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Il grande pensatore comunista lo aveva già compreso. «Con l’evoluzione della "società dello spettacolo" sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia».

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«Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica»H. Marcuse
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi.

Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia».
All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimento filosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita».

Il nesso fra teoria e pratica, o tra filosofia e politica, insomma, era fondato sulla prolifica unione di pensiero e azione, con la finalità di evitare un’elaborazione teorica e una prassi politica che, se separate, si allontanassero dalle questioni reali e concrete della società umana. Ma anche per scongiurare quel distacco tra intellettuali e masse popolari che, specialmente con la Prima Guerra Mondiale, aveva finito col ridurre le classi subalterne a recitare il ruolo di «materiale umano» o «materiale grezzo» per la storia delle classi privilegiate.

Il recupero della centralità dell’uomo, in quanto capace di elaborare un pensiero che si traduca inazione e lo configuri come soggetto consapevole della società e della storia, è quanto oggigiorno appare più a rischio di fronte agli sviluppi di una tecnologia massmediatica che, se da una parte fornisce l’illusione dell’«onnipotenza informativa», dall’altra produce individui sempre meno in grado di pensare autonomamente e di agire consapevolmente, sempre più isolati all’interno di quattro pareti e davanti al video di un computer. Computer che, per molti aspetti, finisce col pensare e agire al posto degli uomini stessi, producendo non soltanto degli effetti deleteri sulle facoltà precipue dell’individuo, ma minando anche quelle possibilità di relazioni e azioni sociali che rappresentano il nerbo della polis umana.
L’odierna società della comunicazione, che ha ormai assunto le fattezze della società dello spettacolo descritta da Debord, sta contribuendo alla costruzione di un uomo sempre più isolato ed eterodiretto e, in quanto tale, sottoposto a forme di dominio nella dimensione sovrastrutturale che gli rendono impossibile, o peggio sterile, ogni possibilità di azione concreta ed efficace nel campo sociale .

La natura sociale dell’azione

Dopo un periodo in cui fu predominante la tesi che negava questo ed altri tipi di influenza dei media sull’uomo, nel 1981, significativamente sulla Annual Review of Psychology, compare un saggio pressoché ignorato dalla stampa e dalla comunità scientifica americane. In questa pubblicazione, dai toni peraltro misurati, viene lanciato un messaggio di profonda importanza per i professionisti e gli studiosi della comunicazione, volto a rimarcare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, di pensare e in ultima analisi di agire delle persone nel proprio mondo».

Concentriamoci su quest’ultimo aspetto. L’azione fa parte della dimensione umana, rappresenta un punto fondamentale tanto quanto la percezione e il pensiero e, anzi, potremmo dire ripensando a Gramsci, ne costituisce la naturale proiezione nel campo sociale. Se è vero che «tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme», scriveva la Arendt, è ancora più vero che «soltanto l’azione non può essere neppure immaginata al di fuori della società degli uomini». Essa soltanto costituisce una «prerogativa esclusiva degli uomini», di cui né una bestia né un dio possono essere capaci.
È nell’agire, quindi, un agire cosciente e razionale proprio perché preceduto da una corretta percezione e da un libero pensiero, che la natura dell’uomo si rivela «sociale», imprescindibile dalla presenza di altri individui e dalla cooperazione con essi al fine di costruire una società libera e capace dimettere al centro l’uomo e i suoi bisogni. Ma per «agire» in questo senso sociale e politico, occorre che i cittadini siano interessati all’azione stessa, «impegnati» nel valutare con la propria testa e in maniera critica i limiti e le incongruenze della società di cui si trovano a far parte.
Ora, ai nostri giorni esiste un’ampia letteratura che ha studiato lo straordinario sviluppo tecnologico e strutturale dei mezzi di comunicazione di massa, arrivando a un generale consenso sul fatto che in riferimento ai mass media delle società industrializzate, questi sviluppi allo stato attuale non hanno contribuito né a creare democrazie più robuste né formare cittadini più «impegnati (engaged citizens)».
Se da una parte, quindi, è assai agevole documentare le rivoluzioni che le nuove tecnologie informatiche e comunicative hanno operato rispetto a tutte le sfere della nostra vita, tanto che c’è chi arriva a qualificarle come «costitutive» della modernità stessa, dall’altra rimangono non poche perplessità rispetto alla loro capacità effettiva di potenziare la democrazia. Con particolare riferimento a Internet, per esempio, si possono riscontrare alcuni elementi che vanno in direzione contraria:
1) l’uso che si fa di Internet per scopi civili e politici è infinitamente minore rispetto a quello che concerne l’intrattenimento e lo shopping;
2) per quanto riguarda il reperimento di informazioni, prevale di gran lunga la ricerca di «non-notizie», afferenti a tematiche come la salute, la finanza o le questioni riguardanti il consumo, che superano abbondantemente la ricerca di informazioni sugli affari correnti o sulle cronache giornalistiche;
3) dalle odierne società dell’informazione non sono usciti cittadini politicamente impegnati né politicamente attivi. Dato che si riscontrava anche prima dell’avvento di Internet, ma rispetto al quale la rete ha finito con l’avere un ruolo ancora più disimpegnante: infatti se è vero che lo spettro ideologico delle discussioni fra individui su Internet è più ampio rispetto a tutti gli altri media, è anche vero che queste discussioni si mantengono su un piano «virtuale», che tende a escludere quasi sempre una traduzione nella pratica delle discussioni teoriche;
4) una visione molto diffusa era stata quella per cui Internet avrebbe potuto dare più potere ai meno forti: tale visione è stata smentita dai fatti poiché si è rilevato che i gruppi marginalizzati non hanno assolutamente visto incrementare il proprio impatto rispetto alle relazioni di potere all’interno delle società.
Tanto i massmedia sono diventati elemento centrale delle nostre società moderne e della vita quotidiana di tutti noi, si potrebbe dire, tanto balza agli occhi il loro effetto disimpegnante e omologante sulla nostra identità di cittadini facenti parte di una comunità. Tale effetto si ripercuote sull’assetto democratico delle nostre società, su quella che, in accordo con quanto stabilito da Habermas e prima ancora da Dewey, viene chiamata «sfera pubblica» e che è fondata sulla componente cruciale dell’«interazione» fra individui liberi, interessati alla res publica: senza una libera discussione fra i cittadini, scrive uno studioso del rapporto tra sfera pubblica e mass media, la stessa definizione di «pubblico» diviene senza senso.
Da questo punto di vista la società della comunicazione crea molti motivi di preoccupazione per le sorti della democrazia. Facciamo riferimento ad analisi che documentano come la cultura dei media in generale, con la sua enfasi sul consumo e sull’intrattenimento,ha tagliato l’erba sotto ai piedi a quel tipo di cultura pubblica che è richiesta per una democrazia in salute.
Più specificamente il giornalismo contemporaneo è spesso accusato di sovvertire i valori democratici nella trattazione delle vicende politiche, per via della sua sempre crescente commercializzazione, per il sensazionalismo, la trivialità, tutti elementi che conducono a due risultati:
1) da una parte il giornalismo (e la cultura dei media in generale) contribuisce al generale ammutolimento della cittadinanza (che non è più in grado di intervenire su questioni trattate inmaniera tanto enfatica e iperbolica, quanto poco fornita di contenuti effettivamente informativi);
2) dall’altra promuove nei cittadini cinismo, disaffezione e, alla fine, disinteresse verso il sistema politico e i suoi rappresentanti, parimenti a un senso di impotenza nel poter intervenire su vicende che si sentono lontane.
Né queste critiche possono essere limitate al giornalismo tradizionale (su carta stampata o su radio e telegiornali), poiché anche le modalità politiche ed economiche che caratterizzano l’informazione su Internet suggeriscono che il suo sviluppo sta rapidamente deviando verso quel tipo di «commercializzazione» (ossia banalizzazione ad uso e consumo di masse disimpegnate) che già da tempo caratterizza il modello dei media tradizionali 16.
Cittadini passivi

I mass media che producono cittadini disimpegnati e disinteressati alla sfera pubblica, media dietro ai quali vi sono poteri forti di natura economica e politica, finiscono col ritagliarsi anche un ruolo esclusivo rispetto alla formazione dell’opinione pubblica. Più l’individuo, per tutte le ragioni viste finora, perde la propria autonomia di giudizio e le proprie facoltà intellettive ed esperienziali, più questo stesso individuo perde la capacità di incontrarsi coi suoi concittadini per «dibattere», «organizzarsi» e «mobilitarsi» su questioni di interesse collettivo, più alla fine verrà lasciato ai media e a chi vi sta dietro la facoltà di formare l’opinione pubblica e di dirigerla secondo interessi di natura economica o, comunque, privata: «Al giorno d’oggi – scriveva Sartori vent’anni addietro –sono i mass media a giocare il ruolo più grande e centrale nel formare l’opinione pubblica […] Il mondo, per larga parte del pubblico, si riduce al messaggio veicolato dal media».

Cittadini di questo tipo, resi passivi ed eterodiretti, sono le vittime preferite dei poteri economici (che spesso e volentieri controllano i media), che si trovano così di fronte «consumatori passivi» dei loro prodotti, cervelli meccanicamente predisposti all’acritica accettazione del prodotto, come del messaggio, imposto da qualcun altro. Si tratta di un meccanismo che aveva già colto McLuhan, analizzando il fenomeno della pubblicità (advertising) e riscontrando come essa si fondi «sull’avanzatissimo principio per cui anche la più piccola parte di un motivo o di uno schema, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradualmente per imporsi. La pubblicità spinge il principio del rumore fino al livello della persuasione, sistema che corrisponde pienamente alle procedure di lavaggio del cervello (brain washing)».
E proprio l’assalto all’inconscio potrebbe essere la ragione che sta dietro al meccanismo della pubblicità, è la deduzione di McLuhan: «Per dirla brutalmente –concludeva infatti lo studioso dei media – l’industria pubblicitaria è un rozzo tentativo di estendere i principi dell’automazione a ogni aspetto della società». Del resto, come mirabilmente descritto e anticipato da Orwell in 1984, la società della comunicazione si sta sempre più rivelando come quel sistema capzioso e sottile in cui viene finalmente conquistato anche «l’ultimo santuario», la mente umana, tramite meccanismi terrificanti ed efficacissimi quali il lavaggio del cervello, la persuasione subliminale e il controllo narcotizzante: in altre parole, per dirla con Sartori, una vera e propria «realtà totalitaria» fondata su un «sistema unicentrico di produzione dell’opinione».
Ad accostare società della comunicazione e totalitarismo era stato lo stesso McLuhan, laddove evidenziava che mentre «la minaccia di Hitler o di Stalin era una minaccia esterna», «la tecnologia elettrica entra dentro le nostre case e noi assistiamo intorpiditi (numb), sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg, sulla quale e attraverso la quale si è formata l’american way of life» .
Se i mass media, e gli interessi forti che li controllano, sono in grado di stravolgere e controllare le nostre capacità di percezione e pensiero, il nostro modo di agire (o non agire) nella società, manipolando le nostre menti fino a renderle atte ad accettare passivamente messaggi, informazioni e financo prodotti, utili ad alcuni interessi particolari e non a noi stessi o al bene comune della società in cui viviamo, è evidente che si pone il problema della democrazia. Non a caso gli autori succitati tirano in ballo il totalitarismo, ossia quel sistema che è considerato antipodico rispetto ai modelli democratici che conosciamo nel nostro benestante Occidente.
Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide. Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla.
Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante.
Ritorno a Gramsci

L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi.

Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore».
Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!».
Riferimenti bibliografici:

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Avvertenza

Le note a pie' di pagina possono essere lette nel testo originale, sul sito Filosofiainmovimento, e precisamente qui. Siamo arrivati a questo testo (di grande interesse nella fase attuale della politica non solo italiana, scorrendo le pagine del sito gabriella giudici.it. Su quest'ultimo sito vi consigliamo anche di sorridere guardando gli sketch, di incredibile humour e umanità, di Nanni Loy. La zuppetta. La nota di Gabriella Giudici che introduce lo sketch vi spiega con poche parole perché tra le invenzioni di Nanni Loy e gli altri esemplari di candid camera corre la stessa differenza che c'è tra una perla e un ciottolo.
Sembrano parole profetiche, ma sono parole e moniti di scottante attualità: l'intervista di Silvia Truzzi a Enzo Bianchi è da conservare e rileggere.

IlFatto Quotidiano, 24 dicembre 2015

"L'atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana"

La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.

Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di unamalattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.

Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all'abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c'è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s'ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all'azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.

Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.

E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico – cattolici, valdesi, battisti, ortodossi – che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l'apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l'idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.

Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all'ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.

Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c'era l'acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.

Qui cosa producete?

Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.

Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all'anno, più o meno. C'è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso – da circa cinque anni – si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall'Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l'italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?

“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.

Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.

Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta – ingiusta perché contro gli innocenti – ad altra violenza.

L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.

La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre – a qualunque costo – chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.

Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?

Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.

La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità – tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo – allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.

È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.

Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.

Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche – sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche – la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.

Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.

Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair – che non è proprio un giusto – fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.

Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.

Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza… Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!

La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.

Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.

«Drammi storici. Pubblicata la piéce sulla rivolta dei Ciompi "Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze" di Jeremy Lester. Testo sul passato che proietta la sua attualità sul presente».

Il manifesto, 24 dicembre 2015

È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso – lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida – rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.

È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.

Il sorriso dell’oppressa

Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».

La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).

Le storie di Machiavelli

Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.

Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».

È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.

Il divenire della mutazione

L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».

I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».

l manifesto, 24 dicembre 2015



CARA SINISTRA, È FINITO
IL PARTITO MONOTEISTA
di Lidia Menapace
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza

Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.

Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?

Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?

Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!

Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.

Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.

Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».

Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.

Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.

Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.

Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.

Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.



IL PARTITO DELLE CITTÀPER BATTERE
QUELLO DELLA NAZIONE
di Massimiliano Smeriglio

Per battere la destra bisogna prima battere un’idea di centro sinistra. E non ridursi a testimonianza

Come ci ha raccontato in questi anni Aldo Bonomi la potenza dei flussi scompone e violenta la vitalità dei luoghi perché incapace di interpretare la cura del paesaggio e la presa in carico della coscienza di luogo. Questa disputa vale sul piano economico nel rapporto tra economia finanziaria, un flusso, anzi un algoritmo che si muove nella rete, e processo produttivo. Le politiche dell’austerity sono un flusso che spezza i luoghi, le comunità, la nuda vita. Vale nel rapporto tra ciò che è delocalizzabile e ciò che produce valore perché intrinsecamente connesso alla identità, alla cultura profonda di un luogo, ai beni comuni di una municipalità, alla sua storia. Vale nel rapporto complicato tra i flussi migratori e il loro impatto con le piccole patrie occidentali. In questa faglia vi è persino un filone inesauribile di consenso elettorale razzista e a buon mercato.

Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?

Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.

Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.

La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.

Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.

Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.

Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.

Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.

Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.

Devo parlare della giustizia. Siete in diritto di pensare ch’io sappia che cos’è. Invece no. Secondo il celebre detto di Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare con chiarezza deve essere taciuto”, essendo giustizia parola oscura, dovremmo iniziare e finire qui il nostro incontro. Tuttavia, da sempre proprio le massime questioni dell’esistenza si esprimono con parole tutt’altro che univoche. Dovremmo tacere? Se fosse tutto chiaro, perché parlare? Quante migliaia di parole Socrate ha dedicato alla giustizia, “cosa ben più preziosa dell’oro”? Eppure, perfino lui si diceva incapace di giungere ad afferrarla (Repubblica 336e).

Se parliamo della giustizia, e non possiamo non parlarne, è proprio perché, socraticamente, sappiamo di non sapere. Possiamo però girarle intorno con qualche domanda e circondarla di parole prudenti. Iniziamo così: può ammettersi che per uno sia giusto ciò che non lo è per un altro? Alla luce dell’esperienza: «sì, dobbiamo ammettere che ciò che è giusto per uno, può essere ingiusto per un altro».
La storia dell’umanità è una grande contesa tra diverse concezioni della giustizia. Se, invece, dicessimo: «no, ciò che è giusto per gli uni deve essere giusto anche per gli altri», dovremmo presupporre che esista la giustizia in senso assoluto e che noi si sia capaci di farla nostra. Prendiamo il più celebre tra i criteri di giustizia, “unicuique suum”: a ciascuno il suo. È facile essere d’accordo, perché ciascuno può riempire “il suo” del contenuto che vuole. Ricordate San Martino che, incontrando un ignudo, scende da cavallo e divide con lui il suo mantello. Ecco: a ciascuno il suo. Ma, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald, sapete che cosa c’era scritto? “A ciascuno il suo”. Come è possibile che questa formula della giustizia valga per San Martino e per gli aguzzini nazisti? Perché è di per sé vuota.
Lo stesso può dirsi per le altre formule generali come: a ciascuno secondo i suoi meriti o i suoi bisogni. Chi stabilisce che cosa sono i meriti e i bisogni? Si dice anche: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te o, in positivo, fai agli altri, ecc. Ma, chi sono “gli altri”? Sono “il prossimo tuo”. Ma, chi è il prossimo? Gesù di Nazareth ha risposto con la parabola del Samaritano. Ma, altri potrebbero dire: quelli che appartengono al mio clan, al mio popolo, alla mia stirpe; oppure, è tutta l’umanità.
Ma, ancora, siamo d’accordo sulla parola “umanità”? Quanto s’è faticato a superare l’idea che “i selvaggi” non vi rientrino, e così “le razze inferiori”, i delinquenti-nati, i malati mentali! L’etica cristiana supera queste difficoltà, non però con la giustizia, bensì con l’amore, che è altra cosa dalla giustizia. L’amore disincarnato, che tanto piaceva anche agli Illuministi del XVIII secolo, entra in crisi, si svuota e s’affloscia non appena entra in contatto con esseri in carne e ossa. Allora compaiono le ghigliottine preparate per i “nemici dell’umanità”, o i roghi delle Inquisizioni per i “nemici della fede”.

In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione.

Gli esseri umani, fortunatamente, non sono a una sola dimensione. Ricordo, per esempio, un libro di Martha Nussbaum ( L’intelligenza delle emozioni) in cui questo lato della coscienza è valorizzato, dicendo una cosa importante: le emozioni hanno capacità cognitive. Con le emozioni, talora, conosciamo più profondamente che non con i soli concetti. Ad esempio, quando i campi di sterminio nazisti furono liberati, gli Alleati obbligarono migliaia di tedeschi a un faccia- a-faccia con quegli orrori. Perché? Non era né crudeltà, né umiliazione del popolo tedesco, ma l’esigenza d’una reazione emozionale, fino ad allora assente, di fronte alle politiche razziste. Si trattava di educare provocando emozioni.

Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi.

I mostri non sono generati solo dal “sonno della ragione”: talora vengono dalle veglie della ragione. L’antidoto del razzismo è certo la dimostrazione scientifica dell’infondatezza delle sue basi storiche e biologiche; ma la confutazione definitiva sta nell’insostenibilità morale concreta, nella sfera delle emozioni, delle sue conseguenze viste e documentate.
Ma, c’è un’obiezione che viene da un grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen, che dice «come le idee di giustizia razionali sono tante, così anche le emozioni». Un latifondista e un bracciante reagiscono emotivamente in maniera diversa davanti a un provvedimento di esproprio. Il primo s’affligge, il secondo si rallegra. Al relativismo delle concezioni razionali corrisponde il relativismo delle emozioni.
Vero. Forse, però, riusciamo a individuare un terreno di comunanza tra tutti gli esseri umani se pensiamo non alla giustizia massima, ma all’ingiustizia massima. Di fronte all’ingiustizia massima forse tutti noi reagiamo nel medesimo modo. In I fratelli Karamazov c’è un dialogo sul tema dell’ingiustizia nel mondo. Ivan Karamazov, dice: «nel mondo regna l’ingiustizia, io lo rifiuto e il mio destino è il suicidio». Porta alcuni esempi di ingiustizia radicale, somma, da ogni punto di vista intollerabile. È il male inferto agli innocenti. Chi sono gli innocenti? Sono gli animali e i bimbi. Una cavallina tirava un pesante carretto per una salita, cascava e continuava a cascare e il padrone la frusta fino alla morte sugli occhi dolci che lo guardano. Un principe russo, preparandosi alla caccia, ordina ai servi di scatenare i cani per far sbranare, davanti alla madre serva della gleba, il bimbo che giocando con una pietra aveva azzoppato uno di quelli. Ditemi voi se, di fronte a ingiustizie di questo genere, non reagiremmo tutti nello stesso modo emozionalmente, al di sopra delle nostre divisioni razionali. Gli atti aberranti cui gli uomini sono spesso indotti presuppongono che si spenga il loro senso di umanità. Gli uomini dei Sonderkommando (squadre di ebrei che conducevano altri ebrei alla morte: averle concepite è stato il delitto più demoniaco del nazismo, ha scritto Primo Levi) erano privati della loro umanità da grandi distribuzioni di alcolici. Lo stesso, per i reparti militari incaricati delle esecuzioni di massa. Analogo effetto degli stupefacenti si otteneva con la propaganda martellante e i lavaggi del cervello. Ciò sta a dire che, senza l’avvelenamento della psiche, l’umanità si sarebbe ribellata.

Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica.

«Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura». Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)

In attesa che gli spagnoli copino la legge elettorale italiana voluta da Renzi, come prevede Renzi, è il caso di ricordare quando gli attuali sostenitori dell’Italicum tifavano per il sistema spagnolo. Per esempio il senatore del Pd Tonini, che ieri su Repubblica spiegava perché con l’Italicum il nostro paese è «all’avanguardia in Europa» e non rischia «di fare la fine della Spagna». È lo stesso Tonini che ha presentato un disegno di legge (con l’attuale viceministro Morando) per importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Era la moda, lanciata da Veltroni quando segretario del Pd cercò di agganciare Berlusconi (ha fatto scuola). Il sistema fu chiamato Veltronellum, lo studiarono i professori Ceccanti e Vassallo (oggi sostenitori dell’Italicum), convinse rapidamente il centrodestra. Alfano e Quagliariello, per dirne due, pensavano per quella via di risolvere tutti i problemi dell’Italia. Lo stesso compito che oggi affidano al ballottaggio.

Più recentemente anche il Movimento 5 Stelle ha scelto il sistema spagnolo, al quale proponeva di aggiungere le preferenze in un ordine del giorno di due anni fa che sarebbe coerente con l’attuale opposizione dei grillini all’Italicum. Non fosse che oggi, con un altro ordine del giorno, hanno chiesto il contrario: conservare l’Italicum senza cambiamenti. Del resto è l’unico sistema che può condurli alla vittoria. Ma ancora di più ha fatto Renzi, che lunedì davanti ai risultati spagnoli ha «benedetto» l’Italicum. Anche lui propose il sistema spagnolo, quando eletto segretario offrì al confronto tre proposte «equivalenti»: la prima era proprio il modello iberico. Con una correzione, un premio di maggioranza del 15% che, assicurava, assieme allo sbarramento avrebbe «garantito la maggioranza». E invece no, al Partido popular - pure favorito dallo sbarramento che è conseguenza dei collegi piccoli - oggi per conquistare la maggioranza assoluta nel Congreso non basterebbe l’omaggio di 52 seggi immaginato da Renzi. Per quello ci vorrebbe l’Italicum.
Con la nuova legge italiana (congelata fino al luglio dell’anno prossimo in attesa della riforma costituzionale) il calcolo è assai semplice. Nessun partito in Spagna ha raggiunto il 40% dei voti validi, dunque per assegnare il premio che garantisce il 54% dei seggi della camera servirebbe il secondo turno. Vi parteciperebbero i popolari e i socialisti, che in totale al primo turno - pur essendo calato l’astensionismo - hanno raccolto il voto del 34% degli aventi diritto; in pratica di un elettore su tre. Come dice l’avvocato Felice Besostri, che ha istruito i ricorsi in tribunale contro l’Italicum, «si giocherebbero la vittoria finale i due grandi perdenti di domenica. I popolari che hanno perso 62 seggi e i socialisti che hanno segnato il minimo storico».
Non solo, se il nuovo sistema italiano venisse adottato in Spagna, al secondo turno è prevedibile un’astensione in massa degli elettori di Podemos, partito che ha condotto la campagna elettorale attaccando contemporaneamente socialisti e popolari, giudicati equivalenti. E così a decidere il vincitore, titolare della maggioranza assoluta, sarebbe una minoranza assoluta. Se per ipotesi vincessero i socialisti, che hanno raccolto al primo turno il 22% dei voti, grazie al premio previsto dall’Italicum si ritroverebbero con oltre il doppio dei seggi realmente guadagnati: 189 invece dei 90 che hanno adesso effettivamente. Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura.

Sul voto spagnolo e sulla riforma elettorale italiana "a misura di un sol uomo" le opinioni del politologo Gianfranco Pasquino, della giornalista Irene Hernàndez Velasco, del giurista Gianluigi Pellegrino e dell'eurodeputato Curzio Maltese. Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2015 (m.p.r.)

MATTEO È IGNORANTE:
IL SUO MODELLO NON RISPETTA LA VOLONTÀ POPOLARE
di Gianfranco Pasquino

C on l’esito di questo voto, preannunciato dai sondaggi, la Spagna è diventata in un certo qual modo europea. Non è più una nazione con due grandi partiti a dominare la scena, come era avvenuto negli ultimi 35 anni: ora ha anche altre due formazioni nella Camera bassa, Podemos e Ciudadanos. Ed è lo stesso schema che ritroviamo nel resto del continente, dove non si trovano Paesi con il bipartitismo. Ora la Spagna dovrà imparare quella che Roberto Ruffilli (politologo e parlamentare della Dc, ndr) chiamava la cultura delle coalizioni.

