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«In poco più di due mesi non si può organizzare una buona compagna, nè per il Sì, né per il No: si svuota di significato lo strumento democratico. E perché? Perché così potranno fare campagna elettorale per le amministrative senza interferenze. Sarebbe bello se Mattarella respingesse la data proposta dal Cdm». Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Le associazioni ambientaliste e i comitati No Triv lo stavano chiedendo da settimane: indire un election day per unire il referendum contro le trivellazioni per la ricerca di petrolio in mare e il primo turno delle elezioni amministrative, che coinvolgerà 1342 comuni. Greenpeace aveva anche raccolto 68mila firme a sostegno della giornata elettorale, eppure il governo non ha ascoltato la richiesta e durante il consiglio dei ministri di mercoledì sera ha deciso la data: il referendum si farà il 17 aprile.

Ma quanto costa agli italiani non far coincidere i due eventi? Secondo le stime dei comitati lo spreco è di circa 360 milioni di euro. Altri, come Sinistra Italiana e M5S, parlano di 300 milioni. Basti pensare che per le elezioni politiche del 2013, furono destinati 220 milioni di euro di rimborsi ai comuni e 73 milioni di euro per le esigenze di ordine pubblico. «Ne costasse anche 100 di milioni - dice al FattoAndrea Boraschi, responsabile della campagna Clima ed Energia di Greenpeace - si tratterebbe comunque di una spesa in più per le tasche degli Italiani».

Milione più, milione meno, è una unità di misura non smentibile, soprattutto dal Partito Democratico. «Così buttano dalla finestra 300 milioni di euro in un momento di grave crisi per le imprese e le famiglie italiane - diceva l’oggi ministro dei beni culturali Dario Franceschini, in una mozione votata da gran parte del Pd nel 2011 parlando della necessità di un election day - Si fa per impedire di far raggiungere il quorum al referendum sul legittimo impedimento. Non accorpare la data delle elezioni amministrative con quella dei referendum sarebbe una scelta molto grave non solo per il disagio che porterebbe a molti cittadini ma anche e soprattutto perché produrrebbe un costo per i contribuenti italiani talmente alto da essere insopportabile». Era l’anno in cui, oltre che per le elezioni amministrative e per il legittimo impedimento, si chiamavano gli italiani a votare anche su acqua pubblica e nucleare.
Per giustificare la scelta, il ministro dell’Interno Angelino Alfano, durante una question time alla Camera, ha prima ammesso che la legge che disciplina l'istituto referendario non conterrebbe previsioni sulla possibilità o meno di abbinamento del referendum abrogativo con le consultazioni elettorali amministrative. Ma poi ha aggiunto la debole osservazione sul fatto che la norma che regola gli election day avrebbe considerato a parte l'esigenza di accorpamento dei referendum, distinguendoli così dalle altre forme. Poi una sequela di problemi amministrativi: la diversa composizione degli uffici elettorali, la ripartizione degli oneri, l’ordine di successione delle operazioni di scrutinio, il fatto che per uno servano quattro scrutatori e che ne servano tre per l’altro, il fatto che le spese per le amministrative vadano divise per legge con lo Stato e che non ci sia un «criterio legislativo per la distribuzione del peso finanziario della consultazione referendaria».
Per decidere quindi di non montare e smontare più di mille seggi due volte e di non chiamare presidenti, scrutatori, forze dell’ordine per due volte, servirebbe «inevitabile intervento di carattere legislativo»: una legge, come quella del 2009 quando si unì il secondo turno di ballottaggio delle elezioni amministrative ai referendum abrogativi in materia elettorale. Legge che, secondo i comitati, il governo non vuole fare perché ha paura. Da un lato di portare alle urne più cittadini di quanto si aspettino e dall’altro che la questione trivelle possa essere usata come deterrente contro il Pd.
«La decisione del governo è uno schiaffo alla democrazia - ha detto al Fatto Enzo di Salvatore, costituzionalista e coordinatore nazionale del movimento No Triv -. Stabilendo che si vada al voto in tempi così stretti, non si dà la possibilità agli elettori di essere adeguatamente informati. In poco più di due mesi non si può organizzare una buona compagna, nè per il Sì, né per il No: si svuota di significato lo strumento democratico. E perché? Perché così potranno fare campagna elettorale per le amministrative senza interferenze. Sarebbe bello se Mattarella respingesse la data proposta dal Cdm».
Se si vuole restar fedeli «a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della critica" il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del "disvelamento"» occorre tornare a parlare del capitalismo.

Il manifesto, 12 febbraio 2016

Nell’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) il centro del problema riguarda le possibilità di convergenza di un ampio ventaglio di saperi in un comune denominatore di critica alla «cultura neoliberista, alla sue strategie, alle sue pratiche». «Un comune denominatore molto ampio – dice ancora Bevilacqua – in grado di tenere anche posizioni politiche distanti».

Discutere di tali questioni a partire dai nomi contenuti nella «parziale» mappa degli studiosi di varie discipline che l’autore ha collocato in appendice del suo testo è fuorviante perché il panorama degli studiosi «critici» è più ampio, più articolato e, d’altra parte, l’autore stesso parla di una lista «tracciata alla buona». È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.

Coloro che si riconoscono interni a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della «critica» il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del «disvelamento», quindi pressoché tutti coloro a cui Bevilacqua si rivolge, sanno perfettamente che termini come «neoliberismo» ed anche «liberismo» altro non sono che componenti di una narrazione ideologica di «superficie».

Una narrazione che copre i meccanismi strutturali del mutamento, anzi della molteplicità dei mutamenti, della loro corposa incidenza nella vita materiale, intellettuale, spirituale (perché no?) di tutti noi, sotto la coltre di categorie disincarnate dai fatti. Categorie disincarnate rispetto ad una realtà economico sociale, che non ha alcun rapporto con quella narrata dai vincitori di questa fase di accumulazione.

La narrazione ci descrive un campo di battaglia dove le roccaforti delle nostalgie novecentesche (intromissione della politica nella sfera economica, ostacoli alla libera competizione e dunque alla formazione di un mercato mondiale di liberi e di uguali) stanno definitivamente cedendo al soffio vivificante di un neoliberalismo in espansione. Persino nella stagione classica del laissez fair, grosso modo fino al 1870, i processi di accumulazione utilizzavano a piene mani tanto dimensione statuale che formazioni oligopolitistiche ed anche monopolistiche. Oggi poi, in piena retorica neoliberista, tali aspetti sono addirittura i punti di forza del processo in atto.

Ecco che, allora, il pensiero può avere dignità «critica» se si confronta con i caratteri consustanziali alle ragioni, alle logiche, alla direzione dei mutamenti in atto, se si confronta con l’analisi delle odierne forme capitalismo.

«Capitalismo»: un termine che, soprattutto coloro che avrebbero dovuto essere gli eredi della storia del movimento operaio fanno fatica ad usare, anzi non usano proprio. Già più di vent’anni fa lo storico Raffaele Romanelli sottolineava il fatto che l’uso del termine «mercato» e l’uso del termine «capitalismo» comportava un diverso apporto teorico. E Luciano Gallino, nel suo ultimo libro, ha definito questo slittamento lessicale, «una frode linguistica».

Al concetto «capitalismo» si addicono analisi strutturali. Il che implica anche una particolare misura del tempo storico, compresa la cosiddetta transizione del tempo che stiamo vivendo. Implica la necessità di pensare il tempo lungo della modernità capitalista scandito dalle fasi delle sue diverse forme di accumulazione. Questo significa che le differenze, a volte anche profonde, tra le differenti fasi, tra le diverse forme capitalismo, devono venir ricondotte al un livello temporale ancora più profondo e più lungo. Perché oggi il mercato globale necessita di un paradigma interpretativo in grado di combinare la pluralità dei tempi e dei modi di manifestarsi nella dimensione unificante della modernità. La «modernità liquida», seconda la nota definizione di Bauman, è l’aspetto fondante di un post capitalismo, è la porta d’ingresso definiva nella postmodernità, o è del tutto interna ad una forma capitalismo?

Se optiamo per la prima risposta cambiano radicalmente i termini del nostro rapporto con la dimensione conoscitiva di questo nostro presente, dei processi storici che alla «modernità liquida» hanno portato, ed anche, è impossibile evitarlo, con le possibilità di trasformazione in senso democratico del «momento attuale». Se però, come credo, i meccanismi di questo «momento attuale» non sono affatto estranei alle ragioni profonde dei mutamenti della forme capitalismo, e che, nell’attuale fase di accumulazione, sono impliciti (in molti casi espliciti) aspetti fondamentali di forme precedenti dispiegati in maniera esponenziale, ecco che i termini del rapporto rottura-continuità non possono esaurirsi esclusivamente nel momento della negazione.

Dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche del rapporto capitalismo-modernità in questa nostra transizione/non transizione. In particolare del rapporto del capitalismo con quella che, per la nostra tradizione, è la promessa fondamentale della modernità: la democrazia, cioè la tensione inesaustiva verso l’uguaglianza storicamente possibile.

Allora è all’interno di questo panorama analitico che è possibile ricreare quei sistemi di rilevanza in grado di contrastare i moltissimi aspetti di irrilevanza che sono stati (e sono) l’altra faccia del processo di frammentazione dei saperi.

Naturalmente la sfera culturale non è il luogo dove si costruiscono le nuove condizioni di un’egemonia fidando sulla propria autosufficienza. Il rapporto con la sfera politica è essenziale.

I tratti salienti del disegno legge Cirinnà in discussione in questi giorni. Il manifesto, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)

Si chiama «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» il disegno di legge Cirinnà (Atto del Senato n. 2081). In discussione è la versione del provvedimento, il Cirinnà bis, con le modifiche approvate negli ultimi mesi.

Con unione civile si indica l’istituto, diverso dal matrimonio, comportante il riconoscimento giuridico, organico e complessivo della coppia di fatto, finalizzato a stabilirne diritti e doveri. Il primo Capo del ddl riguarda le unioni civili formate da persone dello stesso sesso; il secondo, i patti di convivenza, anche da persone di sesso diverso. Nel primo Capo si introduce nell’ordinamento giuridico italiano l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso quale «specifica formazione sociale» (dicitura scelta per accontentare i cattolici che temevano l’equiparazione con il matrimonio) tutelata ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Si potrà costituire un’unione civile con una dichiarazione dinanzi all’Ufficiale di Stato Civile, in presenza di due testimoni. I soggetti dell’unione potranno scegliere il regime patrimoniale e la loro residenza; potranno anche decidere di assumere un cognome comune.
Non possono contrarre l’unione civile persone già sposate o che hanno già contratto un’unione civile; persone a cui è stata riconosciuta un’infermità mentale; oppure persone che sono tra loro parenti. Con l’unione civile tra persone dello stesso sesso, «le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenuti a contribuire ai bisogni comuni». L’articolo 3 estende alle unioni civili molti diritti del matrimonio per quanto riguarda congedi parentali, contratti collettivi di lavoro, graduatorie all’asilo nido se si hanno figli. Estesi anche i diritti previdenziali, quindi la pensione di reversibilità. E con l’articolo 4 vengono estese alle coppie che hanno sottoscritto un’unione civile le norme in materia di successione previste per gli etero uniti in matrimonio (eredità, suddivisione delle quote di una casa...).
Per sciogliere l’unione civile si deve ricorrere al divorzio. E in questo caso si seguono le norme della legge attuale per quanto riguarda assegno di mantenimento, affido dei figli, diritto di visita, assegnazione della casa. L’articolo 5 è quello che riguarda la stepchild adoption, cioè l’estensione della responsabilità genitoriale sul figlio del partner. Viene consentita l’adozione «non legittimante» dei figli del o della partner. Il ddl esclude invece l’applicabilità dell’istituto dell’adozione legittimante: per le coppie dello stesso sesso unite civilmente non sarà possibile, quindi, adottare bambini che non siano già figli di uno dei o delle componenti della coppia. Con l’adozione non legittimante, fra l’altro, chi adotta non acquista diritti successori nei confronti dell’adottato, ma assume tutti i doveri del genitore nei riguardi del figlio.
Nel secondo Capo del ddl si parla del riconoscimento della convivenza di fatto sia tra coppie di omosessuali sia tra coppie etero. La convivenza di fatto viene riconosciuta alla coppie di maggiorenni che vivono insieme e che non hanno contratto matrimonio o unione civile. I conviventi hanno gli stessi diritti dei coniugi in caso di malattia, di carcere o di morte di uno dei due coniugi. Ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante in caso di malattia o di morte. Nel caso di morte di uno dei due conviventi che ha anche la proprietà della casa di convivenza comune, il coniuge superstite ha il diritto di stare nella casa. E inoltre in caso di morte il coniuge superstite ha il diritto di succedere all’altro coniuge nel contratto d’affitto. I conviventi possono stipulare un contratto di convivenza per regolare le questioni patrimoniali tra di loro.
Il contratto di convivenza può essere sciolto per accordo delle parti, per recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra uno dei conviventi. In caso di scioglimento del contratto di convivenza il giudice può riconoscere a uno dei due conviventi il diritto agli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.

lternative per il Socialismo n. 39, febbraio-marzo 2016

Intervenendo alla Direzione del suo Partito, Matteo Renzi è andato giù di sciabola nei confronti della titubante “sinistra” interna. Permettendosi anche il lusso di prendere in giro il suo predecessore. “Una sconfitta al referendum (quello cosiddetto confermativo sulle modifiche costituzionali) non si può affrontare dicendo ‘ho non vinto’ – il riferimento evidente a tutti è alla ‘non vittoria’ di Pierluigi Bersani nelle elezioni politiche del 2013 -. Una sconfitta al referendum segnerebbe fatalmente la mia esperienza. Il mio non è un tentativo di plebiscito ma etica della responsabilità”. Il premier si affida quindi a suggestioni weberiane pur di ribaltare l’accusa scontata di vocazioni plebiscitarie. La performance oratoria non solo non liquida i sospetti più ovvii, ma non elimina la sostanza della critica che gli viene o gli dovrebbe essere rivolta. Quella di schiacciare la questione delle modifiche alla Costituzione sulla contingenza politica, quale effettivamente è la sopravvivenza o meno del suo governo.

Scrivere una Costituzione esige di elevarsi
sopra le vicende politiche del momento

Al contrario le esternazioni di Renzi confermano la pochezza della classe politica da lui incarnata. Ai Costituenti d’antan non sarebbe mai venuto in mente di pensare, progettare e scrivere una Costituzione avendo a cuore principalmente la sorte di questo o quel governo. Anzi il loro spirito era quello di guardare ben al di là, sapendo che le regole che stavano costruendo avrebbero dovuto reggere a diverse temperie politiche; avrebbero dovuto proprio garantire che rivolgimenti nel quadro politico potessero avvenire entro un quadro di stabilità e di sopravvivenza dell’ordinamento costituzionale. Tanto erano gelosi del fatto che la Costituzione italiana dovesse garantire il massimo della espressione e della rappresentanza politica che i costituenti limitarono il divieto di ricostituzione al solo partito fascista e non a quello monarchico, pur esplicitando che la forma repubblicana non avrebbe mai potuto essere messa in discussione nemmeno da un procedimento di revisione costituzionale. Lo stesso Piero Calamandrei si espresse in favore della legittimità dell’esistenza di un partito monarchico (Piero Calamandrei, Scritti e discorsi politici, II, Firenze 1966)

Il testo entrato in vigore il 1° gennaio del 1948 è vissuto per diversi decenni in equilibrio fra le esigenze opposte di fissità e di mutamento. Un equilibrio che fino a un certo punto è stato garantito dalle procedure di revisione costituzionale previste nell’articolo 138 Cost. (il cui testo è riportato nell’Appendice al presente articolo). Come osservò il Mortati l’esistenza in una Costituzione di organi o procedure speciali per potere procedere alla sua mutazione sono “mezzi essi stessi di conservazione” (Mortati, Raccolta di scritti, II, Milano, 1972) capaci di fare fronte contemporaneamente al “timore o l’impazienza dei partiti dei conservatori e degli innovatori” per usare le parole di Zagrebelsky (Zagrebelsky, Portinaro, Luther, Il futuro della Costituzione, Torino, 1996). Non a caso quando, a partire dagli anni Ottanta, si cominciò a parlare di una “grande riforma” della Costituzione che la adeguasse al “paese reale”, ovvero codificasse le trasformazione intervenute nella società economica, civile e politica dalla vincente offensiva neoliberista, venne posto anche il tema di un superamento o di una deroga all’articolo 138. Di tale natura sono le leggi costituzionali che nel 1993 e nel 1997 diedero vita a due successive Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (prima la cd De Mita-Iotti, poi quella D’Alema).

Il fallimento di queste ultime riportò in auge l’articolo 138, pur non venendo a mancare tentativi di proporre una modificazione anche di quest’ultimo. Ma, come oggi ben si vede, non spense le ansie di una modificazione sostanzialmente integrale della seconda parte della Costituzione. Le modificazioni della legge elettorale intercorse nel frattempo hanno infatti offerto ai manipolatori della Costituzione un parlamento sempre più affidabile per i loro fini. Ad opporsi a questi ultimi rimane perciò il solo Referendum, che andrebbe chiamato oppositivo, e non confermativo, anche perché venne espressamente pensato fin dalla sua istituzione come uno strumento delle minoranze contro la prevaricazione delle maggioranze in materia costituzionale, con il ricorso diretto alla volontà popolare.

Il tentativo di accorpare il referendum costituzionale
con le amministrative

Davvero altri tempi e ben altre temperie culturali. Oggi tale è l’identificazione della propria sorte con l’esito del referendum costituzionale che Renzi sta ponderando l’idea - che infatti circola tra i giuristi legati a Palazzo Chigi - di unificare addirittura la data di celebrazione del referendum con quella delle elezioni amministrative previste per la fine della primavera. Nella illusione che questo faciliti l’afflusso alle urne e gli permetta di vincere in un referendum che, come è noto, non prevede il quorum. Probabilmente, se questo tentativo verrà portato avanti, ci toccherà sentire la solita litania sul risparmio per l’erario statale che ne deriverebbe. Ma mai tale argomento sarebbe più infelice e rivelatore del carattere puramente strumentale e contingente che il governo attribuisce al pronunciamento referendario. Altra cosa sarebbe, questa sì possibile, anzi auspicabile perché le materie non sono incongruenti, se venisse accorpato al voto amministrativo quello sul quesito sopravvissuto contro le trivellazioni petrolifere in mare, promosso da diversi consigli regionali. Tenere ben distinti i momenti stessi del pronunciamento popolare, in modo che non si dia il minimo adito alla confusione o anche alla semplice sovrapposizione fra preferenza politica e scelta costituzionale dovrebbe essere l’archetipo su cui fondare una democrazia.

Il comitato per il No alla revisione costituzionale si muoverà in ogni caso nella direzione di impedire materialmente una simile scellerata decisione, depositando, un minuto dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della nuova legge di revisione costituzionale la richiesta di raccogliere 500mila firme tra i cittadini utili per la convocazione del referendum sulle modifiche costituzionali, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Quest’ultimo infatti prevede che tale referendum, qualora la legge di revisione sia stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore di due terzi dei suoi componenti - circostanza certa in questa occasione - possa essere promosso da un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. L’una cosa non esclude l’altra, poiché il diritto dei cittadini di farsi in prima persona promotori di tale referendum, pur essendo medesimo il contenuto, non può essere in alcun modo conculcato, né sostituito da rappresentanti eletti nel parlamento nazionale o nei consigli regionali. D’altro canto vi è un importante precedente che va in questo senso. Quello costituito dal secondo referendum che si tenne sulla modifica del titolo V della Costituzione nell’ottobre del 2001. Poiché l’approvazione della legge di revisione non può avvenire prima della metà di aprile e poiché la raccolta delle firme dei cittadini ha tre mesi di tempo per essere espletata, questo accorpamento ventilato in ambiti governativi con le amministrative che al più tardi possono tenersi a giugno, non potrò avere luogo a meno di non creare un violento conflitto con la stessa Corte Costituzionale.

