il manifesto,
Se ne sono accorte le organizzazioni che da quasi tre decenni sorvegliano l’attuazione della legge 185 sul rilascio delle licenze di esportazioni di armamenti: Amnesty international, Oxfam, Rete della Pace, Rete per il Disarmo, Movimento dei focolari e Fondazione Finanza Etica.
Hanno scoperto che il ministro plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) soltanto tre giorni fa, come una sorpresa da uovo di Pasqua, ha rilasciato una intervista all’agenzia Ansa fornendo anticipazioni “pesanti” sulle vendite di armi all’estero nell’anno appena trascorso.
Anticipazioni ancorate a «una serie di considerazioni anche di tipo politico prima dell’invio al Parlamento della relazione prevista dalla legge 185», denunciano le associazioni pacifiste, che parlano di «grave sgarbo istituzionale».
I dati diffusi con questa curiosa anteprima parlano chiaro: le autorizzazioni all’export armiero per il 2017 ammontano a 10, 3 miliardi di euro, quindi si attestano per il secondo anno di fila sopra la soglia dei 10 miliardi, anche se il dato complessivo, pari a 14,9 miliardi di commesse autorizzate è in calo del 31% sul 2016. E il bilancio dell’anno scorso resta, per esplicita e soddisfatta sottolineatura del ministro Azzarello “il secondo valore più alto di sempre”. Ciò che ha fatto la differenza due anni fa è stata la grossa partita dei 28 Eurofighter venduti al Kuwait per 7,3 miliardi ma la componente di export direzionata verso i Paesi del Golfo, e quindi verso i sanguinosi conflitti mediorientali, continuano a costituire la fetta più grossa della torta. Nel 2017 c’è infatti da considerare la partita del valore di 3,8 miliardi per navi e missili venduti al Qatar.
Quanto alle bombe sfornate dagli stabilimenti sardi della Rwm Italia , per essere utilizzate – come ha denunciato anche l’Onu – dall’Arabia saudita nella strage di civili in Yemen, nell’anno appena trascorso e probabilmente proprio per merito delle denunce delle associazioni pacifiste e delle organizzazioni internazionali, le licenze sono passate da 486 milioni del 2016 a 68 milioni del 2017.
Nel frattempo il tradizionale mercato di sbocco delle industrie armiere italiane, in primis Leonardo-Finmeccanica e Fincantierima anche tutta una serie di aziende medio-piccole, cresciute di numero da 124 a 136 in un solo anno, che spesso producono in joint venture con imprese straniere in modo da aggirare leggi e limitazioni – cioè il mercato costituito dagli altri paesi della Ue e Nato – ha recentemente subito una contrazione. Ma a ben vedere si tratta di una impasse temporanea, destinata a essere soppiantata da un trend d’incremento.
L’avvisaglia viene proprio in queste ore dal Cile, dove – al salone International Air & Space Fair ancora in corso Leonardo ha appena siglato un contratto con il ministero della Difesa britannico per la fornitura di una suite di protezione elettronica per ammodernare la flotta di elicotteri da combattimento, una cinquantina in tutto, Apache della Raf.
L0orizzonte della Brexit non frena affatto la compartecipazione tecnologica tra Leonardo, Thales, Bae Systems e la statunitense Boing per quanto riguarda radar, sensori e apparecchiatura da guerra. Al contrario l’Europa, che già oggi è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, nel prossimo futuro si riarmerà sempre di più.
Come denuncia un report del sito Sbilanciamoci.info con il nuovo strumento di cooperazione rafforzata per la creazione di una difesa comune europea – Permanent structure cooperation, in sigla PeSCo – è lecito prevedere, invece che un risparmio per la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, in realtà una esplosione delle spese per sistemi d’arma iper tecnologici.
Da quanto il PeSco è stato varato da 25 paesi Ue, in sordina, nel dicembre 2017 la spesa dei paesi europei per le armi è già aumentata e a partire dal 2020 si prevede uno stanziamento di 5,5 miliardi tra fondi europei e nazionali destinati all’acquisto di sistemi di difesa e per la ricerca, con la possibilità che questi soldi vengano anche svincolati dal conteggio dei deficit di spesa pubblica.
In Italia il business bellicoo a detta dello stesso Azzarello, rappresenta lo 0,9% del Pil e dà lavoro, incluso l’indotto, ad appena 150 mila persone.
Ed è bene ricordare che, a fronte di tutti questi miliardi spesi, il moltiplicatore della spesa militare – come ricorda il centro studi Rosa Luxemburg , è assai più basso di quello di servizi pubblici e manutenzione del territorio e beni comuni.
Internazionale, 6 giugno 2018. La storia della strage tentata dal nazifascista di Macerata (Ancona, Italy) Luca Traini, furioso per la presenza di persone dalla pelle più scura della sua. Profili delle vittime innocenti
Macerata, una tranquilla cittadina delle Marche, non trova pace da quando è finita sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. “Macerata come l’Alabama, Macerata come il Bronx”. In città fino a pochi giorni prima si discuteva al massimo della pedonalizzazione del centro cittadino, poi è arrivato il fantasma di Pamela Mastropietro a turbare le notti della provincia.
Il corpo della ragazza di 18 anni, tossicodipendente, è stato ritrovato nelle campagne di Pollenza, era stato fatto a pezzi e nascosto in due valige. Per la morte di Mastropietro è stato arrestato lo spacciatore Innocent Oseghale. Ma gli investigatori non sono riusciti a chiarire le circostanze dell’omicidio, nella prima fase non riuscivano a stabilire se la ragazza era morta di overdose o era stata uccisa. Hanno fermato tre nigeriani. Dopo due mesi un’indagine della scientifica ne ha scagionati due. Secondo la polizia, non erano presenti nella casa di via Spalato dove è avvenuto l’omicidio.
Nonostante la confusione delle informazioni sulla morte di Mastropietro, Luca Traini, un neonazista di Tolentino, candidato della Lega alle amministrative del giugno del 2017 a Corridonia, ha deciso che i responsabili della morte di Mastopietro erano i nigeriani di Macerata e che i neri in generale sono un problema per la città. Per questo, a quattro giorni dal ritrovamento del corpo, ha preso la sua pistola Glock e la sua Alfa nera e si è messo a girare per Macerata sparando ai neri. Ha aperto il fuoco in dieci punti della città, esplodendo in tutto trenta proiettili e colpendo almeno sei persone. I feriti non avevano mai incontrato l’aggressore prima che alzasse la pistola contro di loro.
Sogni ricorrenti
Festus Omagbon ha 33 anni ed è originario di Benin City, in Nigeria. Il 3 febbraio camminava da solo con il cappuccio della giacca a vento sulla testa, perché aveva freddo. Traini, che arrivava alle sue spalle, ha fatto inversione e ha fermato la macchina. Voleva controllare che fosse un nero. Omagbon ha visto abbassarsi il finestrino. Un uomo calvo con un pizzetto sul mento lo ha guardato con gli occhi sbarrati. Ha alzato la pistola e ha sparato.
Ha un sorriso aperto Omagbon, mentre è seduto davanti a una scrivania nell’ufficio del Gruppo umana solidarietà (Gus), l’organizzazione che gestisce l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati a Macerata. Vive in un appartamento con otto persone a Servigliano, un paesino di mattoni rosa nella valle del fiume Tenna, con le colline che disegnano un paesaggio dolce sullo sfondo. Il foro del proiettile sull’avambraccio destro non si è ancora rimarginato e un tutore nero sostiene l’arto ancora debilitato. Omagbon non sa per quanto tempo dovrà tenerlo.
Le ferite si stanno rimarginando, ma nella sua mente rimane un interrogativo: non riesce a capire perché Traini gli abbia sparato. Prima di questa aggressione, non ha mai avvertito ostilità nei suoi confronti. “A volte al supermercato se mi mancano i soldi per comprare qualcosa, capita che qualcuno mi aiuti. Ho sempre incontrato persone gentili. Mai un insulto o una parola fuori posto”, racconta.
Alla sua famiglia in Nigeria non ha il coraggio di raccontare cosa è successo
Omagbon ha ottenuto la protezione umanitaria e ha tutti i documenti in regola. Sarebbe dovuto uscire dall’accoglienza a marzo, ma dopo l’attentato gli operatori hanno chiesto di prolungare la permanenza per aiutarlo anche dal punto di vista sanitario. Vorrebbe fare l’autista di taxi o di autobus, ma sta facendo fatica a imparare l’italiano e a prendere la patente di guida. Si applica molto, dicono gli operatori. Di notte sogna ancora il volto fermo di Traini mentre alza la Glock e spara.
Non si aspettava un’aggressione del genere e ora ha paura di camminare per le vie del paese, a ogni rumore sobbalza. La mattina del 3 febbraio era uscito di casa alle sei, a Servigliano, e aveva preso un autobus per Macerata: voleva comprare un po’ di ingredienti speciali in un supermercato gestito da un pachistano, per cucinare piatti tipici nigeriani.
Aveva sonnecchiato sull’autobus fino all’arrivo in città poi al capolinea era sceso e a piedi stava raggiungendo il centro cittadino, quando da un’auto nera è stato esploso il proiettile che l’ha gettato a terra. Va spesso in chiesa, pregare lo fa sentire bene, lo tranquillizza. È convinto di essere ancora vivo per una grazia ricevuta dal cielo. Alla sua famiglia in Nigeria non ha il coraggio di raccontare cosa è successo.
Morirò giovane
Anche Wilson Kofi, un altro dei sei feriti, all’inizio non ha raccontato ai suoi genitori in Ghana che ha rischiato di morire. “Nel mio paese se qualcuno ti spara significa che fai parte della malavita, hai commesso qualche reato. Non è possibile che ti sparino per strada se non sei un criminale”, afferma. Così ancora cerca di spiegare ai genitori che a tentare di ucciderlo è stato un neonazista che leggeva il Mein Kampf di Adolf Hitler, uno che ce l’ha con i neri perché li ritiene inferiori.
Kofi ha ventun anni, non ha studiato oltre le elementari. Vorrebbe fare il muratore o il manovale, mestieri che ha già fatto in Ghana e in Libia, ma il proiettile che l’ha colpito alla spalla ha danneggiato l’articolazione. “È difficile ora pensare a un futuro per me”, afferma, mentre osserva le persone che passano davanti alla finestra dell’appartamento al piano terra in cui abita con altri ragazzi. Indossa un giubbotto di pelle verde e sembra spaesato. “Mi dovrò inventare un nuovo lavoro, magari riparare gli elettrodomestici”.
Da nove mesi abita a Macerata e il 3 febbraio era uscito di casa con il suo amico Eric per andare in centro. Mentre camminava ha sentito degli spari, Eric ha cominciato a gridare e a correre. Kofi invece è rimasto come bloccato. Non riusciva più a muovere le gambe. Ha sentito gli spari, poi un colpo, ha sentito il suo amico gridare e lo ha visto allontanarsi. Il proiettile gli è entrato nella spalla, ha visto il sangue sgorgare: “C’era sangue ovunque, ma io non ho sentito dolore”.
È caduto a terra e ha perso i sensi: “Sentivo le voci intorno a me, sentivo i passi, la confusione”. In particolare ricorda la voce di una ragazza che gli ha preso la mano e gli è stata vicino. Qualcuno ha fotografato questa ragazza bionda, che lo ha rassicurato fino a quando sono arrivati i medici: “Non ti preoccupare, sta arrivando l’ambulanza”, diceva. Ora Wilson vorrebbe trovarla per dirle grazie e a tutti i giornalisti che incontra chiede di diffondere la foto per far sapere alla ragazza che le è molto grato e vorrebbe dirglielo di persona.
“Ho pensato che la mia vita sarebbe finita così, su quel marciapiede, quella mattina. Riuscivo solo a pregare, perché se stai per morire è inutile pensare ad altro, meglio parlare direttamente con dio”, racconta. Anche Wilson Kofi è molto religioso e ha capito quello che gli era successo solo una volta arrivato in ospedale. Nel pronto soccorso c’erano solo neri e qualcuno gli ha detto che un uomo si era messo a sparare contro i neri.
Il processo contro Luca Traini comincerà il 9 maggio: il ventottenne di Tolentino è accusato di strage, tentato omicidio e danneggiamento per odio razziale. Nel primo interrogatorio non si è pentito e al processo, secondo la stampa locale, la difesa potrebbe chiedere una perizia per dimostrare l’incapacità di intendere e di volere dell’aggressore.
Wilson Kofi non vuole assistere alle udienze, ha affidato la sua difesa a un avvocato. Non lo convince la storia raccontata da Traini, quella della vendetta per la morte di Pamela Mastropietro . “Se avesse voluto vendicarla avrebbe dovuto uccidere chi l’ha uccisa, non mettersi a sparare per strada. Siamo tutti neri, ma non siamo la stessa persona. Siamo tutti neri, ma veniamo da paesi diversi, siamo persone diverse”, afferma. Non vuole vederlo in faccia Traini, non vuole parlarci. Ora ha paura anche a uscire di casa, ha paura di morire giovane. “Nel mio paese se vieni attraversato da un proiettile come è successo a me, anche se sembri guarito, poi muori lo stesso”, dice con uno sguardo ancora atterrito.
Tutti spacciatori?
A venti giorni dall’attacco razzista di Luca Traini, la sede del Gus di Macerata è stata presa di mira: il 26 febbraio in pieno giorno un uomo incappucciato ha lanciato pietre contro il portone di vetro dell’organizzazione, rompendolo. Qualche settimana dopo l’uomo è stato identificato dalla Digos e fermato: ha detto di aver agito per esasperazione, perché disoccupato. “La campagna di ostilità contro il Gus è cominciata ben prima dell’attacco di Traini contro i neri. È stato un crescendo negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi mesi”, spiega Paolo Bernabucci, presidente nazionale del Gus.
“Tutto è cominciato con l’inchiesta Mafia capitale che ha scoperchiato interessi mafiosi legati alla gestione dei migranti. Da quel momento tutte le organizzazioni che si occupano di richiedenti asilo in Italia sono state accusate di voler fare profitto coi profughi”, aggiunge Bernabucci. Ma questa è “diventata una giustificazione per molti razzisti”. Si sente spesso dire “non sono razzista, ma sono contro il business degli immigrati”. Il Gus opera a Macerata dal 2004 e oggi ospita 110 rifugiati nel servizio Sprar e 80 richiedenti asilo nei Cas.