Attenzione però, chi celebra l’Italicum come soluzione all’ingovernabilità dà un segnale di ignoranza assoluta. Gli elettori votano in base ai sistemi elettorali, usano le regole date. In uno scenario diverso, probabilmente molti elettori di Podemos avrebbero scelto i socialisti per mandarli al ballottaggio, o viceversa. L’Italicum rimane una legge proporzionale fortemente distorsiva della rappresentanza popolare, anche perché al secondo turno costringe tanti cittadini a fare una scelta forzata rispetto al primo voto dato. Quanto ai paragoni tra 5Stelle e Podemos, sono impropri: quello di Iglesias è di fatto un partito.

SBAGLIATE VOI,
CON LA NUOVA LEGGE RISCHIATE
UNA SORTA DI DITTATURA

di Irene Hernàndez Velasco

N on darei un premio di maggioranza forte al primo partito come prevede l’Italicum in Italia: a volte i governi con la maggioranza assoluta non sono veramente democratici perché non sono aperti al confronto e non negoziano con le altre forze politiche. A volte questi governi si comportano quasi come una dittatura.

L’avanzata di Podemos e Ciudadanos e la crisi dei partiti tradizionali non mi sorprendono. Il governo di José Luis Rodríguez Zapatero è stato accusato di negare la crisi e l’attuale leader del Psoe, Pedro Sanchez, è senza carisma e non ha fatto sentire le sue proposte: assomigliava alla vecchia politica che la gente non vuole, sembra piú un’operazione di marketing che un vero leader politico.

L’avanzata di Podemos ricorda quella di Syriza, ma non penso che Pp e Psoe faranno un’alleanza come il Pasok e Nuova Democrazia dopo la quale i socialisti greci sono praticamente scomparsi, sarebbe un suicidio per il Psoe. I socialisti potrebbero non sostenere Mariano Rajoy e astenersi nella cerimonia di nomina del presidente del Governo, lasciando che il Pp formi un esecutivo di minoranza.

IL PREMIER COSÌ CI PORTA FUORI
DALLE DEMOCRAZIE PARLAMENTARI

di Gianluigi Pellegrino

S i può pure convenire con Renzi sui risultati in Spagna e sull’Italicum ma a patto di dire a chiare lettere che si abbandona la democrazia parlamentare. Però, se si ritiene che essa sia incompatibile con l’epoca attuale e con la necessità di prendere decisioni rapidamente, allora bisogna creare dei contrappesi adatti, con garanzie per l’opposizione e per la Corte costituzionale, altrimenti si fa una rivoluzione a metà e il paese si scava da solo la fossa.

Che ci sia bisogno di una legge maggioritaria va bene, mentre non va bene il mix di preferenze e candidati nominati dai vertici romani. Sarebbe meglio adottare il sistema dei collegi uninominali, capaci di garantire insieme una maggioranza forte e parlamentari più indipendenti dal governo. Un sistema che può consentire di vincere con una piccola minoranza rischia di portare al governo le forze antisistema. Non si deve scherzare col fuoco come l’apprendista stregone. Peraltro è sempre meglio dare rappresentanza parlamentare alle pulsioni populiste e comunque doveroso apprestare bilanciamenti e garanzie al potere esecutivo.

IL SISTEMA COL TRUCCO DEL PD
PROVOCHERÀ LA SCONFITTA DEL PD

di Curzio Maltese

Il risultato delle elezioni in Spagna rende evidente la crisi dei partiti dell’establishment come Pp e Psoe, che gli elettori identificano come forze indistinte del sistema. È preoccupante l’idea di arginare il dissenso popolare contro le élite con i trucchetti della legge elettorale che dà la maggioranza a chi non l’ha, come pensano Matteo Renzi e il ministro Maria Elena Boschi. Lei, con il suo tweet sull’Italicum «utile e giusto», ha dimostrato la sua scarsa capacità di analisi politica e dovrebbe dimettersi per un’affermazione come questa più che per la storia della Banca Etruria. Quel tweet mi ricorda il brano «Quelli che...» di Enzo Jannacci, quando dice «Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro»: non sarà l’Italicum a risolvere una crisi del sistema. Renzi benedice la sua legge, ma tutte le leggi elettorali hanno portato alla sconfitta della maggioranza che le ha approvate e così l’Italicum sarà il sistema migliore per far vincere tutti i rivali del Pd: il gradimento del governo è molto basso, quindi sarebbe difficile per i dem vincere al ballottaggio contro il M5S o una forza del centrodestra.

Dopo Syriza, Podemos, . Se si lavora bene, se non prevale la volontà di conservare i vecchi guscu e degli individualismi, allora il disagio profocato dall'emonia del neoliberismo su tutto l'arco della politiqe polkiticienne potrè essere sconfitto da sinistra. due aeìrticoli di Norma Rageri e .

Imanifesto, 22 dicembre 2015


Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta di curarla con l’austerità hanno cambiato la geografia sociale di questi paesi, e ora il responso delle urne restituisce, nel voto, la profondità del cambiamento politico. Vacillano i pilastri delle forze di governo e si rafforzano i nuovi raggruppamenti nati nel decennio horribilis: a sinistra come a destra.

Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.

Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.

La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».

E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento.

Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.

In ogni caso alle elezioni mancano, sulla carta, ancora due anni mentre il paese resta in forte affanno. Bce e Confindustria spengono i facili entusiasmi sulla ripresa, lo stesso ministro Padoan parla di una fase di «stagnazione secolare». E non è facile, nonostante la grancassa governativa e l’abuso in perfetto stile “berlusconiano” delle televisioni, manipolare la realtà. Grande è la confusione sotto il cielo d’Europa, magari la situazione non è eccellente, di sicuro la rendita di chi governa è finita.
Terribili ombre di un passato che credevamo sepolto. Aveva ragione Bertold Brecht: il ventre che generò il nazismo è ancora fecondo.

La Repubblica, 20 dicembre 2015

In Danimarca si pensa di vendere a caro prezzo il biglietto di ingresso ai migranti. La ministra per l'integrazione Stoejberg ha presentato una proposta di legge per "espropriare" all'ingresso tutti i migranti di ogni bene al di sopra di una piccola cifra. Un pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni. Non del tutto inedito, tuttavia.

Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi.

Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del '900 questi morti sono rappresentanti con una info-grafica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen.

La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro?

La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia.

È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese. Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti.

Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso. Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore.

Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo. Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.

Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

La sinistra europea ha abbandonato la critica del capitalismo ed ha abbracciato le teorie del neoliberismo proprio nella fase in cui il capitalismo provoca il massimo di disagio sociale. Perciò appare inevitabile, con questa sinistra, il rafforzamento della destra populista.

La Repubblica, 19 dicembre 2015

La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».

Come spiega questa evoluzione della sinistra?

«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».

Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?

«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».

In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.

E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».

Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...

«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».

Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?

«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».

«Il governo del grande inganno. La menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. E la democrazia rischia di andare in malora».

Ilmanifesto, 17 dicembre 2015, con postilla

La politica in democrazia si affida a due funzioni fondamentali: l’esercizio di un potere legittimo (fondato sul consenso della maggioranza) e la produzione di narrazioni pubbliche. Il rapporto tra queste due funzioni costituisce un buon criterio di giudizio sulla qualità di un governo.

Quanto maggiore è la distanza tra l’una e l’altra (quanto meno attendibili sono le informazioni diffuse dal governo in merito ai propri obiettivi e alla situazione reale del paese), tanto minore è la legittimità sostanziale di un governo. Il quale si pone fuori dal quadro democratico se, nel perseguire i propri disegni, si affida alla menzogna politica, deformando per questa via l’esercizio della sovranità popolare. Stando così le cose, si può sostenere che il governo in carica è un esempio di violazione dei principi democratici, benché i critici che si ostinano ad affermarlo siano sempre meno numerosi (e sempre più rassegnati).

Naturalmente il governo Renzi è un paradigma di potere antidemocratico in primo luogo per i suoi obiettivi. Renzi e i suoi sodali non fanno altro, da quasi due anni, che attaccare diritti e condizioni materiali del lavoro dipendente, smantellando tutele giuridiche e contrattuali e conquiste salariali strappate in decenni di lotte. Non fanno altro che bombardare lo Stato sociale (la sanità; il sistema pensionistico, ormai tra i più iniqui d’Europa; i meccanismi di salvaguardia del diritto allo studio) e le condizioni di vita dei meno abbienti, circuìti con l’uso circense del denaro pubblico in funzione di mancia elettorale. Non fanno altro che spostare ricchezza verso l’alto a forza di privatizzazioni, misure fiscali anticostituzionali e regalìe varie, come quelle varate dal decreto salvabanche, che, con tutti i disastri che sta provocando, ha già fatto la fortuna dei nuovi vertici bancari e alla fine vedrà, come di consueto, l’intervento salvifico della Cassa depositi e prestiti. Non fanno altro, infine, che colpire le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa dando corpo a un disegno autoritario che conferisce ogni potere all’esecutivo, cioè alla cricca dirigente del partito di maggioranza relativa (vale a dire al 15, 20 per cento al massimo del corpo elettorale).

Ma il governo Renzi è un caso estremo di violazione dei principi democratici anche per la distanza tra pratica e narrazione propagandistica. Qui sta forse la più grande differenza rispetto ai governi Berlusconi e alla destra in generale, che se non altro non ha mai nascosto di voler difendere sopra ogni altra cosa la «libertà» dei privati, cioè proprietà, patrimoni e privilegi. Anche Renzi capeggia un governo di destra; realizza politiche di destra; trasforma il paese in base a un disegno schiettamente di destra. Ma – come a suo tempo Tony Blair – fa tutto questo da uomo «di sinistra». Agisce come capo di un partito che, per storia e ragione sociale, rappresenta, in linea di principio, la prima forza dello schieramento progressista. Ma mente sistematicamente, raccontando storie cucite su misura per quella parte della società, sempre più disorientata e depressa, che, continuando a pensarsi di sinistra, tende a prendere sul serio la fanfara propagandistica di questo governo.

Il mantra ossessivo del paese che finalmente «riparte» è la menzogna più odiosa, mentre le nuove povertà dilagano, soprattutto al Sud e tra i più giovani, di pari passo con la disoccupazione e la precarietà. È una bugia che fa il paio con lo slogan del capitalismo compassionevole di George Bush jr., con quel «nessuno sarà lasciato indietro» spudoratamente sbandierato mentre le ineguaglianze esplodevano nel cuore della metropoli capitalistica e la miseria si abbatteva su milioni di proletari.

Ma è soltanto la menzogna più clamorosa. Il governo e il suo «capo» mentono su tutto. Promettono l’esatto contrario di quel che fanno in politica estera, mentre nulla, sui fronti di guerra in Nord Africa, in Medio Oriente e in Asia centrale, è cambiato rispetto all’«interventismo democratico». Raccontano un paese modello sul piano della difesa ambientale, mentre l’Italia registra il record europeo delle morti per smog e l’aria della Val Padana si conferma la più inquinata del continente. Vantano meriti inventati come la fine del precariato nella scuola o l’aumento di spesa nella sanità, mentre decine di migliaia di precari rimangono come sempre al palo e quasi ogni mese il servizio sanitario si vede costretto a nuovi tagli. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito.

Nulla di nuovo, si dirà. Salvo che la menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. Non è vero che, siccome l’uso mendace della comunicazione è da sempre un classico di questo governo (si può dire che è, insieme alla manutenzione delle lobbies, la principale occupazione di chi lo guida), allora in quest’ultimo biennio non è cambiato nulla. Siamo un paese sempre più confuso e sfiduciato, oltre che malandato e depresso. E la fiducia è un bene fragile oltre che prezioso: facile a disperdersi, difficilissimo a ricostruirsi. Solo che, senza fiducia nella politica e nei propri rappresentanti, è la democrazia stessa che rischia di andare in malora.

Quello della verità (della veridicità) in politica è un vincolo tassativo, che coinvolge pesantemente la responsabilità di tutta una classe dirigente. Il che chiama in causa, con Renzi e il suo governo, altri comprimari: la «grande stampa» in primo luogo, senza la cui quotidiana complicità questo gigantesco inganno non sarebbe possibile. E il Partito democratico tutto. Che non soltanto oggi permette a Renzi di fare il proprio comodo a danno del paese, ma gli si è consegnato due anni fa ben sapendo a cosa andava incontro. Senza contare – a dirla tutta – la parte avuta dai i suoi fondatori, già negli anni Novanta, nel Grande Trasformismo che ha lasciato il paese senza anticorpi contro la normalizzazione oligarchica neoliberale.

postilla

«Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg. Fare il contrario è l'atto è più reazionario. Eppure tra l'Ottobre rosso e la Vandea c'è stata l'affermazione della borghesia e l'invenzione della democrazia liberale: avremmo almeno potuto fermarci lì, e invece anche quella hanno distrutto, dai Chicago boys e Pinochet e poi giù giù fino a Renzi.

