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Non è detto che in una società migliore il lavoro sia solo quello che il sistema capitalistico ha deciso di riconoscere (e retribuire) come tale. "Lavoro senza padroni" di Angelo Mastrandrea, (Baldini e Castoldi). «Come autorganizzarsi senza diventare "vite di scarto"».

Il manifesto, 21 novembre 2015

Angelo Mastrandrea racconta un sogno: lavorare senza padroni. Per un paio d’anni ha viaggiato in Grecia, Francia, Italia. Ha incontrato gli operai della Montefibre di Acerra, nel cuore della terra dei fuochi, e ha raccontato il sogno realizzato delle fabbriche recuperate. Ha raccontato le vicende drammatiche della tv pubblica greca Ert, chiusa dal governo Samaras, occupata e recuperata dai giornalisti e lavoratori come ai tempi delle radio libere in Italia. Ha tracciato il profilo della rete «Solidarity4all» che non si limita al mutuo soccorso in Grecia, ma sostiene la nascita di un modello cooperativo per ricostruire il lavoro perduto. La punta di diamante di questo movimento sono i lavoratori della Vio .Me.

Con lo stile del reporter classico, Mastrandrea si è mescolato con gli studenti del liceo sperimentale post-sessantottino di Saint-Nazare che dal 1981 autogestiscono la loro scuola. «Non mi pare che ci sia una gran differenza con gli operai che recuperano una fabbrica – annota – Entrambi vogliono realizzare un’antica aspirazione umana: l’autodeterminazione». I racconti della nuova stagione internazionale dell’autogestione e della creazione di un’economia cooperativa formano oggi un libro, (Baldini e Castoldi, pp.175, euro 15), e offrono un’intuizione.

Dall’Argentina al vecchio continente, la crisi delle multinazionali ha portato a drammatiche crisi occupazionali, ma anche a realizzare l’impensabile. Gli operai messi in cassa integrazione, disoccupati, non sono «vite di scarto», ma singoli capaci di elaborare complesse strategie morali, politiche e collettive. Da Roma a Buenos Aires, dalla Ri-Maflow a Trezzano sul Naviglio fino a Città del Messico, hanno elaborato un modello comune di workers economy, un’economia fondata sui lavoratori che si contrappone all’economia finanziaria che sta distruggendo il tessuto produttivo in Europa come altrove. La curiosità teorica porta Mastrandrea a ricongiungere le fila di un discorso politico che viene da lontano. Le origini della workers economy risalgono a una certa linea del socialismo del XIX secolo, sono riemerse nella teoria del Gramsci greco, l’althusseriano Nikos Poulantzas quando enunciò in Lo Stato, il potere, il socialismo una teoria di un socialismo articolato sul doppio potere: da un lato, la democrazia rappresentativa radicalmente rivista, dall’altro lato lo sviluppo di «forme di democrazia di base e di un movimento auto-gestionario» in grado di «evitare lo statualismo autoritario».

Quello dell’autogestione è un movimento che ha conosciuto diverse fasi, dagli anni Settanta a oggi, in Italia e nel resto d’Europa. Credibilmente, questa esperienza è alla base di una parte non trascurabile del percorso che ha dato vita a Syriza. Sarebbe, anzi, interessante raccontare cosa sta accadendo oggi in Grecia, dopo la drammatica capitolazione di Tsipras nell’Eurogruppo di luglio. Più in generale il problema riguarda il destino di questa «economia di transizione» a un nuovo, immaginoso, «socialismo»: quali sono i suoi strumenti per affrontare il potere e le sue tecniche di cattura amministrativa o giudiziaria? E poi, in che modo queste esperienze di auto-gestione si pongono rispetto ai progetti di rigenerazione dei luoghi in disuso (stazioni e fabbriche comprese) già in atto a Milano e in tutte le «smart city»? Non rischiano di essere riassorbite dal capitale neoliberale e dai suoi progetti di speculazione sulla condivisione nella «sharing economy»?

Lavoro senza padroni è in ogni caso un libro che recepisce la carica etica di uomini e donne di mezza età, di molti giovani, di reagire alla crisi e inventarsi un’altro modo di cooperare e di possedere. Mastrandrea immagina il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà sociale. Dal suo racconto minuto delle difficoltà amministrative, commerciali, produttive affrontate da questo popolo di sperimentatori emerge una passione comune: l’entusiasmo.

«Questa è la principale molla emotiva. Un sentimento che deriva dall’idea di essere artefici del proprio destino, senza sentirsi pedine di un gioco nel quale non si decide nulla». Mastrandrea racconta la vita dei cittadini nel XXI secolo, capaci di reinventare un lavoro che non esiste più – quello della produzione fordista di massa – riconnettendosi con le passioni gioiose rimosse dalla società del rancore organizzato.

«San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito». Intervista di Simonetta Fiori a Stefano Rodotà. La Repubblica, 19 novembre 2015

Nelcodice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, diuna incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflittopermanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, ungiurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l'irregolarità el'imprevedibilità della vita e l'astrazione formale della regola giuridica (Dirittod'amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluoanticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e isentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo ledonne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimentovolubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla diregolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi sientra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamentea disagio»

Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell'organizzazionesociale. E dunque il diritto s'è proposto come strumento di disciplinamentodelle relazioni sentimentali che non lascia spazio all'amore. Bastaripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto perun lungo periodo ha sancito l'irrilevanza dell'amore. E di fatto ha sacrificatole donne, codificando una diseguaglianza»

In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non hanulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, laprosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quellepatrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava ilpossesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato ilmodello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà delmarito»

Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anniSettanta del Novecento. Un'anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernitàoccidentale - dalla fine del Settecento in avanti - èstato terribilmente gerarchico. Dopo l'unificazione noi assorbimmo il codicefrancese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglieal marito. Pare che Napoleone durante la campagna d'Egitto fosse rimastocolpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra mogliee marito»

Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Maanche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazieall'influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve dellastoria, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell'incontrotra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»

Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei,Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell'eguaglianza tramarito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regolegiuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto chestavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stavasopra il codice civile»

Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Cortecostituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uominie donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizioneultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale nonsoggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di unacostruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l'Italia èl'unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto lacarta dei diritti dell'Unione europea»

Una carta che nell'accesso al matrimonio cancella il riferimento alladiversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell'articolo, l'articolo nove, bersaglio di unaforte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, cheperò io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo dellaconvenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria dellafamiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare innessun'altra giurisprudenza»

Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciaguratoradicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamentesensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatorenon se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il datonaturalistico e immodificabile»

Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio esull'aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell'ostinata contrarietà, laDc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»

Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l'amore cessò diessere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato diadulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, chemette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche inquella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parolaamore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d'amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?

«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglioè. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l'amore perché lo rispettafino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilitàsociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»

C'è il diritto d'amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedereal matrimonio. Ma c'è anche il diritto d'amore dei figli, che devono poteressere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c'è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessualimostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell'affettività. Eallora, domando, i figli dei genitori single?»

I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figuramaschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulleadozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l'uso autoritario deldiritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e primasaremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuovasituazione. Finché manteniamo il conflitto e l'esclusione, tutto questo diventapiù difficile»

Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delleadozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potràfarlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finiscemai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull'amore»
Sarebbe insensato tentar di risolvere il problema della costruzione di una nuova sinistra senza rompere la barriera che separa il mondo dei frammenti della vecchia sinistra dalla società.

Ilmanifesto, 19 novembre 2015

Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.

Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche” francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della «proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto. Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).

I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente — dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma, non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.

Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte, condivisa attivamente da tutte le realtà di sinistra, radicata nella storia sociale della città — parlo di Giorgio Airaudo -, in grado di contendere con credibilità il consenso sia a un centro-sinistra esausto, in debito di idee e di proposte, sia al Movimento 5 stelle, costituendo un possibile esempio virtuoso in campo nazionale. Va d’altra parte in questa direzione la formazione, alla Camera dei deputati, di una prima aggregazione, ancora parziale ma significativa, di deputati di Sel e di ex Pd sotto il nome di Sinistra italiana, che costituisce indubbiamente un fattore positivo, in grado di rendere più efficace l’opposizione in Parlamento alle controriforme renziane e di dare visibilità al processo aggregativo, a condizione di considerarla per quello che è: la nascita di un embrione di gruppo parlamentare (l’ha detto bene Cofferati: «Al Quirino è nato un gruppo parlamentare, non un partito»). E di non sovrapporla o identificarla tout court con il processo costituente del «soggetto politico unitario e unico della sinistra», che è — e deve essere — molto più ampio, necessariamente radicato nei territori e partecipato socialmente, caratterizzato da tratti di radicale innovazione di forme, contenuti, facce e linguaggi, se vuole reggere la sfida dei tempi (né considerazioni diverse si possono fare per il gruppo cui ha dato vita, sempre alla camera, Civati).

Dico questo perché il momento è delicatissimo: per il contesto drammatico in cui ci si muove, e per la fragilità dei processi al nostro interno. Ciò che avverrà nelle prossime settimane e mesi ha il carattere di un’ultima chiamata. Un ennesimo fallimento non sarebbe perdonato. La grande partecipazione alle occasioni pubbliche di questi giorni (a Roma al Quirino e a Torino per il lancio della candidatura di Airaudo) ci dice che esiste un’attesa ampia, per rispondere alla quale è indispensabile che la riuscita del processo unitario sia e resti l’ obbiettivo prioritario di tutti e di ognuno, senza piani di riserva, furbizie o espedienti di corto respiro, che non sarebbero compresi da nessuno. Ha perfettamente ragione Carlo Galli quando, su questo stesso giornale, chiede un minimo di pulizia del linguaggio (ci si astenga da espressioni gravide di disprezzo e di pigrizia nel capire come «cosa rossa»). E scrive che «la sinistra di cui c’è bisogno» ha da essere «rossa e realistica» — cioè capace di fare proprie, rinnovandole e rigenerandole nel contesto attuale, le sfide del movimento operaio in una chiave non testimoniale (esattamente l’opposto di una «cosa») -, «radicale e accorta, plurale e unitaria». E aggiunge che deve mostrarsi capace di realizzare un’«accumulazione originaria di pensiero e di energia politica» mettendo insieme molte eredità culturali.

Ma esattamente per questo non può chiudersi, proprio ora, in recinti ristretti. In ciò che sopravvive «dentro le mura». Non può pensarsi — sarebbe mortale — come semplice prolungamento di una parte di ciò che è stato, né come Federazione di frammenti di un’unità passata andata in frantumi, né tantomeno come somma di personalità – o personalismi – in competizione per un’egemonia esangue. L’accelerazione in corso chiede di uscire dalle mura, contaminarsi con ciò che c’è «fuori». Per riportare fra noi chi è uscito, e conquistare chi non c’è mai stato. Ogni altra via ci consegnerebbe a percentuali di consenso residuali, di cui non c’è spazio né bisogno.

Per questo l’incontro di gennaio dovrà essere davvero all’insegna di uno stile nuovo di ragionare e di agire, preparato da un percorso – decine di assemblee, poi una carovana dell’alternativa – nei territori, strutturato in modo tale da restituire la parola a chi in questi anni l’aveva perduta o se l’è vista sequestrare, con un orizzonte compiutamente europeo e trans-nazionale come appunto transnazionali sono le sfide politiche da affrontare. Soprattutto dovrà essere un esercizio di pensiero.

Le immagini di morte e distruzione degli ultimi giorni ci ricordano quanto ciascuno di noi sia piccolo al cospetto dei grandi problemi dell’umanità, ma allo stesso tempo ci impongono una scelta, un’assunzione di responsabilità, un impegno collettivo che non lascia spazio all’indifferenza. Ci ricordano quanto sia urgente, come ricordato da Luigi Ciotti in occasione dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, «una politica come strumento di giustizia sociale, dunque di pace», e quanto sia decisivo l’impegno di tutti e di ciascuno al fine di perseguire tale obiettivo.

Nel bisogno di costruire «un altro mondo possibile» è facile individuare le ragioni del nostro impegno, in Italia quanto in Europa, per la costruzione di una sinistra politica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma non sfuggirà a nessuno, neppure all’osservatore meno attento, quanto questo obiettivo sia di là da venire.

Per fortuna qualcosa si muove. Proprio sulle colonne di questo giornale — all’interno dell’ampio dibattito C’è vita a sinistra — è stato possibile trovare diversi e autorevoli spunti sul tema, e la recente creazione del gruppo parlamentare Sinistra Italiana sembra finalmente aver dato una scossa al dibattito, un segnale percepito da molti (e a buon ragione) di controtendenza rispetto alle divisioni degli ultimi anni.

Pensiamo che ciò basti? Che l’iniziativa parlamentare sia esaustiva al fine di costruire un soggetto politico in nome e per conto degli uomini e delle donne che la sinistra ambisce a rappresentare?

Evidentemente no, non lo è, seppur non sia intenzione di chi scrive disconoscerne il valore. Piuttosto dovremmo interrogarci su quali siano gli strumenti utili per rendere la nostra iniziativa politica sempre più partecipata, dal basso e nel basso della nostra società, su come far diventare la rappresentanza istituzionale quello che Stefano Rodotà ha correttamente definito un «terminale sociale» per realtà civiche, reti, sindacati, movimenti, associazioni, singoli cittadini, insomma per quei tanti che, qui ed ora, ci chiedono di condividere un cammino per il cambiamento, per costruire insieme un’alternativa all’attuale stato delle cose.