Le preoccupazioni del Pd
sull’esito del pronunciamento popolare

Tuttavia il solo fatto che se ne parli è indice di una evidente preoccupazione da parte del partito renziano. Non esistendo il quorum viene meno il ricorso alla astensione. L’arma di utilizzare la passività, la disinformazione o l’indolenza popolari è del tutto inutilizzabile. Il No combatte contro un unico avversario, il SI, non contro due. E’ un duello non un “triello”, come nel finale di uno dei più famosi western di Sergio Leone. Va anche aggiunto che l’ultimo referendum su materie costituzionali – il premierato voluto da Berlusconi – vide una vittoria netta dei contrari, ma soprattutto un’affluenza alle urne che superò la maggioranza degli aventi diritto, quindi l’asticella del quorum pur non essendo questo necessario. Era la fine di giugno del 2006. Certamente tutt’altra situazione politica e un diverso stato di salute della democrazia del paese, nel frattempo ulteriormente deterioratisi. Ma è pur vero che c’è un ostacolo difficile da sormontare per chiunque voglia manipolare la Costituzione a proprio piacimento, e questo è rappresentato dai cittadini italiani. Ed anche da istituzioni locali, come indica la mozione prevalsa nel consiglio comunale di Pisa contro le modifiche costituzionali, approvata anche grazie ad una significativa spaccatura determinatasi tra i consiglieri del Pd.

Quindi è necessario, per coerenza di principi, ma anche per ricerca di efficacia, guardarsi bene dal cadere nel tranello delle contrapposizioni Renzi Sì - Renzi No; continuità del governo – fine traumatica della legislatura; stabilità – caos. Su questo, come già si vede, la propaganda renziana si spenderà ampiamente e c’è da credere che non si fermerà sulla soglia del video televisivo ma effettivamente cercherà di varcare la casa di ogni elettore. Da qui la scelta dell’entourage renziano di avvalersi della collaborazione di un guru delle campagne elettorali anglosassoni, ove la personalizzazione è d’obbligo, quale Jim Messina, che fu a capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che portò alla rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo, il suo. Con consulenze ad alcuni degli attuali leader mondiali. Dall'attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier britannico David Cameron.

La posta in gioco
per il progetto politico di Renzi

D’altro canto la posta in gioco per Renzi è enorme. Pur lasciando a lui le velleità plebiscitarie, è certamente vero che l’affossamento delle deformazioni costituzionali segnerebbe una brusca battuta d’arresto di un progetto politico-istituzionale che non nasce con Renzi, ma che certamente il leader di Rignano ha incarnato con tutto se stesso. In primo luogo va tenuto presente che l’Italicum, ovvero la modificazione della legge elettorale, entrerà in vigore pienamente non prima del primo luglio di quest’anno e si applicherà solo alla Camera dei Deputati, proprio perché per quella data si prevede che il Senato venga modificato in un organo non elettivo, oltre che essere depotenziato. Se quindi l’effetto del referendum fosse quello di richiamare in vita il Senato come è nella sua versione attuale – e non potrebbe essere diversamente, visto che il referendum può solo dire NO alla legge e non modificare in modo diverso o opposto la normativa costituzionale precedente – l’Italicum in quanto tale non sarebbe applicabile. E’ vero che, vista la disinvoltura istituzionale e costituzionale dell’attuale governo e della maggioranza che lo compone e lo sorregge, non sarebbe impossibile sanare il vuoto con qualche modifica alla nuova normativa elettorale. Ma questo ne violerebbe la conclamata intangibilità, con il rischio di aprire la porta ad altre modifiche a Renzi non gradite.

Ma soprattutto la eventuale sconfitta nel referendum, con la vittoria del NO, oltre a tutti gli effetti collaterali o indiretti che provocherebbe sul terreno politico, spezzerebbe quella tenaglia costituita dal binomio nuova legge elettorale-deformazione della Costituzione su cui si poggia l’ambizioso disegno renziano. Segnerebbe una battuta d’arresto nella costruzione di un regime oligarchico, sostanzialmente a-democratico, basato sul principio delle nomine e della cooptazione nel sistema di potere e sulla mortificazione del principio della rappresentanza politica e conseguentemente della democrazia nelle sue forme basilari e sostanziali. Tale disegno è l’implementazione in salsa italica di un progetto certamente non nuovo che ha contrassegnato la vita politica e istituzionale dei paesi a capitalismo sviluppato perlomeno a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. E’ la ormai lunga storia della separazione fra capitalismo e democrazia, o, per usare altri termini di origine luhmanniana, della riduzione neoautoritaria della complessità della domanda sociale. Una storia che ha subito una evidente accelerazione nel corso di questa grande crisi, cui le classi dirigenti hanno risposto non solo con politiche economiche deflattive ma anche con una violenta e sistematica torsione istituzionale.

J.P. Morgan entra a gamba tesa
sulle Costituzioni democratiche

Una delle più recenti esternazioni in questo senso può essere trovata in un documento elaborato dalla J.P. Morgan e reso noto nel giugno del 2013, pochi mesi dopo le ultime elezioni politiche italiane e non molto prima che il disegno di legge Renzi-Boschi cominciasse il suo cammino (quest’ultimo venne presentato l’8 aprile 2014 e la sua prima approvazione avvenne al Senato l’8 agosto dello stesso anno). Quel documento in 16 pagine è abbastanza noto. E’ tuttavia opportuno riportarne per intero il passaggio chiave, ove si esplicita l’attacco alle Costituzioni e al costituzionalismo democratici da parte di una delle maggiori e più autorevoli espressioni del capitalismo finanziario: "I sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

Il Parlamento che ha votato le nuove norme costituzionali
è illegittimo

Ai sostenitori del NO conviene dunque stare al merito e alla sostanza della questione, guardandosi da ogni semplificazione politicista della contesa che porterebbe solo acqua al mulino altrui. Il merito della controriforma o della “deforma” costituzionale - come ormai viene chiamata con un neologismo che farà strada - non è affatto solido né nelle sue premesse, né nei suoi contenuti e neppure nella sua forma. Né tantomeno così complesso da non potere essere destrutturato e spiegato a chiunque. C’è una convinzione che va rimossa, anche perché del tutto paradossale. Per quanto si riconosca che non possa più esistere, se mai c’è stato in questa forma, un rapporto docente – discente fra intellettuali e popolo, fra avanguardia e masse per usare volutamente un linguaggio oramai divenuto persino arcaico, permane ugualmente il convincimento che certe questioni non possano essere portate a livello popolare perché non verrebbero comprese. Da qui la tentazione a una semplificazione che in realtà diventa una menomazione, se non addirittura una deformazione, dei problemi, ove l’approccio demagogico la fa da padrone.

Innanzitutto non va abbandonato un terreno di denuncia su cui si è stati fin qui troppo teneri. Siamo di fronte ad un parlamento illegittimo, definito nella sostanza tale da quando la Corte Costituzionale ha cassato per vizio di incostituzionalità la legge – il famigerato Porcellum – con cui sono stati eletti i parlamentari. Si potrà discutere all’infinito se quella sentenza avesse in sé e per sé i presupposti per esigere lo scioglimento delle camere e l’indizione di nuove elezioni sulla base della legge elettorale preesistente. Come è noto esistono pareri diversi tra i giuristi e i costituzionalisti su questo problema, al di là del giudizio politico che si voglia dare sulla scelta operata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano cui sarebbe spettata la decisione di sciogliere le camere e indire nuove elezioni.

Non possiamo qui entrare nel merito di quella discussione. Né, a ben vedere, ci è indispensabile per contestare alla radice quanto è stato fatto da questo Parlamento. In effetti, con la sentenza 1/2014, la Consulta rilevava “nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.” Il testo della sentenza richiamava quindi l’ultrattività delle Camere, le quali, anche in caso di già avvenuto scioglimento, possono vedere prorogati i loro poteri fintanto che non siano riunite le nuove Camere (art. 61 Cost.) o possono essere riconvocate per la conversione in legge di decreti legge in scadenza assunti dal governo (art. 77, secondo comma, Cost.). Ma proprio l’esplicitazione di queste esemplificazioni induce a ritenere che l’attuale Parlamento, pur sopravvivendo alle conseguenze della sentenza della Corte, avrebbe dovuto al massimo attenersi a leggi ordinarie o dovute, spingendosi forse anche a quelle di bilancio – già di per sé delicatissime, in particolare modo dopo la stretta determinata dalla nuova governance europea – ma non certo arrogarsi il ruolo di novellatore della Costituzione. Gli mancava e gli manca qualsiasi autorevolezza istituzionale, politica e direi anche culturale per svolgere tale compito. E naturalmente lo si vede dal prodotto che è scaturito dal disegno di legge governativo – la sua origine non parlamentare non è un dettaglio trascurabile - e dalle modifiche parlamentari intervenute e con il governo stesso concordate.

Il più grande tentativo di manomissione
della Costituzione italiana

Anche dal punto di vista quantitativo la legge Renzi-Boschi, che consta di 41 articoli, rappresenta il più corposo e ambizioso progetto di revisione costituzionale mai avvenuto. L’intera seconda parte della Costituzione, riguardante l’ordinamento della Repubblica, ne risulta sconvolta. Dall’articolo 55 fino al 135 tutti gli articoli del testo vigente vengono modificati, in tutto o in parte, lasciandone intatti solo pochissimi. Questo non significa affatto che non risulti intaccata anche la prima parte della Costituzione, riguardante come è noto i diritti e i doveri dei cittadini, non tanto per qualche intervento formale ove il termine ‘Camere’ viene condotto al singolare, quanto per la ben più importante ragione -già più volte messa in luce ma che conviene qui ribadire - che quei diritti e quei doveri vengono garantiti e implementati attraverso il funzionamento degli organi dello Stato e che quindi la modificazione e stravolgimento di questi ultimi non può non avere conseguenze dirette in senso restrittivo o distorsivo sui primi.

Come dice lo stesso titolo della legge costituzionale, il cuore della “deforma” è costituito dalla fine del bicameralismo perfetto o paritario che dir si voglia, dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla semplificazione che ne deriverebbe dell’iter legislativo, con l’effetto sbandierato di un risparmio consistente per le casse dello Stato. Si aggiunge la più che annunciata cancellazione del Cnel e un ennesimo intervento sul titolo V concernente regioni, provincie e comuni, su cui vi era già stata una modica solo quindici anni fa.

Ma non siamo affatto di fronte alla fine del bicameralismo perfetto, quanto alla macchinosa costruzione di una sorta di bicameralismo confuso, nel quale il Senato sopravvive, seppure a scartamento ridotto e soprattutto come organo non elettivo. Chi, come il sottoscritto, ha sempre sostenuto, fin dai tempi della ormai lontana Commissione Aldo Bozzi degli anni Ottanta, la tesi del monocameralismo, congiunto però – particolare decisivo – ad una legge elettorale di tipo proporzionale, con al massimo una modesta soglia di sbarramento, non può che constatare che quello spirito riformatore è qui completamente tradito e rovesciato.

Il nuovo Senato

Il Senato non è più un organo eletto direttamente dai cittadini in quanto tale, ma i suoi 100 membri sono composti da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nominati dal capo dello Stato restanti in carica per sette anni. Il fatto che i senatori possano essere individuati tramite un listino o scelti tra i più votati nelle elezioni regionali – quindi non in quelle politiche -, non cambia la sostanza della questione. Come è ovvio questa scelta comporta un impoverimento di fatto nella qualità del funzionamento sia del Senato che degli organi territoriali. Come si pensa infatti che chi ha già una carica di tutto rilievo, come quella di senatore o di consigliere regionale, possa esplicarne in modo soddisfacente addirittura due, resta un mistero dei più fitti. Il che dimostra lo spirito sostanzialmente centralista che anima l’intera “deforma”. Confermato del resto dalla ulteriore modifica del Titolo V della Costituzione, ove si prevede il rovesciamento del sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni. Sarà infatti il primo a delimitare la sua competenza esclusiva sulle varie materie. Anche chi, un po’ ingenuamente, pensava ad un Senato delle Regioni – funzione che avrebbe potuto svolgere perfettamente la Conferenza Stato-Regioni opportunamente rafforzata nei poteri e nelle funzioni – non può trovare alcuna risposta positiva in questo nuovo quadro.

Il Senato non avrà più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, essendo questa funzione di pertinenza esclusiva della Camera dei Deputati. Tuttavia non è vero che esso perde completamente i suoi poteri in materia legislativa. Attraverso un meccanismo farraginoso il Senato avrà ancora la possibilità, anche se non l’obbligo, di esprimersi su richiesta di un terzo dei suoi componenti sulle leggi che esulano dalle proprie competenze in senso stretto. Anche quelle di natura costituzionale. Il Senato, ad esempio potrà votare anche sulla legge di Bilancio, pur restando l’ultima parola alla Camera. Per ciò che concerne le leggi che riguardano le Regioni e gli Enti locali il Senato avrà poteri maggiori. In questo caso per respingere le sue modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Pertanto non è vero che non via alcun rimbalzo di leggi fra Camera e Senato – il famoso ping pong -. Il Senato svolgerà un ruolo nei rapporti con l’Europa e in materia comunitaria; sarà chiamato a controllare le politiche pubbliche e il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Inoltre potrà eleggere due giudici della Corte Costituzionale.

L’inganno della semplificazione dell’iter legislativo

La semplificazione dell’iter legislativo appare quindi uno specchietto delle allodole cui non corrisponde la realtà. Persino la forma della scrittura delle nuove norme costituzionali ne rivelano la maggiore complessificazione fino alla sostanziale non leggibilità. Si rafforza la tendenza di sconfinare nel campo che sarebbe proprio dei semplici regolamenti parlamentari, costituzionalizzando alcune norme che potrebbero perfettamente restare di competenza di questi ultimi. Basta confrontare il vecchio testo dell’articolo 70 della Costituzione sulla funzione legislativa delle Camere con il nuovo testo, la cui lunghezza ci costringe a confinare in un’apposita appendice al presente articolo.

L’iter che viene effettivamente semplificato e rafforzato è quello dei provvedimenti di emanazione governativa, confermando, se ce ne fosse bisogno, la già robusta tendenza di prevaricazione dell’organo esecutivo su quello legislativo. Ad esempio il Governo nel nuovo testo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare una corsia preferenziale per quei provvedimenti legislativi individuati come essenziali per l’attuazione del programma di governo - quindi quasi tutti – portando a compimento l’esame e l’approvazione nel giro di settanta giorni. Contemporaneamente – e non senza logica in un simile quadro – il numero delle firme dei cittadini necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare viene elevata da cinquantamila a centocinquantamila, mentre nel caso del referendum l’abbassamento del quorum, alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni politiche, viene concesso solo se la sua richiesta è supportata da ottocentomila firme, in luogo delle solite cinquecentomila per le quali il quorum resta come era. Insomma l’apertura alla partecipazione diretta dei cittadini all’esercizio legislativo viene ancora più ostacolata.

Il referendum abrogativo dell’Italicum

Come abbiamo già detto il disegno neoautoritario non si fonda su una gamba sola, cioè quella della “deforma” costituzionale, ma anche, e ancora più, sul cambiamento della legge elettorale, già approvato e che entrerà pienamente in vigore nel luglio di quest’anno. Di conseguenza anche se il referendum oppositivo vincesse e anche se questo ponesse seri problemi alla continuazione del disegno autoritario di per sé non sarebbe sufficiente a spezzarlo. Perché comunque rimarrebbe in piedi la possibilità con una minoranza di suffragi, anche poco consistente, di conquistare la maggioranza dei seggi e di governare del tutto a-democraticamente. Si pensi – e di questi tempi non si tratta di un esempio del tutto astratto o ipotetico – alla dichiarazione dello stato di guerra da parte delle Camere (Art. 78 Cost.). Nella nuova legge tale fatale responsabilità viene attribuita alla sola Camera dei deputati, seppure con l’esplicitazione della richiesta della maggioranza assoluta. Ma nel nuovo quadro la Camera sarebbe prevalentemente composta da nominati. Quindi il potere reale di dichiarare guerra si trasferirebbe di fatto al Governo, dipenderebbe dalla volontà del partito che pur essendo minoranza in virtù del generosissimo premio ottiene la maggioranza dei seggi e viene investito della responsabilità di governare.

Per queste ragioni è decisivo che nella prossima primavera si raggiungano le firme necessarie sui quesiti già depositati da un Comitato che ha eletto presidente onorario Stefano Rodotà, che intendono abrogare le parti vitali dell’Italicum. Con la già richiamata sentenza 1/2014 la Corte aveva giudicato incostituzionali alcuni aspetti del famigerato Porcellum in quanto lesivi dei diritti dei cittadini. In particolare la Corte aveva cancellato l’istituto delle liste bloccate, reintroducendo il diritto di scelta dei candidati da parte degli elettori e aveva abolito il cosiddetto premio di maggioranza concesso alla minoranza politica più forte senza soglia alcuna. L’Italicum, anziché conformarsi a queste prescrizioni, conferma peggiorandoli gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum. Nello specifico l’attuale legge riproduce sostanzialmente l’istituto e l’effetto delle liste bloccate in quanto, pur essendo bloccati “solo” i capilista, la divisione delle circoscrizioni elettorali in cento collegi plurinominali, comporta che la maggioranza dei deputati sarà composta da chi verrà indicato come capolista.

Ma soprattutto l’Italicum provoca una alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, poiché la soglia del 40% per l’accesso al premio di maggioranza viene aggirata attraverso il ballottaggio che consente alla minoranza vincente, qualunque sia la sua reale dimensione, di moltiplicare i seggi in Parlamento rispetto ai voti effettivamente conseguiti. Questa clamorosa distorsione viene ulteriormente aggravata, rispetto allo stesso Porcellum, dal fatto che il premio viene dato alla lista e non più alla coalizione. Argomento sul quale Renzi ha voluto tenere duro e pour cause, data la funzione di partito pigliatutto, tendenzialmente unico, che egli ha attribuito al Partito democratico. Conseguentemente i quesiti depositati sui quali si chiederà il voto dei cittadini, necessariamente nel 2017, vertono sulla abrogazione dei capilista bloccati e delle pluricandidature, nonché del premio di maggioranza e del ballottaggio.

La vittoria del SI in questo referendum porterebbe alla cancellazione dell’Italicum senza però ritornare al vecchio Porcellum, bensì alle prescrizioni implicite nella sentenza della Corte Costituzionale che muovono nella direzione di un ritorno a un sistema elettorale di tipo sostanzialmente proporzionale. In sostanza riaprirebbe il sistema politico italiano. E, in questo senso, potrebbe favorire, se ne esistessero le condizioni soggettive, anche la costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.

I referendum sui temi sociali

Sarebbe però un peccato di inguaribile illuminismo pensare che la normativa elettorale sia in cima ai pensieri di una popolazione alle prese con le gravi conseguenze di una lunga crisi economica aggravata dalle politiche neoliberiste di austerità. Questo tema, come quello costituzionale, ha bisogno perciò di una leva, affinché acquisisca quelle dimensioni di massa in grado rendere possibile nella prossima primavera (i mesi sono necessariamente quelli di aprile, maggio e giugno) la raccolta di almeno 500mila firme per potere votare nel 2017, passati i filtri della Cassazione e della Consulta, in base alle leggi referendarie vigenti. Questa leva non può essere data che dalla possibilità di unire altri referendum di carattere sociale in un’unica campagna referendaria, capace di tenere insieme argomenti riguardanti la democrazia e le libertà, come il lavoro, la scuola e l’ambiente. I tre temi di carattere civile e sociale su cui maggiormente si sono esercitate le politiche neoliberiste del governo.

La responsabilità di individuare i quesiti necessari su questi ultimi tre argomenti spetta naturalmente ai soggetti sociali attivi in questi campi. Non conosciamo ad horas i quesiti scelti dai movimenti sulla scuola e da quelli ambientalisti e di difesa del territorio. Ma è palpabile una ripresa di elaborazione e mobilitazione sui referendum sia da parte di chi ha animato il movimento più importante che si è sviluppato lo scorso anno, quello contro le nuove leggi renziane sulla scuola; sia da parte del movimento per l’acqua – che non ha mai cessato di battersi contro i tentativi di aggirare in vario modo gli esiti del referendum vincente per l’acqua pubblica – e di altri movimenti che si muovono contro il famoso decreto “sbloccaItalia” del governo Renzi e che non si possono certamente accontentare del solo referendum No-triv, che si terrà nell’anno in corso e che va pienamente sostenuto, la cui limitatezza e parzialità sono però evidenti, anche perché è sopravvissuto uno solo dei sei quesiti inizialmente avanzati dai consigli regionali.

