Il grande pensatore comunista lo aveva già compreso. «Con l’evoluzione della "società dello spettacolo" sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia».
Filosofiainmovimento online
«Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica»H. Marcuse
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi.
Il nesso fra teoria e pratica, o tra filosofia e politica, insomma, era fondato sulla prolifica unione di pensiero e azione, con la finalità di evitare un’elaborazione teorica e una prassi politica che, se separate, si allontanassero dalle questioni reali e concrete della società umana. Ma anche per scongiurare quel distacco tra intellettuali e masse popolari che, specialmente con la Prima Guerra Mondiale, aveva finito col ridurre le classi subalterne a recitare il ruolo di «materiale umano» o «materiale grezzo» per la storia delle classi privilegiate.
La natura sociale dell’azione
Dopo un periodo in cui fu predominante la tesi che negava questo ed altri tipi di influenza dei media sull’uomo, nel 1981, significativamente sulla Annual Review of Psychology, compare un saggio pressoché ignorato dalla stampa e dalla comunità scientifica americane. In questa pubblicazione, dai toni peraltro misurati, viene lanciato un messaggio di profonda importanza per i professionisti e gli studiosi della comunicazione, volto a rimarcare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, di pensare e in ultima analisi di agire delle persone nel proprio mondo».
I mass media che producono cittadini disimpegnati e disinteressati alla sfera pubblica, media dietro ai quali vi sono poteri forti di natura economica e politica, finiscono col ritagliarsi anche un ruolo esclusivo rispetto alla formazione dell’opinione pubblica. Più l’individuo, per tutte le ragioni viste finora, perde la propria autonomia di giudizio e le proprie facoltà intellettive ed esperienziali, più questo stesso individuo perde la capacità di incontrarsi coi suoi concittadini per «dibattere», «organizzarsi» e «mobilitarsi» su questioni di interesse collettivo, più alla fine verrà lasciato ai media e a chi vi sta dietro la facoltà di formare l’opinione pubblica e di dirigerla secondo interessi di natura economica o, comunque, privata: «Al giorno d’oggi – scriveva Sartori vent’anni addietro –sono i mass media a giocare il ruolo più grande e centrale nel formare l’opinione pubblica […] Il mondo, per larga parte del pubblico, si riduce al messaggio veicolato dal media».
L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi.
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Avvertenza
Sembrano parole profetiche, ma sono parole e moniti di scottante attualità: l'intervista di Silvia Truzzi a Enzo Bianchi è da conservare e rileggere.
IlFatto Quotidiano, 24 dicembre 2015
La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.
Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di unamalattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.
Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all'abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c'è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s'ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all'azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.
Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico – cattolici, valdesi, battisti, ortodossi – che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l'apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l'idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.
Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all'ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c'era l'acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.
Qui cosa producete?
Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all'anno, più o meno. C'è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso – da circa cinque anni – si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall'Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l'italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?
“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.
Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.
L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.
Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?
La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità – tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo – allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.
È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.
Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.
Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche – sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche – la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.
Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.
Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair – che non è proprio un giusto – fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.
Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.
Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza… Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!
La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.
Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.
Il manifesto, 24 dicembre 2015
È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.
Il sorriso dell’oppressa
Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».
La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).
Le storie di Machiavelli
Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.
Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».
È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.
Il divenire della mutazione
L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».
I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».
l manifesto, 24 dicembre 2015
CARA SINISTRA, È FINITO
IL PARTITO MONOTEISTA
di Lidia Menapace
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza
Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.
Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?
Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?
Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!
Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.
Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.
Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».
Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.
Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.
Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.
Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.
Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.
Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?
Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.
Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.
La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.
Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.
Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.
Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.
Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.
Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.
In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione.
Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi.
Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica.
In attesa che gli spagnoli copino la legge elettorale italiana voluta da Renzi, come prevede Renzi, è il caso di ricordare quando gli attuali sostenitori dell’Italicum tifavano per il sistema spagnolo. Per esempio il senatore del Pd Tonini, che ieri su Repubblica spiegava perché con l’Italicum il nostro paese è «all’avanguardia in Europa» e non rischia «di fare la fine della Spagna». È lo stesso Tonini che ha presentato un disegno di legge (con l’attuale viceministro Morando) per importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Era la moda, lanciata da Veltroni quando segretario del Pd cercò di agganciare Berlusconi (ha fatto scuola). Il sistema fu chiamato Veltronellum, lo studiarono i professori Ceccanti e Vassallo (oggi sostenitori dell’Italicum), convinse rapidamente il centrodestra. Alfano e Quagliariello, per dirne due, pensavano per quella via di risolvere tutti i problemi dell’Italia. Lo stesso compito che oggi affidano al ballottaggio.
Sul voto spagnolo e sulla riforma elettorale italiana "a misura di un sol uomo" le opinioni del politologo Gianfranco Pasquino, della giornalista Irene Hernàndez Velasco, del giurista Gianluigi Pellegrino e dell'eurodeputato Curzio Maltese. Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2015 (m.p.r.)
C on l’esito di questo voto, preannunciato dai sondaggi, la Spagna è diventata in un certo qual modo europea. Non è più una nazione con due grandi partiti a dominare la scena, come era avvenuto negli ultimi 35 anni: ora ha anche altre due formazioni nella Camera bassa, Podemos e Ciudadanos. Ed è lo stesso schema che ritroviamo nel resto del continente, dove non si trovano Paesi con il bipartitismo. Ora la Spagna dovrà imparare quella che Roberto Ruffilli (politologo e parlamentare della Dc, ndr) chiamava la cultura delle coalizioni.
Attenzione però, chi celebra l’Italicum come soluzione all’ingovernabilità dà un segnale di ignoranza assoluta. Gli elettori votano in base ai sistemi elettorali, usano le regole date. In uno scenario diverso, probabilmente molti elettori di Podemos avrebbero scelto i socialisti per mandarli al ballottaggio, o viceversa. L’Italicum rimane una legge proporzionale fortemente distorsiva della rappresentanza popolare, anche perché al secondo turno costringe tanti cittadini a fare una scelta forzata rispetto al primo voto dato. Quanto ai paragoni tra 5Stelle e Podemos, sono impropri: quello di Iglesias è di fatto un partito.
N on darei un premio di maggioranza forte al primo partito come prevede l’Italicum in Italia: a volte i governi con la maggioranza assoluta non sono veramente democratici perché non sono aperti al confronto e non negoziano con le altre forze politiche. A volte questi governi si comportano quasi come una dittatura.
L’avanzata di Podemos e Ciudadanos e la crisi dei partiti tradizionali non mi sorprendono. Il governo di José Luis Rodríguez Zapatero è stato accusato di negare la crisi e l’attuale leader del Psoe, Pedro Sanchez, è senza carisma e non ha fatto sentire le sue proposte: assomigliava alla vecchia politica che la gente non vuole, sembra piú un’operazione di marketing che un vero leader politico.
