loader
menu
© 2025 Eddyburg
Una festa per la metà dell'umanità largamente incolpevole di ciò che l'altra metà ha combinato, rendendo invivibile e disumano il pianeta nel quale insieme viviamo. Il manifesto, 8 marzo 2016

Non c’è molto da festeggiare, e molto per cui lottare, in questo 8 marzo 2016. Questa ai miei occhi la sintesi di un anno complesso e di una scadenza che ritorna politica, dopo anni di allegre feste popolari tra amiche. Un appuntamento che cade in un momento in cui non solo i temi e le questioni aperte dalle donne e dai femminismi sono al centro della politica, per tutte e tutti, ma soprattutto delle femministe risultano fondamentali le chiavi di lettura, le interpretazioni, spesso le più incisive per comprendere un mondo sempre più caotico.

Un’efficacia che va perfino al di là della consapevolezza delle femministe, una consapevolezza necessaria, per dare senso alla forza sedimentata in anni di lavoro e di politica. Dalla piazza di quarant’anni fa, le manifestazioni dell’8 marzo 1976 sono state le più imponenti del femminismo degli anni Settanta. Lì apparvero le streghe tornate a far tremare il patriarcato, oggi le femministe possono rompere gli schemi in cui viene codificato lo scontro sociale in epoca neoliberista.

Ricordiamo tutti e tutte la Sylvesternacht di Colonia, l’allarme del capodanno dei molestatori. La montatura mediatica – come si è accertato mano mano – costruita intorno al preteso attacco deliberato alle donne occidentali da parte di uomini “Nordafricani e arabi”, si è accompagnata alla domanda accusatoria ripetuta da varie parti: dove sono le femministe? Che sarebbero colpevoli di rompere il fronte dell’Occidente, di rinunciare a difendere la propria solidarietà. Mentre è vero il contrario. È solo la cultura politica delle femministe, che permette di decodificare la trasversalità della violenza maschile senza cedere ai buoni sentimenti, alla solidarietà senza giudizio. Non occorre essere accomodanti con gli uomini, mussulmani e non. La critica radicale del patriarcato non ha indulgenze per nessuno, e proprio per questo è uno strumento efficace per spezzare la propaganda della “guerra di civiltà”. È una specie di bisturi politico, che taglia alla radice l’asse “noi e loro”. Per questo è così avversato.

Altrettanto colpevoli sarebbero le femministe italiane, almeno quelle che non si accodano al proibizionismo universale contro la “maternità surrogate”, o meglio Gpa, gravidanza per altri. Non perché si sia cieche verso lo sfruttamento, categoria improvvisamente comparsa nel dibattito politico dopo essere stata cancellata da qualunque altro contesto, di lavoro per esempio. Ma nelle pratiche femministe si impara ad ascoltare, guardare con i propri occhi, prendere atto che le persone coinvolte hanno molto da dire, che non coincide con i giudizi tranchant. Soprattutto le femministe hanno molto da dire sulle famiglie, che spesso sono gabbie terribili, e che se sono belle non hanno molto a che fare con le tradizioni e i ruoli imposti. E lo sfruttamento contro il quale lottare, non può essere confinato alla sfera della riproduzione.

Che non è, non può essere l’unico elemento per cui parlare in nome delle donne. Le donne non coincidono con l’essere madre. La maternità oggi è una scelta, perfino nei mondi che ci ostiniamo a pensare arcaici. L’essere madre non definisce la soggettività di una donna. Sia quando lo è che quando non lo è. Così si scopre che i cambiamenti reali - in effetti oggi le donne nel mondo fanno meno figli di un tempo, e anche per le madri l’arco di tempo in cui effettivamente ci si occupa dei figli è relativamente breve, in vite sempre più lunghe – fanno a fatica a entrare nella mente di ciascuno. Gli ideali si rifanno al passato, e il presente viene percepito come disordine, confusione. Un bel terreno di lotta.

Certo, il 2016 potrebbe essere l’anno in cui Hillary Clinton diventerà finalmente presidente degli Stati Uniti. E una governante di alto livello, anche se conservatrice come Angela Merkel, rischia la sua notevole forza politica per un’impopolare posizione di accoglienza nei confronti dei rifugiati. Il quadro del potere, e soprattutto del potere simbolico, è mosso, articolato. Il governo italiano è pieno di donne importanti. A gestire una guerra è una donna, Roberta Pinotti, e le riforme hanno nomi di donna, Maria Elena Boschi e Marianna Madia.

Cambia qualcosa? Si potrebbe dire che più ci sono donne visibili e potenti, più diventa chiaro che la parità è un obiettivo necessario eppure fasullo. Un trucco da agitare, se non diventa vera equità sociale. A che serve il 50e50, se il welfare viene smantellato? Se l’aborto incontra un’obiezione di coscienza quasi al 70 per cento, rendendo a volte inevitabile il ricorso al mercato clandestino, salvo poi essere multate, le donne, per questa illegalità? E se le madri singole non hanno i supporti necessari non possono che risultare quello che sono: le più povere, in tutti gli indici di povertà.

Per questo i femminismi sono più vitali che mai. Essere donna è sempre l’occasione di una presa di coscienza, dell’occasione di diventare una soggettività attiva, politica. Un accumulo di forza da spendere. Per sé, per il mondo, per la propria libertà, per la libertà di tutte e tutti.

«In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo. Ampi stralci del documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia».

Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2016

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)

Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” diLorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, iltentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia.
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.

Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”

Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo, si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti

Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.

Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.

Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.

Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.

Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?

Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi

«Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo».

La Repubblica, 5 marzo 2016

La conquista del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.

Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa.

Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del Subjection of Women (La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.

Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale - l’illuminismo francese - fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica.
»

Il manifesto, 3 marzo 2016

Siamo vicini all’inizio della campagna referendaria sulla perversa deformazione del Senato. Per chi le si oppone, come a tutto il disegno devastante di Renzi, la lotta sarà durissima. È enorme il divario di forza tra i due schieramenti che si vanno costituendo. Variegati, come in tutti i referendum, lo è di più quello del No, il nostro. È perciò urgente non soltanto definire l’identità nostra di oppositori all’eversione renziana, indicando le ragioni del No, che, soprattutto su questo giornale, sono state esattamente enumerate e ampiamente motivate, ma, immaginando quali potranno essere le argomentazioni del Sì, per contestarle e rovesciarle.

Saremo certamente accusati di conservatorismo, immobilismo, passatismo, di sostegno ad apparati pletorici, inefficienti, costosi, inadeguati, irresponsabili ecc., di fonte ai quali poi …. si ergerebbe la modellistica istituzionale high-tech della onorevole Boschi. Renzi dirà che vogliamo mantenere intatto l’assetto istituzionale disegnato settanta anni fa, attribuendo, implicitamente o anche direttamente, a questo assetto la responsabilità dell’arretratezza del Paese, tacciandolo di inidoneità a reagire alla crisi economica, a fronteggiare i problemi reali come quello del precariato, della disoccupazione più alta d’Europa, della corruzione endemica, dei poteri mafiosi e quant’altro. Falso, certo. Ma il nuovismo è sciaguratamente penetrato nel senso comune ed ha gettato sulle istituzioni repubblicane la responsabilità dell’economia liberista, ha avvolto la democrazia costituzionale nell’ombra spessa della delusione.

Sarebbe perciò imperdonabile permettere che la sinistra referendaria possa apparire come tetragona guardiana degli assetti istituzionali esistenti, delle parole, degli accenti e delle virgole della Carta costituzionale. Perché non lo è, anzi, non può, non deve esserlo. Tanto più che dispone di un ricco patrimonio di proposte autenticamente riformatrici, quelle che, per riaffermare i principi della nostra Costituzione, perseguirne gli obiettivi, mantenerne le promesse, realizzare il compito della Repubblica, adeguerebbero perfettamente le nostre istituzioni alla fase storica del dominio del liberismo, della compressione dei diritti, del precariato, della disoccupazione permanente, delle ineguaglianze crescenti, del rischio incombente del collasso ecologico.

Dovremmo quindi indicarle. Perciò provo a sottoporre alla discussione un possibile quadro di proposte volte sia a riformare l’apparato centrale della Repubblica che ad integrare la democrazia rappresentativa con istituzioni della democrazia diretta.

Per quanto riguarda la struttura del Parlamento, riprenderei la nobile, costante e mai smentita scelta della sinistra a favore del monocameralismo e del sistema elettorale proporzionale, sistema da sancire contestualmente in Costituzione perché condizione indefettibile della opzione monocamerale. Un numero di 500 deputati potrebbe perfettamente soddisfare le esigenze rappresentative e quelle funzionali dell’organo.

Ai Presidenti delle Regioni andrebbe riconosciuto il potere di intervento e di emendamento nel corso del procedimento di formazione delle leggi della Repubblica, direttamente o indirettamente rilevanti per l’esercizio delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni.

A garanzia dell’ordinamento costituzionale, andrebbe prevista l’istituzione delle leggi organiche, da approvare con la maggioranza assoluta, sia articolo per articolo che nella votazione finale, in materia di diritti costituzionalmente riconosciuti, di organi supremi della Repubblica, delle Magistrature, delle Regioni.

Ad assicurare concretamente i diritti sociali, andrebbe poi sancita la destinazione, con norma costituzionale, di un terzo delle entrate fiscali alla spesa per assicurarne il godimento (art. 4, 32–38 della Costituzione).

A difesa dei “nuovi diritti”, dovrebbe essere prescritta l’inalienabilità, costituzionalmente sancita, dei beni (comuni) a godimento universale o territorialmente diffuso.

L’ integrazione della democrazia rappresentativa mediante istituti di democrazia diretta, comporterebbe innanzitutto l’ attuazione dell’art. 49 della Costituzione, con la conseguente qualificazione di partiti politici soltanto per le associazioni che assicurano di fatto (a) «la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale», (b) la responsabilità permanente della leadership nei confronti di una direzione collegiale rappresentante della base, © l’iniziativa congressuale di un quinto degli iscritti in caso di inerzia nella convocazione ordinaria (temporalmente cadenzata) del congresso, etc. (d) la carta dei diritti degli iscritti, (e) azionabili innanzi al giudice ordinario;

Andrebbe poi previsto l’obbligo del Parlamento di deliberare su proposte di legge di iniziativa popolare sottoscritte da 50 mila elettori, entro un anno dalla presentazione. Andrebbero inoltre istituiti: a) il referendum propositivo su un progetto di legge di ampia iniziativa popolare (500.000 elettori?) che incontri l’inerzia del Parlamento o la sua distorsione nei fini e nella portata, b) il ricorso diretto alla Corte costituzionale sulla legittimità di una legge (come previsto in Germania), c) il referendum preventivo alla ratifica dei trattati, come quelli europei, che intervengono sulle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, d) o sulle norme relative ai diritti costituzionalmente riconosciuti, d) o che impegnano militarmente la Repubblica.