La novità più rilevante è rappresentata però dall’impegno diretto assunto dalla Cgil. Non senza resistenze e contrasti al proprio interno, la decisione del più grande sindacato italiano è stata quella di procedere ad una consultazione tra i propri iscritti che si concluderà a metà marzo sulla opportunità di presentare come proposta di legge di iniziativa popolare una complessa (si tratta di ben 97 articoli) “Carta dei diritti universali del lavoro”, che vorrebbe innovare integralmente lo Statuto dei diritti dei lavoratori, adeguandolo alle nuove realtà lavorative. Gli obiettivi dichiarati del testo sono quelli di ricostruire il diritto ad avere diritti nel lavoro realmente universali ed estesi a tutti che pertanto si fondino su principi di rango costituzionale; disciplinare regole su Democrazia e Rappresentanza, estendendo a tutti gli accordi interconfederali sottoscritti in questi anni; attuare l'articolo 39 della Costituzione, dando alla Contrattazione collettiva regole che ne determinino l'efficacia generale ripristinando il giusto rapporto tra legislazione e contrattazione; aumentare le forme di partecipazione, consultazione e voto certificato dei lavoratori al fine di garantire sempre di più che le tutele seguano i cambiamenti organizzativi delle imprese affidando alla contrattazione a tutti i livelli la funzione regolatrice tra diritti dei lavoratori ed esigenze tecnico organizzative delle imprese; riscrivere la disciplina delle tipologie contrattuali rimettendo al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato e stabile, superando la precarietà attraverso la ridefinizione dei diritti collegati a quelle tipologie di lavoro riconducendole alla loro funzione di rispondere ad esigenze meramente temporanee dell'impresa o di autonoma scelta del lavoratore.

Contemporaneamente la Cgil chiede di pronunciarsi sulla eventualità di promuovere quesiti referendari su aspetti che concernono in particolare le norme attuative del Job Act. Per come è presentata l’intera questione la Cgil intende quindi considerare il terreno della proposta di legge di iniziativa popolare come quello principale. Non c’è dubbio che solo in quel modo, e non attraverso referendum che possono essere solamente abrogativi, si può esprimere quella esigenza di rimettere mano alla ricostruzione di una normativa di tutela universale del lavoro. Ma allo stesso tempo appare illusorio sperare che una simile complessa legge possa passare in un Parlamento quale quello attuale. Del resto le proposte di legge di iniziativa popolare sono sempre rimaste lettera morta anche in periodi migliori.

Questo potrebbe e dovrebbe spingere la Cgil stessa ad impegnarsi in tutte le forme possibili per il successo sia del referendum oppositivo contro la “deforma” costituzionale che di quello abrogativo dell’Italicum. Ma soprattutto dovrebbe indurla a considerare i referendum sul lavoro non come un semplice accompagnamento della proposta di legge sul nuovo Statuto (nel merito della quale non è qui possibile entrare), ma il terreno fondamentale su cui ricostruire la credibilità e la rappresentanza stessa del sindacato. Per questo è decisivo che i quesiti che verranno scelti sappiano affrontare in pieno il problema della lotta alla precarietà.

In conclusione, la stagione referendaria che si sta aprendo – che peraltro si incrocerà con le elezioni amministrative in otto importanti città - appare nel suo complesso come il terreno dello scontro contro le politiche del governo, tanto sul versante della democrazia, quanto delle politiche sociali. Una sconfitta rappresenterebbe un consolidamento decisivo delle politiche neoliberiste in campo economico e di quelle neoutoritarie in campo istituzionale. Allontanerebbe ancora di più il nostro paese da quelli in cui sono in corso difficilissimi corpo a corpo con le politiche di austerity. Determinerebbe un sistema politico istituzionale ancora più chiuso e impermeabile alle istanze popolari. Una pietra sepolcrale sul “caso italiano”. Porrebbe lo stesso tema della costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra e di una rifondazione del sindacato in termini diversi e ancora più arretrati di quanto già non lo siano, anche per evidenti carenze soggettive, nella situazione attuale.

Appendice:
Articolo 138 Cost.
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

Articolo 70 Cost (testo attualmente vigente)
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.

Art. 10. (Procedimento legislativo) della legge costituzionale Renzi - Boschi
L’articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».

«La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati».

La Repubblica, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)

La strada fin troppo lunga verso un primo significativo riconoscimento delle unioni civili continua a incontrare ostacoli visibilmente pretestuosi anche quando si fa appello a grandi principi. È accaduto con la critica all’utero in affitto, con l’invocazione dei diritti dei minori e, infine, con il richiamo della libertà di coscienza. Ma la prova politica che comincia oggi in Parlamento deve liberarsi da strumentali richiami che vogliono impedire ancora una volta un risultato di civiltà della cui importanza e urgenza i cittadini sono ormai ben consapevoli.

La parola “coscienza” incontra sempre più spesso, e spesso ambiguamente, la politica. Per ragioni tra loro diverse. La volontà di affermare una forte convinzione morale o religiosa, l’intenzione di manifestare un dissenso politico, il fine di differenziarsi e di tenere vivo il pluralismo. È la rivendicazione di una libertà di scelta diversa dalla linea del partito o della maggioranza del gruppo parlamentare al quale si appartiene.
Una rivendicazione che non sempre viene accolta. Ce lo ricorda la vicenda di alcuni senatori del Pd che, durante la discussione sulla riforma costituzionale, chiesero di votare in maniera difforme dalla linea del partito, e si trovarono sostituiti nella commissione dove le votazioni si sarebbero svolte. Ma abbiamo appena assistito ad un apprezzamento della libertà di coscienza nelle variegate indicazioni sulle unioni civili, com’è accaduto, tra mille polemiche, per i senatori del Movimento 5Stelle. Intanto, si dilata l’area dove la richiesta di libertà di coscienza si manifesta, da quando le questioni “eticamente sensibili” hanno cominciato ad occupare il proscenio della discussione pubblica. Così questa libertà è stata invocata anzitutto per i parlamentari chiamati a dare le regole nelle materie del nascere, vivere, morire, dei limiti e delle responsabilità della ricerca scientifica, alle quali si sono poi aggiunte le scelte in materia costituzionale.
Il bisogno di richiamare esplicitamente questa libertà nasce dalla crisi di una storica prerogativa del parlamentare, quella di esercitare “le sue funzioni senza vincolo di mandato” (così l’articolo 67 della Costituzione). Ma, liberati formalmente da quell’obbligo, gli eletti hanno poi conosciuto il ben più stringente vincolo rappresentato dall’appartenenza ad un partito che, in sede parlamentare, si trasforma nell’accettazione della “disciplina di partito”. Un vincolo che può essere sciolto solo dallo stesso partito, o gruppo parlamentare, che di volta in volta, e in casi ritenuti eccezionali, può lasciare liberi i suoi di votare come meglio credono. Ma che cosa diviene una libertà di coscienza concessa dall’alto, subordinata al permesso dei superiori? Quanti parlamentari sono disposti a portare fino in fondo la loro richiesta, che diventa una sfida, costi quel che costi?
Per rispondere a queste domande, bisogna riferirsi al contesto, mutevole, nel quale si discute di libertà di coscienza. Negli ultimi tempi si è manifestata una forte nostalgia per il vincolo di mandato. Lo ha fatto esplicitamente, fin dalle sue origini, proprio il Movimento 5Stelle. E si è proposto di riconoscere anche in Italia il diritto degli elettori di revocare il mandato a singoli parlamentari, com’è previsto in altri paesi (negli Stati Uniti, ad esempio, sia pure con limiti e applicazioni del tutto rare). Sono reazioni evidenti ad un trasformismo parlamentare scandaloso e davvero senza precedenti, frenato in un passato neppure troppo lontano dall’esistenza dei partiti di massa e dalle forti connotazioni ideali che ne costituivano il cemento. Scomparsi quei partiti, sostituiti da oligarchie con bassa legittimazione popolare, ecco riemergere un bisogno di rapporto diretto tra elettori e eletti, per garantire un controllo sull’azione dei parlamentari e per inserire così proprio un embrione di democrazia diretta nel contesto in crisi di quella rappresentativa. Non a caso i parlamentari5Stelle sono definiti “portavoce”, e non “rappresentanti” dei cittadini.
Il tema della libertà di coscienza deve essere valutato in questo quadro di tensione tra difesa dell’autonomia del parlamentare (non posso “portare il cervello all’ammasso”, si diceva un tempo), coerenza dell’azione politico-parlamentare e suo controllo diffuso. Dobbiamo concludere che, in questa dimensione, la coscienza individuale ha le sue ragioni che la ragion politica non conosce?
Diciamo piuttosto che siamo di fronte alla necessità di ripensare lo stesso ruolo del parlamentare, per il quale la libertà nel voto può essere un modo per arricchire la discussione pubblica. Si tocca così il nodo aggrovigliato del voto segreto, sempre più presentato come un ostacolo alla trasparenza e alla moralità del parlamentare. Ricordiamo, però, che il parlamento italiano è diventato, e rischia di rimanere, un parlamento di nominati da una élite ristretta, sempre più incline a premiare la fedeltà e a restringere ogni possibilità di dissenso. So bene che uno spazio sottratto all’occhio dell’opinione pubblica è assai più luogo di imboscate e di manovre inconfessabili che opportunità per l’agire libero. Ma possiamo risolvere un problema reale negando che esista?
Vero è che gli impegni assunti dai partiti nei confronti dei cittadini che li hanno votati esigono poi comportamenti collettivi in grado di rispettarli, sì che non tutto può essere rimesso alla variabile opinione del singolo parlamentare. È comprensibile, quindi, che vi sia una valutazione politica dei casi in cui le ragioni della coscienza individuale possono prevalere sull’omogeneità dei comportamenti di gruppo. Ma quando le decisioni parlamentari diventano norme che incidono direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista.
Qui la libertà da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi stabilisce le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: la libertà di scelta dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone, di espropriarle del diritto fondamentale all’autodeterminazione. La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati. E, in questo caso, fermarsi, senza doversi poi porre aggrovigliati e impropri problemi di libertà di coscienza. La discussione sulle unioni civili si sarebbe giovata assai di questa consapevolezza.
Questa linea non è volta a confinare ciascuno nella sua sfera privata, ma pone in modo corretto il rapporto tra sfera privata e sfera pubblica che, per essere riconosciuta, non deve affidarsi alla propria invadenza. Al contrario, la sua legittimità deriva in primo luogo dal rispetto per la competenza delle persone. Martha Nussbaum, concludendo la sua appassionata analisi della libertà di coscienza americana, ci ricorda che «l’eguale libertà di coscienza è difficile da creare, e ancor più difficile da realizzare ». Punto cardine del modo laico d’intendere il rapporto del cittadino con l’intero sistema istituzionale.
«Berlino. Presentato alla Volksbühne il movimento Democracy in Europe Movement 2025(DiEM). Lo stile post-ideologico dell’economista greco: il suo appello rivolto ai radicali, democratici, verdi, alla sinistra».

Il manifesto, 10 febbraio 2016

L’attenzione mediatica per l’avventura di Yanis Varoufakis a Berlino non è certo mancata. Sala strapiena, giornalisti in coda, domande a raffica: così la conferenza stampa che ha aperto il meeting organizzato alla Volksbühne di Berlino per la presentazione del manifesto di DiEM 2025 («Democracy in Europe Movement 2025»). È un testo che ha l’ambizione di aggregare intorno a un programma pluriennale di democratizzazione dell’Unione Europea movimenti sociali, forze politiche, circoli intellettuali, associazioni, lavoratori della conoscenza, e artisti attivi sulla scena continentale.

Le risposte di Varoufakis sono state di estrema chiarezza ed efficacia soprattutto su un punto che figurava tra i più delicati: ovvero il rapporto tra la sua iniziativa e le posizioni che in diversi Paesi europei di fronte alla gestione neoliberale della crisi puntano a un recupero della sovranità e della moneta nazionale. Si tratta di posizioni condivise anche da diverse forze della sinistra, tradizionale e non. Per fare i nomi più noti che sostengono simili punti di vista si possono ricordare Oskar Lafontaine in Germania e Jean-Luc Mélenchon in Francia. La posizione dell’ex ministro delle finanze greco su questo punto è stata di inequivocabile rifiuto. Al centro della sua iniziativa c’è l’obiettivo di una ripoliticizzazione dello spazio e delle istituzioni europee, come antidoto alle tendenze alla frammentazione, alla chiusura e alla competizione. In poche parole come antidoto alla deriva verso una riedizione “post-moderna” degli scenari degli anni Trenta, un rischio su cui ha spesso insistito. Del discorso nazionale non possono che avvantaggiarsi le destre più o meno estreme, come del resto gli orientamenti elettorali in Europa ci stanno ripetutamente dimostrando.

La giornata di presentazione di DiEM alla Volksbühne si è articolata in lunghe conversazioni tematiche, secondo il modello di una jam session a cui hanno partecipato attivisti e intellettuali, operatori dei media, sindacalisti ed esponenti di innovative esperienze municipali, a partire da quella di Barcellona. Nessuno in rappresentanza di organizzazioni o gruppi, ma tutti provenienti da una pluralità di esperienze collettive. La discussione ha preso le mosse da una «mappatura cognitiva» della crisi europea, per poi concentrarsi su un’analisi più specifica della situazione economica e su quello che potrà essere nei prossimi mesi il ruolo di DiEM. La giornata si è conclusa con l’effettivo lancio del manifesto, in una sala affollata da centinaia di persone, con schermi allestiti all’esterno per coloro che non hanno trovato posto. Ne parleremo domani.

Durante la conferenza stampa, così come durante «talk real» (il talk show organizzato da Europan Alternatives, a cui ha partecipato lunedì sera), Varoufakis ha adottato uno stile marcatamente «post-ideologico», quasi da liberal di oltre Oceano. Non ha certo taciuto la sua militanza nella sinistra, ma si è rivolto a «tutti i democratici, liberali, verdi o radicali che siano». Poiché la questione al centro della governance europea, ha insistito Varoufakis, è un plateale svuotamento della democrazia, con la totale esclusione dei cittadini – del demos – dai processi decisionali. In quest’ottica l’esperienza dell’anno 2015 in Europa è stata illuminante, tanto per lo scontro tra il governo greco e la troika dei creditori quanto per la cosiddetta «crisi dei migranti» e i suoi riflessi sui rapporti tra i Paesi membri dell’Unione: l’acuirsi della frattura tra Est e Ovest, che si aggiunge a quella tra Nord e Sud, le crepe sempre più vistose all’interno dello spazio di Schengen. Quanto ai movimenti di profughi e migranti verso l’Europa, Varoufakis ha espresso ancora una volta posizioni molto chiare: di fronte a chi fugge dalla guerra e dalla povertà «non si possono fare calcoli costi-benefici» e l’Europa non può sottrarsi al dovere di fare i conti con la propria storia. Una storia che attraverso il colonialismo ha cambiato irreversibilmente gli equilibri mondiali.

L’ambizione che caratterizza il progetto di DiEM non è affatto modesta. Non si tratta infatti di un semplice appello alla difesa delle forme e delle procedure democratiche. Al contrario, è il contenuto sociale del processo quello che sostanzia politicamente la democrazia europea di cui qui si parla. A questo scopo la sinistra, così come la conosciamo e a maggior ragione dopo le numerose sconfitte subite in questi anni, non ha forza sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è una radicale innovazione politica, capace di costruire materialmente una democrazia che non esiste su scala continentale e appare radicalmente svuotata di legittimità e contenuti su scala nazionale.

Da questo punto di vista, Varoufakis ha sottolineato la rilevanza essenziale – all’interno di un processo che si qualifica come «costituente» – dell’azione autonoma dei movimenti e delle lotte sociali. Non a caso, il suo soggiorno a Berlino è cominciato domenica, con un intervento all’assemblea di Blockupy, la coalizione che ha organizzato l’assedio dell’Eurotower a Francoforte lo scorso 18 marzo.

Un movimento per la democrazia in Europa continua ad avere numerosi ostacoli sulla sua strada sebbene se ne colga appieno l’urgenza. Ed è inevitabile che questo stato embrionale del movimento si rispecchi nel carattere ancora generico e indefinito della stessa rivendicazione di democrazia su scala europea. Di questo risente naturalmente allo stato attuale anche il progetto DiEM. E tuttavia la ricchezza della discussione che si è aperta a Berlino, l’eterogeneità dei partecipanti e dei linguaggi, la tensione e perfino l’entusiasmo che l’hanno caratterizzata indicano chiaramente l’apertura di una possibilità politica realmente nuova. Saranno i prossimi mesi a dirci quanto efficace.

«La cultura nasce nel momento in cui gli esseri umani, storicizzando la famiglia e quindi togliendola alla sua naturalità, creano il tabù dell’incesto. Sarà il primo atto di consapevolezza formativa, che darà inizio allo scambio fra tribù, e quindi a una concezione allargata, progettuale della famiglia. La quale, è un prodotto storico e come tale si trasforma».

Corriere della Sera, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)

Molti invocano la famiglia naturale, quasi fosse l’ultimo salvagente in un mare in tempesta. Ma siamo sicuri che la salvezza si trovi in quella che ci ostiniamo a chiamare la famiglia naturale? Ma che cos’è la famiglia naturale? Coloro che la invocano sostengono che è fatta di un uomo e di una donna che, accoppiandosi, danno vita a un bambino, il quale, crescendo avrà bisogno di una madre che gli insegnerà i sentimenti e di un padre che, con severità, gli indicherà la via del dovere sociale e spirituale. Ma cosa c’è di naturale in questa idea antiquata di famiglia? Certamente una divisione dei compiti a cui non si vuole rinunciare. Ma l’apertura agli studi e alle professioni ha modificato i ruoli: le competenze non sono più così rigidamente distinguibili.

Si discute se un bambino che abbia due padri possa andare incontro a degli squilibri psichici, ma non ci si chiede cosa possa provare un bambino di fronte al sempre più diffuso fenomeno del femminicidio. Eppure di famiglie «naturali» che si comportano in questo modo ce ne sono quasi 200 all’anno solo in Italia. Vorrei ricordare che nella famiglia naturale, come dicono gli storici, l’incesto era una pratica comune: padre con figlia, madre con figlio, fratelli con sorelle, l’accoppiamento era naturale, alla maniera degli animali.
La cultura, come spiega bene Bronisław Malinowski, nasce proprio nel momento in cui gli esseri umani, storicizzando la famiglia e quindi togliendola alla sua naturalità, creano il tabù dell’incesto. Sarà il primo atto di consapevolezza formativa, che darà inizio allo scambio fra tribù, e quindi a una concezione allargata, progettuale della famiglia. La quale, come diventa sempre più chiaro, è un prodotto storico e come tale si trasforma. Anzi la sua forza sta proprio nel piegare, vincere, indirizzare la natura per farne un prodotto adatto alle conquiste di ogni generazione. Quando la famiglia faceva parte di una comunità piccola e perennemente in pericolo di estinzione, l’omosessualità non poteva che essere proibita. Quando il mondo rischia di naufragare nei suoi stessi rifiuti, per sovrappopolazione, l’omosessualità viene tollerata, a volte incoraggiata.
Se la smettessimo di anteporre le ideologie alla realtà; se osservassimo con più umiltà le cose attorno a noi, forse ci sarebbero meno grida, meno veti, e più comprensione per chi vive una famiglia che per molti popoli è già una famiglia del tutto «naturale».
«L'archeologo e storico dell'arte contesta l'indirizzo della scuola e dell'università di oggi. E difende gli insegnanti, l'ozio creativo, e la storia come riserva di possibilità per il futuro».

Linkiesta.it, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)

Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un'altra storia, di cui abbiamo cercato di parlare nello speciale di questa settimana su Linkiesta).