L’avanzata di Podemos ricorda quella di Syriza, ma non penso che Pp e Psoe faranno un’alleanza come il Pasok e Nuova Democrazia dopo la quale i socialisti greci sono praticamente scomparsi, sarebbe un suicidio per il Psoe. I socialisti potrebbero non sostenere Mariano Rajoy e astenersi nella cerimonia di nomina del presidente del Governo, lasciando che il Pp formi un esecutivo di minoranza.
IL PREMIER COSÌ CI PORTA FUORI
DALLE DEMOCRAZIE PARLAMENTARI
S i può pure convenire con Renzi sui risultati in Spagna e sull’Italicum ma a patto di dire a chiare lettere che si abbandona la democrazia parlamentare. Però, se si ritiene che essa sia incompatibile con l’epoca attuale e con la necessità di prendere decisioni rapidamente, allora bisogna creare dei contrappesi adatti, con garanzie per l’opposizione e per la Corte costituzionale, altrimenti si fa una rivoluzione a metà e il paese si scava da solo la fossa.
Che ci sia bisogno di una legge maggioritaria va bene, mentre non va bene il mix di preferenze e candidati nominati dai vertici romani. Sarebbe meglio adottare il sistema dei collegi uninominali, capaci di garantire insieme una maggioranza forte e parlamentari più indipendenti dal governo. Un sistema che può consentire di vincere con una piccola minoranza rischia di portare al governo le forze antisistema. Non si deve scherzare col fuoco come l’apprendista stregone. Peraltro è sempre meglio dare rappresentanza parlamentare alle pulsioni populiste e comunque doveroso apprestare bilanciamenti e garanzie al potere esecutivo.
IL SISTEMA COL TRUCCO DEL PD
PROVOCHERÀ LA SCONFITTA DEL PD
Il risultato delle elezioni in Spagna rende evidente la crisi dei partiti dell’establishment come Pp e Psoe, che gli elettori identificano come forze indistinte del sistema. È preoccupante l’idea di arginare il dissenso popolare contro le élite con i trucchetti della legge elettorale che dà la maggioranza a chi non l’ha, come pensano Matteo Renzi e il ministro Maria Elena Boschi. Lei, con il suo tweet sull’Italicum «utile e giusto», ha dimostrato la sua scarsa capacità di analisi politica e dovrebbe dimettersi per un’affermazione come questa più che per la storia della Banca Etruria. Quel tweet mi ricorda il brano «Quelli che...» di Enzo Jannacci, quando dice «Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro»: non sarà l’Italicum a risolvere una crisi del sistema. Renzi benedice la sua legge, ma tutte le leggi elettorali hanno portato alla sconfitta della maggioranza che le ha approvate e così l’Italicum sarà il sistema migliore per far vincere tutti i rivali del Pd: il gradimento del governo è molto basso, quindi sarebbe difficile per i dem vincere al ballottaggio contro il M5S o una forza del centrodestra.
Dopo Syriza, Podemos, . Se si lavora bene, se non prevale la volontà di conservare i vecchi guscu e degli individualismi, allora il disagio profocato dall'emonia del neoliberismo su tutto l'arco della politiqe polkiticienne potrè essere sconfitto da sinistra. due aeìrticoli di Norma Rageri e .
Imanifesto, 22 dicembre 2015
Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.
Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.
La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».
E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento.
Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.
Terribili ombre di un passato che credevamo sepolto. Aveva ragione Bertold Brecht: il ventre che generò il nazismo è ancora fecondo.
La Repubblica, 20 dicembre 2015
In Danimarca si pensa di vendere a caro prezzo il biglietto di ingresso ai migranti. La ministra per l'integrazione Stoejberg ha presentato una proposta di legge per "espropriare" all'ingresso tutti i migranti di ogni bene al di sopra di una piccola cifra. Un pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni. Non del tutto inedito, tuttavia.
Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi.
Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del '900 questi morti sono rappresentanti con una info-grafica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen.
La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro?
La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia.
È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese. Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti.
Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso. Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore.
Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo. Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.
La sinistra europea ha abbandonato la critica del capitalismo ed ha abbracciato le teorie del neoliberismo proprio nella fase in cui il capitalismo provoca il massimo di disagio sociale. Perciò appare inevitabile, con questa sinistra, il rafforzamento della destra populista.
La Repubblica, 19 dicembre 2015
La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».
Come spiega questa evoluzione della sinistra?
«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».
Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?
«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».
In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.
E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».
Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...
«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».
Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?
«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».
«Il governo del grande inganno. La menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. E la democrazia rischia di andare in malora».
Ilmanifesto, 17 dicembre 2015, con postilla
La politica in democrazia si affida a due funzioni fondamentali: l’esercizio di un potere legittimo (fondato sul consenso della maggioranza) e la produzione di narrazioni pubbliche. Il rapporto tra queste due funzioni costituisce un buon criterio di giudizio sulla qualità di un governo.
Quanto maggiore è la distanza tra l’una e l’altra (quanto meno attendibili sono le informazioni diffuse dal governo in merito ai propri obiettivi e alla situazione reale del paese), tanto minore è la legittimità sostanziale di un governo. Il quale si pone fuori dal quadro democratico se, nel perseguire i propri disegni, si affida alla menzogna politica, deformando per questa via l’esercizio della sovranità popolare. Stando così le cose, si può sostenere che il governo in carica è un esempio di violazione dei principi democratici, benché i critici che si ostinano ad affermarlo siano sempre meno numerosi (e sempre più rassegnati).
Naturalmente il governo Renzi è un paradigma di potere antidemocratico in primo luogo per i suoi obiettivi. Renzi e i suoi sodali non fanno altro, da quasi due anni, che attaccare diritti e condizioni materiali del lavoro dipendente, smantellando tutele giuridiche e contrattuali e conquiste salariali strappate in decenni di lotte. Non fanno altro che bombardare lo Stato sociale (la sanità; il sistema pensionistico, ormai tra i più iniqui d’Europa; i meccanismi di salvaguardia del diritto allo studio) e le condizioni di vita dei meno abbienti, circuìti con l’uso circense del denaro pubblico in funzione di mancia elettorale. Non fanno altro che spostare ricchezza verso l’alto a forza di privatizzazioni, misure fiscali anticostituzionali e regalìe varie, come quelle varate dal decreto salvabanche, che, con tutti i disastri che sta provocando, ha già fatto la fortuna dei nuovi vertici bancari e alla fine vedrà, come di consueto, l’intervento salvifico della Cassa depositi e prestiti. Non fanno altro, infine, che colpire le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa dando corpo a un disegno autoritario che conferisce ogni potere all’esecutivo, cioè alla cricca dirigente del partito di maggioranza relativa (vale a dire al 15, 20 per cento al massimo del corpo elettorale).
