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«La Repubblica, 17 ottobre 2015

IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare.

Non si tratta solo della sua dislocazione strategica, nel cuore della Cisgiordania, in un luogo, Nablus, l’antica Neapolis dei Flavi, intriso di storia, sangue e distruzione dai tempi dei romani, dei bizantini, degli arabi, dei mamelucchi, dei turchi, dei crociati, fino ai recenti e inestinti conflitti che il Novecento ha trasmesso al secondo millennio; né si tratta solo del suo statuto di enclave cultuale multireligiosa, più volte passata di mano nel pendolo della diplomazia internazionale tra la guerra dei sei giorni, la Seconda Intifada e il Defensive Shield del 2002. Si tratta anche, e soprattutto, della sua collocazione in un’altra geografia: quella storica e psicologica dei simboli.
La storia, anzi le storie di Giuseppe, occupano un posto particolare nella Bibbia. L’ultima declinazione del mito di Giuseppe è nella tetralogia di Thomas Mann, dove viene usato per raccontare in trasparenza la Germania dell’inizio del Novecento, la montata dell’antisemitismo nell’ascesa del partito nazionalsocialista e in generale i grandi temi della storia umana: la violenza fratricida, il fondamentalismo religioso, il rapporto tra giustizia e potere, la possibilità di riscatto di chi ne è privato e fatto schiavo, la fondamentale inguaribilità della politica. Come dice Abramo a Dio in Giuseppe e i suoi fratelli: «Se vuoi il mondo, non puoi pretendere la giustizia; ma se la cosa che ti preme di più è la giustizia, allora per il mondo è finita».

La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury.

La tradizione di un sepolcro di Giuseppe, se pure non supportata dal Corano, fu suffragata dai lungimiranti viaggiatori islamici del XIV secolo, anzitutto Ibn Battuta, e poi da tutta la schiera dei viaggiatori moderni che descrivono l’ancora virtuale weli del patriarca come luogo di culto misto per ebrei e cristiani, maomettani e samaritani. Fu ancora molto dopo, alla fine dell’Ottocento, nell’ultimo fiorire degli entusiasmi coloniali, che una vera e propria struttura architettonica, ancora ibrida, ancora equivoca, ma effettivamente esistente e visibile, si manifestò, ad incontrare peraltro gli albori della fotografia. Della tomba di Giuseppe furono così i viaggiatori a creare la realtà, in una storia stratificata e multireligiosa di testimonianze e credenze che non poté mai scindersi dalla storia della politica e dei suoi conflitti.
Se i Luoghi Santi sono il riflesso dell’immaginario collettivo da un lato e il prodotto degli scontri fra religioni dall’altro, se sono il punto di intersezione tra questi due inscindibili piani dell’esperienza umana, l’incendio che la storia recente ha prodotto nell’attuale scenario mediorientale non ha cessato di coinvolgere questi ed altri monumenti “sacri”, in una dinamica che gli antropologi definirebbero, appunto, sacrificale. Dagli idoli di Ninive al tempio di Bel a Palmira, a riaccendere la scintilla è la potenza primaria dei simboli. La figura di Giuseppe è simbolo dell’ineluttabilità della violenza tra fratelli, della contrapposizione etnica, dell’intolleranza, ma anche del loro fallimento, nel trasformarsi dello schiavo in padrone grazie al prestigio dell’irrazionale, al potere profetico della chiaroveggenza, al governo dei meccanismi della psiche: i sogni dei compagni di prigionia, poi del faraone. La sua tomba, vuota come non può non essere quella di un mito, condensa nella stessa esistenza materiale una storia perenne.
L’azione degli insorti che l’hanno incendiata sposta la nostra attenzione dalla geografia reale e dalle sue sofferte, contrastate frontiere a una faglia più profonda, una linea non orizzontale ma verticale: quella del passato e delle sue cicatrici. Dopo le ebollizioni postcoloniali, il grande sisma al quale assistiamo, che ha per epicentro la Palestina e come scenario il Medio Oriente, è anche una guerra di simboli, e per questo colpisce anche i monumenti. Come dimostrato dal blitz turco al mausoleo di Suleyman Shah, altra tomba simbolo di un’antica identità, la riscossa islamica ha come vero bottino il passato. Solo rievocandolo possiamo comprendere i suoi atti distruttivi di appropriazione simbolica della tradizione e di eversione dell’ormai superato ordine occidentale.
«Questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti».

Huffingtonpost.it, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

Tempo fa abbiamo visto le immagini, a Film Luce, di Marchionne e Renzi in visita allo stabilimento Fiat di Melfi. Abbiamo sentito resoconti roboanti del successo dei due leader tra i dipendenti dell'azienda, desiderosi solo di farsi un selfie con loro. In realtà il personale attorno ai due era accuratamente selezionato, ma forse non abbastanza visto che sulla rete ha spopolato un video, ove si vedeva una lavoratrice ostentatamente rifiutare la stretta di mano al presidente del consiglio. In quelle immagini di regime abbiamo visto lo sfolgorio delle tute bianche dei lavoratori, presentate come simbolo della tecnologia avanzata nella costruzione delle automobili. In realtà le condizioni di lavoro a Melfi sono durissime, la fatica e lo stress son quelle dei tempi di Charlot, ma le tute bianche fanno sembrare i lavoratori come se operassero nella Silicon Valley.

Il bianco però comporta un problema, si sporca facilmente e per le donne della Fiat questo è diventato un doppio assillo. Sì perché i pantaloni bianchi son ancora più difficili da portare quando la diversità biologica delle donne reclama i suoi diritti. Alla catena di montaggio non ci sono pause in più, non ci sono lavori più facili, non ci si può neppure sedere. Verso la diversità delle donne non c'è alcun rispetto, anzi alcune operaie hanno denunciato di dover lavorare appiccicate ad addetti maschi, perché il taglio dei tempi ha comportato anche quello degli spazi.

Non potendo avere il sacrosanto riconoscimento dei propri tempi biologici, come forma di tutela elementare della propria dignità le lavoratrici hanno chiesto almeno di poter indossare pantaloni scuri sotto i giubbotti bianchi. Apriti cielo, la burocrazia aziendale è andata in tilt. Come? Assumersi la responsabilità di cambiare il colore alle tute, renderle bicolori addirittura? Ma scherziamo, sarebbe un messaggio allusivo al disordine, sovversivo persino. Il gran capo di Detroit non lo accetterebbe mai, avranno pensato nel terrore i capetti di Melfi e quindi hanno respinto la richiesta.

Ma quelle operaie sono abituate a non arrendersi tanto facilmente e così hanno lanciato una campagna pubblica per la loro dignità nel vestire. 500 di esse, tutte quelle non assunte con contratti a termine, hanno sottoscritto una petizione che chiedeva i pantaloni scuri. A questo punto la direzione aziendale non poteva più ignorare la richiesta, ma, come avviene in tutti i regimi stupidamente autoritari, la risposta ha peggiorato la situazione.

I manager della Fiat hanno subito convocato gli amici di Fim, Uilm, Fismic, Ugl, i sindacati firmatari di tutto e che tutto son sempre disposti a firmare. In una riunione composta di soli maschi si è deciso di respingere ancora una volta la richiesta di pantaloni scuri, ma di offrire alle operaie un super pannolone da indossare sotto il bianco. Con goffo francesismo azienda e sindacati complici hanno annunciato che le operaie avrebbero avuto delle coulottes benignamente pagate dalla Fiat.

Naturalmente le lavoratrici si son giustamente ancora più arrabbiate e la vicenda è ancora aperta. A chi esalta la flessibilità della lavoro, la competitività, la produttività come basi della modernità, questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti. Matteo Renzi ha recentemente affermato che a Sergio Marchionne dovrebbe essere fatto un monumento. Sarebbe più realistico se in esso il capo della Fiat fosse raffigurato mentre indossa un pannolone.

«Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere».

Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

C’è vita se c’è capa­cità uto­pica, dove per uto­pia s’intende anche l’immaginazione di “luo­ghi di vita” buoni, desi­de­rati, da rea­liz­zare. La sini­stra - l’insieme delle forze sociali orga­niz­zate anche piano poli­tico al ser­vi­zio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha pur­troppo spe­ri­men­tato a sue spese la per­dita di imma­gi­na­zione e capa­cità utopica.

I gruppi domi­nanti sono riu­sciti, a par­tire dagli anni ’70, ad imporre nuo­va­mente la loro nar­ra­zione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni prin­ci­pali. Da un lato, ritor­nati al potere all’epoca di Rea­gan e That­cher, hanno ope­rato una mas­sic­cia de-costruzione ideo­lo­gica e sociale dello Stato del wel­fare. Dall’altro, non avendo svi­lup­pato una visione poli­tica auto­noma della scienza e della tec­no­lo­gia, la sini­stra non ha potuto gio­care alcun ruolo inno­va­tore influente sulle stra­te­gie di con­trollo ed uso delle nuove tec­no­lo­gie del vivente, cogni­tive, dell’informazione e della comu­ni­ca­zione, ener­ge­ti­che e delle tec­no­lo­gie dei mate­riali, sulla base delle quali l’economia mon­diale e le società “svi­lup­pate” sono state pro­fon­da­mente ristrutturate.

Le nuove nar­ra­zioni “posi­tive” del mondo e delle tra­sfor­ma­zioni sociali sono cosi diven­tate mono­po­lio dei gruppi domi­nanti. Le sini­stre sono state rele­gate al ruolo secon­da­rio di “forze di rea­zione”. I domi­nanti hanno invece raf­for­zato il loro potere in quanto fis­sa­tori dell’agenda poli­tica pla­ne­ta­ria: al cen­tro del dibat­tito filo­so­fico, poli­tico e cul­tu­rale c’ è stata solo la loro uto­pia (misti­fi­ca­trice) della glo­ba­liz­za­zione eco­no­mica, da loro data come crea­zione ine­vi­ta­bile e irre­si­sti­bile (senza alter­na­tive) dei luo­ghi di vita dell’umanità.

Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risve­glio uto­pico a sini­stra. Mi rife­ri­sco alla tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie inter­na­zio­nali, al prin­ci­pio di soste­ni­bi­lità in alter­na­tiva all’imperativo della cre­scita eco­no­mica infi­nita, al suc­cesso con­tro l’Ami ed l’Omc (Seat­tle), al bilan­cio par­te­ci­pa­tivo, al buem vivir, al lan­cio del Forum sociale mon­diale. Pur­troppo, si è trat­tato di un feno­meno di corta durata. L’incapacità delle sini­stre d’integrare e fede­rare le loro forze in azioni e pro­grammi comuni mon­diali dure­voli, ha per­messo ai gruppi domi­nanti, di scon­fig­gerle ai vari livelli nazio­nali in nome della nuova moder­nità legata alla “glo­ba­liz­za­zione delle rivo­lu­zioni scien­ti­fi­che e tec­no­lo­gi­che” e della lotta con­tro il pre­teso nuovo nemico mon­diale, il ter­ro­ri­smo. Se a ciò si aggiun­gono le ripe­tute crisi eco­no­mi­che e finan­zia­rie che da più di 25 anni hanno deva­stato i tes­suti sociali e le comu­nità locali, nazio­nali, con­ti­nen­tali e mon­diali, si capi­sce il per­ché mai come oggi la potenza, vio­lenta del sistema domi­nante è stata cosi grande a livello mon­diale (il pia­neta) e glo­bale (in tutti i campi).