“Sempre più spesso i maceratesi gridano all’invasione, anche se i richiedenti asilo in città sono meno dell’un per cento della popolazione”, aggiunge Bernabucci che difende il modello diffuso di accoglienza scelto dal Gus, quello che rifiuta la logica dei grandi centri di accoglienza e preferisce la sistemazione in appartamento. “A Macerata abbiamo sempre avuto tassi di inserimento lavorativo dei richiedenti asilo (33 per cento nel 2017) superiori alla media nazionale, molti trovano un impiego nelle aziende della provincia, ma la percezione del fenomeno migratorio sta cambiando radicalmente e i sentimenti di ostilità sono sempre più forti”.
Nel capoluogo marchigiano sono ospitati 360 richiedenti asilo, i due terzi di loro sono accolti da un Cas
Il Gus, come molte altre associazioni che si occupano di rifugiati e richiedenti asilo in Italia, è accusata di “fare business” con l’accoglienza, perché è una delle principali organizzazioni di questo tipo a Macerata e in Italia. “Quello che non viene mai detto però è che diamo lavoro a quattracento persone del posto e che i soldi che prendiamo dallo stato sono spesi per pagare i professionisti che lavorano per noi”, continua.
Il 28 febbraio la guardia di finanza ha aperto un fascicolo sull’organizzazione accusata di non aver versato l’iva per le prestazioni pagate. Bernabucci si difende dicendo di “aver seguito le regole fiscali a cui è soggetto il settore. Non versiamo l’iva perché a nostra volta non la incassiamo. Non siamo un ente commerciale. Se dovessimo pagarla noi, tutti gli altri che lavorano nel nostro ambito dovrebbero farlo”.
Nel capoluogo marchigiano sono ospitati 360 richiedenti asilo, per due terzi accolti da un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). Il loro arrivo in città è stabilito dal prefetto e dal ministero dell’interno, perché i comuni della zona non assicurano abbastanza posti nei centri di accoglienza ordinaria (Sprar). Secondo l’ultimo rapporto Sprar, solo il 46 per cento dei comuni marchigiani partecipa all’accoglienza di richiedenti asilo.
Dopo l’attacco di Traini, il sindaco di Macerata Romano Carancini ha chiesto al ministero dell’interno di chiudere i progetti Cas e di lasciare aperti solo gli Sprar, rispettando la cosiddetta clausola di salvaguardia che stabilisce che i comuni che aderiscono allo Sprar ospitino due richiedenti asilo ogni mille abitanti. Il Gus è stato criticato anche perché Innocent Oseghale è stato ospitato da uno dei suoi progetti, prima di essere mandato via per cattiva condotta. “Ci siamo dovuti difendere dall’accusa di ospitare degli spacciatori, come se tutti i richiedenti asilo fossero spacciatori”, afferma un operatore. “Il livello di ostilità è davvero allarmante”.
Macerata come l’Alabama
A piazza della Libertà gruppi di universitari si ritrovano la sera sotto ai portici del palazzo municipale di mattoncini, qualcuno è appena uscito dal teatro Rossi. Sulla facciata neoclassica del comune una targa di marmo ricorda i caduti maceratesi della battaglia di Dogali: una delle pagine più dolorose del colonialismo italiano nel Corno d’Africa. Per Stefania Animento, una giovane sociologa maceratese che da qualche anno si è trasferita a Berlino, Macerata è diventata come Marte: si sente un’aliena a parlare con i suoi concittadini. Le capita spesso di sentire qualcuno che dice: “Luca Traini ha sbagliato ma…”, oppure: “Poteva andare peggio, qualcuno avrebbe potuto farsi male”.
È stata propria una frase come questa, pronunciata da un maceratese in tv durante un’intervista, a farla saltare sulla sedia e a spingerla a prendere il primo aereo per tornare a casa all’indomani dell’attentato. “Di solito quando dico ai miei amici stranieri che sono di Macerata, tutti mi guardano con sconcerto, nessuno sa nemmeno dove si trovi. Mi chiedono se è in Toscana”, racconta. Ma in poche ore a febbraio tutto il mondo ha scoperto le coordinate geografiche di casa sua.
“Macerata sul Guardian, Macerata sui siti di mezzo mondo: Macerata era la città di Traini, Macerata casa mia, sembrava diventata improvvisamente l’Alabama”, racconta Animento. Appena arrivata a casa, ha trovato che a piazza della Libertà si erano radunati i militanti di CasaPound, arrivati per partecipare a una manifestazione di solidarietà con Luca Traini. “Una presenza nuova e inaspettata”, dice la sociologa, che ora fa parte del gruppo Macerata antifascista.
Subito dopo l’attacco si è parlato molto di emergenza fascismo nelle Marche, in realtà in città da dicembre si era formato il gruppo Macerata antifascista per contrastare il ritorno di atteggiamenti xenofobi alimentati soprattutto dal gruppo Macerata ai maceratesi, legato a Forza Nuova e attivo in città dal 2015.
Nel 2013 davanti alla sede del Partito democratico di via Spalato (la stessa presa di mira da Traini il 3 febbraio) era apparsa una scritta: “Kyenge torna in Congo”. L’ex ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, dopo la tentata strage, partecipando alla manifestazione antirazzista, aveva commentato: “Il gesto di Luca Traini non è venuto fuori dal nulla”. Infatti dal 2015 proprio nella città marchigiana Kyenge si è costituita parte civile in un processo contro un dirigente locale di Forza nuova, Tommaso Golini, fondatore di Macerata ai maceratesi e accusato di propaganda razzista per la scritta contro l’ex ministra.
“Ci siamo resi conto che stavano aumentando i segnali d’insofferenza verso i migranti, tra l’altro il comune aveva assegnato una sala a Macerata ai maceratesi. Allora abbiamo deciso di organizzarci, ben prima dell’attacco di Traini”, spiegano Giulia Sacchetti della Palestra popolare e Cecilia Trisciani di Macerata antifascista. “In passato Macerata ai maceratesi aveva organizzato qualche picchetto, ma sembravano veramente poche persone. Per questo prima del dicembre 2017 non ci eravamo preoccupati”, afferma Trisciani. “Poi abbiamo capito che il loro discorso stava facendo presa tra la gente, stava entrando nei discorsi al bar”.
Per Trisciani la cosa più allarmante è la cosiddetta zona grigia: “C’era sgomento e vergogna per il gesto di Traini, un ragazzo incontrato mille volte per strada o al bar, che aveva cominciato ad andare in palestra e a frequentare l’estrema destra. Ma anche un senso d’indignazione e spavento per le molte affermazioni di solidarietà dei maceratesi verso Traini che venivano condivise soprattuto sulla pagina Facebook Sei di Macerata se…”.
Stefania Animento ha provato a esaminare la situazione da sociologa: “Osservando i dati sulla disoccupazione, sulla partecipazione al mercato del lavoro, sul benessere economico, sull’istruzione e soprattutto concentrandosi sulle serie storiche e sul rapporto dei dati regionali rispetto a quelli nazionali, emerge che le Marche sono nella media italiana”, afferma. Lo stesso discorso vale per l’immigrazione: “Con circa il 9 per cento di popolazione immigrata, le Marche e la città di Macerata coincidono quasi perfettamente con i dati nazionali”. Questa “medietà” della città, rappresentata come tranquilla, benestante e operosa, non ha aiutato però a percepire i cambiamenti traumatici avvenuti negli ultimi anni, che hanno continuato a ribollire sotto traccia.
I ragazzi e le ragazze che chiedono qualche spicciolo davanti al supermercato danno fastidio
Il crac della Banca delle Marche avvenuto nel marzo 2016 ha volatilizzato 1,2 miliardi di euro trascinando sul lastrico molti risparmiatori, i terremoti dell’estate e dell’autunno del 2016 hanno portato un senso di terrore e precarietà nella vita di molte famiglie della zona, la ricostruzione si è fatta attendere e i danni per le attività produttive sono state ingenti. L’onda lunga della crisi economica del 2008, infine, ha avuto come conseguenza la chiusura di decine di fabbriche, la delocalizzazione delle imprese locali e la precarizzazione dei contratti di molti lavoratori.
Questi cambiamenti sono tornati a galla con il trauma dell’omicidio di Pamela Mastropietro e poi con l’attentato di Traini. “Nessuno è sceso in piazza per il crac della Banca delle Marche, ma tutti si sono sentiti minacciati dalla morte di Mastropietro”, spiega Animento. I neri, gli immigrati rappresentano in questo momento le paure profonde dei maceratesi: “I ragazzi e le ragazze che chiedono qualche spicciolo davanti al supermercato danno fastidio. La piccola e media borghesia, il ceto medio marchigiano, quello con tassi di propensione al risparmio più alti della media italiana, nonostante il benessere ha paura di perdere tutto, perché non ha più la prospettiva di una crescita”.
“Chi è di estrazione sociale più bassa, chi non ha studiato e ha fatto l’operaio per una vita intera e ha faticato e risparmiato, secondo il costume locale, per mettere da parte i soldi per comprare il suv o l’appartamento ai figli non sopporta quelle mani tese e quei ‘ciao capo’ davanti al supermercato. Suonano come una presa in giro, la scoperta che anni e anni di lavoro, in fondo, non hanno fatto sparire la paura di non arrivare a fine mese e non hanno regalato il privilegio di fregarsene di come va il mondo”, conclude Animento. In questo modo prova a spiegare, almeno in parte, il successo della Lega, che il 5 marzo a Macerata ha preso il 20 per cento dei consensi, passando dai 153 voti nel 2013 ai 4.575 voti nel 2018.
Il corpo spezzato di una donna
“Per molto tempo non sono riuscita a dormire dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro”, racconta Federica Nardi, una giornalista che scrive per il giornale online Cronache maceratesi ed è dottoranda di ricerca all’università di Macerata. Per Nardi finché non si farà chiarezza sulla morte atroce di Mastropietro, ma anche sulle notizie false e sui pregiudizi seguiti all’omicidio, Macerata non troverà pace.
“Molti hanno creduto ai riti vudù, ai nigeriani che hanno mangiato il cuore della ragazza, anche se questa notizia è stata molte volte smentita dalla procura”, racconta Nardi. Qualcuno, come Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia e altri politici locali, ha addirittura fatto campagna elettorale sulla storia del cuore sparito, un particolare agghiacciante che è stato sempre negato dagli investigatori, ma che ha avuto più diffusione delle notizie verificate sull’omicidio di Mastropietro. “Siamo stati sciacallati dai politici in campagna elettorale”, continua Nardi.
I giornali locali sono stati accusati di aver soffiato sul fuoco del razzismo, ma per la giornalista sono soprattutto i social network e i siti di notizie false ad aver approfittato dell’omicidio della ragazza per dare messaggi di un certo tipo. “In particolare la pagina Facebook Sei di Macerata se… ha cavalcato l’odio e la tensione, veicolando messaggi fortemente razzisti”, spiega.
Qualche anno fa Baleani è stata picchiata e gettata nel cassonetto sotto casa da suo marito
La provincia è soprattutto vicinanza. Vicinanza con le vittime, ma anche con i carnefici. “Luca Traini lo conoscevamo tutti, era uno di noi. E per questo alcuni si sono vergognati per quello che ha fatto, altri lo hanno giustificato”, spiega Nardi. La provincia è riconoscersi, conoscersi tutti fin da bambini: “Pensare che una ragazza è stata fatta a pezzi a poche strade da casa mia, in un quartiere della Macerata bene, non ci fa dormire sonni tranquilli”. Quando l’8 marzo le donne e le ragazze sono scese in piazza aderendo alla marcia di Non una di meno “Pamela Mastropietro è stata nei pensieri di molte di noi”, dice Nardi. “È chiaro che il suo corpo fatto a pezzi è stato usato per dire altro, come avviene spesso con il corpo delle donne”.
Non è stato certo il primo caso di violenza sulle donne avvenuto nella zona: al centro antiviolenza della città nel 2017 sono state registrate 41 denunce. E poi c’è il caso di Francesca Baleani, la moglie dell’ex direttore del teatro Rossi di Macerata, che nel 2006 sconvolse la cittadina: “Qualche anno fa Baleani è stata picchiata e gettata nel cassonetto sotto casa da suo marito, poi è stata soccorsa da un passante che ha sentito gli strepiti della donna ancora viva”, racconta Nardi.
Lo scorso anno Baleani, che in seguito alla sua esperienza si è impegnata contro la violenza sulle donne, ha ricevuto un premio a Parma per il suo operato e in quell’occasione non ha avuto parole tenere per Macerata e per i maceratesi, accusando la città in cui vive di non essere “capace di abbracciarla e di pronunciare il suo nome e la sua storia senza provare imbarazzo”.
Dopo la morte di Pamela Mastropietro e la tentata strage razzista di Luca Traini, la violenza è tornata al centro della discussione in una città che in tutti i modi prova a rimuoverla. Macerata deve fare i conti con almeno quattro fantasmi: la violenza sul corpo di una donna, il razzismo cieco contro i neri, l’indulgenza verso i carnefici e infine la grande diffusione di sostanze stupefacenti in un territorio che ha tassi di morte per overdose superiori alla media nazionale.
Il fatto che a uccidere Mastropietro siano stati presumibilmente degli immigrati ha permesso di usare due capri espiatori perfetti per deresponsabilizzare la comunità: i neri e la droga. Con le studenti del corso in cui insegna, Nardi ha deciso di smontare i pregiudizi di questa vicenda e nella prima lezione le ha portate a fare interviste ai Giardini Diaz, diventati il simbolo dello spaccio e del presunto degrado della città.
Ai Giardini Diaz Pamela Mastropietro ha incontrato Innocent Oseghale, ai Giardini Diaz si sono dati appuntamento gli attivisti che qualche giorno dopo l’attentato di Luca Traini hanno manifestato solidarietà alle vittime. “Ho chiesto alle ragazze di stare sedute per qualche ora a guardare quello che succedeva, perché non tutti gli immigrati sono spacciatori e non tutti i maceratesi sono razzisti. E forse è venuto il momento di capire, di ritrovare la complessità, invece di dividerci in tifoserie. Solo condividendo gli spazi e guardando la realtà senza mediazioni sarà possibile ricostruire una verità condivisa su tutta questa faccenda”.