Ma c’è un ma: siamo sicuri che sia la strada giusta? Sicuri di essere consegnati alle varie specializzazioni e alle tecnicità sia l’unico modello culturale sensato? «Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline di autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”» racconta a Linkiesta.it Salvatore Settis. Archeologo e storico dell’arte, già direttore della Normale di Pisa, dimessosi qualche anno fa dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali in polemica coi tagli alla Cultura del governo Berlusconi, Settis è ora in prima linea nella difesa di paesaggio e monumenti italiani. «Bisogna trovare un equilibrio tra lo specialismo e la visione generale -spiega-. La tendenza che si sta affermando nei sistemi educativi un po’ in tutto il mondo, ma in particolare in Italia è educare a “competenze” piuttosto che a “conoscenze”»

Fatti non fosti a viver come bruti, ma per seguir virtute et competenza?

Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando).

Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?
E poi non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza il dubbio. La scuola ci insegna delle cose, ma dovrebbe soprattutto insegnarci a dubitare di quello che essa stessa ci insegna.

E invece?
Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa.

A proposito di non-specialismi: quanto è stato importante per lei leggere disinteressatamente, senza un fine di studio. Così per piacere, e per avventura?
E’ essenziale per tutti. La curiosità intellettuale è il sale della formazione. Guai se uno dovesse leggere i libri o guardare i film che qualcuno gli ha ordinato di guardare o di leggere. Tutti inseguiamo delle curiosità senza scopo. E lo facciamo anche con gli esseri umani: se a una cena c’è una persona interessante ci parliamo. Così dobbiamo fare anche coi libri o con la formazione.

Cosa ne pensa degli slogan che erano cominciati con Berlusconi (“Inglese, impresa, internet”) e che proseguono con Renzi (“La buona scuola”)?
L’uno e l’altro slogan sono stati usati in modo superficiale e cinico per sostituire la sostanza. L’etichetta del brandy di lusso mentre nella bottiglia c’è quello del discount. Stesso discorso per il nostro presidente del Consiglio che ama la “Narrazione”. Narrare (in altri termini: raccontare balle) per persuadere gli ingenui. Basta parlare con qualche professore per accorgersi che la cosiddetta “buona scuola” non è una scuola buona: sono in condizioni di grave difficoltà da tutti i punti di vista.

Ecco, al di là dei problemi di reclutamento e del trattamento economico. I professori ormai sono perennemente ingolfati di carte: schede di valutazione, moduli da riempire, piani formativi. Sembra quasi un controllo burocratico-contenutistico kafkiano sul loro lavoro. Cosa ne pensa?
Questo è un punto vitale, per tutte le categorie di professori: elementari, medie, superiori. E anche quelli universitari. E qui c’è un paradosso...

Ci dica...
La burocratizzazione del mondo avanza mentre gli stessi governanti continuano a dirci che stanno facendo una lotta dura e senza paura contro la burocrazia. Il fatto di dover riempire mille moduli, dover scrivere mille sciocchezze: è come se non ci si fidasse della responsabilità dell’essere umano. Un professore si giudica dai risultati, da come fa lezione agli allievi. Nel caso di un professore universitario c’è la ricerca. Che poi viene spesso valutata male.

Perché?
L’Amvur valuta gli articoli senza leggerli. Se esce in una cosiddetta rivista di serie A viene valutato bene, se no niente. E’ una sciocchezza: molti ottimi articoli specialistici escono in riviste di serie B o di serie C. Questo è un modo di ragionare che può uccidere la ricerca unversitaria.

Si dice che gli insegnanti abbiano troppe vacanze, che ne pensa?
Il lavoro intellettuale non si può quantificare o conteggiare. Tra i famosi otium e negotium non c’è soluzione di continuità. Un insegnante non deve essere valutato in base alle ore che fa di lezioni frontali. Chi le prepara? E il tempo che uno ci mette a prepararle chi lo conteggia?

Eh, chi lo conteggia?
Nessuno lo può conteggiare, appunto. Ma si rende conto che col sistema assurdo dei crediti formativi all’università si pretende di conteggiare il tempo che ci vuole a imparare un certo libro? Magari un libro di cento pagine io lo posso imparare in due ore e lei in mezz’ora. Abbiamo un sistema di valutazione che mortifica la diversità tra gli esseri umani. Valutare in base alle ore presunte è una solenne sciocchezza. Questa è la vera perversione che sta facendo danni enormi, e ne farà sempre di più.

Va per la maggiore un modello culturale, un paradigma tecnico-scientificizzante, 2.0, 3.0, 4.0 secondo cui il passato è qualcosa di evitabile. E’ inutile. Sono “nevi dell’anno scorso” come diceva Francois Villon. Ecco, professor Settis: a cosa serve il passato?
Il passato delle comunità, cioè la Storia, serve esattamente alla stessa cosa a cui serve il passato dell’individuo. A quelli che dicono che il passato non serve a nulla vorrei proporre di essere sottoposti all’espianto del proprio cervello, in modo che non sappiano più chi sono, chi sono i genitori, cosa hanno fatto prima. Il nostro presente, le parole che usiamo anche per fare conversazione, ora, vengono dal nostro passato. Anzi da un passato che non è solo il nostro: noi due in questo momento stiamo parlando in una forma molto modificata di latino. La realtà è costruzione del futuro nel presente usando ingredienti che vengono dal passato. Se ignoriamo questo siamo culturalmente morti.

Il passato non è nostalgia o atteggiamento reazionario, ma è una forza critica per non essere schiacciati dalle ideologie, per non finire come “generazioni di neoprimitivi” di cui cantava Battiato in Shock in my town?
Pierpaolo Pasolini usava una formula bellissima: «La forza rivoluzionaria del passato». E’ un serbatoio di possibilità, di idee. Capiamo che c’erano in Toscana delle città stato, e a un certo punto Firenze si è imposta ed è diventa la capitale del Granducato. Ma non è impensabile che si imponessero altre famiglie sui Medici, e magari venisse fuori un granducato con capitale Siena, o Pistoia, o Pisa. Dante ha finito la Commedia ma poteva non finirla.

Trovare le possibilità inespresse in quello che è successo, per proporre qualcosa di diverso nel presente?
Il passato ci svela le alternative. E’ la possibilità di vedere il mondo sulla base di una visione laica e generosa della società.

Isadora Duncan ha inventato i suoi passi di danza guardando i dipinti vascolari greci. Lei, che non balla, ma fa l’archeologo e lo studioso, ha allestito una mostra di arte antica alla Fondazione Prada. Più che la conoscenza puntuale di una serie di procedure e strumenti già pronti serve immergersi in quello che la storia ha suggerito senza svelarlo del tutto?
Ho cercato di rispondere all’invito di Miuccia Prada con una mostra di arte antica su un tema contemporaneo: la serialità. Sono arrivati artisti contemporanei convinti che l’arte antica non potesse dire più nulla, ed erano stupiti di come queste statue ancora abbiano da dire. Usiamo in continuazione ingredienti che arrivano dal passato anche se non ce ne accorgiamo. Il passato è libertà.

Chi sono le ragazze e i ragazzi che da tutto il mondo, come Giulio Regani, inviano le loro testimonianze e informazioni al

manifesto, e perchè sono un po' speciali. Il manifesto, 7 febbraio 2016, con postilla

Non è un caso che vittime della barbarie politica del nostro tempo siano così spesso persone che scrivono e vogliono scrivere dall’estero per il manifesto. Se si eccettua Giuliana Sgrena, che era ed è giornalista, e ha subìto la drammatica vicenda che conosciamo, giornalisti non erano né Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza dopo una consolidata collaborazione, né Giulio Regeni che aveva appena cominciato ad avvicinarsi al manifesto che considerava il suo «giornale di riferimento in Italia».

È perché - con le eccezioni dei nostri Anna Maria Merlo, Michele Giorgio, Luca Celada, Giulia d’Agnolo Vallan, Geraldina Colotti (senza dimenticare collaboratori «storici» come Roberto Livi) – quasi tutti gli altri autori dei tanti reportage dall’estero che leggete sul manifesto spesso sono «volontari» del giornalismo, giovani (quasi tutti) che nei paesi di cui scrivono vivono perché titolari di una borsa Erasmus, o perché dottorandi e ricercatori, oppure perché cooperanti impegnati con qualche Ong.

Con tutto il rispetto per i miei colleghi iscritti all’Ordine, spesso bravissimi, debbo dire che il lavoro di questi nostri «inviati» diversi ha una qualità speciale: perché è frutto di una quotidiana immersione nelle società in cui vivono e che, proprio per via di questa immersione, riescono a dare, oltreché notizie, il senso profondo del vissuto che solo può venire dalla quotidianità di rapporti umani, di lavoro così come di amicizia, di ambienti lontani da quelli specificamente politico-istituzionali. Lo stesso Simone Pieranni, una delle colonne della redazione esteri, approdato nella redazione centrale ormai da un paio d’anni, è arrivato qui dopo esser stato in Cina per ben otto anni come ricercatore e freelance.

Si potrebbe dire che la povertà (finanziaria) del nostro giornale, acuisce da sempre l’ingegno: l’impossibilità di avere veri inviati e corrispondenti professionisti ci ha offerto una risorsa che, senza vana gloria, oserei dire che fa del servizio esteri de il manifesto uno dei migliori esistenti.

Non si tratta, intendiamoci, di «precari sfruttati dall’orrido padrone» che sarebbe la cooperativa.

Perché loro stessi non si sentono giornalisti, né spesso hanno alcuna intenzione di intraprendere questo mestiere. Sono persone cui piace socializzare con chi è restato in Italia quello che, di brutto e di bello, scoprono nel mondo; che è poi la ragione per cui sono andate ad esplorarlo.

Chi però ci aiuta in giro per il globo è naturalmente più esposto ai rischi delle repressioni locali, come lo sono i cittadini «indigeni» con cui hanno stretto rapporti, di cui finiscono per condividere la sorte.

Il caso di Giulio Regeni ne è la drammatica prova.

Tanto più drammatica se si pensa che Giulio era perfettamente consapevole dei rischi cui andava incontro scrivendo di una questione delicatissima come quella della condizione operaia in Egitto dove, pochi lo ricordano, proprio da una inedita ma assai estesa ondata di scioperi non ammessi partì, già molti anni fa, la prima ribellione al regime militare e liberista del Cairo. Ce lo dicono le sue mail, in cui chiedeva, per precauzione sua e dei suoi compagni, di firmare con uno pseudonimo.

Purtroppo le precauzioni non sono bastate. Abbiamo dato sul giornale, col suo vero nome, solo dopo la sua morte la corrispondenza che ci aveva mandato. Ormai ogni precauzione era inutile, e sarebbe stato assurdo non dire al mondo perché Giulio era morto, una testimonianza dovuta al suo coraggio e a quello di tutti coloro che operano nelle difficilissime condizioni in cui vive tanta parte del mondo.

Lo dovevamo a Giulio Regeni, non solo perché questo suo scritto è la prova più lampante del carattere tutto politico di un assassinio che le autorità egiziane cercano di spiegare altrimenti, ma per testimoniare, più in generale, dell’importanza del ruolo svolto da tanti ragazzi che in paesi lontani e difficili non si rassegnano a chiudersi nelle loro private faccende ma si danno da fare per contribuire a cambiare il mondo.

postilla

Ha perfettamente ragione Luciana Castellina nel mettere in evidenza la particolare qualità delle ragazze e dei ragazzi del manifesto. Ma scaverei un po' più a fondo in questa giusta riflessione. Io penso che questi "inviati speciali" condividono con non molti altri italiani una grande prerogativa: quella di essere liberi. Ci sono molti, credo moltissimi italiani che, per conoscenza diretta perchè spesso legata al lavoro che fanno, vengono a sapere di cose storte: decisioni sbagliate che qualcuno al di sopra di loro ha preso e sta per prendere. Magari s'indignano, ma sottovoce. Perchè? perchè in Italia è diventata estesissima l'area del ricatto, e sempre più limitata l'area della protezione. Spesso le condizioni di vita rendono invalicabile quel limite che divide il silenzio dal coraggio, altre volte subentra un'altra calamità dei nostri anni: il fatto che decenni di martellamento abbiano plasmato un nuovo senso comune: la difesa miope dell'IO ha sopraffatto l'attenzione lungimirante all'altro, e soprattutto al NOI.

Un graffiante e argomentato documento femminista di Alessandra Bocchetti, Ida Dominijanni, Bianca Pomeranzi, e Bia Sarasini squaderna questioni drammaticamente aperte delle civiltà contemporanee.

L'internazionale online, 3 febbraio 2016

Una mano nera si allunga sotto le gambe inguainate in un collant bianco di Angela Merkel fino a toccarle il sesso; la parte superiore del suo corpo è ancora coperta da una delle sue ben note giacche colorate, ma ormai, questo vuole dire l’immagine, la regina è nuda, messa in scacco dall’intrusione molesta dell’uomo nero. È il disegno pubblicato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung a commento e sigla dei fatti di Colonia. Al sessismo degli “uomini neri” che la notte di Capodanno hanno molestato le “donne bianche”, gli “uomini bianchi” rispondono con lo stesso sessismo contro la loro cancelliera.

Risposta oscena ma, nel suo estremismo, veritiera. Che avesse ragione Michel Houellebecq, nel suo pur assai misogino Sottomissione? Gratta l’odio dei maschi europei verso gli invasori islamici, e ci troverai l’invidia. L’invidia per la sottomissione delle donne di cui gli invasori, al contrario degli invasi, possono ancora godere. Un’invidia esattamente speculare a quella degli invasori per la libertà sessuale femminile di cui possono disporre gli invasi, facilmente intuibile sotto quel “desiderio d’occidente” che ha spinto gli aggressori della notte di Colonia a mimare a modo loro, violentemente, l’allegro e alcolizzato godimento che impazza in quella come in tante altre città europee a capodanno.

Dall’11 settembre in poi, dovremmo averlo capito una volta per tutte dalla scenografia hollywoodiana di quei due aerei che infilzarono le torri gemelle e stuprarono Manhattan (anche allora, guarda caso, si ricorse alla metafora dello stupro), gli atti di violenza e di terrore che in occidente vengono interpretati come se provenissero dall’altro mondo sono intrisi di tracce, tecniche, usi e costumi che provengono dal nostro. Altro che il ritorno delle tribù che qualcuno ha voluto vedere in azione a Colonia: la “superiorità” dell’occidente è dura a morire, e se non fa più ordine nel mondo reale detta ancora legge nell’immaginario globale. Gli “altri” vi si specchiano, anche quando le fanno violenza.

Fatti

Nel gioco degli specchi i fantasmi, si sa, sono di casa. E forse è per questo che sulla piazza di Colonia hanno preso forma e consistenza molto più rapidamente dei fatti reali. Sui quali c’è ancora, un mese dopo, parecchia nebbia. Di che cos’è accaduto quella notte sappiamo l’essenziale, ma parecchi particolari non secondari non li conosciamo e probabilmente non li conosceremo mai.

Un branco di giovani uomini, forse cinquecento forse mille, “di aspetto arabo e nordafricano”, ubriachi e assembrati dentro la stazione, si è riversato a gruppi nella piazza del Duomo circondando, derubando, palpeggiando e molestando pesantemente un centinaio di donne bianche perlopiù tedesche, da sole o in coppia con un’amica o con un uomo o in gruppo, il tutto nella completa passività della polizia che è stata a guardare senza rendersi conto di quello che stava accadendo, e comunque incapace di impedirlo.

Le ricostruzioni, basate sulle testimonianze femminili e sui rapporti della polizia medesima, descrivono dettagliatamente le molestie e le ruberie subite dalle donne; alcune vittime raccontano di aver temuto di rimetterci la pelle. Restano però aperti molti buchi. Chi erano, da dove provenivano, come erano arrivati lì quegli uomini, e perché li si era lasciati riunire nella stazione? Se erano tutti “di aspetto arabo e nordafricano”, come mai tra i 31 fermati per aggressione e rapina figurano anche uno statunitense e tre tedeschi? Erano anche loro nordafricani trapiantati negli Stati Uniti e in Germania, o la loro presenza segnala che bisogna andarci piano con le identificazioni fatte sulla base del colore della pelle?

Tra quei 31 fermati, 19 sono richiedenti asilo, e di questi uno solo è sospettato di molestie; secondo una testimonianza raccolta dal New York Times, inoltre, quella notte una turista statunitense è stata salvata da un cordone di siriani richiedenti asilo; qualche giorno dopo alcune centinaia di rifugiati siriani hanno manifestato contro la violenza, il razzismo e il sessismo. Questi numeri giustificano la messa in stato d’accusa della politica sui rifugiati di Merkel?

Ancora. La polizia, pur in stato di allerta contro il rischio di attentati, si è rivelata del tutto impotente a contenere e disperdere il branco di aggressori, e ha taciuto l’accaduto per quattro giorni, come pure la tv pubblica tedesca. Questa impotenza e questo silenzio si devono a una pruderie “politicamente corretta” a favore dei migranti, come s’è urlato in Germania e in Italia? O piuttosto alla sottovalutazione della violenza sessuale in un paese dove una donna su tre dice di averla subita da uomini che per il 70 per cento non sono arabi ma tedeschi, e in cui la notte di capodanno, come durante l’Oktoberfest, si chiude un occhio di fronte a qualche palpatina?

Infine ma non ultimo: violenze analoghe si sono verificate in contemporanea, quella stessa notte, in altre città tedesche e in Svezia, in Finlandia e in Austria, e questo fa legittimamente sospettare che si sia trattato di una provocazione concertata – un sospetto che a un certo punto è diventato una certezza, sparata sui giornali in prima pagina in Germania e in Italia, per poi essere smentita il giorno dopo. Possibile che i potenti mezzi dell’intelligence tedesca ed europea non sappiano rispondere sì o no a questo sospetto, pure cruciale per valutare l’entità dell’accaduto? Di nuovo: minimizzano per fare un piacere alla politica d’integrazione di Merkel, come sostiene l’opinione di destra? O perché considerano l’accaduto bagatelles pour dames, com’è lecito supporre?

Fantasmi

Non avremo mai risposta a queste domande, per la ragione molto semplice che la notte di Colonia ha ottenuto l’effetto che doveva ottenere a prescindere dallo svolgimento dettagliato dei fatti. E l’effetto consiste in una rapida e potente mobilitazione dell’immaginario europeo, nonché di quello islamico, in materia di sesso e razza: due fattori che quando si intrecciano, e oggi sulla scena globale si presentano sempre intrecciati, sono capaci di produrre miscele esplosive.

Sul versante islamico, ci auguriamo che non faccia testo la convinzione dell’imam di Colonia che le donne, quella notte, le molestie se le sono cercate, coperte com’erano più di profumo che di abiti: ma certo le sue dichiarazioni “estreme” la dicono lunga sul regime del dicibile che autorizza quella che dovrebbe essere una guida spirituale a istituzionalizzare la segregazione femminile (e del resto, come scandalizzarci? Quante volte il “se l’è cercata” giustifica tuttora, da noi, la violenza sessuale?).

Sul lato occidentale, l’antico fantasma coloniale della mano nera che violenta la donna bianca, ben rappresentato dal disegno del Süddeutsche Zeitung, è tornato a materializzarsi, aggiornato, in un’Europa ossessionata da frontiere vacillanti, migrazioni incontenibili, calo della natalità, pericolo terrorista, declino economico, impotenza neoliberale, fallimento politico.

L’aggiornamento del fantasma coloniale significa, in questo quadro, il suo automatico reclutamento nel presunto “scontro di civiltà” in corso. L’uomo nero diventa l’islamico che inferiorizza le donne, proprie e altrui, e attraverso l’attacco alle donne bianche attacca l’intera civiltà occidentale, che invece le donne le ama, le emancipa, le libera, le tutela con i diritti, le presidia con i “suoi” uomini, pronti a scendere in campo a difesa delle “loro” donne.

Ne consegue l’arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici: quelle che ad arruolarsi non ci stanno, quelle che sulla civiltà occidentale e sul suo amore per le donne nutrono qualche dubbio, quelle che la violenza contro le donne la vedono anche in occidente e non solo in Medio Oriente, quelle che sulla difesa dei “loro” uomini avanzano qualche sospetto, quelle che nei confronti delle donne musulmane non ergono il muro dei diritti conquistati o la montagna dei vestiti comprati agli ultimi saldi, ma lanciano il ponte di una tessitura comune della libertà femminile.