Per questi obiettivi la vittoria del No al referendum costituirebbe presupposto e impegno per l’iniziativa popolare di progetti di leggi costituzionali volti a proporli. Respinta la deforma della Costituzione ordita dal Governo, sarebbe il corpo elettorale ad assumere l’onere della revisione della Costituzione per consolidarne i principi, attuarne i contenuti, adempierne il compito. Sì, quello dell’articolo 3, secondo comma, l’eguaglianza di fatto.

Ricordiamolo tutti e tutte, non solo il prossimo 8 marzo, che la democrazia repubblicana e il maggior potere del popolo li abbiamo conquistati grazie all'apporto tenace e continuo delle donne capaci di lottare.

La Repubblica, 3 marzo 2016

IL CINEMA propone gli albori delle mobilitazioni per il suffragio femminile attraverso il protagonismo militante di donne che hanno cambiato la storia. Il diritto di voto è un lungo cammino attraverso il Novecento, una tensione verso traguardi e obiettivi lontani. Per le donne è una sfida continua che si rinnova negli angoli più diversi del pianeta dove quel diritto non viene riconosciuto.

Nell’Italia piegata dal fascismo e dal conflitto mondiale il primo voto femminile cade nel marzo di 70 anni fa, nelle elezioni amministrative che inaugurano la partecipazione politica del dopoguerra. A più di dieci mesi di distanza dalla liberazione del 25 aprile 1945 la cifra della democrazia passa per l’inclusione di tanti con il conseguente allargamento delle basi di legittimazione della Repubblica. Il diritto di voto diventa un grimaldello che segna l’inizio di una nuova stagione, l’avvio di una fase costituente sotto tanti punti di vista (materiali, spirituali, istituzionali). Nel riconoscimento di un diritto individuale si saldano strategie e processi di lungo periodo: la ricerca di forme di partecipazione, l’avvio di possibili esperienze collettive, le opzioni sulle scelte fondanti di chi voleva cambiare rotta. La Repubblica diventa lo spazio per le nuove strategie di cittadinanza: per la prima volta si può pensare o tentare di diventare cittadine.

Una successione di 5 domeniche (10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile 1946) compone la prima tornata amministrativa dell’Italia liberata. La seconda qualche mese dopo, tra ottobre e novembre. In mezzo tra i due appuntamenti il referendum del 2 giugno, la scelta tra monarchia e repubblica e la contestuale elezione dell’assemblea costituente. Il voto per i comuni è quindi un passo verso il suffragio. La prima tornata nelle domeniche di 70 anni fa prevede il voto in 5722 centri (quasi l’80 per cento dei comuni del Nord, più dell’84 del Centro e quasi il 74 per cento di quelli del Sud); sono chiamati alle urne quasi 20 milioni di elettori, in maggioranza donne (quasi un milione più degli uomini). L’affluenza supera di poco l’82 per cento. È un successo diffuso, un fiume di partecipazione che unisce il paese in un clima di festa.

Le cronache locali raccontano il nuovo inizio: «La presenza di queste donne, madri, vecchie, suore, operaie e contadine dinanzi ai seggi ove vengono per la prima volta a fare uso del più alto diritto civile e ad affermare la vera appartenenza al corpo sociale, ha consigliato gli spiriti a un rispetto quasi religioso del luogo e delle persone. Le donne sono state la grande novità di queste elezioni: popolane e signore, vecchie e giovani, sole o in compagnia. Parecchie mogli hanno potuto dividere con il marito l’attesa e poi l’emozione del voto; si sono viste giungere intere famiglie, magari divise nei pareri ma a braccetto.
Anzi l’elemento femminile è accorso per primo davanti alle sezioni. Molte donne uscite dalle chiese dopo la prima Messa si sono recate subito a votare per poter tornare a casa ad accudire alle faccende domestiche. Non sono mancate le donne con il bambino in braccio. Il piccolo intruso è stato causa di un certo imbarazzo quando la mamma ha dovuto entrare nella cabina». Tra gli eletti una giovane sindaco nel comune di Massa Fermana. Molti anni dopo ha scritto senza retorica della sua esperienza di amministratrice e di un’Italia in divenire: «Trattandosi di un piccolo comune povero, bisognoso di tutto, da tutti dimenticato, da Dio e dagli uomini, ho dovuto farmi carico di grossi problemi quali le strade, le fogne, le scuole, le case, l’acqua, la luce. Dico senza presunzione farmi carico perché tutte le fatiche dell’amministrazione ricadevano, quasi esclusivamente sulle mie spalle. Rimboccandomi le maniche sono riuscita a risolvere molti problemi urgenti. Questo è il mio curriculum». Un lascito prezioso quel «farsi carico», frutto delle scelte dei partiti di massa vogliosi di radicarsi e rafforzarsi nella nascente democrazia (Togliatti e De Gasperi su tutti), delle aperture interessate della Chiesa e soprattutto della spinta di organizzazioni femminili da mesi impegnate nella campagna per ottenere il diritto di voto.

La premessa di un lungo dopoguerra è ben racchiusa nelle riflessioni autobiografiche che Norberto Bobbio ha dedicato alle origini della democrazia italiana venti anni fa, in occasione del cinquantenario del 1946: «Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile ’46 avevo quasi trentasette anni. L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna senza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un’abitudine, apparve quella prima volta una grande conquista civile che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro Paese l’inizio di una nuova storia».

Intervista di Eliana Gilet all'attivista femminista Silvia Federici, raccolta in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. La pubblichiamo su eddyburg anche in preparazione dell'8 marzo,

Comune.info, newsletter, 29 febbraio 2016

Il capitalismo si è costruito sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura ma non è stato capace di superare l’ultima frontiera: produrre la vita al di fuori del corpo della donna. Lo ricorda, in questa lunga e densa intervista, Silvia Federici. Ci hanno convinto che la produzione è un fine in sé, che non ha rivali in termine di valore e pertanto la vita deve esservi sottomessa. Questa mostruosità ha permeato anche tutti noi, l’abbiamo interiorizzata, così riduciamo l’importanza del tempo e del rapporto con gli altri. Nella violenta offensiva contro la gestione comunitaria della terra, poi, l’attacco alle donne è fondamentale perché sono loro che tengono unita la comunità, che difendono più direttamente la vita e sono investite dal processo che la riproduce

Dove sono le donne nella lotta di classe? Per Silvia Federici la chiave per questa risposta si trova nella divisione del lavoro e nel “grande territorio di sfruttamento” che è il lavoro domestico. “Il capitalismo – dice – si è appropriato del lavoro non retribuito, ha costruito sé stesso sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura. Tuttavia non è un lavoro marginale bensì il più importante, soprattutto perché produce la capacità delle persone di poter lavorare”

L’opera fondamentale della Federici si intitola Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, pubblicata nel 2004. In questo testo realizza uno studio storico sulla “caccia alle streghe” che ha inizio nel XV secolo quando l’Europa, alle origini del capitalismo, frazionò le terre comunali trasformandole in proprietà individuali che vennero concesse agli uomini. In quell’occasione, la coltivazione per la sussistenza fu separata dalla coltivazione per il mercato, le donne vennero relegate in secondo piano e sui loro corpi furono ingaggiate le battaglie che portarono molte di loro sul rogo, soprattuto le anziane depositarie di saperi e di cultura.

A Silvia Federici si mescolano un po’ le parole: “Quando sono stanca, parlare in spagnolo non è facile” dice, però fa questo sforzo, attenta alla prima domanda.

C’è una spiegazione storica per l’aumento della violenza contro la donna?

«È importante riconoscere che in questa società la violenza è sempre stata presente in forma potenziale nella relazione tra uomini e donne. Molte donne vengono picchiate se non hanno preparato da mangiare, a molte viene detto che non devono uscire la sera, che devono rimanere in casa e accudire i loro figli, è parte delle regole del lavoro domestico. Credo però che dietro all’aumento di questa violenza ci siano molte ragioni.

«La prima è la ricerca di autonomia, il rifiuto di eseguire quelle attività che tradizionalmente hanno sempre fornito agli uomini. La ricerca di indipendenza avvicina le donne al pericolo: ad esempio, con l’immigrazione che espone le donne alla violenza delle autorità di frontiera; o nel lavoro domestico presso persone che non conoscono e dove vengono maltrattate. Questo non significa che le donne devono rimanere a casa, ma vuol dire denunciare una situazione in cui per raggiungere l’indipendenza economica sono soggette a grandi rischi nell’ambito del lavoro

«In secondo luogo, penso che le donne sono state e sono coinvolte in molte lotte, tanto che la violenza non proviene solamente dai singoli uomini ma è violenza di Stato e dei gruppi paramilitari (Federici si ferma su questo punto del suo discorso che, dice, non è secondario). Le donne hanno difeso un uso non commerciale della ricchezza della natura perché hanno un concetto diverso su ciò che è prezioso. Cos’è che dà sicurezza? Non hanno fiducia nel denaro, bensì nella sicurezza di avere animali, mucche, alberi. Contro di loro c’è violenza perché sono le protagoniste di tante lotte».

Si può tracciare un collegamento tra le violenze del Medioevo e quelle attuali?

«Negli ultimi due decenni si è verificata una nuova forma di ciò che Marx ha definito “accumulazione primitiva o originaria”: una nuova fase di smisurato ampliamento del mercato globale, per il quale è necessario trasferire e distruggere molte comunità. Vengono attaccate le terre comunali ma anche le relazioni prodotte dalla gestione comunitaria della terra. L’attacco alle donne è fondamentale oggi, così come lo è stato nei secoli XVI e XVII: perché sono le donne quelle che tengono unita la comunità, sono le donne che sono coinvolte nel processo di riproduzione, sono loro che difendono in maniera più diretta la vita delle persone.