Democratizzare i processi decisionali, renderli sempre più trasparenti e partecipati, mettere in rete competenze ed esperienze, puntare sullo sperimentalismo democratico, sono tutte sfide dalle quali non possiamo prescindere, ingredienti essenziali per la costruzione di un soggetto politico che sia di tutti e di tutte.

Su questi temi molti di noi sono impegnati da mesi. Come per la costruzione, ad esempio, di una piattaforma digitale che possa essere strumento di partecipazione, condivisione e attivazione che, come ci ha insegnato Manuel Castells, possa utilizzare la tecnologia come strumento di libertà, piuttosto che come dispositivo di dominio. Uno strumento recentemente utilizzato da Podemos per la stesura del proprio programma di Governo, che non sostituisca l’attivismo politico fatto sul territorio e la forma partito, ma che al contrario sia capace di innovare entrambi, renderli più democratici, più partecipati, in una parola più efficaci.

Su questo, come su tanto altro, ci siamo confrontati lo scorso settembre con un gruppo di lavoro che si è appositamente costituito, e che vede l’adesione di diverse esperienze politiche desiderose di lavorare insieme e che hanno risposto positivamente ad una specifica call to action (http:// con -senso .tumblr .com).

In queste settimane stiamo lavorando per valutare alcune strade da perseguire per la realizzazione della piattaforma, ma il suo senso e la sua utilità risponde ad un’esigenza profondamente politica.

Per questo dovremmo allargare ulteriormente le maglie del confronto, trovare le modalità per intrecciare i contributi fin qui elaborati con l’annunciato evento di gennaio che dovrebbe dare il via al percorso costituente. Per farlo servirà un atto di coraggio necessario, ovvero liberare qualsivoglia iniziativa dalla dimensione pattizia, dalla somma algebrica di ceto politico e da spinte identitarie e conservative, puntando al contrario sul riconoscimento delle differenze come valore aggiunto, come forza della nostra azione politica e non come debolezza.

Il resto lo decideranno le donne e gli uomini che parteciperanno al processo stesso, e magari, potremmo scoprire proprio lì, in questo cammino comune, che nella nostra società ci sono risorse più utili e più vitali al fine di costruire un soggetto politico di sinistra (di tutti e tutte) di quanto lo siano gli attuali gruppi dirigenti.

* Act – Agire, costruire, trasformare

«Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia.».

Huffington Post, 18 novembre 2015
Non si può certo dire che il cammino per l’unità della sinistra sia semplice e lineare. Mi riferisco ovviamente alle forze e alle persone che si sentono e si collocano alla sinistra di un Pd che del campo della sinistra non fa più parte da tempo, per esplicita scelta del suo gruppo dirigente, in primis del suo segretario. Eppure tale cammino è in corso. Alcuni organi di stampa amano fare del gossip sull’argomento. Personalizzando le varie posizioni e contrapponendole come in una commedia dell’arte. Ognuno fa il suo mestiere, anche se sarebbe opportuno farlo meglio. E questo vale per tutti, nessuno, ma proprio nessuno escluso.

Sta di fatto che il “caso italiano”, di cui ormai parlano solo gli storici, si è completamente rovesciato. Siamo il paese dell’Unione europea dove la sinistra è più debole, o tra le meno consistenti sia in termini di consenso, misurato o no attraverso il termometro elettorale, che in quelli di forza nella presenza politica e nella vita sociale del paese. Conseguentemente in termini di organizzazione.

Eppure, da quando L’Altra Europa con Tsipras raggiunse, anche se di pochissimo, quel quorum alle europee che permise un’inversione di tendenza nei confronti della coazione a ripetere la sconfitta, un nuovo percorso ha preso inizio fino a giungere alla condivisione di un breve documento che convoca un’assemblea nazionale per il 15.16.17 gennaio 2016. Il documento (“Noi ci siamo, lanciamo la sfida” nel sito de L’altra Europa con Tsipras) è stato elaborato e condiviso da Act!, Altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Ecologia Libertà. Alle riunioni del tavolo hanno partecipato Sergio Cofferati e Andrea Ranieri.

Nel corso di quella assemblea verrà definita una carta di valori e un’agenda di impegni politici che - attraversando le elezioni amministrative, la raccolta di firme per i referendum già in preparazione contro l’Italicum, la cattiva scuola, lo sblocca Italia e il Job Act, nonché la celebrazione del referendum noTriv e quello contro la revisione della Costituzione messo in atto con la legge Boschi-Renzi - ci porterà nell’autunno del 2016 a dare vita a un nuovo soggetto politico della sinistra in grado di affrontare le prove dell’ impegno politico, sociale e elettorale che si imporranno.

Il cupo clima che si sta stendendo sull’Europa, a seguito degli attacchi omicidi dell’Isis e della risposta guerrafondaia e securitaria promossa da Hollande, richiedono una risposta nel contesto continentale e di ogni singolo paese, che imponga una svolta rispetto alle politiche dell’austerity e della fobia dei migranti, alle logiche di limitazione dei diritti e delle libertà, allo scatenarsi delle pulsioni di guerra su cui si orientano le attuali elites europee, delle quali il governo Renzi non è che un’articolazione.

Se prima era in pericolo la tenuta dell’Unità europea a causa delle politiche economiche condotte, quelle che avevano ridotto la Grecia e il Portogallo al disastro (per citare due paesi che hanno saputo politicamente reagire), ora sono a rischio anche i più elementari principi di civiltà e convivenza a causa di questa sorta di Patriot Act che si vorrebbe assumere, nell’illusione peregrina che questo serva a sconfiggere il nichilismo dell’Isis. I mercati mostrano di gradire e ringraziano, come dimostrano i bollettini azionari di queste ore. Come si sa la guerra o il suo solo annuncio fa bene alla finanza. Se sommiamo questo al dilagare delle diseguaglianze visibili empiricamente, nonché oggetto di studio da parte di economisti che pur partendo da premesse diverse giungono alle stesse conclusioni, ovvero che il loro aumento genera ingiustizie sociali insopportabili, rende evidente la necessità della ricostruzione di una forza di sinistra che non guardi al passato, ma al futuro, facendo i conti con questo presente che mette a grave rischio la sopravvivenza materiale delle persone, la democrazia e la stessa vita del pianeta.

Dopo la firma di quel documento sono intervenuti nuovi elementi che dimostrano che il processo unitario è in atto ed è un obiettivo realistico. Lo ha evidenziato il successo della manifestazione al teatro Quirino di Roma– che non ci sarebbe stato o non in quei termini senza avere alle spalle quella intelaiatura che ho decritto - che ha visto la nascita di un gruppo parlamentare unito, pronto a dare battaglia in primo luogo contro un’iniqua legge di stabilità.

Spiace che ancora non sia in grado di raccogliere tutti, come si vede dalla costituzione separata, come parte del gruppo misto, di parlamentari che si richiamano a Civati – che pure è tra i firmatari del documento già citato – o che provengono dal M5Stelle. Ma tutti i processi, quando sono reali, hanno i loro tempi per maturare. Purché non sia troppo. Intanto si produce una dipartita significativa di personalità di rilievo dal Pd. Sia a livello centrale che a quello locale. Saranno le elezioni amministrative a fornire la valutazione sul peso e la rilevanza di questi processi. Saranno anche le nuove liste a sinistra nelle prossime amministrative, cui si sta già lavorando, a misurare la capacità di essere un’alternativa credibile a Pd e a M5stelle, tale da riportare al voto chi se ne era allontanato e in gran numero.

Contemporaneamente procede la costruzione di una nuova coalizione sociale, che ha come protagonista la Fiom (li vedremo in piazza contro la legge di stabilità a Roma il 21 novembre), e che può contare non solo su molte organizzazioni dell’associazionismo, ma soprattutto su quell’attivismo e protagonismo sociale diffuso e per ora anonimo che non ha mai cessato di esistere nel nostro paese e che reclama un fronte unificatore. Un tema complesso, poiché chiama in causa anche una rifondazione del sindacato, a fronte dei nuovi processi intervenuti nel mondo del lavoro, che hanno rotto le vecchie paratie fra lavoro dipendente e autonomo, fra posto fisso e precariato, fra lavoro intellettuale e manuale, creando una situazione socialmente inedita tutta da studiare e mettere alla prova.

Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia. I due processi sono quindi destinati a contaminarsi e incrociarsi sempre più frequentemente, non sono confondibili né sovrapponibili, ma non possono ignorarsi. Soprattutto neppure le dichiarazioni sprezzanti di Renzi li possono cancellare.

«Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», non è solo questione di umanità, è anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra».

Il manifesto, 18 novembre 2015 (m.p.r.)

La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di «quinte colonne» e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, «a pezzi».

Questa guerra, o quel suo «pezzo» che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti.

Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di Usa e Ue; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da Usa e Ue, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche.

A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto. La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.

Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue «province» vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una «islamizzazione» feroce e fasulla.

Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace. Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. «Si ammazzano tra di loro» viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.

È di fronte a quel disprezzo che si formano le «quinte colonne» di giovani, in gran parte nati, cresciuti e «convertiti» in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).

Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.

Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. È anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra.

Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’Ue, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.

Eppure, fino alla crisi del 2008 l’Ue assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile?

Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale.

Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.

Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli «scafisti» di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai servizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine.

Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.

Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.

«Lo scrittore racconta la reazione del suo paese alle immagini dei profughi in fuga. Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici».

La Repubblica, 13 novembre 2015 (m.p.r.)

Questa settimana, in un caffè di Gerusalemme, con l’audio del televisore appeso al muro silenziato, ho sentito una donna alle mie spalle dire a un’amica: «Questa ondata di profughi siriani, non so...».
«Che cosa non sai? Ha chiesto l’amica ». «Da quando li fanno vedere in televisione con le mogli, i figli... non so, non sembrano nemmeno siriani». «E cosa sembrano?». «Non so... sembrano… le loro facce, il loro modo di parlare… Lo vedi che hanno paura, e si portano in spalla i bambini…» L’amica ha replicato: «Quelli, anche nella situazione in cui si trovano, ci scannerebbero tutti subito. Guarda cosa fanno tra di loro in Siria, tra fratelli, pensa cosa farebbero a noi se potessero». «Hai ragione», ha commentato sconsolata la prima, «comunque mi dispiace per i bambini». E l’amica ha ribattuto: «Certo, avrebbero dovuto pensarci prima di iniziare con tutto questo casino».