Noi femministe, in sostanza, iscritte d’ufficio al fronte nemico dell’ipocrisia “politicamente corretta” verso il fanatismo islamico. Salvo ritrovarsi poi, i nostri accusatori, con le statue del Campidoglio coperte in omaggio al presidente iraniano Rohani per decisione di stato o di governo.

Streghe

“Dove sono le femministe?”. Quando ancora le notizie da Colonia arrivavano goccia a goccia, è partita la caccia alle streghe. Trovato il colpevole numero uno, l’uomo nero, la grancassa mediatica, maschile e femminile, è partita alla ricerca della colpevole numero due, la femminista bianca. Rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende?) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini su qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”.

Le femministe, nel frattempo, a Colonia erano già per strada, a manifestare contro il sessismo e contro il razzismo insieme. E ovunque, in Europa e fuori dell’Europa, erano all’opera per fare il contrario dei talk show e della stampa generalista: capire una situazione nuova e complicata e interpretarla non istericamente, due cose che l’isteria massmediatica non contempla.

E parlavano ovunque potessero, cioè fuori del circuito ufficiale dell’informazione che non le interpella in modo da poterle accusare di stare in silenzio, di essersi dileguate, di non esistere, di avere perso. Parlavano e dicevano quello che ovunque, a est a ovest, a nord e a sud, vanno dicendo dall’11 settembre in poi: che non si lasciano arruolare in nessuno scontro di civiltà per la buona ragione che le civiltà in questione sono entrambe marcate dal patriarcato, entrambe fratturate al loro interno dalla contraddizione fra i sessi ed entrambe segnate, positivamente, dal conflitto tra i sessi innescato dalle donne.

Ragion per cui la trave nell’occhio dell’altro non ci esime dal guardare la pagliuzza nel nostro. E l’orgoglio per le nostre conquiste di donne occidentali non ci esime dal riconoscere le battaglie di libertà delle donne non occidentali.

Monopòli

Non c’è il monopolio islamico della violenza e dell’inferiorizzazione femminile. E non c’è nemmeno il monopolio occidentale e democratico della libertà femminile.

Le molestie della notte di Colonia evocano a tutte noi situazioni molto familiari. Gli sguardi eccitati e fra loro complici degli uomini che tuttora si ritrovano da soli nei bar dei nostri paesi. I branchi di giovani maschi che molestano le studentesse, e talvolta le stuprano, nelle nostre scuole. Il senso di insicurezza e vulnerabilità che ci accompagna specialmente la notte per strada, come una seconda pelle. I racconti di stupri, violenze, femminicidi che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. I fraintendimenti maschili sulla disponibilità sessuale femminile che riempiono la posta del cuore dei nostri settimanali.

Potremmo continuare ma non serve: la violenza di uomini contro le donne è, purtroppo, uno dei pochi esempi di comportamento universale che il mondo globale ancora conosce. E non diminuisce ma tende addirittura ad aumentare nei paesi dove l’emancipazione femminile è più consolidata. La hybris maschile non si ferma davanti ai diritti costituzionalmente garantiti, alla parità di genere, alla cittadinanza, all’attività lavorativa e al protagonismo politico delle donne: al contrario, sembra che se ne alimenti, forse perché ne ha paura.

Questo significa che non c’è nessuna parentela automatica, nessun rapporto di causa-effetto tra la civiltà occidentale e la libertà femminile. La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale.

Le democrazie contemporanee registrano a fatica questa conquista, traducendola e spesso tradendola nel linguaggio della parità e dei diritti. Ma tra la libertà femminile e gli ordinamenti occidentali resta aperta una tensione: la libertà femminile resta affidata in primo luogo alle donne stesse, alle loro lotte e alla loro autonomia. Men che meno è possibile identificare la libertà femminile con la libertà di mercato o con un non meglio precisato “stile di vita occidentale”, come l’ideologia neoliberale martellante ci invita a fare dalle colonne dei principali giornali italiani.

Vestirsi o andare al cinema e in discoteca a proprio piacimento sono certo cose piacevoli e irrinunciabili, ma possono sottintendere condizioni di dipendenza dal mercato, dal denaro, da canoni imposti, dallo sguardo altrui che hanno poco a fare con la libertà esistenziale e politica che abbiamo guadagnato con il femminismo. L’occidente non è l’Eden della libertà femminile: ed è solo assumendo questa posizione critica nei confronti della “nostra” civiltà che possiamo sporgerci su altri mondi, o sull’impatto di altri mondi con il nostro.

Differenze

Quando diciamo o scriviamo queste cose, alcune amiche ci rimproverano di usare il patriarcato come categoria universale indifferenziata, finendo col fare di ogni erba un fascio senza vedere che il patriarcato si intreccia con differenti sistemi di dominio, si cristallizza in differenti gradi di oppressione femminile e di sopraffazione maschile, domanda differenti strategie di lotta. Non è così. Siamo ben consapevoli, tristemente consapevoli, che oggi la radicalizzazione politico-religiosa peggiora la vita delle donne nei paesi islamici, legittimando su base ideologica il dominio maschile.

Siamo consapevoli che la violenza sulle donne è diventato per il gruppo Stato islamico e per Boko haram uno spietato carosello pubblicitario, che sulle donne di piazza Tahrir si è scaricata la frustrazione maschile di una rivoluzione perdente, che in paesi come l’Afghanistan taliban le donne sono di nuovo costrette a una segregazione che sembrava essere stata superata. E sappiamo di essere inadeguate di fronte a questi come ad altri effetti delle guerre e del disordine mondiale di oggi, perché le guerre impediscono in radice quella pratica di relazione con l’altra che nella politica delle donne è irrinunciabile e che l’indignazione e gli attestati di solidarietà, per quanto urlati, non possono sostituire.

Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza. Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti. Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.

Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica. Laddove si creano ghetti di soli maschi, che siano islamici o no, il pericolo del branco è sempre in agguato. Laddove si organizzano e si tollerano tratte femminili, la prostituzione e il suo sfruttamento sono garantiti. E tuttavia, ci sarà pure da riflettere di fronte al fatto che è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale.

Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.

Questa almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.

Cori noir

È bastata l’aggressione di una notte a Colonia e nelle altre città coinvolte per trascinarci in un baleno tutte, occidentali e nordafricane, nella casella delle vittime designate, pericolanti e perdenti del supposto “scontro di civiltà” in atto. Ma la vittimizzazione delle donne è una delle più frequenti strategie del loro addomesticamento: serve a nascondere e a deprimere la soggettività femminile e le pratiche sociali, politiche, artistiche in cui si esprime.

Ovunque oggi, in un quadro planetario attraversato da faglie, guerre e mutamenti inediti, le donne lottano per la propria libertà, ovunque aprono conflitti con l’altro sesso, ovunque escono dagli schemi imposti, ovunque tradiscono le ingiunzioni normative sulla loro esistenza, ovunque intrecciano relazioni con donne di cultura e provenienza diverse. Questo “ovunque” vale da mezzo secolo in qua, lo ricordiamo a quanti sui mezzi d’informazione ci danno per morte e per sconfitte ogni volta che possono, nelle democrazie occidentali. Ma vale oggi, in primo luogo, per il mondo musulmano.

Lo sappiamo da analiste competenti, che inascoltate ci spiegano le differenze, le articolazioni, le combinazioni tra legge religiosa e leggi statuali interne a quel mondo, e le connesse differenze nella condizione, nella soggettività e nella rivolta femminili. Lo sappiamo dalle migranti che incontriamo nella nostra quotidianità, dalle storie che ascoltiamo nei centri antiviolenza a cui le più sfortunate si rivolgono per trarne la forza di ribellarsi a un padre o a un marito o un fratello, dalle testimoni sopravvissute alle guerre, dalle protagoniste delle rivolte.

Lo sappiamo dai racconti delle scrittrici, dalle opere delle artiste, dai film delle registe, dal pensiero delle filosofe, dalle letture del Corano delle teologhe. E sappiamo anche che la strada della libertà delle donne musulmane non passa sempre né necessariamente per la loro occidentalizzazione, vale a dire per un’emancipazione laica, giuridicamente assistita dalla sintassi dei diritti e dalla retorica della parità, e tanto ribelle all’ingiunzione a velare il corpo femminile quanto obbediente all’opposta ingiunzione a scoprirlo.

Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.

C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.

Nel mondo globale la legge del padre, che nella modernità ha assicurato il suo supporto simbolico agli ordinamenti politici e statuali, non fa più ordine. In questo disordine si aprono molti varchi per atti di violenza maschile nostalgici e reazionari, ma se ne aprono altrettanti per costruire pratiche di libertà femminile e reti di relazione tra donne, che tradiscono l’appartenenza a questa o quella civiltà e ai rispettivi feticci e inventano forme inedite di politica basate sullo scambio, il conflitto e la mediazione tra esperienze, storie, radici, orizzonti di senso differenti.

Bocche velate

L’ascolto dell’altra e dell’altro, della sua esperienza e della sua storia, delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi traumi e delle sue risorse, è una condizione necessaria per ritessere la trama della civiltà in una direzione opposta allo scontro tra le civiltà. Non ci aiuta e anzi ci è di ostacolo, in questo, il frastuono della macchina mediatica italiana, tutta programmata non per ascoltare ma per urlare.

Abbiamo già detto della caccia alla strega femminista che è scattata subito dopo i fatti di Colonia, una strega accusata, senza essere interpellata, di silenzio colpevole, di connivenza con l’ipocrisia favorevole ai migranti politicamente corretta, di usare due pesi e due misure contro gli uomini di casa sua e contro gli stranieri. Ma non è un problema che nasce a Colonia: questo schema si ripete, insopportabilmente uguale, a ridosso di qualunque evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi. La molla che scatta è sempre la stessa, il tentativo di liquidare il femminismo e le femministe decretando che hanno perso e distorcendone o sminuendone le posizioni.

La futilità programmatica che non da oggi caratterizza buona parte del giornalismo italiano si fa, quando c’è di mezzo il femminismo, più approssimativa e grossolana. Come se parlando di donne tutto fosse lecito, come se la cronaca non avesse precedenti, come se la parola femminile non contasse niente, come se le posizioni politiche e culturali femministe non avessero il diritto alla distinzione, all’analisi, alla discussione che si riserva alla chiacchiera maschile: e soprattutto come se non esistessero nella loro autonomia, ma solo come appendici subalterne della sinistra e della destra, o comunque di schieramenti e conflitti disegnati altrove.

Un immaginario misogino, maschile e femminile, prende così il posto dell’analisi della realtà. E la delegittimazione del femminismo diventa una posta in gioco, nient’affatto secondaria, di qualunque “guerra culturale”: accompagnata, va da sé, dalla promessa che ci penseranno i “nostri” uomini, d’ora in poi, a difenderci da quello che non siamo in grado di contrastare noi.

Questa prassi corrente dei mezzi d’informazione mainstream non è meno violenta delle mani maschili che si sono infilate sotto i vestiti delle donne la notte di Colonia. E dice, torna a dire, che ogni qual volta è sotto attacco il corpo femminile, è la parola femminile il vero obiettivo, la vera minaccia, il target da abbattere: qui, nell’occidente della libertà di espressione, non lì, nel Medio Oriente delle bocche velate. Abbiamo scritto questo testo per mostrare che quella parola è viva e non si lascia silenziare.

Qui è possibile scaricare il pdf di questo articolo. Qui c’è la traduzione in inglese.

Prime adesioni: Maria Luisa Boccia, Maria Rosa Cutrufelli, Elettra Deiana, Sara Gandini, Diana Sartori, Tamar Pitch, Chiara Zamboni, Luana Zanella, Edda Billi, Maria Brighi, Paola Mastrangeli, Rosanna Marcodoppido, Marinella Perroni, Ilaria Fraioli, Carlotta Cerquetti, Giovanna Borrello, Sandra Macci, Daniela Dioguardi, Vittoria Tola, Susanna Menichini …

«L’11 febbraio a Napoli un convegno accende i fari sulla crisi dell’università sistema burocratico dominato da cordate e gruppi di potere. Sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?» Amministrare l'esistente o progettare il futuro?

Il manifesto, 3 febbraio 2016

Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea.

Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?

Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine.

Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.

Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. E’ capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.

Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.

Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.

Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?

Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).

Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.

Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente….».

Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte!

Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Di ritorno da Parigi,dove sta provando asventare la costruzionedi un mega McDonald's,Carlin Petrini rispondeal telefono e cominciacosì: «Vuole parlare delle riformecostituzionali? Io nonsono un tecnico, ma pensoche sia giusto dire quel che sipensa. Per senso civico. Hochiamato Gustavo Zagrebelskye gli ho detto che avrei sostenutole ragioni del Comitatoper il No. Mi sembra importante,nel momento in cuisi vogliono apportare modifichecosì significative al sistemademocratico, ascoltarecoloro che hanno dedicato unavita a studiare la Costituzione.E sento un fronte unitoe numeroso di professori chenon sono soltanto scettici, malanciano allarmi preoccupanti».

Perché è contrario?
Partiamo dal metodo. Il presidentedel Consiglio ha impostatola campagna sul referendum- sin da ora - come unplebiscito sulla persona. Ehno, non funziona così: la gentevaluterà l'operato dell'esecutivoalle elezioni politiche. Qui in discussione ci sono lenorme che regolano le istituzioni,dentro le quali il popoloè rappresentato. Qui non sidecide se l'azione politica delgoverno è buona o cattiva, sidecide del funzionamentodella democrazia, a prescindereda questo o quel governo.Aggiungo che Renzi stacommettendo un errore: nonsono per niente sicuro che icittadini si faranno “prendereper la giacchetta”, “o conme o contro di me”. Potrebbeavere un'amara sorpresa.

I costituzionalisti hannomesso in relazione la leggeelettorale per la Camera conla riforma del Senato.
Lo sbilanciamento verso ilgoverno sarà forte. E questonon va bene: se si creano regoleche lasciano ampi spazidi manovra senza controlli,bisogna pensare che questimargini larghi in futuro potrebberoessere utilizzati dapersone poco attente. O meglio:molto attenta al propriopotere, ma non al bene comune.Alla fine - tra Italicum eriforma Boschi - il risultatosarà un premierato forte conpochissimi contrappesi econtrolli tra poteri: il contrariodi quel che era nelle intenzionidei padri costituenti. Lanostra Carta è stata spessodefinita la più bella del mondo.

Eccome: Benigni ci ha fattouna trasmissione per la Rai.Però ha detto che voterà sì alreferendum.
Come cambia idea velocemente la gente! Posso dirlesolo che se devo esprimermisulla Costituzione ascoltoprima e con più attenzioneRodotà e Zagrebelsky del mioamico Benigni.

Antonio Padellaro sul ha lanciato l'idea di uno spotper invitare i cittadini a votareno: sarà difficile per chisi oppone contrastare lanarrazione renziana.
Tutto vero, ricordiamoci peròche nel 2006 la riforma costituzionaledi Berlusconi èstata bocciata dal popolo propriocon il referendum. Mancanootto mesi alla consultazione:la gente ha tempo d'informarsie di maturare opinionidiverse. Non darei nullaper scontato.

Una delle obiezioni mosse aicostituzionalisti è di essereconservatori perché non voglionomai cambiare nulladella Costituzione.
Non mi risulta che sia vero.Tanti di loro hanno ripetutoche questa è stata un'occasionepersa, proprio perché pensanoche ci siano meccanismida modificare: è un'affermazioneche condivido. Per esempionon è vero che sonocontrari a questo nuovo Senatoperché vogliono mantenereil bicameralismo perfetto.Poi non mi è piaciuto il modosbrigativo con cui è stataportata avanti la discussionein Parlamento sulla riforma.La Costituzione è una cosadelicata, va maneggiata concura. Non con fretta.

«Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione».

Il manifesto, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

L’articolo di Piero Bevilacqua sulla parcellizzazione dei saperi (il manifesto, 28 gennaio) offre un’analisi e una proposta su cui lavorare. Sul processo che ha portato il neoliberismo a diventare «la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo» e sulle conseguenze che ciò comporta è forse è utile qualche considerazione. Il punto partenza, a mio avviso, è da ricercare nella crisi del capitalismo dei consumi, giunta al punto limite già nei primi anni ’70. Il segno più evidente fu la diminuzione dei tassi di profitto che si registrò in tutti i settori, negli Usa, in Europa e in Giappone.

Quella crisi richiedeva profonde innovazioni nei modi di produzione, nell’organizzazione del lavoro e nei sistemi di vita. Invece, i gruppi economici e politici dominanti preferirono una risposta decisamente conservatrice. Un aumento dei margini di profitto fu cercato attraverso un ancor più intenso sfruttamento e mercificazione del lavoro e delle risorse naturali. E non c’è dubbio che tutto ciò ha favorito la piena affermazione del paradigma neoliberista fino a farne la cifra dominante della scena economica, sociale e politica nei paesi del capitalismo storico per più di un trentennio, estendendo la sua influenza in quelli di nuovo sviluppo, condizionando gravemente quelli più poveri e troneggiando nelle maggiori istituzioni economiche e politiche internazionali.
Il neoliberismo trionfante (sia quello aperto e proclamato dai governi conservatori, come il suo camuffamento nella cosiddetta "terza via") ha garantito il prevalere pressoché incontrastato della razionalità contingente, utilitaria e strumentale propria del capitalismo. Un capitalismo che negli ultimi 35 anni ha potuto muoversi senza freni e controlli proclamando la superiorità del mercato auto-regolato, la necessità di un deciso arretramento dello Stato rispetto ad esso, finendo col determinare una sostanziale rinuncia della politica a svolgere le sue essenziali funzioni di guida e di scelta in vista di obiettivi d’interesse generale.
A quella logica irresponsabile, proprio perché schiacciata sul contingente e guidata da interessi parziali, oggi è quanto mai urgente contrapporre una nuova razionalità e consapevolezza storica capace di progettare un futuro migliore del presente, costruito sulla base dei bisogni autentici e delle aspirazioni profonde della grande maggioranza delle popolazioni, nel Nord come nel Sud del mondo.
Un altro punto, a mio avviso, molto significativo dell’analisi stimola un’attenta riflessione sull’alienazione estrema ormai raggiunta nel rapporto dell’uomo con la natura. Stiamo assistendo ad una crisi sempre più generalizzata che, non solo sacrifica i bisogni elementari ad altri bisogni, artificiali e gratuiti, determinando una vera e propria mutilazione dell’uomo, ma addirittura insidia i beni naturali che dovrebbero soddisfarli. Si tratta di forme di rapina che colpiscono bisogni primari nel modo più irreparabile, attraverso la rarefazione dei beni più vitali per l’intera specie, come l’aria respirabile, l’acqua potabile, la vegetazione, il suolo coltivabile. S’impone, perciò, una radicale conversione - teorica e pratica insieme - capace di operare quella riconnessione dell’uomo alla natura che è richiesta dagli stessi sviluppi della scienza e che riguarda direttamente il nostro possibile futuro.

Per muovere in tale direzione, è necessario ricomporre il rapporto d’intima appartenenza dell’uomo alla natura, contro ogni astratta e alienante idea di estraneità e dominio dell’uno rispetto all’altra. Questo mi sembra il presupposto epistemologico per «tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società» come auspica Piero Bevilacqua. Il proposito, quindi, di rendere possibile, su questa base, una rinascita e convergenza del pensiero critico aggregando energie in «una comunità cooperante di pensiero e ricerca» è, a mio avviso, necessario e possibile.

Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione. Lo strumento più idoneo potrebbe essere la creazione di un sito web dotato di un archivio in cui raccogliere materiale utile già prodotto e nel quale sia possibile inserire nuovi articoli, saggi, sintesi e segnalazioni di libri che si ritengano significativi per gli scopi indicati. Scopi che saranno inevitabilmente discussi, ridefiniti, arricchiti, com’è auspicabile che avvenga negli sviluppi di una battaglia delle idee viva ed aperta.

