«La Repubblica, 17 ottobre 2015
IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare.
La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury.
«Questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti».
Huffingtonpost.it, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
Tempo fa abbiamo visto le immagini, a Film Luce, di Marchionne e Renzi in visita allo stabilimento Fiat di Melfi. Abbiamo sentito resoconti roboanti del successo dei due leader tra i dipendenti dell'azienda, desiderosi solo di farsi un selfie con loro. In realtà il personale attorno ai due era accuratamente selezionato, ma forse non abbastanza visto che sulla rete ha spopolato un video, ove si vedeva una lavoratrice ostentatamente rifiutare la stretta di mano al presidente del consiglio. In quelle immagini di regime abbiamo visto lo sfolgorio delle tute bianche dei lavoratori, presentate come simbolo della tecnologia avanzata nella costruzione delle automobili. In realtà le condizioni di lavoro a Melfi sono durissime, la fatica e lo stress son quelle dei tempi di Charlot, ma le tute bianche fanno sembrare i lavoratori come se operassero nella Silicon Valley.
Il bianco però comporta un problema, si sporca facilmente e per le donne della Fiat questo è diventato un doppio assillo. Sì perché i pantaloni bianchi son ancora più difficili da portare quando la diversità biologica delle donne reclama i suoi diritti. Alla catena di montaggio non ci sono pause in più, non ci sono lavori più facili, non ci si può neppure sedere. Verso la diversità delle donne non c'è alcun rispetto, anzi alcune operaie hanno denunciato di dover lavorare appiccicate ad addetti maschi, perché il taglio dei tempi ha comportato anche quello degli spazi.
Non potendo avere il sacrosanto riconoscimento dei propri tempi biologici, come forma di tutela elementare della propria dignità le lavoratrici hanno chiesto almeno di poter indossare pantaloni scuri sotto i giubbotti bianchi. Apriti cielo, la burocrazia aziendale è andata in tilt. Come? Assumersi la responsabilità di cambiare il colore alle tute, renderle bicolori addirittura? Ma scherziamo, sarebbe un messaggio allusivo al disordine, sovversivo persino. Il gran capo di Detroit non lo accetterebbe mai, avranno pensato nel terrore i capetti di Melfi e quindi hanno respinto la richiesta.
Ma quelle operaie sono abituate a non arrendersi tanto facilmente e così hanno lanciato una campagna pubblica per la loro dignità nel vestire. 500 di esse, tutte quelle non assunte con contratti a termine, hanno sottoscritto una petizione che chiedeva i pantaloni scuri. A questo punto la direzione aziendale non poteva più ignorare la richiesta, ma, come avviene in tutti i regimi stupidamente autoritari, la risposta ha peggiorato la situazione.
I manager della Fiat hanno subito convocato gli amici di Fim, Uilm, Fismic, Ugl, i sindacati firmatari di tutto e che tutto son sempre disposti a firmare. In una riunione composta di soli maschi si è deciso di respingere ancora una volta la richiesta di pantaloni scuri, ma di offrire alle operaie un super pannolone da indossare sotto il bianco. Con goffo francesismo azienda e sindacati complici hanno annunciato che le operaie avrebbero avuto delle coulottes benignamente pagate dalla Fiat.
Naturalmente le lavoratrici si son giustamente ancora più arrabbiate e la vicenda è ancora aperta. A chi esalta la flessibilità della lavoro, la competitività, la produttività come basi della modernità, questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti. Matteo Renzi ha recentemente affermato che a Sergio Marchionne dovrebbe essere fatto un monumento. Sarebbe più realistico se in esso il capo della Fiat fosse raffigurato mentre indossa un pannolone.
«Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazionale della sinistra. Per questo la nuova capacità utopica della sinistra deve fondarsi su una nuova concezione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione politica planetaria del potere».
Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
C’è vita se c’è capacità utopica, dove per utopia s’intende anche l’immaginazione di “luoghi di vita” buoni, desiderati, da realizzare. La sinistra - l’insieme delle forze sociali organizzate anche piano politico al servizio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha purtroppo sperimentato a sue spese la perdita di immaginazione e capacità utopica.
I gruppi dominanti sono riusciti, a partire dagli anni ’70, ad imporre nuovamente la loro narrazione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni principali. Da un lato, ritornati al potere all’epoca di Reagan e Thatcher, hanno operato una massiccia de-costruzione ideologica e sociale dello Stato del welfare. Dall’altro, non avendo sviluppato una visione politica autonoma della scienza e della tecnologia, la sinistra non ha potuto giocare alcun ruolo innovatore influente sulle strategie di controllo ed uso delle nuove tecnologie del vivente, cognitive, dell’informazione e della comunicazione, energetiche e delle tecnologie dei materiali, sulla base delle quali l’economia mondiale e le società “sviluppate” sono state profondamente ristrutturate.