Io le ascoltavo entrambe e ho pensato che i siriani, per decenni, sono stati per noi, in Israele, l’incarnazione di Satana: donne dei corpi speciali che addentavano serpenti vivi, l’impiccagione di Eli Cohen, i prigionieri israeliani torturati in Siria, i bombardamenti dei centri abitati della Galilea, e, naturalmente, la brutale guerra civile. E ho pensato che ora, dopo la distruzione della Siria e le ondate di emigrazione, improvvisamente possiamo vederli in un altro contesto: uomini, donne, ragazzi e bambini che un destino crudele ha strappato da tutto ciò che conoscevano e al quale erano abituati. Il nostro sguardo li vede in una prospettiva diversa, scorgiamo in loro tratti nuovi, espressioni del viso e movimenti del corpo che non avevamo registrato nella “banca immagini” della nostra mente quando parlavamo della Siria. Una banca che includeva raffigurazioni quasi esclusivamente di guerra: manovre, parate, saluti militari e grida di odio per Israele.
Improvvisamente li vediamo muoversi come persone: genitori e figli, ragazze in jeans, ragazzi con lettori di musica e auricolari. Occhi addolorati, disperati, pieni di speranza. Gesti intimi di una coppia. E forse anche a loro, ai profughi siriani, il dramma che stanno vivendo permetterà di guardare diversamente la vita. Ci sarà qualcuno felice di sfuggire alla morsa della gogna in cui era intrappolato quando pensava a Israele? La gogna della demonizzazione e dell’odio? Una gogna in cui sono nati, per così dire, e che probabilmente consideravano una buona scelta di vita. L’unica possibile per loro. Una gogna in cui erano imprigionati dalle circostanze, ovvero dalla politica e dalla retorica dei loro governanti dispotici, dal prolungato stato di guerra tra Israele e la Siria, dal lavaggio del cervello subito, fin da piccolissimi, per forgiare il loro atteggiamento nei confronti di Israele.
E c’era, naturalmente, anche la gogna in cui li aveva imprigionati Israele: la minaccia che lo Stato ebraico rappresentava per loro con la sua potenza militare e le ripetute sconfitte inflitte al loro Paese. Forse per questo il popolo siriano ha assunto quel piglio bellicoso nei nostri confronti al quale ci ha abituato. Sempre e solo un piglio bellicoso che noi abbiamo assunto di riflesso, come in uno specchio.
Oppure eravamo noi ad assumere quel piglio e loro a rifletterlo?
Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici. Persone ermetiche.
Ma dateci condizioni di vita favorevoli, sicure, rispettabili, oppure limitatevi a osservarci, a guardarci, ostinandovi a estrapolare il nostro volto umano dal livellamento che tocca chiunque venga trascinato, involontariamente, in un grande movimento che lo sradica dal proprio luogo. Allora avrete la possibilità di trovare in noi un partner.
E ancora una volta affiorano i pensieri sulla distorsione che la profonda ostilità nella quale viviamo - non solo nei confronti della Siria – provoca in noi da varie generazioni. E sul prezzo che paghiamo per questa distorsione: quello di rimpicciolire e di appiattire chi ci sta davanti e che viene etichettato come nemico anche interno, di destra o di sinistra - e una volta definito tale perde la sua complessità, la pienezza della sua esistenza.
E affiora la sensazione che i ferrei meccanismi della gogna – la gogna della guerra, dell’odio - ci siano penetrati nella carne al punto da credere che siano ossa e muscoli del nostro corpo. Che siano la nostra natura e quella del mondo intero, sempre, per l’eternità.
E affiora ciò che ci rode dentro, al di sotto della realtà visibile: l’offesa di esistere in uno stato di guerra costante alla quale nessuno più cerca di porre fine. L’offesa di esserci abituati, in maniera obbediente, ai movimenti coreografici della guerra. L’offesa di essere diventati marionette nelle mani di coloro per i quali la guerra è una seconda natura, o forse, di fatto, una prima. E così eccelliamo nell’inventare nuove ideologie mirate a razionalizzare e a giustificare la situazione di evidente distorsione in cui viviamo.
Un popolo che vive in uno stato di guerra sceglie come leader dei combattenti. In questa scelta c’è una logica che dovrebbe aiutarci a sopravvivere. Ma forse è vero il contrario. Forse sono i leader combattenti, militanti, con la coscienza intrisa di sospetti e di timori, a condannare il loro popolo a una guerra perpetua.
Faremmo bene a guardare i volti degli uomini e delle donne siriani in fuga dall’inferno del loro Paese. Senza dimenticare gli anni di guerra e di odio fra noi dovremmo guardarli bene perché a un tratto, come ha notato la donna nel caffè, in quei volti balena qualcosa di familiare. Magari è il nostro ricordo di profughi, insito in noi, o di una vulnerabilità umana che conosciamo bene, legata alla consapevolezza della fragilità dell’esistenza e all’orrore di chi si sente mancare la terra sotto i piedi. Per un istante rimaniamo stupiti di aver combattuto per decenni contro queste persone.
E poi arriva la domanda più importante: cos’altro stiamo perdendo e cos’altro non vediamo con la testa bloccata in profondità nella gogna?
Le tre risposte alla hegeliana "morte di Dio", e la «quarte risposta, minoritaria ma forse più promettente»: quella su cui lavora Vito Mancuso, sulla via aperta da Teilhard de Chardin.

La Repubblica, 13 novembre 2015

Vito Mancuso, Dio e il suo destino, (Garzanti pagg. 464, euro 20)

Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali. La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.

La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio. La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.

Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.

Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia. E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007). Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.

Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura. Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.

Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano piegare l’esistenza di strutture complesse — fossero il mondo, la mente o il linguaggio — se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente. Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.

Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza — tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta — solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abbastanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920). Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.

La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste. Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».

a Repubblica, 9 novembre 2015

Non sono sui libri e non hanno nemmeno un impiego. Quasi due milioni e mezzo di giovani vite sospese che non riescono a trovare un ruolo nel mercato del lavoro, nella società. E in questo momento fanno fatica anche solo a immaginarlo. L’Italia è la più grande fabbrica di Neet in Europa. Ragazzi fra i quindici e i ventinove anni fuori da qualsiasi circuito scolastico e lavorativo che di fatto vivono ancora sulle spalle di papà e mamma. Molti non hanno mai finito le superiori. Ma dentro quest’universo inerte finiscono sempre più laureati che non sono in grado di uscire di casa nemmeno dopo anni dalla discussione della tesi.

Il termine Neet compare per la prima volta nel 1999 in un documento della Social exclusion unit del governo britannico ed è l’acronimo di “Not in Education, Employment or Trading”. Un indicatore dalle braccia più larghe rispetto a quello sulla disoccupazione giovanile non solo perché si spinge fino alla soglia dei trent’anni, ma perché include anche chi un impiego ha smesso di cercarlo o è finito fra le maglie del lavoro nero. Fino al Ventesimo secolo questa voce non esisteva. Oggi è usata da tanti istituti di ricerca per raccontare una deriva talmente grande — anche in termini di perdite economiche e di spreco di capitale umano — da spingere più studiosi a parlare di “generazione perduta”.

Nel nostro Paese i Neet erano 1,8 milioni nel 2008. Nel giro di sette anni se ne sono aggiunti altri 550mila e oggi toccano i 2,4 milioni. Insieme potrebbero riempire una città grande quasi quanto Roma. «Un livello allarmante mai raggiunto nella storia ». A dirlo è una recentissima indagine di Alessandro Rosina, demografo e sociologo dell’università Cattolica di Milano: «La quantità di giovani lasciati in inoperosa attesa era già elevata prima della crisi — scrive nel volume “Neet”, edito da Vita e pensiero — ma è diventata una montagna sempre più elevata e siamo una delle vette più alte d’Europa ». Il 2014 è stato l’anno in cui l’Italia ha toccato il punto più basso di nascite ma il valore più alto di Neet: si muovono in questo labirinto il 26 per cento dei giovani italiani fra i quindici e i trent’anni. La media europea è del 17, di nove punti più bassa. Ma ci sono Paesi come la Germania e l’Austria dove i ragazzi in questa condizione non superano il 10 per cento.

Dietro questo acronimo si nascondono storie e vite molto diverse. Come quella di Francesca Romeo. Ventenne, nata e cresciuta a Varese e un diploma di liceo artistico conquistato con fatica dopo qualche brutto voto di troppo che le ha fatto perdere un anno. «Studiare non fa per me. Per questo ho deciso di lasciare perdere l’università». Dopo la maturità ha racimolato qualche soldo lavorando nelle sere d’estate dietro al bancone di un bar in un circolo culturale. «Ma hanno avuto bisogno di me per poco». Così si è iscritta all’ufficio di collocamento e nel frattempo ha provato a bussare alla porta dei negozi del centro. Grandi catene di abbigliamento e di articoli sportivi, boutique di scarpe e profumerie, poi casalinghi, negozi di elettrodomestici. Il suo curriculum è sempre caduto nel nulla. «Chi appende cartelli per cercare personale non manca. Ma non vogliono me».

Tutti chiedono un po’ di esperienza alle spalle. «Io non ne ho nemmeno una. Così però rischio di andare avanti all’infinito ». Francesca è ferma da mesi nella speranza che prima o poi qualche porta si apra. Non ha mai vissuto in un posto diverso dalla casa dov’è cresciuta e in questo momento ha il timore che il giorno in cui potrà mettere piede fuori casa non arriverà mai.
L'Italia è la penultima: meno della Bulgaria, più della Romania
Valentina Maddalena invece, 28 anni, nella casa dei genitori ci è tornata dopo cinque anni di università e una laurea mai raggiunta. Aveva salutato Fiumefreddo Bruzio, nel cosentino, per trasferirsi a Roma e iscriversi alla Sapienza. «Sono rimasta sui libri di sociologia per quattro anni, poi ho capito che non era la mia strada. La media del 28 non significa nulla: era un campo che non sentivo mio». Per un anno ha fatto l’addestratrice cinofila, poi la commessa. «Ero lontana anni luce anche solo dal pagarmi l’affitto ». Così è tornata in Calabria. Anche qui ha trovato un posto da commessa ma il negozio dodici mesi fa ha chiuso e un passo dai trent’anni bollette, spese e scontrino alla cassa del supermercato vengono pagati solo grazie agli sforzi dei genitori: il papà vende legna, la mamma lavora come domestica. «Va avanti così da un anno. Loro capiscono la situazione ma per me è pesantissimo».

Su dieci Neet, cinque sono diplomati mentre quattro hanno solo la licenza di terza media. Come Enea Testagrossa, che vive in provincia di Monza: ha lasciato gli studi in terza superiore e oggi, a 21 anni, lavora a titolo volontario in un asilo privato e non ha entrate. Spesso all’origine di tutto c’è un insuccesso a scuola o all’università. Il 10 per cento, però, ha in mano una laurea. E gira, come gli altri, a vuoto. In un’attesa che non finisce mai. È il caso di Francesco Marando, 27 anni, laureato in Ingegneria civile. È una vita sospesa anche la sua da quando è tornato a Marina di Ginosa Ionica dai genitori. «Io continuo a inviare curriculum, ma per il nostro settore il momento è quello che è: quando va bene mi rispondono “le faremo sapere”». E anche per lui, ritrovarsi a dormire nella camera di quand’era bambino non è semplice per nulla.

Di casi come questi ce ne sono tanti. E non sono solo under trenta. Basta pensare che in Italia, secondo l’Eurostat, quasi il 66 per cento dei “giovani adulti” vive a casa con i genitori. Una percentuale di quasi venti punti superiore rispetto alla media di tutti e ventotto i Paesi Ue. Le loro storie sono legate dalle stesse paure, sottolinea Rosina: «Vagano senza meta, sempre più disincantati e disillusi, con il timore di essere marginalizzati e di dover rinunciare definitivamente a un futuro di piena cittadinanza».

La fetta più consistente dei Neet è costituita da chi in questo momento sta cercando (più o meno attivamente) un impiego e quindi dai disoccupati. Ma se per loro questo limbo dovesse durare troppo a lungo, il rischio più grande è che passino dalla parte dei cosiddetti “inattivi”: uomini e donne che un impiego non lo cercano più. O che ingrossano le fila del lavoro nero. Gli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile sembrano purtroppo andare proprio in questa direzione. A settembre i senza lavoro fra i quindici e i ventiquattro anni erano il 40,5 per cento. Il loro lieve calo dello 0,2 per cento rispetto ad agosto non suona però esattamente come una buona notizia: nello stesso mese gli “inattivi” nella stessa fascia di età sono aumentati dello 0,5 per cento.

«Lavoro forzato, prostituzione, matrimoni precoci, ragazzini soldato: 21 milioni di persone nel mondo sono prive di libertà». E il ruolo dei consumatori in questo grande mercato.

La Repubblica, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

Prede facili e deboli, corpi che diventano oggetti da sfruttare: nel sesso, nel lavoro, in guerra, in qualche altro interesse privato. Nelle pagine dei dizionari si legge che “la schiavitù è la condizione dell’individuo considerato giuridicamente proprietà di un altro individuo e quindi privo di ogni umano diritto”. Ma la gabbia di questa definizione non aiuta a comprendere i confini estesi che il fenomeno ha assunto nel mondo contemporaneo. «Siamo partiti dalle parole del Papa, è stato proprio Bergoglio a suggerire questo tema a monsignor Marcelo Sanchez Sorondo che è argentino e membro del Comitato Etico della Fondazione Veronesi». Il professor Umberto Veronesi, uno dei più celebri nomi della scienza italiana, racconta il retroscena che ha condotto la Fondazione che porta il suo nome a organizzare la settima conferenza internazionale di Science for Peace con il titolo: “Traffico di essere umani e schiavitù moderne”.