Ora­mai, una larga parte delle sini­stre del “Nord del mondo” ritiene che la sola pos­si­bi­lità rea­li­sta di dare spa­zio ad una forza poli­tica di sini­stra capace di con­qui­stare il potere di gover­nare è di inno­vare a par­tire da e restando all’interno del sistema. De facto, la capa­cità uto­pica della sini­stra si esprime oggi essen­zial­mente attorno e sulle stesse aree su cui lavo­rano le inno­va­zioni dei gruppi rifor­mi­sti delle forze domi­nanti, cen­trate sull’emergenza e lo svi­luppo del “‘nuovo” impren­di­tore sociale, chia­mato “impren­di­tore col­let­tivo”, per dif­fe­ren­ziarlo dall’imprenditore indi­vi­duale del capi­ta­li­smo tra­di­zio­nale. Penso al vasto e pro­li­fico insieme di inno­va­zioni ope­rate all’insegna dell’economia del bene comune, di comu­nione, dell’economia cir­co­lare, della tran­sfor­ma­tive society, della tran­si­tion society, dell’economia blu, dell'eco­no­mia col­la­bo­ra­tiva, della sha­ring eco­nomy, dell’economia sociale e soli­dale, della nuova finanza.

La ragione di essere di que­ste incu­ba­trici uto­pi­che è la ricerca delle nuove forme di pro­du­zione e di accu­mu­la­zione di ric­chezza all’era delle tec­no­lo­gie di reti, fluide, ad ele­vata den­sità e varietà di dati in rapida cumu­la­zione, ad altis­sima capa­cità tra­sfor­ma­trice, irri­du­ci­bili, omni-operative.

Due gli inse­gna­menti gene­rali per le sini­stre del mondo, ed in par­ti­co­lare per la sini­stra in Europa. Primo. Non v’è capa­cità uto­pica da soli­tari. La grande forza uto­pica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione euro­pea del debito) è stata dura­mente cal­pe­stata per­ché nes­sun altro governo e popolo euro­peo se n’è fatto alleato espli­cito e con­vinto. Ri-costruire una capa­cità uto­pica forte e solida della sini­stra è un’opera di lungo periodo che deve avve­nire su basi euro­pee e mon­diali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).

Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. La lotta con­tro il diritto di pro­prietà intel­let­tuale sul vivente deve essere con­ti­nen­tale e mon­diale. Lo stesso vale della lotta, da rin­no­vare, con­tro gli arma­menti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fat­tori strut­tu­rali gene­ra­tori dei pro­cessi d’impoverimento per natura trans­na­zio­nali e mon­diali. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere. Secondo. Non v’è ricon­qui­sta della capa­cità uto­pica senza un forte radi­ca­mento “locale” delle inno­va­zioni gra­zie alla pro­mo­zione di “comu­nità di vita” glo­cali, cioè senza la tra­du­zione con­creta a livello delle comu­nità locali dei prin­cipi e delle stra­te­gie mon­diali. Que­sto signi­fica l’esistenza di forze sociali por­ta­trici di inte­ressi col­let­tivi mon­diali ma local­mente diver­si­fi­cati e plu­rali. In pas­sato, i con­ta­dini, gli ope­rai, la pic­cola e media bor­ghe­sia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glo­cale per defi­ni­zione, di espri­mere la capa­cità uto­pica del mondo. Il futuro della sini­stra è l’umanità, coscienza sociale della glo­ba­lità della vita e della mon­dia­lità della con­di­zione umana (cit­ta­di­nanza uni­ver­sale plurale).

«Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta».

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si pre­sen­tava al mondo con Ladri di bici­clette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.

Se ladro è chi ille­ci­ta­mente si appro­pria di un bene che non gli appar­tiene e sul quale non ha titolo a met­tere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno appro­vando la riforma della Carta fon­da­men­tale. Per­ché non ave­vano legit­ti­ma­zione sostan­ziale a farlo, per la inco­sti­tu­zio­na­lità della legge elet­to­rale. Per­ché non ave­vano mai rice­vuto alcun man­dato dal popolo ita­liano, non essendo mai stata la riforma — que­sta riforma — illu­strata e discussa in un con­te­sto elet­to­rale per l’inserimento in un pro­gramma di governo. Per­ché hanno usato ogni mezzo e for­za­ture di prassi e rego­la­menti per met­tere le mani su un bene comune e pre­zioso, scri­gno di iden­tità e sto­ria del paese. Per­ché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.

Ma il furto non si è certo con­su­mato ieri, con il voto di 179 anime morte per il dise­gno di legge Renzi-Boschi. L’attività cri­mi­nosa viene da lon­tano, dal patto del Naza­reno e dalla pro­po­sta del governo. È con­ti­nuata e aggra­vata, per le ripe­tute minacce di crisi, gli argo­menti incon­si­stenti quando non men­daci, la sor­dità asso­luta per cri­ti­che e dis­sensi, il disprezzo per il con­fronto demo­cra­tico. E quel che stava per acca­dere è stato asso­lu­ta­mente chiaro quando l’esangue mino­ranza Pd ha esa­lato l’ultimo respiro, seguendo il pif­fe­raio magico di Palazzo Chigi. Si è così con­dan­nata alla irri­le­vanza, unico pec­cato mor­tale che la poli­tica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i pro­pri ante­nati, i veri padri fon­da­tori della Repub­blica. Come que­gli eredi inca­paci che dis­si­pano nel vizio e nel gioco il patri­mo­nio di grandi e nobili fami­glie. Un par­tito non più liquido, ma liquidato.

Tutto era già scritto. Ma pro­prio per que­sto non siamo d’accordo con Zagre­bel­sky. Il suo argo­mento è che fir­mare l’articolo pub­bli­cato sul mani­fe­sto da parte di alcuni costi­tu­zio­na­li­sti era inu­tile, non essendo pos­si­bile farsi ascol­tare. Altra cosa sarà quando ci sarà il con­fronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel con­fronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La bat­ta­glia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cer­cato la chiave del con­senso popu­li­stico e dema­go­gico, in una evi­dente pro­spet­tiva elet­to­ra­li­stica. Anche il refe­ren­dum sarà uno scon­tro ple­bi­sci­ta­rio sulla per­sona del lea­der e sull’affidamento fidei­stico alle sue scelte. La cam­pa­gna refe­ren­da­ria è già in corso anche se il pro­ce­di­mento ex art. 138 della Costi­tu­zione è ancora lon­tano dal con­clu­dersi. Si intrec­cia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre bal­le­rine sui posti di lavoro, l’ossessiva pro­ie­zione di un Ita­lia nuova che riparte.

Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta. Inol­tre, le bat­ta­glie si fanno anche sapendo che si può per­dere. Pro­prio la nascita della Repub­blica inse­gna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento pote­vano sem­brare dispe­ra­ta­mente inu­tili. Tut­ta­via le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difen­derne l’eredità.

Siamo con­tenti comun­que di sapere che Zagre­bel­sky sarà in campo, nel momento a suo avviso oppor­tuno. Non ave­vamo dubbi che appar­te­nesse al club dei gufi. Del resto, molto meglio gufi che avvoltoi.
Il modesto passo avanti compiuto dall'Italia per i diritti di cittadinanza, le gravi contraddizioni da sanare e la grande distanza dal raggiungimento dello "ius soli".come è negli USA.

La Repubblica, 15 ottobre 2015
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio.

Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante).

Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.

L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.

Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.

Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.

Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare?

La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.

». Il manifesto, 14 ottobre 2015

Ave­vamo chie­sto al pro­fes­sor Gustavo Zagre­bel­sky di sot­to­scri­vere l’articolo che abbiamo pub­bli­cato ieri con le firme di sei tra i più auto­re­voli costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani, e che ripub­bli­chiamo oggi qui accanto. Zagre­bel­sky ha pre­fe­rito non fir­mare, ma ha aggiunto delle moti­va­zioni che rite­niamo valga la pena far cono­scere – con il suo con­senso — ai nostri let­tori.

«Dopo averci pen­sato, ho deciso di non fir­mare, non per­ché non sia d’accordo sugli argo­menti, pro­po­sti all’attenzione dei respon­sa­bili della riforma. La ragione — sostiene l’ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale - è un’altra: la totale irri­le­vanza dell’invito alla rifles­sione presso chi si appella sem­pli­ce­mente all’argomento della forza.

Una delle espres­sioni più ricor­renti, in que­sto tempo di auto­ri­ta­ri­smo non solo stri­sciante ma addi­rit­tura con­cla­mato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una con­ce­zione della demo­cra­zia da scuola ele­men­tare! Dun­que, che cosa serve discu­tere? Un bel nulla.

Oltre­tutto, ho l’impressione che i nostri rifor­ma­tori, tronfi dei loro numeri rac­co­gli­ticci in un con­sesso che ha rag­giunto il grado più basso di cre­di­bi­lità, non agi­scano in libertà, ma come ese­cu­tori di pro­getti che li sovra­stano, di cui hanno accet­tato di farsi pas­sivi e arro­ganti ese­cu­tori in nome di inte­ressi o poco chiari, o indi­ci­bili ch’essi rias­su­mono nel ridi­colo nome di «gover­na­bi­lità»: parola di cui non cono­scono nem­meno il signi­fi­cato. Non dis­sento nel merito, ma sono certo della totale inef­fi­ca­cia dell’invito al con­fronto.

Mi astengo, dun­que, dal fir­mare - con­clude Zagre­bel­sky -, i tempi dell’impegno ver­ranno quando saranno chia­mati i cit­ta­dini a espri­mersi, saranno duri e immi­nenti. Allora sarà un’altra storia».

Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.

Il manifesto, 13 ottobre 2015

La legge costituzionale che il senato voterà oggi
dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza

È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum».
Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti - lasciando immutato il numero dei deputati - la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale.
Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo.
Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale «Italicum», che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente - anche con pochi voti - nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando.
Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale.
L’incontro delle forze politiche antifasciste in Assemblea costituente trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura istituzionale fondata sulla partecipazione democratica, sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri. Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso.
Non basta certo in senso contrario l’argomento che la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Facendo mancare il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma - parimenti stravolgente - approvata dal centrodestra.
Gaetano Azzariti
Lorenza Carlassare
Alessandro Pace

Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».

Stiamo sulla nave dei folli. Non è folle che un parlamento eletto con una egge giudicata incostituzionale si sia assunto il potere di decidere «una sostanziosa riscrittura» (dicesi "riscrittura") della Costituzione?. La

Repubblica, 12 ottobre 2015

È UNA RISCRITTURA sostanziosa della Costituzione, quella che il Senato si appresta ad approvare, e sarà questa la versione definitiva che saremo chiamati a votare al referendum confermativo, se e quando le due Camere completeranno il complesso percorso previsto dall’articolo 138.

La riforma contiene molte novità, la più importante delle quali è certamente la fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo — e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo — che si sposta alla Camera dei deputati. Ma ce ne sono molte altre. Una complicata elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai cittadini al momento di eleggere i Consigli regionali. L’addio ai senatori a vita. La conferma dell’immunità parlamentare anche per Palazzo Madama. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. Ma vediamo uno per uno quali sono i punti principali della riforma.

I CONSIGLIERI-SENATORI

I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100: 95 eletti dalle Regioni ( 74 consiglieri e 21 sindaci, uno per regione più uno ciascuno a Trento e Bolzano) più 5 senatori di nomina presidenziale, che però non saranno più a vita, salvo gli ex capi dello Stato, ma resteranno in carica sette anni. Fatta eccezione per la prima volta i senatori non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali (e dunque decadranno con essi).

E’ qui che Palazzo Madama ha introdotto la modifica più significativa: i senatori saranno sì eletti dai consiglieri regionali, come era previsto nel testo precedente, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, applicando una legge elettorale che dovrà essere varata dal Parlamento entro sei mesi dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Per i senatori non è più prevista l’indennità (riservata ai soli deputati) ma viene confermata l’immunità parlamentare: non potranno essere perquisiti, intercettati o arrestati senza l’autorizzazione dell’aula.

ADDIO BICAMERALISMO PERFETTO

Cosa faranno i nuovi inquilini di Palazzo Madama? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa. Potrà verificare l’attuazione delle leggi, nominare commissioni d’inchiesta ed esprimere pareri sulle nomine governative, ma da lì dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali.

Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati, ma il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Potrà esprimere proposte di modifica a una legge (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori potranno esprimersi anche sulle leggi di bilancio, ma avranno solo 15 giorni e dovranno raggiungere la maggioranza assoluta. Anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato isegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.