Le nuove narrazioni “positive” del mondo e delle trasformazioni sociali sono cosi diventate monopolio dei gruppi dominanti. Le sinistre sono state relegate al ruolo secondario di “forze di reazione”. I dominanti hanno invece rafforzato il loro potere in quanto fissatori dell’agenda politica planetaria: al centro del dibattito filosofico, politico e culturale c’ è stata solo la loro utopia (mistificatrice) della globalizzazione economica, da loro data come creazione inevitabile e irresistibile (senza alternative) dei luoghi di vita dell’umanità.
Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risveglio utopico a sinistra. Mi riferisco alla tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, al principio di sostenibilità in alternativa all’imperativo della crescita economica infinita, al successo contro l’Ami ed l’Omc (Seattle), al bilancio partecipativo, al buem vivir, al lancio del Forum sociale mondiale. Purtroppo, si è trattato di un fenomeno di corta durata. L’incapacità delle sinistre d’integrare e federare le loro forze in azioni e programmi comuni mondiali durevoli, ha permesso ai gruppi dominanti, di sconfiggerle ai vari livelli nazionali in nome della nuova modernità legata alla “globalizzazione delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche” e della lotta contro il preteso nuovo nemico mondiale, il terrorismo. Se a ciò si aggiungono le ripetute crisi economiche e finanziarie che da più di 25 anni hanno devastato i tessuti sociali e le comunità locali, nazionali, continentali e mondiali, si capisce il perché mai come oggi la potenza, violenta del sistema dominante è stata cosi grande a livello mondiale (il pianeta) e globale (in tutti i campi).
Due gli insegnamenti generali per le sinistre del mondo, ed in particolare per la sinistra in Europa. Primo. Non v’è capacità utopica da solitari. La grande forza utopica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione europea del debito) è stata duramente calpestata perché nessun altro governo e popolo europeo se n’è fatto alleato esplicito e convinto. Ri-costruire una capacità utopica forte e solida della sinistra è un’opera di lungo periodo che deve avvenire su basi europee e mondiali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).
Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazionale della sinistra. La lotta contro il diritto di proprietà intellettuale sul vivente deve essere continentale e mondiale. Lo stesso vale della lotta, da rinnovare, contro gli armamenti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fattori strutturali generatori dei processi d’impoverimento per natura transnazionali e mondiali. Per questo la nuova capacità utopica della sinistra deve fondarsi su una nuova concezione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione politica planetaria del potere. Secondo. Non v’è riconquista della capacità utopica senza un forte radicamento “locale” delle innovazioni grazie alla promozione di “comunità di vita” glocali, cioè senza la traduzione concreta a livello delle comunità locali dei principi e delle strategie mondiali. Questo significa l’esistenza di forze sociali portatrici di interessi collettivi mondiali ma localmente diversificati e plurali. In passato, i contadini, gli operai, la piccola e media borghesia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glocale per definizione, di esprimere la capacità utopica del mondo. Il futuro della sinistra è l’umanità, coscienza sociale della globalità della vita e della mondialità della condizione umana (cittadinanza universale plurale).
«Sappiamo bene che contro un avversario formidabile abbiamo solo il risveglio della ragione e delle coscienze. Un percorso difficile. Ma comunque esiste una rabbia civile che non consente il silenzio. Talvolta, parlare è un dovere che non tollera calcoli sottili, pur se nessuno ascolta».
Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si presentava al mondo con Ladri di biciclette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.
Se ladro è chi illecitamente si appropria di un bene che non gli appartiene e sul quale non ha titolo a mettere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno approvando la riforma della Carta fondamentale. Perché non avevano legittimazione sostanziale a farlo, per la incostituzionalità della legge elettorale. Perché non avevano mai ricevuto alcun mandato dal popolo italiano, non essendo mai stata la riforma — questa riforma — illustrata e discussa in un contesto elettorale per l’inserimento in un programma di governo. Perché hanno usato ogni mezzo e forzature di prassi e regolamenti per mettere le mani su un bene comune e prezioso, scrigno di identità e storia del paese. Perché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.