Sull’argomento leggi anche:
A Macerata rinasce un movimento antirazzista
Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo
Da sapere: la costa adriatica è l’hub dell’eroina in Italia
Nella costa adriatica sembrano concentrarsi i traffici di eroina in una maniera non paragonabile a nessun altra regione italiana. Secondo Salvatore Giancane – autore del libro Il mercato globale dell’eroina – nell’Adriatico convergono due delle tre grandi rotte dell’eroina dall’Afghanistan all’Italia: la rotta balcanica e la rotta meridionale africana. In questo territorio si sovrappongono diversi gruppi di importatori che si servono anche di una diffusa rete di venditori al dettaglio.
Anche i dati sul consumo dicono cose simili. Recentemente la Società italiana tossicodipendenze ha lanciato un progetto GeOverdose per monitorare, a partire dalle notizie di cronaca, le morti per overdose in Italia. Dalla mappa emerge che dal gennaio del 2018 ci sono stati 48 decessi su tutto il territorio nazionale e tra le zone con più diffusione ci sono proprio le Marche con almeno cinque casi di morti sospette per overdose. Per Stefano Trovato del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) di Macerata uno dei problemi delle Marche è che non c’è un osservatorio sulla diffusione delle droghe nella regione e anche le politiche di riduzione del danno sono poco praticate.
“L’uso dell’eroina – anche a causa dei prezzi sempre più bassi – è molto diffuso, anche in fasce di età giovanili, ma c’è pochissima consapevolezza del fenomeno e questo determina la mancanza di politiche pubbliche in grado di rispondere al problema. I ragazzi non possono parlare con nessuno, non hanno informazioni su questa questione se non da chi già fa uso di sostanze stupefacenti o dagli spacciatori”. Per Trovato dopo la morte di Pamela Mastropietro la risposta delle autorità è stata di tipo securitario, con blitz antidroga nei parchi cittadini e volanti della polizia nelle strade: “Ma questo tipo di misure non sono sufficienti se non si mettono in atto una serie di politiche serie sul tema”.
Articolo ripreso dalla pagina qui raggiungibile
Il Fatto quotidian
L’assuefazione alle morti sul lavoro è ormai massima. Solo dichiarazioni di principio, niente fatti. Occorre con urgenza elaborare una strategia che abbia al suo interno una componente socio-politica: la modifica, a favore delle potenziali vittime, dei rapporti di potere. Dunque nessuna precarietà, ma diritti certi per tutti. Le valutazioni del rischio non devono essere un pacco di fotocopie, devono essere precedute da sopralluoghi e riscontri materiali. Come è possibile non prevedere il rischio di scoppio quando si lavora attorno a un serbatoio di certe sostanze chimiche? È passata invano anche la strage di Ravenna del 1987? La vigilanza deve essere rafforzata. Due sui quattro morti degli ultimi giorni lavoravano di notte: era necessario? La vigilanza pubblica si mobilita solo dopo la tragedia? La questione sarebbe semplice: potere effettivo di autodifesa dei lavoratori associato a una concreta attività ispettiva pubblica. Occorre però un ceto politico diverso.
Vito Titore, Medico del lavoro
Gentile dottore, i morti sul lavoro sono aumentati nel 2017 rispetto al 2016 (1.029 contro 1.018 secondo l’Inail), come era già successo tra il 2014 e il 2015 (da 1.175 a 1.294). Sono sempre troppi, anche quando diminuiscono (erano stati 1.624 nel 2008). Quasi tre al giorno, domeniche e festivi compresi. L’Osservatorio indipendente di Bologna ne conta già 151 nel 2018. Gli incidenti degli ultimi giorni a Livorno e a Treviglio (Bergamo) ci hanno ricordato come sia facile, in Italia, andare a lavorare e non tornare più.
L’emergenza ha a che fare con il precariato, con l’innalzamento dell’età pensionabile che inchioda ai loro posti lavoratori non più giovani anche in settori usuranti, con le troppe aziende che specie in tempo di crisi considerano la sicurezza come un costo insopportabile. L’Ispettorato del lavoro per il 2017 riferisce di irregolarità in materia di prevenzione infortuni nel 77,09% (+3,5% sul 2016) delle appena 22 mila aziende controllate (su 4,4 milioni). E l’illegalità diffusa si alimenta anche delle carenze degli organici degli Ispettorati e delle Asl.
Sarebbe necessario rafforzare la vigilanza e anche la repressione dei reati ai danni della sicurezza e della salute dei lavoratori. Perché un imprenditore o un dirigente, nei pochi casi di condanna per omicidio colposo, prende uno o due anni al massimo, in genere con la condizionale. Raffaele Guariniello, magistrato a riposo e grande esperto della materia, propone da anni una Procura nazionale per la sicurezza sul lavoro, sul modello di quella Antimafia, per sostenere le piccole Procure spesso alle prese con processi difficili. Non se n’è mai fatto niente. La strage continua.
la Stampa, 4 aprile 2018.
Abbasso l’ordine internazionale liberale. E quindi abbasso la Germania, viva l’America di Trump e bene anche Putin. È meglio che l’Italia si schieri con i Grandi lontani che con i Grandi vicini europei: avrà meno vincoli e maggiore libertà d’azione. In estrema sintesi, la Lega e in parte i 5 Stelle – in parte: le posizioni dei due, anche in politica estera, non coincidono certo – propongono una visione internazionale del genere. Ciò significa che una percentuale consistente del nuovo Parlamento e un ipotetico governo futuro concepiranno la difesa degli interessi nazionali dell’Italia in modo diverso dalla tradizionale combinazione fra europeismo classico e atlantismo (o ciò che ne rimane).
Non si tratta di un peccato mortale: a differenza di quanto si tende a pensare, la valutazione degli interessi nazionali non è mai oggettiva, è politica e soggettiva. E quindi può evolvere nel tempo – anzi deve evolvere di fronte a un contesto esterno che si sta frammentando. Il problema vero è un altro: è di capire fino a che punto la visione di politica estera sovranista/populista sia credibile e possa garantire risultati efficaci per l’Italia.
La risposta è no, per ragioni pragmatiche prima ancora che per scelte ideali. Anzitutto, non è nel nostro interesse nazionale scivolare politicamente fuori dall’area euro pur restando (almeno nel breve e medio termine) dentro le strutture dell’euro-zona. Sarebbe la ricetta per l’irrilevanza, proprio quando un’Europa fortemente divisa discute scelte importanti per gli anni futuri: dalla struttura del bilancio al completamento dell’Unione bancaria. I famosi vincoli europei resterebbero intatti, così come la nostra fragilità di Paese ad altissimo debito pubblico; e al tempo stesso perderemmo qualunque influenza politica. In particolare verso Francia e Germania, dove a tratti riappare la tentazione di immaginare un «nucleo duro» carolingio, che potrebbe escludere l’Italia (ma probabilmente non la Spagna). Lega e 5 Stelle sembrano avere ormai chiaro che l’uscita dall’euro avrebbe costi insostenibili per il nostro Paese; ne devono però derivare scelte politiche e alleanze coerenti. Flirtare con il gruppo di Visegrad non risolve nessuno, ma proprio nessuno (includendo l’immigrazione), dei nostri problemi. Per evitare uno scenario «Grecia-Plus», responsabilità economica nazionale e tavolo di Bruxelles restano essenziali: alternative realistiche non esistono, specie in una fase in cui la politica di sostegno della Banca centrale europea è destinata gradualmente ad esaurirsi. Se la tenuta dell’Italia costituisce una delle incognite principali per l’insieme dell’eurozona, questo non significa che i nostri conti verranno pagati dall’esterno; significa – con tanti saluti al sovranismo – che finiremmo sotto tutela. O sotto la frusta dei mercati.
Terza ragione: poco credibile è anche la capacità di tenere insieme - in una politica estera giocata appunto sui Grandi lontani invece che sui Grandi vicini – l’alleanza con Trump e l’ammirazione per Putin, come uomo forte (Lega) o come oppositore del vecchio ordine liberale internazionale (5 Stelle). Il clima fra Washington e Mosca non volge verso il bel tempo: per ragioni domestiche (Russiagate) e internazionali (il caso Skripal, gli allineamenti opposti sull’Iran), è difficile che la linea dialogante di Trump (il presidente americano ha proposto a Putin un incontro alla Casa Bianca) possa sortire dei risultati. Un’Italia platealmente filo-russa, in una fase tesa come quella attuale, entrerebbe in collisione sia con l’Ue che con Washington. E con la Gran Bretagna, ispiratrice di una Brexit vista con favore dalla Lega.
Come si vede, i rapporti con le due grandi potenze extra-europee non potrebbero compensare la debolezza a Bruxelles, dove si gioca, per l’Italia, la partita economica decisiva; anzitutto nella relazione con Germania e Francia. È indubbio che l’europeismo tradizionale abbia bisogno di aggiornamenti: poiché l’Europa è un contesto fortemente competitivo, non solo cooperativo, l’Italia deve aumentare in modo sostanziale la capacità di difendere, attraverso la politica europea, anche i propri interessi nazionali. Lo sgretolamento del vecchio «ordine» post-Guerra Fredda apre, assieme a moltissimi rischi, nuovi spazi di azione; e impone anche al nostro Paese una politica estera più dinamica, nel Mediterraneo anzitutto. Per muoversi in questo senso, tuttavia, l’Italia dovrà comunque fare leva su una posizione solida in Europa: questa resta la condizione necessaria, indispensabile, per essere un attore credibile. Illudersi che sponde extra-europee bilancino la nostra fragilità nel Vecchio Continente, non aiuterà.
Il mio articolo "Le macerie della sinistra", del 22 marzo scorso sull'HuffPost e su www.sbilanciamoci.info ha provocato critiche, richieste di chiarimenti e domande su come andare avanti. Le proposte su come continuare sono già nelle conclusioni di quell'articolo: rinnovare la cultura politica, lavorare nella società, praticare la politica dal basso, continuare nella "lunga marcia nelle istituzioni". Sì, ma in pratica che potremmo fare?
«Leu politicamente finita, a meno di innovazioni radicali». Viene chiesto: ma quali sono, quali dovrebbero essere? Bisogna cambiare campo di gioco, obiettivi della partita e pratiche sul terreno. Il gioco dev'essere radicalmente diverso dalle dinamiche politiciste, autoreferenziali e conservatrici di questi mesi.
Gli obiettivi devono essere quelli di ricostruire un insediamento sociale, identità collettive –alternative a quelle illusorie offerte da M5s e Lega agli elettori in fuga dalla sinistra – e una rappresentanza politica dei "perdenti'" quel 90% di italiani che stanno peggio di vent'anni fa.
L'obiettivo è ricostruire un blocco sociale post-liberista e post-populista che riprenda la via della democrazia e di una politica del cambiamento. Le pratiche devono ridare voce e protagonismo alle persone, devono aprire una nuova grande partecipazione diretta – non quella fasulla sulle piattaforme digitali -, organizzare conflitti che esprimano i valori, gli interessi sociali e i bisogni concreti di chi sta peggio.
Un tuffo nella società, nella vita concreta delle persone, nella ricostruzione di una politica dal basso. È una svolta urgente: presto gli effetti dell'instabilità politica, i colpi di una nuova stretta economica, la delusione per le promesse mancate di Cinque stelle e Lega potrebbero aggravare il disagio materiale, la disgregazione sociale e la deriva autoritaria della politica.
È un lavoro di lungo periodo, e ci serve una discussione collettiva di ampio respiro su come realizzarlo. Ma già oggi le scelte sul terreno della politica e delle iniziative delle forze in campo devono essere funzionali a quell'orizzonte di impegno. Vediamo cinque cose che quello che resta di Leu e altre forze della sinistra –in parlamento e fuori – potrebbero fare subito per avviare questo cambiamento:
Primo, "La politica": Serve una carta d'identità della sinistra, una proposta di cambiamento vero dopo trent'anni di neoliberismo, un "programma minimo" -come quelli dei socialisti di un secolo fa- di cinque proposte radicali e di mobilitazione politica: rovesciare le disuguaglianze, creare lavoro stabile, rilanciare il welfare, prevenire il cambiamento climatico, assicurare pace e disarmo. Bisogna archiviare il programma elettorale ambiguo e contraddittorio con cui Leu si è presentata alle elezioni all'insegna del: "ci vorrebbe un po' piùdi lavoro, di giustizia, di diritti" e "ci vorrebbe un po' meno precarietà". Si devono dimenticare le mediazioni del passato in un centro-sinistra che è morto non nel 2018, ma nel 2013. Non si possono inseguire spazi in un "governo del presidente" che potrebbe emergere dall'instabilità politica attuale.
Secondo, "L'Europa": Tra un anno ci sono le elezioni europee e saranno una nuova messinscena dello scontro illusorio tra tecnocrazia europea e populismo nazionalista. Quello che manca è una discussione politica sull'Europa, e lo si vede anche nel fatto che tutte le 'famiglie' politiche europee sono a pezzi. I Cinque stelle potrebbero trovarsi insieme ai renziani nel gruppo di Macron. I Socialisti europei sono decimati dalle sconfitte in Francia, Germania, Grecia, Spagna, Italia e non riescono a liberarsi di figure come il socialista olandese e questurino dell'austerità Jeroen Dijsselbloem. A sinistra il Gue è paralizzato dallo scontro interno tra chi vuole cambiare l'Europa e l'euro e chi vuole uscirne. L'unica novità è la proposta di una lista transnazionale avanzata da Yanis Varoufakis e dal suo gruppo Diem25 per cambiare l'Europa antidemocratica e neoliberista, ma c'è molto lavoro da fare per trasformare un'operazione mediatica di vertice in una vera forza politica europea. Forse ci potremmo provare.
Terzo, "Il partito": Si vuole costruire un partito di sinistra? Si cambi registro. Le forze politiche (o quello che ne è rimasto) invece di continuare a bearsi della propria autosufficienza sempre più inesistente siano il lievito di qualcosa di radicalmente nuovo: facciano un passo di lato e si mettano a disposizione per favorire una costituente dal basso, estesa, inclusiva, con un gruppo dirigente e regole del tutto nuove, il 50% dei componenti siano persone senza partito, esponenti dei movimenti, delle realtà locali, delle associazioni; sia assicurata la parità di genere; siano aperte le porte agli immigrati e alle seconde generazioni. Lo stesso avvenga nella scrittura del programma e poi nelle candidature alle prossime elezioni. Bisogna rivoluzionare le sedi, le procedure, le forme dell'organizzazione e della decisione politica. I gruppi sclerotizzati si sciolgano in un lavoro comune. Un partito davvero 'nuovo' deve cambiare radicalmente il modo di selezionare i gruppi dirigenti, di prendere decisioni, di spendere i soldi, di comunicare, di coinvolgere e ascoltare sostenitori e elettori. È necessario prevedere l'incompatibilità tra cariche di partito, parlamentari e istituzionali, sperimentare –perché no- il sorteggio per alcune cariche, scardinare i meccanismi consociativi e spartitori della scelta "dall'alto", prevedere obbligatoriamente referendum tra gli iscrittti per le scelte "cruciali" su elezioni, programmi e alleanze.