Cambierà radicalmente anche il potere del governo nel procedimento legislativo: l’esecutivo avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come “ essenziali per l’attuazione del programma di governo” la Camera si pronunci entro il termine di 70 giorni (prorogabile di altri 15 in casi eccezionali). Alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione “senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.

LA CONSULTA E I REFERENDUM

Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che dovrà pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei Senatori, ma “entro dieci giorni dall’approvazione della legge” (anche se una norma transitoria renderà possibile il ricorso per l’Italicum). La quota di giudici oggi eletta dal Parlamento in seduta comune viene divisa tra le due Camere: tre a Montecitorio e due a Palazzo Madama. Nuove regole per le consultazioni popolari. Vengono previsti i referendum propositivi e viene fissato un quorum più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche) per i quesiti sui quali sono state raccolte almeno 800 mila firme. Per le leggi di iniziativa popolare, la soglia viene alzata da 50 mila a 150 mila firme.

LO STATO E LE REGIONI

Vengono soppressi il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e le Province, finora protette dalla Costituzione. Nello stesso tempo, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni avranno la possibilità di imporre tributi autonomi.

QUIRINALE, CAMBIA IL QUORUM

Per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale non basterà più la maggioranza assoluta. Scompariranno i delegati regionali, ma cambierà anche il numero di votazioni per le quali sarà richiesta la maggioranza dei due terzi, un quorum altissimo che solo in pochi (e tra questi Ciampi, Cossiga e Napolitano) sono riusciti a superare. Attualmente la Costituzione impone questo quorum fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta, ovvero la metà più uno. La nuova norma invece il quorum dei due terzi per primi tre scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e alla settima votazione in poi lo abbassa ai tre quinti dei votanti (non degli aventi diritto). Non più, dunque, alla maggioranza assoluta.

Economia battuta dai diritti personali. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi.

La Repubblica, 12 ottobre 2015

Di fronte ad una politica aggressivamente ripiegata sulla sola economia, sono i giudici che cercano di mantenere viva l’Europa dei diritti. Lo ha confermato qualche giorno fa una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dichiarato illegittima una decisione della Commissione europea del 2000 sul trasferimento dei dati personali dai paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti perché violava il diritto fondamentale alla tutela della privacy. La sentenza nasce da un caso riguardante Facebook, è stata certamente influenzata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio elettronico americano, ma mette in evidenza un vizio d’origine dell’intesa tra Commissione europea e amministrazione degli Stati Uniti, sul quale bisogna riflettere.

Un vizio ben noto, e che era stato denunciato fin dal momento in cui si negoziava quell’intesa. Poiché all’epoca facevo parte del gruppo europeo sulla tutela dei dati personali, posso dare una personale testimonianza del fatto che tutti gli argomenti adoperati oggi dalla Corte di Giustizia erano stati ampiamente sollevati quindici anni fa. Si disse che le regole previste privavano i cittadini europei di ogni potere di controllo sul modo in cui sarebbero state adoperate le loro informazioni una volta trasferite negli Stati Uniti, si prospettò il rischio che di quei dati si sarebbero impadroniti gli organismi di sicurezza, come poi è avvenuto. La discussione fu aspra, si riuscì a limitare qualche danno, ma l’atteggiamento della Commissione fu, in modo smaccato e protervo, di assoluta subordinazione alle richieste americane.
Quella protervia è stata ora travolta. È bene sottolinearlo, perché l’Unione europea sta ridefinendo il proprio sistema di garanzie per i dati personali, le pressioni degli Stati Uniti sono sempre forti e le resistenze europee non sembrano adeguate. Ma la Corte di Giustizia ha indicato con grande chiarezza le condizioni da rispettare perché le decisioni in questa materia possano essere considerate legittime. La tutela dei dati personali è riconosciuta come un diritto fondamentale d’ogni persona dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La parola privacy, che continua ad accompagnare le discussioni, ha ormai un significato non riducibile alla semplice riservatezza che si può esigere per la propria sfera privata. Indica una dimensione della libertà dei contemporanei, che devono curarla con attenzione e regole adeguate, anche nell’interesse di quelle che vengono chiamate le generazioni future.
Nel tempo dei “big data”, del controllo pervasivo sulle persone attraverso la raccolta delle informazioni incessantemente prodotte dal muoversi in un ambiente innervato da tecnologie della vita quotidiana, dal passaggio all”Internet delle cose”, si sta davvero costruendo un mondo nuovo, con forme inedite di accentramento dei poteri e di riduzione dei diritti che devono essere adeguatamente contrastate.
Nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea si rinvengono criteri preziosi, e vincolanti. Parlo di sentenze al plurale, perché quella appena pubblicata si colloca in una linea che la congiunge a due sentenze dell’anno scorso, altrettanto importanti, sul tempo di conservazione dei dati personali e sul diritto all’oblio. Una linea di tendenza ormai chiara. Nei casi di conflitti tra il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali e le esigenze di sicurezza e di mercato è proprio il primo a dover avere la preminenza. In una sentenza dell’anno scorso, relativa ad un caso riguardante Google, si è detto con chiarezza che “il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali prevale giuridicamente sull’interesse economico degli operatori del settore”. Nella decisione ultima si afferma che “una disciplina che permetta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata ai contenuti delle comunicazioni elettroniche deve essere considerata come una violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale alla vita privata garantito dalla Carta europea”.
Sono affermazioni di grande rilievo, di portata generale, particolarmente importanti in un momento in cui molti Stati membri dell’Unione europea approvano norme che consentono forme di sorveglianza di massa sulle persone, evidentemente in contrasto con l’ultimo principio ricordato. Ma vi è una ulteriore, assai significativa conseguenza di queste sentenze. Poiché riguardano soggetti e situazioni che si collocano su scala globale, i loro effetti sono destinati a prodursi ben oltre i confini dell’Unione. Queste decisioni stanno così costruendo il nucleo di un diritto anch’esso globale, favorito da una unificazione determinata da una tecnologia che si sviluppa secondo modalità che hanno il mondo come riferimento.
Solo nelle apparenze, quindi, la tendenza espressa dalle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea apparterrebbero a quella sorta di “balcanizzazione” di Internet che taluni mettono in evidenza. È vero che siamo di fronte a dinamiche che innescano conflitti legati a contrastanti interessi economici, agli appetiti di Stati nazionali, autoritari e non, di controllare Internet. Ma il carattere proprio di Internet rimane quello del più grande spazio pubblico mai conosciuto, che evoca in ogni momento la necessità di muovere dalla considerazione del ruolo delle persone e dell’assetto dei poteri.
Questo comune punto di riferimento è ritrovato dai giudici europei nel loro continuo, insistito riferimento ai diritti fondamentali. Un punto, insieme, di attrazione e di unificazione. Lo dimostrano le diverse legislazioni che si ispirano proprio al modello europeo e alla sua costruzione intorno ai diritti fondamentali, come testimoniano, tra le altre, le normative brasiliane. Lo conferma il moltiplicarsi di progetti di Internet Bill of Rights, con una manifestazione significativa nella Dichiarazione dei diritti di Internet elaborata dalla nostra Camera dei deputati, che è all’origine di un documento comune della Presidente della Camera e del Presidente dell’Assemblea nazionale francese.
Siamo di fronte ad iniziative volte ad una “costituzionalizzazione” di Internet, che ovviamente portano con sé un confronto tra diverse impostazioni, che continua da anni tra Europa e Stati Uniti, con le distorsioni già segnalate. È tempo di prendere atto dell’impulso dato a questo processo dal riferimento giuridicamente obbligato alla Carta dei diritti fondamentali, che la politica europea ha omesso in questi anni, guardando alla logica economica quasi come ad una immutabile legge naturale e alterando così gli equilibri istituzionali dell’Unione. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi. Ricordando, in primo luogo, che l’assetto complessivo di diritti e poteri su Internet definisce già oggi la dimensione dove si gioca il futuro della democrazia.
«Anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, la società civile, creano ricchezza. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza».

La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

Sette economisti (fra cui Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e la sottoscritta) hanno accettato di fare da consulenti economici per Jeremy Corbyn, il nuovo leader del Partito laburista britannico. Mi auguro che il nostro scopo comune sia aiutare il Labour a creare una politica economica fondata sugli investimenti, inclusiva e sostenibile. Metteremo sul tavolo idee diverse, ma voglio proporvi le mie considerazioni riguardo alle politiche progressiste di cui il Regno Unito e il resto del mondo hanno bisogno oggi.
Quando il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale. Che le imprese creino ricchezza è evidente.

Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.

Le politiche tradizionalmente considerate “business friendly”, come i crediti di imposta e la riduzione delle aliquote, a lungo andare possono essere nocive per l’attività imprenditoriale. Allo stesso modo, è ora di superare il dibattito sull’austerity e discutere di come costruire collaborazioni intelligenti e reciprocamente vantaggiose fra pubblico e privato, in grado di alimentare la crescita per decenni.
Per cominciare dobbiamo investire in istruzione, capitale umano, tecnologia e ricerca. In molti settori gli imponenti progressi tecnologici e organizzativi hanno prodotto un aumento della produttività. Molte di queste innovazioni decisive affondano le loro radici in ricerche finanziate dallo Stato. Per garantire che ci siano progressi anche in futuro, ci sarà bisogno di interventi diretti e investimenti in innovazione lungo l’intera catena dell’innovazione: ricerca di base, ricerca applicata e finanziamenti alle imprese nelle fasi iniziali.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine.
Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano.
Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari.
Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico.
Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro. Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico.
La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing, non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti.
Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Copyright: Project Syndicate, 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)
«È chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente».

Il manifesto, 7 ottobre 2015

Era già nell’aria. Ma ora la minac­cia si fa con­creta e immi­nente. Il governo Renzi si appre­sta a rifi­lare un uno-due al movi­mento sin­da­cale ita­liano, tale, per dirla con l’efficacia di Umberto Roma­gnoli, da farlo scom­pa­rire senza nep­pure darsi la pena di abrogarlo.

Da un lato il governo lavora per sna­tu­rare e limi­tare il diritto di scio­pero. Esso, con­tra­ria­mente alla nostra Costi­tu­zione, non sarebbe più un diritto in capo al lavo­ra­tore, ma un atto con­sen­tito solo a sin­da­cati aventi un certo livello di rap­pre­sen­tanza e di con­senso tra i dipen­denti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cam­bie­rebbe. Il gri­mal­dello sarebbe la que­stione della «rap­pre­sen­tanza», vec­chio nodo irri­solto. Solo che qui si parla di una rap­pre­sen­tanza rove­sciata. Non quella rispetto ai lavo­ra­tori, in base alla quale si dovrebbe giun­gere all’ovvia con­clu­sione che almeno gli accordi per avere vali­dità erga omnes dovreb­bero essere appro­vati da un voto refe­ren­da­rio di tutti i lavo­ra­tori cui si rife­ri­scono. E magari boc­ciati, come è suc­cesso recen­te­mente alla Fca di Mar­chionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garan­zia che ciò che le sigle sin­da­cali fir­mano diventi per ciò stesso norma impo­sta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scri­vere di pro­prio pugno le regole della contrattazione.

Senza nep­pure il parere delle orga­niz­za­zioni sin­da­cali e della Con­fin­du­stria, che comun­que con Squinzi si alli­nea pre­ven­ti­va­mente. L’occasione sarebbe for­nita da uno dei decreti dele­gati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla intro­du­zione del sala­rio minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Gra­zie a que­sto si can­cel­le­rebbe la con­trat­ta­zione sala­riale nazio­nale e quindi si toglie­rebbe linfa vitale al con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, men­tre l’incremento sala­riale sarebbe abban­do­nato alla con­trat­ta­zione azien­dale – per chi se la può per­met­tere -, ma vin­co­lato agli aumenti di pro­dut­ti­vità.

Met­tendo insieme i due ele­menti qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente. Al più grande e orga­nico attacco al movi­mento ope­raio mai por­tato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accom­pa­gne­rebbe alla azien­da­liz­za­zione del wel­fare state, poi­ché alla con­trat­ta­zione azien­dale ver­rebbe affi­data anche quella per la sanità e gli altri isti­tuti di wel­fare integrativi.