Ma il governo Renzi è un caso estremo di violazione dei principi democratici anche per la distanza tra pratica e narrazione propagandistica. Qui sta forse la più grande differenza rispetto ai governi Berlusconi e alla destra in generale, che se non altro non ha mai nascosto di voler difendere sopra ogni altra cosa la «libertà» dei privati, cioè proprietà, patrimoni e privilegi. Anche Renzi capeggia un governo di destra; realizza politiche di destra; trasforma il paese in base a un disegno schiettamente di destra. Ma – come a suo tempo Tony Blair – fa tutto questo da uomo «di sinistra». Agisce come capo di un partito che, per storia e ragione sociale, rappresenta, in linea di principio, la prima forza dello schieramento progressista. Ma mente sistematicamente, raccontando storie cucite su misura per quella parte della società, sempre più disorientata e depressa, che, continuando a pensarsi di sinistra, tende a prendere sul serio la fanfara propagandistica di questo governo.
Il mantra ossessivo del paese che finalmente «riparte» è la menzogna più odiosa, mentre le nuove povertà dilagano, soprattutto al Sud e tra i più giovani, di pari passo con la disoccupazione e la precarietà. È una bugia che fa il paio con lo slogan del capitalismo compassionevole di George Bush jr., con quel «nessuno sarà lasciato indietro» spudoratamente sbandierato mentre le ineguaglianze esplodevano nel cuore della metropoli capitalistica e la miseria si abbatteva su milioni di proletari.
Nulla di nuovo, si dirà. Salvo che la menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. Non è vero che, siccome l’uso mendace della comunicazione è da sempre un classico di questo governo (si può dire che è, insieme alla manutenzione delle lobbies, la principale occupazione di chi lo guida), allora in quest’ultimo biennio non è cambiato nulla. Siamo un paese sempre più confuso e sfiduciato, oltre che malandato e depresso. E la fiducia è un bene fragile oltre che prezioso: facile a disperdersi, difficilissimo a ricostruirsi. Solo che, senza fiducia nella politica e nei propri rappresentanti, è la democrazia stessa che rischia di andare in malora.
postilla
«Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg. Fare il contrario è l'atto è più reazionario. Eppure tra l'Ottobre rosso e la Vandea c'è stata l'affermazione della borghesia e l'invenzione della democrazia liberale: avremmo almeno potuto fermarci lì, e invece anche quella hanno distrutto, dai Chicago boys e Pinochet e poi giù giù fino a Renzi.
Le contraddizioni tra le diverse volontà e i diversi soggetti che ambiscono a costruire una sinistra per il XXI secolo hanno condotto finora in un vicolo cieco. Come uscirne? Una proposta.
Il manifesto, 16 dicembre 2015
Si era partiti dalla semplice convinzione che non si potesse predicare una unità più ampia se in primo luogo le forze che avevano dato vita al risicato successo elettorale della lista dell’altra Europa per Tsipras non avessero esse stesse dato il via a un processo di unificazione e ricomposizione, superando le passate divisioni e scissioni. Un processo, non un atto singolo. Naturalmente un processo costituente è impegnativo perché chiama le forze che vi partecipano a raggiungere un obiettivo e a seguire una condivisa road map. Il suo fallimento non permette di riannodare il filo sulla bobina di partenza come se nulla fosse stato. Allo stesso tempo la delineazione di un percorso non prevede che tutti i nodi siano sciolti in anticipo, ma lungo il cammino. Come era scritto nel breve documento «Noi ci siamo, lanciamo la sfida», condiviso da tutti, anche da Civati prima di ricusarlo con una scelta unilaterale che però non metteva in discussione il progetto collettivo, tanto è vero che le porte del medesimo restavano aperte. Il dibattito condotto sul manifesto («C’è vita a sinistra») aveva articolato e approfondito la discussione.
Ma non si è riusciti a superare una doppia evidente contraddizione. Quella di chi pretende che non si formi un partito, ma nello stesso tempo non vuole sciogliere il proprio, come è evidente nella intervista a Ferrero su questo giornale (ieri, ndr). Quella di chi dice di volersi sciogliere, come Sel, ma vuole uniformare da subito i modelli di organizzazione di tutti, anticipando la costruzione di un gruppo parlamentare che secondo alcuni dovrebbe già essere immagine e sostanza del nuovo partito.
Sono stati avanzati tentativi di mediazione fra queste posizioni, come da ultimo quello di Act, ma senza successo. Il tentativo di abbellire questa modesta polemica facendo riferimento alla modellistica europea o latinoamericana con cui si sono organizzate le forze della sinistra, lascia il tempo che trova, sia perché quelle forme organizzative hanno origini in tradizioni, culture e processi storici assai diversi, sia perché in esse hanno agito singolarità irripetibili di donne e uomini. Ogni processo reale non può che essere originale e per darvi vita ci vuole una buona dose di coraggio intellettuale e politico che finora è mancata. Non ci si è voluto tagliare i ponti alle spalle, anzi si è pensato di fortificarli, dando più l’impressione di preparare vie di fuga che non di camminare verso una meta condivisa.
Se la necessità di un nuovo soggetto politico della sinistra non viene messa in discussione, almeno a parole, è però chiaro che la strada per perseguirlo va cambiata. Dal fallimento del tavolo nessuno può trarre la conclusione di andare avanti da solo e parlare in nome di quel progetto. Non andrebbe lontano e originerebbe nuove fratture. Un’eterogenesi dei fini. Se la crisi della rappresentanza politica è così forte da coinvolgerci direttamente, vedo solo due possibilità.
Da un lato si tratta di impegnarsi attorno alle questioni teoriche e politiche che presiedono la formazione di un nuovo soggetto. Come l’analisi del moderno capitalismo finanziario globale e i progetti portanti di una società di alternativa. Qui incontriamo la questione del Pd e della socialdemocrazia europea. Non si tratta di negare la sempiterna necessità di una politica di alleanze, ma di spezzare la gabbia delle coalizioni. Quindi di fare i conti definitivi con il centrosinistra.
Il pasticcio delle primarie milanesi dice che questo nodo non è sciolto. La nostalgia dell’ulivismo è fuorviante. Fu in realtà la degenerazione del Pd a seppellirlo. Il Pd catch all senza il governo non è nulla. La distruzione e la neutralizzazione dei corpi intermedi della società — che coinvolge anche il sindacato, da qui le difficoltà anche della coalizione sociale — comincia da se stesso. Stabilire un’alleanza strategica con il Pd vuole dire diventare satelliti dell’attuale sistema di potere.