Quarto, "La società civile, i movimenti": La questione dovrebbe essere semplice: si fa politica in tanti modi, nei partiti, nel sindacato, nei movimenti, nella società civile. Ma negli ultimi anni si è allargata la distanza tra mobilitazioni sociali più deboli e una politica più distante. È importante riaprire spazi di conflitto, organizzare mobilitazioni e scendere sul terreno della politica. Non solo con pressioni 'dall'esterno' ma con una partecipazione 'dall'interno'. Reti sociali, strutture sindacali, esperienze dal basso devono avere spazio a pieno titolo nell'azione politica –e nel 'partito' se lo si vuole costruire davvero- con un riconoscimento della politicità del loro ruolo. E, a loro volta, queste realtà sociali devono contribuire a costruire identità politica e consenso elettorale: senza questo doppio impegno non si ferma la deriva che abbiamo subito il 4 marzo. Il problema non è cooptare qualche persona delle associazioni nelle liste elettorali, ma riconoscere la pari dignità delle diverse forme della politica. Si tratta di praticare l'articolo 49 della Costituzione: si concorre a determinare la volontà generale non solo con i partiti, ma anche con gli altri soggetti della politica.
Quinto, "La leadership": Pietro Grasso è stato un magistrato straordinario, un riferimento essenziale nella lotta alla mafia e un buon presidente del Senato. Ma non si può essere bravi in tutto. Oggi abbiamo bisogno di uno scarto, di voltare pagina. Vediamo se ci saranno nuove disponibilità, se emergeranno nuove figure capaci di guidare il processo. Ma intanto si chiuda questa fase, si prenda atto dall'inadeguatezza delle leadership di questi mesi e la si smetta con i "caminetti" (non ci sono solo nel Pd). Un piccolo gruppo di persone nuove potrebbe amministrare –da qui alle elezioni europee- questa fase costituente con collegialità e trasparenza.
Su queste cinque cose, aspettiamo risposte.
il manifesto, 3 aprile 2018. Porre in secondo piano la lotta alla precarietà del lavoro non è soltanto un attentato alla completezza della persona umana, ma anche un grave errore economico
Una ricostruzione della sinistra in Italia non può prescindere da una critica impietosa che riguardi i contenuti della proposta politica prima che il modo in cui essa è stata presentata. Una critica che non può trascurare di aprire finalmente gli occhi sulla «mucca che è nel corridoio»: la precarietà del lavoro. Intendo sostenere che questo problema, ampiamente denunciato, non è mai stato in realtà affrontato sul serio, per lo meno da parte della sinistra finora rappresentata in Parlamento.
Ci si è baloccati con idee bizzarre quali gli incentivi ai rapporti di lavoro stabili (come se la ricattabilità dei lavoratori non fosse l’incentivo più auspicato dalle imprese), gli articoli 17 e mezzo e amenità simili. Soprattutto non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è in realtà il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione, e non qualcosa a cui si possa pensare in un secondo momento, quando l’auspicata ripresa economica sia stata avviata.
Prendiamo per esempio il caso di Liberi e Uguali. Come ribadito sulla Repubblica del 18 febbraio, il programma economico di Leu si ispirava ad una “visione keynesiana”, che si concretizzava in “due punti fondamentali”: l’aumento della “spesa pubblica per investimenti ad alto moltiplicatore” e la riduzione dell’imposizione fiscale, ma solo nei limiti consentiti dal recupero dell’evasione.
Com’è noto, Keynes riteneva che l’occupazione e il reddito possano crescere soltanto come conseguenza di un’espansione della domanda aggregata, e cioè della domanda complessiva di beni e servizi. Alla politica economica era assegnato il ruolo di sostenerla, qualora essa si fosse rivelata insufficiente; l’aumento iniziale del reddito e dell’occupazione generato dall’intervento pubblico avrebbe a sua volta alimentato la crescita dei consumi privati ̶ che dal reddito dipendono ̶ dando così luogo ad un’espansione ulteriore della domanda. E’ in quest’ottica, dunque, che il programma di Liberi e Uguali proponeva di sostenere gli investimenti pubblici “ad alto moltiplicatore”, e cioè quelli in grado di determinare gli effetti più significativi sul reddito e sull’occupazione. Quelli, in altri termini, capaci a loro volta di fornire maggiore alimento alla spesa per consumi che dovrebbe essere stimolata dall’intervento iniziale dello stato.
Eppure, nella dichiarata adesione di Leu ad una prospettiva keynesiana c’è qualcosa che non torna; qualcosa che riguarda la questione, centrale nell’analisi di Keynes, della relazione tra la domanda aggregata e la distribuzione del reddito.
Keynes riteneva che il volume della domanda aggregata, e in particolare il livello dei consumi, non sia indipendente dalla distribuzione del reddito tra le classi sociali. Questo perché i ceti sociali più benestanti risparmiano in genere una quota significativa del proprio reddito; quelli relativamente meno abbienti ne consumano invece una quota molto elevata. Di conseguenza quanto più il reddito è concentrato in poche mani, tanto maggiore sarà la percentuale di esso che verrà risparmiata, e quindi tanto più contenuto sarà il livello dei consumi. Un alto grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito limita dunque la crescita dei consumi e, con essa, l’espansione della domanda aggregata e dell’occupazione: la propensione al risparmio dei membri più ricchi della società, affermava Keynes, può essere incompatibile con l’occupazione dei suoi membri più poveri.
Una politica economica di ispirazione keynesiana non può dunque prescindere dalla questione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, soprattutto quando queste sono molto accentuate e vanno addirittura aumentando, come accade ormai da molti anni. Se questa tendenza dovesse persistere, sarebbero ben poco efficaci gli aumenti della spesa pubblica per investimenti auspicati da Leu. Sarebbe, inoltre, completamente esclusa la possibilità che essi possano rivelarsi “ad alto moltiplicatore”, dato che la loro efficacia nell’alimentare la crescita dei consumi dipende in maniera cruciale dal livello della propensione al consumo della collettività.
In passato questo problema tendeva almeno in parte a risolversi man mano che l’intervento pubblico, avviando una ripresa dell’occupazione, contribuiva ad accrescere la forza contrattuale e quindi le retribuzioni dei lavoratori. In questo modo l’incremento dell’occupazione, determinato inizialmente dall’intervento dello Stato, veniva poi alimentato dall’espansione dei consumi che era consentita anche dal mutamento della distribuzione del reddito.
Tutto questo non è più possibile. Le norme che sono state via via introdotte hanno favorito il dilagare dei rapporti di lavoro precari, con la conseguenza di ridurre drasticamente la forza contrattuale dei lavoratori. Anche in presenza di una ripresa dell’occupazione non c’è da aspettarsi un incremento dei salari reali che possa invertire la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. E’ stato insomma creato un contesto istituzionale che favorisce una distribuzione del reddito via via più sperequata: un elemento che, come abbiamo visto, tende a limitare la crescita dei consumi e, più in generale, della domanda aggregata. Insomma, non c’è poi molto da aspettarsi, in termini di crescita del reddito e dell’occupazione, da una semplice politica di investimenti pubblici.
Una politica economica di impostazione keynesiana deve dunque prevedere un’immediata e drastica riduzione della precarietà dei rapporti di lavoro. In mancanza di questa, è illusorio pensare ad un aumento degli investimenti pubblici come ad una seria possibilità per una ripresa della crescita; ancora più illusorio è parlare di investimenti “ad alto moltiplicatore”.
Nel programma di Liberi e Uguali lo “scandalo” della crescente disuguaglianza dei redditi viene sottolineato. Si ritiene però che la “via maestra per la redistribuzione di redditi e ricchezza è quella verso la piena e buona occupazione, da stimolare tramite un piano straordinario di investimenti”. La redistribuzione del reddito viene dunque considerata un risultato della crescita dell’occupazione, e non come la condizione necessaria perché essa si realizzi. Sembra sfuggire che l’auspicata crescita dell’occupazione non può realizzarsi senza la preliminare rimozione dell’ostacolo alla redistribuzione del reddito costituito dalla precarietà del lavoro.
Certo, nel programma di Liberi e Uguali viene affermata la necessità di interventi orientati a cancellare il “ricatto della precarietà”. E’ difficile tuttavia sfuggire alla sensazione che l’aumento degli investimenti pubblici sia considerato il vero provvedimento urgente, mentre il “superamento” dei rapporti di lavoro precari sia una questione di più lungo periodo, da affrontare una volta che siano stati realizzati incrementi apprezzabili dell’occupazione.
Non si spiega altrimenti perché dell’abbattimento della precarietà non sia stata fatta una vera e propria bandiera elettorale (nelle dichiarazioni pubbliche si è parlato prevalentemente di cancellazione del Jobs Act, come se prima di questo la precarietà non fosse già dilagante!). Un atteggiamento dettato forse dalla convinzione che, almeno in una prima fase, un aumento della forza contrattuale dei lavoratori possa danneggiare la ripresa dell’occupazione. Questo significherebbe però, parafrasando Keynes, essere ancora “schiavi” di un’impostazione economica che l’identità e il programma di una sinistra adeguata ai tempi dovrebbe considerare sostanzialmente “defunta”.
Avvenire
«La riforma dell'istruzione voluta da Toni Blair è messa ora in discussione: gli studenti che pagano vogliono giudicare docenti e corsi»
Un sistema d’istruzione di prima qualità, in cui si imparava in fretta sotto la guida di docenti preparati. Questa era stata la mia prima esperienza di studentessa e giornalista, all’inizio della mia carriera, negli atenei britannici alla fine degli anni Novanta. Vent’anni dopo sono tornata per un semestre in un’università del nord Inghilterra a insegnare italiano nella facoltà di lingue. Le cose erano cambiate moltissimo.
Gli studenti che partecipavano al mio corso chiacchieravano, mentre insegnavo, guardando i telefonini, proprio come alunni di liceo poco cresciuti, e non ne volevano sapere né di stare zitti e di ascoltare né tanto meno di impegnarsi nel corso. Non solo. Alla fine sono riusciti anche a vendicarsi perché avevo protestato per la loro maleducazione. Nei moduli con i quali hanno dato un voto al contenuto del mio corso e alla qualità del mio insegnamento, hanno scritto che non sono stata una brava docente.
Sono rimasta impressionata e mi è dispiaciuto anche per l’amica che mi aveva offerto l’opportunità del corso, la quale, in quel momento, si trovava in difficoltà. Quei fogli con le valutazioni degli studenti, infatti, sono importantissimi, perché questi ultimi pagano tasse salate e il loro parere è tenuto in grande considerazione. Se non sono contenti di un docente, quest’ultimo si ritrovava nei guai. «Sì, è vero – conferma Elisabetta Zontini, professoressa di Sociologia all’università di Nottingham –. Se gli studenti se ne lamentano, i professori possono essere convocati dal preside di facoltà e messi sotto osservazione. All’inizio dell’anno, uno dei nostri obiettivi più importanti è prendere un buon voto dalle matricole e, se non succede, la nostra valutazione come docenti ne risente». «Non credo che chi frequenta i corsi si renda conto fino in fondo di quanto sia importante quel modulo che deve compilare, ma i professori lo sanno e fanno di tutto per farsi amare dagli allievi – aggiunge la docente –. Si sono alzati i voti degli studenti perché, pur di farli contenti, li si tiene buoni anche così. Un 2.1 di adesso, che corrisponde a un 28 delle università italiane, si prende molto più facilmente di quindici anni fa. I voti si danno con molta più leggerezza».
Negli atenei di tutto il Regno Unito chi impara non è più uno studente desideroso di approfondire la materia, ma un vero "cliente" che paga per una merce che dev’essere di una certa qualità. Il rapporto tra giovani e professori è cambiato per sempre con l’introduzione delle tasse universitarie nel 1998. Una scelta sofferta, adottata dal governo laburista di Tony Blair, che scatenò ai tempi la ribellione dei parlamentari e le proteste degli studenti. «Fino ad allora l’istruzione universitaria britannica era ottima, anche se molto elitaria, con il sistema del tutoraggio che metteva a stretto contatto alunni e professori, come ai tempi di Aristotele e Platone. Così si preparavano le élite, meno del 10% della popolazione, per le quali pagava lo Stato», spiega il professor Michael Alexander, classe 1941, uno dei più importanti esperti di Shakespeare, il primo cattolico a salire in cattedra all’università scozzese di St. Andrews dai tempi della Riforma protestante.
Ma, poi, venne appunto Blair, con la sua convinzione (ispirata a principi di democrazia) che la base universitaria andasse allargata fino a comprendere almeno il cinquanta per cento degli studenti britannici. A quel punto il Paese decise di seguire la strada intrapresa dagli atenei europei e americani e, dunque, di ammettere nelle aule universitarie moltissimi studenti in più. Sulla scena arrivarono pertanto tasse più salate per pagare i costi dovuti al numero in forte espansione degli iscritti. La popolazione universitaria è passata dai 909.300 studenti dell’anno accademico 1985-86, alla vigilia della riforma di Blair, ai 2,32 milioni del 2017. Il doppio delle cifre del nostro Paese, se si pensa che l’Italia, nel 2017, contava 1.654.680 iscritti contro il milione e 113.000 che si era registrato nel 1985.