«Colpire le donne è colpire la comunità. Pensa a questo: l’accusa di stregoneria è perfetta per disintegrare una comunità, per quanto è una teoria che mi piacerebbe comprovare maggiormente. Si basa sul principio del nemico interno: quella che sembra una vicina, di notte si trasforma, in una riunione mostruosa, assieme ad altre come lei. È un modo per instaurare la paura di relazionarsi con altre donne: pertanto ha distrutto la solidarietà, perché venivano obbligate a denunciare le altre».

Cos’è che ha generato questa nuova fase della produzione capitalistica volta ad alimentare il mercato finanziario?

«Mi sembra importante sottolineare un altro problema: proprio su questi temi, ci hanno fatto un lavaggio del cervello, ci hanno convinto che la produzione è un fine di per sé, che nulla la equivale in termini di valore, che la saggezza è sottomettere la vita umana alla produzione.

«È uno dei principi fondamentali del capitalismo e in base ad esso tutto è legittimo: l’omicidio, la rapina, la guerra. Tuttavia questo ha permeato anche la nostra personalità, lo abbiamo interiorizzato. Sono molti anni che sento che il mostro è dentro noi stessi: si tende, ad esempio, a ridurre il tempo che di dedica all’amicizia, all’amore, all’incontro.

«Raúl Zibechi mi ha detto che il tempo condiviso è un elemento chiave nelle comunità zapatiste. Mi sembra fondamentale e allo stesso tempo tanto difficile, perché dobbiamo cambiare noi stessi, convincerci che una delle ricchezze più grandi è il rapporto con gli altri. E che uno dei compiti più importanti è sviluppare la nostra personalità. Viene attribuito valore a un telefono nuovo, ma non alla capacità degli esseri umani di essere più solidali, di non essere ostili, di non trattare gli altri come nemici. Non viene attribuito valore allo sviluppo della capacità di comprensione, di compassione ed empatia con tutto il resto.

«Nel capitalismo la collaborazione è importante solamente quando serve a produrre qualcosa che si può commercializzare: è per questo che abbiamo bisogno di un cambiamento di soggettività. In una villa di Buenos Aires ho incontrato delle donne che mi hanno colpito per la loro grande personalità. Hanno fatto assemblee e discusso su ciò di cui avevano bisogno: avere illuminazione nel quartiere, asfaltare la strada perché non si riempia di fango quando piove. Questo ha significato molto lavoro, ma soprattutto tante decisioni. Quando ti muovi al di fuori della logica dello Stato e del mercato, tutto diventa un rischio. Tutto è rischio.Bisogna valutare bene quello che è importante e quello che non lo è, e questo è un criterio che si elabora assieme agli altri. Può essere definito solo a partire da una rapporto di solidarietà».

Le nuove forme di resistenza passano attraverso l’incontro?

«Il concetto di creare il comune significa anche ricostruire il tessuto delle nostre società. Ognuna delle ondate di espansione capitalista ha distrutto le relazioni di fiducia, di conoscenza e la prossimità. Per esempio, negli ultimi 30 anni, negli Stati Uniti la ristrutturazione del territorio ha distrutto tutte le comunità industriali del nord-est. Comunità dove le persone avevano lavorato per anni e avevano costruito forme di contropotere perché si conoscevano e sapevano che quando c’era uno sciopero il tuo vicino era al tuo fianco, ti avrebbe sostenuto. Tutto è stato distrutto.

«Perché oggi è così facile espropriare, gentrificare? Perché non c’è nulla che unisca le persone ai luoghi. Ci sono città americane dove la tutta popolazione è nuova. Non si conoscono e quindi non hanno capacità di resistenza. La gente non è pazza. Non si può resistere all’oppressione e alla dominazione se non si ha fiducia che gli altri lottino assieme a te».

Potresti fare alcuni esempi su dove vedi questa resistenza?

Ci sono molti modi e non tutti sono ugualmente efficaci. Uno di questi implica la creazione di forme di riproduzione fuori dal mercato. Quando iniziamo a stare assieme e a pensare di costruire qualcosa in comune è chiaro che la maggioranza delle persone vive inserita in una rete di relazioni capitalista e all’inizio non può sapere se quello che sta facendo è capitalista o anticapitalista, se crescerà o cambierà.

«Tuttavia è chiaro che noi non possiamo resistere se non cominciamo a ricostruire questa rete di relazioni, che è il tessuto della nostra vita, a costruire relazioni che ci danno sostegno, solidarietà, fiducia. Opporsi alla militarizzazione della vita, alla disoccupazione, all’impoverimento intellettuale o morale: è questa, oggi, la problematica comune. Penso anche agli studenti e alla privatizzazione della conoscenza, resistere contro la mercificazione della conoscenza, che costringe ad indebitarsi per studiare.


Né la terra, né le donne siamo territorio di conquista. Una scritta delle Mujeres Creando boliviane

«Le lotte contro l’espropriazione della terra sono tra le più importanti. Quando le grandi imprese di sementi, le società dell’agrobusiness, controllano le terre del mondo e noi non abbiamo nessun rapporto con quanto mangiamo, non abbiamo nessun rapporto con la natura, allora siamo come animali ingabbiati nelle città. So che alcuni economisti marxisti, celebrano la città come il luogo delle grandi relazioni. La città, tuttavia, è una realtà sociale che dipende molto dalla campagna. Quando non si controlla niente della campagna, dei boschi, della costa, dei mari, si è completamente vulnerabili verso ciò che viene imposto. Non abbiamo nessun controllo. Ed è questo che accade. E poi c’è la questione indigena, della quale non voglio parlare perché non la conosco bene».

Quali sono gli effetti di questa fase globale sui nostri corpi?

«Il corpo della donna viene sempre di più trattato come una macchina. Un esempio sono gli uteri in affitto: le donne che vengono fecondate non vengono trattate come madri dei bambini che stanno procreando. Nei contratti che firmano, viene loro proibito di sviluppare affetto per quel bambino che partoriranno. Un altro attacco è legato alla cosmesi. Nel movimento femminista le donne hanno lottato contro l’estetica come disciplina, che è stata usata per dividere le donne: questa commercializzazione del corpo della donna sta facendo il suo ritorno.

«Penso però che sia nel campo della salute dove tutto ciò diventa più evidente. Quando scopri di avere una malattia grave, tutto diventa terribile se non hai accanto una comunità che può aiutarti a capire cosa sta succedendo, a pensare ai diversi tipi di terapia, ad accompagnarti dai medici. Se non hai questa comunità, sei perduta. Il protocollo medico contro il cancro ha una concezione militare della terapia: si combatte il cancro, si distrugge, lo si attacca, e in forma molto traumatica. Il cancro al seno è un esempio paradigmatico di come vengono imposte terapie che non prendono in considerazione quello che le donne provano, le loro paure, la possibilità di cure alternative. Negli Stati Uniti si formano gruppi di donne affette da cancro al seno che si riuniscono per darsi sostegno. Questo mi sembra indicativo del grado di isolamento esistente in questa società. L’isolamento è pericoloso perché ti indebolisce: indebolisce te e la tua capacità di resistenza. Spesso dico che il corpo della donna è l’ultima frontiera del capitalismo. Produrre vita al di fuori del corpo della donna è l’ultima frontiera che il capitalismo non è stato capace di oltrepassare».

Qual è il ruolo della memoria storica in tutto questo?

«Mi sembra importante stabilire, a differenza della teoria dominante, che il capitalismo ha prodotto povertà, non ricchezza. Almeno per noi c’è stato un impoverimento. Abbiamo perso il nostro rapporto con la natura. Come potevano i polinesiani navigare senza strumentazioni ma solo con la conoscenza che il loro corpo aveva del movimento delle onde? Non lo posso sapere: abbiamo perso il rapporto con il nostro corpo e con gli altri. Il capitalismo ci ha rinchiusi in queste cose piccole, isolate, in questa paura degli altri. L’impoverimento ha le sue radici nel non essere capaci di comprendere ed apprezzare la ricchezza della relazione con gli altri. Non solo questo: l’impoverimento ha le sue radici anche nell’aver perso la capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande che il singolo individuo. Questo tema è un’ossessione per me. Ci hanno confinati in cose tanto piccole.

«Il capitalismo è iniziato con la recinzione dei campi per espellere i contadini, ma anche per recintare le persone. Hanno tagliato la relazione con la natura, hanno tagliato la relazione con gli altri. Hanno tagliato la relazione con il nostro corpo: mi riferisco a questa forma di autodisciplina del distacco, questo processo di estraniamento dal proprio corpo.

«Questo è impoverimento: quando ci si sente una cosa piccola, isolata e non parte di qualcosa di più grande, di una storia. È importante capire che molte persone si sentono connesse con un insieme di relazioni che va oltre la loro stessa vita, che nella fine della loro vita non vedono la fine di tutto, che vedono la propria vita continuare in quella degli altri. Questo significa sentirsi parte di qualcosa di più grande. Quando si ha paura degli altri, quando non si è capaci di apprezzare e capire la ricchezza del rapporto con gli altri, allora sì che si è poveri».

Silvia Federici è nata 1942 a Parma ma ha vissuto e insegnato negli Stati Uniti, dove è molto nota come attivista femminista marxista. Ha però lavorato in Nigeria per molti anni ed è stata cofondatrice della Committee for Academic Freedom in Africa. Fa parte, tra le molte altre cose, del Midnight Notes Collective. Questa intervista è stata realizzata in occasione del Congreso de Comunalidades che si è tenuto a Puebla, in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. È stata inizialmente pubblicata su Desinformemonos e poi ripresa anche da Brecha

La Repubblica, 27 febbraio 2016

TRA le domande poste di recente dai lettori della Süddeutsche Zeitung sulla crisi dei profughi, quella che ha suscitato maggiore interesse in Germania concerneva la democrazia, ma con accenti populisti di destra: di quale legittimazione godeva Angela Merkel quando ha invitato pubblicamente centinaia di migliaia di profughi a entrare in Germania? Che diritto aveva di apportare un cambiamento così radicale alla realtà tedesca in assenza di una consultazione democratica? Non intendo con questo ovviamente sostenere i populisti contrari all’immigrazione, ma indicare chiaramente i limiti della legittimazione democratica. Lo stesso vale per i fautori di una radicale apertura dei confini: si rendono conto che avanzare un’istanza del genere equivale a revocare la democrazia, a permettere che il Paese sia oggetto di un colossale cambiamento senza previa consultazione democratica della popolazione?