Ma il furto non si è certo consumato ieri, con il voto di 179 anime morte per il disegno di legge Renzi-Boschi. L’attività criminosa viene da lontano, dal patto del Nazareno e dalla proposta del governo. È continuata e aggravata, per le ripetute minacce di crisi, gli argomenti inconsistenti quando non mendaci, la sordità assoluta per critiche e dissensi, il disprezzo per il confronto democratico. E quel che stava per accadere è stato assolutamente chiaro quando l’esangue minoranza Pd ha esalato l’ultimo respiro, seguendo il pifferaio magico di Palazzo Chigi. Si è così condannata alla irrilevanza, unico peccato mortale che la politica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i propri antenati, i veri padri fondatori della Repubblica. Come quegli eredi incapaci che dissipano nel vizio e nel gioco il patrimonio di grandi e nobili famiglie. Un partito non più liquido, ma liquidato.
Tutto era già scritto. Ma proprio per questo non siamo d’accordo con Zagrebelsky. Il suo argomento è che firmare l’articolo pubblicato sul manifesto da parte di alcuni costituzionalisti era inutile, non essendo possibile farsi ascoltare. Altra cosa sarà quando ci sarà il confronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel confronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La battaglia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cercato la chiave del consenso populistico e demagogico, in una evidente prospettiva elettoralistica. Anche il referendum sarà uno scontro plebiscitario sulla persona del leader e sull’affidamento fideistico alle sue scelte. La campagna referendaria è già in corso anche se il procedimento ex art. 138 della Costituzione è ancora lontano dal concludersi. Si intreccia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre ballerine sui posti di lavoro, l’ossessiva proiezione di un Italia nuova che riparte.
Sappiamo bene che contro un avversario formidabile abbiamo solo il risveglio della ragione e delle coscienze. Un percorso difficile. Ma comunque esiste una rabbia civile che non consente il silenzio. Talvolta, parlare è un dovere che non tollera calcoli sottili, pur se nessuno ascolta. Inoltre, le battaglie si fanno anche sapendo che si può perdere. Proprio la nascita della Repubblica insegna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento potevano sembrare disperatamente inutili. Tuttavia le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difenderne l’eredità.
Il modesto passo avanti compiuto dall'Italia per i diritti di cittadinanza, le gravi contraddizioni da sanare e la grande distanza dal raggiungimento dello "ius soli".come è negli USA.
La Repubblica, 15 ottobre 2015
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio.
Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante).
Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.
L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.
Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.
Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.
Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare?
La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.
». Il manifesto, 14 ottobre 2015
Avevamo chiesto al professor Gustavo Zagrebelsky di sottoscrivere l’articolo che abbiamo pubblicato ieri con le firme di sei tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, e che ripubblichiamo oggi qui accanto. Zagrebelsky ha preferito non firmare, ma ha aggiunto delle motivazioni che riteniamo valga la pena far conoscere – con il suo consenso — ai nostri lettori.
«Dopo averci pensato, ho deciso di non firmare, non perché non sia d’accordo sugli argomenti, proposti all’attenzione dei responsabili della riforma. La ragione — sostiene l’ex presidente della Corte costituzionale - è un’altra: la totale irrilevanza dell’invito alla riflessione presso chi si appella semplicemente all’argomento della forza.
Una delle espressioni più ricorrenti, in questo tempo di autoritarismo non solo strisciante ma addirittura conclamato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una concezione della democrazia da scuola elementare! Dunque, che cosa serve discutere? Un bel nulla.
Oltretutto, ho l’impressione che i nostri riformatori, tronfi dei loro numeri raccogliticci in un consesso che ha raggiunto il grado più basso di credibilità, non agiscano in libertà, ma come esecutori di progetti che li sovrastano, di cui hanno accettato di farsi passivi e arroganti esecutori in nome di interessi o poco chiari, o indicibili ch’essi riassumono nel ridicolo nome di «governabilità»: parola di cui non conoscono nemmeno il significato. Non dissento nel merito, ma sono certo della totale inefficacia dell’invito al confronto.
Mi astengo, dunque, dal firmare - conclude Zagrebelsky -, i tempi dell’impegno verranno quando saranno chiamati i cittadini a esprimersi, saranno duri e imminenti. Allora sarà un’altra storia».
Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.
Il manifesto, 13 ottobre 2015
Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».
Stiamo sulla nave dei folli. Non è folle che un parlamento eletto con una egge giudicata incostituzionale si sia assunto il potere di decidere «una sostanziosa riscrittura» (dicesi "riscrittura") della Costituzione?. La
Repubblica, 12 ottobre 2015
La riforma contiene molte novità, la più importante delle quali è certamente la fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo — e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo — che si sposta alla Camera dei deputati. Ma ce ne sono molte altre. Una complicata elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai cittadini al momento di eleggere i Consigli regionali. L’addio ai senatori a vita. La conferma dell’immunità parlamentare anche per Palazzo Madama. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. Ma vediamo uno per uno quali sono i punti principali della riforma.