Secondo un’inchiesta del Washington Post, negli Stati Uniti la trasformazione degli atenei in mercati dell’istruzione è cominciata molto prima che in Gran Bretagna, addirittura agli inizi del 1900, con la decisione di Charles W. Eliot, allora preside di Harvard, di lasciare agli studenti la scelta delle materie. Quelle non gradite sarebbero scomparse dai piani di studi. Con l’eccezione di alcuni centri di eccellenza, dove il corpo insegnante decide ancora che cosa bisogna studiare per ottenere la laurea, oggi nei campus americani regna la libera scelta. La percentuale del bilancio destinata agli svaghi, alle strutture sportive e ai luoghi di ristoro da parte delle università è salita del 22% tra il 2003 e il 2013, molto più rapidamente di quella destinata alla ricerca o all’insegnamento, rimaste attorno al 9%. La professoressa Sara Goldrick-Rab, chiamata dal Senato americano a riferire sullo stato dell’istruzione universitaria nel 2013, ha dichiarato che i campus americani stavano diventando rapidamente «fantastiche colonie estive». A parere del 'Washington Post', oggi gli studenti americani controllano a tal punto la vita delle università che sono in grado di cacciare professori che non la pensano come loro o di mettere all’indice libri non graditi, con risultati pessimi per il dibattito e la tolleranza intellettuale. «Tony Blair ha trasformato il sapere da bene comune a una transazione economica, sostenendo che i giovani dovevano restituire i soldi investiti dallo Stato nel loro futuro una volta ottenuto un buon stipendio», spiega Alexander. In questo grande 'circo del divertimento accademico', vincono gli atenei che offrono le piscine e le palestre migliori risparmiando sulle pensioni del corpo docente. È dovuto proprio al taglio fino al 50% dei trattamenti di anzianità dei professori il recentissimo sciopero, il più importante della storia delle università britanniche, nel quale sono stati coinvolti migliaia di docenti e oltre la metà delle università britanniche, comprese Oxford e Cambridge.
Nei picchetti, i professori sono stati sostenuti dagli studenti, colpiti da tasse universitarie divenute altissime. Oggi una laurea, in Gran Bretagna, costa circa 31.500 euro, ai quali vanno aggiunti 15mila euro di vitto e alloggio se si studia a Londra o poco meno di 14mila se ci si studia nel resto del Paese. È possibile fare un mutuo che però va poi restituito in modo graduale, una volta che lo stipendio supera la soglia dei 28mila euro.
È stata la stessa premier Theresa May ad annunciare una riforma di questo sistema dopo che Lord Andrew Adonis, proprio il ministro di Blair che introdusse le tasse universitarie, ha ora suggerito di abolirle, riconoscendo che puniscono gli studenti più poveri. «Il sistema è stato sfruttato da rettori e professori avidi per assicurarsi stipendi che stanno tra i 300mila e i 500mila euro l’anno, anziché per migliorare la qualità dell’insegnamento», ha detto Adonis. La professoressa Zontini è arrivata nel Regno Unito grazie all’Erasmus, agli inizi degli anni Novanta, ed è ritornata, come ricercatrice, perché affascinata da un sistema universitario che promuoveva l’indipendenza di chi impara. «Sembrava il paradiso. La cultura era accessibile. Le classi piccolissime. Era importante essere critici. Non si imparavano a memoria i libri, ma si scrivevano piccole tesine. Oggi insegniamo a centinaia di studenti come in Italia – racconta –. E, dal momento che pagano, i nostri studenti vogliono la garanzia del risultato. Quando prendono un voto basso, non pensano di non avere studiato abbastanza, ma di non avere ottenuto quello per cui hanno pagato. A volte, ci fanno persino causa. Gli aspetti più difficili delle materie vengono messi da parte. Oggi si punta tutto sul risultato e lo spazio per pensare non esiste più», conclude con una punta di delusione.
In ogni caso, la soluzione sta nel sistema parlamentare, che è un "gioco" con le sue regole da conoscere e praticare. Ma il problema italiano non è tanto delle regole, ma dei "giocatori" che quelle regole non intendono affatto ri-conoscerle. Qui nasce l'inghippo: perché è davvero difficile far funzionare una democrazia parlamentare senza parlamentari consapevoli del loro ruolo e delle loro funzioni. Quando il Parlamento è svuotato della sua sovranità, che consiste anche nella ricerca-formazione di una maggioranza di governo, allora la democrazia parlamentare diventa un guscio vuoto o un misnomer: una definizione che mal definisce.
Purtroppo, dopo tanti anni di malinteso bipolarismo – che, nella sua variante italica, Sartori non ha mai smesso di criticare – è difficile tornare alle buone pratiche del parlamentarismo. Il che consentirebbe, con la pazienza necessaria in queste circostanze, non solo di individuare una via di uscita allo stallo attuale, ma soprattutto di insegnare ai tanti neofiti della democrazia parlamentare come si sta e cosa si fa in Parlamento. Si tratterebbe inoltre di una soluzione pedagogica, utile per chi ancora pensa che si possa esaltare la "centralità del Parlamento" imbavagliando deputati e senatori con il vincolo di mandato. E ancora più utile se l'obiettivo è – come dovrebbe essere – di spingere alcune forze politiche ad uscire dal loro infantilismo politico per farle entrare in una sempre benvenuta maturità democratica.
Fin qui, sull'Italia e sulla politica italiana. Ma quando ci si confronta col pensiero di Sartori è inevitabile volare un po' più alto per superare i confini della politica nazionale e del suo chiacchiericcio quotidiano. La curiosità va allora allo stato della democrazia e soprattutto al suo futuro. Stavolta però la risposta di Sartori si fa meno categorica e più dubitativa: la democrazia è sempre una "ideocrazia" (cioè, costruita sulle idee, dove le idee contano e si confrontano) e la sua qualità così come la sua sopravvivenza dipendono delle teste che dovrebbero pensarla e capirla. Che è come dire che il futuro della democrazia è nelle nostre mani/menti.
Di fronte a queste nuove sfide per la democrazia, non esistono soluzioni facili o scorciatoie a buon mercato. Chi le promette, promette il falso. E il miglior antidoto contro il semplicismo di queste promesse rimane la lettura, lo studio, l'analisi – anche critica, se si è capaci – delle opere di Giovanni Sartori.
«Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da sempre lo accompagna».
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
«Credo proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei e negli Usa. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì contro la rappresentanza. Ho l’impressione che la diffidenza nei confronti dei rappresentanti, in quanto tali, riguardi il trasformismo, un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità».
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
«Sì. Pensiamo alla parabola di Syriza. Tsipras è una brava persona e quelli intorno a lui non sono certo corrotti, ma alla fine volendo prendere il potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi creare il movimento.
«Il caso di Liberi e Uguali è forse il più melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più».
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
«Entrambi hanno alla loro origine elementi interessanti. Penso alla Lega di Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione. Invece, per quanto riguarda i 5Stelle, il reddito di cittadinanza e il tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è che entrambi, Lega e 5Stelle, abbiano già fatto una brutta fine. Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti, mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5 Stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
«Sì, e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di democrazia diretta paradossali. Alcuni di loro, per esempio, hanno ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone, quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere comunale, regionale, in pratica senza esistere e senza nessun candidato noto. Com’è possibile?
«La loro forza proviene dalla dissoluzione dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5 Stelle si fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione. Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche dell’astuzia».
il manifesto,
Nell’era dei paradossi accade che mai la società umana ha prodotto tanta ricchezza e mai così alto è stato il numero di chi muore di fame. Più tecnologia e conoscenze produciamo e più ci avviciniamo alla soglia della catastrofe ambientale e nucleare. Mai abbiamo avuto tanti mezzi di informazione, tanta facilità di comunicazione in tempo reale e contemporaneamente tanta ignoranza a livello di massa. Naturalmente con conseguenze enormi sul piano politico.
La nostra visione del mondo si basa essenzialmente sulla percezione e, ad esclusione degli addetti ai lavori, su qualunque fenomeno sociale del nostro tempo la coscienza collettiva si forma solo sulla percezione. L’ultimo delitto visto in televisione, ripreso dalla stampa, dibattuto sui talk show. Stragi di donne, tragedie familiari, giovani uccisi da assassini che restano ignoti: è il piatto forte dei telegiornali Tg. Chi sa che siamo, insieme alla Grecia e Malta, il paese europeo con il più basso tasso di omicidi? Malgrado mafia, camorra e ‘ndrangheta viviamo in un paese tra i più tranquilli dell’Unione europea, che a sua volta è un’area tra le meno violente del mondo relativamente ai fatti di cronaca nera.
Stesso discorso vale per i migranti. Quando chiedo ai miei studenti quanti sono gli immigrati in Italia, la maggior parte pensa che siano tra il 30 e il 40 per cento della popolazione italiana. Una vera e propria invasione! Quando gli comunichi che non arriva al 9 per cento, una delle percentuali più basse della Ue, rimangono perplessi e increduli. Se questo succede nelle aule universitarie, possiamo immaginare cosa accade fuori. Solo una estrema minoranza conosce la realtà, approfondisce i dati, ha un approccio scientifico alle questioni più delicate e importanti del nostro tempo.
Anche in passato l’umanità ha convissuto con una percezione falsa della realtà. Siamo stati convinti per millenni che il sole girasse intorno alla terra, così come pensavamo che gli animali e le piante fossero stati creati con le attuali fattezze fin dalla notte dei tempi. Galileo, Darwin e altri scienziati ci hanno convinto che la nostra percezione era falsa, ma ci sono voluti molti decenni, qualche volta secoli.
Credo che in questa fase della storia umana sia diventata una necessità di prima grandezza diffondere un approccio scientifico ai fenomeni sociali, economici e politici. Non tutti possiamo diventare scienziati, ma tutti possono avere a disposizione una cassetta degli attrezzi che faccia leggere in maniera non superficiale, istintiva la realtà sociale. Abbiamo bisogno di giornalisti, artisti, docenti, educatori – a partire dalla scuola elementare– capaci di costruire uno spirito critico, per aiutare a selezionare le informazioni, a difendersi dal bombardamento mediatico. Non a caso stanno distruggendo definitivamente il ruolo della scuola come palestra di idee e individui pensanti, per questo è ricorrente l’idea di abolire la Tv pubblica che ancora riserva qualche spazio all’approfondimento.
E’ un’onda reazionaria che coinvolge l’Europa, e la risposta non può essere cercata nel breve periodo o in un cambio del brand politico. Si tratta piuttosto di una sfida antropologica: il profilo di essere umano costruito da questo modo di produzione capitalistico nell’era dell’iperinformazione/deformazione della realtà.Non dimentichiamo che una parte preponderante della sinistra storica aveva le sue basi nel marxismo, una visione che tentava di interpretare la storia con un metodo scientifico.
Forse è proprio da quell’approccio che dovremmo ripartire, in maniera non meccanicistica, per contrastare il mix di razzismo-neoliberismo che ha impregnato la gran parte della società contemporanea.
E’ il terribile e reale rischio di far trionfare il «disumano», denunciato più volte da Marco Revelli, con cui dobbiamo fare i conti prima di pensare alle alchimie dei governi e dei partiti. E’ quel «restiamo umani!», quel grido disperato di un grande testimone del nostro tempo, come Vittorio Arrigoni, che ci deve spingere a spendere le nostre migliori energie, ognuno secondo le proprie capacità, per far riemergere l’umanità dentro la nostra società.
il Fatto quotidiano,
Naturalmente, è del tutto sbagliato sostenere che gli elettori hanno mandato il Pd all’opposizione. Gli elettori italiani non votavano sul quesito Pd al governo/Pd all’opposizione. Nessun elettore in nessuna democrazia parlamentare ha un voto di governo e/o un voto di opposizione. Comunque, gli elettori che hanno votato Pd volevano conservarlo al governo del Paese. Che adesso l’ex segretario del Pd interpreti il voto al suo partito come rigetto della sua azione di governo è confortante, ma troppo poco troppo tardi. Ed è sbagliato pensare che quegli elettori non desidererebbero, a determinate condizioni, che possono essere costruite, vedere il loro partito in posizioni di governo a temperare il programma degli alleati e a tentare di attuare parti del suo programma.
Quando ascolto molti parlamentari del Pd ripetere senza originalità quello che ha detto Renzi, mi infastidisco. Subito dopo mi interrogo e capisco. Siamo di fronte a un’altra conseguenza nefasta della legge Rosato. Non fatta per garantire qualsivoglia variante di governabilità, la legge Rosato non è stata, ma era prevedibile, neppure in grado di dare rappresentanza all’elettorato. I parlamentari eletti non hanno dovuto andarsi a cercare i voti. La loro elezione dipendeva dal collegio uninominale nel quale erano collocati/e e dalla eventuale frequente candidatura in più circoscrizioni proporzionali. Come facciano questi/e parlamentari a interpretare le preferenze e le aspettative di elettori che non hanno mai visto, con i quali non hanno mai parlato, ai quali non torneranno a chiedere il voto, potrebbe essere uno dei classici, deprecabili misteri ingloriosi della politica italiana e di leggi elettorali, come la Rosato. Formulata e redatta con precisi intenti particolaristici: rendere la vita difficile al Movimento 5 Stelle, creare le condizioni per un’alleanza Pd-Forza Italia, soprattutto consentire a Renzi e Berlusconi di fare eleggere esclusivamente parlamentari fedeli, ossequienti, totalmente dipendenti, per questi obiettivi, ma solo per questi, la Rosato ha funzionato. Adesso sì che i conti tornano. Il Pd va all’opposizione, almeno per il momento, perché lo dice, lo intima il capo che ha fatto eleggere la grande maggioranza dei deputati e dei senatori.
Costoro, da lui nominati, dovrebbero dichiarare candidamente che seguono le indicazioni-direttive, non degli elettori, ma di Renzi. Naturalmente, nonostante tutta la mia scienza (politica), neppure io sono in grado di dire che cosa preferiscono gli elettori del Pd.
Sono i dirigenti del Pd, meglio se nell’Assemblea del Partito, quindi non precocemente, che debbono decidere, ma dirigenti non sono coloro che si accodano alle preferenze inespresse e che seguono opinioni e sondaggi scarsamente credibili poiché fondati su ipotesi. Dirigenti/leader sono coloro che precisano le alternative, le dibattono, le scelgono, le confrontano con le proposte degli altri. Poi, se il Pd è un partito (e non un grande gazebo come vorrebbero coloro che stanno chiedendo già adesso fantomatiche primarie che servono a scegliere le candidature, per il parlamento non le ho viste, non i programmi) sottoporrà ai suoi iscritti, come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, un eventuale programma di governo concordato con altre formazioni politiche. Questa è la procedura democratica attraverso la quale si giunge al governo o si va all’opposizione. Il resto è fuffa/truffa.
la Repubblica, 28 marzo 2018. Matteo Renzi ha rottamato. Ma così piccolo, e così inconsapevole, che non provoca molte speranze
Nello zoo delle nostre istituzioni è riapparso un animale che credevamo estinto: il Parlamento. Soffocato durante la lunga stagione bipolare dalla dittatura dei governi, con un presidenzialismo di fatto se non anche di diritto. Imbavagliato dai decreti legge, dall’abuso dei voti di fiducia (108 nei 57 mesi della legislatura scorsa), da canguri, ghigliottine e altre diavolerie procedurali inventate per bloccare il dibattito in aula. Deformato nella sua capacità di rappresentare gli italiani dai premi di maggioranza, concessi in dote a questo o a quel partito. Screditato dal trasformismo degli eletti (566 cambi di casacca nell’ultimo quinquennio: un record). Infine preso in ostaggio da leader che abitavano fuori dalle aule parlamentari (nella XVII legislatura fu il caso di Grillo, Berlusconi, Renzi).