E forse non vale lo stesso per la richiesta di trasparenza delle decisioni Ue? Dato che in molti Paesi la maggioranza dell’opinione pubblica era contraria alla riduzione del debito greco, rendere pubblici i negoziati avrebbe portato i rappresentanti di quei Paesi a richiedere misure ancor più rigide nei confronti della Grecia.

Ci troviamo di fronte a un annoso problema: che ne è della democrazia quando la maggioranza tende a votare leggi razziste e sessiste? Non temo di trarne la conclusione che la politica tesa all’emancipazione non debba essere subordinata a procedure di legittimazione formali-democratiche. Spesso la gente non sa cosa vuole, oppure sbaglia scelta. Non esistono scorciatoie in questo caso e non è difficile immaginare un’Europa democratizzata in cui la maggioranza dei governi è formata da partiti populisti anti-immigrati.

Chi a sinistra critica l’Ue si trova in situazione di grave imbarazzo: da un lato condannano il “deficit democratico” dell’Unione e propongono progetti per dare maggior trasparenza alle decisioni di Bruxelles, dall’altro appoggiano gli amministratori “non democratici” europei quando esercitano pressioni contro le nuove tendenze “fasciste” (democraticamente legittimate). Il contesto in cui ha luogo questo impasse è lo spauracchio della sinistra europea progressista: il rischio di un nuovo fascismo incarnato dal populismo di destra anti immigrati. Si dipinge l’Europa come un continente in regressione verso un nuovo fascismo che si nutre dell’odio e del timore paranoico del nemico etnico-religioso esterno (in genere i musulmani).

Ma si tratta di vero fascismo? Spesso si ricorre al termine “fascismo” per sottrarsi all’analisi approfondita della realtà. Il politico olandese Pim Fortuyn, ucciso all’inizio del maggio 2002, due settimane prima delle elezioni in cui i sondaggi gli attribuivano un quinto dei voti, fu una figura paradossale e sintomatica, un populista di destra che per le sue caratteristiche personali e addirittura, (in gran parte) per le opinioni manifestate, rientrava quasi alla perfezione nella categoria del “politicamente corretto”: era gay, era in buoni rapporti con molti immigrati, possedeva un innato senso ironico – in breve era un buon liberale, tollerante sotto qualsiasi aspetto, ma non nel suo fondamentale programma politico. Si opponeva infatti agli immigrati fondamentalisti per l’odio che esprimevano nei confronti degli omosessuali, il disprezzo che manifestavano per i diritti delle donne, ecc. Fortuyn incarnava il punto di incontro tra il populismo di destra e il politicamente corretto progressista.

Inoltre, molti liberali di sinistra (come Habermas) che lamentano l’attuale declino dell’Ue sembrano idealizzarne il passato: l’Unione “democratica” di cui piangono la scomparsa non è mai esistita. La politica recente dell’Ue si limita al disperato tentativo di adattare l’Europa al nuovo capitalismo globale. La consueta critica mossa all’Ue dai liberali di sinistra – va tutto bene a parte il “deficit democratico” – tradisce la stessa ingenuità dei critici dei Paesi ex comunisti, che di base li sostenevano, lamentando soltanto l’assenza di democrazia: in entrambi i casi il “deficit democratico” faceva necessariamente parte della struttura globale.

Ovviamente, l’unica azione per contrastare il “deficit democratico” del capitalismo globale avrebbe dovuto avvenire per il tramite di un’entità trans-nazionale – non fu forse Kant a individuare, più di duecento anni fa, la necessità di un ordine giuridico trans-nazionale, fondato sull’ascesa della società globale? «Ora dal momento che grazie alla comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra estesasi ormai dappertutto si è giunti ad un punto tale che la violazione di un diritto perpetrata in un luogo della Terra è sentita in tutte le parti, ecco che l’idea di un diritto cosmopolitico non è più un modo fantastico, esagerato, di rappresentarsi il diritto». Questo tuttavia ci conduce alla “principale contraddizione” del Nuovo Ordine Mondiale, ossia l’impossibilità strutturale di individuare un ordine politico globale che sia conforme all’economia capitalista globale. E se per ragioni strutturali non potesse esistere una democrazia mondiale o un governo mondiale rappresentativo? Il problema strutturale (antinomia) del capitalismo globale consta nell’impossibilità (e al contempo, nella necessità) dell’esistenza di un ordine socio-politico ad esso conforme: l’economia di mercato globale non può essere organizzata direttamente come democrazia liberale globale con tanto di elezioni in tutto il mondo. In politica torna il “represso” dell’economia globale: ossessioni arcaiche, identità particolari sostanziali (etniche, religiose, culturali). Questa tensione definisce l’attuale paradosso: con la libera circolazione globale dei beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale. Mentre i beni circolano sempre più liberamente, nuovi muri sorgono a separare le persone.

Traduzione di Emilia Benghi

«». Il manifesto

Sì, vi è da rimanere delusi per l’incapacità dei nostri rappresentanti di andare oltre gli ostacoli del pregiudizio; per l’incapacità di osare di sentirsi davvero liberi legislatori che rispondono alla richiesta di eguali diritti che viene dal paese. E vi è di che rammaricarsi che il Pd sia così miscellaneo sui valori fondamentali (una tara che si porta dietro fin dalla nascita) da essere incapace di approdare a una decisione unanime, dando l’impressione che si tratti di due partiti in uno più che di un partito con visioni plurali.

Il bisogno di bussare alla porta di Verdini è da solo una dichiarazione di impotenza e pochezza. E c’è di che inquietarsi per la massiccia e nemmeno velata interferenza del clero romano con le istituzioni dello Stato. Aveva visto giusto Antonio Gramsci quando scriveva che il problema della debolezza liberale del nostro paese sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano. La cattolicissima Irlanda è molto più libera nelle sue leggi della meno religiosa Italia. Il Vaticano ha un potere di veto che non deve essere sottovalutato mai. E per questo, avere una legge zoppa è un meno peggio. Ma sarebbe auspicabile non viverla come punto di arrivo e quindi come una sconfitta, ma invece trasformarla in un punto di partenza. Come punto di arrivo è semplicemente brutta e vergognosa. Ma ci sono buone ragioni per cercare di verderla come punto di partenza.

La prima ragione sta nella natura stessa dei diritti – che aprono molte più strade di quel che una timidissima legge non faccia apparire. Una volta aperta la porta nessuno, nemmeno i prelati e i loro rappresentanti nelle istituzioni dello Stato, potranno chiuderla. I diritti vengono a grappolo e la vita delle persone si imporrà. La forza del diritto sarà la forza della vita. Questa legge brutta e zoppa sulle unioni civili verrà usata subito (per esempio per risolvere il problema lasciato aperto delle adozioni) e subito mostretà la propria insufficienza, la necessità di modificarla. Le maggioranze in Parlamento non possono fermare il torrente della vita che segue la libera scelta delle persone. Il diritto è ben oltre questa legge e sfiderà questa legge. La quale quindi è solo un brutto e timidissimo primo passo, ma non può essere nè sarà l’ultimo.

La seconda ragione è più radicale e la si è toccata con mano nella discussione sulla maternità surrogata. La violenza della discussione alla quale abbiamo assistito ci deve far riflettere sull’opportunità che lo Stato non intervenga. E’ buona norma di un ragionevole liberalismo che quando si tratta di decisioni che coinvolgono valori e concezioni del bene è preferibile che la legge non intervenga fino a quando non si sia raggiunta una convergenza larga nella cultura morale della società. Ma fino a quando ci sono divisioni forti sui valori sarebbe meglio che la legge tacesse poichè non potrebbe evitare di essere ingiusta. Questo vale naturalmente per la maternità surrogata. Abbiamo già leggi che proteggono le persone e i minori dall’abuso, dalla mercificazione, dalla monetarizzazione – se non si dà reato o violazione dei diritti umani e delle norme che li proteggono, la legge dovrebbe tacere. Questo non può ovviamente valere per le unioni di coppia, poichè in questo caso l’esistenza dell’istituto del matrimonio rende fondamentale che la legge intervenga per regolamentarne l’estensione o la parificazione nei casi di unione tra non eterosessuali.

La terza ragione pertiene alla funzione liberatoria del diritto, ovvero alla ricchezza per tutti che il rispetto degli eguali diritti comporta e corporterà. La discussione al Senato ha mostrato l’assurdità di chi voleva servirsi della “fedeltà” per discriminare tra il “vero” matrimonio e le unione civili. Si pensava cioè di nobilitare il matrimonio degli eterossesuali attribuendo solo ad esso l’obbligo della fedeltà. Il paradosso è che la discussione ha dimostrato che sarebbe desiderabile che l’obbligo di fedeltà venisse a cadere anche per il matrimonio. L’esito di quella che è stata a tutti gli effetti un’intenzione discriminatoria si è rovesciato e ha mostrare quanto invadente e anacronistica e corcitiva sia la legge che regola il matrimonio degli eterosessuali. La maggioranza ha tutto da guardagnare dall’eguale diritto, dall’inclusione della minoranza. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso possono costituire un arricchimento di libertà per tutti.

Queste ragioni delle implicazioni positive non rendono comunque buona una legge che non è buona. Mostrano tuttavia che da questo momento si può aprire un nuovo spazio di libertà – o meglio ancora, uno spazio alla contestazione e alla lotta per estendere e perfezionare il diritto all’eguaglianza che tutti devono avere di godere degli stessi diritti.

Sull'etichetta il furbacchione di Rignano scrive: "una svolta epocale per i diritti civili", ma nella bottiglia c'è una doppia discriminazione: le unioni omosessuali valgono meno di quelle etero sono rese piu difficili, i fig

li di partner di precedenti unioni sono discriminati. Intervista di Silvia Truzzi Il Fatto quotidiano, ,26 febbraio 2016
Le parole del giorno sono “fedeltà” e “fiducia”: concetti che si potrebbero estendere anche alle promesse e ai valori sbandierati. Il professor Rodotà da poco ha pubblicato un saggio che s’intitola Diritto d’amore: gli abbiamo chiesto di cosa sono la spia forma e sostanza del pasticcio legislativo del ddl Cirinnà.