Inten­dia­moci, non è il sala­rio minimo ora­rio ad essere di per sé il respon­sa­bile di que­sta per­fida costru­zione. La sua intro­du­zione in tutt’altro qua­dro sarebbe posi­tiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per para­fra­sare i giu­ri­sti, avver­rebbe con quel «velo di igno­ranza» verso la strut­tura con­trat­tuale, non diven­tando così il pre­te­sto per sman­tel­larla. In effetti al gio­vane, o meno gio­vane o all’immigrato, che non è pro­tetto da un con­tratto col­let­tivo nazio­nale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scen­dere è un ele­mento di difesa. Con il pre­gio della uni­ver­sa­lità. Su que­sta base si potrebbe imma­gi­nare una riforma della con­trat­ta­zione tale da ridurre gli attuali 380 con­tratti col­let­tivi nazio­nali a quei 5 o 6 in set­tori fon­da­men­tali entro i quali con­cen­trare le forza per otte­nere dal punto di vista retri­bu­tivo e nor­ma­tivo misure accre­sci­tive, da miglio­rare poi in un even­tuale con­trat­ta­zione di secondo livello.

Di que­sto si parla da tempo nelle orga­niz­za­zioni sin­da­cali. In par­ti­co­lare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le respon­sa­bi­lità, è inu­tile nascon­der­selo, sono anche interne al movi­mento sin­da­cale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rap­pre­sen­tanza, ove il sin­da­cato degli iscritti modello Cisl si è scon­trato con il sin­da­cato di tutti i lavo­ra­tori mutuato dai momenti migliori della sto­ria del movi­mento sin­da­cale; sia per quanto riguarda il tema del sala­rio minimo, ove la paura di per­dere ruolo ha para­liz­zato ogni proposta.

Il governo ne appro­fitta per cer­care di can­cel­lare del tutto con­trat­ta­zione e sin­da­cato. Rea­gire con uno scio­pero gene­rale sarebbe necessario.

Intervista a Toni Morrison: «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano».

La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Lo chiamavano il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” - il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.

L’ha vissuto sulla sua pelle?
«A Lorain, in Ohio, dove sono nata, vivevamo in un quartiere di emigranti. I miei vicini erano messicani, italiani, ungheresi: frequentavamo la stessa chiesa e la stessa scuola, e in comune avevamo anche la povertà. Ma quando negli anni Quaranta andai a studiare a Washington, era ancora una città segregata: gli autobus, i locali, tutto. Frequentavo la Howard University, un’università nera dove pensavo di sentirmi al sicuro: e invece fu proprio lì che scoprii il colorism. C’erano confraternite universitarie che accettavano solo ragazze dalla pelle molto chiara: e facevano questa cosa - il test della carta del droghiere...».
Nella casa di Toni Morrison ogni oggetto racconta una storia. Le statuette africane che incorniciano la scala. Il grande fotoritratto di Timothy Greenfield-Sanders: lei di profilo, i dreadlock grigi in evidenza. Il tavolo da ciabattino regalatole da Oprah Winfrey, usato sul set del film Beloved dal suo primo best seller Amatissima . La scrivania dove fra i libri svetta un piccolo dipinto:
«S’intitola Donna nigeriana . È opera di un artista afroamericano che visse a Parigi, un amico di Picasso che non ebbe la stessa fortuna: probabilmente troppo nero, anche lui. Se solo ricordassi il suo nome...».

“Troppo nero”, magari in base ai canoni del colorism, discriminazione ancor più sottile e crudele perché basata sul tono di colore della pelle. Troviamo queste stesse sfumature in Prima i bambini, l’ultimo romanzo di Morrison in uscita ora in Italia, edito come gli altri da Frassinelli. Si apre con la storia di una donna “nera come la mezzanotte” e rifiutata dai genitori dalla pelle, invece, più chiara. Ha raccontato al New York Times che suo padre odiava i bianchi. Sua madre, al contrario, era aperta con tutti. Lei da chi ha preso?
«Mio padre veniva dalla Georgia e da bambino aveva visto linciare due uomini di colore — persone per bene, negozianti — solo per appropriarsi dei loro beni. Considerava i bianchi “irriscattabili”. Mia madre giudicava le persone una per una. Io sono come lei: non ho mai odiato nessuno. Ma capisco mio padre».
L’America di oggi non è più quella che lei ha scoperto negli anni dell’università. Ma il razzismo è ancora qui.
«Il razzismo è sempre stato qui. È solo più visibile: grazie ai video fatti coi cellulari, ai social media. Prima non c’erano tutti questi mezzi di denuncia. Quando i vicini di mio padre vennero linciati erano i bianchi che andavano a fotografarli per metterli su cartoline da spedire agli amici: era come sparare al leone. Oggi se un ragazzo nero disarmato viene ucciso anche in un paese piccolissimo la sua morte finisce sotto gli occhi di tutti».
Già. Ma cinquant’anni dopo Selma e con un afroamericano alla guida del Paese...
«Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano. E poi l’America è un paese inondato da armi».
Cosa c’entra questo con il razzismo?
«Di cosa crede abbiano paura così tanti possessori di armi? Non a caso i ragazzi neri uccisi dai poliziotti erano tutti disarmati».
Barack Obama ha detto: la mia più grande frustrazione è non essere riuscito a imporre la legge per controllarne la diffusione.
«Ma cosa può fare il presidente da solo? Neanche tutto il suo partito lo segue».
Lei dice: c’è sempre stato. E il nuovo razzismo verso chi viene in cerca di futuro? Qui i messicani nel mirino di Donald Trump, mentre l’Europa non riesce a mettersi d’accordo sui profughi.
«Non ho memoria di nulla di simile, a parte quel che fecero qui ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale: li rinchiusero nei campi perché nati in un paese considerato nemico. Eppure erano medici, avvocati... L’America dovrebbe essere com’è scritto sotto la statua della Libertà: un paese di immigrati che dà il benvenuto agli stranieri. E invece... Quanto agli europei, vergogna. Soprattutto quelli dell’Est: era appena ieri che bussavano a tutte le porte».
Non sarà stata la crisi globale a fomentare il nuovo disordine?
«È sempre una questione di soldi. Un tempo eravamo tutti cittadini. Poi i cittadini sono diventati consumatori: si comprava qualsiasi cosa. Oggi si parla di contribuenti: siamo quelli che pagano le tasse. Questo porta a non identificarsi più con un senso di comunità. Il discorso diventa: io pago...».
Questo è il suo undicesimo romanzo: il primo ambientato nell’epoca contemporanea. Un modo per ricordare agli intellettuali che in un mondo così complesso bisogna continuare a prendere posizione?
«È la storia di persone che non sono cresciute: non si sono mai liberate dai drammi vissuti da bambini. Sono un po’ lo specchio della letteratura contemporanea: così focalizzata su se stessa. Tutti a descrivere solo la propria finestra sul mondo: mia mamma, il mio fidanzato. Io ho voluto raccontare un percorso di autostima il cui fine è la conoscenza».
Lei è stata più volte definita “la voce della Coscienza americana”. Si riconosce?
«La accetto. E ho voluto dare con tutti i miei libri un messaggio ben preciso: questo è il percorso compiuto dall’America, queste sono le persone sulla cui pelle il Paese è cresciuto e diventato una nazione invidiabile».
Prima i bambini è forse il libro che nei temi riprende più di tutti il suo primo romanzo, L’occhio più blu, pubblicato quarantacinque anni fa, quando lei era ancora e soltanto l’editor di Angela Davis e Muhammad Ali...
«All’epoca, era il 1970, nulla di quello di cui abbiamo appena parlato mi era chiaro. Volevo raccontare la storia di una ragazzina nera che sogna di avere gli occhi di Shirley Temple perché crede a quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei. Sì, forse i due libri si somigliano. Ma oggi lo sforzo che ci è richiesto è diverso: smettere di sentirsi vittime».
Sull’intero romanzo pesa l’ombra della pedofilia.
«Se ne parla continuamente. Non so se è sempre stato così. Forse oggi le bambine sono ipersessualizzate. O forse attraverso internet si diffonde la pornografia infantile. Ma è qualcosa di dilagante. Mi ha aiutato a rendere la storia più contemporanea».
Nel libro sottolinea come gli errori dei genitori pesino per sempre. Il messaggio è: prendiamoci maggior cura dei bambini perché sono il nostro futuro?
«Non perché sono il futuro: perché sono piccoli esseri umani. Pensi che il titolo che avevo dato io al libro era “L’ira dei bambini”. Ma non piaceva a nessuno. Non all’editore. Non alla pubblicità. Hanno preferito God Help the Child - parafrasando una famosa canzone di Billie Holiday, God Bless the Child, e io li ho lasciati fare. A volte bisogna accettare quel che il mondo ti dice».
Il titolo italiano, “Prima i bambini”, le piace?
«Forse di tutte le traduzioni è il più calzante. Prima i bambini… Peccato che non accada mai. Penso ai miei nipoti che suonano, studiano tante cose. E mi chiedo: non dovrebbero solo giocare? Poi vedo altri bambini che non sono così stimolati e passano la giornata attaccati al cellulare e penso: i miei nipoti non lo fanno. Ma quando io ero bambina si stava fuori a giocare l’intera giornata. Perché vivevamo in una comunità, tutti sapevano dov’eri e che facevi. Oggi siamo tutti spaventati dall’idea di rapimenti e molestie. I genitori sono diventati quello che qui chiamiamo “elicotteri”: iperprotettivi. E se non lo fanno succede come a quella mamma accusata di maltrattamenti perché aveva lasciato i suoi piccoli a girare da soli per Central Park. Così ti chiedi: i bambini sono ancora bambini?».
I protagonisti dei suoi libri hanno sempre nomi affascinanti.
«Gli schiavi non avevano nome: qualsiasi fosse il loro nome dovevano abbandonarlo per quello che sceglieva il padrone. Dare un nome è una responsabilità. E darsi un nome è un atto di orgoglio. Non è un caso che molti musicisti afroamericani hanno scelto soprannomi regali… Count Basie, Duke Ellington. Il Conte. Il Duca».
Anche il nome con cui il mondo la conosce non è quello vero.
«Io mi chiamo Chloe e questo è il nome con cui mi chiamano le persone che amo. Ma solo nella mia famiglia lo pronunciano come si deve. Già a scuola mi chiamavano Cloo , Clori ... Poi, quando a dodici anni mi sono fatta battezzare, ho scelto di chiamarmi Antony: come sant’Antonio da Padova. E qualcuno ha cominciato a usare il diminutivo: Toni. Ma è Chloe che scrive i libri, sa? Quando scrissi il primo avrei voluto firmarlo col mio vero nome, Chloe Wofford. Invece mandai il manoscritto col nome da sposata che usavo allora. Chiamai per farlo cambiare ma era tardi: era già stampato».
Perché proprio Sant’Antonio da Padova?
«Perché è buono con i bambini e perché viaggiò in Nordafrica. L’ho scoperto in una Vita di Santi comprato da Strand, il negozio dei libri usati su Broadway».
Va ancora in chiesa?
«Quando insegnavo a Princeton ci andavo tutti i giorni. Ma prima della messa: quando arrivava il prete andavo via. Oggi il mio rapporto con la Chiesa è saltuario. Anche se questo Papa potrebbe riportarmici: mi piace tanto. E mi piace come sta risolvendo le cose in Vaticano».
Lei ha vinto così tanti premi. Il Pulitzer, il Nobel.
«Mi svegliò una giornalista all’alba per chiedermi che effetto faceva. Riattaccai. Chiamò ancora e io le chiesi come faceva a sapere ciò che io non sapevo ancora: e a quel punto capii che per il fuso il Nobel era stato annunciato quando in America erano le tre di notte. Così quando chiamarono da Stoccolma fui gentile, ringraziai: ma ancora non mi fidavo. Chiesi: “Potete mandarmi un fax?”».
Cosa ricorda della premiazione?
«Nelson Mandela. Che aveva vinto il Nobel per la Pace quello stesso anno: 1993. Per me era un mito e chiesi di incontrarlo. Fissarono l’incontro e fu favoloso. Raccontò storie incredibili, buffe e struggenti sulla sua vita. E poi… Oh, quelli del Nobel sì che sanno come organizzare una festa!».
Il nuovo premio si avvicina e tornano i nomi di tutti gli anni: Philip Roth in testa.
«Quante volte ho chiesto io stessa a quelli del Nobel se quel tale o quell’altro era stato preso in considerazione. Risposta: i nomi più ricorrenti non sono nemmeno mai arrivati sulla lista dei finalisti. E poi non so se oggi è tempo per un americano. Non mi viene in mente nessuno che sia all’altezza. Sa chi lo meriterebbe? L’israeliano Amos Oz».
Lo ha votato?
«Io non voto mai. Troppo complicato: devi compilare un sacco di carte, dare spiegazioni. Ma se votassi sceglierei lui: se lo merita».
Gli Obama la considerano un’amica.
«Quando il presidente mi ha premiata con la “Medaglia per la libertà”, beh, ho provato una sensazione strana: ho il doppio dei suoi anni ma mi sono sentita davanti a un fratello maggiore. Mi sono sentita protetta».
È stata più volte alla Casa Bianca.
«Ci sono stata a cena da poco. Ala privata, otto invitati più gli accompagnatori, io ho portato mio figlio. Michelle gentilissima: “Siamo fra noi: puoi venire anche in blue jeans”. Io che i blue jeans non li ho mai messi in vita mia! Figuriamoci se li metto alla Casa Bianca. Michelle è incredibile. Di più: è lei il vero capo».
Pensa che un giorno scenderà in campo come Hillary Clinton?
«Macché. È troppo intelligente. È competitiva: non c’è dubbio. Ma sa di che stress si tratta. Quando lui decise di tentare la corsa presidenziale lei disse, ok, ti appoggio. Ma una volta sola. Se perdi non se ne parla più».
Lei ha cominciato a scrivere a quarant’anni. Ora ne ha ottantaquattro. Il suo collega Roth ha annunciato di aver smesso di scrivere a causa dell’età. Lei continua. Cosa la spinge?
«Lo so fare bene! E poi scrivere è anche il mio modo per non confrontarmi con quelle cose di cui abbiamo appena parlato: le guerre, il razzismo. Quando scrivo sono io a creare il mio mondo. Creo il mio gioco intellettuale: la lingua è così interessante. Tutto il resto scompare. Non solo. Per un’operazione alla schiena andata male ora sono piuttosto limitata nei movimenti. Cammino a fatica. Nel mio mondo letterario, invece, sono libera: anche fisicamente».
Ha letto il nuovo libro di Harper Lee? Anche lei un’ultraottantenne, ha aspettato più di mezzo secolo per pubblicare il prequel di “Il buio oltre la siepe”.
«No, non ho letto il libro, ho letto le polemiche. E mi sono fatta l’idea che sotto ci sia qualcosa di losco. Strano che il libro sia uscito dopo la morte della sorella: quella che sapeva tutto. E poi anche se Harper Lee è poco più grande di me - come ha fatto a lavorarci? È quasi cieca: non sente. No, non credo che lo leggerò. D’altronde non sono stata una gran fan nemmeno di Il buio oltre la siepe. O meglio: ho amato il film. Ma era Gregory Peck a renderlo splendido!».
Quali scrittori la interessano oggi? Sente di avere un’erede?
«Gli autori che ho amato sono tutti morti. Alice Walker non sta scrivendo nulla. Gli altri, i giovani, li conosco poco. Colson Whitehead è un ottimo scrittore. O almeno lo era: che fine ha fatto? Ecco: Edwidge Danticat - un’haitiana-americana. È lei la mia scelta».
Vuole dire che il romanzo afroamericano ha perso la funzione sociale che lei teorizzò ai suoi esordi?
«Dico che oggi ci sono pochi scrittori perché le energie vanno altrove. Oggi i giovani afroamericani cantano».
Cantano?
«Raccontano così le loro storie. La forza che mettevano nella scrittura ora va nella musica: nel rap. Spesso non capisco cosa dicono ma riconosco l’energia. Mi sono appassionata a Kendrick Lamar, anche se le sue rime sono così veloci che non capivo una parola. Mi è piaciuto così tanto che ho chiesto che mi mandassero i suoi testi. E ora mi piace anche di più».
Anche i libri sono cambiati: sono elettronici.
«Mio figlio mi ha regalato un iPad. Il primo libro che ho letto su tablet è stata una cosa moderna poi diventata film: Gone Girl . Poi ho iniziato un altro libro, Wolf Hall di Hilary Mantel. Ho letto la prima pagina e mi sono detta no, non posso leggere un romanzo storico su uno schermo. Ho preso il libro di carta, e me ne sono appassionata. Ho cercato anche gli altri suoi libri: The assassination of Margaret Thatcher è fantastico. Però no: non sono una grande lettrice elettronica».
Eppure i suoi audiolibri hanno molto successo. Ed è lei stessa a leggerli.
«All’inizio avevano preso un’attrice. Poi mi è capitato di ascoltarne uno per caso: “Ma quello non è il mio libro! È tutto sbagliato. Il passo. Il ritmo. Non è la mia storia”. Da allora li registro io: anche se è estenuante».
È vero che sta scrivendo le sue memorie?
«Le voleva il mio agente. Ci ho anche provato, ma so tutto di me: mi sono annoiata subito».
Un sorriso. È ora di congedarsi. Fuori piove.
«Dovrebbe vedere quando qui c’è il sole, è una meraviglia. Magari quando avrò finito il mio prossimo libro. Sì, non dovrei dirlo, l’ho già cominciato. Ho scritto quindici pagine. E le assicuro che sono molto buone. Le mie migliori».