Osservatorio del Sud, 24 marzo 2018.
Dal mercato al progetto
Il flusso di immigrati provenienti da vari Paesi del Sud e dell’Est del mondo si iscrive in un vasto processo di destrutturazione demografica, ma anche di mobilità sociale, che ha dimensioni grandiose e di lunga data. Solo di recente è esploso in forme caotiche e drammatiche a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato». E i maggiori centri di attrazione erano e sono gli USA, l’Europa e l’Australia. Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate.
In questo quadro europeo confuso e generatore di sentimenti xenofobi, la sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente e transitoria al problema. Una via difficile, ma affatto utopica, che potrebbe addirittura fare da modello anche per altri paesi del continente. Noi possiamo indicare agli italiani e agli europei, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria. Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi abbiamo l’opportunità di costruire un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese.
Un grave squilibrio territoriale.
Occorre partire da una considerazione d’insieme relativa alle condizioni dell’Italia dei nostri giorni.
Il nostro paese soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono. Secondo indagini del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione dell’omonimo Ministero, le aree interne rappresentano circa i 3/5 del territorio nazionale e accolgono poco meno di ¼ della popolazione.
Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano.Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana.
Un’agricoltura della ricchezza bioagricola
A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per ridare vita e nuovi presidi territoriali alle aree interne? Si tratta di uno dei tanti slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un’utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All’obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l’agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola.
La seconda obiezione, relativa all’economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all’inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini.
Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane (ma non lontanissime, l’Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viari e commerciali? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un’attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l’incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola.
Tale straordinaria biodiversità agricola - frutto dell’originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat che, dalle Alpi alla Sicilia, si ritrovano nella Penisola, - ha espresso la sua vitalità nell’agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché è in grado di offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale, rispetto a quelli industriali di massa. In tanti vivai, Istituti di ricerca - e nelle coltivazioni degli amatori - si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, insieme a un vasto patrimonio di germoplasma, ecc.
E invece l’organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell’ ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.
Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture - anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze, ma anche alle nove tecniche come l’agricoltura sinergica - costituisce un antidoto importante contro l’infestazione dei parassiti. E’ nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati - anche se con decrescente efficacia - tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici.
Altre economie
Nei frutteti si può molto utilmente praticare l’allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del ‘900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia)8 e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all’azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della fertilizzazione del suolo. Ma aggiungono all’economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova, i pulcini e la carne di pregio commerciabili tutto l’anno.
Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale - tramite il metodo del cumulo - si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull’agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.
Sempre sul piano del risparmio dei costi - senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l’azienda autonoma sotto il profilo energetico - una riflessione a parte meriterebbe l’uso dell’acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l’elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l’acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l’inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane.
Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Senza dire che esiste un po’ in tutte le regioni d’Italia una superficie non trascurabile di terreni demaniali, soggetti a usi civici, o appartenenti ai comuni. Ma sia per questi ultimi che per quelli di proprietà privata si rendono oggi necessarie forme di regolazione e di facilitazione - laddove non esistono già - di accesso alla terra a costi contenuti.
Altro rilevante problema è quello degli imprenditori. E’ evidente che non si può lasciare l’iniziativa imprenditiva alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto. Sarà necessaria un’azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, associazioni, cooperative, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie, ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell’immigrazione. Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto?
Risulta necessario, in via preliminare, cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immigrati che vogliono restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato. Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che gli indiani hanno salvato di fatto l’allevamento bovino nel Nord d’Italia. Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione.
Certo, il motore politico-istituzionale per avviare l’operazione dovrebbe essere un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è già stata aperta alcuni anni fa non senza risultati. Mimmo Lucano e Ilario Ammendola, sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico. I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto. Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016-2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.
E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare le proprie fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro. Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo.
il manifesto
Cosa è successo alla politica che non comprendiamo? Perché dopo il grande successo referendario siamo arrivati a un governo che si annuncia inquietante? E perché la sinistra è diventata così tanto odiosa agli occhi della gente? In politica non è dato il lutto, quella fase di ripensamento doloroso necessario per metabolizzare gli errori e riprendere a vivere; il lutto richiede tempo, il tempo del lutto: kairos lo chiamavano i greci; un lutto collettivo è impensabile dati i tempi della decisione che ha una ricaduta immediata sulla vita delle persone in carne ed ossa (immigrazione, ius soli, scuola, ecc.).
Che fare dunque? Riazzerare tutto? E chi ci garantisce che non si ripercorrerebbe la stessa strada andando incontro agli stessi problemi e alla stessa tragica sorte? Eppure, come ha affermato Gaetano Azzariti (il manifesto del 24 marzo) un popolo cosciente, in occasione del referendum, era sceso in campo contro la stessa volontà dei partiti, aveva riempito le piazze e i luoghi della discussione pubblica, un popolo scomparso il giorno del voto. I partiti vincenti rappresentano solo la pancia del paese e interpretano strumentalmente le esigenze degli abitanti.
Per la sinistra un partito non c’è più, si è progressivamente prosciugato, scolorito inseguendo le magnifiche sorti annunciate dal neoliberismo, la sua ideologia dei consumi e dell’individuo fai-da-te. E’ diventato incolore, sbiadito, un sepolcro imbiancato da cui la vita (politica) è sfuggita per andare altrove, per riempire il bottino elettorale dei 5stelle o addirittura della Lega.
Perché a sinistra del Pd, bisogna ammetterlo, non è nato nulla che possa dare una speranza (se non un modesto terreno residuale di LeU e Potere al Popolo). La stessa parola sinistra è diventata odiosa: sei ancora di sinistra? Ti senti spesso dire come fossi una reliquia del passato, come se ancora ascoltassi le canzoni di Tony Dallara e i suoi gorgheggi a singhiozzo.
Resta una sinistra sociale disorganizzata che non ha rappresentanti, afona, dunque inefficace politicamente. Bisognerebbe dare fiato a questa sinistra sociale, l’unica che non arretra, che è molecolarizzata nelle pratiche quotidiane, negli episodi di solidarietà ai migranti, nell’accoglienza, nella produzione di cibo buono non adulterato, nelle scuole, nelle università.
Il referendum lo ha dimostrato: sono molti di più di quanto crediamo, sono un popolo. Ma quando si arriva al voto essa si disperde, cerca i suoi rappresentanti in ordine sparso, perde la sua carica antagonista, si sfibra, muore sciogliendosi nell’informe o nella regressione.
La sinistra sociale non chiede un partito, non almeno di quelli che abbiamo conosciuto nella storia; purtroppo la sua forza è proprio questa: aver metabolizzato e capitalizzato l’esaurimento dei partiti (ancora una volta il referendum lo ha dimostrato).
Oggi nessuno andrebbe più a una manifestazione indetta da un partito; il popolo invece partecipa in massa a manifestazione contro il razzismo, contro il femminicidio, contro la “buona scuola”, per la ricerca, per l’inquinamento, per il consumo di suolo e la cementificazione progressiva di coste e territori.
Dunque una sinistra c’è, è al lavoro ogni giorno, prende iniziative lontano dai partiti, ma evapora quando si tratta di rappresentarsi nelle forme tradizionali.E’ un’indicazione di lavoro politico.
il Fatto Quotidiano
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| Avantage de la science, J-J Grandville |
Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’Italia a devolvere un numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari d’altro tipo) ad attività professionali non retribuite: attività che in molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma, svolgendosi durante l’orario di lezione, portano i giovani a perdere ore d’insegnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il martedì tornano quelli ma mancano i 5 che sono in biblioteca, e il mercoledì invece altri 2 che vanno in aeroporto). Con quale profitto per l’insegnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto propedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è facile immaginare.
Questo è il sistema che la “Buona scuola” renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di “Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei giusti limiti, non imporre a un liceo classico campano o a uno scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto - lo ha denunciato abilmente Christian Raimo - senza che sia chiaro a nessuno il disegno pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e in griglie in cui si valuta l’ “imparare a imparare”, l’assimilazione della “cultura d’azienda” e simili amenità.
Dopo aver sancito ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse), e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro laddove in realtà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis, l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di far danni: in queste settimane, infatti, in previsione della chiusura dell’anno scolastico e con particolare riferimento alle classi terminali, i Consigli di classe devono stabilire le modalità della valutazione di questa attività “on the job” (sic), che non ha una casella a sé stante (non è, per intenderci, una “materia” in più), ma deve rifluire e influire sulla valutazione disciplinare complessiva dello studente.
La Guida operativa del ministero in materia è, come spesso, poco chiara: prevede in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in itinere dei tutor esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli allievi hanno il massimo, così non si creano problemi), le autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, anche se poi, in via confidenziale, molti confessano di non aver fatto assolutamente nulla in quelle ore), e che poi il Consiglio di classe metta in opera strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina di due pagine?) per giudicare e certificare un’attività che si è svolta per intero fuori dalle mura della scuola.
Accade così che alcune scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far media con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al tema dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su tutte le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie si prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia”, “lingua italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se - per dire - uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e in percentuali - per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati nei compiti in classe o nelle interrogazioni - che ogni scuola decide a suo modo (50 e 50? 60 e 40?).
Anche per quanto riguarda l’esame di Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.
In una scuola in cui - come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno – studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente) orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.
Che qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche, continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un vero miracolo.
José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre di dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovato nell’istituto tecnico che frequentava, in un angolo remoto del Portogallo, un professore di lettere serio, severo e preparato. Chissà se oggi gli avrebbe prestato altrettanto credito.
la Repubblica,
Nicola Sartor, accento sulla o come si addice «al figlio di un vicentino concepito a Trieste e partorito a Bolzano», è rettore dell’Università di Verona. 65 anni, economista. Nella città delle due destre, la Lega di Tosi e l’altra destra, l’Ateneo è indicato come una roccaforte - culturale della sinistra. «È il segno dei tempi», sorride, e spiega: «Sono un uomo di cultura liberale. Cattolico. Ho prestato servizio da indipendente come sottosegretario nel secondo governo Prodi. Ero in Banca d’Italia, mi chiamò Padoa Schioppa. Il mio compito era banale. Portare l’Italia fuori dalle procedure di deficit. Dovevo solo difendere il rigore finanziario. Le scelte politiche non competono a chi deve far tornare i conti. Non ero eletto, cosa che dà il grande vantaggio di non avere un collegio elettorale con interessi da difendere». Accetta di analizzare la condizione della sinistra ma lo fa, dice, da osservatore: «Da semplice cittadino elettore, la politica non è la mia competenza. Posso dirle però qualcosa delle politiche economiche».
il manifesto, 20 marzo 2018. L'illusione delle intelligenze artificiali. Una critica al mito di un'intelligenza distinta dalla carnalità della persona, e nella quale corpo e mente siano due entità indipendenti l'una dall'altro
Già nel 1984 il neurobiologo Antonio Damasio sconfessò questo mito con il suo celebre libro, L’errore di Cartesio, partendo dal famoso incidente capitato a Phineas Gage, l’operaio che sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta metallica che gli trapassò il cranio da una parte all’altra.gran parte dei sentimenti umani originano da uno stato corporeo. Il rapporto indissolubile corpo-mente è l’esito di un lungo processo evolutivo durato milioni di anni. La scienza e la medicina occidentale, invece, trattano separatamente i due elementi, il corpo e la mente, come fossero indipendenti, come fossero parti separate, parti di una macchina banale, per usare l’espressione di von Foerster che chiamava medici e chirurghi semplici banalizzatori, al pari dei meccanici che riparano le auto.
Le emozioni o i sentimenti influenzano le nostre capacità raziocinanti e meno male che sia così! Quella intelligenza (semmai ci fosse) che non si fa condizionare dai sentimenti sarebbe una intelligenza fredda, incapace di comunicare con altri, astratta, incapace di comprendere il dolore, l’altruismo, la solidarietà, l’amore: l’algoritmo appunto.
Diceva Marcello Cini: «Il soggetto acquista “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa perché non è più soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto organismo integrato di cervello e visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in modo che altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta coinvolti attraverso esperienze emotive» (Cini, 1999). Se fosse vera la dicotomia tra sentimenti e ragione, sarebbe una dicotomia allucinante che genererebbe mostri. Siamo invece un «impasto» evolutivo complesso tra capacità raziocinante e sentimenti, meschini o nobili che siano.
Queste semplici considerazioni mi sono venute leggendo l’articolo di Roberto Ciccarelli, Anche la-macchina-che-si-guida-sola di Uber uccide (il manifesto del 19 marzo) che descrive l’uccisione di un pedone che stava attraversando la strada da parte di un veicolo autoguidato, a Tempe, periferia di Phoenix. Ancora sopravvive il mito che una mente infallibile basata su un algoritmo sia più sicura di un’auto guidata da un umano, perché – dicono le ditte produttrici di tali veicoli – una distrazione umana può causare un incidente mortale.
Questo fallace mito è mantenuto in vita dalle grandi Corporation per battere la concorrenza degli avversari e mantenere alti i profitti. In quello che è il suo ultimo libro (Il supermarket di Prometeo, la scienza nell’era dell’economia della conoscenza, Codice edizioni, 2006), Marcello Cini si occupava di questo tema a lui caro, affermando che: «Il XXI secolo si sta sempre più caratterizzando come l’epoca in cui, grazie agli strumenti forniti dalla scienza e dalla tecnologia, la produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una presunta democratizzazione del sapere che però risponde ed è soggetta unicamente alle leggi di mercato imposte da un’economia capitalistica e sempre più invasiva. Ma c’è una contraddizione profonda fra la produzione di conoscenza frutto al tempo stesso di una creatività e del patrimonio culturale comune all’umanità intera attraverso un processo evolutivo non finalistico, e la crescita dell’economia che è finalizzata alla produzione di profitto».
la Stampa,
«Oggi manifestazioni di massa in tutto il Paese, Trump nel mirino. "Questo movimento sarà come il pacifismo mezzo secolo fa"»
Se la marcia fosse stata convocata, con la macchina del tempo, 50 anni fa, nel mitologico 1968, l’appuntamento sarebbe stato certo al West End, il bar di fronte alla Columbia University, dove la generazione beat di Allen Ginsberg intagliava versi sui tavoli di legno, e le speranze degli attivisti per i diritti civili e la pace in Vietnam si affilavano con una birra Budweiser.