I CONSIGLIERI-SENATORI
I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100: 95 eletti dalle Regioni ( 74 consiglieri e 21 sindaci, uno per regione più uno ciascuno a Trento e Bolzano) più 5 senatori di nomina presidenziale, che però non saranno più a vita, salvo gli ex capi dello Stato, ma resteranno in carica sette anni. Fatta eccezione per la prima volta i senatori non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali (e dunque decadranno con essi).
E’ qui che Palazzo Madama ha introdotto la modifica più significativa: i senatori saranno sì eletti dai consiglieri regionali, come era previsto nel testo precedente, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, applicando una legge elettorale che dovrà essere varata dal Parlamento entro sei mesi dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Per i senatori non è più prevista l’indennità (riservata ai soli deputati) ma viene confermata l’immunità parlamentare: non potranno essere perquisiti, intercettati o arrestati senza l’autorizzazione dell’aula.
ADDIO BICAMERALISMO PERFETTO
Cosa faranno i nuovi inquilini di Palazzo Madama? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa. Potrà verificare l’attuazione delle leggi, nominare commissioni d’inchiesta ed esprimere pareri sulle nomine governative, ma da lì dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali.
Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati, ma il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Potrà esprimere proposte di modifica a una legge (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori potranno esprimersi anche sulle leggi di bilancio, ma avranno solo 15 giorni e dovranno raggiungere la maggioranza assoluta. Anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato isegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.
Cambierà radicalmente anche il potere del governo nel procedimento legislativo: l’esecutivo avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come “ essenziali per l’attuazione del programma di governo” la Camera si pronunci entro il termine di 70 giorni (prorogabile di altri 15 in casi eccezionali). Alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione “senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.
LA CONSULTA E I REFERENDUM
Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che dovrà pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei Senatori, ma “entro dieci giorni dall’approvazione della legge” (anche se una norma transitoria renderà possibile il ricorso per l’Italicum). La quota di giudici oggi eletta dal Parlamento in seduta comune viene divisa tra le due Camere: tre a Montecitorio e due a Palazzo Madama. Nuove regole per le consultazioni popolari. Vengono previsti i referendum propositivi e viene fissato un quorum più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche) per i quesiti sui quali sono state raccolte almeno 800 mila firme. Per le leggi di iniziativa popolare, la soglia viene alzata da 50 mila a 150 mila firme.
LO STATO E LE REGIONI
Vengono soppressi il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e le Province, finora protette dalla Costituzione. Nello stesso tempo, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni avranno la possibilità di imporre tributi autonomi.
QUIRINALE, CAMBIA IL QUORUM
Per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale non basterà più la maggioranza assoluta. Scompariranno i delegati regionali, ma cambierà anche il numero di votazioni per le quali sarà richiesta la maggioranza dei due terzi, un quorum altissimo che solo in pochi (e tra questi Ciampi, Cossiga e Napolitano) sono riusciti a superare. Attualmente la Costituzione impone questo quorum fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta, ovvero la metà più uno. La nuova norma invece il quorum dei due terzi per primi tre scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e alla settima votazione in poi lo abbassa ai tre quinti dei votanti (non degli aventi diritto). Non più, dunque, alla maggioranza assoluta.
Economia battuta dai diritti personali. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi.
La Repubblica, 12 ottobre 2015
Di fronte ad una politica aggressivamente ripiegata sulla sola economia, sono i giudici che cercano di mantenere viva l’Europa dei diritti. Lo ha confermato qualche giorno fa una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dichiarato illegittima una decisione della Commissione europea del 2000 sul trasferimento dei dati personali dai paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti perché violava il diritto fondamentale alla tutela della privacy. La sentenza nasce da un caso riguardante Facebook, è stata certamente influenzata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio elettronico americano, ma mette in evidenza un vizio d’origine dell’intesa tra Commissione europea e amministrazione degli Stati Uniti, sul quale bisogna riflettere.
«Anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, la società civile, creano ricchezza. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza».
La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.
«È chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente».
Il manifesto, 7 ottobre 2015
Da un lato il governo lavora per snaturare e limitare il diritto di sciopero. Esso, contrariamente alla nostra Costituzione, non sarebbe più un diritto in capo al lavoratore, ma un atto consentito solo a sindacati aventi un certo livello di rappresentanza e di consenso tra i dipendenti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cambierebbe. Il grimaldello sarebbe la questione della «rappresentanza», vecchio nodo irrisolto. Solo che qui si parla di una rappresentanza rovesciata. Non quella rispetto ai lavoratori, in base alla quale si dovrebbe giungere all’ovvia conclusione che almeno gli accordi per avere validità erga omnes dovrebbero essere approvati da un voto referendario di tutti i lavoratori cui si riferiscono. E magari bocciati, come è successo recentemente alla Fca di Marchionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garanzia che ciò che le sigle sindacali firmano diventi per ciò stesso norma imposta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scrivere di proprio pugno le regole della contrattazione.