«

Ciò di cui più abbiamo biso­gno è pro­durre nuovi punti di vista, non arren­derci al pre­sente, riu­scire ad incri­nare l’unica nar­ra­zione rimasta.

La sini­stra è morta se non rie­sce ad imma­gi­nare il cam­bia­mento, ad inter­pre­tare non solo un gene­rico e dif­fuso males­sere, ma a pro­spet­tare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pen­siero cri­tico ha per­duto la sua radi­ca­lità, schiac­ciata dal peso del pre­sente. I diritti arre­trano, le nostre forze sce­mano. Se siamo giunti sin qui è inu­tile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo inter­pre­tare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è ser­vito a nulla, nulla abbiamo difeso.

Ora, che poco abbiamo da per­dere, dovremmo cer­care di uscire dalla palude, per misu­rarci con le nostre idee e non più solo con la razio­na­lità del reale. Dovremmo ripren­dere seria­mente in con­si­de­ra­zione la distin­zione tra stra­te­gia e tat­tica (la dop­piezza togliat­tiana?). La prima per la rico­stru­zione di una pro­spet­tiva di sini­stra che sap­pia aggre­gare le forze poli­ti­che e i sog­getti sociali neces­sari per il cam­bia­mento futuro; la seconda per resi­stere e per con­tra­stare la poli­tica dominante.

La mia impres­sione è che una grande colpa della sini­stra sia stata quella di non cre­dere in se stessa, nella sua capa­cità di cam­biare. Gran parte di essa (la sini­stra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lot­tare, sod­di­sfatta delle con­qui­ste otte­nute nel corso del Nove­cento, si è limi­tata a gover­nare il pre­sente, cer­cando — ben che fosse — di osta­co­lare gli spi­riti più sel­vaggi, fre­nare gli arre­tra­menti più vistosi. Alla fine, però, ha per­duto se stessa. Rinun­ciando a pro­durre una sua nar­ra­zione, non poteva che venir attratta fatal­mente dal potere costi­tuito, dalla forze dominati.

Una giu­sti­fi­ca­zione è stata data per moti­vare que­sto chiu­dersi nei palazzi della sini­stra di governo, richia­mando una auto­re­vole e tutt’altro che banale tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale ita­liana: l’autonomia della poli­tica come stru­mento per imporre il cam­bia­mento. Se non lo strappo rivo­lu­zio­na­rio, almeno le ragione del pro­gresso si sareb­bero potute affer­mare den­tro le isti­tu­zioni per poi con­qui­stare una società che non sem­pre dà prova di civiltà o di essere in sin­to­nia con i prin­cipi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dun­que che si potesse «costruire» il popolo attra­verso la poli­tica dall’alto, l’intermediazione del lea­der. Lasciamo per­dere la discus­sione teo­rica, che coin­vol­ge­rebbe figure che hanno fatto la sto­ria della sini­stra del nostro paese (da Anto­nio Gram­sci a Mario Tronti) e che oggi tro­vano peral­tro nuove con­so­nanze (Erne­sto Laclau, Chan­tal Mouffe); limi­tia­moci a rile­vare quel che è stato l’effetto sul piano più stret­ta­mente poli­tico. La defi­ni­tiva cesura tra popolo e suoi rap­pre­sen­tanti.

Uno iato che si è sem­pre più esteso e che dimo­stra la mio­pia — il fal­li­mento — della classe diri­gente della sini­stra. Dimen­ti­chi di una vec­chia lezione della sto­ria: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vin­cono gli inte­ressi costi­tuiti. Se non si voleva ricor­dare Peri­cle, sarebbe stato suf­fi­ciente non dimen­ti­care Berlinguer.

Per chi si pro­po­neva di tra­sfor­mare il reale, è stato que­sto l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme pro­mosse dalla sini­stra hanno finito per peg­gio­rare le con­di­zioni del suo popolo, men­tre la crisi eco­no­mica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci pre­vale sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali. In Ita­lia, ma non solo.

Il popolo della sini­stra nel frat­tempo s’è sper­duto, guarda altrove o non guarda più da nes­suna parte. È rima­sto solo il lea­der che pensa alla nazione, riflet­tendo su se stesso, sulla pro­pria imma­gine, come allo spec­chio.

Chi, nono­stante tutto, ha con­ser­vato uno spi­rito cri­tico ha pro­vato a rea­gire. Ha otte­nuto impor­tanti suc­cessi (il refe­ren­dum sull’acqua, quello sulle riforme costi­tu­zio­nali), ha com­bat­tuto con intran­si­genza (no Tav), ha matu­rato espe­rienze cul­tu­rali di rot­tura (i beni comuni). Tutte espe­rienze che hanno incon­trato però un limite: tutte hanno sot­to­va­lu­tato la que­stione della neces­sità di una rap­pre­sen­tanza poli­tica. Rima­nendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lon­tane dalla poli­tica isti­tu­zio­nale, le lotte più inno­va­tive e di rot­tura non sono riu­scite a ren­dersi ege­moni, anzi alla lunga hanno mostrato le pro­prie debo­lezze. Le vit­to­rie refe­ren­da­rie sono state pre­sto dimen­ti­cate e non hanno tro­vato un neces­sa­rio seguito isti­tu­zio­nale, le espe­rienze locali sono rima­ste tali e alla fine si con­dan­nano all’esaurimento.

Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movi­menti la que­stione del rap­porto con il «potere» e la neces­sità della media­zione isti­tu­zio­nale delle lotte sociali. Ter­reno sci­vo­loso, non gra­dito a chi nella lotta esau­ri­sce il pro­prio oriz­zonte pole­mico. Anche in que­sto caso si è attinto a piene mani ad una tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale che ha attra­ver­sato l’intera sto­ria della sini­stra, quella più radi­cale e com­bat­tiva. Non sem­pre quella vin­cente. Così, l’autogoverno, la demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, l’esaltazione del comune sono state uni­la­te­ral­mente assunte, senza nulla appren­dere dalle cri­ti­cità che la sto­ria ha evi­den­ziato, sin dalla comune di Parigi.

Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripar­tire ponendo al cen­tro della nostra rifles­sione pro­prio la que­stione dei limiti dell’autonomia della poli­tica e quella della rap­pre­sen­tanza poli­tica. L’autonomia della poli­tica potrebbe essere intesa come capa­cità di pro­get­tare il futuro, distac­can­dosi dall’immediatamente rile­vante, men­tre la rap­pre­sen­tanza poli­tica dovrebbe essere assunta come la neces­sa­ria «misura» di que­sta capa­cità di pro­get­ta­zione entro un con­te­sto istituzionale.

Vediamo di sin­te­tiz­zare con una sola esem­pli­fi­ca­zione un discorso che meri­te­rebbe di essere altri­menti sviluppato.

Pen­siamo — ad esem­pio — alla riforma della costi­tu­zione. Se è vero, come su que­sto gior­nale abbiamo ripe­tuto tante volte, che la revi­sione in corso è espres­sione di un com­ples­sivo dise­gno regres­sivo, che, se appro­vata, ci poterà indie­tro nel tempo, ver­ti­ca­liz­zerà le dina­mi­che poli­ti­che, aprirà a sce­nari non ras­si­cu­ranti, se que­ste sono le nostre con­vin­zioni, come pos­siamo pen­sare che la solu­zione di ogni male sia far eleg­gere i sena­tori anzi­ché farli votare dai Con­si­gli regionali?

E se poi va a finire che il «prin­cipe» con­cede la gra­zia e accetta l’elezione diretta dei sena­tori avremmo per caso un buon Senato e una accet­ta­bile riforma del testo della costi­tu­zione? Ma non scher­ziamo. Avremmo sol­tanto allun­gato la nostra ago­nia e data nuova linfa al lea­der indi­scusso del pen­siero unico e di governo.

Alziamo allora lo sguardo e lot­tiamo per la nostra riforma, accet­tiamo e rilan­ciamo la sfida, mostrando ai finti inno­va­tori il nostro volto «rivo­lu­zio­na­rio». È vero, il bica­me­ra­li­smo per­fetto è da supe­rare, ma per ragioni oppo­ste a quelle che la reto­rica poli­tica domi­nante afferma. Va supe­rato sia per affer­mare la cen­tra­lità del par­la­mento con­tro il domi­nio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rap­pre­sen­tanza poli­tica offesa da un sistema elet­to­rale che ne nega il valore subli­man­dolo nel fetic­cio della gover­na­bi­lità. Che ci si batta allora per una solu­zione che meglio ha espresso nel corso della sto­ria que­sta dop­pia esi­genza: un sistema mono­ca­me­rale affian­cato da una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale per rites­sere le fila della rap­pre­sen­tanza poli­tica strappata.

Sono pro­po­ste fuori dall’agenda poli­tica del momento. E dun­que qual­cuno si potrebbe chie­dere: chi ci ascol­te­rebbe? Ma per­ché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipen­derà da noi.

Se sapremo rac­con­tare una sto­ria per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo con­qui­starla. Potremmo, ad esem­pio, andare al refe­ren­dum costi­tu­zio­nale del pros­simo anno non per difen­dere un par­la­mento in ago­nia, ma per pro­vare a cam­biare lo stato di cose presenti.

Nella Gre­cia antica si distin­gueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vis­suta (bios). Più che chie­derci se c’è vita a sini­stra dovremmo inter­ro­garci su quale vita ci sia a sinistra.

Sembra paradossale, ma è tutto vero. Una buona base per cominciare a ragionare su che cosa possa essere l'equivalente della "sinistra" nel XXI secolo «Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato».

Il manifesto, 30 settembre 2015

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.

Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.

Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.

Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.

Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.

I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla. Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.

E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.

Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?

Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.

La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.

Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.

Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.

Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?

Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura l’educazione e alla gioia.

So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.

Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.

Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.

Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.

Atten­dere il mat­tino come una talpa.

Ripresentiamo un testo su Pietro Ingrao scritto per questo sito il 6 aprile 2005. Già allora eravamo nella fase in cui molti - troppi - faticavano a credere che la politica sia un'attività nobile.

eddyburg, 28 settembre 2015 (reprint)

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso - di profondamente e radicalmente diverso - dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta, perciò, su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani, alla fine, lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Anche qui, un altro ricordo. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; seduto ad un angolo del lungo tavolo sul podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando in ciascuna delle questioni che erano state sollevate, delle proposte che erano state formulate, degli interventi che erano stati pronunciati. Il merito delle cose: al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile, era questo che contava. Con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un’eccezione).

«Le apparenze sono di rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è un suo svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua».

La Repubblica, 26 settembre 2015
VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.

E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.

Ma che cosa accade quando la delega è sostanzialmente in bianco, o tale da attribuiti una larghissima discrezionalità, e il parere parlamentare viene considerato del tutto ininfluente? Si determinano una espropriazione del Parlamento e un trasferimento al Governo della parola ultima e definitiva addirittura in materia di diritti fondamentali. Un corto circuito che svuota di senso la garanzia costituzionale, fa nascere un problema di legittimità di questo modo di legiferare e chiamerà in causa la Corte costituzionale.
Non dimentichiamo che i temi dei controlli a distanza e delle intercettazioni erano stati finora affidati a norme di leggi la cui approvazione aveva visto il Parlamento come unico protagonista. Ora assistiamo ad un ulteriore accentramento di poteri nelle mani del Governo, che così si libera del Parlamento di cui viene certificata l’irrilevanza. E tutto questo avviene all’insegna di una forte perdita di trasparenza del processo legislativo nel suo insieme con il passaggio dalla sede parlamentare, sempre controllabile dall’opinione pubblica, alle opache stanze del governo.
Si ricordi che la caduta della “ legge bavaglio” sulle intercettazioni, di cui questo giornale fu protagonista, fu resa possibile proprio dall’esistenza di una situazione istituzionale che consentiva di intervenire e mobilitare l’opinione pubblica mentre l’iter parlamentare di quella legge era ancora in corso. Inoltre, i due casi qui discussi mostrano che si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione quella dei principi e dei diritti, di cui a parole viene dichiarata l’intoccabilità. Si possono accettare questi slittamenti progressivi, questa strisciante erosione delle garanzie?
Controlli a distanza e intercettazioni riguardano la stessa materia, quella della tutela della sfera privata. Vale la pena di ricordare, allora, che la norma sui controlli a distanza si trovava nello Statuto dei lavoratori e che - insieme a quelle sulle informazioni relative alle opinioni, sulle informazioni e i controlli medici - aveva creato la prima disciplina sulla sfera privata delle persone. Storicamente considerata come un diritto dell’”età dell’oro della borghesia”, il diritto alla privacy entra nel sistema italiano attraverso i diritti dei lavoratori, ventisette anni prima del riconoscimento per tutti della tutela dei dati personali.
Aggiornarla per effetto dell’incidenza delle nuove tecnologie? Certo, ma non come ha fatto il Governo, che la ha mantenuta per i controlli con telecamere, mentre la ha sostanzialmente cancellata per i controlli sui lavoratori effettuati raccogliendo i dati relativi all’uso di computer, telefoni cellulari, iPhone, iPad. La logica avrebbe voluto che le antiche garanzie fossero estese alle nuove tecnologie, assai più invasive di quelle passate perché consentono una sorveglianza continua su ogni mossa del singolo lavoratore, così legato da una sorta di guinzaglio elettronico a chi vuole controllarlo.
Con una singolare, e rivelatrice, schizofrenia istituzionale, mentre la sfera personale dei lavoratori viene assoggettata ad una assoluta trasparenza, si vuol far diventare opaca la sfera personale delle persone intercettate. Intendiamoci. La tutela di persone estranee all’oggetto delle intercettazioni merita d’essere tutelata, a condizione però che tutto questo non determini una compressione del diritto costituzionale all’informazione sul suo duplice versante, quello di chi informa e quello di chi deve essere informato.
Non dimentichiamo che il codice sull’attività giornalistica, a suo tempo approvato dal Garante per la privacy, prevede che le informazioni riguardanti le figure pubbliche sono tutelate solo se non hanno “alcun rilievo” per l’informazione dei cittadini. Questo è un criterio di carattere generale, che ha come fine la possibilità di esercitare un controllo diffuso sia su chi ha responsabilità e ruoli pubblici, e per ciò non può pretendere coperture di segretezza, sia su chi è chiamato a dare un seguito alle informazioni raccolte, magistrati compresi. Inoltre, le modalità di selezione delle informazioni prodotte possono incidere sul diritto di difesa, precludendo l’accesso a materiali che le parti potrebbero ritenere necessari appunto per le strategie difensive.
La garanzia di tutti questi diritti fondamentali viene sottratta non solo alla competenza diretta del parlamento ma, chiusa come sarà in una commissione ministeriale, pure allo sguardo dell’opinione pubblica, alla quale viene sottratta la possibilità di seguire il modo in cui si inciderà su quei diritti e di contribuire beneficamente ad una migliore disciplina. Si deve poi aggiungere che, come molti hanno sottolineato, la delega presenta oscurità e lacune tali da configurare, dietro l’apparenza delle precisazioni, un’attribuzione di larga discrezionalità a chi dovrà attuarla.
Saggezza vorrebbe che si interrompesse un procedimento legislativo così contorto e pericoloso. Si stralci al Senato la parte sulle intercettazioni e si restituisca al Parlamento il pieno potere di legiferare e all’opinione pubblica quello di far sentire la sua voce.
«Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni)».

La Repubblica, 26 settembre 2015

La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegno di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti.

Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini.

Questo provvedimento limita il diritto all’informazione. Certo, non replica la logica falsificatrice e manipolatrice della legge bavaglio che il governo Berlusconi ha cercato, invano, di far passare (e che una straordinaria mobilitazione di cittadini o operatori della stampa e dell’editoria fermò). Esso lascia tuttavia aperta una falla sulla liceità della pubblicazione dei verbali delle intercettazioni che lo rende criticabile e non difendibile. Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni).
L’argomento portato dal Pd per giustificare questa decisione è che la possibilità di pubblicazione dei testi delle intercettazioni potrebbe essere lesiva dei diritti di tutti coloro che sono in qualche modo coinvolti nelle conversazioni, benché il prosieguo delle indagini ne dimostri poi l’estraneità al reato. Ma l’udienza filtro, che il provvedimento approvato elimina, serviva proprio ad ovviare a questo problema, che è indubbiamente serio perché mette a repentaglio la dignità della persona con il rischio palese di consegnare il suo nome alla gogna mediatica. L’udienza filtro avrebbe dovuto “selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine”.
Il Pd si difende appellandosi al principio della privacy. Sostiene che mentre le intercettazioni non si devono impedire, nell’ammetterle si deve prestare attenzione a conciliare due diritti: quello all’informazione e quello alla privacy. Ma il testo approvato alla Camera più che conciliare questi due diritti sembra essere sbilanciato a favore del secondo. Stabilisce tra l’altro che nell’attuazione della delega concessagli dal Parlamento, il governo preveda la reclusione fino a quattro anni come pena per “la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente”.
La questione da far valere criticando questo provvedimento non è genericamente il potere della casta. Molto più concretamente si tratta qui di una questione di diritti civili. È quindi in nostro nome, come cittadini, che dobbiamo criticare questo provvedimento e chiedere che venga cambiato. In nostro nome perché, come ha spiegato Ezio Mauro su Repubblica Tv, la pubblicazione di certe intercettazioni consente, per esempio, ai cittadini di avere una conoscenza preliminare più completa dei candidati presenti nelle liste dei partiti. Il diritto all’informazione è in questo senso al servizio del diritto politico, perché consente agli operatori della stampa di fornire agli elettori dati e notizie che serviranno loro costruirsi un’opinione quanto più possibile informata su chi votare o non votare.
Anche per questa ragione basilare, l’idea di limitare la pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie dovrebbe mobilitare il nostro giudizio critico fino a chiedere al Pd e alla maggioranza un ripensamento. La dignità della persona, che questo provvedimento giustamente rivendica, deve essere rispettata anche in relazione al cittadino nel suo diritto ad essere informato, tenendo conto del fatto che nelle società complesse nessuno di noi ha il potere di accedere direttamente alle fonti delle informazioni e deve poter quindi contare su una sfera pubblica aperta e libera. Deve certamente essere possibile evitare di esporre le conversazioni di terzi casualmente finiti nelle intercettazioni senza limitare il diritto di cronaca; ma questo deve e può essere ottenuto senza menomare il diritto all’informazione, un pilastro della dignità del cittadino.

il manifesto) e di Federico Rampini (la Repubblica), 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il manifestoIL PAPA AL CONGRESSO: «BASTA VENDERE ARMI»

di Luca Celada

Alle camere riu­nite del Con­gresso, in pre­ce­denza ave­vano par­lato Chur­chill e De Gaulle, Boris Yel­tsin e qual­che mese fa, con note­vole stra­scico pole­mico, anche Ben­ja­min Nata­nyahu. Non era mai acca­duto però che lo facesse un lea­der reli­gioso come ha fatto ieri il papa nel secondo giorno del suo viag­gio ame­ri­cano. Pre­sen­tato come «il Papa, della Santa Sede» dallo spea­ker John Boeh­ner, è stato accolto con un calo­roso app­plauso dai 435 depu­tati e sena­tori del par­la­mento di Washing­ton a cui ha rivolto un discorso in inglese durato poco meno di un’ora.