Le contraddizioni tra le diverse volontà e i diversi soggetti che ambiscono a costruire una sinistra per il XXI secolo hanno condotto finora in un vicolo cieco. Come uscirne? Una proposta.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Per quanto brusca e ingloriosa, la fine del tavolo che discuteva dell’inizio di un processo costituente un nuovo soggetto politico della sinistra, merita qualche considerazione. Se non altro per capire se quel progetto è realistico e da dove ripartire, poiché rimettere insieme le gambe del tavolo è impossibile.

Si era partiti dalla semplice convinzione che non si potesse predicare una unità più ampia se in primo luogo le forze che avevano dato vita al risicato successo elettorale della lista dell’altra Europa per Tsipras non avessero esse stesse dato il via a un processo di unificazione e ricomposizione, superando le passate divisioni e scissioni. Un processo, non un atto singolo. Naturalmente un processo costituente è impegnativo perché chiama le forze che vi partecipano a raggiungere un obiettivo e a seguire una condivisa road map. Il suo fallimento non permette di riannodare il filo sulla bobina di partenza come se nulla fosse stato. Allo stesso tempo la delineazione di un percorso non prevede che tutti i nodi siano sciolti in anticipo, ma lungo il cammino. Come era scritto nel breve documento «Noi ci siamo, lanciamo la sfida», condiviso da tutti, anche da Civati prima di ricusarlo con una scelta unilaterale che però non metteva in discussione il progetto collettivo, tanto è vero che le porte del medesimo restavano aperte. Il dibattito condotto sul manifesto («C’è vita a sinistra») aveva articolato e approfondito la discussione.

Ma non si è riusciti a superare una doppia evidente contraddizione. Quella di chi pretende che non si formi un partito, ma nello stesso tempo non vuole sciogliere il proprio, come è evidente nella intervista a Ferrero su questo giornale (ieri, ndr). Quella di chi dice di volersi sciogliere, come Sel, ma vuole uniformare da subito i modelli di organizzazione di tutti, anticipando la costruzione di un gruppo parlamentare che secondo alcuni dovrebbe già essere immagine e sostanza del nuovo partito.

Sono stati avanzati tentativi di mediazione fra queste posizioni, come da ultimo quello di Act, ma senza successo. Il tentativo di abbellire questa modesta polemica facendo riferimento alla modellistica europea o latinoamericana con cui si sono organizzate le forze della sinistra, lascia il tempo che trova, sia perché quelle forme organizzative hanno origini in tradizioni, culture e processi storici assai diversi, sia perché in esse hanno agito singolarità irripetibili di donne e uomini. Ogni processo reale non può che essere originale e per darvi vita ci vuole una buona dose di coraggio intellettuale e politico che finora è mancata. Non ci si è voluto tagliare i ponti alle spalle, anzi si è pensato di fortificarli, dando più l’impressione di preparare vie di fuga che non di camminare verso una meta condivisa.

Se la necessità di un nuovo soggetto politico della sinistra non viene messa in discussione, almeno a parole, è però chiaro che la strada per perseguirlo va cambiata. Dal fallimento del tavolo nessuno può trarre la conclusione di andare avanti da solo e parlare in nome di quel progetto. Non andrebbe lontano e originerebbe nuove fratture. Un’eterogenesi dei fini. Se la crisi della rappresentanza politica è così forte da coinvolgerci direttamente, vedo solo due possibilità.

Da un lato si tratta di impegnarsi attorno alle questioni teoriche e politiche che presiedono la formazione di un nuovo soggetto. Come l’analisi del moderno capitalismo finanziario globale e i progetti portanti di una società di alternativa. Qui incontriamo la questione del Pd e della socialdemocrazia europea. Non si tratta di negare la sempiterna necessità di una politica di alleanze, ma di spezzare la gabbia delle coalizioni. Quindi di fare i conti definitivi con il centrosinistra.

Il pasticcio delle primarie milanesi dice che questo nodo non è sciolto. La nostalgia dell’ulivismo è fuorviante. Fu in realtà la degenerazione del Pd a seppellirlo. Il Pd catch all senza il governo non è nulla. La distruzione e la neutralizzazione dei corpi intermedi della società — che coinvolge anche il sindacato, da qui le difficoltà anche della coalizione sociale — comincia da se stesso. Stabilire un’alleanza strategica con il Pd vuole dire diventare satelliti dell’attuale sistema di potere.

Dall’altro lato, dobbiamo rendere persone e movimenti protagonisti di liste alternative di sinistra nelle prossime amministrative. E soprattutto concentrarci nella battaglia referendaria, sul referendum costituzionale (che deciderà anche della vita dell’attuale governo) come sulla raccolta delle firme per i referendum sociali. Non è irrealistico pensare che nel corso di queste battaglie emerga nuova linfa vitale per fare ripartire su basi più larghe e più solide il processo per un nuovo soggetto della sinistra.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Nella storia, noi ingraiani del Pci, e ancor più noi del Manifesto e poi del Pdup, siamo annoverati fra gli avversari di Armando Cossutta. E non si può certo negare che il contrasto politico sia stato fra noi duro e di sostanza. E però io, ma credo anche gli altri miei compagni, provo grande tristezza nel momento in cui apprendo della sua scomparsa. Non solo per nostalgia della nostra vecchia comunità comunista che ogni giorno riceve dalla realtà attuale una nuova botta, sicché gli antichi contrasti ci sembrano minuzie rispetto ai solchi che oggi si sono aperti con una sua parte così consistente, quella che ancora sta nel Pd. Non solo. È perché io a Cossutta volevo bene, e credo lui ne volesse a noi: nonostante la durezza della nostra radiazione, cui il gruppo di compagni che a Cossutta si ispirava dette un sostanziale contributo, è rimasta reciproca stima. Che ci consentì di ritrovarci assieme, impegnati sullo stesso fronte, a partire dall’avvio del processo di scioglimento del Pci, nel 1989.

Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.

Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.

È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.

Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.

Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).

Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.

L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.

Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.

Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.

A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.

In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.

Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.

Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.

Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.

«Al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori». Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Qualche anno fa, in occasione di un congresso dei socialisti francesi, Michel Rocard, uno dei grandi vecchi del partito, commentò con tono amaro: «I partecipanti a questo congresso sono di tre tipi: quelli che hanno una carica politica, quelli che aspirano ad averla e quelli che, già che erano da queste parti, sono venuti a guardarsi attorno». La stessa cosa si può dire dell’incontro della Leopolda a Firenze, anche se questo non è un congresso. Ci sono tutte le categorie di persone indicate da Rocard, e nel clima euforico che caratterizza il meeting è difficile accorgersi di un grande assente: mancano gli iscritti e il popolo della base.

L’incontro di Firenze costituisce infatti l’icona di un fenomeno politico che si rende sempre più visibile: i partiti senza iscritti. Il fenomeno è segnalato in diversi paesi d’Europa, soprattutto nell’ala sinistra degli schieramenti. In Gran Bretagna, in Norvegia e in Francia, dal 1980 i partiti hanno perso più della metà degli iscritti. Il Partito democratico non fa eccezione: dai più di 500.000 iscritti del 2013 è sceso ai 350.000 del 2014. Quest’anno siamo sotto i centomila e qualcuno parla finanche di 60.000. Questi sono dati conosciuti.
Meno noto è il suo rovescio: al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori: ciò che vogliono sono i voti, non gli iscritti. Per questo non c’è bisogno di tenere aperte le sedi periferiche: ai tempi di Bersani i circoli Pd erano circa 7000, oggi sono circa 6400 e il piano di riorganizzazione del partito prevede che diventino 4500 entro l’anno prossimo.
Alcuni partiti non hanno praticamente struttura territoriale, non tengono congressi e non si confrontano mai. La dissociazione tra partito e iscritti è sempre più netta. Il partito tende a rendersi invisibile. Ciò si vede chiaramente negli incontri tipo Leopolda: gli emblemi di partito sono scomparsi, non ci sono più inni di appartenenza, il format non è quello del congresso ma oscilla tra lo show (scenografie, annunciatori, ribalte, luci teatrali, casting accuratissimo, star mediatiche e campioni di ogni genere), il corso motivazionale per venditori (c’è perfino la parata delle testate nemiche), la recita parrocchiale, in ogni caso con sovrano sprezzo del senso del kitsch. Le citazioni in grande sui pannelli non sono tratte dai classici del pensiero socialista (e neanche cristiano-sociale) ma da quello scrittore per anime semplici che è Antoine de Saint-Exupéry…
Come si spiega questo fenomeno? Secondo una possibile interpretazione, ai partiti gli iscritti non interessano più perché, in fondo, i molti iscritti sono più un peso che una risorsa. Sono una fonte inesauribile di richieste, proposte e proteste verso il vertice. Interpellano la dirigenza, si candidano alla cariche interne, ne chiedono la rotazione, costringono a dare risposte, pongono problemi scomodi. Insomma, producono un sovraccarico per la dirigenza del partito, che non è più libera di fare quel che vuole. In pratica, il modello di partito come organizzazione che forma le sue idee dal basso verso l’alto non funziona più. È finita l’epoca in cui il dibattito territoriale contribuiva a fissare l’agenda. Adesso l’agenda è fissata dall’alto e portata a condivisione con procedure più adatte al marketing che all’elaborazione politica.
La liquefazione del corpo dei fedelissimi ha diversi significati. Vista dal lato dei cittadini indica che si sono stancati di non contare nulla o quasi e che del ceto politico non si fidano più. Insomma, indifferenza e apatia. Visto invece dal lato dei partiti è indizio di una metamorfosi. Via via sgravati dell’impegnativa massa di iscritti, i partiti stanno cambiando pelle e mission. Una volta erano (almeno in parte) scuole di alfabetizzazione politica, di sensibilizzazione e di dibattito. Oggi sono sempre più «agenzie di marketing politico» ( cito Alfio Mastropaolo), il cui compito primario è quello di reclutare i candidati a livello centrale e periferico, creare e consolidare i gruppi di comando, massimizzare il consenso e soprattutto piazzare persone amiche sulle centinaia di poltrone di tutti i livelli su cui è la politica a decidere.
In pratica, torna a primeggiare la funzione di “patronato delle nomine” che un secolo fa esatto Max Weber indicava come vocazione preminente dei partiti. Per questi motivi non hanno più bisogno né di iscritti né di sedi. Quel che gli occorre sono efficienti e spregiudicati apparati di campagna: portavoce, ricognitori, ufficiali di collegamento, addetti al fund raising, consulenti, sbrigafaccende, tecnocrati e media peopleamici o finanche embedded… Chissà che la riflessione di Rocard, che sembrava una mesta pietra tombale sulla forma-partito classica, non possa esser letta come la partecipazione di nascita del partito nuovo.

Le molte facce dello scandalo del salvataggio dei banchieri (una delle componenti del mondo delle banche). L'articolo di Roberto Saviano, la ripresa del Fatto quotidiano e quella di Repubblica«. PostIl Fatto Quotidiano e la Repubblica, 12 dicembre 2015


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LA MOGLIE DI CESARE
E IL PADRE DI ELENA BOSCHI
di Roberto Saviano

Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.

Perché la Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.

Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?

Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?

All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più – facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.

Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?

Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione così importante e oggettiva?

Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.

O forse le ragioni della attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.

Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.

Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.

Il Fatto Quotidiano
LO SCRITTORE: “MARIA ELENA SI DEVE DIMETTERE”
MA L'ARTICOLO È SU ILPOST.IT, NON SU REPUBBLICA

di Silvia Truzzi

Notizia numero uno: Roberto Saviano attacca frontalmente il governo sul l’affaire banche, per «il conflitto di interessi del ministro Boschi, un problema politico enorme». Notizia numero due: il pezzo non è uscito su (giornale di cui l’autore di Gomorra è una delle più autorevoli firme) ma su il post.it (sito d’informazione con il quale Saviano non aveva mai collaborato) e poi ripreso da numerosi altri siti. Notizia numero tre: il lungo e argomentatissimo articolo contiene altre accuse, anche al sistema dei media.