«La procedura – risponde – è un effetto dell’incapacità politica di gestire la situazione. Quando Renzi si è trovato di fronte a divisioni che mettevano in discussione punti essenziali della legge, non ha scelto la strada del confronto, ha pensato di aggirare il problema con il solito espediente procedurale: il supercanguro. Strumento che non era necessario visto che era caduta la maggioranza degli emendamenti: era possibile aprire una trattativa politica. Quando l’Unità pubblica l’sms di Airola alla Cirinnà dà la prova che si è cercato un accordo sottobanco».

La trattativa l’hanno fatta con l’Ncd, un partito che ha più ministri che elettori.

«E così si è arrivati alla mozione di fiducia. Molti del Pd hanno ammesso l’inadeguatezza della gestione politica, per non aprire la questione con i cattodem. Il M5s ha chiesto perché non c’è stato un incontro ufficiale con i capigruppo. Semplice: per non svelare le divisioni interne».

La stepchild adoption era una fattispecie circoscritta. Ma l’hanno fatta passare come l’anticamera delle adozioni gay tout court.
«Sono state dette cose inaudite, razziste e omofobe. E gravi inesattezze scientifiche come nell’intervento del presidente dei pediatri italiani. Bisognava discutere partendo dagli orientamenti della giurisprudenza sulla base della legge dell’83 sulle adozioni. Siamo di fronte a una situazione già affrontata da una molteplicità di sentenze – due capitali:una della Corte d’appello di Torino e una del Tribunale di Roma – e la strada era già tracciata. Nel mio libro c’è un capitolo che s’intitola ‘Giudici attenti, legislatori impotenti’. Il tema è stato affrontato quasi sempre con grande oculatezza e realismo dalla magistratura, ma ancora una volta il legislatore ha perso un’occasione».

È una mezza vittoria?
«Per celebrare il risultato ora dicono che è solo l’inizio. Ovvio: meglio che ci sia una regolamentazione, ma non dimentichiamo i suoi enormi limiti. Purtroppo gli interventi sono stati, tutti, finalizzati a segnare il massimo di distanza possibile tra le unioni civili e il matrimonio. In assoluta controtendenza con la Carta europea dei diritti fondamentali che ha modificato la Convenzione europea cancellando la diversità di sesso per tutte le forme di organizzazione familiare. L’ultimo esempio è l’esclusione della fedeltà, una forzatura che si risolve in un’ulteriore discriminazione per le coppie dello stesso sesso. Non si tiene conto che il divieto di discriminazione per l’orientamento sessuale è una delle novità più importanti della Carta dei diritti, dove non si parla solo della discriminazione in base al sesso, che è un dato biologico, ma anche in base all’orientamento sessuale, che è una costruzione culturale. Nella Cirinnà l’orientamento sessuale è stato il confine per abbandonare l’articolo 5 sulle adozioni parentali. Causando una doppia discriminazione: ai danni della coppia e dei figli».

Si aspettava questo esito?
«
Ho sentito evocare la sentenza 138/2010 della Consulta, che porrebbe un vincolo insuperabile: non si può andare verso il matrimonio egualitario. Nella discussione sulla legge se ne è data una lettura ancora più restrittiva sottolineando in ogni occasione la distanza tra matrimonio e unioni civili. Ma c’è un fondamento comune nell’affetto, nella gestione della vita familiare, nella costruzione della genitorialità: i due istituti s’incontrano. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015 lo dice esplicitamente. Questa legge, che avrebbe dovuto sanare una discriminazione, non fa altro che ribadirla. La discussione deve restare aperta per riaffermare una linea di politica del diritto che possa farci andare oltre questa infelice giornata».

Sempre più ampio l'abisso che separa l'Italia dal resto dell'Europa in tema di diritti civili. Principi universali, tradotti in codici europei cui tutti dovrebbero uniformarsi, calpestati in nome della sopravvivenza di un califfo.

La Repubblica, 25 febbraio 2016

UNA soluzione che ben potrebbe essere considerata paradossale, se i modi fantasiosi dell’attuale politica non l’avessero spinta verso funambolismi che la destituiscono di vera credibilità. Si rafforza, infatti, l’attuale maggioranza di governo proprio sul terreno più “divisivo” tra Pd e Ncd. Ma non sarebbe questo l’unico paradosso, o l’unica contraddizione, di una fase così confusa e politicamente così mal gestita. E allora è il caso di fare una prima valutazione di quel che è già avvenuto, di quanto si è già perduto e di quanto si può ancora perdere.

La discussione sulle unioni civili era cominciata sottolineando che finalmente era alle porte una legge da troppo tempo attesa, che avrebbe consentito all’Italia di recuperare un livello di civiltà dal quale si era allontanata e che, in questo modo, l’avrebbe riportata in Europa. Ma, avendo perduto troppi pezzi, la legge approvata finirà con l’essere considerata come una nuova testimonianza di una arretratezza di fondo che, anche quando si fanno sforzi significativi, non si riesce davvero a superare.

Che cosa vuol dire Europa in una materia davvero fondamentale, non per una forzatura ideologica, ma perché riguarda i fondamenti stessi del vivere? Vuol dire costruzione di un sistema sempre più diffuso e condiviso di principi e regole, che è stato poi affidato ad un documento comune, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che dal 2009 ha lo stesso valore giuridico dei trattati e che, quindi, dovrebbe essere costante punto di riferimento nelle discussioni legislative dei singoli Stati membri.

Proprio per il tema affrontato in questi giorni al Senato, l’innovazione della Carta è stata massima. L’articolo 21 ha vietato ogni discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. L’articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per il matrimonio e per ogni forma di organizzazione familiare, e i giudici europei seguono ormai questo criterio. Eguaglianza, parità dei diritti, libertà nelle scelte. Principi essenziali, che avrebbero dovuto guidare i dibattiti parlamentari e che lì, invece, sono comparsi in maniera sempre più pallida. Sono stati spesso sopraffatti da un coacervo di confusi riferimenti morali, strumentalizzazioni politiche, controversi riferimenti scientifici. Si finisce così con l’avere la sensazione che l’Italia — al riparo da un “Grexit” per ragioni economiche e da un “Brexit” per ragioni politiche — abbia scelto la strada di un “exit” dall’Europa tutto culturale.

Già possiamo misurare gli effetti sociali di questo modo di procedere. Sono tornati nella discussione pubblica, con una rinnovata e violenta legittimazione derivante da toni del dibattito parlamentare, argomenti omofobi, discriminatori, aggressivi, incuranti dell’umanità stessa delle persone. Si è minacciato il ricorso ad un referendum popolare contro la norma che avesse ammesso l’adozione del figlio del partner. Forse vale la pena di ricordare che, nel 1974, quando ci si avviava verso l’eliminazione delle discriminazioni contro i figli nati fuori del matrimonio (i “figli della colpa”, gli “illegittimi”), i professori Sergio Cotta e Gabrio Lombardi, che già avevano promosso il referendum contro la legge sul divorzio, ne minacciarono uno contro una riforma che fosse andata in quella direzione (intenzione caduta dopo che l’abrogazione del divorzio fu respinta dal voto popolare).

E proprio intorno alla norma sull’adozione si è concentrato oggi un fuoco di sbarramento che colpisce, insieme, i diritti delle coppie e quelli dei bambini. Proprio dei bambini, strumentalmente indicati come oggetto di una necessaria tutela e che, invece, rischiano d’essere ricacciati in una condizione di discriminazione, creando una nuova categoria di “illegittimi”. Più che un intento discriminatorio, ormai uno spirito persecutorio. Si può in concreto indebolire o cancellare la tutela di cui essi già godono fin dal 1983 attraverso un saggio intervento e una valutazione dei giudici, che hanno applicato le norme sull’adozione in casi particolari in nome dell’interesse “supremo” del minore. Una conquista civile dalla quale non si dovrebbe uscire, richiamata dall’Avvocatura dello Stato davanti alla Corte costituzionale, che ieri ha deciso un caso relativo all’adozione da parte di due donne sposate negli Stati Uniti delle reciproche figlie. Dallo scarno comunicato della Corte non si può dedurre con certezza se le sue indicazioni puntuali consentiranno di continuare a ricorrere alle diverse soluzioni già utilizzate dai giudici.

La prudenza e il rigore dovrebbero sempre guidare il legislatore. Ma più ci si inoltra negli intricati meandri in cui si è cacciato il Senato nella tenace sua volontà riduzionistica delle unioni civili, più si coglie l’approssimazione e l’incapacità di comprendere la rilevanza dei diritti in questione. L’esecrazione per l’utero in affitto, improvvisamente evocata contro l’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali mentre è pratica al 93% di quelle eterosesuali, porta a declamare la sua qualificazione come “reato universale” con condanna del genitore e divieto di riconoscimento del figlio.

Ma si ignora che la questione è stata risolta il 26 giugno 2014 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato la Francia a trascrivere l’atto di nascita dei figli nati all’estero da una madre surrogata, anche se in Francia, come in Italia, questa pratica è vietata. E la Cassazione francese ha dato seguito a quella decisione. Ma la nostra aggrovigliata discussione ignora a tal punto l’Europa da aver subito dimenticato che il Parlamento non ha scelto liberamente di legiferare in questa materia, ma è stato obbligato a farlo da una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015, che ha condannato lo Stato italiano a riconoscere alle coppie di persone dello stesso sesso uno statuto giuridico adeguato.

Un “obbligo positivo”, al quale si tenta di sottrarsi con mille sotterfugi, cominciando con il trascurare che quella sentenza è fondata sull’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto alla “vita privata e familiare”. A questo non basta fare un riferimento generico. Poiché la sentenza dice che “le coppie dello stesso sesso hanno una situazione sostanzialmente simile a quelle delle coppie di sesso diverso”, e qui la discrezionalità del legislatore è ridotta, il riferimento alla vita familiare deve essere inteso nella sua pienezza organizzativa. Altrimenti si fa una operazione culturalmente regressiva, un altro atto implicito di uscita dall’Europa.

È in corso una grottesca operazione di ripulitura di ogni accenno che possa far pensare al matrimonio. Persino l’idea della fedeltà nelle coppie di persone dello stesso sesso deve essere allontanata, quasi che l’affetto e il “diritto d’amore” possano scomparire per effetto di arzigogoli verbali. In realtà si sta preparando una linea interpretativa rigidissima della nozione di famiglia per bloccare ogni ulteriore sviluppo in materia. È urgente invece un riflessione culturale sul sistema costituzionale, quella che nel 1975 aprì la strada alla riforma del diritto di famiglia.