Il papa ha rin­gra­ziato per l’invito a par­lare ai rap­pre­sen­tanti «nella terra dei liberi e la patria dei valo­rosi», cita­zione di una delle frasi più reto­ri­che dell’inno nazio­nale che in bocca al gesuita suda­me­ri­cano come Ber­go­glio ha acqui­sito un lieve sospetto di iro­nia, pur pro­du­cendo il primo di diversi applausi che lo hanno inter­rotto. Fran­ce­sco che si è dichia­rato «figlio dello stesso con­ti­nente» ha ripe­tu­ta­mente elo­giato il paese ospite senza rinun­ciare ad allu­dere indi­ret­ta­mente alle sue man­canze. Ha più volte invo­cato ad esem­pio la tra­di­zione demo­cra­tica e civile degli Usa cri­ti­cando allo stesso tempo il com­mer­cio di armi, xeno­fo­bia, disu­gua­glianza e mani­chei­smo che certo riguar­dano non poco gli Stati uniti come l’occidente tutto.

In alcuni pas­saggi il mes­sag­gio di Ber­go­glio è sem­brato indi­riz­zato più diret­ta­mente ancora all’Europa dell’emergenza rifu­giati che ha defi­nito «la più grave crisi dai temi della seconda guerra mon­diale». Par­lando delle mol­ti­tu­dini che si stanno river­sando a nord alla ricerca di vite migliori e mag­giori oppor­tu­nità, il papa ha detto che «non dob­biamo lasciarci spa­ven­tare dal loro numero, ma piut­to­sto vederle come per­sone, guar­dando i loro volti e ascol­tando le loro sto­rie» e «rispon­dere in un modo che sia sem­pre umano, giu­sto e fra­terno». Parole inci­sive nel paese in cui l’attuale front run­ner repub­bli­cano, Donald Trump, costrui­sce con­sensi con­ser­va­tori sulla pro­messa di edi­fi­care un muro sul con­fine mes­si­cano, ma forse rivolte ancor più diret­ta­mente all’Europa dei rigur­giti nazionalistici.

Ad ascol­tare in aula ieri erano pre­senti nume­rosi cat­to­lici (lo sono il 30% circa dei depu­tati) fra cui alcuni pre­ten­denti alla pros­sima pre­si­denza come i repub­bli­cani Chris Chri­stie e Marco Rubio. Il segre­ta­rio di stato e “part­ner diplo­ma­tico” del Vati­cano sul disgelo cubano, John Kerry, cui Fran­ce­sco ha tenuto a strin­gere la mano prima di salire sul podio affian­cato da Boeh­ner e dal vice­pre­si­dente Biden, entrambi cat­to­lici pra­ti­canti. Ai legi­sla­tori di un organo pro­fon­da­mente diviso lungo linee ideo­lo­gi­che il papa ha par­lato dei peri­coli della pola­riz­za­zione e del ridu­zio­ni­smo che divide il mondo in pre­cise cate­go­rie di bene e male, giu­sti e pec­ca­tori aggiun­gendo che la com­ples­sità del mondo con­tem­po­ra­neo con le sue «ferite aperte» esige distin­zioni più sot­tili della sem­plice demo­niz­za­zione dei nemici. «Imi­tare l’odio e la vio­lenza dei tiranni e degli assas­sini è il modo più sicuro per pren­dere il loro posto», ha aggiunto. «È (un mec­ca­ni­smo) che il popolo ame­ri­cano rifiuta».

È stato uno dei pas­saggi più simili dav­vero a una “pre­dica” fatta ai pro­pri ospiti, anzi visti i recenti tra­scorsi di inter­venti ame­ri­cani e di con­flitti utili solo a tra­ghet­tare intere regioni del mondo nel caos, è stato il momento in cui Fran­ce­sco si è avvi­ci­nato al discorso sha­ke­spe­riano di Marco Anto­nio nel Giu­lio Cesare: l’elogio reto­rico di Bruto per evi­den­ziarne i difetti. Non solo, infatti, gli Stati uniti – anche quelli del pro­gres­si­sta Barack Obama — danno scarse indi­ca­zioni di riflet­tere seria­mente sull’opportunità del pro­prio ege­mo­ni­smo geo­po­li­tico, ma il mani­chei­smo è un car­dine fon­da­men­tale della poli­tica e del carat­tere nazio­nale intriso di patriot­ti­smo ed eccezionalismo.

Un con­te­sto cioè in cui le affer­ma­zioni, pur mode­rate rispetto alla recente media di Fran­ce­sco, sono risal­tate mag­gior­mente. Davanti a un pub­blico che com­pren­deva nume­rosi pala­dini repub­bli­cani dello scon­tro di civiltà, il papa cat­to­lico ha rico­no­sciuto le atro­cità odierne com­messe nel nome di dio, aggiun­gendo che «nes­suna reli­gione è immune da forme di estre­mi­smo» e lan­ciando un monito con­tro ogni fon­da­men­ta­li­smo e ogni «vio­lenza per­pe­trata nel nome di una reli­gione, un’ideologia o un sistema eco­no­mico». Il papa non ha nomi­nato il capi­ta­li­smo, ma nella patria di Wall street sono ben note le sue vedute sul libe­ri­smo estremo e a Washing­ton le sue allu­sioni hanno avuto un peso particolare.

Non tutto nel discorso è stato obli­quo rife­ri­mento. Nell’ambito della tutela della vita in tutte le sue forme, il papa ha scelto di esporre senza ambi­guità la sua cri­tica alla pena di morte nel suo ultimo bastione occi­den­tale. Sull’immoralità del com­mer­cio di armi il papa è tor­nato ad inchio­dare l’ipocrisia dell’occidente: «Per­ché armi mor­tali sono ven­dute a coloro che pia­ni­fi­cano di inflig­gere indi­ci­bili sof­fe­renze a indi­vi­dui e societa?» Ha doman­dato. «Pur­troppo, la rispo­sta, come tutti sap­piamo, è sem­pli­ce­mente per denaro: denaro che è̀ intriso di sangue».

Un filo con­dut­tore del discorso è stata la giu­sti­zia sociale come valore asso­luto della poli­tica. «I nostri sforzi devono essere volti a ripor­tare la spe­ranza, ripa­rare le ingiu­sti­zie, man­te­nere gli impe­gni», ha detto il papa, «nello spi­rito di soli­da­rietà e della fra­tel­lanza». «Qual­siasi atti­vità poli­tica deve ser­vire e pro­muo­vere il bene della per­sona umana». «Ne con­se­gue che non può essere sot­to­messa al ser­vi­zio dell’economia e della finanza», ma deve invece espri­mere il «nostro insop­pri­mi­bile biso­gno di vivere insieme nell’unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comu­nità che sacri­fi­chi gli inte­ressi par­ti­co­lari per poter con­di­vi­dere, nella giu­sti­zia e nella pace, i suoi bene­fici». Dette in un aula dove anche la tutela pub­blica della salute viene rego­lar­mente denun­ciata come ana­tema socia­li­sta, le parole hanno ancora una volta assunto un peso par­ti­co­lare. Se fos­sero rima­sti dubbi su quale volto del cat­to­li­ce­simo voglia sdo­ga­nare nel suo viag­gio ame­ri­cano, Fran­ce­sco ieri ha scelto di ono­rare la memo­ria di quat­tro ame­ri­cani: Lin­coln, eman­ci­pa­tore degli schiavi, Mar­tin Luther King com­bat­tente per l’uguaglianza, l’intellettuale cister­cense Tho­mas Mer­ton e Doro­thy Day fon­da­trice del movi­mento Catho­lic Wor­ker, mili­tante paci­fi­sta, fem­mi­ni­sta e ope­rai­sta pro­ta­go­ni­sta di lotte sociali dalle suf­fra­gette all’opposizione alla guerra del Vietnam.

La Repubblica«NO ALLA PENA DI MORTE E AL COMMERCIO DI ARMI».
IL PAPA “PROGRESSISTA” AMMONISCE IL CONGRESSO
di Federico Rampini
Washington. «La maggior parte di noi sono stati stranieri. Ricordiamo la regola d’oro: fai agli altri ciò che vorresti sia fatto a te. L’America è stata grande quando ha difeso la libertà e i diritti per tutti, con Lincoln e Martin Luther King». Papa Francesco è il primo pontefice nella storia a parlare al Congresso americano a Camere riunite. Conquista Washington con un discorso appassionato e anche duro: chiede l’abolizione della pena di morte e della vendita di armi, invoca politiche di accoglienza per immigrati e profughi, un impegno contro le diseguaglianze, la lotta al cambiamento climatico. Sono i grandi temi del suo pontificato ma dentro l’aula del Congresso, di fronte ai legislatori della superpotenza mondiale, assumono un peso politico enorme.
Standing ovation”, è unanime l’applauso in piedi al suo arrivo, ma via via che il Papa pronuncia il suo discorso gli applausi diventano più schierati e selettivi. «Un discorso nettamente progressista», lo giudicano a caldo tutti i media americani dal New York Times al Washington Post, da Huffington Post a Politico.com. L’entusiasmo invece è travolgente e incondizionato nella folla che assiste fuori: in 50.000 lo seguono sui maxischermi montati appositamente nel West Lawn, vasto prato sulla collina del Campidoglio nella capitale federale.
Papa Bergoglio ha misurato il giorno prima le affinità elettive con Barack Obama. Ma è un’America diversa quella che lo aspetta al Congresso. Questa è la tana dei leoni, una maggioranza di repubblicani, in piena campagna per la nomination presidenziale: a destra è in voga la xenofobia di Donald Trump, il negazionismo climatico dei Fratelli Koch, il sostegno alla lobby delle armi e alla pena di morte, il rifiuto di politiche fiscali redistributive. Su ciascuno di questi temi il Papa non fa concessioni, non smussa le asperità. Parla davanti a un Congresso dove oltre a senatori e deputati ci sono governatori degli Stati, candidati presidenziali, e tanti Vip loro ospiti. Con una sovra-rappresentazione del mondo cattolico: sono cattolici il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato John Kerry, il presidente della Camera (repubblicano John Boehner) e la capogruppo democratica Nancy Pelosi. 31% di cattolici al Congresso, mentre nella popolazione americana sono il 22%.
American Dream e accoglienza degli stranieri, è il primo tema forte del discorso, Bergoglio lo affronta partendo dalla sua biografia e lo declina parlando di Americhe al plurale. «Milioni di persone sono venute qui inseguendo il sogno di costruirsi un futuro nella libertà. Noi, i popoli di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri perché molti di noi lo erano. Ve lo dico da figlio di immigrati, sapendo che molti di voi discendono da immigrati. Migliaia di persone continuano a viaggiare verso Nord in cerca di una vita migliore, opportunità per sé e per i figli. Non è quello che vogliamo noi stessi?».
Prende di mira i quattro mali più gravi del nostro tempo: odio, avidità di denaro, povertà, inquinamento. Salta però un passaggio sul ruolo del denaro nella politica, e c’è un riconoscimento verso l’economia di mercato che viene notato dagli americani: «L’impresa ha una vocazione nobile, per sconfiggere la miseria bisogna creare ricchezza, ma le aziende devono essere al servizio del bene comune». Sulla tutela dell’ambiente il Papa chiama in causa direttamente il Congresso, dove tante riforme dell’Amministrazione Obama si sono arenate: «Non ho dubbio che gli Stati Uniti e questo Congresso hanno un ruolo importante da giocare, questo è il momento di azioni coraggiose per contrastare i più gravi effetti del degrado ambientale causati dall’attività umana».
E’ il passaggio sugli immigrati quello che rende più vistosa la differenza di reazioni. «Non devono spaventarci i loro numeri, dobbiamo guardarli come persone, osservare i loro volti, ascoltare le loro storie, reagire nel modo migliore alla loro situazione ». Dentro l’aula del Congresso solo i democratici applaudono. Fuori, sul grande prato, è un boato di consensi: molti ispanici sono venuti ad ascoltarlo da tutta l’America.
Gelo a destra anche quando il pontefice invoca l’abolizione della condanna capitale: «Chiedo che cessi ovunque nel mondo la condanna a morte, ogni essere umano ha una dignità inalienabile, la società può solo beneficiare dalla riabilitazione dei condannati per crimini ». Scottante l’intervento sulle armi: il Papa non condanna solo il grande traffico internazionale di armamenti ma anche le vendite individuali, un tema tabù per la destra americana allineata con la lobby della National Rifle Association. La destra applaude rinfrancata quando il Papa difende il valore tradizionale della famiglia.
E tuttavia anche qui Bergoglio inserisce un riferimento alla crisi economica, alla disoccupazione, alle diseguaglianze: «I giovani sono sotto pressione, non formano famiglie perché non vedono un futuro di possibilità». Denuncia la «spirale della povertà che intrappola tante persone»: tema centrale dell’Assemblea Onu a cui parlerà oggi. Le Nazioni Unite devono fare un bilancio del Millennium Goal. La Banca mondiale rileva che ci sono 148 milioni di poveri in più, se la soglia della povertà assoluta viene aggiornata.
Un discorso poco “religioso”: l’unico riferimento esplicito alle Scritture è una citazione di Mosé, cioè la figura biblica riconosciuta dalle tre religioni monoteiste ebrei cristiani e musulmani. Il discorso al Congresso si chiude con l’augurio che il Sogno Americano resti fedele alla sua ispirazione originaria: pace, libertà, difesa degli oppressi. Prima di volare a New York il papa celebra messa in spagnolo alla chiesa di San Patrizio dove sono radunate famiglie povere. Lì torna sul tema che gli è più caro: «Il figlio di Dio venne al mondo come un homeless . Seppe cosa voleva dire cominciare la vita senza un tetto ». Poche ore prima Los Angeles, metropoli glamour della ricchissima California, aveva dovuto prendere una misura senza precedenti: la proclamazione di uno stato d’emergenza per l’aumento degli homeless.
«L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi».