Science for Peace è il progetto nato nel 2009 con due obiettivi: diffondere una cultura di non violenza e ridurre le spese di ordigni nucleari e armamenti a favore di maggiori investimenti nella ricerca. «Sorondo ha spiegato a Papa Francesco - si conoscono da tempo e sono amici - che ogni anno organizziamo una conferenza per la pace», riprende Veronesi, «e allora lui ha detto che l’argomento più urgente oggi è la schiavitù moderna».
Una schiavitù senza una geografia precisa perché si insinua ovunque vi siano disuguaglianze: la materia prima che la alimenta è la povertà, economica, psicologica o culturale. L’International Labour Organization calcola che vi siano nel mondo circa 21 milioni di persone private della libertà, dei diritti e della dignità, fra loro 5 milioni sono bambini, il giro d’affari è stimato sui 150 miliardi di dollari. «Temo che i numeri possano essere più elevati, in ogni caso è un fenomeno che ci offende come esseri umani. Abbiamo il dovere ogni volta di indignarci, ma anche di muoverci verso soluzioni concrete e la scienza offre gli strumenti e i linguaggi giusti».
Nell’aula magna della Bocconi di Milano la Fondazione ha chiamato il 13 novembre esperti di politica estera, di cooperazione, responsabili Unesco per l’uguaglianza di genere, esponenti di associazioni impegnate per i diritti umani e due Nobel: l’iraniana Shirin Ebadi e la yemenita Tawakkul Karman.
Avete invitato l’ex ministro Emma Bonino e due donne Nobel per la Pace. La questione femminile è centrale?
«Parleremo molto di donne e di spose bambine, delle famiglie che le vendono per denaro, e anche delle ragazzine appena più grandi destinate alla prostituzione coatta, un’altra forma di schiavitù orrenda. Ma allargheremo il discorso ad altre forme di sfruttamento, dai bambini soldato alle violenze dentro casa».
La schiavitù è illegale eppure prolifera. Come combatterla?
«Con la solidarietà fra le persone e con l’istruzione. La pace è il valore universale più importante che abbiamo, senza pace anche tutti gli altri valori si disperdono».
In Europa stanno arrivando decine di migliaia di profughi...
«Sono persone in fuga dalle guerre e dalle povertà. È successo altre volte nella storia, basta pensare al passato, a Gengis Khan, tanto per fare un esempio: quando un esercito arriva in un Paese, la gente cerca salvezza scappando».
Anche contro i migranti ci sono forme di schiavismo.
«Sì, appena sbarcati in Europa c’è chi li sfrutta magari per lavorare in nero nei campi a raccogliere i pomodori».
Abbiamo letto di inchieste e processi su forme di sfruttamento nelle fabbriche in diverse parti del mondo e anche nelle chinatown d’Italia. Come possiamo intervenire?
«Come consumatori, facendo attenzione quando acquistiamo le cose, compresi i vestiti. Lo sfruttamento nelle fabbriche è antico, ne parlava già Marx. Poi c’è stato un attenuarsi del fenomeno, che invece la globalizzazione ha riportato in primo piano. Abbiamo scoperto che certi prodotti finiti sui nostri mercati venivano fatti da bambini di 8 o 9 anni in zone desolate del mondo, magari pagati mezzo dollaro al giorno».
Lei ha detto che l’istruzione è un’arma per combattere le schiavitù moderne: che cosa state facendo in concreto?
«Operiamo per diffondere la conoscenza, abbiamo un centro di prevenzione contro il tumore al seno in Afghanistan, abbiamo operato nella Repubblica del Congo per avviare un programma di screening per il tumore all’utero, e in Madagascar. Se tutti i Paesi si impegnassero su questa strada sarebbe facile fare dei passi avanti. Vogliamo aumentare l’esercito dei pacifisti e portare una maggiore diffusione della scienza perché siamo consapevoli che il sapere è la strada per far progredire il pianeta».
«Da tempo che non si vedeva tanta gente riunita per discutere e confrontarsi sulle ragioni e sul futuro possibile di una forza politica, non solo di opposizione al renzismo dominante e al blocco di centrodestra che cerca di riorganizzarsi».

Il manifesto, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

La sini­stra ita­liana c’è. E ha ini­ziato il suo viag­gio in un luogo aperto al popolo di sini­stra. Era da tempo che non si vedeva tanta gente riu­nita per discu­tere e con­fron­tarsi sulle ragioni e sul futuro pos­si­bile di una forza poli­tica, non solo di oppo­si­zione al ren­zi­smo domi­nante e al blocco di cen­tro­de­stra che cerca di rior­ga­niz­zarsi. Per­ché quello che abbiamo sem­pre pro­mosso e auspi­cato è la volontà di far incon­trare e unire più voci, più orga­niz­za­zioni, più aggre­gati sociali in grado di pro­porre e di costruire un’alternativa cre­di­bile, forte, con­vin­cente «di governo».

Lavoro garan­tito nei diritti e nel red­dito; wel­fare; scuola pub­blica; immi­gra­zione come risorsa cul­tu­rale e eco­no­mica; eco­lo­gia per lo svi­luppo soste­ni­bile; sobrietà nello stile poli­tico; assi­stenza sani­ta­ria uni­ver­sa­li­stica. Sono alcuni dei temi al cen­tro dell’incontro di Sini­stra ita­liana, essen­ziali e costi­tuenti di un pro­gramma diverso per il Paese.

Ritro­vare insieme sto­rie e anime della sini­stra, da Sel ai fuo­riu­sciti del Pd, agli espo­nenti di «Altra Europa per Tsi­pras» è per il mani­fe­sto cosa buona e giu­sta. Quando abbiamo lan­ciato il dibat­tito «C’è vita a sini­stra» cre­de­vamo nella sua uti­lità e spe­ra­vamo nel suo suc­cesso. Vedere il nostro sup­ple­mento, che rac­co­glie gli inter­venti e le let­tere arri­vate in reda­zione, in mano a tutte le per­sone riu­nite nel gre­mito tea­tro romano ci con­forta. È uno sti­molo in più per­ché il nostro gior­nale diventi un saldo punto di rife­ri­mento politico-giornalistico per chi si rico­no­sce in un pro­getto alternativo.

L’unico limite tan­gi­bile, e visi­bil­mente, era la scarsa pre­senza gio­va­nile. Non bastano i poli­tici di pro­fes­sione, gli intel­let­tuali, i mili­tanti di un tempo per ren­dere con­creta un’idea così ambi­ziosa. Se dovessi dare un sug­ge­ri­mento per le pros­sime ini­zia­tive è que­sto: pen­siamo alle nuove gene­ra­zioni, pun­tiamo sul loro coin­vol­gi­mento e sul loro pro­ta­go­ni­smo. Anche per­ché il ricam­bio può essere un anti­corpo al ver­ti­ci­smo dei gruppi par­la­men­tari che adesso uni­scono le loro ener­gie. Oltre­tutto un ampio con­tri­buto di gio­vani può aiu­tare a modi­fi­care e arric­chire il lin­guag­gio e le forme di comunicazione.

Alcuni espo­nenti della mag­gio­ranza rea­gi­scono con un sor­riso di suf­fi­cienza all’uscita dei diri­genti del Pd e a ini­zia­tive come quella di ieri. Ma dimen­ti­cano, o non vogliono vedere, che que­sta è un’epoca di cam­bia­menti. E, come già scritto, quello che abbiamo visto ieri non è che l’inizio di un cambiamento.

«Nasce "Sinistra italiana". Per il momento in parlamento. Dal Pd scatta l’accusa di intelligenza con la destra. Che però è alleata di Renzi. Oggi a Roma la presentazione del «"primo passo". Con Fassina, D’Attorre, Galli. Ma senza Civati, che pensa a unire una componente nel "misto"». Il manifesto, 7 novembre 2015

«Le uscite a sini­stra spesso hanno por­tato come risul­tato di favo­rire gli avver­sari, e loro così stanno facendo il gioco della destra». L’accusa di intel­li­genza con il nemico, grande clas­sico delle scis­sioni, ieri è arri­vata. Anche se in que­sto caso il para­dosso è che il nemico, almeno un pezzo del nemico, è un alleato di governo. Ieri Lorenzo Gue­rini, vice­se­gre­ta­rio Pd, ha attac­cato quelli che escono dal suo par­tito. Alfredo D’Attorre, dal banco degli impu­tati, respinge l’accusa al mit­tente: «Se deve tro­vare chi fa più il gioco della destra non a parole ma con le scelte con­crete, non ha che da rivol­gersi al segre­ta­rio di cui è vice».

Pro­ba­bil­mente è solo un assag­gio delle pole­mi­che dei pros­simi giorni. Per­ché gli anti ren­ziani del par­la­mento da ora ten­te­ranno l’opera di ero­sione del Pd. Oggi al Tea­tro Qui­rino di Roma va in scena la pre­sen­ta­zione del nuovo gruppo di Mon­te­ci­to­rio, «Sini­stra ita­liana», nome che ha il pre­gio della chia­rezza. La coin­ci­denza con l’anniversario della Rivo­lu­zione sovie­tica è casuale: la mag­gior parte dei pre­senti non l’ha mai festeg­giata per età e per con­vin­zione. Del «Sì» faranno parte i depu­tati eletti con Sel, gli ex Pd Fas­sina, Gre­gori, D’Attorre, Folino e Galli, l’ex Sel Clau­dio Fava. Ma «altri arri­ve­ranno pre­sto», giura D’Attorre, che a un appello ai suoi ex com­pa­gni di par­tito: «A chi è ancora nel Pd voglio dire che pur­troppo biso­gna guar­dare in fac­cia la realtà, anche se è dolo­roso, come lo è stato per me. In que­sto Pd per la sini­stra non c’è pos­si­bi­lità di inci­dere. E que­sto apre ancora più il campo al M5S».

La chia­mata non è rivolta solo ai par­la­men­tari. In alcune città saranno pro­mosse ini­zia­tive per pre­sen­tare i nuovi gruppi, «ter­mi­nali sociali», come li ha defi­niti Ste­fano Rodotà. Un docu­mento inti­to­lato «Rico­struire la sini­stra per il lavoro e per l’Italia» cir­cola nella ’base’ Pd insof­fe­rente al par­tito della nazione. Nei pros­simi mesi si vedrà con quali effetti. Vuole essere «un «nuovo ini­zio, non una cosa rossa», sot­to­li­nea D’Attorre. Certo una nuova for­ma­zione di sini­stra (o di recu­pero delle cul­ture del cen­tro­si­ni­stra, a seconda di chi parla) a cui da tempo si lavora anche nella sini­stra radi­cale. I per­corsi non sono sem­pre con­ver­genti, fin qui. Negli negli scorsi giorni è stato appro­vato un docu­mento comune fra Sel, Prc, Altra Europa con Tsi­pras, Act, Pos­si­bile (Civati) e Futuro a sini­stra (Fas­sina) per l’avvio della fase costi­tuente di un «nuovo sog­getto». L’unità della com­pa­gnia è la scom­messa dei pros­simi mesi, dalle ammi­ni­stra­tive di giugno.
«La sini­stra è in crisi eppure di una sini­stra si sente, oggi più che mai, il biso­gno», è l’appello un gruppo di docenti uni­ver­si­tari, eco­no­mi­sti, intel­let­tuali rivolto alla pla­tea romana. Aprirà le danze un mes­sag­gio della pre­si­dente della Camera Laura Bol­drini, poi il vero cal­cio di ini­zio sarà di Ste­fano Fas­sina, l’ex mini­stro del governo Letta, primo ad abban­do­nare il Pd ren­ziano insieme alla depu­tata romana Monica Gre­gori. Nel pome­rig­gio chiu­derà l’assemblea Arturo Scotto, capo­gruppo di Sel e ora di «Sì». In mezzo, oltre ai com­pa­gni di par­tito, par­le­ranno stu­denti, lavo­ra­tori, eso­dati e altre realtà di cui il nuovo gruppo vuole essere appunto «ter­mi­nale sociale». Ci sarà anche Fran­ce­sca Chia­vacci dell’Arci. Man­derà un mes­sag­gio Ser­gio Cof­fe­rati, ex Pd doc, che bene­dice l’iniziativa. C’è chi annun­cia una com­po­nente di «Sini­stra ita­liana» anche nel gruppo misto del senato. Ma non subito: a fre­nare sono i due sena­tori ex M5S Boc­chino e Cam­pa­nella, oggi dell’Altra Europa: «Siamo coin­volti nel per­corso costi­tuente di una nuova forza della sini­stra. Ma l’atto di iscri­zione al gruppo avverrà in un secondo momento», spiega il primo. E Cam­pa­nella: «Vogliamo fare da ponte fra Sel e le altre realtà che si muo­vono nella stessa dire­zione. Mi auguro che pre­sto saremo tutti insieme, anche con Civati».

In realtà Civati lavora a una com­po­nente auto­noma nel gruppo misto della camera. «Uni­remo insieme espe­rienze finora divise per offrire al Paese un’agenda cre­di­bile di cam­bia­mento», assi­cura Nichi Ven­dola. Per D’Attorre «la novità è che chi usciva dal Pd rima­neva disperso. Da domani parte un grande pro­cesso uni­ta­rio, c’è un rife­ri­mento che adesso è par­la­men­tare e poi si strut­tu­rerà nei ter­ri­tori e l’anno pros­simo ci sarà il pro­cesso di costru­zione del par­tito vero e proprio».

Una riflessione profonda e accorata sulle ragioni per cui l'indignazione non si trasforma in azione conseguente, e sul cambiamento di prospettiva che è necessario assumere. Il manifesto, 4 novembre 2015
Da quando è ini­ziato il caso Marino ricevo tele­fo­nate e mes­saggi, da com­pa­gni e amici, il cui con­te­nuto è pres­sap­poco que­sto: «Fac­ciamo qual­cosa, non pos­siamo assi­stere alla morte della demo­cra­zia». Ma que­sto sen­ti­mento auten­tico di mal­con­tento, o di disa­gio, o di fru­stra­zione, non arriva oltre una sana quanto legit­tima indi­gna­zione «tra­sfor­mando la spon­ta­neità in orga­niz­za­zione, la folla in massa cosciente, il dis­senso in pro­po­sta poli­tica alter­na­tiva», come ha ben scritto Angelo d’Orsi (il mani­fe­sto, 1 novembre).

Essa, quando c’è - e non sem­pre c’è - appare un fuoco di paglia, una levata di scudi senza alcun esito poli­tico. Tant’è che molti di que­sti com­pa­gni e amici, finiti i cla­mori dello scan­dalo, tor­nano quasi subito alle loro occu­pa­zioni quo­ti­diane (come se le scon­fitte non pesas­sero, o fos­simo ormai abi­tuati ad esse come a un feno­meno naturale).