Dall’altro lato, dobbiamo rendere persone e movimenti protagonisti di liste alternative di sinistra nelle prossime amministrative. E soprattutto concentrarci nella battaglia referendaria, sul referendum costituzionale (che deciderà anche della vita dell’attuale governo) come sulla raccolta delle firme per i referendum sociali. Non è irrealistico pensare che nel corso di queste battaglie emerga nuova linfa vitale per fare ripartire su basi più larghe e più solide il processo per un nuovo soggetto della sinistra.
Il manifesto, 16 dicembre 2015
Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.
Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.
È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.
Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.
Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).
Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.
L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.
Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.
Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.
A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.
In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.
Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.
Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.
Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.
Qualche anno fa, in occasione di un congresso dei socialisti francesi, Michel Rocard, uno dei grandi vecchi del partito, commentò con tono amaro: «I partecipanti a questo congresso sono di tre tipi: quelli che hanno una carica politica, quelli che aspirano ad averla e quelli che, già che erano da queste parti, sono venuti a guardarsi attorno». La stessa cosa si può dire dell’incontro della Leopolda a Firenze, anche se questo non è un congresso. Ci sono tutte le categorie di persone indicate da Rocard, e nel clima euforico che caratterizza il meeting è difficile accorgersi di un grande assente: mancano gli iscritti e il popolo della base.
Le molte facce dello scandalo del salvataggio dei banchieri (una delle componenti del mondo delle banche). L'articolo di Roberto Saviano, la ripresa del Fatto quotidiano e quella di Repubblica«. PostIl Fatto Quotidiano e la Repubblica, 12 dicembre 2015
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LA MOGLIE DI CESARE
E IL PADRE DI ELENA BOSCHI
di Roberto Saviano
Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.
Perché la Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.
Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?
Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?
All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più – facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.
Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?
Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione così importante e oggettiva?
Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.
O forse le ragioni della attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.
Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.
Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.
Il Fatto Quotidiano
LO SCRITTORE: “MARIA ELENA SI DEVE DIMETTERE”
MA L'ARTICOLO È SU ILPOST.IT, NON SU REPUBBLICA
di Silvia Truzzi
Notizia numero uno: Roberto Saviano attacca frontalmente il governo sul l’affaire banche, per «il conflitto di interessi del ministro Boschi, un problema politico enorme». Notizia numero due: il pezzo non è uscito su (giornale di cui l’autore di Gomorra è una delle più autorevoli firme) ma su il post.it (sito d’informazione con il quale Saviano non aveva mai collaborato) e poi ripreso da numerosi altri siti. Notizia numero tre: il lungo e argomentatissimo articolo contiene altre accuse, anche al sistema dei media.
SAVIANO: “LA BOSCHI DEVE DIMETTERSI”
di f.s.
Succede in Cina, ma è uno specchio per guardare il consumismo occidentale.
La Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)
In Cina la parola del 2015 è “troppo”. A votarla, i media di Stato: troppo smog, troppa corruzione, troppo divario tra ricchi e poveri, troppi tonfi in Borsa. Ad essere “troppo”, per la propaganda, è anche un fenomeno fino a ieri ignoto, specchio di tutti gli altri “troppi”: il Natale occidentale. I cinesi delle metropoli lo chiamano, onestamente, Festival del regalo. In dicembre lo celebrano come prologo consumista ai loro festeggiamenti intimi, quelli per il Festival di primavera, il capodanno lunare, tra fine gennaio e i primi di febbraio. È un affare miliardario, ma oggi, per la prima volta dopo trent’anni, c’è un problema: Pechino prende atto che l’Occidente, per il suo Natale, può spendere sempre meno. Non c’entrano gli attriti tra Mao e Santa Claus, la minaccia è una catastrofe economica.
«A 150 anni dalla morte di Pierre-Joseph Proudhon, una riflessione sul significato di un termine che talvolta viene usato del tutto impropriamente» Si tratta della parola "umanità", densa oggi di significati rilevanti.
La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)
Pochi ricordano il nome di Pierre-Joseph Proudhon, morto centocinquant’anni fa. Qualcuno ne incontra lo sguardo nei musei parigini che espongono i due ritratti del suo amico Gustave Courbet. Compaiono ancora nelle discussioni pubbliche alcune sue frasi taglienti – «la proprietà è un furto», «chi dice umanità vuole ingannarvi». Quest’ultima appartiene all’archivio delle denunce dell’uso strumentale e distorcente di grandi parole, come quelle attribuite a Madame Roland mentre veniva condotta alla ghigliottina («O libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome») o a Samuel Johnson («il patriottismo, ultimo rifugio di una canaglia»). L’invettiva di Proudhon ha trovato un rilancio e un’ambigua, rinnovata fortuna quando se ne è impadronito nel 1927 Carl Schmitt, che dell’idea di umanità ha parlato come di una «disonesta finzione», come di «uno strumento ideologico particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche».
Non solo una recensione, ma un contributo rilevante per la ricerca di una "nuova sinistra". L'errore del passato (non si è compreso che la talpa del neoliberismo lavorava nel profondo), le scarne possibilità per il futuro.
Il manifesto, 5 dicembre 2015
Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei “trenta gloriosi”, ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese. Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti opportunamente sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.
Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.
Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. E’ lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra “rivoluzionaria” si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La “rivoluzione restauratrice” messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri sui knowledge workers importanti contributi - hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. E’ quindi fuorviante prendersela con la “mutazione antropologica” delle giovani generazioni.
Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume “come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra”. Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove “indigenismo” e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di wenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.
D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una “possibile trasformazione sociale senza conquista del potere”. Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extraistituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.
L'annuncio della Francia di derogare alla Convenzione di Anais Ginori e l'intervista
di Fabio Gambaro al sociologo Alain Touraine. La Repubblica, 28 novembre 2015 (m.p.r.)
DIRITTI UMANI, PARIGI ALL'EUROPA "ORA STOP ALLA CONVENZIONE" È POLEMICA:"COSì TROPPI ABUSI
Il sociologo Alain Touraine, 90 anni, è uno dei più autorevoli intellettuali europei
Parigi. «La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia », ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro, Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».
(…) Il principio della sovranità popolare – che ha avuto una forza tanto irresistibile da diventare un dogma politico – non ha mai avuto riscontro nell’esercizio concreto del potere. Dove e quando astrattamente affermato con la maggiore forza, è stato in pratica vanificato; nei regimi liberaldemocratici esso è stato celebrato come ideologia legittimante, ma in concreto soggetto ai limiti impliciti nel trasferimento della sovranità effettiva ai parlamenti e ai governi, lasciando al popolo l’illusione di essere pur sempre sovrano grazie al voto nelle competizioni elettorali.
