, in attesa di un messaggio di verità e di prospettiva.

Una versione ridotta dell'articolo è stato pubblicato su il manifesto

Dieci consigli utili per chi vuole contribuire a «costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche».

Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015

Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.

1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.

2. A proposito: le piccole storie sconfitte sono quelle incarnate da gruppi dirigenti che portano sulle spalle cumuli di fallimenti. Un passo indietro di tutti loro significa farne, insieme, dieci avanti. E significa mettere alla prova una nuova generazione di persone non livorosa e non ortodossa, perché (tra l’altro) non arrugginita da decenni di scontri intestini.

3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.

4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.

5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.

6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.

7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.

8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.

9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.

10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.

Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.

Esse è raggiungibile qui

Il modello di rapporto tra potere e società al quale si ispira l'Innovatore è vecchio di qualche secolo. Eccolo puntualmente descritto in un articolo tratto da

La tecnica della scuola, il quotidiano della scuola online, 8 maggio 2015

Nel lontano medioevo il re, i vassalli, i valvassori e i valvassini rappresentavano una precisa struttura piramidale utile a esercitare il potere dei potenti sul territorio. Il re nominava il vassallo come suo fedele rappresentante. Il vassallo diventava così il responsabile di un feudo acquisendo il diritto di goderne i frutti ed i benefici, in altre parole il comando delle terre, dei braccianti e dei castelli.
In cambio i vassalli garantivano piena obbedienza al loro Re. I vassalli a loro volta potevano nominare i valvassori, altri nobili di rango inferiore, che diventavano loro fedeli e gestivano parte dei possedimenti. Il valvassore (etimologicamente, dal latino: vassus vassorum) era quindi un vassallo non direttamente dipendente dal sovrano ma da un altro vassallo. Infine c'erano i valvassini, ultimo gradino della piramide, scelti dai valvassori che potevano ancora suddividere ed investire altri nobili di rango più basso. Questa ragnatela di potere permetteva di controllare il territorio e di padroneggiare la servitù della gleba. Nella scuola di oggi pare esistere la stessa struttura piramidale.

Il Re che decide di annunciare riforme che impattano sull'impegno lavorativo dei docenti, i vassalli che cercano di far apparire il cambiamento delle regole come unica soluzione per uscire dalla situazione di stallo organizzativo in cui si trova la scuola, i valvassori di rango inferiore che dicono: "Io sto con il Re" e infine i valvassini che dicono: "Io sto con il valvassore".

Questo potere vorrebbe far sfumare le proteste della servitù della gleba, ovvero di quella docenza che non conta, ma deve solo ubbidire e possibilmente non fiatare, perché indebolire l'immagine del Re non fa bene a quell'Europa sempre prodiga nel chiedere sacrifici e austerità.

Ma nel Medioevo non esistevano i sindacati capaci di fare immediata opposizione costruttiva, come ad esempio la Gilda di Rino Di Meglio, e soprattutto non esisteva il web, luogo di vera condivisione di idee per una servitù della gleba 2.0, che con un solo clic può mettere in discussione qualsiasi struttura piramidale.

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