Al netto dei tanti errori di Marino (sui quali è inu­tile tor­nare), resta il fatto che la persona-sindaco Marino è stata let­te­ral­mente mas­sa­crata nella sua dignità di per­sona e desti­tuita di ogni ragione poli­tica, da cui l’indignazione feroce, e pur­troppo effi­mera, di tante per­sone. Di fronte a que­sti tra­gici (nel senso di tra­ge­dia greca) fatti a me ven­gono in mente le parole di Ingrao, scritte nel libro di Gof­fredo Bet­tini (Un sen­ti­mento tenace, Impri­ma­tur):

«Io sento peno­sa­mente la sof­fe­renza altrui: dei più deboli, o più esat­ta­mente dei più offesi. Ma la sento per­ché pesa a me: per così dire, mi dà fasti­dio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Per­ché alcune sof­fe­renze degli altri mi sono insop­por­ta­bili. Que­sto epi­so­dio può dire la ragione per cui io rimango incol­lato alla poli­tica, per­sino sotto l’aspetto tat­tico. Non sono sicuro che ciò si possa rap­pre­sen­tare come una moti­va­zione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro con­di­zione mi “turba”, e senza gli “altri” non esi­sto (nem­meno sarei nato)».

C’è, in quelle parole, il senso vero della poli­tica. Forse le per­sone (di sini­stra) non sof­frono più il dolore guar­dando le ingiu­sti­zie, i soprusi, lo scar­di­na­mento delle regole, l’abuso di potere, l’ineguaglianza sociale, la sof­fe­renza dei poveri e degli oppressi, come ad esem­pio, nel caso degli immi­grati. La poli­tica (anche quella buona) oggi ci invita sem­mai a guar­dare oltre: come rico­struire un’unità a sini­stra, come con­tra­stare o bat­tere l’avversario di turno. Detto in altri ter­mini, le per­sone sem­brano con­tare assai poco. Ma dav­vero siamo sicuri che non biso­gne­rebbe invece fare un passo indie­tro e ricon­si­de­rare quel senso di indi­gna­zione e di radi­ca­lità pro­fonda con­te­nuta nelle parole di Ingrao che pos­sono appa­rire ai pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, moti­va­zioni per­so­nali e per­fino moralistiche?

Le alchi­mie poli­ti­che per dare vita a nuovi sog­getti, o a un nuovo sog­getto della poli­tica o a nuove for­ma­zioni, si sono tutte sem­pre sgre­to­late nell’arco di pochi mesi dalla loro nascita e tanto più si mol­ti­pli­cano, tanto più espo­nen­zial­mente si dis­sol­vono. Forse non è la strada giu­sta, forse non siamo pazienti, forse non siamo così deci­sa­mente con­vinti che que­sto non è il migliore dei mondi, forse l’ingiustizia ai danni degli altri non ci pro­voca quella sof­fe­renza di cui par­lava Ingrao, forse c’è qual­cosa che ancora non riu­sciamo a capire e ad ela­bo­rare poli­ti­ca­mente. Se tante per­sone si sono recate a vedere l’Expo par­tendo da paesi lon­tani, sacri­fi­can­dosi a file inter­mi­na­bili per assi­stere a qual­che foto­gra­fia o a qual­che docu­men­ta­rio che pote­vano tran­quil­la­mente essere con­su­mati a casa pro­pria davanti alla Tv, qual­che motivo ci sarà pure.

Forza e potere dei mass-media, dirà qual­cuno, ma non basta a spie­gare il movi­mento di oltre 20 milioni di visi­ta­tori in fila, quando a pro­te­stare per la defe­ne­stra­zione del Sin­daco, sulla piazza del Cam­pi­do­glio, non ce n’era più di qual­che migliaio.

In que­sto toc­chiamo con mano la potenza dell’egemonia del capi­tale e dei poteri forti. Un’egemonia che disin­canta alcuni e che con­duce altri sulla strada della rivolta popu­li­sta con­tro un sistema che ormai non tutela i più svan­tag­giati e che offre spet­ta­coli effi­meri a quel ceto medio che crede ancora di poter con­ser­vare i vec­chi pri­vi­legi.

Chi ha cuore e capa­cità di pen­sare una nuova sini­stra deve ripar­tire da una revi­sione pro­fonda di alcune cate­go­rie sto­ri­che come, ad esem­pio, quella diven­tata astratta e gene­rica di popolo, fran­tu­mato, quest’ultimo, in un ven­ta­glio ampio di nuovi ceti sfrut­tati a vario titolo. Il rife­ri­mento deve essere alla per­sona offren­dole la pos­si­bi­lità di eman­ci­parsi e di capire come le sue esi­genze pos­sono con­vi­vere e anzi acqui­stare senso solo se messe a con­fronto con quelle dell’altro. Per­ché spesso accade, quando si tenta di creare una nuovo for­ma­zione poli­tica, che la per­sona venga ine­vi­ta­bil­mente oscu­rata in nome di vec­chie stra­te­gie e astute tat­ti­che che pro­du­cono ulte­riore disaf­fe­zione e disin­canto. Anche se non sof­fia più il vento della sto­ria, come afferma Cas­sano, si può andare a remi, se però si cono­sce la rotta e si ha la pazienza di remare e di stare insieme sulla stessa barca.
Da referendum al Parlamento, un esame rigoroso e appassionato dei temi ineludibili se il «mondo della sinistra» vuole contare nella ricomposizione in atto del quadro politico.

La Repubblica, 2 novembre 2015

NO, non si possono valutare le novità che ogni giorno compaiono nel mondo della sinistra ritornando a quel pensiero di Mao secondo il quale «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». E neppure ci si può affidare alla speranza di cento fiori che fioriranno. Proprio perché si tratta di iniziative significative, servono analisi rigorose, senza nostalgie o compiacenze, per cercar di cogliere gli elementi di una consapevole discontinuità e i segni di una attenzione per la realtà legata ad uno sguardo sul futuro.

Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.

A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare, nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd, quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas, Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti sociali.

Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo, non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio da evitare?

In realtà, nel momento in cui la verticalizzazione e la concentrazione del potere impoveriscono la democrazia rappresentativa e fanno deperire pericolosamente controlli e contrappesi, il referendum si presenta come uno strumento per ricostruire equilibri costituzionali e reagire ai processi di esclusione che sono all’origine dell’astensionismo elettorale. Esattamente l’opposto di un suo uso plebiscitario, che si ha quando, dall’alto, si chiede la conferma di una decisione già presa. Siamo piuttosto di fronte ad una di quelle strategie “contro-democratiche” esplorate da Pierre Rosanvallon, per reagire alla “presidenzializzazione della democrazia”, attivando poteri di partecipazione e controllo dei cittadini. Ma, nella particolare situazione italiana, il referendum costituisce anche uno strumento per la costruzione dell’agenda politica, per individuare questioni rilevanti che altrimenti sarebbero oscurate dalla forza di interessi particolari o da arretratezza politica e culturale.

Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede. Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa.

La costruzione dell’agenda politica non può essere tutta lasciata all’esterno. Alla società e al suo modo di organizzarsi si deve guardare non solo per reagire a chi ne vuole certificare l’irrilevanza e cancellare ogni soggetto collettivo. Nel momento in cui si cerca di allargare l’orizzonte politico, non basta il ricorso intelligente a tutti gli strumenti parlamentari disponibili, che possono incontrare resistenze difficilmente superabili. Per batterle, è indispensabile che i gruppi parlamentari siano un vero “terminale sociale”, per creare sui singoli temi quella pressione collettiva essenziale per superare gli ostacoli.

Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino, ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale, come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.

La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di promuovere mutamenti reali.

Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la ricostruzione di una politica costituzionale.

Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, p o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere». Il manifesto, 27 ottobre 2015


Qual­cuno ancora non l’ha inteso. Di per sé la demo­cra­zia non è gran cosa. Sarà un nobi­lis­simo ideale, ma quella toc­cata agli umani è una mise­ria. Come ebbe a dire Schum­pe­ter, è una gara per le cari­che pub­bli­che e per i divi­dendi che offrono. Basta vin­cere le ele­zioni. Un tempo gli elet­tori si atti­ra­vano esi­bendo alcuni sacri prin­cipi – ugua­glianza, soli­da­rietà, ecc. – e attuando poli­ti­che piut­to­sto gene­rose nei loro con­fronti, non­ché arruo­lan­doli e asso­cian­doli tra­mite i par­titi. Per com’è fatta da ultimo la com­pe­ti­zione poli­tica, gli elet­tori sono attratti mediante costo­sis­sime cam­pa­gne media­ti­che. Quindi, si fa eco­no­mia di poli­ti­che «sociali», per fare quelle gra­dite a chi finan­ziale cam­pa­gne elet­to­rali: a cena o in sedi più riposte.

Per rin­ca­rare la dose: la com­pe­ti­zione demo­cra­tica è con­ge­ni­ta­mente truc­cata. Chi scrive le regole sono i gio­ca­tori, ma non sem­pre tutti d’intesa fra loro. Le scri­vono i vin­centi a spese della concorrenza.

Le ultime leggi elet­to­rali adot­tate in Ita­lia lo con­fer­mano come meglio non si potrebbe. Con­tano invero molto le cir­co­stanze. Nel 1946– 48, quando si adot­ta­rono pro­por­zio­nale e bica­me­ra­li­smo, i vin­centi erano tanti e nes­suno era in grado di imporsi agli altri: furono costretti a un accordo piut­to­sto equo. Non appena però la Dc si con­vinse che cir­co­stanze e rap­porti di forza erano cam­biati, adottò la legge truffa.Qui sta tut­ta­via il bello delle ele­zioni. Non è detto che quando i vin­centi le riscri­vono, o rein­ter­pre­tano, a pro­pria misura, le regole fun­zio­nano secondo le attese. Padri e padrini dell’Italicum si ten­gano per avvertiti.

La demo­cra­zia elet­to­rale man­tiene un mar­gine, sep­pur ristretto, di impre­ve­di­bi­lità. Inol­tre, le ele­zioni cicli­ca­mente si ripe­tono. Com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità sono pregi fon­da­men­tali. Il loro primo pre­gio sta nel fatto che se non ci sono la demo­cra­zia diventa auto­cra­zia e la demo­cra­zia (elet­to­rale) è un mar­chio oggidì quasi irri­nun­cia­bile. In secondo luogo, com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità assi­cu­rano che nes­sun risul­tato è mai per sem­pre. Prima o dopo, il dia­volo ci mette la coda.

La com­pe­ti­ti­vità, tut­ta­via, se non è resa fit­ti­zia, ha pure un altro pre­gio. Costringe i con­cor­renti a mostrarsi un po’ gene­rosi con gli elet­tori: se vuoi che ti votino, qual­cosa devi con­ce­der­gli. Suf­fra­gio uni­ver­sale e wel­fare sono esi­stiti per que­sta ragione. Pro­prio per bloc­care que­sta pos­si­bi­lità – defi­nita di volta in volta dai catoni di accatto dema­go­gia, clien­te­li­smo, assi­sten­zia­li­smo o popu­li­smo – le regole demo­cra­ti­che sono state da un quarto di secolo ricon­ge­gnate ridu­cendo a due le alter­na­tive e ren­den­dole fit­ti­zie. Dato che i con­cor­renti, per inse­guire l’elettore inter­me­dio, pro­met­tono e fanno tutti le stesse cose. Oppresso da tale com­pe­ti­ti­vità simu­lata, lo Stato sociale ci ha lasciato le penne. Men­tre metà elet­tori, disgu­stati, non votano nem­meno, le ele­zioni oggi si vin­cono con una man­ciata di voti, lau­ta­mente pagati da chi ha i soldi. Come si voleva.

Qual­cuno a que­sto punto invo­cherà la Costi­tu­zione e le tavole dei diritti. Ma andiamo alla sostanza: costi­tu­zioni e diritti sono ten­ta­tivi d’irrigidire giu­ri­di­ca­mente un equi­li­brio di potere dato sto­ri­ca­mente e pro­iet­tarlo nel tempo. La costi­tu­zione del ‘48 voleva irre­ver­si­bile l’antifascismo e il – mode­sto – comune deno­mi­na­tore che legava le forze poli­ti­che che la sot­to­scris­sero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popo­lari. La Costi­tu­zione è per­tanto un incro­cio tra un pro­gramma poli­tico solenne e un pezzo di carta. Dopo un avvio sfer­ra­gliante, per un po’ il pro­gramma poli­tico ha fun­zio­nato. Ma non per forza intrin­seca, ma per­ché c’erano lar­ghis­sime truppe elet­to­rali e impo­nenti orga­niz­za­zioni di massa che lo garantivano.

Al con­tempo, i par­titi erano in con­cor­renza tra loro per l’elettorato popo­lare. Aggiun­gia­moci, infine, che c’era una classe poli­tica che, pur tra tanti distin­guo, ci cre­deva. Per for­tuna c’è anche chi fa poli­tica non solo per vin­cere le ele­zioni, ma anche per attuare qual­che nobile ideale. Alla lunga la Costi­tu­zione si è ridotta a un pezzo di carta.

Com­pe­ti­zione effet­tiva, vasti elet­to­rati e orga­niz­za­zioni di massa in grado di susci­tarli sono ciò che con­sente di arre­dare la demo­cra­zia in maniera non troppo misera.