Senza neppure il parere delle organizzazioni sindacali e della Confindustria, che comunque con Squinzi si allinea preventivamente. L’occasione sarebbe fornita da uno dei decreti delegati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla introduzione del salario minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Grazie a questo si cancellerebbe la contrattazione salariale nazionale e quindi si toglierebbe linfa vitale al contratto collettivo nazionale di lavoro, mentre l’incremento salariale sarebbe abbandonato alla contrattazione aziendale – per chi se la può permettere -, ma vincolato agli aumenti di produttività.
Mettendo insieme i due elementi qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente. Al più grande e organico attacco al movimento operaio mai portato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accompagnerebbe alla aziendalizzazione del welfare state, poiché alla contrattazione aziendale verrebbe affidata anche quella per la sanità e gli altri istituti di welfare integrativi.
Intendiamoci, non è il salario minimo orario ad essere di per sé il responsabile di questa perfida costruzione. La sua introduzione in tutt’altro quadro sarebbe positiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per parafrasare i giuristi, avverrebbe con quel «velo di ignoranza» verso la struttura contrattuale, non diventando così il pretesto per smantellarla. In effetti al giovane, o meno giovane o all’immigrato, che non è protetto da un contratto collettivo nazionale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scendere è un elemento di difesa. Con il pregio della universalità. Su questa base si potrebbe immaginare una riforma della contrattazione tale da ridurre gli attuali 380 contratti collettivi nazionali a quei 5 o 6 in settori fondamentali entro i quali concentrare le forza per ottenere dal punto di vista retributivo e normativo misure accrescitive, da migliorare poi in un eventuale contrattazione di secondo livello.
Di questo si parla da tempo nelle organizzazioni sindacali. In particolare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le responsabilità, è inutile nasconderselo, sono anche interne al movimento sindacale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rappresentanza, ove il sindacato degli iscritti modello Cisl si è scontrato con il sindacato di tutti i lavoratori mutuato dai momenti migliori della storia del movimento sindacale; sia per quanto riguarda il tema del salario minimo, ove la paura di perdere ruolo ha paralizzato ogni proposta.
Il governo ne approfitta per cercare di cancellare del tutto contrattazione e sindacato. Reagire con uno sciopero generale sarebbe necessario.
Intervista a Toni Morrison: «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano».
La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)
«Lo chiamavano il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” - il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.
Ciò di cui più abbiamo bisogno è produrre nuovi punti di vista, non arrenderci al presente, riuscire ad incrinare l’unica narrazione rimasta.
La sinistra è morta se non riesce ad immaginare il cambiamento, ad interpretare non solo un generico e diffuso malessere, ma a prospettare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico ha perduto la sua radicalità, schiacciata dal peso del presente. I diritti arretrano, le nostre forze scemano. Se siamo giunti sin qui è inutile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo interpretare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è servito a nulla, nulla abbiamo difeso.
Ora, che poco abbiamo da perdere, dovremmo cercare di uscire dalla palude, per misurarci con le nostre idee e non più solo con la razionalità del reale. Dovremmo riprendere seriamente in considerazione la distinzione tra strategia e tattica (la doppiezza togliattiana?). La prima per la ricostruzione di una prospettiva di sinistra che sappia aggregare le forze politiche e i soggetti sociali necessari per il cambiamento futuro; la seconda per resistere e per contrastare la politica dominante.
La mia impressione è che una grande colpa della sinistra sia stata quella di non credere in se stessa, nella sua capacità di cambiare. Gran parte di essa (la sinistra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lottare, soddisfatta delle conquiste ottenute nel corso del Novecento, si è limitata a governare il presente, cercando — ben che fosse — di ostacolare gli spiriti più selvaggi, frenare gli arretramenti più vistosi. Alla fine, però, ha perduto se stessa. Rinunciando a produrre una sua narrazione, non poteva che venir attratta fatalmente dal potere costituito, dalla forze dominati.
Una giustificazione è stata data per motivare questo chiudersi nei palazzi della sinistra di governo, richiamando una autorevole e tutt’altro che banale tradizione politica e culturale italiana: l’autonomia della politica come strumento per imporre il cambiamento. Se non lo strappo rivoluzionario, almeno le ragione del progresso si sarebbero potute affermare dentro le istituzioni per poi conquistare una società che non sempre dà prova di civiltà o di essere in sintonia con i principi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dunque che si potesse «costruire» il popolo attraverso la politica dall’alto, l’intermediazione del leader. Lasciamo perdere la discussione teorica, che coinvolgerebbe figure che hanno fatto la storia della sinistra del nostro paese (da Antonio Gramsci a Mario Tronti) e che oggi trovano peraltro nuove consonanze (Ernesto Laclau, Chantal Mouffe); limitiamoci a rilevare quel che è stato l’effetto sul piano più strettamente politico. La definitiva cesura tra popolo e suoi rappresentanti.