E’ probabile che si renda necessaria la costituzione di un gruppo di coordinamento composto da volenterosi che s’impegnino a tenere le fila dell’associazione. Penso ad un gruppo non numeroso e costituito sia da studiosi di maggiore esperienza che da ricercatori più giovani, in modo da valersi di attitudini e modi di operare in parte diversi e, al tempo stesso, felicemente complementari. Si tratta di un’impresa certamente impegnativa, ma irrinunciabile. Il neoliberismo si è dimostrato incapace dell’indispensabile e vitale opera di trasformazione che consente la riorganizzazione continua dei rapporti sociali e il rinnovamento della loro espressione politica. Senza di che, il sistema è avviato alla dispersione e al caos, ovvero alla fine entropica. Se esistono, come esistono, saperi ed energie capaci di contrastare questo disfacimento e di costruire nuove coordinate di senso per le scelte individuali e collettive, allora l’officina per l’egemonia è una buona occasione.

Il manifesto, 28 gennaio 2016

La mappa di studiosi italiani di varie discipline, che qui viene cartografata, nasce un po’ per gioco, un po’ per curiosità ricognitiva dell’arcipelago dei saperi dispersi del nostro paese.

Si tratta di una geografia tracciata alla buona, fondata su conoscenze personali, su rapide ricognizioni bibliografiche oltre che su qualche amichevole suggerimento. Dunque inevitabilmente lacunosa. Essa comprende per lo più docenti universitari di tutte le fasce, anche ricercatori precari, poche figure intellettuali autonome, alcuni docenti scolastici che possiedono un loro rilievo intellettuale e svolgono un ruolo importante di organizzatori culturali nel proprio territorio.

Un elenco, necessariamente incompleto (mancano artisti, editori, giornalisti, uomini di cinema e di teatro, personalità di spicco fuori dall’accademia) che vuole costituire solo l’occasione per l’avvio di una riflessione di carattere generale. Ci auguriamo che venga infoltito da chi non abbiamo incluso per ovvio riserbo o per dimenticanza.

Che cosa unisce queste figure tra loro così diverse per specifico peso intellettuale, per impegno militante e appartenenti a così diversi campi del sapere?

Un comune denominatore molto ampio, in grado di tenere insieme anche posizioni politiche distanti: la critica alla cultura neoliberistica, alle sue strategie e alle sue pratiche.

La messa in evidenza di tante intelligenze convergenti in un fronte culturale differenziato, ma comune, mostra una potenzialità egemonica resa inattiva dalla loro frantumazione. In assenza di un grande collettore politico generale, esse si disperdono individualmente nei singoli campi specialistici, senza riuscire a elaborare il progetto di controffensiva teorico-politica che la fase storica richiederebbe.

Appartiene ormai al senso comune il fallimento delle politiche neoliberistiche che hanno imperversato negli ultimi 30 anni. Ma vi appartiene ormai anche la constatazione della loro vitale persistenza pratica: benché la sostanza egemonica si sia dissolta, lasciando il posto al puro scheletro del dominio.

In verità, appare ormai evidente che il neoliberismo non è più tanto un corpo di dottrine, non sono soltanto i dettami di Ayeck o di Friedman, economisti defunti che dirigono ancora le menti dei loro colleghi viventi.

Il neoliberismo è la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo, è il capitalismo all’opera. Ma il suo fallimento storico, oltre che in tutto ciò che appare evidente – la crisi economica, le disuguaglianze crescenti, l’instabilità dei sistemi politici, lo svuotamento della democrazia, le guerre come mezzo di regolazione dei rapporti internazionali, i gravi squilibri ambientali –andrebbe considerato anche in un aspetto poco osservato, eppure di grande significato.

Le società capitalistiche contemporanee, al cui interno è sorta una così straordinaria varietà di saperi, di conoscenze, di orizzonti intellettuali – come quelli che figurano nella nostra parzialissima mappa — sono sempre più dominate, com’è noto, da un pensiero unico.

Tanta ricchezza dell’umana ricerca e intelligenza finisce per confluire, trova il suo fine ultimo, come in un paradossale imbuto, nel basso orizzonte di una razionalità prossima a una forma di ossessione. Di fronte alla inedita varietà delle forme e delle direzioni di lettura e rappresentazione del mondo, che i vari gruppi intellettuali oggi sono in grado di offrire, la razionalità capitalistica riduce e immiserisce la complessità, tende a imbrigliare la realtà sociale nelle maglie di pochi imperativi di dominio: supremazia dei mercati, competizione, efficienza d’impresa, capacità di prestazione, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato. E ormai sappiamo che non si tratta di regolamentazioni esterne al libero fluire della società, che consentono poi la piena espressione delle libertà individuali. Questo lo immaginavano illusoriamente i soci di Monte Pelerin.

Al contrario, esse plasmano e innervano l’intero universo delle relazioni umane, forgiano le soggettività, entrano nelle coscienze e le piegano al loro dominio unidimensionale. E infatti appare evidente come gli individui “resi liberi” dalla razionalità capitalistica non solo annaspano in una società agonistica e desertificata, ma sono compulsivamente spinti nel tunnel di un unico scopo replicativo: produrre e consumare sempre di più.

Le necessità elementari dell' homo sapiens, quelle che sono state la base della sua sopravvivenza, produrre e consumare, per l’appunto, sono diventati gli obblighi ossessivi degli individui nelle società capitalistiche mature.

A partire da tale constatazione si dovrebbe comprendere quale rilievo politico di portata strategica viene ad assumere il dialogo tra le discipline e i saperi per ricomporre una razionalità generale contrapposta alla desertificazione nichilistica presente.

Dialogo reso drammaticamente urgente da una constatazione a cui non ci si può sottrarre. La maggiore minaccia globale che si erge davanti a noi, il riscaldamento climatico, è stata resa possibile anche dalla direzione che hanno preso le scienze contemporanee, impegnate, ciascuna nel proprio ambito, a indagare e manipolare la natura smembrata in campi separati (della chimica, della botanica, della fisica, della genetica, ecc) a fini di dominio economico. Nessuna di esse ha guardato alla natura come a un tutto connesso, un sistema di equilibri da pensare nella sua totalità. Non per nulla l’Onu ha istituito l’Ipcc, consesso mondiale di saperi multidisciplinari per lo studio del clima, a fini di previsione e di riparazione del danno compiuto.

Dunque, per venire ai possibili scopi operativi, costituirebbe un passo importante mettere insieme, anche solo con una organizzazione in rete, un’associazione i cui membri, pur da posizioni politiche differenti, si sentissero impegnati a dialogare sul piano teorico e culturale.

L’obiettivo da perseguire è una critica multidisciplinare della razionalità neoliberista, tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società.

Una Lega Italiana Contro il Liberismo, anche nella sua forma virtuale, otterrebbe già il risultato di rendere visibile ciò che oggi è disperso, di attrarre e aggregare energie, rendere possibile una comunità cooperante di pensiero e di ricerca. Non è un surrogato del nuovo soggetto politico. E’ altra cosa.

Siamo convinti che la sconfitta delle sinistra in Occidente ha origini in un tracollo culturale e dunque di egemonia, nell’incapacità dei partiti operai e popolari di fornire soluzioni ai problemi del capitalismo nel secondo ‘900. Mentre i successi dello stato sociale hanno narcotizzato per decenni il pensiero critico e l’antagonismo delle élites intellettuali.

Non siamo peraltro così ingenuamente illuministi da credere che un simile esperimento possa esaurirsi in un ambito esclusivamente culturale. I mutamenti del pensiero, le sue creazioni, sono figli del conflitto. Marx non sarebbe stato Marx senza Hegel e Ricardo, ma soprattutto senza il 1848: l’anno delle rivolte operaie e popolari in tutta Europa. E tuttavia non sono certo i conflitti che mancano al nostro tempo, destinati a ingigantirsi e inasprirsi per effetto delle disuguaglianze crescenti.

Ciò che manca, in una società che tende a dissolvere nel mercato istituzioni e forze organizzate, a privare gli individui del collettivo sociale, a sbriciolare perfino le forze oppositive in frazionismi settari, è la capacità di aggregare, di creare presidi unitari, istituzioni sottratte alla razionalità che divide gli uomini e li domina.

Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline

Economisti

Nicola Acocella, Piergiovanni Alleva, Alberto Bagnai, Andrea Baranes, Leonardo Becchetti, Nicolò Bellanca, Fabrizio Barca, Giacomo Becattini, Giampiero Betti, Mauro Bonaiuti, Emanuele Brancaccio, Mauro Callegati, Guglielmo Carchedi, Roberto Cellini, Domenico Cersosimo, Roberto Ciccone ‚Pierluigi Ciocca, Valeria Cirillo, Vincenzo Comito, Marcello De Cecco, Amedeo Di Maio, Marta Fana, Lia Fubini, Andrea Fumagalli,Giorgio Gattei, Adriano Giannola, Sergio Cararo, Nadia Garbellini, Francesco Garibaldo, Enrico Grazzini, Maurizio Franzini, Wladimiro Giacché, Paolo Leon, Giorgio Lunghini, Riccardo Bellofiore, Riccardo Realfonzo„ Thomas Fazi, Mario Pianta, Ugo Marani, Loretta Napoleoni„ Antonella Stirati, Laura Pennacchi, Michele Raitano, Alessandro Roncaglia, Giorgio Ruffolo, Stefano Sylos Labini, Luciano Vasapollo, Daniela Venanzi, Giovanna Vertova Gianfranco Viesti, Carmen Vita, Stefano Zamagni, Alberto Zazzaro.

Filosofi

Ferdinando Abri, Giorgio Agamben, Daniele Balicco, Mauro Bertani, Remo Bodei, Roberto Bondi, Romeo Bufalo, Alberto Burgio, Rosa M. Calcaterra, Giuseppe Cantarano, Massimo Cappitti, Roberto Ciccarelli, Felice Cimatti, Elena Gagliasso, Cristina Corradi, Giuseppe Cacciatore, Fortunato Maria Cacciatore, Giuseppe Cantillo, Gregorio de Paola, Delfo Cecchi, Fabio Ciaramelli, Pio Colonnello, Francesco Coniglione, Girolamo Cotroneo, Lucio Cortella,Vincenzo Costa, Roberto Esposito, Paolo Godani, Paolo Flores D’Arcais, Diego Fusaro, Guido Liguori, Fabrizio Lomonico, Nicolao Merker, Stefano Petrucciani, Massimo Cacciari, Daniela Falcioni, Roberto Finelli, Pino Ferraris, Eugenia Lamedica, Sefio Landucci, Laura Marchetti, Gianfranco Marelli, Giacomo Marramao, Maurizio Matteucci, Marco Maurizi, Toni Negri, Nuccio Ordine, Domenico Losurdo, Ottavio Marzocca, Giuseppe Cognetti, Nario Pezzella, Pier Paolo Poggi, Giuseppe Prestipino, Fabio Raimondi, Massimo Recalcati, Nicola Siciliani de Cumis, Fulvio Tessitore, Massimiliano Tomba, Franco Toscani, Mario Tronti, Nadia Urbinati, Emilio Sergio, Francesco Trincia, Amando Vitale, Giovanbattista Vaccaro, Luigi Vavalà, Gianni Vattimo, Maurizio Viroli.

Giuristi

Francesco Adornato, Gaetano Azzariti, Dario Bevilacqua, Giuseppe , Valerio Calzolaio, Angelo Antonio Cervati, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Gianpaolo Fontana, Paolo Grossi, Luciano Guerzoni, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Paolo Maddalena, Massimo Morisi, Lorenza Carlassare, Luciano Patruno, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Carlo Desideri, Elisa Olivito, Alessandro Pace, Francesco Pallante, Lorenza Paoloni, Livio Pepino Livio Pepino, Pietro Ugo Rescigno, Umberto Romagnoli, Roberto Scarpinato, Raffaele Teti, Giuseppe Vecchio, Gustavo Zagrebelsky, Danilo Zolo.

Sociologi, politologi, antropologi

Aris Accornero, Giuseppe Allegri, Gennaro Avallone, Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Amendola, Sergio Bologna, Paola Borgna, Matilde Callari Galli,Franco Cassano, Andrea Cerroni, Stafano Cristante, Ilvo Diamanti, Alessandra Dino , Carlo Donolo, Pietro Clemente, Carlo Galli, Alberto Giasanti, Rita di Leo„ Piero Ignazi, Paolo Jedlowsky, Emanuele Ferragina, Benedetto Meloni, Alfio Mastropaolo, Enrico Pugliese, , Alessandro Lupo, Franco Ferrarotti, Maria Immacolata Maciotti, Pierluca Marzo, Sandro Mezzadra, Fabio Mostaccio, Bernardino Palumbo, Luigi Pellizzari, Tonino Perna, Raffaele Rauty , Marco Revelli, Onofrio Romano, Angelo Salento, Chiara Saraceno , Rocco Sciarrone, Renate Siebert, Alberto Sobrero ‚Vito Teti, Maria Turchetto, Daniele Ungaro.

Architetti, Geografi, Urbanisti

Ilaria Agostini, Paolo Baldeschi, Mauro Baioni, Angela Barbanente, Paolo Berdini, Paola Bonora, Roberto Budini Gattai, Giovanni Caudo, Angelo Cirasino, Maria Cristina Gibelli, Vezio de Lucia, Giorgia Boca, Ilaria Bonirubini, Fabrizio Bottini, Sergio Brenna, Arnaldo Cecchini, Carlo Cellamare, Pierluigi Cervellati, Giancarlo Consonni, Flavia Cristaldi, Lidia De Candia, Giuseppe De Matteis, Anna Donati, Franco Farinelli, Rita Gisotti, Claudio Greppi, Maria Pia Guermandi, Domenico Gattuso, Francesco Indovina, Teresa Isenburg, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Alberto Magnaghi, Lodo Meneghetti, Francesca Leder, Ezio Manzini, Barnardo Rossi Doria, Alessandro Bianchi, Anna Marson, Edoardo Milesi, Giancarlo Paba, Pancho Pardi, Adriano Paolella, Rita Paris, Marco Picone, Ezio Righi, Chiara Rizzica, Michelangelo Savino, Massimo Quaini. Maria Pia Robbe, Gianni Scudo, Maria Cecilia Scopetta, Maria Adele Teti, Daniele Vannetiello, Maria Rosa Vittadini, Alberto Ziparo.

Letterati (scrittori, storici della letteratura e della cultura)

Fulvio Abate, Alberto Abruzzese, Roberto Antonelli, Franco Arminio, Alberto Asor Rosa, Gian Luigi Beccaria, Pierluigi Bellocchio, Andrea Camilleri, Remo Cesarani, Leonardo Colombati, Giulio Ferroni, Sivia De Laude, Tullio De Mauro, Nicola Gardini, Goffredo Fofi, Giorgio Inglese, Nicola La Gioia, Romano Luperini, Maurizio Maggiani, Raffale Manica, Franco Marcoaldi, Claudia Micocci, Ugo Olivieri, Mario Porro , Valeria Parrella, Raffaele Perrelli, Elisabetta Mondello, Raul Mordenti, Giovanni Ragone, Omerita Ranalli, Vito Santoro, Raffaele Simone, Walter Siti , Monica Storini, Lucia Strappini, Enrico Terrinoni, Enrico Testa, Giorgio Todde, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Pasquale Voza, Marina Zambron.

Scienziati (agronomi, biologi, fisici, giornalisti scientifici, ecc)

Giuseppe Barbera, Silvia Bencivelli, Carlo Bernardini,Gianluca Bocchi, Marcello Buiatti, Gianluca Brunori, Franco Dessì, Emanuela Guidoboni , Mario Ginapietro, Pietro Greco,Tommaso Lamantia, Matteo Lener, Ginevra Virginia Lombardi, Giuseppe Longo,Ugo Mazza, Claudio Melagoli, Luca Mercalli, Carlo Modenesi, Giorgio Nebbia, Piergiorgio Odifreddi, Giorgio Parisi, Telmo Pievani, Franco Piperno, Andrea Segrè, Claudia Sorlini, Stafano Bocchi, Gianni Tamino, Stefano Ruffo, Francesco Santopolo, Ivan Verga, Paolo Vineis.

Storici
Cristina Accornero, Franco Acqueci, Salvo Adorno, Aldo Agosti, Manfredi Alberti , Luigi Ambrosi, Giuseppe Aragno, Alberto M.Banti, Francesco Barbagallo, Francesco Barone, Cesare Bermani, Annunziata Berrino, Carmen Betti, Piero Bevilacqua, Giuliana Biagioli, Roberta Biasillo, Gian Mario Bravo, Luciano Canfora, Carlo Felice Casula, Franco Cazzola,Innocenzo Cervelli, Francesca Chiarotto, Livio Ciappetta, Salvatore Cingari, Marco Clementi, Michele Colucci, Danilo Corradi, Paola Corti, Ennio Corvaglia, Leandra D’Antone, Angelo D’Orsi, Marco di Maggio, Paolo Favilli, Fabio Fabbri, Paolo Frascani, Giuliano Garavini, Umberto Gentiloni, Paul Ginsborg, Chiara Giorgi, Carlo Ginzburg, Antonio Gibelli, Oscar Greco, Gabriella Gribaudi, Alexander Höbel, Valentina Iacoponi, Salvatore Lupo, Giovanni De Luna, Saverio Luzzi, Luciano Marrocu, Luigi Masella, Ignazio Masulli, Gino Masullo, Giancarlo Monina, Tomaso Montanari, Michele Nani, Leonardo Paggi, Guido Panico, Guido Panvini, Luisa Passerini, Rossano Pazzagli, Marta Petrusewicz, Franco Pitocco, Daniela Poli, Alessandro Portelli, Adriano Prosperi, Franco Rizzi, Saverio Russo, Biagio Salvemini, Daniela Saresella, Giuseppe Sergi, Simonetta Soldani, Gregorio Sorgonà, Salvatore Settis, Gabriele Turi, Roberto Valle, Donato Verrastro, Giuliano Volpe.

«Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti» .

La Repubblica, 26 gennaio 2016 con postilla non eurocentrica

Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre . in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.

Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto “vita” con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre. Al suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta.
Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla degenerazione e alla rigenerazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani “impetuosi” e “feroci” come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la “fortuna”.
Oggi poi questa riserva di credito dei “saggi” è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che «la Terra appartiene alla generazione vivente» intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: «Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età».

Senza adulti, Gustavo Zagrebelsky (Einaudi pagg. XIII -106 euro 12)

postilla

Quando si rievoca il mito dell'isola di Pasqua come previsione del nostro futuro non è al

mondo intero che ci si riferisce, ma alla "fortezza Europa" C'è tutta l'altra parte del mondo che preme alle porte della fortezza ma che si cerca di rigettare verso il nulla. Rifiuti. Non sappiamo se quest'osservazione ci sia nel libro di Zagrebelsky, a noi sembra rievante

«Il manifesto, 26 gennaio 2016, con postilla

Ragionare sulla Shoah e il progetto di distruzione industriale di massa in occasione del 27 gennaio è come cercare di contare i cerchi nell’acqua quando vi si getta un sasso: onde grandi e piccole che si rincorrono, si espandono, per poi sparire, fagocitate dalla vita che ricomincia a occuparsi delle solite cose. Concetti che cercano di trovare una loro sistemazione ma per i quali non basta un giorno, o una settimana, di ricordo. Anche l’impresa, apparentemente insensata, di contare cerchi nell’acqua ha bisogno di riflessione.

Un cerchio, un’onda: se si digita su Google la dicitura «giorno della memoria 2016» si ottengono in questo periodo più di novecentomila risultati. L’evidenza — come qualsiasi lettore di giornali o frequentatore di televisioni e radio sa bene — è che il «giorno della memoria» è entrato nel calendario civile del nostro paese. È stato già scritto che la scelta del 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz — dove migliaia di cittadini italiani ebrei vennero assassinati — ha diluito la specificità dell’apporto italiano alla persecuzione.