Almeno finché Mark Rudd, lo studente di Columbia militante negli Students for a Democratic Society, Sds, che avevano approvato nel 1962 il Manifesto di Port Huron, redatto dal futuro marito di Jane Fonda Tom Hayden - giustizia e democrazia per il XX secolo - non lasciò il bar, per andare a cena pochi isolati a sud di Broadway, al Red Building.
Alla testa del corteo di New York, la giornata di contestazione è nazionale con un grande comizio a Washington, marcerà Alex Clavering, che nel 2020 si laureerà in legge alla Columbia. Alla radio del campus racconta «Quando ho sentito della sparatoria a Parkland, in Florida, ho pensato ai miei ragazzi, ho fatto l’insegnante in Malesia come borsista Fulbright. E se fossero caduti loro?». Alex non è andato al bar West End a ciclostilare come ai tempi delle «migliori menti della mia generazione» cantate da Allen Ginsberg nel poema «Urlo», e del resto il quartiere è mutato, tra sushi bar e palestre di Tai Chi, West End non esiste più, come Luncheonette, il bar edicola dove si faceva politica e il padrone serviva le uova al tegamino, scoprendo sull’avambraccio il numero tatuato ad Auschwitz. Ha preferito aprire una pagina Facebook con 30 amici, invitandoli all’impegno.
Quando Alex Clavering, con gli amici Julia Ghahramani, laureanda nel ’20, e Ankit Jain, avvocato l’anno prossimo, si fanno fotografare con la tradizionale felpa Columbia, felici sulla scalinata dell’Alma Mater, la statua di bronzo che dà le spalle alla vecchia libreria, hanno raccolto l’adesione di 25.000 newyorkesi, «saremo in strada con voi contro le armi», e la firma solidale di altri 75.000. Le radio locali ne hanno fatto degli eroi, con gli ospiti a ridere quando Alex, 26 anni, ammette candido: «Per capirci, io sono di gran lunga il più vecchio tra gli organizzatori». Per pagare le spese, assicurazioni comprese - sì, nelle proteste del XXI secolo occorre mettersi al riparo, se si rompe un vetro o ci si sbuccia un ginocchio, chi paga? - servono 100.000 euro e i ragazzi sono tornati online con un GoFundMe, sottoscrizione digitale, 22.000 già in cassa dopo una settimana, gli altri potrebbero essere coperti dal fondo dell’ex sindaco tecnocratico della metropoli, Michael Bloomberg, via la sua associazione Everytown for gun safety.
I cartelli in preparazione non denunceranno solo le troppe armi, in mano a chiunque, killer o squilibrati, con le stragi di odio o follia che innescano. Le femministe sfileranno contro la violenza in famiglia e gli stupri, le minoranze, sottobraccio ai compagni bianchi, ricorderanno la violenza che le armi infliggono alle comunità locali, i gay marceranno con le loro bandiere.
Alex, Julia e Ankit, futuri giuristi, sanno che l’America è divisa a metà, e che le 24 ore in cui il presidente Trump ha imposto tariffe a Pechino dichiarando guerra commerciale alla Cina, mentre le Borse cedevano e veniva cacciato il consigliere per la sicurezza nazionale, il moderato generale McMaster, sono state definite dall’esperto Ian Bremmer «il giorno peggiore in politica estera del XXI secolo». E le massime del nuovo consigliere per la sicurezza, il falco John Bolton, «Le Nazioni Unite? Mai capito a che cosa servano…», «Attaccare la Corea del Nord è ammesso dal diritto internazionale…» fanno il giro del web, spaventando.
Nel 2011 New York si riempì con i picchetti di Occupy Wall Street. Impressionato, l’ex presidente Bill Clinton commise un errore grave, definendo i pochi militanti senza programma o leader «l’evento maggiore degli ultimi tempi». Occupy svaporò in fretta, e un lustro dopo il Paese elesse Trump. Ora è alla prova un nuovo movimento: durerà oltre il 24, saprà diventare forza politica? Eleonore, 22 anni, bionda, studentessa di Kierkegaard, non ha dubbi: «È l’effetto magico di Trump. Un ragazzino della seconda media, per protestare contro le armi, rifiuta di farsi un selfie con lo speaker della Camera Ryan. Io alla sua età a stento sapevo cosa fosse la Camera! Guarda la mappa elettorale americana degli under 30, vedrai solo blu, il colore dei democratici. Perfino negli Stati da sempre repubblicani, vinciamo noi. Il movimento contro le armi sarà come il pacifismo o i diritti civili mezzo secolo fa, unificando una generazione. Come i nostri padri e nonni cambiarono allora l’America, così oggi la cambieremo noi. Il presidente non lo sa ancora, ma saremo noi, in piazza e nelle urne 2018 e 2020, a batterlo. Voi adulti sarete i primi a stupirvi, l’ho spiegato anche a mamma e papà».
il Fatto Quotidiano
«1933-2017 A Torino si ricorda il grande giurista: per lui la Carta non era una dichiarazione di principi, ma un’agenda da applicare»
Stefano Rodotà era così popolare perché sapeva parlare con una palpabile, contagiosa passione civile. Fra tanti, un esempio. Commentando l’art. 3 della Costituzione, egli poneva a contrasto il primo e il secondo comma, ravvisandovi due componenti concettualmente e storicamente distinte. Nel primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), riconosceva la costruzione di una soggettività astratta, che assevera ma non garantisce l’uguaglianza fra i cittadini.
Nel secondo comma (dove si assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) egli rintracciava, attraverso la nozione di persona, l’irruzione sulla scena di una prepotente corporeità, coi suoi desideri e i suoi bisogni, che trascina con sé una forte tensione verso l’uguaglianza, che la Costituzione indica come imprescindibile obiettivo dell’azione pubblica. Insomma, il primo comma dell’art. 3 configura una sorta di uguaglianza formale dei cittadini, mentre il secondo comma prende atto della loro diseguaglianza materiale e prescrive di rimuoverne le cause, ostacoli a una vera uguaglianza.
Perché questa linea interpretativa non apparisse troppo teorica a un pubblico digiuno di diritto, Rodotà adottava un’argomentazione narrativa, proiettando l’art. 3 all’indietro, su un dato di immediata esperienza comune, l’estensione del diritto di voto. Riservato all’inizio a una porzione ristretta della popolazione maschile, sulla base dell’istruzione e del censo, esso raggiunse tutti i cittadini (in particolare le donne) solo nel 1946. Nel 1861 votò il 2 per cento della popolazione italiana, nel 1946 l’89 per cento: un dato statistico che ci tocca da vicino.
La restrizione del diritto di voto creava una “cittadinanza censitaria”, contro lo spirito della democrazia; ma gli “ostacoli di ordine economico e sociale” venivano da lui additati come strumenti di una risorgenza della “cittadinanza censitaria”, possibile anche oggi date le crescenti ineguaglianze, le nuove povertà, le discriminazioni sociali mascherate da intolleranza religiosa o razziale. Per converso la rimozione di tali ostacoli concorre a caratterizzare la cittadinanza secondo i principi dell’art. 3, inclusa l’ “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Con trascinante convinzione e lucida onestà Rodotà ci spingeva a leggere nella Costituzione non un compromesso fra forze politiche, non il disegno di un futuro utopico, non una dichiarazione di principi senza immediata precettività. Ma come un’agenda di cose da fare, che tali in gran parte restano ancora oggi. Perciò egli contrastò duramente ogni interpretazione riduttiva del diritto al lavoro che, secondo l’art. 4 della Costituzione, la Repubblica “riconosce a tutti i cittadini”. Infatti, se l’art. 1 definisce l’Italia come “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ogni menzione del lavoro nella Costituzione deve intendersi come costitutiva della democrazia e della cittadinanza, anzi della Repubblica. Lettura indubitabile, ma di cui i nostri governanti paiono essere inconsapevoli.
Evocando la propria giovinezza in una bella intervista di Antonio Gnoli, Rodotà racconta di aver studiato Giurisprudenza perché “attratto da quell’imponente e complicato edificio che è il diritto. (…) Senza la forza il diritto è inerme. Senza giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla società”. Perciò egli parlò sempre da giurista, ma anche da cittadino fra cittadini. Egli guardava sempre, come un generale dall’alto di una collina, la forma cangiante della società e il mutevole atteggiarsi del diritto. Sapeva che né l’una né l’altro possono essere ibernati in configurazioni immutabili. Pensava al diritto come il prodotto di momenti storici, economici, sociali, ma anche come una forza concettuale che plasma la società recependone tendenze, codificandone istituti, indirizzandone sviluppi. E pensava alla società come il prodotto di un perpetuo dialogo o conflitto fra il tessuto delle norme e l’esercito dei bisogni, dei desideri, delle aspirazioni, che devono esser calate entro le maglie del diritto, per poi fatalmente ribollire di nuovo. Fu in questo incrocio fra società e diritto che Rodotà vide la missione storica della Costituzione, evidenziandone la progettualità lungimirante, e per converso la sciagura dei molteplici tradimenti e dei ricorrenti oblii a cui va soggetto il testo della Carta, che pure ancor oggi si presterebbe a fungere da manifesto per il destino delle generazioni future.
In questa perpetua giovinezza della Costituzione si rispecchiava la perpetua giovinezza di Stefano Rodotà: nel limpido sguardo che egli si volgeva intorno quando, non senza un commovente imbarazzo, si vedeva candidato alla Presidenza della Repubblica, o quando combatteva con energia per il No al referendum. In quello sguardo c’era il desiderio di capire a fondo come la forma della società e l’evoluzione del diritto potessero, messi a dialogo sulla base della Carta fondamentale, costruire per le generazioni future un’Italia con un più alto senso della cittadinanza, dell’uguaglianza, della democrazia.
il manifesto
Il Fatto Quotidian
Spieghiamo qui le ragioni per cui promuoviamo la creazione di un Governo Costituzionale di Salute Pubblica che dia al Paese agibilità democratica, dopo oltre sei anni di sospensione della democrazia. È un governo fondato sulle condizioni materiali che hanno determinato l’esito del voto e che inverte la prospettiva: le priorità politiche emerse dal voto definiscono la coalizione, e non viceversa.
Naturalmente, spetta al presidente della Repubblica indicarne la guida alla forza politica organizzata che rappresenta un terzo dell’elettorato del Paese, e conferirle l’incarico attuativo della volontà popolare. Infatti il Governo Costituzionale di Salute Pubblica non è uno strappo costituzionale, ma anzi ricompone il patto costitutivo della Repubblica, lacerato dalla reazione antidemocratica di Napolitano al referendum sui beni comuni del 2011, che indebolì Berlusconi, per cui fu rimosso e sostituito con tecnocrati, da Monti a Gentiloni.
Questa applicazione italiana del neoliberismo viene sconfitta ora una terza volta, dopo la sua seconda débâcle nel referendum costituzionale del 4 dicembre. Il nemico è chiaro e altrettanto lo sono le emergenze di salute pubblica che il Governo Costituzionale affronterà. La forza politica che per tre volte ha sconfitto il neoliberismo è quella del popolo contro l’élite.
I parlamentari che si schiereranno col popolo sovrano nel suo scontro mortale con il neoliberismo (si muore sul lavoro, per diseguaglianza, per indigenza) potranno contribuire a indicare le personalità più coerenti con l’implementazione del programma di Salute Pubblica. L’apparato di riferimento è nell’ Art. 1 (lavoro, democrazia e sovranità popolare) e nell’ Art. 3 della Costituzione: “È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione... politica economica e sociale...”. Il Governo Costituzionale, e perciò antifascista, serve a chiudere la parentesi neoliberale e togliere le tracce dell’opera rifiutata a larga maggioranza dal popolo nei due referendum del 2011 e 2016 e infine in questo voto, con un’azione di legislatura nei seguenti ambiti
Le risorse per questo programma vengono dalla piena attuazione del principio di progressività fiscale, dalla lotta contro rendita, sprechi, privilegio e corruzione, dalla tassazione giusta ed efficace di colossi internazionali come Google, Facebook e Amazon, che oggi dominano vita politica ed economica e sostanzialmente non pagano tasse. Sarà prioritario denunciare, in un’Italia che è in avanzo primario dal 92, un debito pubblico che continua a crescere, e riconoscere e denunciare le sue componenti più odiose.
M5S è nato come critica radicale del neoliberismo, critica mutuata dai movimenti sociali e strutturata ai fini della rappresentanza politica: ambientalismo, decrescita, beni comuni, problemi della trasformazione tecnologica e della partecipazione diretta, lotta al privilegio.
Fin dal 2011 questo è ciò che la maggioranza del popolo vuole. La prima forza politica del paese deve intraprendere il cammino di salute pubblica. La maggioranza del popolo italiano rifiuta il neoliberismo e sosterrà i parlamentari che si impegneranno per superarlo, indipendentemente dal colore politico. Noi, intellettuali critici, vogliamo e dobbiamo contribuire alla mobilitazione popolare per emanciparsi dal neoliberismo.
Potere al popolo, 5 marzo 2018un'analisi del voto del 4 marzo. Qualche parola per ciascuna delle liste che si sono presentate. Molti puntini sulle i e, per finire, qualche speranza se la novità positiva di queste elezioni Sto arrivando! durare, e moltiplicarsi
Il Pd, Liberi e Uguali.
D'Alema era certo di intercettare i voti in uscita dal Partito Democratico con Piero Grasso: “Puntiamo alla doppia cifra”. Il Pd è sceso al minimo storico, sotto al 20, ha gli stessi voti della Lega ma Leu ha rischiato di non entrare in Parlamento. Cosa non ha funzionato?
Bersani, Grasso, D’Alema, Speranza, Epifani non hanno intercettato i voti in uscita dal Pd perché, mentre quei voti uscivano, loro sono rimasti nel Pd a votare il Jobs Act, lo sblocca-Italia, il salva-banche e ogni altro provvedimento di stampo liberista, in linea con quelli approvati in precedenza.