Uno iato che si è sempre più esteso e che dimostra la miopia — il fallimento — della classe dirigente della sinistra. Dimentichi di una vecchia lezione della storia: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vincono gli interessi costituiti. Se non si voleva ricordare Pericle, sarebbe stato sufficiente non dimenticare Berlinguer.
Per chi si proponeva di trasformare il reale, è stato questo l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme promosse dalla sinistra hanno finito per peggiorare le condizioni del suo popolo, mentre la crisi economica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci prevale sulla tutela dei diritti fondamentali. In Italia, ma non solo.
Il popolo della sinistra nel frattempo s’è sperduto, guarda altrove o non guarda più da nessuna parte. È rimasto solo il leader che pensa alla nazione, riflettendo su se stesso, sulla propria immagine, come allo specchio.
Chi, nonostante tutto, ha conservato uno spirito critico ha provato a reagire. Ha ottenuto importanti successi (il referendum sull’acqua, quello sulle riforme costituzionali), ha combattuto con intransigenza (no Tav), ha maturato esperienze culturali di rottura (i beni comuni). Tutte esperienze che hanno incontrato però un limite: tutte hanno sottovalutato la questione della necessità di una rappresentanza politica. Rimanendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lontane dalla politica istituzionale, le lotte più innovative e di rottura non sono riuscite a rendersi egemoni, anzi alla lunga hanno mostrato le proprie debolezze. Le vittorie referendarie sono state presto dimenticate e non hanno trovato un necessario seguito istituzionale, le esperienze locali sono rimaste tali e alla fine si condannano all’esaurimento.
Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movimenti la questione del rapporto con il «potere» e la necessità della mediazione istituzionale delle lotte sociali. Terreno scivoloso, non gradito a chi nella lotta esaurisce il proprio orizzonte polemico. Anche in questo caso si è attinto a piene mani ad una tradizione politica e culturale che ha attraversato l’intera storia della sinistra, quella più radicale e combattiva. Non sempre quella vincente. Così, l’autogoverno, la democrazia partecipativa, l’esaltazione del comune sono state unilateralmente assunte, senza nulla apprendere dalle criticità che la storia ha evidenziato, sin dalla comune di Parigi.
Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripartire ponendo al centro della nostra riflessione proprio la questione dei limiti dell’autonomia della politica e quella della rappresentanza politica. L’autonomia della politica potrebbe essere intesa come capacità di progettare il futuro, distaccandosi dall’immediatamente rilevante, mentre la rappresentanza politica dovrebbe essere assunta come la necessaria «misura» di questa capacità di progettazione entro un contesto istituzionale.
Vediamo di sintetizzare con una sola esemplificazione un discorso che meriterebbe di essere altrimenti sviluppato.
Pensiamo — ad esempio — alla riforma della costituzione. Se è vero, come su questo giornale abbiamo ripetuto tante volte, che la revisione in corso è espressione di un complessivo disegno regressivo, che, se approvata, ci poterà indietro nel tempo, verticalizzerà le dinamiche politiche, aprirà a scenari non rassicuranti, se queste sono le nostre convinzioni, come possiamo pensare che la soluzione di ogni male sia far eleggere i senatori anziché farli votare dai Consigli regionali?
E se poi va a finire che il «principe» concede la grazia e accetta l’elezione diretta dei senatori avremmo per caso un buon Senato e una accettabile riforma del testo della costituzione? Ma non scherziamo. Avremmo soltanto allungato la nostra agonia e data nuova linfa al leader indiscusso del pensiero unico e di governo.
Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto «rivoluzionario». È vero, il bicameralismo perfetto è da superare, ma per ragioni opposte a quelle che la retorica politica dominante afferma. Va superato sia per affermare la centralità del parlamento contro il dominio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rappresentanza politica offesa da un sistema elettorale che ne nega il valore sublimandolo nel feticcio della governabilità. Che ci si batta allora per una soluzione che meglio ha espresso nel corso della storia questa doppia esigenza: un sistema monocamerale affiancato da una legge elettorale proporzionale per ritessere le fila della rappresentanza politica strappata.
Sono proposte fuori dall’agenda politica del momento. E dunque qualcuno si potrebbe chiedere: chi ci ascolterebbe? Ma perché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipenderà da noi.