Ciò che sembra doversi concludere è che la «democrazia» realizzata è consistita e consiste in quel movimento e in quelle lotte degli strati inferiori per la conquista e la difesa dei diritti politici e sociali, nel loro accesso alla rappresentanza parlamentare e alla formazione – mediante i propri partiti – dei governi. (…) Si tratta non della «crazia del demos», ma di sostanziali «atti di crazia». Questo ci dice una concezione realistica della democrazia, la quale ha raggiunto la sua espressione e il suo momento più alto nei sistemi di «democrazia sociale», di cui sono stati esempi «classici» il governo della socialdemocrazia in Svezia e il sistema del welfare, nei quali la libertà per l’insieme della società e una politica orientata ad assicurare la giustizia sociale in un grado mai raggiunto prima e altrove si sono positivamente coniugate.
(…) Oggi il processo di impoverimento graduale della democrazia è giunto al punto per cui: la sovranità del popolo non va oltre il voto di elettori nella loro maggioranza etero-diretti, atomizzati e disorganizzati; il potere economico è tornato in maniera pressoché incontrastata nelle mani dei proprietari e dei ceti superiori; il potere politico – che per gran parte dell’Otto e del Novecento era stato un attributo dei leader dei partiti, degli organizzatori delle masse, dei parlamentari e dei componenti il governo - nei singoli Stati territoriali è infeudato alla plutocrazia sovranazionale o quanto meno influenzato in maniera decisiva da essa; il potere dell’informazione e dei media che orientano politicamente le masse è subalterno a chi ne detiene la proprietà o il controllo; quella che era stata la grande rete sia delle sezioni dei partiti di massa sia dei quotidiani e dei periodici che contribuivano in maniera determinante alla formazione e partecipazione politica degli uomini comuni è largamente smantellata.
Detto tutto ciò, i regimi che continuiamo a definire «democratico-liberali » non sono naturalmente assimilabili a quelli che sopprimono le libertà politiche e civili, il pluralismo culturale e partitico e trasformano il voto tout court in plebisciti a favore del governo. Ma è davvero arduo ritenere che essi abbiano a che fare con «il potere del popolo ». Le elezioni, rimaste formalmente libere (per quanto in alcuni casi palesemente manipolate, anche nei paesi di antica democrazia liberale, come – basti questo unico clamoroso esempio - negli Stati Uniti, dove nelle elezioni presidenziali del 2000 la vittoria venne sottratta ad Al Gore e attribuita a Bush jr.), consentono pur sempre cambiamenti di governo. Il che non è così poco. Sennonché le elezioni vedono le masse relegate a una posizione di passività – con un’inversione di tendenza storica senza precedenti rispetto al moto ascensionale iniziato negli ultimi decenni del XIX secolo - di fronte alla forza di condizionamento e di orientamento di cui sono capaci le élites partitiche ed economiche. Per questo i governi presentano essenzialmente la natura di «governi a legittimazione popolare passiva».
Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno della parte del demos oggi umiliata e offesa di dotarsi del necessario vigore e della capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere.
È da dubitarsi che – come credono Wolin e Crouch – la riconquista democratica possa venire principalmente dall’iniziativa di intellettuali, giornalisti e gruppi di volenterosi ben pensanti. Questa iniziativa non è da trascurare e sottovalutare; se ne vedono segni tanto in Europa quanto in America. Ma l’obiettivo può essere conseguito unicamente attraverso la rinascita di solide organizzazioni anzitutto partitiche, in grado di rappresentare, difendere gli strati sociali più deboli e farne valere gli interessi. Quel che si deve ammettere è che il barometro non tende al bello.
Vasta ( e confusa) è l'area nella quali si svolge animosamente la ricerca di una sinistra del XXI secolo.
Huffington Post, 28 novembre 2015
Sala Umberto, un vecchio teatro nel centro di Roma. Si presenta l’ultimo numero di Micromega, sul palco c’è anche il direttore Flores d’Arcais. Il titolo della serata la dice già lunga: “La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo”. Sembra il titolo di un post di Beppe Grillo, e invece è quel che resta del Palavobis e delle piazze di Cofferati, più di dieci anni dopo. La sentenza di Flores pare inappellabile: “Ha ragione Di Battista, a sinistra non c’è più nulla da rianimare. Ci sono solo pezzi di partitocrazia, e la sinistra fuori dal Pd è ancora peggio, sono i pezzi di partitocrazia emarginati da quelli vincenti”. L’ex garante della lista Tsipras ci va giù durissimo con Vendola: “Dopo quella telefonata a capo chino con l’uomo delle relazioni esterne di Ilva non capisco come possa stare ancora in politica, ma ognuno ha la dignità che ha. E peggio di lui sono quelli che gli stanno ancora intorno e non l’hanno buttato giù”.
A Renzi ci pensa Rodotà: “In lui vedo un retaggio craxiano più ancora che berlusconiano…”. Fuori due. I maitre a penser della sinistra giustizialista e dei diritti non vedono più nulla nel loro vecchio campo. Il sol dell’avvenire, ormai, è solo a cinque stelle. E quando il Dibba rivendica il mancato sostegno a Bersani nel 2013, tutti gli danno ragione. E lui: “Se avessimo fatto l’inciucio con uno dei partiti responsabili del disastro, oggi non saremmo un’opzione possibile per il futuro”. Applausi.
“Chi ha votato Pd voleva queste riforme? Voleva il ponte sullo stretto e le trivellazioni? Voleva De Luca?”, arringa Di Battista, supportato da una robusta claque che lui ogni tanto ferma con la mano per evitare il “santo subito”. Rodotà annuisce. “Con loro non ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quando salirono sul tetto della Camera scongiurano la modifica dell’articolo 138 voluta dal governo Letta”. E ancora: “A me non piace lo spirito da curva, sono un vecchio signore, ma oggi per restare in contatto coi cittadini e non trasformarsi in oligarchia servono forme nuove di comunicazione…”.
C’è anche un ricordo personale del prof. Rodotà, che aleggia per due ore la sala: il ricordo di quei giorni del 2013 in cui “un popolo lo voleva al Quirinale”, dice il Dibba, e quella piazza gridava “Ro-do-tà”. La sala è commossa: “Sarebbe stato un grande presidente”.
Lui dà atto ai grillini di quell’omaggio: “Da allora mi riconoscono anche i ragazzi di 20 anni, ho ampliato in modo smisurato la platea a cui riesco ad arrivare”. Flores è assai più pragmatico: la sue guerra trentennale contro i “politici di professione” si invera nelle proposte grilline. “Fui io a proporre nel 1986 il tetto ai mandati, volevo persino metterlo in Costituzione. Ora loro lo fanno, la loro coerenza mi ha stupito”. E’ lui a sottolineare il collegamento coi girotondi, con i giorni del Palavobis e dell’indignazione della società civile contro Berlusconi. E oggi? “Oggi l’unica forza che assomiglia a quelle istanze è il M5s, l’unico movimento votabile. E infatti io lo voto sistematicamente da anni”. Applausi scroscianti, ma Flores, come ai tempi dei girotondi, vuole anche dettare l’agenda del partito di riferimento (anche se a fine 2013 definiva “molto inquietante” Casaleggio): “Dovete essere meno autoreferenziali, sulla Consulta andate all’offensiva, proponete voi tre nomi: Cordero, Carlassare e Rodotà”.