La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della “primavera araba”. Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno.

Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese?
Già la condizione femminile è tra le più scandalose del mondo civile. Il fatto di esprimere un’opinione, di osare opporsi a un sistema arcaico, ancorché perfettamente aggiornato sotto il profilo tecnico, è punito con la morte. Ma nel caso del giovane Ali, la punizione è già cominciata: prima sarà decapitato, poi crocifisso e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione. Immaginiamo che cosa sta passando quest’uomo nell’anticamera della morte: è già mezzo morto, morto di paura, morto di calvario anticipato. È diventato il simbolo della vittima la cui vita è stata confiscata da un regime in cui i diritti umani rientrano nella sfera del virtuale.
Anche se quello Stato ascoltasse le proteste internazionali e annullasse la condanna, resterà il problema dell’esistenza di un sistema medievale che non si può né criticare dall’interno né esautorare dall’esterno. Perché è potente, molto potente. La ricchezza gli procura i miliardi sufficienti per comprare qualsiasi cosa, dai beni materiali alle coscienze. Nessun paese ha voglia di contrastare l’Arabia Saudita. Sì, c’è l’Iran, ma vorrebbe soppiantarla per diventare il guardiano dei luoghi sacri e dei diritti umani non gli importa un fico. Tutti i paesi occidentali hanno progetti di contratti con l’Arabia e non vogliono sacrificarli per la vita di un ragazzo. Certo diversi capi di Stato hanno chiesto di annullare l’esecuzione di Ali, ma non vogliono spingersi più in là di così. In quello risiede la potenza dell’Arabia Saudita. Fa quello che vuole e non dà retta a nessuno.
Questa sentenza ricorda stranamente la condanna e l’esecuzione del grande poeta sufi (mistico) del decimo secolo Al Hallaj. Condannato a morte per aver detto, parlando del suo amore per Dio, “Ana Al Haq” (Io sono la Verità), il suo corpo è stato evirato e crocifisso. È marcito al sole. Al Hallaj era impaziente di raggiungere Dio, perché la sua passione per la divinità l’aveva fatto rinunciare ai beni e ai piaceri materiali della vita. Ma se le autorità saudite hanno deciso di crocifiggere il giovane Ali non è in omaggio al poeta sufi ma semplicemente per crudeltà e arroganza. La loro potenza è nera come l’oro che li ricopre e che li rende così disumani.
Noam Chomsky e le convinzioni sulla rinascita di una sinistra radicale negli Usa, i germi di nuova sinistra in Europa continentale (Syriza e Podemos), Regno Unito (Jeremy Corbin) e USA (Bernie Sanders), sul potenziale della gente a produrre cambiamento radicale.

Jacobin, 22 settembre 2015

In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?

«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.

«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».

La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?

«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.

«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.

«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».

Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?

«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.

Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».

Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?

«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.

«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.

«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».

Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?

«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.

Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?

«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.

Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?

«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .

«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.

Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».

Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?

«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.

«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.

E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.

«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».

Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.

Prosegue il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Un intervento che richiama provvidamente l'attualità pensiero di un gigante, più studiato e apprezzato all'estero che nel suo paese.

Il manifesto, 12 settembre 2015

Gram­sci, come risorsa per la defi­ni­zione di un nuovo sog­getto poli­tico di sini­stra. Sem­bra che si sia final­mente giunti alla deci­sione di costi­tuire in Ita­lia un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra. Provo allora ad elen­care qual­che snodo deci­sivo come con­tri­buto alla discus­sione. E’ impor­tante par­tire con idee chiare, supe­rando ogni sorta di per­ples­sità e atten­di­smo. In que­sto con­te­sto ci può aiu­tare la ric­chezza dell’attività gior­na­li­stica e poli­tica di Gram­sci degli anni tori­nesi. Le que­stioni affron­tate, poi, da Gram­sci nei Qua­derni, sono tante e com­plesse che riman­dano ai temi di stretta attua­lità dei giorni nostri, là dove Gram­sci descrive una classe bor­ghese che diventa casta, e per man­te­nersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sot­to­va­lu­tati i temi sto­rici della «teo­ria della prassi» e i nodi con­cet­tuali di «società civile», «ege­mo­nia», «rivo­lu­zione passiva».

Vor­rei però oggi sof­fer­marmi sull’analisi gram­sciana di «coscienza di classe» e «ruolo e fun­zione del par­tito». Come spunto di rifles­sione per la costru­zione in Ita­lia di un nuovo sog­getto poli­tico a Sini­stra, che riven­di­chi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.

Gram­sci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del con­te­sto sto­rico) non ci sia sog­get­ti­vità, quindi sia ine­vi­ta­bile la subal­ter­nità al potere domi­nante. Senza coscienza di classe, la massa è indis­so­lu­bil­mente legata al domi­nio della bor­ghe­sia capi­ta­li­stica. La con­qui­sta della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel pro­cesso che potrà por­tare a costruire un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra, poi­ché signi­fica dive­nire con­sa­pe­voli del con­flitto sociale e poli­tico in atto. Così come lo sono stati il par­tito Gia­co­bino nella Rivo­lu­zione fran­cese del 1789, i Mille di Gari­baldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il par­tito bol­sce­vico nella Rivo­lu­zione d’Ottobre il nuovo sog­getto poli­tico è chia­mato a svol­gere una fun­zione peda­go­gica in ter­mini ege­mo­nici e non auto­ri­tari, con l’autorevolezza e il pre­sti­gio della direzione.

Com­pito primo di que­sta nuova forza poli­tica di Sini­stra è, in altri ter­mini, farsi sog­getto pro­mo­tore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere diri­gente già prima di con­qui­stare il potere gover­na­tivo, quindi con­ce­pire da subito i germi della nuova società, ini­ziando a costruire lin­guaggi alter­na­tivi, codici, forme, rela­zioni, espe­rienze sot­tratte al domi­nio dello sfrut­ta­mento capi­ta­li­stico e finan­zia­rio. Quindi riba­dire con forza i temi della Sini­stra: ruolo pub­blico nel mer­cato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pen­sioni, scuola pub­blica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gram­sci il par­tito è un insieme di diri­genti all’altezza delle neces­sità e in grado di stare nel conflitto.

«Coscienza e orga­niz­za­zione» costi­tui­scono per Gram­sci un bino­mio indis­so­lu­bile. Il dovere più urgente, dice Gram­sci, è il pro­blema di orga­niz­za­zione, di forza, di corpi fisici e di cer­vello, di orga­niz­za­zione delle menti cioè for­ma­zione e coor­di­na­mento. Per Gram­sci orga­niz­zare è sino­nimo di dire­zione, di con­sa­pe­vo­lezza, di com­pe­tenza delle cono­scenze e di coe­renza sul piano pra­tico.

Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», carat­te­ri­stico e fon­dante della teo­ria gram­sciana del par­tito. Lavo­rare tra le masse vuol dire essere con­ti­nua­mente pre­senti, essere in prima fila in tutte le lotte. Stra­te­gico e deci­sivo è quindi creare gruppi diri­genti «orga­nici e ade­guati» per la crea­zione e la for­ma­zione di un’autonomia cul­tu­rale e poli­tica che sap­pia dare rispo­ste con­crete, qui e ora al «Socia­li­smo del XXI secolo». In que­sto arci­pe­lago di movi­menti di Sini­stra, fon­da­men­tale sarà la pre­senza di un forte e nuovo Par­tito Comunista.

Il caso Grecia ha mostrato che la vera natura dell'Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche».

Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015


L'estate del 2015 resterà una data fatale per l’Unione europea. È la prima volta che è emersa la possibilità che un paese esca dalla zona euro e nel medesimo tempo la crisi greca ha dimostrato, malgrado il ricordo di tutti i padri costituenti, che la vera natura della Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche in vista di costituire un grande mercato con regole ferree, funzionando come una super banca oppure andarsene. Non si tratta di aiutarsi a superare debolezze storiche mettendosi in condizioni di crescere, ma di garantire che ogni credito sia rimborsato, rigidamente nei tempi previsti dai trattati o simili. Non per caso l’indice di sviluppo degli stati del sud oscilla dallo zero virgola all’uno virgola, cioè al di sotto di ogni possibilità di crescita.

La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.

Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.

Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.

In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.

Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.

Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.

A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.

L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.

Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.

«Le sfide del cristianesimo la minaccia dell’Is il ruolo femminile e il pontificato di Francesco Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa dedicato a “Misericordia e perdono”». La Repubblica,

9 settembre 2015

«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore

Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».

Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».

I monaci dal V secolo fecero scempio dell’arte pagana Erano i talebani del momento

Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci – lo dico con dolore, mi strappa il cuore – ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola “monaco”: designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».

Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».

Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».

La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordina- ri, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad , affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».

Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».

Enzo Bianchi: «Critichiamo l’Islam ma poi emarginiamo ancora le donne»

I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto.
«Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».

Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».

«Di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali».

La Repubblica, 7 settembre 2015

ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.

Con l'unica condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».

Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».

Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.

Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.

Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.

Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.

Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».

Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto — l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.

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