Processi assolutori

Giovanni De Luna nel bel libro La Repubblica del dolore scrive: «Proprio perché più europea e meno italiana la scelta di quella data contribuì a disinnescare molte tensioni, attenuandone la portata emotiva ma anche ridimensionandone il significato simbolico». Se, infatti, «la memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato», il 27 gennaio, proprio perché non impegnativo, ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile, data fondante dell’Italia repubblicana. Ed è funzionale a questa esigenza lenitiva e assolutoria che nel discorso pubblico sia divenuto sempre più forte il ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza storica.

Cerchi che si allargano: inizia, timidamente, ad affacciarsi la consapevolezza che il conflitto tra «storia» e «memoria» possa essere superato in direzione di una inevitabile integrazione di entrambe, ma il calendario degli eventi in programma anche quest’anno non sembra prenderne nota e il ricorso all’emozione ancora prevale.

Sassi, cerchi, onde: per la collettività ebraica italiana l’imponente coinvolgimento istituzionale nelle celebrazioni del «giorno della memoria» è divenuto una grande occasione di riconoscimento e reintegrazione in quel «patto della memoria» da cui furono esclusi per decenni. L’Italia resta il paese dove il processo di abrogazione della legislazione antiebraica fascista del 1938 iniziò nel 1943 e si concluse alla fine degli anni ottanta, anni in cui il ricordo della specificità della persecuzione antiebraica stentava a farsi largo nella memoria pubblica. Anni in cui la Shoah rimane ancora un fatto sostanzialmente privato degli ebrei italiani e la misura della condivisione è data al massimo dal coinvolgimento delle amministrazioni cittadine negli anniversari che ricordano le vicende locali. Lo sterminio degli ebrei e il ruolo avuto dal fascismo infatti non furono tra gli eventi su cui è stato costruito l’albero genealogico della nazione. Ma poiché «i fondamenti di quel ’patto’ cambiano a seconda delle varie ’fasi’ che scandiscono i processi storici di una nazione — scrive ancora De Luna — ogni volta cambiano i suoi contraenti e il suo contenuto».

Holocaust Menorah di Aaron Morgan

Così dal 2001, primo anno di celebrazione «del giorno della memoria», le cose sono cambiate. Adesso di Shoah — che in ebraico significa distruzione — si parla molto, forse troppo, spesso male.

Certo è che le celebrazioni vengono vissute dalla collettività ebraica italiana come occasione di riconoscimento in un contesto istituzionale che l’ha accolta e «digerita» solo nella discutibile accezione di «vittima». Oggi però l’imperativo «mai più» che contrassegna l’impegno in buona fede dei tanti che si mobilitano nel ricordare lo sterminio di milioni di vite viene reso impotente e diviene inefficace se il patto che costituisce lo spazio pubblico espelle il processo storico che ha prodotto il loro essere «vittime». D’altro canto è proprio rendere le sole emozioni protagoniste del racconto pubblico che azzera le responsabilità. La condivisione di valori si restringe così a un omaggio che spesso ignora le specificità della collettività che si è chiamati a ricordare. E nulla aggiunge il 27 gennaio alla conoscenza di chi siano stati realmente e storicamente gli ebrei negli anni della dittatura fascista e di chi siano oggi.

Ancora un cerchio, e un’onda. La posizione della collettività ebraica italiana è che il suo apporto alle celebrazioni del 27 gennaio sia di sostegno alle iniziative pubbliche: non sono loro ad avere bisogno di «ricordarsi di ricordare». Eppure l’istituzione del giorno della memoria avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel riconoscimento non solo del loro ruolo di cittadini storicamente partecipi di una memoria pubblica condivisa ma nel trasformare il lutto privato di una minoranza in un ’lutto nazionale’. Ma a questa incertezze aggiunge forse un contributo specifico proprio l’approccio al lutto della cultura ebraica tradizionale.

Altro cerchio, altra onda. Nella tradizione ebraica, il ricordo dei lutti collettivi tende a condensarsi intorno a poche date di celebrazione ma, per quel che attiene alla memoria specifica della Shoah, la pratica ebraica non si è ancora sedimentata in un’occasione unica e riconosciuta: per alcuni è il digiuno del 10 del mese di Tevet, che cade solitamente a dicembre, e ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme nel quinto secolo prima di Cristo. Per altri, soprattutto in Israele, è il primaverile Yom ha Shoah – il giorno della Shoah. In molte famiglie è invece uso recitare il rituale della Rimembranza che si celebra al termine della cena pasquale in ricordo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 che iniziò proprio il giorno di Pesach, la pasqua ebraica. L’incidenza delle tre date dipende dai paesi e dalle differenti abitudini delle tante comunità ebraiche.

Ma il cerchio si allarga e le onde si moltiplicano. È curiosamente diversa l’attenzione posta nell’ebraismo alla tempistica del lutto individuale: la normativa ebraica in questo caso è estremamente attenta al conteggio dei giorni che scandiscono la settimana, il mese e poi l’anniversario del decesso. Ma gli ebrei, quelli in carne e ossa, quelli «vivi», ancora oggi ricordano la morte nei campi dello sterminio nazista come fatto reale e concreto della perdita di una persona cara di cui spesso sono restate, e resteranno per sempre, ignote il luogo e data dell’uccisione. Per gli ebrei «vivi» si tratta di un singolo essere che è stato padre o madre, nonno o nonna, zio o zia. Esseri umani concreti di cui rimangano nella vita delle famiglie oggetti e racconti, fotografie e aneddoti. A volte, ricette di cucina. Per gli ebrei vivi è un lutto individuale, familiare oltre che collettivo.

Diari intimi e luoghi pubblici

Cerchi, e domande, che si allargano: come tenere insieme il lutto individuale con quello di una collettività di minoranza e inserirlo in una memoria nazionale? Come tessere continuità, restituire dignità e farsi carico della responsabilità di 6806 deportati dall’Italia di cui 5969 sono stati uccisi e solo 837 sono tornati? Come far incontrare il lutto degli ebrei italiani con quello degli italiani «altri»?

Una risposta piccola ma illuminate viene da un’iniziativa giunta quest’ anno alla sua quinta edizione, si chiama Memorie di famiglia — i giovani tramandano le storie dei loro nonni organizzata presso il centro ebraico di Roma Pitigliani. Lì, il 27 gennaio – data di legge, parlamento e istituzioni — nello stesso momento in cui le scuole, la televisione e i giornali parlano della Shoah, giovani dai dodici ai venti anni leggono le storie delle proprie famiglie. Documenti tratti da diari privati, ricostruzioni successive, racconti, si alternano letti da un nipote o un pronipote. Giovani e bambini che prendono la parola e raccontano la propria storia. Altri ragazzi cantano e recano conforto e sollievo alla massa dei ricordi che i nonni in sala si sentono raccontare dai propri nipoti. Ricordi di internati militari, ebrei in fuga, uccisi o salvati trovano posto nella catena della generazioni che, come cerchi nell’acqua, si susseguono.

Giorgio Caviglia e Maria Bove scrivono in L’eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future, edito in questi giorni da Giuntina: «Riflettere sulla trasmissione del trauma significa comprendere la portata di determinati eventi, comprenderne l’estensione, cercare di contare i cerchi nell’acqua che si propagano al lancio del sasso sulla superficie del mare, cercando di distinguere quello che dipende da quel sasso da quello che è il frutto del movimento di un mare che può essere più o meno agitato». Cerchi nell’acqua che tentano risposte.<


27 gennaio, 25 aprile. Ma queste due date non ci ricordano anche qualcosa che accade ai nostri giorni? Il genocidio di tanti popoli unificati dall'esodo del XXI secolo e dal destino che li attende? Ricordava l'attivista dell'Arci Raffaella Boini, in un messaggio che ci è giunto oggi: «L’Unione Europea impone alla Grecia di fermare l’arrivo dei profughi dalla Turchia, affogando donne e bambini. Oggi il Parlamento danese approva il sequestro di soldi, gioielli e beni personali ai rifugiati. Di questa Europa, alla vigilia della Giornata della Memoria, Hitler sarebbe veramente contento
».

Verità nascoste, si chiama la rubrica settimanale della giornalista Sarantis Thanopulos. Il modo di considerare le donne e i migranti è un utile strumento per comprendere la gravità del virus chiamato odio per il diverso. Il manifesto, 23 gennaio 2016

Riss, nuovo direttore di Charlie Hebdo, settimanale satirico solito sostare nella provocazione, a volte con successo altre no, rischiando l’offesa pura, ha disegnato una vignetta che ha creato un’ondata internazionale di indignazione. La vignetta mostra, in un angolo, il corpo inanimato del piccolo Alyan: il bambino siriano annegato lo scorso Settembre vicino alle coste turche. In alto campeggia la domanda: «Cosa sarebbe diventato il piccolo Alyan se fosse cresciuto?». La vignetta, raffigurante Alyan uomo adulto con la faccia di maiale che rincorre una donna, reca in basso la risposta: «Palpeggiatore di natiche in Germania».

La vignetta per alcuni è un’istigazione all’odio razziale, altri la giudicano irrispettosa, cinica, disgustosa. Quando morì Alyan, Riss disegnò Cristo che camminava sulle acque mentre il bambino annegava. La didascalia: «La prova che l’Europa è cristiana: i cristiani camminano sulle acque, i bambini musulmani affondano». Sarebbe bastato questo precedente per far capire che la satira spietata, senza sconti per nessuno, di Riss, abbia come suo obiettivo il razzismo. Non tanto il razzismo spudorato, esplicito degli sciacalli che vagano in branchi per le strade d’Europa, quanto, piuttosto, quello inconsapevole, ammantato di ipocrisia, di noi tutti.

Il primo, istintivo, bersaglio, è la falsa credenza che i bambini siano innocenti, privi di desideri erotici violenti e di emozioni aggressive. In realtà ciò che li differenzia davvero dagli adulti, è la loro minore capacità di recare danno e il fatto che non sono ancora corrotti dal calcolo, ragion per cui si aprono alla vita con maggiore curiosità, generosità e gusto del rischio.

La santificazione dei bambini migranti morti è insidiosa: sposta nella pietà nei loro confronti i sentimenti di compassione dovuti ai migranti adulti, che, non godendo del privilegio dell’innocenza, possono essere oggetto di reazioni di rigetto globale, che fa di ogni erba un fascio, alla prima occasione disponibile.

Il bersaglio più specifico di Riss, è proprio la separazione tra il bambino buono e l’adulto cattivo. Dietro questa separazione si nasconde il fantasma collettivo della madre virginale amata da un bambino angelico, mai destinato a diventare uomo, se non per sacrificare sulla croce (rappresentazione del corpo materno) il proprio compimento virile. Nel supposto «sfregio alla donna bianca», compiuto da un gruppo di musulmani arrabbiati e ubriachi a Colonia, fa la sua apparizione l’attacco, misto di desiderio e odio, a una madre lontana, inaccessibile.

Nelle reazioni di sdegno dei tanti occidentali, che pensano di agire in difesa delle donne, è presente lo stesso tipo di attacco alla madre oggetto sacro che scoraggia il suo investimento erotico, ma proiettato sul saraceno invasore, stupratore di donne e uccisore di bambini. Bella convenienza avere a portata di mano un «uomo nero» pronto all’uso.

Chi compie atti di violenza contro le donne deve essere sanzionato secondo legge, come autore di un delitto grave e intollerabile.

Questa è la condizione necessaria di ogni processo di incontro e di assimilazione/integrazione reciproca tra culture diverse, perché senza il rispetto della libertà (prima del tutto erotica) della donna, un incontro profondo è impossibile. È, quindi, un bene per tutti la saggezza delle donne che diffidano di chi è più lesto a proteggerle dallo «straniero» che dagli «incidenti domestici».

Difendono il loro diritto di disporre pienamente del loro corpo, non permettono che si trasformi nella bambola di porcellana dell’uomo: oggetto da ammirare e, incidentalmente, rompere.

«Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un "mercante di luce" che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è».

La Repubblica, 23 gennaio 2016

PERCHÉ la Germania ha tanto successo nel mondo? Perché sa fare i conti con il proprio passato, anzi assorbe la storia come ingrediente essenziale del futuro. La diagnosi è di Neil MacGregor, il brillante direttore del British Museum ora passato alla testa del nuovo Humboldt Forum di Berlino, nel suo ultimo libro (Germany. Memories of a Nation, Knopf). In un Paese come l’Italia, che coltiva la smemoratezza, la distrazione e la superficialità come altrettante virtù, può sembrare una provocazione. Ma proviamo a guardarci intorno. «L’America è famosa per essere a-storica », ha dichiarato Obama, aggiungendo «dimenticare è uno dei nostri punti di forza». Lo conferma il discorso d’insediamento di Bush II, che invitava gli americani a dimenticare il Vietnam, perché «una grande nazione non può permettersi memorie che fomentano discordia». Ma è meglio promuovere l’amnesia di marca americana o la memoria storica “alla tedesca”? La scuola italiana, riducendo di riforma in riforma lo spazio della storia (e della storia dell’arte) propende per l’arte della dimenticanza, forse più per sciatteria che per progetto.

Sul ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson (premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books. Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una visione falsamente pacificata.

E la memoria del passato (anche recente) mostra che la competizione senza contenuti annienta la democrazia. «Se potessi cancellare una parola dal vocabolario americano, sarebbe “competizione”» (Robinson), anche se «storicamente, l’America ha voluto “competere” creando un sistema scolastico migliore di altri, accrescendo gli investimenti in ricerca, credendo profondamente nella scienza e nei fatti, accogliendo talenti da tutto il mondo, promuovendo sistemi di sicurezza sociale » (Obama).

Quel che la scuola americana fa ora è l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività.

La retorica della competitività spinge a diminuire la protezione dei lavoratori, a devastare l’ambiente, a delocalizzare la produzione, a inseguire la logica della crisi, augurandosi che colpisca altri Paesi: ma è davvero questa, si chiede Robinson, la missione americana, avere la meglio sulla Cina o sull’Europa? Per uscire da questa logica miope, è necessaria la memoria e la conoscenza storica. Prendere coscienza della storia vuol dire (come in Germania) scegliere di ricordare quel che si è tentati di dimenticare. Accettare le proprie responsabilità rispetto al passato vuol dire allenarsi a costruire il futuro con piena responsabilità (fattore essenziale della democrazia).

Questa conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze” la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no), dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.

Ma qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo, abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria» (Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un «mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?

« ».

La Repubblica

LA PROPOSTA di legge (testo Cirinnà) che dovrebbe regolare lo stato civile delle coppie omosessuali e che comincerà il suo iter parlamentare in Senato il 28 gennaio (quasi in contemporanea con il Family day), mette a nudo la natura bipolare del Partito democratico, sintesi visiva della tensione che divide il Paese tra una cultura liberale e una cultura liberale ma nella misura in cui i diritti individuali non contrastino con i valori cattolici. Il Pd porta nei suoi geni il seme della discordia che divide demo-cattolici e demo-liberali sui temi legati alla procreazione e alla sessualità. Il teso scambio tra Michela Marzano e Emma Fattorini, lunedì scorso su Repubblica Tv, non sembrava una discussione fra esponenti dello stesso partito.

L’Italia è, tra i Paesi europei, quello meno disposto a riconoscere al matrimonio civile un’identità autonoma rispetto al matrimonio religioso, che per i cattolici è un sacramento che fonda e sotiene la famiglia. La questione che divide è lo statuto delle unioni omosessuali, ovvero la disciplina del matrimonio, la sua indiscussa identità eterosessuale.

All’interno di questo contenzioso si colloca la discussione sulle adozioni con una pesante distinzione tra “figli” e “figliastri” in relazione ai tipi di genitori. La visione diffusa è che i costituenti per primi avessero in mente una nozione di matrimonio che prevedeva che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. Il contesto storico del Paese e la matrice etico- religiosa di molti dei costituenti che contribuirono alla scrittura degli articoli 29, 30 e 31 sembrerebbero confermare questa visione (anche se in nessuno di quegli articoli si menzionano i sessi diversi). È legittimo chiedersi se la Costituzione vada interpretata cercando di entrare nella testa dei costituenti e restando ancorati al loro contesto culturale o se non ci si debba affidare ai criteri di coerenza interna al testo e di attenzione al nostro contesto, alla vita nostra qui e ora.

Si potrebbe sostenere che ora come allora l’Italia è un Paese cattolico e, in questo senso, l’intenzione dei costituenti è facilmente comprensibile anche da noi. È poi vero che in un Paese monoreligioso, e con debole pluralismo confessionale, l’interpretazione del diritto si tinge fatalmente della sensibilità della cultura della maggioranza (come avvenne nel caso del crocefisso nelle scuole pubbliche).

Tuttavia, si puó essere cattolici in modi diversi. La lettura della libertà individuale non è omogenea nemmeno tra i cattolici. Il movimento cattolico ha infatti conosciuto importanti stagioni liberali e di dissenso, per esempio nel corso di battaglie per altri diritti civili come il divorzio e l’interruzione di gravidanza.

I diritti sono scudi protettivi per chi si trova in minoranza (in questo caso, chi non è eterosessuale) mettendo in conto che ciascuno di noi — anche chi condivide la cultura etica della maggioranza cattolica — potrebbe trovarsi nella condizione di doversi appellare ad essi. I diritti ci garantiscono nelle nostre future scelte, qualora esse si scontrino con quelle che la maggioranza giudica buone. Perché lasciare la definizione di che cosa sia il matrimonio alla parte più numerosa e soprattutto a quella parte di essa che pensa che il futuro replicherà sempre e per tutti il passato?

La divisione interna al Pd mostra un’ulteriore discrepanza. Mostra come la società e la giurisprudenza camminino a una velocità doppia rispetto alla politica: le persone fanno scelte di vita secondo la loro personale saggezza, il loro desiderio, i loro sentimenti, se necessario andando a celebrare un matrimonio gay all’estero; i giudici, interpellati da coloro che subiscono discriminazione perché omosessuali, devono seguire il dettato della Carta.

La vita e il diritto si sostengono a vicenda e tendono a procedere quasi alla stessa andatura. La politica, invece, resta indietro, litigiosa e incapace di rappresentare la società e di ascoltare la voce dei diritti. E resterebbe ancora latitante se la Corte di Strasburgo, nel luglio scorso, non avesse condanno l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla tutela della vita familiare, anche omosessuale.

Il testo Cirinnà non è radicale e segue il tracciato indicato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che sgancia la questione sulla legittimità costituzionale del matrimonio tra persone dello stesso sesso dall’articolo 29 per riferirlo all’articolo 2: una linea di condotta ad un tempo moderata (prospettando unioni civili non matrimonio) e rispettosa dell’eguaglianza. L’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Cioè anche in unioni omosessuali.

Il manifesto, 21 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta - 180 favorevoli - la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber, e Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» - lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.
Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti - chiusi da «viva l’Italia» - ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle "sue" elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.
Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo». Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».
Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.
Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo - la fiducia monocamerale, le leggi a data certa - e la maggioranza - la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica - che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più. E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco).
Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

In barba all'articolo 11 della Costituzione l'Italia del governo Renzi continua a bruciare soldi per le spese di guerra. Atomiche, e di proprietà degli altri. Il Fatto Quotidiano online, blog di Toni De Marchi, 20 gennaio 2016

Il 12 novembre 2014 il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3, magazzini corazzati che custodiscono gli ordigni. Lo si legge in un documento della Corte dei Conti, datato 18 novembre 2015, sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014
Non solo in Italia ci sono armi nucleari, ma il Ministero della Difesa investirà molti milioni di euro per ammodernare i depositi corazzati che le custodiscono nella base aerea di Ghedi, in provincia di Brescia. La notizia è ufficiale, tanto ufficiale che il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 in data 12 novembre 2014 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3 (sta per Weapon Storage and Security System). Le informazioni su questo contratto, classificato “riservatissimo”, sono riportate nel documento della Corte dei conti sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014, la “Deliberazione 18 novembre 2015, n. 11/2015/G”. Il contratto riguarda la “progettazione definitiva completa di sondaggi geognostici e rilievo plano-altimetrico in relazione agli interventi di “realizzazione di sistema Wass” e “Upgrade WS3 security system” a Ghedi (Brescia)”.