Tutto questo, e molto altro che si potrebbe aggiungere, ci dice con quale spirito si dovrà accogliere la legge ora annunciata. Nessuno predica il tanto peggio tanto meglio. Ma nessuno potrà negare che un testo scarnificato, impoverito, mortificato porterà al suo interno il segno di una sconfitta politica e culturale. Condannando l’Italia, la Corte europea aveva parlato di un tradimento della fiducia e delle attese delle persone omosessuali. Tradimento che oggi riguarda tutti i cittadini ai quali spetta di vivere in un paese coerentemente inserito nel contesto culturale europeo. E invece si annunciano nuove distanze nuovi conflitti, rinvii a testi futuri, giochi d’inganni.

«Questa legge è irricevibile. pensare che uno Stato in Europa possa fare una legge sulle unioni civili senza garantire i diritti dei bambini è inconcepibile». Ma ormai è una tattica consolidata:basta approvare una legge la cui etichetta possa essere venduta nella campagna elettorale: non fa nulla se dentro c'è solo veleno.

Il manifesto, 25 febbraio 2016

Si sentono trattati come cittadini di serie B, le cui vite possono essere svendute e sacrificate. E loro non ci stanno. Anzi. Centinaia di militanti di associazioni lgbt si sono riuniti ieri pomeriggio sotto il Senato per protestare contro lo stravolgimento del disegno di legge sulle unioni civili. «Vergogna», «Tradimento», «Non ci rappresentate» hanno urlato rivolti verso palazzo Madama dove Pd e Ncd erano impegnati a mercanteggiare sul loro futuro e su quello dei loro figli. A un certo punto un gruppo ha anche cercato di bloccare il traffico sedendosi in mezzo alla strada , ma è stato immediatamente fermato dalla polizia.

Tra le associazioni lgbt la rabbia per come si sta stravolgendo il ddl Cirinnà è tanta e cresce con il passare delle ore. Per il 5 marzo è stata indetta una manifestazione che si terrà a piazza del Popolo a Roma.

Non più tante iniziative sparse per le città italiane, come avvenuto il 23 gennaio scorso, ma un’unica grande manifestazione alla quale si spera che parteciperanno decine di migliaia di persone. Anche per rispondere al Family Day che si è tenuto il 30 gennaio al Circo Massimo e a quanti non vogliono che l’Italia si allinei finalmente con il resto d’Europa. «Grideremo al nostra rabbia per questo tradimento», hanno spiegato ieri i manifestanti.

Traditi dal Pd e in particolare da Matteo Renzi, che non ha saputo mantenere la parola data quando venne eletto segretario. ma anche dai tanti parlamentari, a partire proprio dall’ex relatrice del testo Monica Cirinnà, che non hanno difeso un disegno di legge fatto proprio dalle associazioni omosessuali anche se ben al di sotto di quanto richiesto. «L’emendamento sul quale il governo si appresta a chiedere fiducia in aula è una dichiarazione di resa, incondizionata, un insulto alla dignità delle persone perché frutto di strategie che svendono le vite di tutti e tutte — è il commento di Arcilesbica -. Se il risultato sarà quello di tenere in piedi una legge per fare campagna elettorale e proclami di tenuta del governo ci troveremo di fronte ad uno scempio agito, deciso, sulle vite, sui corpi di cittadine e cittadini di questo paese».

«Ai partiti e alla politica — afferma la vicepresidente, Lucia Caponera — diciamo chiaramente che una legge confezionata come vessillo politico, svuotata e consegnata alla corte degli omofobi non è quello che vogliamo. Non è più il tempo dei compromessi. La politica deve assumersi le proprie responsabilità e sapere che non vi sarà alcun plauso. Nessun consenso può esserci laddove manca una democrazia dei diritti».

Dura anche la reazione della presidente di Famiglie Arcobaleno, Marilena Grassadonia: «Questa legge è irricevibile. Nel 2016 pensare che uno Stato in Europa possa fare una legge sulle unioni civili senza garantire i diritti dei bambini è inconcepibile».

«Sinistra. L’ottimismo e la fiducia per il leader del Pd. Scetticismo e recriminazioni per Cosmopolitica. Ma appena inizia l’assemblea della sinistra l’umore cambia verso».

Il manifesto, 23 febbraio 2016

Renzi abbaia all’Europa per farci girare dall’altra parte e distrarci dai problemi irrisolti del nostro paese. Questo è abbastanza chiaro a tutti. Ma come mai raccoglie ancora il consenso di un terzo degli italiani ed addirittura registra qualche miglioramento? Oltre al neopopulismo renziano di cui si è parlato, c’è un altro fattore che non va trascurato: il consenso reale di cui Renzi gode nel paese. Questo consenso poggia intanto su un fattore storico: l’effetto trascinamento dell’elettorato proveniente dall’eredità di sinistra che sentiva fortemente il bisogno di accedere al governo nazionale da cui era stato escluso per decenni e che egli soddisfa.

Ma oltre a questo c’è il mondo social che interviene a sostegno. Per limitarci a Facebook esistono una varietà di gruppi di supporter di Renzi: Italiani con Renzi, gruppo dedicato a coloro che credono in Matteo Renzi; Italiani in Polonia con Renzi, Amici lucani insieme con M. E. Boschi; Matteo Renzi il futuro è solo l’inizio; Per M. Renzi insieme, ed altri ancora.

Si tratta di decine di migliaia di partecipanti che sono portatori del messaggio renziano.

Che rimbrottano chi protesta per le statue coperte dicendo che «parlando di questo si fanno passare in secondo piano i miliardi che arrivano e che creeranno posti di lavoro»; che si vittimizzano perché «tutti attaccano Renzi» e si consolano perché «questo dimostra il suo grande potere e questo giustifica tanti nemici»; che tifano «Renzi e vai.…l’Italia sta proprio prendendo il volo!»; che minacciano «volete riportarci all’immobilismo.…non ci provate»; che non sono ancora contenti della svolta di Repubblica: «bene Calabresi, ma ancora poco perché nel tono degli articoli prevale ancora la linea livorosa di Scalfari e Mauro»; non abbastanza soddisfatti nemmeno della Gruber perché ospita Scanzi e Travaglio; per non parlare della crociata antifannulloni: «era ora di un bel repulisti!!»; o dello squallido post con una M.E.Boschi in ampio décolleté e un commento che più maschilista non si può: «rosicate, rosicate..gufi e corvi!».

Naturalmente talvolta esagerano e ricevono questo post: scusatemi siete stati gentili ad inserirmi in questo gruppo, ma purtroppo non ho alcun interesse per il partito della nazione, anzi contatemi tra gli avversari non violenti, ma decisi. Succede, per eccesso di euforia, ai neofiti di esagerare.

Questi agit prop di nuova generazione sono la vera la base attiva del Pd di oggi.

Naturalmente vi sono anche quelli che non condividono, ma subiscono e quelli che si sono allontanati. Ma in un partito sempre più rinsecchito di circoli ed iscritti questo è il corpo vero del partito e la relazione affidata a tweet e social è il vero canale di comunicazione democratica. E’ la combinazione di questa componente con quelle prima descritte la vera chiave del successo renziano, malgrado tutto.

Ma se questo è lo scenario come vi si colloca la sinistra? Una carrellata parallela negli ambienti social frequentati dalla sinistra ci mostra una realtà ben diversa da quella prima descritta: sostanzialmente inesistenti post e commenti ottimisti o entusiasti.

Amarezza, contrapposizione, critiche su tutto, astio, processi al passato ed alle intenzioni, ferite recenti e lontane visibili, sono i tratti più diffusi. La comunità di sinistra somiglia ad una massa di persone che si aggira tra le macerie di un terremoto e che guardano con invidia chi ha subito meno danni, che si rinfacciano l’un l’altro le responsabilità dell’accaduto, perché c’era chi aveva previsto tutto e non è stato ascoltato e così via.

Quasi nessuno parla di proposte e cose da fare, quasi tutti di schieramenti, il nemico è sempre il vicino, nessuno guarda avanti e trascina gli altri verso un progetto di ricostruzione.

Emerge, insomma, una sinistra che non ha ancora elaborato il lutto delle vecchie sconfitte e divisioni e che guarda con sospetto e sfiducia ogni tentativo.

«Il nuovo partito sarà l’ufficio di collocamento dei sinistri che vogliono tenere il culo al caldo su una poltroncina gentilmente offerta dal Pd». «Cosmopolitica, una iniziativa totalmente preconfezionata: sabato andrò a scuola di mazurca»; «Una iniziativa veramente pessima: andate a quel paese!»; «Si debbono rimuovere gli errori commessi!», (intendendo naturalmente sempre gli errori degli altri).

Tutto questo fino a pochi giorni fa. Ma con Cosmopolitica qualcosa sembra poter cambiare. E, ad evento ancora in corso, cominciano a circolare post di tutt’altro segno: «Ci siamo! Dobbiamo svegliare questo paese addormentato», «Spero che i giovani riescano a prendere in mano il loro futuro». Fino ai cori da stadio: «Daje!», «E SIiiiii! Grande!!»; «Avanti compagni, diciamo SI!».

L’iniziativa dell’Eur, gestita bene dai giovani — i cosmopolitani sono stati i veri protagonisti organizzativi e politici — sembra segnare una inversione fino ad elevarsi in un: «Domenica sarebbe bello se potessimo dire: la sinistra è bellissima, senza frontiere e senza confini. Ovviamente potrà farlo chi ha il coraggio di mollare la terra ed assaltare il cielo. Buona cosmoavventura!».

Uno scatto di fiducia e speranza improvviso e nuovo. Una bella scommessa ed una enorme responsabilità per chi dovrà facilitare il processo. E, se così è, questa volta non si potrà certo sbagliare.

Mentre al di là dell'Atlantico, «i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle vicissitudini della politica», nella palude italiana si cancellano, per bieche ragioni di sopravvivenza di un premier illegittimo sostenuto da un parlamento incostituzionale, diritti già presenti nel nostro ordinamento giuridico. La Repubblica, 23 febbraio 2016,
.

La discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno.

Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso, ma per impedire interferenze da parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita», come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.