In particolare lo scrittore prova a «che la tragedia che ha colpito il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?».
E ancora: «I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi». E poi quel riferimento, proprio al suo giornale: «Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere.
Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?». Su questo punto, tra l’altro, bisogna dire che la versione mattutina era leggermente diversa da quella definitiva. Non «sulle pagine del quotidiano Repubblica», bensì «sulle pagine di un quotidiano».
E questo ci porta a una domanda: perché Saviano non ha scritto questo - puntuale e puntuto - pezzo su o sull’Espresso, dove tiene una rubrica? Sembra che lo scrittore lo abbia proposto al suo giornale ma che ieri non ci fosse posto. Ed ecco spiegata la collocazione sul Post diretto da Luca Sofri. Però non è la prima volta che capitano incidenti così. E di incidenti bisogna parlare: a non può aver fatto piacere che un collaboratore tanto prestigioso abbia scritto altrove, dando buca (e pure un buco) al suo giornale. C’è un precedente primaverile: il 6 maggio scorso Roberto Saviano era ospite della riunione di redazione di Repubblica, che quotidianamente viene ripresa sul sito del giornale. Tra le altre cose aveva parlato delle regionali in Campania e della controversa candidatura di Vincenzo De Luca. Ma qualche ora dopo il titolo Gomorra nelle liste di De Luca si poteva leggere su Huffington Post, cui Saviano aveva rilasciato una lunga intervista.
Allora, visto che il Gruppo Espresso possiede il 49% di Huffington Italia, si pensò che fosse una questione domestica. Ma stavolta è diverso: e il Post.it non sono nemmeno lontani parenti. Ciliegina: ieri, nel tardo pomeriggio, il sito di ha pubblicato un lungo audio-intervento in cui Saviano chiede le dimissioni del ministro Boschi e critica duramente l’esecutivo Renzi. È peggio la toppa dell’auto-buco?

La Repubblica

SAVIANO: “LA BOSCHI DEVE DIMETTERSI”
di f.s.

Roma. «Il ministro Boschi deve dimettersi». Roberto Saviano chiede al ministro per le Riforme di lasciare, in un video messaggio pubblicato da Repubblica Tv. Lo scrittore giudica «abnorme» il conflitto di interessi rappresentato da un membro dell’esecutivo che decide sul destino di una banca, la Popolare dell’Etruria, di cui il padre è stato dirigente e il fratello dipendente. «Il governo non doveva occuparsi della banca, oppure deve chiedere al ministro di dimettersi», sostiene Saviano. Il fatto che Boschi non abbia partecipato al voto sul “salva-banche” è solo una «dissimulazione»: «Una struttura politica ha compiuto l’ennesimo atto autoritario».
Dalla Leopolda sono arrivate le reazioni di diversi esponenti del Pd. «Il governo ha fatto quello che era necessario, non capisco la richiesta di dimissioni», ha detto il sottosegretario Scalfarotto. «Servono equilibrio e attenzione, non credo che questo aiuti», ha aggiunto il vice segretario Guerini. E per il sindaco di Firenze Nardella, Saviano è «fuori dal mondo».
Due giorni fa Boschi ha preso le difese del padre Pier Luigi, vice presidente della Popolare fino a febbraio del 2015, data del commissariamento: «È una persona perbene, non sento nessun disagio». Un gesto nobile, secondo Saviano, ma che ricorda le frasi di Marina Berlusconi sul padre. «Questo governo deve essere criticato con lo stesso rigore con cui abbiamo criticato il governo Berlusconi», continua lo scrittore. «Per molto meno siamo scesi in piazza. Non possiamo introiettare l’accusa di disfattismo con cui Renzi reagisce alle critiche». Secondo Saviano sulla vicenda restano «troppe opacità» a cui Boschi deve rispondere: «Se resterà al suo posto è solo perché questo è il Paese del conflitto di interessi».
Succede in Cina, ma è uno specchio per guardare il consumismo occidentale.

La Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

In Cina la parola del 2015 è “troppo”. A votarla, i media di Stato: troppo smog, troppa corruzione, troppo divario tra ricchi e poveri, troppi tonfi in Borsa. Ad essere “troppo”, per la propaganda, è anche un fenomeno fino a ieri ignoto, specchio di tutti gli altri “troppi”: il Natale occidentale. I cinesi delle metropoli lo chiamano, onestamente, Festival del regalo. In dicembre lo celebrano come prologo consumista ai loro festeggiamenti intimi, quelli per il Festival di primavera, il capodanno lunare, tra fine gennaio e i primi di febbraio. È un affare miliardario, ma oggi, per la prima volta dopo trent’anni, c’è un problema: Pechino prende atto che l’Occidente, per il suo Natale, può spendere sempre meno. Non c’entrano gli attriti tra Mao e Santa Claus, la minaccia è una catastrofe economica.

Europa e Usa hanno delocalizzato in Cina l’intera coreografia natalizia: abeti in plastica e palle di vetro, luminarie e addobbi, giocattoli e gadget, perfino i presepi, amorevolmente impacchettati nella nazione che perseguita i cattolici fedeli al Vaticano. Tutto ciò che ha fatto del Natale il più importante evento commerciale globale, esce dalle fabbriche low cost seminate tra il Guangdong e lo Zhejiang. La diagnosi del premier Li Keqiang però è impietosa: iper-produzione. Traduzione: montagne di prodotti natalizi invenduti sommergono in questi giorni migliaia di aziende e magazzini cinesi, paralizzano la megalopoli-mercato di Yiwu, o giacciono nelle navi al largo di Guangzhou, in attesa di commesse last minute che non partono più. Dopo l’allarme, anche l’ordine è partito dall’alto: «Ex compagni, festeggiate».
L’invito del partito-Stato è una sorprendente tregua nella guerra contro «corruzione, vizi, eccessi ed eccentricità ». Se l’Occidente non compra più il suo Natale made in China, tocca ai cinesi riciclarlo in patria, smaltendo le scorte di renne elettroniche e cappucci rossi sintetici nel nome della crescita nazionale. Il cinese medio è sorpreso dall’improvviso via libera ideologico all’occidentalizzazione della vita collettiva: città e villaggi si trasformano in cloni dei mercatini dell’Avvento scandinavi. A Pechino e a Shanghai, nei quartieri diplomatici e nelle ex concessioni straniere, l’ultima moda è bere vin brulé e divorare salsicce nel gelo, tra le bancarelle inghiottite dalle polveri sottili che vendono cosette ben presentate al ritmo di Jingle Bells.
Nel fine settimana, nonostante l’emergenza smog, i negozi della capitale sono stati presi d’assalto da 11 milioni di neo-consumatori fedeli al partito, stimolati da 15 mila giganteschi abeti elettrici e 170 chilometri di luminarie, alimentate dalle centrali a carbone. I media del governo rivelano che in dicembre oltre 13 mila ristoranti cinesi serviranno pranzi natalizi e cenoni “Western Menu”, tra i 60 e i 900 dollari a testa: mega-tacchini Usa che cancellano le vecchie anatre cinesi. L’auto-smaltimento natalizio, secondo gli analisti finanziari, può valere «lo zero virgola che manca a centrare il 7% di crescita del Pil nazionale». Per le banche di Stato il fedele neo consumatore metropolitano, che in un mese spende poco meno del doppio del suo stipendio per le offerte natalizie, è il cliente che salva i bilanci. Le concessionarie d’auto cinesi devono a Babbo Natale due milioni di nuove vetture, il salvagente delle delocalizzate case germaniche e giapponesi.
Se il Natale è un prodotto invenduto che la Cina non riesce più a esportare, diventa automaticamente una merce locale «da assorbire all’interno» e 3 mila studentesse si presentano alla selezione per 40 “babbesse natalesse” al centro commerciale Shing Kong Place, per offrire ai clienti cubetti di ottimo, finto panettone cinese. Un abete infiocchettato e un pacco colorato in ogni casa della Cina: non è un miracolo, nessuno sa bene perché, ma quest’anno tocca al capitalismo riciclato del Natale occidentale salvare la stabilità del «socialismo con caratteristiche cinesi».

Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, Una storia del marxismo è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore». Il manifesto, 8 dicembre 2015

L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.

Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.

La forza degli inediti

Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti.

Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.

Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».

Una visione politica

In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.

La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.

Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».

Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.

Le accuse di settarismo

I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.

Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).

Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.

Il rischio del fideismo

Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo.
Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere.

La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.

Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
«A 150 anni dalla morte di Pierre-Joseph Proudhon, una riflessione sul significato di un termine che talvolta viene usato del tutto impropriamente» Si tratta della parola "umanità", densa oggi di significati rilevanti.

La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Pochi ricordano il nome di Pierre-Joseph Proudhon, morto centocinquant’anni fa. Qualcuno ne incontra lo sguardo nei musei parigini che espongono i due ritratti del suo amico Gustave Courbet. Compaiono ancora nelle discussioni pubbliche alcune sue frasi taglienti – «la proprietà è un furto», «chi dice umanità vuole ingannarvi». Quest’ultima appartiene all’archivio delle denunce dell’uso strumentale e distorcente di grandi parole, come quelle attribuite a Madame Roland mentre veniva condotta alla ghigliottina («O libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome») o a Samuel Johnson («il patriottismo, ultimo rifugio di una canaglia»). L’invettiva di Proudhon ha trovato un rilancio e un’ambigua, rinnovata fortuna quando se ne è impadronito nel 1927 Carl Schmitt, che dell’idea di umanità ha parlato come di una «disonesta finzione», come di «uno strumento ideologico particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche».

Queste parole sferzanti colgono l’uso strumentale del termine, gli abusi linguistici e politici, tra i quali spicca ormai il riferimento alla “guerra umanitaria” per fondare interventi ispirati a pura logica di potenza. La riflessione di Schmitt è accompagnata dal rifiuto della “dottrina della fratellanza e dell’uguaglianza”, sì che la costruzione della “vera humanitas”, svincolata da questi riferimenti, deve rispondere a un «ideale di selezione razziale e matrimoniale», che si converte in un’esclusione dall’umanità di chi non corrisponde ad un determinato modello, con gli esiti violenti che abbiamo conosciuto. Sgombrato il campo dalla disonesta finzione, il dato reale è la consegna alla politica liberata da ogni vincolo di tutti gli esclusi, ormai degradati a oggetti.
Nelle parole di Proudhon si coglie piuttosto una messa in guardia, in quelle di Schmitt una ripulsa. Si avvia così una costruzione dell’umanità “per sottrazione”, con una continua operazione di “scarto” di coloro i quali non sono ritenuti degni di farne parte. Ma questa non è una vicenda che possiamo consegnare al passato, per tranquillizzarci. Viviamo in società che producono quelle che Zygmunt Bauman ha definito “vite di scarto”, selezionate con criteri attinti unicamente dal processo produttivo. Ecco allora un orizzonte ingombro di poveri e disoccupati, precari e immigrati, persone alle quali vengono negate eguaglianza e dignità, destituite di umanità.
Il realismo drammatico di questa constatazione, tuttavia, non ci consegna ad un pensiero che deve espellere da sé la consapevolezza dell’umanità. Al rifiuto dell’altro, al disgusto che può destare il suo modo di vivere, Martha Nussbaum contrappone “la politica dell’umanità”. Alla sottrazione di diritti, che la costruzione per sottrazione dell’umanità implica, si oppone la riflessione di Hannah Arendt, che ci ricorda come «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa».
Ma come si definisce l’umanità? Chi parla in suo nome? Per rispondere, bisogna muovere da una premessa semplice, anche se impegnativa: può ritrovarsi umanità solo là dove eguaglianza, dignità e solidarietà trovano pieno riconoscimento. Troviamo un riferimento eloquente nelle parole dell’Internazionale: «L’Internazionale futura umanità», bella traduzione del testo originale, dove si dice «l’Internationale sera le genre humain». Perché sottolineare queste parole? Perché l’umanità è declinata al futuro, non è vista come la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un insieme biologico, una realtà già esistente, di cui ci si può limitare a prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione comune e solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un “valore aggiunto”, ma una realtà continuamente “aumentata”. È il processo al quale stiamo assistendo, quello di umanità che include e riconosce tutti gli altri, quasi capovolgendo la conclusione di Sartre, «l’inferno sono gli altri».
Ma, con la globalizzazione, questa umanità si fa tutta presente, e può essere percepita come invadente. Ogni accadimento, per quanto lontano, ci fa partecipi di quel che accade alle persone colpite da un terremoto, o da uno tsunami, in luoghi che fino a ieri erano remoti e che il sistema della comunicazione avvicina e rende visibili. Questo provoca moti di solidarietà: basta digitare un numero sul cellulare per far arrivare un contributo finanziario all’alluvionato asiatico o al bambino africano. Se, però, queste persone si materializzano ai nostri confini, possono diventare oggetto di rifiuto. È così per i migranti, per i poveri, visti come aggressori o incomodi. Così gli altri tornano ad essere segni d’un inferno al quale si vuole sfuggire.
Di colpo l’umanità si scompone e si immiserisce. Quella lontana suscita ancora sentimenti e azioni solidali, quella vicina turba. L’idea di “prossimo” si rattrappisce, sembra addirittura morire. Al suo posto troviamo spesso comunità chiuse. Ma questa constatazione, ci conferma che l’umanità è una costruzione ininterrotta, non un approdo consolatorio. Vi sono usi di “umanità” che la costruiscono come un riferimento capace di sottrarci a sopraffazioni. Quando si parla di patrimoni dell’umanità, si sfidano sovranità e proprietà, che vorrebbero sottoporre al potere e agli egoismi degli Stati e dei privati pezzi del mondo, e persino ciò che è fuori di esso come spazio e tempo.
Lo spazio extra-atmosferico non può essere sottoposto alla sovranità statale, come il fondo del mare o l’Antartide. I luoghi dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità vengono ritenuti meritevoli di una disciplina che li sottragga agli intenti speculativi nell’interesse anche delle generazioni future. E così cominciano ad individuarsi anche i soggetti che possono parlare in nome dell’umanità, con specifici diritti, obblighi e responsabilità. Compaiono gli Stati che, avendo firmato un trattato comune sullo spazio extra-atmosferico o sul fondo del mare, possono opporsi alle mire di chi vuole appropriarsene. E tutte le persone alle quali, per salvaguardare un sito o un ambiente o una eredità culturale, deve essere attribuito un diritto di azione popolare per impedire che interessi proprietari possano sottrarre all’umanità il godimento di quei beni.
Qui l’umanità comincia a parlare il linguaggio dei beni comuni. L’acqua e l’aria, l’ambiente globale e la conoscenza in Rete, mostrano connessioni che rinviano alla sopravvivenza stessa dell’umanità, all’esistenza di ogni suo componente, quindi alla necessità di sottrarre quei beni a forme di appropriazione che possono determinare la negazione di diritti fondamentali. Ma l’umanità si trova di fronte anche all’imperativo di sottrarre se stessa a trasformazioni che portano verso un ambiguo postumano o addirittura alla sua scomparsa, sopraffatta dall’intelligenza artificiale. È il tema della tecnoscienza ad occupare sempre più l’orizzonte, con le denunce di una persona espropriata di umanità, avviata a divenire una “nano- bio-info-neuro machine”.
Inoltrandosi in questo sconfinato territorio, la comprensione non è aiutata dal cedere agli opposti estremismi di un catastrofismo senza speranza e di un ottimismo senza misura. Le indispensabili analisi del mutamento, di cui non vanno ignorati i benefici, dovrebbero sempre essere accompagnate da un consapevole sguardo all’indietro, mantenendo saldamente al centro eguaglianza e dignità. L’eguaglianza nell’accesso ai vantaggi incessantemente offerti dalla tecnoscienza è condizione indispensabile perché non nasca una società “castale”. La dignità è limite invalicabile, perché proprio qui, reagendo alle aggressioni di ieri e alle negazioni di oggi, possiamo ritrovare il proprio dell’umano.
Non solo una recensione, ma un contributo rilevante per la ricerca di una "nuova sinistra". L'errore del passato (non si è compreso che la talpa del neoliberismo lavorava nel profondo), le scarne possibilità per il futuro.