Il prof si chiama fuori: “No, non tiratemi più in ballo, io mi sono autorottamato!”. Flores è un fiume in piena e si rivolge al Dibba: “Organizziamo dei seminari con dei vostri parlamentari ed esponenti della società civile. Sarebbe un segnale grandioso. Solo se si apre alla società civile il M5s può davvero vincere a Torino e Roma, e anche nelle altre città”.
Dall’astio verso Napolitano (“Credevo di aver toccato il fondo con Cossiga e invece no…”, dice Flores) al reddito di dignità, dal no alle riforme costituzionali al parlamento delegittimato dopo la sentenza sul Porcellum: tra i due intellettuali e il giovane e arrembante Dibba la sintonia è pressoché totale. Il deputato ribadisce la coerenza del suo movimento, le regole da rispettare, dai soldi al tetto ai mandati all’impedimento a candidarsi a sindaco per chi sta in Parlamento. “A volte questa coerenza è faticosa…”, si sfoga. E a più riprese ribadisce che “secondo i sondaggi oggi potrei essere il sindaco della Capitale… un mestiere che mi renderebbe molto orgoglioso, durante il Giubileo tutti i grandi della terra che vengono a Roma incontrano anche il sindaco”, racconta con un (grande) retrogusto di rimpianto: “Ma non lo posso fare perché le istituzioni non sono un autobus da prendere per le convenienze personali”. La rinuncia pesa, la folla in platea lo incoraggia. Lui torna sul nazionale: “I più pericolosi oggi sono i partiti che si dicono di sinistra e che ti prendono in giro con il sorriso”. Flores è d’accordo: “E’ dai giorni dell’avvento di Blair che dico che ormai la scelta è tra due destre…”. Oppure cinque stelle. “Secondo me il M5s a Roma ce la può fare”, li benedice Rodotà.
La formula, come vedremo, potrebbe essere rovesciata in Das Wir im Ich. Sciogliendo questi motti, si può dire così: l’asse portante è che la libertà singolare non può esistere se non in connessione con la libertà plurale e che, viceversa, la libertà plurale non può dividersi da quella singolare. Dire connessione, però, è dire troppo poco. Bisogna dire, piuttosto, intrinseco rapporto di mutua penetrazione e fecondazione, in un equilibrio difficile. La preponderanza dell’aspetto soggettivo condurrebbe, infatti, a una concezione individualistica della libertà, che Honneth respinge, così come la preponderanza dell’aspetto oggettivo, nei termini hegeliani dello “spirito oggettivo”, cioè della realtà sociale storicamente determinata, condurrebbe a una sorta di olismo, ch’egli ugualmente respinge, pur ponendosi dichiaratamente, sia pure criticamente, entro un’interpretazione della Filosofia del diritto di Hegel.
Tra la prima e la seconda parte del libro — dedicate, rispettivamente, alla trattazione di concetti e alla loro verifica storico- empirica — sono collocate — sotto il titolo La possibilità della libertà — due sezioni che costituiscono, per così dire, un “a parte” e potrebbero stare in piedi anche autonomamente. Sono dedicate al Daseingrund (termine qui tradotto con “ragion d’essere”, dove l’essere è piuttosto un “esserci”, cioè non un’astrazione ma una collocazione storico- concreta) della libertà giuridica e della libertà morale. Si tratta, per così dire, di due moniti contro l’estremizzazione: il giuridicismo e il moralismo, due fonti di pericolo per la convivenza sociale.
Questi due capitoli rappresentano la cerniera tra la prima parte, d’impostazione filosofica, e la seconda parte d’impostazione sociologica. In queste due parti si traduce la doppia faccia di un libro che, partendo dalle definizioni, giunge all’immersione nelle condizioni delle società in cui viviamo e nelle contraddizioni da cui sono segnate, rispetto alla libertà. La parte filosofica contiene principi normativi: dai concetti, si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive teoriche; la parte pratica contiene verifiche circa le potenzialità e le difficoltà d’inveramento della libertà nelle strutture sociali del nostro tempo. Non, però, come separazione e contrapposizione astratte tra dover essere ed essere, ma come ricerca delle condizioni pratiche di vita di società libere: una ricerca dalle conclusioni piuttosto sconfortanti.
La libertà non è districabile dalla giustizia. Giustizia, nel nostro tempo (la “modernità”), equivale a garanzia di autodeterminazione. Nel nostro tempo: date le premesse assunte, che l’Autore definisce non-kantiane, la giustizia non appartiene al puro ideale, alle formule evanescenti come quella che la identifica con la generalizzabilità delle “massime” delle proprie azioni, ma è un dato storico-sociale. La giustizia come autodeterminazione è lontanissima da quella che tale si considerava nell’antichità, obbiettiva, organica, sovra-individuale, obbligante. La giustizia, per noi, al contrario è “liberatrice”, ma con un vincolo: la “riproducibilità sociale”. Questo concetto, che rappresenta il cavallo di battaglia della sociologia, è assunto qui come qualcosa di simile a un imperativo categorico.
L’autonomia che la compromette non è giustizia, ma corruzione della giustizia.(...) Il primo stadio della libertà è quello negativo, l’assenza di costrizioni esterne. La più semplice, elementare e intuitiva definizione è l’assenza di impedimenti. È la definizione di Thomas Hobbes, risalente al tempo della guerra civile di religione: «Libero è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha volontà di fare». (...) Non ci si può fermare qui. Essere liberi nel corpo e nelle azioni, ma schiavi delle proprie passioni irrazionali e dei propri errori, è ancora libertà? Questa è la domanda di Rousseau, che pone la libertà nell’obbedienza alla legge che ogni singolo dà davvero a se stesso, cioè nell’autonomia.
Questo principio sta alla base tanto della libertà del singolo quanto della libertà della società tutta intera. Come la libertà negativa implica la ripulsa delle costrizioni fisiche, così la libertà come autodeterminazione — che l’autore del libro chiama «riflessiva » — esige la purificazione dalle costrizioni morali che inquinano la retta (cioè non perturbata da vizi, passioni, errori) formazione della coscienza. Si tratta, dunque, della sovranità morale rispetto alle pressioni dell’“ambiente” che, con i suoi pregiudizi, le sue lusinghe, le sue seduzioni, i suoi inganni altera la percezione del sé e, alla fine, svuota la libertà del suo contenuto d’autonomia e lo riempie di forze psichiche eteronome. (...) La libertà «sociale» di cui Honneth tratta non è un’alternativa rispetto alle altre due concezioni della libertà. È piuttosto il prolungamento, o l’implicazione necessaria, della libertà riflessiva, così come quest’ultima è lo sviluppo della libertà negativa.