Bene, la reto­rica della gover­na­bi­lità ad ogni costo, di destra e di sini­stra, ha azze­rato la com­pe­ti­zione e quella mora­li­sta ha accu­sato i par­titi di essere la sen­tina di ogni vizio. Le sen­tine si pos­sono anche svuo­tare. Si è detto invece che i par­titi erano con­ge­ni­ta­mente viziosi e li si è ridotti a ectoplasmi.

Con­clu­sione. Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, per­ché lo rite­niamo ancora valido, o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere. Con armi paci­fi­che, ma che fac­ciano arre­trare l’avversario. Non è facile, per­ché l’avversario è attrez­zato: fra le altre cose ci ha inca­te­nati ai dik­tat dell’Europa dei banchieri.

Ma non è detto che sia impos­si­bile. Non è impos­si­bile, ad esem­pio, esco­gi­tare tec­ni­che comu­ni­ca­tive utili aggi­rare le blin­da­ture dei media, che sono in mano ai ric­chi. I cosid­detti par­titi popu­li­sti, si badi, ci stanno riu­scendo, sep­pur nell’intento d’instradare la demo­cra­zia sui binari del raz­zi­smo e dell’intolleranza. Tant’è che pure a sini­stra da qual­che parte qual­cosa si muove: in Inghil­terra, nella peni­sola ibe­rica, in Grecia.

Chissà per­ché la sini­stra ita­liana è rima­sta finora pri­gio­niera di per­so­na­li­smi e nar­ci­si­smi, limi­tan­dosi a pestare i piedi per i diritti vio­lati e per le male­fatte di que­sto e quello. Chi dice però che non possa far di meglio?

Nell'intervista di Antonio Gnoli la vita di una protagonista di una delle principali correnti politiche e culturali che hanno attraversato l'Italia dalla Resistenza a oggi. raccontata da chi la sta vivendo.

LaRepubblica, 1 febbraio 2015

Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.

Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K.S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato», dice.

Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese»Collera perché?«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico»

Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi»

Ma non era comunista?
«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere "Louis Aragon"! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».

Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo»

E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».

Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».

Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».

Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».

Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».

Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato».

Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».

Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti»

Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».

Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi»

Ha conosciuto Foucault personalmente?

«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno»

Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo».

Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis»

Quale malattia?

«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci»

Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».

A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane»

Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme»

Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
«Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall'Italia non sono stati rovinati»

Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra»

Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio»

Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».


Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era un uomo all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent'anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola»

Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana»

Si riconosce un lato romantico?«Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro»

Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita»

Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe»
È l'orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh»

E le sue radici: Pola? L'Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me»

C
Traduco in italiano l’ultimo articolo di Bia Sarasini sul : ci siamo fatti prendere in giro per un anno e mezzo e forse più da Sel, che non aveva nessuna intenzione di unificarsi con L’altra Europa e con Rifondazione, ma voleva solo logorarle, cosa che aveva cominciato a fare fin da prima della campagna elettorale e che alla fine le è riuscito benissimo.

Abbiamo perso per strada oltre un milione di elettori, quarantamila persone che avevano firmato con entusiasmo il nostro manifesto, migliaia di compagni disgustati dal nostro tergiversare, tre quarti dell’intellighenzia italiana che si era illusa di trovare nel nostro progetto un punto di riferimento, il lavoro di decine di comitati locali.

Abbiamo sprecato il “momento magico” del risultato elettorale sparando a palle incatenate contro Barbara Spinelli - figura senza la quale la nostra lista non sarebbe mai nata - cosa che peraltro avevamo cominciato a fare già durante la campagna elettorale, sostenendo che un bel bikini avrebbe attirato più voti dei suoi noiosi discorsi politici. Adesso non contiamo più niente e ci rendiamo conto che quelli con cui avevamo promesso di fare il big bang della sinistra, compresi molti fuoriusciti dal PD, pensano solo a rifare il centro-sinistra perché non sanno concepire nient’altro.

D’altronde neanche noi sappiamo bene che cosa fare, ma andiamo avanti così. Speriamo che il buon dio ci aiuti.

Lo storico Nicola Labanca ricostruisce la nostra politica in Abissinia concentrandosi sulla vergogna delle leggi razziste: una vera e propria apartheid. La Repubblica, 25 ottobre 2015

Nell’autobiografia delle vergogne nazionali è rimasto sullo sfondo, come una fotografia imbarazzante. Italiani che non sposano le nere. Di più: non frequentano gli stessi locali e gli stessi luoghi di lavoro. E ai “meticci”, figli della colpa, impediscono ogni diritto: di essere riconosciuti dal genitore cittadino o di andare a scuola con i colonizzatori bianchi. Quello impiantato negli anni Trenta in Africa Orientale fu l’impero più razzista, più sistematicamente vessatorio e divisivo, tra quasi tutti i regimi coloniali delle potenze europee. È la tesi sostenuta da Nicola Labanca, studioso dell’espansione coloniale, nel suo nuovo libro che documenta la costruzione in Etiopia, Eritrea e Somalia di un razzismo legalizzato in anticipo di un anno e mezzo sulle leggi antisemite adottate nella penisola. Un altro colpo inferto al mito degli “italiani brava gente”.

Il saggio di Labanca ha anche il merito di sottrarre la guerra d’Etiopia alla veste un po’ stretta di impresa coloniale, collocandola all’interno di un gioco di interessi internazionali che sfoceranno nella seconda guerra mondiale. E guarda a quella vicenda anche con gli occhi di uomini e donne africani vessati dalle nostre pretese imperiali: ancora troppo poco sappiamo degli amministratori coloniali costretti a improvvisare la gestione di un impero sproporzionatamente grande, tra buona volontà, inesperienza e talvolta malafede. Una rimozione testimoniata anche dal silenzio che ha avvolto in queste settimane l’ottantesimo anniversario della guerra d’Etiopia, in un paese che ha fatto degli anniversari il nuovo totem memoriale. Certo è difficile essere fieri della legislazione che il 19 aprile del 1937 diede avvio alla istituzionalizzazione del razzismo, con il divieto di relazioni matrimoniali con gli indigeni. Una norma che allora non turbò le coscienze, in linea con “la superiorità civile e morale” dell’uomo bianco sull’uomo nero.

La norma del 1937 segnò il principio di un nuovo canone razzista che secondo Labanca ha poche analogie con il resto del mondo coloniale. Non che gli altri imperi si distinguessero per liberalità e inclusione, essendo la separazione razziale pratica quotidiana. Ma ciò che distinse gli italiani fu la traduzione in norma codificata di quella che altrove rimase una consuetudine. E in una classificazione generale di razzismo coloniale che va dal silenzio omertoso di tanti sistemi giuridici alle gerarchie razziali degli spagnoli in America Latina (fondate su un’inventata limpieza de sangre ), l’Italia si mostra molto più vicina alla «brutale semplificazione binaria del sistema sudafricano » (nel dopoguerra si sarebbe chiamato apartheid). Solo nel 1947 ci saremmo liberati di quelle leggi ingombranti. A condizione però di non parlarne più.
Una decisa critica ai contorcimenti dei resti della vecchia sinistra, che riprende il cammino come se nulla fosse cambiato, e alle incertezze della sinistra radicale.

Il manifesto, 24 ottobre 2015

Allora, era qui che dove­vamo arri­vare, il futuro della sini­stra è il ritorno al pas­sato dell’Ulivo di Prodi? Mesi e mesi di tavoli, incon­tri, riu­nioni, e annessi rin­vii che spez­zano il cuore e i pro­getti in vista del magic moment, sem­pre alla ricerca della mai rag­giunta con­giun­tura per­fetta, era per ritro­vare l’antico cen­tro­si­ni­stra? Quello bello, di un tempo, quando non c’era la crisi all’orizzonte, il wel­fare era soste­ni­bile e l’Europa era ancora un bel sogno in cui cre­dere, men­tre nes­suno imma­gi­nava l’apparire del par­tito della nazione?

Non che ci sia da stu­pirsi. La fram­men­ta­zione dello spa­zio poli­tico a sini­stra è sem­pre rima­sta tale, nono­stante l’impegno gene­roso di tante e tanti, nono­stante lo sforzo di tenere un filo che leghi le mille espe­rienze tra sociale senza rap­pre­sen­tanza e poli­tico che non trova una forma. Nono­stante il suc­cesso — mode­sto ma unico — dell’ultimo pro­getto uni­ta­rio della sini­stra, il risul­tato della lista l’Altra Europa con Tsi­pras alle Euro­pee del 2014, senza igno­rare la delu­sione e gli abban­doni che ne sono seguiti. Non c’è da mera­vi­gliarsi che le ine­vi­ta­bili e fin troppo con­te­nute rot­ture — vista la rotta impressa dal segre­ta­rio Mat­teo Renzi — che sono in corso nel Pd, fac­ciano fatica a orien­tarsi nel campo nuovo in cui ven­gono tro­varsi, quello che il gergo media­tico con­ti­nua a chia­mare sini­stra radi­cale, e che più volen­tieri fac­ciano rife­ri­mento ai momenti migliori del pas­sato recente. E a parte la mera­vi­glia che sicu­ra­mente avrà colto l’eccellente Pro­fes­sore nel vedersi con­si­de­rare il rife­ri­mento di un pro­getto di sini­stra, addi­rit­tura di una “cosa rossa”, il fatto sor­pren­dente è che in que­sto qua­dro vien can­cel­lata la crisi eco­no­mica che ha scon­volto la scena mon­diale. Come sem­bra spa­rita la crisi del wel­fare e della buona vec­chia social­de­mo­cra­zia, che dallo tsu­nami della crisi è stata spaz­zata via.

E lo dico senza dimen­ti­care, anzi, le mie sim­pa­tie uli­vi­ste del pas­sato. Pro­prio per­ché ne ho seguito passo passo l’intera evo­lu­zione, l’evocazione attuale mi sem­bra assurda. La muta­zione del Pd impressa da Renzi è l’ostacolo più evi­dente. Una muta­zione che si sta com­ple­tando sotto nostri occhi, con l’espulsione dal pro­prio pro­filo non tanto delle radici sto­ri­che che nella comu­ni­ca­zione di pro­pa­ganda ven­gono — con misura — col­ti­vate, quanto del radi­ca­mento sociale.

È così sor­pren­dente, que­sta pro­spet­tiva, che viene da chie­dersi se non sia uno dei tanti gio­chi in corso per affon­dare defi­ni­ti­va­mente ogni ten­ta­tivo di sini­stra nel nostro paese. Una sini­stra anti­li­be­ri­sta, che punti a pro­teg­gere i gio­vani, i pen­sio­nati, le donne, i lavo­ra­tori, dalla vio­lenza dell’attacco sociale, una sini­stra che vede nel governo Renzi l’interprete fedele, anzi, crea­tivo — del dise­gno libe­ri­sta delle élite euro­pee. Come si fa a pen­sare ad alleanze con chi taglia la sanità pub­blica? Come non vedere pro­spet­tive diverse in Europa, per esem­pio in Portogallo?

Certo, ogni pro­po­sta è legit­tima, in un ter­reno che non vede ancora in campo un pro­getto comune, un ter­reno che non ha nome, tanto che si ritrova a essere iden­ti­fi­cato con un richiamo che nella ver­sione più bene­vola appare nostal­gica, come “cosa rossa”. E non si può certo imma­gi­nare che ci sia un’unica pro­spet­tiva, l’esatto con­tra­rio dell’idea in cui ci siamo spesi in tante e in tanti. L’idea di un met­tersi in mar­cia, di avviare insieme un pro­getto che nel cam­mi­nare prende forma. Un met­tersi in moto che ha biso­gno di un avvio, un ini­zio. Un ini­zio fin troppo atteso.

Abbiamo discusso, nei mesi scorsi, della vita a sini­stra. La vita, se c’è, a un certo punto prende forma, vive appunto. Credo che con­ti­nuare a tra­sci­nare la deci­sioni di par­tenza di riu­nione in riu­nione sia un gioco mor­tale. Si potrebbe anche chia­marlo gioco delle tre carte, vedo e non vedo, ci sono e non ci sono. È diver­tente, ma solo per chi tiene il banco. Che non è nes­suno dei par­te­ci­panti. E il banco sono il governo, o l’Europa, o il libe­ri­smo, fate voi. Che a gio­care ci siano solo uomini non è un det­ta­glio irrilevante.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare. Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare.

Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

«Da sette anni le organizzazioni con la missione di aiutare gli altri non crescono. Ma il saldo non è negativo: aumentano coloro che agiscono senza iscriversi a nessuna associazione. E i gruppi che resistono sono sempre più simili a piccole imprese. A mancare è il ricambio generazionale e lo sviluppo nel Sud».

La Repubblica, 22 ottobre 2015

Roma. Da sette anni il volontariato italiano non cresce. Lo dice il primo selfie che le Organizzazioni della società civile (secondo la definizione di Dublino 2005) si sono scattate a fine 2014, allargandolo poi nelle 70 pagine del Report nazionale sulle organizzazioni di volontariato disponibile in questi giorni. È il primo autocensimento su questo vasto mondo e l’ha realizzato il Coordinamento dei centri di servizio, istituiti con legge nel 1991 e oggi arrivati a 74 nel paese.