L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia, si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi.

È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza.

Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude.

Nessuno di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materie sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.

In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.

Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso - Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali (stepchild adoption).

Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza.

Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte si ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione.

Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».
«La Corte europea dei diritti umani condanna lo stato italiano per il rapimento e la detenzione illegale dell'ex imam Abu Omar. Come fa oggi il governo italiano a chiedere all'Egitto quella "chiarezza che noi invece non abbiamo avuto"?». Articoli di Luca Fazio e Antonio Marchesi,

il manifesto, 24 febbraio 2016 (m.p.r.)



CASO ABU OMAR
STRASBURGO CONDANNA L'ITALIA
di Luca Fazio

La sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo è pesantissima, circostanziata e senza appello e condanna l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar (fu prelevato da un commando della Cia il 17 febbraio 2003, a Milano, davanti alla moschea di viale Jenner e poi trasferito in Egitto dove venne torturato). Secondo la Corte, l’Italia, applicando in modo improprio il segreto di stato - tra il 2005 e il 2013 lo hanno fatto i governi Prodi, Berlusconi, Monti e Letta - ha violato alcuni principi fondamentali della Convenzione europea per i diritti umani. In particolare, la proibizione di trattamenti disumani e degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il diritto a ricorrere alla giustizia e il diritto al rispetto della vita familiare. I giudici di Strasburgo hanno anche stabilito che l’Italia deve risarcire Abu Omar con 70 mila euro e sua moglie con altri 15 mila euro per “danni morali” (risarcimento beffardo, secondo l’avvocato dell’ex imam). La sentenza diventerà definitiva a maggio se lo stato italiano non otterrà un riesame dalla Corte di Strasburgo. La condanna, ovviamente, chiama in causa anche questo governo e il nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Nella condanna, infatti, si fa riferimento anche alla grazia che due presidenti della Repubblica (Napolitano e appunto Mattarella) hanno accordato a tre agenti americani condannati per l’operazione di extraordinary rendition di Abu Omar: secondo i giudici nessun essere umano può essere sottoposto a tortura e maltrattamenti a causa “dell’impunità derivante dall’atteggiamento dell’esecutivo e del presidente della Repubblica”. I tre atti di clemenza sono stati concessi nell’aprile 2013 al colonello Joseph Romano (capo della base di Aviano da dove partì l’aereo con a bordo Abu Omar) e lo scorso 23 dicembre al capo della Cia di stanza a Milano - Robert Seldon Lady - e all’agente Betnie Medero. Quasi inutile aggiungere che i tre non sono mai stati arrestati e continuano a vivere da liberi cittadini negli Stati Uniti d’America. C’è voluta la Corte europea per ricordare che “in materia di tortura e maltrattamenti da agenti dello Stato l’azione penale non può esaurirsi per effetto della prescrizione, e che l’amnistia e la grazia non devono essere tollerati in questi casi”.

Claudio Fava, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, chiama in causa il presidente del Consiglio Matteo «La sentenza sul rapimento di Abu Omar - spiega - conferma quello che denunciamo da anni: l’uso strumentale, illegittimo e improprio del segreto di stato su questa vicenda, una illegittimità sulla quale si sono impegnati tutti i governi in carica negli ultimi dodici anni, nessuno escluso. A questo punto chiediamo che Renzi venga a riferire in parlamento per dire come pensa di rivedere l’uso improprio del segreto di stato. Il segreto va immediatamente rimosso da tutti gli atti che riguardano questa vicenda».

La Corte di Strasburgo, tra le altre cose, ha anche riconosciuto il puntuale lavoro di inchiesta svolto dalla procura di Milano che per anni è stata ostacolata dalle più alte cariche dello stato. La “soddisfazione personale” però non compensa la “grande amarezza” di Ferdinando Pomarici, il pm di Milano che con Armando Spataro condusse le indagini sul caso. Le sue considerazioni sono pesanti: «Noi, che siamo la culla del diritto, ci troviamo schiaffeggiati brutalmente. E’ dovuta arrivare la Corte di Strasburgo a riprenderci col righello per dirci: bambino queste cose non si fanno. Io e Armando abbiamo sopportato in silenzio trattamenti difficilmente sopportabili, noi, che abbiamo fatto della lotta al terrorismo metà della nostra attività professionale, siamo stati accusati dai politici di aver protetto un terrorista». Pomarici azzarda un parallelo doloroso: «E’ un discorso ancora più amaro oggi, pretendiamo dal governo egiziano per la morte di Giulio Regeni di avere quella chiarezza che noi invece non abbiamo avuto. Mi aspetterei che il governo, se vuole essere autorevole agli occhi di Al Sisi, faccia luce ed elimini il segreto di stato». Spataro, oggi procuratore capo a Torino, aggiunge una semplice lezione, e cioè che «le democrazie devono assicurare a tutti gli imputati, anche ai presunti terroristi, la possibilità di piena difesa e dunque il rispetto dei loro diritti».

Per il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, questa sentenza dovrebbe spingere l’Italia a riconoscere il delitto di tortura. «La tortura - aggiunge - è un crimine contro l’umanità e lo stato non può rimanere indifferente o, in alcuni casi come quello oggetto della pronuncia di Strasburgo, rendersi complice di governi torturatori». Come l’Egitto.

ABU OMAR, UN'ITALIA D'EGITTO
di Antonio Marchesi

Extraordinary Rendition. I persecutori di un rifugiato politico

L’Italia ha collezionato un’altra - l’ennesima - condanna per violazione dell’art.3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Questa volta si tratta dell’annosa vicenda di Abu Omar, che le nostre autorità avrebbero senz’altro preferito chiudere senza questo fastidioso epilogo strasburghese. I fatti sono questi. Un cittadino egiziano, rifugiato politico, in Italia dal 1998, il 17 febbraio 2003 viene caricato su un furgone in una strada di Milano e trasferito nella base militare di Aviano. Da lì, passando per Ramstein, in Germania, viene portato al Cairo e consegnato alle autorità del suo paese. Rimane in carcere, con un breve intervallo di libertà, fino al 2007. Viene sottoposto ripetutamente a tortura - una pratica diffusa allora, in Egitto, così come lo è oggi (come gli Italiani hanno scoperto attraverso la triste storia di Giulio Regeni).

In Italia le indagini, avviate tempestivamente, si concludono con la richiesta di arrestare un cospicuo numero di cittadini americani, tutti operativi Cia, i quali, però, nel frattempo hanno lasciato il paese. Il Ministro della Giustizia decide di non chiederne l’estradizione. Quanto ai cittadini italiani coinvolti nell’indagine, sono agenti e alti funzionari del Sismi. Il Presidente del Consiglio decide di non togliere il segreto di stato sui documenti richiesti dalla procura e la Corte costituzionale conferma che imporre il segreto di stato rientra nei poteri discrezionali, non soggetti a controllo, del governo. Non si riesce quindi a condannarli. Gli americani (compreso un militare di stanza ad Aviano), invece sì, sono condannati a pene oscillanti tra i 6 e i 9 anni … che, però, non sconteranno. Dormono da tempo sonni tranquilli altrove. E neppure verseranno la cifra a cui vengono condannati a titolo di risarcimento dei danni. In breve: né i membri dei servizi segreti americani né quelli dei servizi italiani, per un motivo o per l’altro, vengono puniti.

Anche se hanno partecipato o reso possibile una «extraordinary rendition», un rapimento a scopo di tortura (sia pure «esternalizzata» in Egitto). La condanna di oggi è per violazione di tutta una serie di diritti, sia di Abu Omar sia della moglie.

La parte più significativa della condanna è però, ancora una volta, quella per la violazione dell’art.3. Una violazione sia «sostanziale» (per il contributo alla rendition) che «procedurale» (per la mancata punizione dei responsabili). La violazione del primo tipo perché le autorità italiane erano a conoscenza del programma di «extraordinary renditions» della Cia e sapevano - o avrebbero quantomeno dovuto fare le dovute verifiche preventive - come sarebbe andata a finire. Sapevano che Abu Omar in Egitto sarebbe stato torturato e hanno, ciononostante, permesso il suo rapimento. La Corte ricorda peraltro che ad Abu Omar era stato riconosciuto lo status di rifugiato politico: il rischio di persecuzione che avrebbe corso nel suo paese di origine era dunque stato ufficialmente accertato dalle nostre autorità.

Passando a considerare la violazione «procedurale», invece, la Corte sottolinea come le informazioni relative al coinvolgimento di componenti del Sismi nell’episodio fossero già circolate sulla stampa. Ed essendo note, la Corte stessa è in condizione di stabilire che, qualora utilizzate, avrebbero potuto portare alla condanna degli interessati. La decisione del governo di escludere dal processo informazioni che erano già pubbliche ha avuto - scrivono i giudici - l’unico scopo di evitare la condanna dei funzionari del Sismi. Quanto agli americani, il fatto di non avere chiesto la loro estradizione - a cui si deve aggiungere la grazia concessa al capo degli operativi della Cia, Robert Lady, dal Presidente Napolitano - ha impedito che questi fossero chiamati a rispondere. Nel frattempo anche Mattarella ha dato la grazia ad altri cittadini americani condannati.

Al dunque, a fronte degli sforzi della magistratura di accertare ed eventualmente punire, il potere esecutivo tanto ha fatto che è riuscito a fare in modo che gli accertamenti e le punizioni non fossero effettivi. Così come in altri casi, ormai piuttosto numerosi, a impedire la punizione di atti di tortura in Italia è la prescrizione, in questa vicenda gli strumenti utilizzati sono altri: il segreto di stato, la mancata richiesta di estradizione, i provvedimenti di grazia. Il risultato però è sempre quello: l’impunità.
«Cosmopolitica. Il comitatone, i referendum, le comunali. E dal 3 al 5 dicembre il congresso. Il gruppo centrale e i 60 delle regioni per decidere come eleggere il leader. E le regole delle assise». Riusciranno i nostri eroi a evitare di fare il novoSEL?

Il manifesto, 23 febbraio 2016
La «sinistra massimalista» non vince «neanche le elezioni di condominio»; quelli che hanno vinto, come Alexis Tsipras in Grecia, «poi hanno assunto una posizione sanamente e pragmaticamente riformista». Davanti ai cronisti della sala stampa estera il presidente Renzi la prende la larga per dire quello che pensa di chi sta alla sua sinistra. Quelli fuori dal Pd sono «massimalisti», quelli dentro o si adeguano oppure «ciao», come ha spiegato domenica scorsa all’indirizzo della minoranza Pd.