Se sapremo raccontare una storia per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo conquistarla. Potremmo, ad esempio, andare al referendum costituzionale del prossimo anno non per difendere un parlamento in agonia, ma per provare a cambiare lo stato di cose presenti.
Nella Grecia antica si distingueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vissuta (bios). Più che chiederci se c’è vita a sinistra dovremmo interrogarci su quale vita ci sia a sinistra.
Sembra paradossale, ma è tutto vero. Una buona base per cominciare a ragionare su che cosa possa essere l'equivalente della "sinistra" nel XXI secolo «Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato».
Il manifesto, 30 settembre 2015
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza capace di attrarre le energie della generazione precaria e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla. Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odii incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale. Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto: predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno, e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura l’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali, liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare. Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo, immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella: la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
Ripresentiamo un testo su Pietro Ingrao scritto per questo sito il 6 aprile 2005. Già allora eravamo nella fase in cui molti - troppi - faticavano a credere che la politica sia un'attività nobile.
eddyburg, 28 settembre 2015 (reprint)
Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta, perciò, su tre versanti.
Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.
Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani, alla fine, lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.
E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Anche qui, un altro ricordo. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; seduto ad un angolo del lungo tavolo sul podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando in ciascuna delle questioni che erano state sollevate, delle proposte che erano state formulate, degli interventi che erano stati pronunciati. Il merito delle cose: al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile, era questo che contava. Con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.
Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un’eccezione).
«Le apparenze sono di rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è un suo svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua».
La Repubblica, 26 settembre 2015
VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.
E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.
«Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni)».
La Repubblica, 26 settembre 2015
La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegno di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti.
Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini.
il manifesto) e di Federico Rampini (la Repubblica), 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il manifestoIL PAPA AL CONGRESSO: «BASTA VENDERE ARMI»
Alle camere riunite del Congresso, in precedenza avevano parlato Churchill e De Gaulle, Boris Yeltsin e qualche mese fa, con notevole strascico polemico, anche Benjamin Natanyahu. Non era mai accaduto però che lo facesse un leader religioso come ha fatto ieri il papa nel secondo giorno del suo viaggio americano. Presentato come «il Papa, della Santa Sede» dallo speaker John Boehner, è stato accolto con un caloroso appplauso dai 435 deputati e senatori del parlamento di Washington a cui ha rivolto un discorso in inglese durato poco meno di un’ora.
Il papa ha ringraziato per l’invito a parlare ai rappresentanti «nella terra dei liberi e la patria dei valorosi», citazione di una delle frasi più retoriche dell’inno nazionale che in bocca al gesuita sudamericano come Bergoglio ha acquisito un lieve sospetto di ironia, pur producendo il primo di diversi applausi che lo hanno interrotto. Francesco che si è dichiarato «figlio dello stesso continente» ha ripetutamente elogiato il paese ospite senza rinunciare ad alludere indirettamente alle sue mancanze. Ha più volte invocato ad esempio la tradizione democratica e civile degli Usa criticando allo stesso tempo il commercio di armi, xenofobia, disuguaglianza e manicheismo che certo riguardano non poco gli Stati uniti come l’occidente tutto.
In alcuni passaggi il messaggio di Bergoglio è sembrato indirizzato più direttamente ancora all’Europa dell’emergenza rifugiati che ha definito «la più grave crisi dai temi della seconda guerra mondiale». Parlando delle moltitudini che si stanno riversando a nord alla ricerca di vite migliori e maggiori opportunità, il papa ha detto che «non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie» e «rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno». Parole incisive nel paese in cui l’attuale front runner repubblicano, Donald Trump, costruisce consensi conservatori sulla promessa di edificare un muro sul confine messicano, ma forse rivolte ancor più direttamente all’Europa dei rigurgiti nazionalistici.
Ad ascoltare in aula ieri erano presenti numerosi cattolici (lo sono il 30% circa dei deputati) fra cui alcuni pretendenti alla prossima presidenza come i repubblicani Chris Christie e Marco Rubio. Il segretario di stato e “partner diplomatico” del Vaticano sul disgelo cubano, John Kerry, cui Francesco ha tenuto a stringere la mano prima di salire sul podio affiancato da Boehner e dal vicepresidente Biden, entrambi cattolici praticanti. Ai legislatori di un organo profondamente diviso lungo linee ideologiche il papa ha parlato dei pericoli della polarizzazione e del riduzionismo che divide il mondo in precise categorie di bene e male, giusti e peccatori aggiungendo che la complessità del mondo contemporaneo con le sue «ferite aperte» esige distinzioni più sottili della semplice demonizzazione dei nemici. «Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo più sicuro per prendere il loro posto», ha aggiunto. «È (un meccanismo) che il popolo americano rifiuta».