A essere prese in considerazione sono le condizioni istituzionali della libertà, intese non come aggiunte esteriori, ma come necessità intrinseche al suo concetto. Su questo punto si insiste particolarmente, allo scopo — anche — di prendere le distanze, differenziandosene, dalle concezioni della democrazia discorsive nelle quali l’aspetto istituzionale, secondo l’Autore, è concepito come condizione esteriore della libertà. È l’occasione, per Honneth, per prendere qualche distanza da Habermas, il suo predecessore alla direzione dell’Institut francofortese per la ricerca sociale. La teoria del discorso di Habermas, in quanto teoria, rimarrebbe, secondo Honneth, in una sfera di astrattezza; l’intersoggettività, che ne è il nucleo essenziale, resterebbe confinato in un a priori incapace di tradursi in idea politico- sociale concreta, alias “istituzionale”, di libertà.
In altri termini, le istituzioni sarebbero il governo esteriore arbitrale del gioco degli intenti in campo, e l’obiettivo di formulare un’idea di libertà tale da incorporare la dimensione relazionale, intersoggettiva e quindi sociale, sarebbe mancato. (...) Non c’è bisogno di richiamare la letteratura sociologica e psicologica che mette in luce il lato repressivo delle istituzioni e di ogni “istituzionalizzazione” dei comportamenti individuali e collettivi. La libertà consisterebbe, secondo questo punto di vista, nella de-istituzionalizzazione o, comunque, nell’assenza di predeterminazioni istituzionalizzate. Il contrario della visione di Honneth, il quale pone precisamente nell’istituzione la possibilità di libertà. Le istituzioni non sono sorte, necessariamente, per reprimere, ma anche per promuovere la libertà: la libertà concreta, realistica, non velleitaria o puramente agitatoria.
L’esercizio della libertà che non riesce a farsi istituzione”, secondo questa visione sociale della libertà, è sterile. (...) Nelle prime pagine di questo libro si spiega come la libertà sia il tratto caratteristico della modernità, lo shibolet per poter prendere parte al discorso politico moderno. Ma proprio questo libro rafforza la comune consapevolezza della plurivocità della parola, dell’esistenza di numerose concezioni del concetto; il lettore è come condotto per mano, sempre in nome della libertà, anzi della libertà al suo più alto grado, a salire fino a un colmo che sta sul crinale dell’ambiguità: l’ambiguità che connota il concetto di istituzione e, così, anche la immedesimazione istituzionalizzata della libertà degli uni nella libertà di tutti: l’eterno problema dell’equilibrio tra gli uni e i tutti.
«Intervista al segretario della Fiom: "Ci mobilitiamo contro il terrorismo e la guerra". Al centro della protesta di domani il contratto e la legge di Stabilità targata Renzi. La Cgil prepara un referendum per abrogare il Jobs Act. "Possibili anche su scuola e ambiente"».
Il manifesto, 20 novembre 2015
«Ad aprire il corteo saranno i lavoratori immigrati, con la scritta “Contro la guerra io non ho paura”. Alcuni di loro parleranno anche dal palco». La manifestazione Unions! di domani a Roma, indetta dalla Fiom e dalla Coalizione sociale, non poteva certo ignorare i fatti di Parigi. Anzi, le riflessioni che Maurizio Landini ci consegna incontrandoci nella nostra redazione — con noi Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco — sono in gran parte dedicate ai gravi fatti che accadono in Europa. Subito dopo, ovviamente, parliamo del contratto dei metalmeccanici, e del contrasto del sindacato alla legge di Stabilità e al Jobs Act. Di Renzi e del Pd, della nuova Sinistra italiana, dei Cinquestelle.
È un errore rispondere con la guerra ai terroristi? Quale altro strumento contro gli attentati?
«Lo diciamo chiaramente: noi siamo contro il terrorismo ma anche contro la guerra. Leader importanti come Blair stanno riconoscendo gli errori delle guerre del passato, e non si può non vedere che quello che viviamo oggi è in parte frutto dei conflitti armati. Dobbiamo muoverci su due terreni: innanzitutto smettere di vendere armi e di comprare petrolio dall’Isis. E poi dobbiamo superare la guerra con un’azione politica molto forte: mettendo intorno a un tavolo non solo i grandi paesi ma anche quelli delle zone calde. Servono azioni di intelligence comune per difenderci, certamente, ma anche e soprattutto iniziative culturali e sociali che tolgano il brodo di coltura dove fioriscono i terroristi».
Azioni culturali?
«Penso, con le dovute differenze, a quello che fecero la sinistra e il sindacato con il terrorismo degli anni Settanta: riuscirono a isolarlo, a prosciugare il brodo di coltura e di possibile connivenza. Allo stesso modo contro questo nuovo terrorismo serve una mobilitazione dal basso, tra le persone, e i musulmani, già divisi tra loro e in guerra da tempo. Per questo scegliamo di marciare con due bandiere: del lavoro e della pace».
Un dialogo non facile, quello con i musulmani, in questa fase.
«É la prima volta che in Europa delle persone scelgono di farsi esplodere per ucciderne altre: non possiamo sottovalutare questa minaccia, ma nel contempo dobbiamo evitare le semplificazioni e le equazioni “musulmano uguale terrorista”. Ho letto a fondo l’ultima enciclica del papa, e mi ha colpito l’analisi rispetto all’attuale modello di sviluppo, la centralità assoluta della finanza e le guerre innescate in questa logica. L’Isis si presenta davanti ai suoi possibili adepti non solo con il volto dell’integrità morale e ideologica, ma anche promettendo risposte alle disuguaglianze della nostra società. Se vogliamo combattere questa strumentalizzazione non possiamo chiuderci in casa, ma al contrario dobbiamo aprirci ancora di più al dialogo e all’inclusione. Verso tutti».
Al Nord nelle fabbriche lavorano molti immigrati. Il modello italiano di integrazione funziona? La Fiom riesce a coinvolgerli?
«Circa il 15–20% dei nostri iscritti, ormai, è di origini non italiane. Abbiamo tanti delegati tra i lavoratori immigrati, che rappresentano sia gli italiani che gli stranieri. Spesso, lo devo dire, con intelligenze e competenze anche superiori alle nostre, se non altro per il difficile vissuto che hanno alle spalle. A Padova, qualche settimana fa, abbiamo tenuto l’assemblea nazionale dei delegati immigrati: c’era anche la Presidente della Camera Laura Boldrini. Sono emerse richieste che dovremmo rivendicare per tutti: l’abrogazione della Bossi-Fini, la cancellazione dell’assurda tassa di soggiorno, un reddito di dignità. E il sindacato può fare tanto: in Germania l’Ig Metall investe 700–800 mila euro per impartire lezioni di tedesco agli immigrati, e per introdurre le altre culture ai lavoratori tedeschi. Tutto questo nelle sedi sindacali: che così diventano punti di riferimento per l’integrazione».