Come è evidente dal titolo del capitolo dedicato all’argomento, il documento si riferisce ai soli oneri di progettazione che ammontano a “207.256,36 euro, oltre al contributo Inarcassa del 4 per cento pari a 8.290,25 euro, per un totale di 215.546,61 euro” come puntigliosamente annota il documento della magistratura contabile. Il che fa pensare, come suggerisce in una interrogazione la deputata pentastellata Tatiana Basilio, “che il costo delle opere in questione ammonti a molti milioni di euro, presumibilmente a carico del bilancio della Difesa italiano”.

La cosa è clamorosa perché da sessanta anni, governo dopo governo, è stata negata persino l’esistenza delle bombe atomiche in Italia. E invece non solo le abbiamo, ma i documenti ufficiali certificano che spendiamo soldi per tenerle nelle nostre basi aeree. Sia chiaro: era il famoso segreto di Pulcinella, ma la litania dei dinieghi ufficiali è sempre stata unanime e monocorde. Sono le famose armi a doppia chiave, cioè le bombe sono americane ma gli aerei che le porteranno sugli obiettivi nemici sono italiani. In questo caso i Tornado del 6° Stormo “Alfredo Fusco” di Ghedi. Dove tra qualche tempo arriveranno anche le nuovissime bombe nucleari B61-12 e forse proprio per questo si fanno i lavori.

Che il Weapon Storage and Security System WS3 sia un sistema di stoccaggio e protezione delle armi nucleari ce lo spiega senza giri di parole la Aviano Air Base Instruction 21-204 del 24 ottobre 2006 (Aviano è l’altra base italiana dove si trovano i WS3, ma questi sono usati dagli statunitensi). Un WS3 si trova all’interno di ciascuno dei ricoveri corazzati che ospitano gli aerei destinati all’attacco nucleare. Si tratta di un deposito sotterraneo che può contenere fino a quattro bombe nucleari. In caso di impiego, gli ordigni emergono dal ricovero blindato sotterraneo (vault) e sono agganciate ai piloni alari degli aerei. I Tornado, nel caso italiano, e fra qualche anno gli F-35.

Ma quanto ci costerà questo ammodernamento che non esiste? Certo, se uno spende oltre duecentomila euro solo per fare un po’ di disegni, per realizzare concretamente i lavori spenderà diversi milioni. E non pochi. A capire di cosa e di quanto stiamo parlando ci aiuta il governo della Turchia, incidentalmente nostro alleato, massacratore di curdi e ambiguo amico di Isis/Daesh. I turchi, a Incirlik, una base a circa cento chilometri dalle linee di combattimento siriane, ospitano anche loro alcuni depositi WS3 del tutto analoghi a quelli di Ghedi. Nel 2013 Ankara ha avviato un ammodernamento del sistema. La commessa, affidata alla società Aselsan, ha un valore di 79,8 milioni di lire turche (28,6 milioni di euro al cambio dell’epoca).

Considerando che, secondo il rapporto U.S. Nuclear Weapons in Europe di Hans M. Kristensen, Incirlik dovrebbe ospitare 25 sistemi WS3 e Ghedi undici e facendo le opportune proporzioni, stiamo parlando di una spesa per l’Italia che potrebbe aggirarsi sui 15 milioni di euro. Bruscolini, se consideriamo che questi depositi nucleari non esistono.
Il sito dell’impresa turca Kuanta, che materialmente sta eseguendo i lavori a Incirlik, ci dettaglia anche con notevole precisione in che cosa consistano. Possiamo dunque facilmente ritenere che le opere da realizzare a Ghedi siano dello stesso tenore, visto che si tratta di installazioni NATO standard praticamente identiche nelle due basi, al di là delle dimensioni. Magari qualcuno potrebbe far vedere i disegni dei turchi alla Pinotti, così la prossima volta che va in Parlamento per dire “la tipologia e la qualità delle informazioni rilasciabili sugli armamenti nucleari è quindi una decisione politica collettiva ed unanime degli alleati, cui nessun Paese può sottrarsi, pena la violazione del patto di alleanza liberamente sottoscritto e del vincolo di riservatezza che da esso ne discende” (dichiarazioni del 17 dicembre 2014 rispondendo a un’interrogazione del deputato Rizzetto), le si potranno fare delle domande su Incirlik poiché Ghedi non esiste.
Comunque, per aiutare la memoria selettiva della ministra, le potremmo consigliare la lettura alla sera di un curioso libriccino intitolato Air Force Instruction 21-200. Lettura forse un po’ impervia, ma istruttiva, dalla quale si può apprendere a pagina 16 cosa fanno i MUNSS (Munitions Support Squadron), di cui ne esistono solo quattro al mondo, uno dei quali si trova, guarda caso, a Ghedi. Dice il noioso manualetto che il MUNSS è “responsible for receipt, storage, maintenance, and control of United States (US) nuclear weapons in support of the North Atlantic Treaty Organization (NATO) and its strike mission”. Dove la parola “nuclear” non ha bisogno di traduzione. Evidentemente la Pinotti penserà che si tratti di materiale COSMIC/ATOMAL/TOP SECRET e invece basta cercare su Internet. Questi yankee non hanno alcun rispetto per i poveri ministri italiani che da cinquant’anni fanno la parte di quelli che non sanno.

«». Determinanti i voti di Verdini e dei suoi camerati. Il manifesto
«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta — 180 favorevoli — la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber. E Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» — lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.

Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti — chiusi da «viva l’Italia» — ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle “sue” elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.

Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo».

Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».

Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.

Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo — la fiducia monocamerale, le leggi a data certa — e la maggioranza — la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica — che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più.

E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco). Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

Il premier tramite Carrai vuole il controllo del flusso delle intercettazioni e avere una più forte capacità di ricatto sui suoi vassalli e sudditi, senza dimenticare che parliamo di un affare da 150 milioni di euro Articolo di D'Esposito e intervista di Calapà a Gotor.

Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2016



AMICI MIEI: BOSCHI IN AULA PER DIFENDERE CARRAI - 007
di Fabrizio D'Esposito

La domanda che scuote,in senso trasversale,ampi settori della politicae delle istituzioni,è questa: “Perché Renzi siespone con la nomina di Carraiai Servizi proprio in questafase, quando per il suo governosi aprono le prime seriecrepe, tra Europa ed Etruria?”. Ufficialmente, oggi aMontecitorio, a risponderealla domanda dovrebbe esserela ministra Maria Elena Boschi,titolare delle Riforme edei Rapporti con il Parlamento.Accadrà durante il pomeriggiodedicato al question time,grazie a un’interrogazione di Sinistra italiana. In unprimo momento, avrebbe dovutorispondere Angelino Alfanoma il ministro dell’Interno non ha voluto mettere lafaccia su un caso così smaccatodell’arroganza renziana.Fonti di Ncd aggiungono chetra i due, Renzi e Alfano, negliultimi giorni i rapporti sarebberoparecchio freddi.

Con laBoschi in aula, ci sarà la sublimazionedel familismo renzianoe dei vari conflitti d’interessi del fatidico giglio magicotoscano. Boschi, il papàPier Luigi, Banca Etruria el’ombra della P3, tra FlavioCarboni e Denis Verdini. PoiMarco Carrai, le sue società dicybersicurezza e il nuovo incaricoa Palazzo Chigi, da superconsiglieredei Servizi.Tutto in pochi metri, tutto traamici.

Al riparo da taccuini e microfoni,un parlamentare espertodi 007 la mette invecegiù così: «Dietro lo scudo dellacybersicurezza, il premier tramite Carrai vuole il controllodel flusso delle intercettazioni,senza dimenticareche parliamo di un affare da150 milioni di euro. Come insegnanole vicende berlusconiane,i ‘laboratori’dei Servizisono decisive in alcuni frangenti”.Ed è per questo, dunque,che a quasi due anni dalsuo insediamento, solo adessoil premier affronta di petto laquestione, aggirando così anchel’eterna guerra a PalazzoChigi tra due potenti sottosegretari:Marco Minniti, l’ex lothar dalemiano che ha la delegadella presidenza del Consiglioper i Servizi, e Luca Lotti,il quarto prezioso ingranaggiodel giglio magico. Non èmistero per nessuno che Lottiavrebbe voluto la delega diMinniti. Sinora non c’è riuscito(l’unica strada sarebbemandare via Minniti con unapromozione a ministro, sulmodello Delrio) e anche perquesto la nomina di Carrai diventadecisiva.

Per la serie:non si può più perdere tempo.Gli scandali incalzano e Palazzo Chigi vorrebbe tapparealcune falle. Prima delle tribolazionidi Banca Etruria, raccontanonel Pd, c’è stato peresempio lo spavento enormeper l’intercettazione tra il premiere il generale Adinolfi, agliatti dell’inchiesta napoletanasulla Cpl Concordia e rivelatala scorsa estate dal Fatto.

Probabilmente, in questeanalisi, c’è un eccesso di dietrologiama quando il faccendiereLuigi Bisignani mandapizzini travestiti da articolisul Tempo contro la nomina diCarrai e il giorno dopo il suoamico Denis Verdini, che è anchel’alleato più disinvolto diRenzi, gli fa da sponda alloral’inquietudine si allarga a dismisura.Ed è proprio l’assetra Bisignani (P2 e P4) e Verdini(P3) a richiamare alla memoriala lezione lasciata in ereditàdall’ultimo governoBerlusconi. B. vinse le elezioninel 2008 e un anno dopo,con il discorso del 25 aprile aOnna, in Abruzzo, era all’apice della sua popolarità. Poi, larepentina caduta, con l’escalation degli scandali a lucerosse. E nelle zone d’ombra diquel logoramento s’inserirono le manovre della “Ditta” diGianni Letta e Bisignani perun governo di centrodestra aguida diversa. Erano i giorniin cui i dalemiani, tanto per fareun nome, facevano il contodei dossier in mano alle dueprincipali filiere. Da un lato laGuardia di finanza, dall’altroServizi e carabinieri. Ci fu anchechi, come Fabrizio Cicchitto,accusò apertamente iServizi guidati dallo stessoLetta e tentò di frenare la campagnasuicida del Giornalecontro Fini e la casa di Montecarlo,suicida per la maggioranza,ovviamente. I nomi diquella stagione (Verdini fu ilgrande signore delle compravenditeper tamponare la scissionefiniana) ricorrono anchein questa fase. Una stagioneche si sa come finì: con ilgoverno Monti impostodall’Europa e da Napolitano.

“NO AL COMPAGNO DI BANCO DI MATTEO AI SERVIZI”
Intervista di Giampiero Calapà a Miguel Gotor

Il premier Matteo Renzi nonha nessuno di cui fidarsi al difuori della sua cerchia tanto damettere il compagno di bancoai Servizi”. Miguel Gotor, deputatobersaniano del Pd, vaallo «Marco Carrai aiServizi non si può fare».

Senatore Gotor, siamo a Carraipossibile capo di una nuovastruttura dell’intelligencecucita su misura per lui. Èaccettabile?
No. È un segno di debolezzaperché rivela indirettamenteche il premier non si ha nessunodi cui fidarsi per quellaposizione al di fuori della suarestrittissima cerchia. C’è ancheil tema di un potenzialeconflitto di interessi del dottorCarrai, che ha interessi economiciproprio nel campodella cybernetica e che si dovrebbeoccupare di cybersicurezza.

Vi opporrete a questa nomina?Come “Ditta”, come minoranzadel Pd?
Certo. Stiamo parlando di unanomina fatta circolare anticipatamenteper saggiare lereazioni dell’opinione pubblica.Mi pare che l’opinionepubblica stia reagendo confermezza, la stessa fermezzadi quella parte del Pd per cui èuna scelta inopportuna.I Servizi, oltretutto, non sarannomolto contenti, no?Non conosco quegli ambienti,ma ci sono professionisti, carriere...un compagno di bancodel premier, un suo amico chegli prestava casa, non può guidareun settore dei Servizi cosìimportante. Pare una sfiduciaall’apparato esistente, cosache sarebbe molto grave eimmeritata.

Ma pare che il “compagno dibanco”, come lo chiama lei,alla fine sarà nominato...
Le istituzioni richiedono equilibrio,rispetto delle professionalitàinterne e prudenza.Ripeto che le nomine si ufficializzano,non si fanno trapelareper vedere l’effetto chefa. Ora a Palazzo Chigi lo hannovisto: per noi Carrai ai Servizinon si può fare.

Caso Banca Etruria, il ministroBoschi si dovrebbe dimettere?
Non credo perché le responsabilitàpenali sono personali.Di cultura sono un garantistae perciò in passato mi sono espressocontro le dimissionidella Cancellieri e anche controquelle di Lupi. Certo, il fattoche lei oggi non possa direlo stesso la indebolisce politicamentee, davanti a una vicendadrammatica che riguardacirca centomila correntisti,mi sentirei di consigliarlemaggiore umiltà. Allaluce delle nuove dichiarazionidi un personaggio comeFlavio Carboni serve più chiarezzaperché non è normaleessersi fatti consigliare sullaBanca Etruria da un soggettocondannato con Gelli per ilcrac del Banco Ambrosiano. IlPd è il partito di Nino Andreatta(che con quegli ambientiebbe uno scontro violentissimo,ndr), non bisognerebbemai dimenticarlo...

Nel frattempo Denis Verdiniè sempre più organico e parladi alleanza strutturata anchealle prossime elezioni...il partito della nazione èsempre più realtà?
Se ci sarà il partito della nazionenon ci sarà più il Pd. L’azionedi Verdini ha svelato ilvero nucleo del Patto del Nazareno:oggi, alla vigilia delleriforme istituzionali in cui isuoi voti saranno determinanti,può addirittura sbeffeggiarcidicendo che si “affilia” al Pd, ben sapendo chequel termine si usa per le loggeo per le cosche.

E Carbonipuò dichiarare che il governoRenzi sta in piedi grazie a Verdinie ai suoi amici... Stanno avanticoi lavori, ma i nostri elettorise ne accorgono.

Pare che Verdini abbiasmentito. . .
Verdini è troppo arguto pernon sapere quel che dicevaAndreotti: una smentita è unanotizia data due volte.
Almeno sulle unioni civilistate col premier...
Il ddl Cirinnà rappresenta ilminimo sindacale.

La revisione costituzionale è invecchiata prima di nascere. È rivolta al passato, sigilla il presente e non dice nulla al futuro del Paese. Le decisioni più importanti sono rinviate o nascoste. È rinviata la diminuzione del numero delle Regioni. È nascosta la cancellazione del Senato. È negata la riduzione del numero dei deputati.

Diventa più conflittuale il rapporto tra Stato e Regioni, poiché entrambi i livelli sono dotati di competenze definite esclusive, che non possono trovare alcuna mediazione dopo la cancellazione della legislazione concorrente. Il superamento delle piccole Regioni, invece, avrebbe creato macroregioni più adatte a cooperare con la politica nazionale e a muoversi nello spazio europeo. Il governo ha promesso di realizzarle con una prossima revisione costituzionale, ammettendo clamorosamente che oggi si approva una legge non risolutiva.

Il nuovo procedimento legislativo è farraginoso. Aumentano i conflitti di competenza e si producono nuovi contenziosi presso la Consulta. Palazzo Madama diventa un dopolavoro per amministratori locali, un’assemblea senza prestigio che cercherà di riguadagnare i poteri perduti ricorrendo allo scambio consociativo con il governo. Se doveva cadere così in basso era più dignitoso abolire il Senato. In una sola Camera sarebbe stato ineludibile definire i contrappesi del sistema maggioritario: votazioni qualificate sui diritti fondamentali, poteri di iniziativa delle minoranze, controllo dell’attività governativa. Il monocameralismo ben temperato è preferibile a un bicameralismo pasticciato.

La maldestra propaganda sui costi della politica si è arenata in Transatlantico. Si conserva l’anomalia di una Camera di 630 membri che non ha pari in nessun Parlamento europeo. Un’assemblea tanto grande quanto debole, i cui membri devono tutto alla nomina dei capipartito oppure all’aumento dei seggi connesso con l’elezione del premier. Si doveva ridurre il numero dei deputati e selezionarli nei collegi uninominali, senza ricorrere ai signori delle preferenze e ai nominati dell’Italicum. Si sarebbe rafforzata l’autorevolezza della Camera nei confronti dell’esecutivo. La democrazia americana, pur guidando un impero, non ha mai rinunciato all’equilibrio di poteri tra Governo e Parlamento.

Perché tante occasioni perse? La mancanza di una vera riforma ha prodotto un testo lunghissimo, di scadente fattura normativa, di sgradevole gergo burocratico. Basta leggere, ad esempio, le ulteriori competenze del Senato definite – cito testualmente l'articolo 10 - nelle “leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Si, è scritto proprio così. Sembra un decreto “mille proroghe” e invece è un brano costituzionale, è uno scarabocchio che offende il linguaggio semplice e intenso dei costituenti. Da come parli capisco che cosa vuoi, suggerisce il buon senso popolare. La forma sciatta rivela il basso profilo politico.

Il vizio d'origine consiste nel cambiare la Costituzione per stabilizzare un governo altrimenti privo del mandato elettorale. Bisognava modificare subito il Porcellum per restituire la parola agli elettori. Invece, l'esigenza politica contingente prevale su ogni garanzia istituzionale, fino al paradosso di riscrivere la seconda parte della Carta in un Parlamento eletto in forma illegittima. In Italia non si governa per migliorare lo Stato, si cambia lo Stato per rafforzare il governo. Al contrario, le Costituzioni disciplinano la politica e conquistano la lunga durata.

Su questo principio sono fallite le riforme dell’ultimo ventennio. Approvate sempre da una parte contro l’altra, per puntellare i governi che avevano perso la fiducia degli elettori, come fece Berlusconi nel 2005 e, ahimè, anche la mia parte con il Titolo V. Si ripetono tutti gli errori già commessi da destra e da sinistra, mettendoci anzi più entusiasmo, fino a chiedere un plebiscito personale. Il Presidente Renzi è il grande conservatore della Seconda Repubblica. Si erige un monumento alle ideologie del ventennio, proprio mentre tramontano in tutta Europa.

Tutto era cominciato negli anni novanta con le speranze di una sorta di modello Westminster all’italiana. Oggi il bipolarismo è in affanno anche in quell’antico palazzo inglese, non esiste più in Spagna, è travolto in Francia dal lepenesimo, è sterilizzato dalle larghe intese in Germania. L’Italicum e la legge Boschi si accaniscono a tenerlo in vita artificialmente, ricorrendo al premierato assoluto senza contrappesi: una minoranza del 20% degli aventi diritto al voto conquista il banco e impone la propria volontà alla maggioranza del paese. Tutto ciò aumenta l’astensionismo e riduce il consenso verso la competizione bipolare. Ovunque la vecchia dialettica tra i partiti è travolta dalla nuova frattura tra élite e popolo. I paesi europei sono diventati ingovernabili per eccesso di governabilità

Si è dimenticata una semplice verità: per guidare le società frammentate di oggi occorre un consenso più ampio di ieri; le classi politiche debbono imparare a convincere i popoli invece di ridurre la rappresentanza; i premi di maggioranza alla lunga non riescono a surrogare gli elettori che non votano.

Si è ridotta la politica a mera amministrazione di sistema. Da qui è scaturito il primato degli esecutivi sui Parlamenti. Ma nell’orizzonte europeo tornano i grandi dilemmi della pace e della guerra, dei limiti e dei nessi tra religione e politica, dell’accoglienza e del rifiuto dei migranti, della libertà individuale e dell’etica pubblica, della potenza tecnologica e dell’intangibilità della vita, dello sviluppo economico e della durata della Terra.
Non sono problemi risolvibili dagli esecutivi, sono conflitti contemporanei che hanno bisogno di nuovi riconoscimenti culturali e politici. E saranno possibili solo in un'inedita democrazia parlamentare, come non l'abbiamo ancora conosciuta. Quella del secolo passato seppe neutralizzare i conflitti Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Sono ancora da immaginare i Parlamenti capaci di ricomporre le fratture della civiltà europea nel nuovo secolo. È la sfida politica dei tempi nuovi.

Il mondo che abbiamo davanti è molto diverso da quello degli anni novanta. Le riforme istituzionali della seconda Repubblica sono ormai vecchi arnesi. La riforma costituzionale per il futuro italiano non è stata ancora scritta.

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