È stato uno dei passaggi più simili davvero a una “predica” fatta ai propri ospiti, anzi visti i recenti trascorsi di interventi americani e di conflitti utili solo a traghettare intere regioni del mondo nel caos, è stato il momento in cui Francesco si è avvicinato al discorso shakesperiano di Marco Antonio nel Giulio Cesare: l’elogio retorico di Bruto per evidenziarne i difetti. Non solo, infatti, gli Stati uniti – anche quelli del progressista Barack Obama — danno scarse indicazioni di riflettere seriamente sull’opportunità del proprio egemonismo geopolitico, ma il manicheismo è un cardine fondamentale della politica e del carattere nazionale intriso di patriottismo ed eccezionalismo.
Un contesto cioè in cui le affermazioni, pur moderate rispetto alla recente media di Francesco, sono risaltate maggiormente. Davanti a un pubblico che comprendeva numerosi paladini repubblicani dello scontro di civiltà, il papa cattolico ha riconosciuto le atrocità odierne commesse nel nome di dio, aggiungendo che «nessuna religione è immune da forme di estremismo» e lanciando un monito contro ogni fondamentalismo e ogni «violenza perpetrata nel nome di una religione, un’ideologia o un sistema economico». Il papa non ha nominato il capitalismo, ma nella patria di Wall street sono ben note le sue vedute sul liberismo estremo e a Washington le sue allusioni hanno avuto un peso particolare.
Non tutto nel discorso è stato obliquo riferimento. Nell’ambito della tutela della vita in tutte le sue forme, il papa ha scelto di esporre senza ambiguità la sua critica alla pena di morte nel suo ultimo bastione occidentale. Sull’immoralità del commercio di armi il papa è tornato ad inchiodare l’ipocrisia dell’occidente: «Perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e societa?» Ha domandato. «Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è̀ intriso di sangue».
Un filo conduttore del discorso è stata la giustizia sociale come valore assoluto della politica. «I nostri sforzi devono essere volti a riportare la speranza, riparare le ingiustizie, mantenere gli impegni», ha detto il papa, «nello spirito di solidarietà e della fratellanza». «Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana». «Ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza», ma deve invece esprimere il «nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme nell’unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici». Dette in un aula dove anche la tutela pubblica della salute viene regolarmente denunciata come anatema socialista, le parole hanno ancora una volta assunto un peso particolare. Se fossero rimasti dubbi su quale volto del cattolicesimo voglia sdoganare nel suo viaggio americano, Francesco ieri ha scelto di onorare la memoria di quattro americani: Lincoln, emancipatore degli schiavi, Martin Luther King combattente per l’uguaglianza, l’intellettuale cistercense Thomas Merton e Dorothy Day fondatrice del movimento Catholic Worker, militante pacifista, femminista e operaista protagonista di lotte sociali dalle suffragette all’opposizione alla guerra del Vietnam.
«L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi».
La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della “primavera araba”. Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno.
Noam Chomsky e le convinzioni sulla rinascita di una sinistra radicale negli Usa, i germi di nuova sinistra in Europa continentale (Syriza e Podemos), Regno Unito (Jeremy Corbin) e USA (Bernie Sanders), sul potenziale della gente a produrre cambiamento radicale.
Jacobin, 22 settembre 2015
In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?
«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.
«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».
La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?
«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.
«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.
«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».
Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?
«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.
Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».
Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?
«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.
«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.
«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».
Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?
«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.
Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?
«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.
Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?
«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .
«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.
Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».
Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?
«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.
«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.
E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.
«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».
Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.
Prosegue il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Un intervento che richiama provvidamente l'attualità pensiero di un gigante, più studiato e apprezzato all'estero che nel suo paese.
Il manifesto, 12 settembre 2015
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva».
Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito». Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.
Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto.
«Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico.
Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito. Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
Il caso Grecia ha mostrato che la vera natura dell'Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche».
Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015
La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.
Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.
Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.
In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.
Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.
Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.
A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.
L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.
Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.
«Le sfide del cristianesimo la minaccia dell’Is il ruolo femminile e il pontificato di Francesco Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa dedicato a “Misericordia e perdono”». La Repubblica,
9 settembre 2015
Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».
Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
I monaci dal V secolo fecero scempio dell’arte pagana Erano i talebani del momento
Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».
Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».
La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordina- ri, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad , affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».
Enzo Bianchi: «Critichiamo l’Islam ma poi emarginiamo ancora le donne»
Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».
«Di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali».
La Repubblica, 7 settembre 2015
ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.
Con l'unica condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».
Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».
Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.
Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.
Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.
Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.
Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».
Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto — l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.