Il lavoro innanzitutto ci dice che le organizzazioni di volontariato registrate nelle venti regioni sono 44.182. Tante? Poche? Il censimento non dà punti di riferimento a ritroso, ma subito dopo il dato assoluto offre un’informazione inedita che conferma quello che ai convegni si dice da tempo: il volontariato italiano, fortemente cattolico e di sinistra, è in crisi, fatica a espandersi, non trova una dimensione contemporanea.
Già, tra il 2007 e il 2014, che è esattamente l’ampio spettro temporale della crisi economica mondiale e soprattutto italiana, le nuove organizzazioni di volontariato hanno rallentato la loro crescita, che durava dal 1942 e negli Anni Ottanta e Novanta era diventata tumultuosa. Nel 2008, stagione spartiacque, si registra il primo arresto: meno due per cento. Poi ancora meno due, meno sette per totalizzare un - 39 per cento in sette stagioni di fila. Una somma in negativo che colpisce. Non si tratta di una decrescita delle organizzazioni in valore assoluto, ma di un rallentamento (molto forte) delle nuove strutture organizzate.
Nell’ultimo anno preso in considerazione, il 2014, la nascita di realtà no profit è sceso addirittura del 15 per cento. In assenza del dato dirimente - quante organizzazioni esistenti hanno cessato di vivere od operare - la crescita rallentata va confrontata con gli anni dell’esplosione del Terzo settore. Nel 1993 nacquero 275 nuove associazioni non profittevoli, nel 2003 addirittura 350 e nel 2007 si toccò il primato italiano con 360 battesimi. Poi la discesa, per ora senza freno: nel 2014 i nuovi registrati sono stati solo duecento.
«Ci mancano i dati dei decessi », spiega Giuseppe Museo, direttore di Csvnet, «ma ad oggi possiamo avanzare due ipotesi. Uno, è finita la frammentazione e il volontariato italiano è diventato maturo: diverse strutture, non a caso, si sono irrobustite. Due, il mercato nostrano della charity con quattro milioni e mezzo di volontari organizzati è saturo». Il resto della domanda, secondo questa interpretazione, sarebbe accolta dal volontario free - due milioni e mezzo di persone, secondo altre fonti - , che agisce senza tempi certi, senza iscriversi a nulla, in maniera spesso estemporanea per difendere un parco o sistemare una scuola. È il volontario liquido al tempo dei social e dei Cinque Stelle: la sua ansia di dono e di collettivo si esprime fuori dai recinti dell’organizzazione, su obiettivi singoli e motivanti.
Il dato che viene fuori - gruppi certificati che non crescono nel numero, quote di attivisti stabili o in leggero aumento - fa pensare che il settennato horribilis abbia funzionato, come per le imprese, nel far chiudere le associazioni più piccole e recenti consentendo a chi è storicamente strutturato di trovare dimensioni ampie e funzionalità migliori. Il report dice anche, infatti, che le organizzazioni di volontariato minori (per numero di volontari e soci) sono le più giovani: il 50% delle più piccole è stato costituito dal 2000, il 50% delle più giovani dal 2003. All’aumentare dell’anzianità delle Odv aumentano anche le loro dimensioni. La metà delle strutture con più di 60 volontari ha oltre 25 anni di storia e le organizzazioni con oltre 400 soci hanno costruito il loro patrimonio nel corso di almeno 35 anni di attività.
È un mondo davvero eterogeneo, quello del Terzo settore: ci sono organizzazioni con un (uno) attivista e altre con 50 mila. Bene, grazie al primo Report nazionale ora sappiamo che l’associazione media è composta da 16 volontari. Solo il 15% delle Odv supera i 50. Poco più del 10 per cento ha oltre 500 soci. E solo l’uno per cento (quattrocento organizzazioni in tutto) si muove in un ambito internazionale. Il 48 per cento (oltre ventimila realtà) ha come territorio il comune di riferimento.
Edoardo Patriarca, dal 1999 al 2006 portavoce del Forum del Terzo settore, oggi deputato Pd, dice: «Le organizzazioni di volontariato somigliano sempre più a piccole imprese. Tengono nonostante la crisi economica, nonostante lo sfilacciamento del tessuto sociale, ma stanno invecchiando.
Il ricambio generazionale è lento e la capacità di attrarre nuove generazioni non sempre efficace. Il volontariato sconta grossi problemi al Sud, dove c’è maggiore difficoltà economica e di lavoro e inefficienza amministrativa. La riduzione della frammentazione che si legge nel censimento significa da una parte una maggiore efficienza nell’azione sul territorio e dall’altra una difficoltà a innovarsi, a stare sulla frontiera delle nuove sfide sociali. Il volontariato italiano ha una sincera difficoltà a posizionarsi nel tempo contemporaneo ».
Il teorico della materia è l’economista Stefano Zamagni, che dice: «Tra il 2007 e il 2014 ci sono stati due fenomeni che hanno spiazzato questo mondo. Da una parte la crescita di coop sociali, associazioni di promozione sociale, imprese sociali che hanno corroso il volontariato puro. Dall’altra la crisi economica, che ha portato via quella fetta di persone che ha dovuto preoccuparsi innanzitutto di trovare un lavoro e poi ha obbligato le organizzazioni a ridurre i costi». Un esempio: «In una città dell’Emilia di 80.000 abitanti si contavano 600 associazioni. Non potevano restare in piedi e molte si sono fuse. Un Terzo settore adulto oggi deve vivere di biodiversità: ong, coop, odv. E deve ibridare il profit con il no profit. Questo mondo resta un polmone, una riserva, che però mantiene un senso se custodisce il principio del dono. Se perdiamo quello, resta solo la foresta di belve raccontata da Hobbes».

Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato». una sintesi da Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky (Laterza), da la Repubblica, 21 ottobre 2015

Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la “governabilità”, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla “grande riforma” costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. I sostantivi e gli aggettivi modali in “...abilità”, “...ibilità”, “...abile”, “... ibile”, ecc. esprimono tutti un significato passivo: amabilità è il dono di saper farsi amare; invivibile è la condizione che non può essere vissuta; incorreggibile è colui che non si lascia correggere. La stessa cosa dovrebbe essere per “governabilità” e “ingovernabilità”: concetti aventi a che fare con l’attitudine a “essere governati”. In questo senso, tale attitudine può essere propria soltanto dei “governandi”, non dei “governanti”. Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno “governabili” o “ingovernabili”, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa.

Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.

Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?

Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte.

Se manca il voto dei cittadini, ogni definizione è ingannevole. Il voto non è sufficiente, ma è necessario. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Norberto Bobbio ha incluso nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, scriveva nel 1940 dal suo volontario esilio negli Stati Uniti: «La parola democrazia è adoperata anche per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Encyclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti. I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali, perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il ‘governo dei popoli”».

Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.

Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.

In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.

In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?

In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.

Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.

Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.

IL LIBRO Anticipiamo u. L’autore dialogherà con Adriano Prosperi sabato alle 16.30 al Teatro Politeama di Poggibonsi e sarà a Milano a BookCity domenica alle 12.30 al Museo Nazionale della Scienza

Demistificare l'uso corrente delle parole è un modo per diventare liberi e perciò cambiare il mondo.Un piccolo libro su una parola controversa.

La Repubblica, 20 ottobre 2015
La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?

Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».

L’ultimo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.

Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.

Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».

È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia», le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».

Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ».

Ecco, forse abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo un’altra parola per «sognare il mondo da capo».

SIl manifesto, 20 ottobre 2015

DIRITTODI PAROLA
SOTTO PROCESSO
di Livio Pipino

Erri De Luca è stato assolto. La sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non lascia adito a dubbi: affer­mare che «la Tav va sabo­tata» non è un reato ma un’opinione, affi­data al dibat­tito poli­tico e non alle cure di giu­dici e pri­gioni. Qual­che tempo fa sarebbe stata una «non noti­zia», quasi un’ovvietà (e senza biso­gno di sco­mo­dare Voltaire). Non così oggi. Almeno a Torino, dove un giu­dice per le inda­gini pre­li­mi­nari ha dispo­sto, per quella affer­ma­zione, un giu­di­zio e due pub­blici mini­steri hanno soste­nuto l’accusa e chie­sto la condanna.

Dun­que l’assoluzione e il punto di diritto affer­mato dal giu­dice rap­pre­sen­tano una buona noti­zia. Per una plu­ra­lità di motivi.

Primo. Ci fu un tempo in cui con­te­sta­zioni sif­fatte erano all’ordine del giorno ed erano rite­nuti reati il canto dell’«Internazionale» o di «Ban­diera rossa» (forse per il ver­setto «avanti popolo tuona il can­none rivo­lu­zione vogliamo far»…) o il grido «abbasso la bor­ghe­sia, viva il socia­li­smo!». Erano gli anni dello stato libe­rale e, poi, del fasci­smo quando si rite­neva che «la libertà non è un diritto, ma un dovere del cit­ta­dino» e, ancora, che «la libertà è quella di lavo­rare, quella di pos­se­dere, quella di ono­rare pub­bli­ca­mente Dio e le isti­tu­zioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del pro­prio destino, quella di sen­tirsi un popolo forte». Poi è venuta la Costi­tu­zione il cui arti­colo 21 pre­vede che «tutti hanno il diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Inu­tile sot­to­li­neare il senso della norma che è quello di tute­lare l’anticonformismo e le sue mani­fe­sta­zioni poco o punto accette alle forze domi­nanti per­ché, come è stato scritto, «la libertà delle mag­gio­ranze al potere non ha mai avuto biso­gno di pro­te­zioni con­tro il potere» e, ancora, «la pro­te­zione del pen­siero con­tro il potere, ieri come oggi, serve a ren­dere libero l’eretico, l’anticonformista, il radi­cale mino­ri­ta­rio: tutti coloro che, quando la mag­gio­ranza era libe­ris­sima di pre­gare Iddio o osan­nare il Re, anda­vano sul rogo o in pri­gione tra l’indifferenza o il com­pia­ci­mento dei più».

In ter­mini ancora più espli­citi, le idee si con­fron­tano e, se del caso, si com­bat­tono con altre idee, non con l’obbligo del silen­zio. Troppo spesso lo si dimen­tica e, dun­que, un «ripasso» era quanto mai opportuno.

Secondo. La con­te­sta­zione mossa ad Erri De Luca non riguar­dava solo la libertà di espres­sione del pen­siero in astratto. Essa riguar­dava l’esercizio di quella libertà oggi in Val Susa e con rife­ri­mento al Tav.

Nel nostro Paese in que­sti anni sono, infatti, avve­nute cose assai strane. Nes­suno ha mai sot­to­po­sto a giu­di­zio – a mio avviso, con ragione – gli autori di «isti­ga­zioni» assai più gravi e impe­gna­tive come quelle, pra­ti­cate da mini­stri della Repub­blica e capi del Governo, dirette a sov­ver­tire l’unità nazio­nale o a eva­dere le tasse. Ma, in Val Susa, Erri De Luca non è rima­sto iso­lato: alcuni respon­sa­bili di asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste sono stati inda­gati per «pro­cu­rato allarme» in rela­zione alla pre­sen­ta­zione di un documento-denuncia con­cer­nente i rischi in atto al can­tiere della Mad­da­lena a causa di una frana, l’uso della espres­sione «libera Repub­blica della Mad­da­lena» è stato con­si­de­rato un sin­tomo di atti­vità sov­ver­siva, la distri­bu­zione di volan­tini con­tro il Tav (senza com­mis­sione di reati) è stata rite­nuta un indice di poten­ziale irre­go­la­rità di con­dotta (sic!) di alcuni stu­denti mino­renni e via seguitando.

Affer­mare la liceità penale delle affer­ma­zioni di De Luca non può non inci­dere anche su que­ste situazioni.

Terzo. Alcuni decenni orsono ci fu, in alcuni set­tori della magi­stra­tura, un’attenzione signi­fi­ca­tiva ai temi della libertà di mani­fe­sta­zione del pen­siero. Sul finire degli anni Ses­santa e nei primi anni Set­tanta, in par­ti­co­lare, Magi­stra­tura demo­cra­tica ingag­giò una dura bat­ta­glia cul­tu­rale sul punto stig­ma­tiz­zando, tra l’altro, «prov­ve­di­menti che hanno creato un clima di inti­mi­da­zione par­ti­co­lar­mente pesante verso deter­mi­nati set­tori poli­tici» ed espri­mendo «pro­fonda pre­oc­cu­pa­zione rispetto a quello che non può appa­rire che come un dise­gno siste­ma­tico ope­rante con vari stru­menti e a vari livelli, teso a impe­dire a taluni la libertà di opi­nione, e come grave sin­tomo di arre­tra­mento della società civile» (ordine del giorno Tolin, dicem­bre 1969) e ten­tando anche, pur senza suc­cesso, di pro­muo­vere un refe­ren­dum abro­ga­tivo dei reati di opi­nione (tra cui quell’articolo 414 del codice penale con­te­stato a De Luca).

Oggi ciò sem­bra un lon­tano ricordo. Chissà che la sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non sti­moli una nuova sta­gione di sen­si­bi­lità al riguardo.