Passiamo al contratto. Siete riusciti a portare Federmeccanica su un unico tavolo.
«Sì, nonostante la presenza di due diverse piattaforme. Si riconosce il fatto che la Fiom è la sigla più rappresentativa. Poi è intervenuta una novità: la Uil è disponibile a sottoporre l’accordo al voto dei lavoratori. Chiediamo che le regole dell’accordo sulla rappresentanza, firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, vengano applicate nel contratto: così potremmo estenderne la validità a tutti i lavoratori, e andare insieme dal governo per chiedere che i minimi contrattuali diventino salario minimo legale».
Quali sono le richieste qualificanti della vostra piattaforma?
«C’è innanzitutto un principio nuovo da segnalare: i diritti da contratto dovranno valere per tutte le figure, fino alle partite Iva. Quindi minimi salariali, maternità, ferie, malattia, infortuni, Tfr. La formazione deve essere un diritto individuale, soggettivo, si devono ridurre gli orari se c’è un maggior utilizzo degli impianti, chiediamo di riformare l’inquadramento. E poi apriamo il nodo della sanità integrativa, ma purché sia valida anche questa per tutte le figure e per i familiari a carico: non sostitutiva di quella pubblica, ma di sostegno, per il rimborso ticket, il dentista, la non autosufficienza».
Che aumento chiedete?
«Del 3% sulle paghe base. Ma rinnovando il modello contrattuale: rinnovi ogni anno come in Germania, e vorremmo poi che il governo defiscalizzasse il primo livello. Se ci intendiamo su questi due punti, possiamo discutere con le imprese anche un eventuale conglobamento dell’attuale indennità perequativa, quella erogata a chi non fa accordi aziendali».
Da cosa viene fuori il 3%?Da tre elementi: l’inflazione; l’andamento del Pil italiano e di settore; la necessità di redistribuire reddito dopo anni in cui si è perso costantemente, indebolito anche dal fiscal drag. Ovviamente dove si vorrà e si riuscirà, ben venga la contrattazione di secondo livello: ma siccome nella realtà si riesce a fare solo nel 20–30% delle aziende, io devo garantire e qualificare il contratto nazionale».
La manifestazione è indetta anche contro la legge di Stabilità.
«Per noi deve cambiare. È una balla che sia espansiva, perché non ci sono investimenti pubblici e non si creano posti di lavoro. Si spendono i soldi per tagliare la tassa sulla casa, mentre si interviene pesantemente sulla sanità. Gli incentivi alle imprese non sono selettivi e vincolati a investimenti. Non c’è una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, ma anzi — con misure come quella sui 3 mila euro– si incoraggiano comportamenti non certo virtuosi. Si sono ridotti gli ammortizzatori sociali, rendendoli addirittura più costosi dei licenziamenti per le imprese. Non si interviene sulle pensioni. Insomma, si prosegue lo schema già adottato per il Jobs Act, per la scuola. Il premier “giovane e sveglio” applica le ricette dell’austerity europea, la lettera della Bce, come fu per Monti e Letta, senza metterle in discussione».
Però ci pare che il sindacato faccia fatica a muoversi. Ma c’è davvero, come dite, tanta contrarietà a Renzi nel Paese?
«Io penso che il consenso per Renzi stia diminuendo, e che tra le persone che lavorano o che cercano lavoro non sia maggioritario. È vero, dall’altro lato, che abbiamo fatto passare un anno dallo sciopero generale. Un po’ dipende dal fatto che il premier decide a colpi di fiducia in Parlamento, nessuno ha mai votato un suo programma, e lui procede anche a dispetto delle proteste. Questo scoraggia le persone dalla partecipazione. E poi c’è la crisi, l’aumento della povertà, il non credere più nei mezzi tradizionali di lotta. Proprio per questo segnalo un’importante decisione della Cgil: la proposta di un referendum per l’abrogazione del Jobs Act. Perché se le leggi ci vengono imposte, dobbiamo lottare con tutti i mezzi legali che abbiamo per cancellarle. In gennaio la Cgil chiamerà al voto 5,5 milioni di iscritti, dopo aver proposto la sua alternativa, il nuovo Statuto dei lavoratori. Io credo che si potrebbe lavorare allo stesso modo anche per la scuola, l’ambiente. E non a caso, nella consultazione per il contratto, abbiamo chiesto ai metalmeccanici se sono d’accordo sul fatto che la Fiom si impegni su tutti questi temi. E in maggioranza ci stanno dando l’ok».
Sono temi che si intrecciano con quelli della nuova Sinistra italiana. Può essere un partito di riferimento per chi lavora?
«Il problema per noi non è avere una forza politica di riferimento, un partito unico, ma riuscire a ottenere che il lavoro diventi tema trasversale a tutta la politica. Mentre oggi, e grazie a precise scelte di Renzi, il tema economico trasversale e dominante — centrale direi — è al contrario l’impresa. Faccio un esempio: lo Statuto dei lavoratori è stato votato negli anni Settanta anche dalla Dc e dal Pli, partiti non certo di sinistra: a quei tempi il lavoro era evidentemente centrale per tutta la politica».
Quindi è tramontata del tutto l’epoca del rapporto diretto tra sindacato e partiti.
«Noi abbiamo sempre presentato le nostre proposte a tutti i partiti, e se le condividono, bene, questo ci aiuterà. Sulle pensioni vedo che la Lega la pensa come noi, sul reddito di dignità i Cinquestelle. Io quando ho cominciato a fare sindacato mi presentavo nella quota Pci della Cgil, oggi è l’opposto: un recente studio sui nostri delegati ha appurato che il 90% di loro non è iscritto a nessun partito. L’autonomia è fondamentale per fare bene il nostro lavoro, nel rispetto di tutte le forze politiche».
La Coalizione sociale sta funzionando? Tracciamo un bilancio.
«Io credo di sì, anche se non ho mai nascosto che fosse una sfida difficile, mentre la gran parte dei media la riduceva al problema «Landini fa un partito». E invece vogliamo ricostruire quel legame tra le persone, che poi ci permetterà magari di pensarla allo stesso modo quando voteremo al referendum sul Jobs Act. Ma partendo dalla base, dai territori, dai bisogni reali, da un nuovo mutualismo. Penso allo sportello anti-usura che abbiamo aperto a Cuneo, alla vendita scontata dei libri scolastici, al Fondo di solidarietà istituito a Pomigliano».