Il voto segna il prevedibile tracollo del Pd e dei suoi fuoriusciti che hanno per anni condiviso le stesse politiche liberiste, cominciate ben prima dell’arrivo di Renzi: la precarizzazione del mercato del lavoro che Bersani e D’Alema rivendicano, le esternalizzazioni e le privatizzazioni che Bersani rivendica (“Io non sono mica Corbyn!! Io ho fatto le privatizzazioni!”), le guerre e le spese militari che D’Alema rivendica, l’aumento dell’età pensionabile, la Legge Fornero che ha svutato – prima che Renzi lo cancellasse definitivamente .- l’articolo 18, dando la possibilità alle imprese di licenziare ingiustamente i lavoratori in cambio di un indennizzo economico e che ha legalizzato lo sfruttamento delle false partite iva e dei giovani avvocati, architetti, giornalisti e tutti gli altri iscritti a un ordine professionale.
Non abbiamo assistito “alla frammentazione della sinistra”, come la definisce Cuperlo bensì alla frammentazione del Pd che unito, e con Bersani segretario, ha votato insieme a Berlusconi a favore del pareggio di bilancio in Costituzione e dei provvedimenti sopra citati e che per questo non viene più percepito “di sinistra” dagli elettori di sinistra.
Una minoranza della minoranza Pd è uscita dal partito solo quando ha compreso che Renzi non lo si poteva battere dall’interno e che per batterlo occorreva fare quello che Mdp ha fatto: un partito che indebolisse Renzi nel risultato elettorale per poi costringerlo alle dimissioni, e tornare in gioco ricostruendo il centrosnistra e il Pd. D’Alema, Bersani, Epifani hanno capito che l’unico modo per non essere trombati in fase di composizione delle liste – come è successo invece ai pochi “di sinistra” rimasti nel Pd a illudersi di poter fare la bataglia interna: Cuperlo, Manconi o Lo Giudice – era dare vita a un’altra lista dove avrebbero potuto decide loro e non Renzi le candidature.
Lo hanno fatto con grande trasparenza, senza mai nascondere che questo fosse il loro legittimo obiettivo, restando fino all’ultimo a sostenere la maggioranza di Gentiloni che andava benissimo perché rappresentava il Pd ma non era Renzi, in tempo utile per votare la fiducia sul decreto Minniti e le manovre che aumentavano i ticket sanitari e le spese militari più di quanto le avesse aumentate Renzi. Lo hanno fatto con grande trasparenza, scegliendo come leader Piero Grasso che fino al giorno prima era infatti nel Pd. Trasparenti al punto che le parole con le quali oggi Speranza chiude la conferenza stampa di Leu sono: “Ora bisogna costruire un centrosinistra più largo possibile”. È una scelta che non ho condiviso – ma mi sarei stupita a condividere le scelte di D’Alema – e che però, da un punto di vista tattico, ho compreso.
Non ho invece condiviso e nemmeno compreso la scelta di Sinistra Italiana, che era fuori dal Parlamento con Monti ma ne criticava l’indirizzo e poi cinque anni è stata coerentemente all’opposizione del Pd, esprimendosi contro tutti i provvedimenti che Renzi, Bersani, Epifani e prima D’Alema andavano votando. Non ho compreso la loro scelta di entrare in questa minoranza della minoranza del Pd chiaramente intenzionata a rifare il centrosinistra e riprendersi il Pd dopo che Sinistra Italiana aveva votato la linea esattamente opposta al suo congresso fondativo: “il centrosinistra è morto e noi siamo il quarto polo alternativo al Pd”.
Nemmeno ho compreso e condiviso la medesima scelta da parte di Possibile, i cui esponenti, a differenza di Bersani e D’Alema non erano compromessi con l’esperienza del Governo Monti e che in parlamento in questi anni hanno tentato di contrastare la deriva liberista presentando con Sinistra Iitaliana alcune ottime proposte di legge. Penso che le donne e gli uomini di sinistra di Sinistra Italiana e Possibile avrebbero avuto maggiori possibilità di entrare in parlamento se avessero preservato il percorso del Brancaccio. Ha prevalso una valutazione diversa, che condurrà molti che avrebbero fatto un buon lavoro in Parlamento a restarne fuori, e questo mi addolora.
I 5 Stelle
A queste elezioni non si registra il trionfo del centrodestra o dei 5 Stelle, piuttosto quello dell’antisistema: di quello che viene percepito dagli elettori come tale anche se poi, quando ha l’opportunità di governare, fa politiche in perfetta continuità con quelle del sistema liberista che ha scalzato e che dice di voler combattere.
Un terzo degli elettori che si definiscono “di sinistra”, di quelli che se ci fosse stata una sinistra forte e autentica come quella di Corbyn, Sanders, Melenchon l’avrebbero votata – hanno ripiegato sul Movimento 5 Stelle perché era l’unico con un rapporto di forza tale da consentire di far fuori il vecchio: Berlusconi, D’Alema, Renzi, Bersani, Casini. Molti elettori di sinistra hanno votato il Movimento 5 Stelle turandosi il naso, alcuni confortati dal fatto che tra gli esperti cooptati dai 5 Stelle per scrivere il programma ci fossero persone dichiaratamente di sinistra (De Masi, Aldo Gianuli, che ha votato Potere al popolo, Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al popolo…).
Così avevo fatto anche io al ballottaggio a Roma, per le amministrative.
Ho votato 5 Stelle al ballottaggio a Roma perché avevano indicato Paolo Berdini come assessore all’urbanistica e ho immensa stima di lui. Berdini è stato fatto fuori per essersi opposto allo Stadio della Roma, lo Stadio si farà regalando ai palazzinari più di quanto avrebbero ottenuto da Alemanno e con i miei occhi e quelli di mio figlio ho visto sgomberare con gli idranti le famiglie dei richiedenti asilo, le donne e i bambini dalle loro case. Per questo e prima ancora che Di Maio definisse “Taxi del mare” le Ong, prima ancora che il Movimento 5 Stelle scegliesse di non partecipare alla manifestazione antifascista di Macerata e di inabissarsi dopo l’attentato fascista di Traini ho deciso che non avrei mai più votato 5 Stelle e come me – prima di me – tanti elettori.
Il boom dei 5 Stelle ha stupito il Pd e i suoi fuoriusciti che che lo hanno definito “un voto di destra”. Vi stupite se votano per un partito che non mette una riga sui contratti nel programma-lavoro (più o meno come avete fatto voi quando avete cancellato l’articolo 18)? Che definisce le Ong i taxi del mare (più o meno come avete fatto voi con il codice Minniti conrto le Ong)? Che promette la democrazia diretta ma se vince un candidato che non piace al capo viene sostituito con un altro come un qualunque concorrente di quiz a premi (più o meno come avete fatto voi paracadutando le pluricandidature)? Stupefacente è il vostro stupore.
La Lega
I 5 Stelle vincono a sud dove più ci si è impoveriti. A Nord, dove ancora c’è un poco di ricchezza e un poco di lavoro ai quali restre aggrappati, vince la Lega, l’altro partito percepito come “contro il sistema” pure se è alleato del più longevo e potente dei politici del sistema: Silvio Berlusconi.
Un risultato, anche questo, che ha stupito i dirigenti e i parlamentari “di sinistra” che hanno aumentato l’età pensionabile e trovato logico fare una moneta unica senza un’unità politica, che hanno creduto e detto che non c’era alternativa alla flessibilità e alla precarietà, all’aumento dell’età pensionabile, che hanno lasciato che montasse la propaganda delle destre l’hanno inseguita gridando all’emergenza-immigrazione invece di denunciare l’emergenza-emigrazione dovuta all’esodo di chi cerca lavoro all’estero perché quella stessa “sinistra” aveva reso troppo saltuario e mal pagato il lavoro.
Come sopra: vi stupite se gli operai votano per il solo che avete lasciato libero di promettere che avrebbe cancellato la riforma Fornero? Il solo che avete invitato sulle vostre tv a gridare che basta austerity delle oligarchiee europee, pure se è alleato di Berlusconi che ha votato a favore della Fornero e di tutti i provvedimenti di austerity del governo Monti imposti dalle olgarchie europee? Ma è colpa vostra! Vostra che quei provvedimenti li avete votati, insieme a Berlusconi. Chi vota Lega non vuole sparare ai neri anche se tace – esattamente come durante il Fascismo – tace e spesso acconsente quando qualcuno lo fa: rivuole il lavoro, il potere d’acquisto che il suo salario aveva quando c’era la lira, e siccome gli avete tolto gli strumenti per capire come sono andate le cose, siccome sui luoghi di lavoro li avete massacrati, non si fidano di quel che dice il sindacato; siccome in tv gli avete fatto vedere i cuochi e Cacciari e Barbara D’Urso e i telefilm sui carabinieri e Belpietro che dà la colpa della miseria agli immigrati a quello credono: quello sentono, quello sanno. Stupefacente è il vostro stupore.
Forza Italia.
Berlusconi tiene. Nonostante le condanne, l’incandidabilità, il bunga-bunga, le frodi fiscali, le cene eleganti, nonostante abbia votato come Bersani e D’Alema a favore dell’aumento dell’età pensionabile, della precarizzazione del lavoro, della libertà di licenziare, del pareggio di Bilancio in Costituzione. Tiene perché gli avete lasciato tre reti televisivi dalle quali raccontare a tutte le ore che aumenterà le pensioni minime a mille euro, taglierà le tasse e l’Iva sul cibo per cani, camminerà sull’acqua e il resto è colpa dei negri e ci pensa Salvini. È colpa vostra pure questa, pure per questo quelli di sinistra non votano più voi ma chi promette una legge contro il conflitto d’interessi.
Casapound
È sotto all’uno per cento ma ha fatto egemonia. Le cose che dice sugli immigrati e il decoro, la repressione e l’ordine le mettono in pratica tutti gli altri grandi partiti. Non serve aggiungere molto al Minniti di Crozza-Robecchi: “Non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti”. Pure il fascismo quello di una volta non stava in piedi grazie alle camice nere ma ai tanti che davano loro ragione.
Più Europa
Più Europa ha perso, nonostante sia stata mostruosamente pompata, nostrante Emma Bonino avesse un patrimonio personale di credibilità per le sue battaglie a favore dei diritti civili che l’aveva portata a prendere il 9 per cento alle europee del 1999. Ha perso non tanto perché ha un programma economico che ricalca l’agenda del governo più impopolare della storia della Repubblica (nessuno li legge i programmi), ha perso perché la sua lista si chiama + Europa e gli italiani vogliono – Europa. O meglio, non è che gliene freghi molto dei confini o dell’Italia, figurarsi dell’Europa o del mondo intero, ma hanno registrato che da quando c’è l’Euro si sono impoveriti e sono giustamente preoccupati per la loro sorte e quella dei loro cari. Gli avete detto che bisognava andare in pensione più tardi e precarizzare il lavoro perché “Ce lo chiede l’Europa”, mica pensavate che la ringraziassero.
Casini
Casini è il vero vincitore di queste elezioni. l’Udc all’uno per cento, il Pd al minimo storico perché ha fatto cose dieci anni fa impensabili tipo candidare Casini a Bologna, lui eletto a Bologna con i voti del Pd. Chapeau.
Potere al popolo
Viola ha parlato per pochi secondi a Cartabianca ospite di Bianca Berlinguer, ha partecipato a un’unica trasmissione su Mediaset e la stragrande maggioranza degli elettori, ancora oggi, si informa attraverso la tv. A differenza di tutte le altre liste che sono note a tutti (non essendoci uno che non sappia che cos’è Casapound, che cos’è il Partito Comunista o l’Udc, chi è Emma Bonino o il ministro Lorenzin, chi sono D’Alema e Bersani e le due più alte cariche dello stato con loro in Liberi e Uguali) il simbolo, il nome, il programma di Potere al popolo è ancora oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza degli elettori.
Anche se all’interno di Potere al popolo ci sono piccole forze organizzate, come Rifondazione o l’Usb, queste hanno rinunciato al loro simbolo, pur sapendo che la rinuncia li avrebbe resi irriconoscibili a tanti elettori non militanti che ancora ieri chiedevano come mai non c’era Rifondazione sulla scheda. Trovare un nuovo nome, un nuovo linguaggio, era però necessario per anadare oltre il recinto degli elettori che si riconoscono nella falce e martello, e una forza politica che ha l’ambizione e di parlare agli sfruttati sa che molti di loro non hanno oggi gli strumenti per decifrare il senso di quel simbolo, per comprendere quel linguaggio. Sa che bisogna cercare e trovare il modo di farsi capire e di conivolgere nella lotta di classe chi sta subendo in silenzio, convinto che subire sia il suo destino. Quattrocentomila persone che hanno votato Potere al popolo sono oltre il 10 per cento di quelli che lo hanno conosciuto, in due mesi di campagna elettorale fatta senza soldi, casa per casa.
Qualcuno mi ha fatto notare che anche il Movimento 5 Stelle era sconosciuto quando è nato. Al contrario! Il Movimento 5 Stelle era il partito di Beppe Grillo e non c’era un italiano che non sapesse chi fosse Beppe Grillo e che dunque non fosse curioso di ascoltare che cosa aveva da dire. I talk di punta trasmettevano in prima serata lunghi spezzoni dei suoi comizi, senza alcun contraddittorio, poiché lui astutamente rifiutava il confronto diretto in studio. Così tutti hanno sentito che Grillo era contro “la casta” e tanto bastava e ancora basta, perché “la casta” è ancora la stessa ed è ancora lì.
Il risultato elettorale di Potere al popolo è deludente ma quello elettorale non è il solo né il principale risultato. Il risultato è aver mobilittato e entusisamato migliaia di persone che non si conoscevano e che ora si sentono legate e continueranno a lottare insieme contro l’austerity, per i diritti e contro i privilegi, per la solidarietà e contro l’inganno della guerra tra poveri che è invece una guerra ai poveri. Insieme e non più soli. Il risultato è stato aver creato questo protagonismo attraverso la mobilitazione dei non Tav, No Triv, No Muos, di chi lotta per la difesa dei posti di lavoro, per la scuola e la sanità pubblica, per le donne, e per i migranti, di chi non si sentiva più rappresentato e non si sarebbe mobilitato e tantomeno entusiasmato così solo per farsi rappresentare. Donne, ragazzi, anziani che non si sono arresi all’idea che non c’è alternativa, all’idea che non valga la pena combattere.