Quarto. In que­sta vicenda ha bril­lato per assenza e silen­zio gran parte degli intel­let­tuali e della cul­tura giu­ri­dica italiana.,Non è un caso che anche l’appello dif­fuso alla vigi­lia del pro­cesso da scrit­tori e da uomini e donne dello spet­ta­colo rechi, per quat­tro quinti, sot­to­scri­zioni fran­cesi… Non è la prima volta in que­sta epoca di pen­siero unico.

Per carità, nes­suno pre­tende nuovi Paso­lini o Scia­scia e del resto, come avrebbe detto Man­zoni, «il corag­gio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Ma un po’ di dignità non gua­ste­rebbe. Anche que­sto ci ricorda la sen­tenza torinese.

ERRIDE LUCA ASSOLTO,
“SABOTARE” SI PUÒ DIRE
di Marco Vittone

No Tav. Il tribunale di Torino fa prevalere l’articolo 21 della Costituzione sul codice Rocco. Il fatto non sussiste come reato. Lo scrittore in aula prima della sentenza: rivendico la mia nobile parola contraria

Assolto per­ché il fatto non sus­si­ste. Cade l’accusa di isti­ga­zione a delin­quere per Erri De Luca. E fini­sce così un pro­cesso che non sarebbe mai dovuto ini­ziare che ha visto sul banco degli impu­tati, per un reato d’opinione, lo scrit­tore napo­le­tano, reo di aver soste­nuto in alcune inter­vi­ste che la «Tav va sabotata».

Dopo la let­tura del dispo­si­tivo della sen­tenza da parte del giu­dice mono­cra­tico Imma­co­lata Iade­luca, l’aula gre­mita è esplosa in un applauso. L’autore de Il peso della far­falla è rima­sto quasi impas­si­bile, nascon­dendo la com­mo­zione, poi ha dichia­rato: «Mi sono tro­vato in una lunga sala d’attesa che adesso è finita. Rimane la grande soli­da­rietà delle per­sone che mi hanno soste­nuto qui e in Fran­cia. Ero tran­quillo per­ché avevo fatto il pos­si­bile — ha aggiunto — Que­sta asso­lu­zione riba­di­sce il vigore dell’articolo 21 della costi­tu­zione che garan­ti­sce la più ampia libertà di espressione».

Ieri, nella maxi aula 3 del Pala­giu­sti­zia di Torino, uti­liz­zata per i grandi pro­cessi Thys­sen­Krupp ed Eter­nit, con la sen­tenza di asso­lu­zione l’articolo 21 della Costi­tu­zione ha pre­valso sull’articolo 414 del codice penale fascista. Prima che la giu­dice si riti­rasse in camera di con­si­glio per quat­tro ore, Erri De Luca aveva letto alcune dichia­ra­zioni spon­ta­nee. «Sarei pre­sente in quest’aula anche se non fossi lo scrit­tore incri­mi­nato. Con­si­dero l’imputazione con­te­stata un espe­ri­mento, il ten­ta­tivo di met­tere a tacere le parole con­tra­rie. Svolgo l’attività di scrit­tore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di cen­sura. Con­fermo la mia con­vin­zione che la linea di sedi­cente alta velo­cità in Val Susa va osta­co­lata, impe­dita e intral­ciata, dun­que sabo­tata per la legit­tima difesa del suolo e dell’aria di una comu­nità minac­ciata. La mia parola con­tra­ria sus­si­ste e sono curioso di sapere se costi­tui­sce reato».

Per le sue dichia­ra­zioni, rite­nute dall’accusa un reato, i pm Anto­nio Rinaudo e Andrea Pada­lino ave­vano chie­sto per l’imputato una con­danna a otto mesi di reclu­sione, in seguito alla denun­cia di Ltf, la società italo-francese che si è occu­pata dal pro­getto e delle opere pre­pa­ra­to­rie della Torino-Lione. L’accusa è caduta. E per il popolo No Tav, che nel pome­rig­gio ha festeg­giato De Luca a Bus­so­leno, si tratta di «un’altra scon­fitta per i pm con l’elmetto». La vit­to­ria «della parola con­tra­ria, più forte delle parole del potere», ha scritto notav .info.

De Luca ha difeso la legit­ti­mità e nobiltà del verbo sabo­tare. «Sono incri­mi­nato per aver usato il verbo sabo­tare. Lo con­si­dero nobile e demo­cra­tico. «Nobile — ha osser­vato — per­ché pro­nun­ciato e pra­ti­cato da valo­rose figure, come Gan­dhi e Man­dela, con enormi risul­tati poli­tici. Demo­cra­tico per­ché appar­tiene fin dall’origine al movi­mento ope­raio e alle sue lotte. Per esem­pio — ha soste­nuto — uno scio­pero sabota la pro­du­zione». Parole «dirette a inci­dere sull’ordine pub­blico» per la pro­cura di Torino. «Ma io difendo l’uso legit­timo del verbo sabo­tare nel suo signi­fi­cato più effi­cace e ampio», ha affer­mato De Luca, che si è detto dispo­sto per­sino a «subire una con­danna penale per il suo impiego» piut­to­sto che a farsi «cen­su­rare o ridurre la lin­gua italiana». La giu­dice, assol­vendo lo scrit­tore con for­mula piena, per­ché «il fatto non sus­si­ste», sem­bra avere accolto que­sta tesi.

La poli­tica si è divisa su sui social tra chi ha apprez­zato e festeg­giato la deci­sione del Tri­bu­nale (M5s, Sel, Prc, Arci) e chi si invece l’ha for­te­mente cri­ti­cata e si è detto dispia­ciuto se non addi­rit­tura irri­tato dalla sen­tenza: un ampio schie­ra­mento che va dal Pd Ste­fano Espo­sito a Mau­ri­zio Gasparri. Duro l’ex mini­stro Mau­ri­zio Lupi, caduto in seguito a uno scan­dalo sulle «grandi opere» e da sem­pre favo­re­vo­lis­simo alla Torino-Lione: «De Luca non avrà com­messo un reato, ma forse ha fatto di peg­gio, ha con­vinto tanti gio­vani che lan­ciare una molo­tov o pic­chiare un poli­ziotto è un diritto. Non sarà l’assoluzione di un tri­bu­nale a toglier­gli que­sta colpa».

Sod­di­sfatto il legale dello scrit­tore, Gian­luca Vitale: «La sen­tenza riporta le cose al loro posto, si può par­lare anche di Tav. Biso­gna che tutti capi­scano che c’è un limite alla repres­sione, le opi­nioni devono essere lasciate libere. Anche Torino e la Val Susa sono posti normali». Tal­volta anche l’Italia può essere un paese normale.

ERRIDE LUCA: «LA FRANCIA MI HA DIFESO
E IN ITALIA IL CODICE FASCISTA SABOTA LA COSTITUZIONE»
intervista di Eleonora Martini

Erri de Luca, non se l’aspettava un’assoluzione, vero?

Per mio tem­pe­ra­mento sono sem­pre pre­pa­rato al peg­gio ma in que­sto caso i pro­no­stici erano impos­si­bili per­ché si è trat­tato di un pro­cesso spe­ri­men­tale: nes­suno scrit­tore era mai stato incri­mi­nato prima con que­sto arnese del codice fasci­sta — l’istigazione — che risale al 1930.

La sua dichia­ra­zione spon­ta­nea prima della sen­tenza ha messo in luce l’assurdità di avere ancora in vigore il codice Rocco.
Quell’articolo 414 non era mai stato usato prima con­tro l’opinione di una per­sona, ma ho voluto sot­to­li­neare il con­flitto tra l’articolo 21 della Costi­tu­zione che garan­ti­sce la nostra libertà di espres­sione e quell’articolo del codice penale fasci­sta che invece la nega. Que­sta era la posta in gioco nel pro­cesso, al di là del mio tra­scu­ra­bi­lis­simo caso per­so­nale. Aveva un peso per sta­bi­lire la tem­pe­ra­tura della libertà di parola: se sof­fre di feb­bre, aggre­dita da una volontà di cen­sura, o se è sfeb­brata ed è sana.

E qual è la dia­gnosi?
La sen­tenza dice che l’articolo 21 della Costi­tu­zione gode di ottima salute: il ten­ta­tivo di sabo­tag­gio da parte della pub­blica accusa è stato respinto.

La mini­stra di Giu­sti­zia fran­cese, Chri­stiane Tau­bira, ha twit­tato due volte in suo onore. «#Erri­De­Luca, quando tutto sarà scom­parso die­tro all’ultimo sole, resterà la pic­cola voce dell’uomo, citando ancora Ten­nes­see Wil­liams», scrive nel primo post. Men­tre nel secondo la Guar­da­si­gilli fran­cese usa una delle poe­sie del comu­ni­sta Louis Ara­gon per salu­tare la sen­tenza nella quale, a suo giu­di­zio, sfuma la giu­sti­zia salo­mo­nica.
Non lo sapevo. Posso solo dire che da noi un mini­stro di giu­sti­zia che cita uno scrit­tore come minimo sbaglia.

In que­sta vicenda, ha sen­tito più vicine le isti­tu­zioni fran­cesi che quelle ita­liane?
La Fran­cia si è espressa al mas­simo livello delle sue isti­tu­zioni, con­si­de­ran­domi un suo cit­ta­dino: il pre­si­dente della Repub­blica fran­cese è inter­ve­nuto più volte su que­sto caso.

Lo stesso Fra­nçois Hol­lande avrebbe tele­fo­nato a Renzi per invo­care cle­menza nei suoi con­fronti. Che lei sap­pia, è vero?

osì risulta dal Jour­nal Du Diman­che, ed è evi­dente che que­sta noti­zia non può essere uscita che dall’Eliseo. Il pre­si­dente fran­cese ha evi­den­te­mente per­messo che la noti­zia diven­tasse pub­blica. Dun­que, è una cosa certa. La Fran­cia, attra­verso il suo mas­simo espo­nente, si è tirata fuori da que­sta sto­ria: è come se avesse detto «una con­danna di que­sto tipo non è con­ce­pi­bile per noi, non in nome dei francesi».

Secondo lo stesso set­ti­ma­nale fran­cese, però, il pre­mier ita­liano non avrebbe mostrato «alcuna indul­genza». E comun­que ieri Palazzo Chigi ha smen­tito «il merito e le cir­co­stanze» della noti­zia.

egare l’evidenza è uno degli stati dell’ubriachezza. Ma tra Renzi e Hol­lande io credo al pre­si­dente fran­cese, ovviamente.

Lei ha avuto con­tatti per­so­nali con le isti­tu­zioni d’Oltralpe? Per­ché l’hanno presa così a cuore?

No, mai avuto con­tatti. Lo fanno solo per­ché sono uno scrit­tore. E uno scrit­tore incri­mi­nato per le sue parole viene adot­tato da quella società civile, da quella opi­nione pub­blica. È già suc­cesso ad altri scrit­tori, che erano in situa­zioni ben peg­giori delle mie, di tro­vare lì una seconda cit­ta­di­nanza. Io resto un osti­nato cit­ta­dino ita­liano, non mi fac­cio smuo­vere dalla mia cit­ta­di­nanza, ma lì mi hanno voluto soste­nere come se fossi un loro concittadino.

Prima della sen­tenza ha voluto ripe­tere che per lei la Tav va osta­co­lata e sabo­tata. Voleva farsi capire meglio o sfi­dare il suo giu­dice?
La parola sabo­tag­gio ha tanti signi­fi­cati che non riguar­dano il dan­neg­gia­mento fisico. Non volevo che il verbo «sabo­tare», che ha piena cit­ta­di­nanza nel voca­bo­la­rio ita­liano, fosse ridotto a que­sto: a un gua­sto mec­ca­nico. O che fosse cen­su­rato da una con­danna penale. D’altra parte, anche que­sta incri­mi­na­zione con­tro di me voleva sabo­tare la libertà di parola. Ho detto che se quelle mie parole erano un cri­mine, non solo ho ripe­tuto il cri­mine ma lo avrei con­ti­nuato a ripetere.

Adesso che «è stata impe­dita un’ingiustizia», come ha detto lei, c’è da fare qual­cosa ancora su que­sto fronte?
Intanto è stato fer­mato un ten­ta­tivo di cen­sura che poteva essere un pre­ce­dente. Dun­que, le per­sone si pos­sono sen­tire più inco­rag­giate nella loro libertà di espres­sione. Ma c’è ancora molto da fare per­ché le lotte delle popo­la­zioni rie­scano ad avere accesso ai canali di infor­ma­zione che costrui­scono l’opinione pubblica.

E sulla Tav?
La Tav della Val di Susa — sedi­cente «alta velo­cità», parole che sono una frot­tola oltre che una truffa — è un’opera che non si farà. Si sabo­terà. Da sola: per man­canza di coper­tura finanziaria.

Nell’aula giu­di­zia­ria c’erano molti val­su­sini…
Sì, e giu­sta­mente con­si­de­rano que­sta asso­lu­zione una loro vit­to­ria, per­ché è stata una delle rare volte in cui qual­cuno impe­gnato a con­tra­stare la Tav è stato assolto.

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