Il manifesto, 5 dicembre 2015


Simul stabunt vel simul cadent, è la diagnosi, o meglio la narrazione di quanto è accaduto, ove i soggetti avvinghiati da questo comune destino sono la socialdemocrazia europea e il comunismo più o meno inverato. Lo sviluppo della contraddizione alto/basso, connessa con un anticapitalismo strutturale e attivo che riporti in auge i concetti di socialista e di comunista, “marxianamente intesi come sinonimi”, ricusando la dimensione da politique politicienne del termine sinistra, può essere la terapia e la soluzione per riempire quel vuoto che la crisi di quest’ultima ha lasciato. Questa è la sintesi che si può trarre da un piccolo ma densissimo libro che contiene una conversazione fra Carlo Formenti e Fausto Bertinotti (Rosso di sera, Jaca Book, Milano 2015, pp. 108, euro 12).

Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei “trenta gloriosi”, ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese. Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti opportunamente sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.

Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.

Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. E’ lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra “rivoluzionaria” si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La “rivoluzione restauratrice” messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri sui knowledge workers importanti contributi - hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. E’ quindi fuorviante prendersela con la “mutazione antropologica” delle giovani generazioni.

Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume “come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra”. Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove “indigenismo” e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di wenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.

D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una “possibile trasformazione sociale senza conquista del potere”. Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extraistituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.

L'annuncio della Francia di derogare alla Convenzione di Anais Ginori e l'intervista

di Fabio Gambaro al sociologo Alain Touraine. La Repubblica, 28 novembre 2015 (m.p.r.)


DIRITTI UMANI, PARIGI ALL'EUROPA "ORA STOP ALLA CONVENZIONE" È POLEMICA:"COSì TROPPI ABUSI

di Anais Ginori
Parigi. Con una lettera di poche righe, la Francia ha comunicato al Consiglio d’Europa che derogherà alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. E’ un passaggio formale, ma che segnala la volontà politica del governo di Parigi di sfruttare al massimo lo stato di emergenza, dichiarato la notte del 13 novembre e che consente in particolare di fare perquisizioni e decidere arresti domiciliari senza l’autorizzazione dei magistrati, limitando anche il diritto a manifestare. E’ l’ennesimo segnale che il paese si muove su un crinale sempre più stretto tra lotta al terrorismo e il rispetto delle libertà. Negli ultimi giorni, alcune associazioni hanno incominciato a denunciare presunti abusi da parte della polizia. Il quotidiano Le Monde e il sito Mediapart hanno aperto un proprio osservatorio in cui sono già state raccolte decine di testimonianze e segnalazioni tra le oltre 1600 perquisizioni condotte finora dalle autorità.

E’ stato lo stesso Segretario del Consiglio europeo, Thorbjorn Jagland, a rendere nota la comunicazione della Francia. «I provvedimenti presi nel quadro dello stato di emergenza proclamato in seguito agli attentati terroristici su vasta scala - scrive il governo di Parigi - sono suscettibili di richiedere una deroga a certi diritti garantiti» dalla Convenzione firmata a Roma nel 1950. Il testo sul cui rispetto vigila il Consiglio europeo garantisce i principi fondamentali, come il diritto a un processo giusto, il rispetto della vita privata, la libertà di espressione e religione. Tutti diritti che sono pesantemente minacciati negli ultimi quattordici giorni.
La Convenzione non prevede sospensione possibile per il divieto di tortura e la riduzione in schiavitù, ma tra le libertà su cui è possibile derogare c’è quella di movimento, il governo può dichiarare il coprifuoco, e quella di manifestare: molti attivisti che vengono per la Cop21 che inizia lunedì in una capitale blindata sono stati perquisiti preventivamente per il timore di disordini. Molti avvocati hanno fatto ricorso contro arresti domiciliari decisi contro cittadini incensurati che non sono mai andati in paesi legati al terrorismo.
La Francia fa appello all’articolo 15 della Convenzione che prevede esplicitamente la sospensione di alcuni diritti in caso di guerra o minaccia per la Nazione. In questo modo, cittadini che si sentono vittima di abusi non potranno ricorrere all’organismo europeo per chiedere un processo contro la Francia. Altri paesi hanno fatto in passato deroghe di questo tipo: la Gran Bretagna dopo gli attacchi del 2001 e l’Irlanda durante la lotta al terrorismo dell’Ira. Ma nel caso della patria dei Diritti dell’Uomo è una prima assoluta, tanto che il New York Times qualche giorno fa ha titolato un editoriale “Hollande War’s on Liberties”. Lo stato di emergenza è stato dichiarato dal governo per tre mesi, e il premier Valls non esclude di prolungarlo.
L'ALLARME DI TOURAINE "DIFENDERSI È GIUSTO
MA SALVIAMO LE LIBERTà"
intervista di Fabio Gambaro a Alain Touraine

Il sociologo Alain Touraine, 90 anni, è uno dei più autorevoli intellettuali europei

Parigi. «La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia », ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro, Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».

Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani...
«E’ certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici».
Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi?
«La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi».
Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. E’ importante anche per lei?
«In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi».
Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza?
«L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico».
A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. E’ la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica».
Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. E’ preoccupato?
«Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto».

«Da Pericle al mondo globale.Un saggio di Salvadori su come si è ridotta una forma di governo. L’impoverimento riguarda le modalità elettorali ed è dimostrato dalla forza di plutocrazie sovranazionali». La Repubblica, 28 novembre 2015

Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pagg. 507, euro 35)
La democrazia – il potere, la sovranità suprema, il governo del popolo – ha sempre costituito, a partire dal V secolo a. C., quando trovò nell’Atene di Pericle la sua prima grande espressione, un problema: circa il modo di intenderla, la sua possibilità di attuazione, i suoi vantaggi o svantaggi, il suo essere unicamente un mito o anche una realtà. Dal Settecento in avanti non sono poi mai venute meno, e nei modi più aspri, le divisioni che hanno contrapposto i fautori della democrazia diretta ai sostenitori della democrazia rappresentativa. Credo che nessuno meglio di Hans Kelsen abbia chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata soltanto quella diretta degli antichi, ma che quest’ultima è incompatibile e inapplicabile nelle società complesse; che l’unica forma realizzabile di democrazia è la rappre-sentativa, ma che tale forma comporta di necessità il trasferimento della sovranità del popolo ai suoi rappresentanti, titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia stessa. Il che induce a domandarsi se ciò non significhi ridurre la democrazia unicamente a un mito. Chi guardi alla sostanza di quella che viene definita democrazia rappresentativa, liberaldemocrazia o democrazia liberale non può non rendersi conto di come essa sia altra cosa dal potere sovrano del popolo.

(…) Il principio della sovranità popolare – che ha avuto una forza tanto irresistibile da diventare un dogma politico – non ha mai avuto riscontro nell’esercizio concreto del potere. Dove e quando astrattamente affermato con la maggiore forza, è stato in pratica vanificato; nei regimi liberaldemocratici esso è stato celebrato come ideologia legittimante, ma in concreto soggetto ai limiti impliciti nel trasferimento della sovranità effettiva ai parlamenti e ai governi, lasciando al popolo l’illusione di essere pur sempre sovrano grazie al voto nelle competizioni elettorali.

Ciò che sembra doversi concludere è che la «democrazia» realizzata è consistita e consiste in quel movimento e in quelle lotte degli strati inferiori per la conquista e la difesa dei diritti politici e sociali, nel loro accesso alla rappresentanza parlamentare e alla formazione – mediante i propri partiti – dei governi. (…) Si tratta non della «crazia del demos», ma di sostanziali «atti di crazia». Questo ci dice una concezione realistica della democrazia, la quale ha raggiunto la sua espressione e il suo momento più alto nei sistemi di «democrazia sociale», di cui sono stati esempi «classici» il governo della socialdemocrazia in Svezia e il sistema del welfare, nei quali la libertà per l’insieme della società e una politica orientata ad assicurare la giustizia sociale in un grado mai raggiunto prima e altrove si sono positivamente coniugate.

(…) Oggi il processo di impoverimento graduale della democrazia è giunto al punto per cui: la sovranità del popolo non va oltre il voto di elettori nella loro maggioranza etero-diretti, atomizzati e disorganizzati; il potere economico è tornato in maniera pressoché incontrastata nelle mani dei proprietari e dei ceti superiori; il potere politico – che per gran parte dell’Otto e del Novecento era stato un attributo dei leader dei partiti, degli organizzatori delle masse, dei parlamentari e dei componenti il governo - nei singoli Stati territoriali è infeudato alla plutocrazia sovranazionale o quanto meno influenzato in maniera decisiva da essa; il potere dell’informazione e dei media che orientano politicamente le masse è subalterno a chi ne detiene la proprietà o il controllo; quella che era stata la grande rete sia delle sezioni dei partiti di massa sia dei quotidiani e dei periodici che contribuivano in maniera determinante alla formazione e partecipazione politica degli uomini comuni è largamente smantellata.

Detto tutto ciò, i regimi che continuiamo a definire «democratico-liberali » non sono naturalmente assimilabili a quelli che sopprimono le libertà politiche e civili, il pluralismo culturale e partitico e trasformano il voto tout court in plebisciti a favore del governo. Ma è davvero arduo ritenere che essi abbiano a che fare con «il potere del popolo ». Le elezioni, rimaste formalmente libere (per quanto in alcuni casi palesemente manipolate, anche nei paesi di antica democrazia liberale, come – basti questo unico clamoroso esempio - negli Stati Uniti, dove nelle elezioni presidenziali del 2000 la vittoria venne sottratta ad Al Gore e attribuita a Bush jr.), consentono pur sempre cambiamenti di governo. Il che non è così poco. Sennonché le elezioni vedono le masse relegate a una posizione di passività – con un’inversione di tendenza storica senza precedenti rispetto al moto ascensionale iniziato negli ultimi decenni del XIX secolo - di fronte alla forza di condizionamento e di orientamento di cui sono capaci le élites partitiche ed economiche. Per questo i governi presentano essenzialmente la natura di «governi a legittimazione popolare passiva».

Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno della parte del demos oggi umiliata e offesa di dotarsi del necessario vigore e della capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere.

È da dubitarsi che – come credono Wolin e Crouch – la riconquista democratica possa venire principalmente dall’iniziativa di intellettuali, giornalisti e gruppi di volenterosi ben pensanti. Questa iniziativa non è da trascurare e sottovalutare; se ne vedono segni tanto in Europa quanto in America. Ma l’obiettivo può essere conseguito unicamente attraverso la rinascita di solide organizzazioni anzitutto partitiche, in grado di rappresentare, difendere gli strati sociali più deboli e farne valere gli interessi. Quel che si deve ammettere è che il barometro non tende al bello.

Vasta ( e confusa) è l'area nella quali si svolge animosamente la ricerca di una sinistra del XXI secolo.

Huffington Post, 28 novembre 2015

Alessandro Di Battista non fa a tempo a citare l’asilo nido realizzato dal sindaco grillino di Pomezia che subito il prof. Rodotà s’accalora: “Gli asili erano le bandiere del Pci in Emilia, venivano da tutto il mondo a studiarli. Sono un pezzo della cultura della sinistra, dei diritti sociali, che non può essere abbandonato”. La platea – in parte grillina, in parte di reduci dei girotondi e di delusi dalle sinistre – si appassiona. Una donna in prima fila propone la sua risposta: “È finito tutto dopo la morte di Berlinguer!”. Rodotà sorride amaro: “Forse è proprio così”.

Sala Umberto, un vecchio teatro nel centro di Roma. Si presenta l’ultimo numero di Micromega, sul palco c’è anche il direttore Flores d’Arcais. Il titolo della serata la dice già lunga: “La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo”. Sembra il titolo di un post di Beppe Grillo, e invece è quel che resta del Palavobis e delle piazze di Cofferati, più di dieci anni dopo. La sentenza di Flores pare inappellabile: “Ha ragione Di Battista, a sinistra non c’è più nulla da rianimare. Ci sono solo pezzi di partitocrazia, e la sinistra fuori dal Pd è ancora peggio, sono i pezzi di partitocrazia emarginati da quelli vincenti”. L’ex garante della lista Tsipras ci va giù durissimo con Vendola: “Dopo quella telefonata a capo chino con l’uomo delle relazioni esterne di Ilva non capisco come possa stare ancora in politica, ma ognuno ha la dignità che ha. E peggio di lui sono quelli che gli stanno ancora intorno e non l’hanno buttato giù”.

A Renzi ci pensa Rodotà: “In lui vedo un retaggio craxiano più ancora che berlusconiano…”. Fuori due. I maitre a penser della sinistra giustizialista e dei diritti non vedono più nulla nel loro vecchio campo. Il sol dell’avvenire, ormai, è solo a cinque stelle. E quando il Dibba rivendica il mancato sostegno a Bersani nel 2013, tutti gli danno ragione. E lui: “Se avessimo fatto l’inciucio con uno dei partiti responsabili del disastro, oggi non saremmo un’opzione possibile per il futuro”. Applausi.

“Chi ha votato Pd voleva queste riforme? Voleva il ponte sullo stretto e le trivellazioni? Voleva De Luca?”, arringa Di Battista, supportato da una robusta claque che lui ogni tanto ferma con la mano per evitare il “santo subito”. Rodotà annuisce. “Con loro non ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quando salirono sul tetto della Camera scongiurano la modifica dell’articolo 138 voluta dal governo Letta”. E ancora: “A me non piace lo spirito da curva, sono un vecchio signore, ma oggi per restare in contatto coi cittadini e non trasformarsi in oligarchia servono forme nuove di comunicazione…”.

C’è anche un ricordo personale del prof. Rodotà, che aleggia per due ore la sala: il ricordo di quei giorni del 2013 in cui “un popolo lo voleva al Quirinale”, dice il Dibba, e quella piazza gridava “Ro-do-tà”. La sala è commossa: “Sarebbe stato un grande presidente”.

Lui dà atto ai grillini di quell’omaggio: “Da allora mi riconoscono anche i ragazzi di 20 anni, ho ampliato in modo smisurato la platea a cui riesco ad arrivare”. Flores è assai più pragmatico: la sue guerra trentennale contro i “politici di professione” si invera nelle proposte grilline. “Fui io a proporre nel 1986 il tetto ai mandati, volevo persino metterlo in Costituzione. Ora loro lo fanno, la loro coerenza mi ha stupito”. E’ lui a sottolineare il collegamento coi girotondi, con i giorni del Palavobis e dell’indignazione della società civile contro Berlusconi. E oggi? “Oggi l’unica forza che assomiglia a quelle istanze è il M5s, l’unico movimento votabile. E infatti io lo voto sistematicamente da anni”. Applausi scroscianti, ma Flores, come ai tempi dei girotondi, vuole anche dettare l’agenda del partito di riferimento (anche se a fine 2013 definiva “molto inquietante” Casaleggio): “Dovete essere meno autoreferenziali, sulla Consulta andate all’offensiva, proponete voi tre nomi: Cordero, Carlassare e Rodotà”.

Il prof si chiama fuori: “No, non tiratemi più in ballo, io mi sono autorottamato!”. Flores è un fiume in piena e si rivolge al Dibba: “Organizziamo dei seminari con dei vostri parlamentari ed esponenti della società civile. Sarebbe un segnale grandioso. Solo se si apre alla società civile il M5s può davvero vincere a Torino e Roma, e anche nelle altre città”.

Dall’astio verso Napolitano (“Credevo di aver toccato il fondo con Cossiga e invece no…”, dice Flores) al reddito di dignità, dal no alle riforme costituzionali al parlamento delegittimato dopo la sentenza sul Porcellum: tra i due intellettuali e il giovane e arrembante Dibba la sintonia è pressoché totale. Il deputato ribadisce la coerenza del suo movimento, le regole da rispettare, dai soldi al tetto ai mandati all’impedimento a candidarsi a sindaco per chi sta in Parlamento. “A volte questa coerenza è faticosa…”, si sfoga. E a più riprese ribadisce che “secondo i sondaggi oggi potrei essere il sindaco della Capitale… un mestiere che mi renderebbe molto orgoglioso, durante il Giubileo tutti i grandi della terra che vengono a Roma incontrano anche il sindaco”, racconta con un (grande) retrogusto di rimpianto: “Ma non lo posso fare perché le istituzioni non sono un autobus da prendere per le convenienze personali”. La rinuncia pesa, la folla in platea lo incoraggia. Lui torna sul nazionale: “I più pericolosi oggi sono i partiti che si dicono di sinistra e che ti prendono in giro con il sorriso”. Flores è d’accordo: “E’ dai giorni dell’avvento di Blair che dico che ormai la scelta è tra due destre…”. Oppure cinque stelle. “Secondo me il M5s a Roma ce la può fare”, li benedice Rodotà.

. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà». La Repubblica, 26 novembre 2015

“Il diritto della libertà” di Axel Honneth tratta un tema mai esaurito o esauribile una volta per tutte. La prospettiva è la libertà sociale, formula nella quale l’aggettivo esprime in sintesi l’idea capitale attorno alla quale ruotano le quasi seicento pagine che si offrono oggi al pubblico di lingua italiana. La materia — filosofica, giuridica, sociologica — trattata è grande ma la struttura della trattazione è assai semplice. La si può dividere in due parti: “l’io della libertà”, la prima; “il noi della libertà”, la seconda. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà. Nel titolo di un suo libro del 2010, Axel Honneth aveva usato, per esprimere in sintesi questo doppio lato della libertà, la formula Das Ich im Wir: un’espressione che già a prima vista si distingue dalle tante teorizzazioni del rapporto di riconoscimento dell’Io a fronte del Tu.

La formula, come vedremo, potrebbe essere rovesciata in Das Wir im Ich. Sciogliendo questi motti, si può dire così: l’asse portante è che la libertà singolare non può esistere se non in connessione con la libertà plurale e che, viceversa, la libertà plurale non può dividersi da quella singolare. Dire connessione, però, è dire troppo poco. Bisogna dire, piuttosto, intrinseco rapporto di mutua penetrazione e fecondazione, in un equilibrio difficile. La preponderanza dell’aspetto soggettivo condurrebbe, infatti, a una concezione individualistica della libertà, che Honneth respinge, così come la preponderanza dell’aspetto oggettivo, nei termini hegeliani dello “spirito oggettivo”, cioè della realtà sociale storicamente determinata, condurrebbe a una sorta di olismo, ch’egli ugualmente respinge, pur ponendosi dichiaratamente, sia pure criticamente, entro un’interpretazione della Filosofia del diritto di Hegel.

Tra la prima e la seconda parte del libro — dedicate, rispettivamente, alla trattazione di concetti e alla loro verifica storico- empirica — sono collocate — sotto il titolo La possibilità della libertà — due sezioni che costituiscono, per così dire, un “a parte” e potrebbero stare in piedi anche autonomamente. Sono dedicate al Daseingrund (termine qui tradotto con “ragion d’essere”, dove l’essere è piuttosto un “esserci”, cioè non un’astrazione ma una collocazione storico- concreta) della libertà giuridica e della libertà morale. Si tratta, per così dire, di due moniti contro l’estremizzazione: il giuridicismo e il moralismo, due fonti di pericolo per la convivenza sociale.

Questi due capitoli rappresentano la cerniera tra la prima parte, d’impostazione filosofica, e la seconda parte d’impostazione sociologica. In queste due parti si traduce la doppia faccia di un libro che, partendo dalle definizioni, giunge all’immersione nelle condizioni delle società in cui viviamo e nelle contraddizioni da cui sono segnate, rispetto alla libertà. La parte filosofica contiene principi normativi: dai concetti, si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive teoriche; la parte pratica contiene verifiche circa le potenzialità e le difficoltà d’inveramento della libertà nelle strutture sociali del nostro tempo. Non, però, come separazione e contrapposizione astratte tra dover essere ed essere, ma come ricerca delle condizioni pratiche di vita di società libere: una ricerca dalle conclusioni piuttosto sconfortanti.

La libertà non è districabile dalla giustizia. Giustizia, nel nostro tempo (la “modernità”), equivale a garanzia di autodeterminazione. Nel nostro tempo: date le premesse assunte, che l’Autore definisce non-kantiane, la giustizia non appartiene al puro ideale, alle formule evanescenti come quella che la identifica con la generalizzabilità delle “massime” delle proprie azioni, ma è un dato storico-sociale. La giustizia come autodeterminazione è lontanissima da quella che tale si considerava nell’antichità, obbiettiva, organica, sovra-individuale, obbligante. La giustizia, per noi, al contrario è “liberatrice”, ma con un vincolo: la “riproducibilità sociale”. Questo concetto, che rappresenta il cavallo di battaglia della sociologia, è assunto qui come qualcosa di simile a un imperativo categorico.

L’autonomia che la compromette non è giustizia, ma corruzione della giustizia.(...) Il primo stadio della libertà è quello negativo, l’assenza di costrizioni esterne. La più semplice, elementare e intuitiva definizione è l’assenza di impedimenti. È la definizione di Thomas Hobbes, risalente al tempo della guerra civile di religione: «Libero è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha volontà di fare». (...) Non ci si può fermare qui. Essere liberi nel corpo e nelle azioni, ma schiavi delle proprie passioni irrazionali e dei propri errori, è ancora libertà? Questa è la domanda di Rousseau, che pone la libertà nell’obbedienza alla legge che ogni singolo dà davvero a se stesso, cioè nell’autonomia.

Questo principio sta alla base tanto della libertà del singolo quanto della libertà della società tutta intera. Come la libertà negativa implica la ripulsa delle costrizioni fisiche, così la libertà come autodeterminazione — che l’autore del libro chiama «riflessiva » — esige la purificazione dalle costrizioni morali che inquinano la retta (cioè non perturbata da vizi, passioni, errori) formazione della coscienza. Si tratta, dunque, della sovranità morale rispetto alle pressioni dell’“ambiente” che, con i suoi pregiudizi, le sue lusinghe, le sue seduzioni, i suoi inganni altera la percezione del sé e, alla fine, svuota la libertà del suo contenuto d’autonomia e lo riempie di forze psichiche eteronome. (...) La libertà «sociale» di cui Honneth tratta non è un’alternativa rispetto alle altre due concezioni della libertà. È piuttosto il prolungamento, o l’implicazione necessaria, della libertà riflessiva, così come quest’ultima è lo sviluppo della libertà negativa.

A essere prese in considerazione sono le condizioni istituzionali della libertà, intese non come aggiunte esteriori, ma come necessità intrinseche al suo concetto. Su questo punto si insiste particolarmente, allo scopo — anche — di prendere le distanze, differenziandosene, dalle concezioni della democrazia discorsive nelle quali l’aspetto istituzionale, secondo l’Autore, è concepito come condizione esteriore della libertà. È l’occasione, per Honneth, per prendere qualche distanza da Habermas, il suo predecessore alla direzione dell’Institut francofortese per la ricerca sociale. La teoria del discorso di Habermas, in quanto teoria, rimarrebbe, secondo Honneth, in una sfera di astrattezza; l’intersoggettività, che ne è il nucleo essenziale, resterebbe confinato in un a priori incapace di tradursi in idea politico- sociale concreta, alias “istituzionale”, di libertà.

In altri termini, le istituzioni sarebbero il governo esteriore arbitrale del gioco degli intenti in campo, e l’obiettivo di formulare un’idea di libertà tale da incorporare la dimensione relazionale, intersoggettiva e quindi sociale, sarebbe mancato. (...) Non c’è bisogno di richiamare la letteratura sociologica e psicologica che mette in luce il lato repressivo delle istituzioni e di ogni “istituzionalizzazione” dei comportamenti individuali e collettivi. La libertà consisterebbe, secondo questo punto di vista, nella de-istituzionalizzazione o, comunque, nell’assenza di predeterminazioni istituzionalizzate. Il contrario della visione di Honneth, il quale pone precisamente nell’istituzione la possibilità di libertà. Le istituzioni non sono sorte, necessariamente, per reprimere, ma anche per promuovere la libertà: la libertà concreta, realistica, non velleitaria o puramente agitatoria.

L’esercizio della libertà che non riesce a farsi istituzione”, secondo questa visione sociale della libertà, è sterile. (...) Nelle prime pagine di questo libro si spiega come la libertà sia il tratto caratteristico della modernità, lo shibolet per poter prendere parte al discorso politico moderno. Ma proprio questo libro rafforza la comune consapevolezza della plurivocità della parola, dell’esistenza di numerose concezioni del concetto; il lettore è come condotto per mano, sempre in nome della libertà, anzi della libertà al suo più alto grado, a salire fino a un colmo che sta sul crinale dell’ambiguità: l’ambiguità che connota il concetto di istituzione e, così, anche la immedesimazione istituzionalizzata della libertà degli uni nella libertà di tutti: l’eterno problema dell’equilibrio tra gli uni e i tutti.

«Intervista al segretario della Fiom: "Ci mobilitiamo contro il terrorismo e la guerra". Al centro della protesta di domani il contratto e la legge di Stabilità targata Renzi. La Cgil prepara un referendum per abrogare il Jobs Act. "Possibili anche su scuola e ambiente"».

Il manifesto, 20 novembre 2015

«Ad aprire il corteo saranno i lavoratori immigrati, con la scritta “Contro la guerra io non ho paura”. Alcuni di loro parleranno anche dal palco». La manifestazione Unions! di domani a Roma, indetta dalla Fiom e dalla Coalizione sociale, non poteva certo ignorare i fatti di Parigi. Anzi, le riflessioni che Maurizio Landini ci consegna incontrandoci nella nostra redazione — con noi Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco — sono in gran parte dedicate ai gravi fatti che accadono in Europa. Subito dopo, ovviamente, parliamo del contratto dei metalmeccanici, e del contrasto del sindacato alla legge di Stabilità e al Jobs Act. Di Renzi e del Pd, della nuova Sinistra italiana, dei Cinquestelle.

È un errore rispondere con la guerra ai terroristi? Quale altro strumento contro gli attentati?
«Lo diciamo chiaramente: noi siamo contro il terrorismo ma anche contro la guerra. Leader importanti come Blair stanno riconoscendo gli errori delle guerre del passato, e non si può non vedere che quello che viviamo oggi è in parte frutto dei conflitti armati. Dobbiamo muoverci su due terreni: innanzitutto smettere di vendere armi e di comprare petrolio dall’Isis. E poi dobbiamo superare la guerra con un’azione politica molto forte: mettendo intorno a un tavolo non solo i grandi paesi ma anche quelli delle zone calde. Servono azioni di intelligence comune per difenderci, certamente, ma anche e soprattutto iniziative culturali e sociali che tolgano il brodo di coltura dove fioriscono i terroristi».

Azioni culturali?
«Penso, con le dovute differenze, a quello che fecero la sinistra e il sindacato con il terrorismo degli anni Settanta: riuscirono a isolarlo, a prosciugare il brodo di coltura e di possibile connivenza. Allo stesso modo contro questo nuovo terrorismo serve una mobilitazione dal basso, tra le persone, e i musulmani, già divisi tra loro e in guerra da tempo. Per questo scegliamo di marciare con due bandiere: del lavoro e della pace».

Un dialogo non facile, quello con i musulmani, in questa fase.
«É la prima volta che in Europa delle persone scelgono di farsi esplodere per ucciderne altre: non possiamo sottovalutare questa minaccia, ma nel contempo dobbiamo evitare le semplificazioni e le equazioni “musulmano uguale terrorista”. Ho letto a fondo l’ultima enciclica del papa, e mi ha colpito l’analisi rispetto all’attuale modello di sviluppo, la centralità assoluta della finanza e le guerre innescate in questa logica. L’Isis si presenta davanti ai suoi possibili adepti non solo con il volto dell’integrità morale e ideologica, ma anche promettendo risposte alle disuguaglianze della nostra società. Se vogliamo combattere questa strumentalizzazione non possiamo chiuderci in casa, ma al contrario dobbiamo aprirci ancora di più al dialogo e all’inclusione. Verso tutti».

Al Nord nelle fabbriche lavorano molti immigrati. Il modello italiano di integrazione funziona? La Fiom riesce a coinvolgerli?
«Circa il 15–20% dei nostri iscritti, ormai, è di origini non italiane. Abbiamo tanti delegati tra i lavoratori immigrati, che rappresentano sia gli italiani che gli stranieri. Spesso, lo devo dire, con intelligenze e competenze anche superiori alle nostre, se non altro per il difficile vissuto che hanno alle spalle. A Padova, qualche settimana fa, abbiamo tenuto l’assemblea nazionale dei delegati immigrati: c’era anche la Presidente della Camera Laura Boldrini. Sono emerse richieste che dovremmo rivendicare per tutti: l’abrogazione della Bossi-Fini, la cancellazione dell’assurda tassa di soggiorno, un reddito di dignità. E il sindacato può fare tanto: in Germania l’Ig Metall investe 700–800 mila euro per impartire lezioni di tedesco agli immigrati, e per introdurre le altre culture ai lavoratori tedeschi. Tutto questo nelle sedi sindacali: che così diventano punti di riferimento per l’integrazione».

Passiamo al contratto. Siete riusciti a portare Federmeccanica su un unico tavolo.
«Sì, nonostante la presenza di due diverse piattaforme. Si riconosce il fatto che la Fiom è la sigla più rappresentativa. Poi è intervenuta una novità: la Uil è disponibile a sottoporre l’accordo al voto dei lavoratori. Chiediamo che le regole dell’accordo sulla rappresentanza, firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, vengano applicate nel contratto: così potremmo estenderne la validità a tutti i lavoratori, e andare insieme dal governo per chiedere che i minimi contrattuali diventino salario minimo legale».

Quali sono le richieste qualificanti della vostra piattaforma?
«C’è innanzitutto un principio nuovo da segnalare: i diritti da contratto dovranno valere per tutte le figure, fino alle partite Iva. Quindi minimi salariali, maternità, ferie, malattia, infortuni, Tfr. La formazione deve essere un diritto individuale, soggettivo, si devono ridurre gli orari se c’è un maggior utilizzo degli impianti, chiediamo di riformare l’inquadramento. E poi apriamo il nodo della sanità integrativa, ma purché sia valida anche questa per tutte le figure e per i familiari a carico: non sostitutiva di quella pubblica, ma di sostegno, per il rimborso ticket, il dentista, la non autosufficienza».

Che aumento chiedete?
«Del 3% sulle paghe base. Ma rinnovando il modello contrattuale: rinnovi ogni anno come in Germania, e vorremmo poi che il governo defiscalizzasse il primo livello. Se ci intendiamo su questi due punti, possiamo discutere con le imprese anche un eventuale conglobamento dell’attuale indennità perequativa, quella erogata a chi non fa accordi aziendali».

Da cosa viene fuori il 3%?Da tre elementi: l’inflazione; l’andamento del Pil italiano e di settore; la necessità di redistribuire reddito dopo anni in cui si è perso costantemente, indebolito anche dal fiscal drag. Ovviamente dove si vorrà e si riuscirà, ben venga la contrattazione di secondo livello: ma siccome nella realtà si riesce a fare solo nel 20–30% delle aziende, io devo garantire e qualificare il contratto nazionale».

La manifestazione è indetta anche contro la legge di Stabilità.
«Per noi deve cambiare. È una balla che sia espansiva, perché non ci sono investimenti pubblici e non si creano posti di lavoro. Si spendono i soldi per tagliare la tassa sulla casa, mentre si interviene pesantemente sulla sanità. Gli incentivi alle imprese non sono selettivi e vincolati a investimenti. Non c’è una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, ma anzi — con misure come quella sui 3 mila euro– si incoraggiano comportamenti non certo virtuosi. Si sono ridotti gli ammortizzatori sociali, rendendoli addirittura più costosi dei licenziamenti per le imprese. Non si interviene sulle pensioni. Insomma, si prosegue lo schema già adottato per il Jobs Act, per la scuola. Il premier “giovane e sveglio” applica le ricette dell’austerity europea, la lettera della Bce, come fu per Monti e Letta, senza metterle in discussione».

Però ci pare che il sindacato faccia fatica a muoversi. Ma c’è davvero, come dite, tanta contrarietà a Renzi nel Paese?
«Io penso che il consenso per Renzi stia diminuendo, e che tra le persone che lavorano o che cercano lavoro non sia maggioritario. È vero, dall’altro lato, che abbiamo fatto passare un anno dallo sciopero generale. Un po’ dipende dal fatto che il premier decide a colpi di fiducia in Parlamento, nessuno ha mai votato un suo programma, e lui procede anche a dispetto delle proteste. Questo scoraggia le persone dalla partecipazione. E poi c’è la crisi, l’aumento della povertà, il non credere più nei mezzi tradizionali di lotta. Proprio per questo segnalo un’importante decisione della Cgil: la proposta di un referendum per l’abrogazione del Jobs Act. Perché se le leggi ci vengono imposte, dobbiamo lottare con tutti i mezzi legali che abbiamo per cancellarle. In gennaio la Cgil chiamerà al voto 5,5 milioni di iscritti, dopo aver proposto la sua alternativa, il nuovo Statuto dei lavoratori. Io credo che si potrebbe lavorare allo stesso modo anche per la scuola, l’ambiente. E non a caso, nella consultazione per il contratto, abbiamo chiesto ai metalmeccanici se sono d’accordo sul fatto che la Fiom si impegni su tutti questi temi. E in maggioranza ci stanno dando l’ok».

Sono temi che si intrecciano con quelli della nuova Sinistra italiana. Può essere un partito di riferimento per chi lavora?
«Il problema per noi non è avere una forza politica di riferimento, un partito unico, ma riuscire a ottenere che il lavoro diventi tema trasversale a tutta la politica. Mentre oggi, e grazie a precise scelte di Renzi, il tema economico trasversale e dominante — centrale direi — è al contrario l’impresa. Faccio un esempio: lo Statuto dei lavoratori è stato votato negli anni Settanta anche dalla Dc e dal Pli, partiti non certo di sinistra: a quei tempi il lavoro era evidentemente centrale per tutta la politica».

Quindi è tramontata del tutto l’epoca del rapporto diretto tra sindacato e partiti.
«Noi abbiamo sempre presentato le nostre proposte a tutti i partiti, e se le condividono, bene, questo ci aiuterà. Sulle pensioni vedo che la Lega la pensa come noi, sul reddito di dignità i Cinquestelle. Io quando ho cominciato a fare sindacato mi presentavo nella quota Pci della Cgil, oggi è l’opposto: un recente studio sui nostri delegati ha appurato che il 90% di loro non è iscritto a nessun partito. L’autonomia è fondamentale per fare bene il nostro lavoro, nel rispetto di tutte le forze politiche».

La Coalizione sociale sta funzionando? Tracciamo un bilancio.
«Io credo di sì, anche se non ho mai nascosto che fosse una sfida difficile, mentre la gran parte dei media la riduceva al problema «Landini fa un partito». E invece vogliamo ricostruire quel legame tra le persone, che poi ci permetterà magari di pensarla allo stesso modo quando voteremo al referendum sul Jobs Act. Ma partendo dalla base, dai territori, dai bisogni reali, da un nuovo mutualismo. Penso allo sportello anti-usura che abbiamo aperto a Cuneo, alla vendita scontata dei libri scolastici, al Fondo di solidarietà istituito a Pomigliano».

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