Basterebbe questo per spiegare la mutazione che si è formalmente compiuta lo scorso week end al Palazzo dei Congressi di Roma in tre giorni fantasiosamente denominati «Cosmopolitica» che di fatto hanno consumato lo shackeraggio fra Sel, un gruppo di ex Pd con un tesoretto di militanti al seguito, alcune associazioni (Tilt, Act, Sinistra e lavoro), singole personalità, fra intellettuali ed ex social forum.

La giornata di domenica ha sancito il passaggio di testimone di Nichi Vendola, consegnato ad un video: «È tempo che una nuova generazione avanzi sulla prima linea». E il testimone sarebbe evidentemente destinato a Nicola Fratoianni, che ha fatto l’ultimo intervento (formalmente in quanto coordinatore della segreteria). Ma il leader in pectore della nuova formazione si è attenuto ai tempi stretti, come tutti gli altri, per dare l’idea che ancora niente è deciso. E comunque nella tre giorni è affiorata una trama di giovani leader già in prima linea, e infatti molto applauditi: da Marco Furfaro di Sel («Che bello vedere due sindaci come Zedda e Pisapia venire in un laboratorio tematico, ascoltare e poi portare il proprio contributo. La sinistra torna a vincere se va per aggregazione, non per sottrazione»), Claudio Riccio, Act («Vogliamo costruire una grande forza popolare, saremo impegnati per non fare la solita cosa, la solita sinistra», Mapi Pizzolante di Tilt («Non mi abituo alla sinistra del rancore, delle formule, degli uomini che se lo misurano, voglio costruire un’intelligenza collettiva in cui governa la solidarietà, la condivisione, il mutualismo»). Per non parlare dell’esplosiva sindaca di Molfetta Paola Natalicchio, un vero fenomeno dal palco. Ma l’assemblea è finita tutta in piedi per Luciana Castellina, fondatrice del manifesto e ormai un’icona di quest’area, che con ironia allegra elogiava i ragazzi e proponeva «una federazione dei vecchi». Prima aveva tributato applausi allo «zapatismo partenopeo» di Luigi De Magistris e a Leoluca Orlando. Più fredda l’accoglienza per un coraggioso Gianni Cuperlo venuto a offrire la sua mano per «continuare a costruire ponti». Il nuovo soggetto nasce dalla rottura del centrosinistra. Le comunali, il referendum sulle trivelle del 17 aprile e quello costituzionale — i primi tre appuntamenti del nuovo partito — non accorceranno le distanze.

Si vedrà al congresso che si terrà dal 3 al 5 dicembre. Da qui a quei giorni la platea di Cosmopolitica ha deciso un percorso, con inevitabili dosi di riunioni di backstage. La proposta accettata è quella di Peppe De Cristoforo, responsabile organizzazione di Sel, e discussa in due lunghe sessioni venerdì e sabato. A breve nascerà un comitatone promotore di 150 persone ripartito in tre «gambe». La prima è quella dei parlamentari di Sinistra italiana. Una quarantina ormai: oltre a quelli di Sel e agli ex pd fin qui già confluiti, hanno annunciato la loro adesione gli ex dem Giovanna Martelli e Corradino Mineo, gli ex 5 stelle Campanella e Bocchino (un altro ex grillino, Zaccagnini, aveva già aderito). Resta di sapere cosa decideranno i senatori Uras e Stefano, vendoliani ma contrari al nuovo corso. La seconda gamba sarà una delegazione ’centrale’ composta dalla segreteria nazionale di Sel e dai rappresentanti delle organizzazioni e associazioni fondatrici, insieme a singole personalità, in tutto una cinquantina di persone. La terza gamba verrà dai famosi «territori»: entro due mesi saranno saranno sce lti tre rappresentanti per ciascuna regione «su base consensuale». Tradotto: dovranno mettersi d’accordo evitando i litigi. Cosa non semplice soprattutto in alcune città, leggasi Roma e Milano, dove la scelta arriverà in piena campagna per le amministrative e costringerà alla conta le componenti favorevoli alla ricostruzione del centrosinistra. Non sarà un pranzo di gala, lo si è visto già nel corso della tre giorni del Palacongressi in cui non sono mancate le polemiche anche ruvide: Cofferati e Fassina da una parte, Pisapia, Zedda e Smeriglio dall’altra.

I 150 del comitatone (a occhio solo il 50 per cento proverrà da Sel) dovranno decidere le regole per il congresso e per il tesseramento (sia online, sulla piattaforma «Commo», che nei circoli). Ma è una partita tutta ancora aperta. Così come quella delicatissima della modalità dell’elezione del o dei leader, della scelta di un congresso per mozioni o per tesi, quella del nome. «Sinistra italiana», nome provvisorio deciso prima dell’assemblea romana non ha riscosso l’entusiasmo dei più giovani né del coté ambientalista di Sel, preoccupato per questioni anche di impianto culturale del nuovo soggetto. Il simbolo è piaciuto ancora meno.

Resta anche il nodo di chi non c’è. Non solo l’elettore della sinistra inseguito dal nuovo soggetto. ma anche i «compagni di strada» che per ora restano su un’altra strada. Ferrero del Prc, presente a Cosmopolitica, ha ripetuto la sua proposta di coalizione di sinistra. Marco Revelli, dell’Altra Europa, quella di una «vera costituente di un soggetto plurale, unitario, inclusivo, aperto». Pippo Civati invece non c’era. Una risposta più possibilista è arrivata dai candidati unitari (Fassina e Airaudo) ma per Nicola Fratoianni la condizione resta l’ingresso nel nuovo partito: «Con oggi chiudiamo la stagione degli accrocchi a sinistra».

--
«Sinistra italiana. Scintille Pisapia-Cofferati. Il sindaco: Sel rispetti i patti e sostenga Sala. L'ex pd: no, è di centrodestra. Zedda si schiera con il collega. Primo sondaggio su Fratoianni, per il 23% il nuovo segretario sarà lui» Una domanda pertinente: si tratta di un nuovo"soggetto politico" o di una reincarnazione di SEL?

Il manifesto, 21 febbraio 2016

La prima standing ovation della platea di Sinistra italiana è per un uomo del partito democratico. Ma quello «del popolo»: è l’anziano Ertugul Kurkcu, già presidente dell’Hdp. Sale sul palco e porta i saluti «del popolo curdo e del popolo turco». A Palazzo dei Congressi spunta la lacrima.

La seconda giornata di Cosmopolitica è quella delle tremila presenze, dei 24 tavoli, del parterre de roi dei costituzionalisti, delle assemblee su democrazia, scuola, ambiente e lavoro. Dell’esordio di Commo, la piattaforma digitale su cui Sel ha investito 60mila euro perché il nuovo soggetto abbia una «casa online». E che ieri, dice Roberto Iovino, «ha fatto mille iscritti nelle sue prime otto ore di vita».

Ma è anche la giornata dei botta e risposta fra ’big’. In mattinata arriva Giuliano Pisapia, il sindaco di Milano. Partecipa ai tavoli, ma sul nuovo partito la prende larga: «Sel è una parte importante della mia storia politica, ma sono qui per affetto. Per i prossimi quattro mesi continuerò a fare il sindaco». Il fatto è che qui, in molti, gli chiedono di mollare Sala. Lo ha fatto a più riprese Sergio Cofferati, già sindaco di Bologna e ora padre nobile della sinistra-sinistra genovese. Lo ha fatto Stefano Fassina, candidato a Roma, che pur avendo non poche gatte da pelare nella Capitale dice che «la priorità a Milano è unire le forze e recuperare la parte della città che non si riconosce in Sala». Pisapia incontra l’ex segretario della Cgil in un corridoio elo abbraccia con affetto. Ma ai cronisti risponde secco: «Sel sta ragionando. Ma ha fatto un patto di lealtà per le primarie: ha vinto Sala e ora saremo tutti in campo per sostenerlo sapendo che deve continuare un’esperienza di centrosinistra. Spero, e ne sono convinto, che Sel sia accanto a me». Si schiera con lui Massimiliano Smeriglio, vice di Nicola Zingaretti alla regione Lazio: «A Milano abbiamo accettato la sfida del popolo che decide. E il popolo ha deciso in maniera interessante, perché per Majorino e Balzani hanno votato più di 30mila persone. Non dobbiamo mantenere un patto con Sala ma con il nostro popolo». Poi sbotta: «Bisognerebbe avere più aderenza alle proprie biografie. E parlo di certi ex Pd che considerano tutto il campo di centrosinistra come destra. È paradossale». Il riferimento è proprio a Fassina e a Cofferati che, una volta usciti dal Pd, sono diventati i più combattivi sostenitori della rottura delle alleanze. Cofferati replica: «Sala è di destra. Cioè, di centrodestra», quindi «è un dovere» sfidarlo con un nome di sinistra. Per esempio Pippo Civati? Civati non è qui ma manda a dire: «Io non sono candidato. In ogni caso sarebbe il caso che Sinistra italiana si mettesse d’ accordo su una posizione».

Intanto dal Pd arriva il missile del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini: «Dopo aver fatto vincere la destra in Liguria, Cofferati ci prova anche a Milano… non ci riuscirà». Replica di Cofferati: «La verita’ e’ che il Pd ha sbagliato candidato, ha lasciato che si inquinassero le primarie ed alle urne ha pagato il prezzo di aver amministrato male la Regione Liguria. Guerini finge di non ricordare le ingerenze della destra nelle primarie, ingerenze che io gli ho segnalato puntualmente».

Dice la sua, per la verità costretto dai cronisti, anche il sindaco di Cagliari, l’enfant prodige Massimo Zedda, che è di Sel ma è stato confermato anche dall’alleato Pd per il voto di giugno. Si schiera con Pisapia: «Se vince Sala, vince il centrosinistra che dimostra così di non essere morto ma poter ripartire dalle città. Alle comunali non ci può essere un dogma nelle alleanze, ma c’è una realtà molto variabile, legata come sempre alle singole realtà locali». Zedda, a differenza del sindaco uscente di Milano, si dichiara convintamente dentro il ’percorso’ di Sinistra italiana. Ma le differenze interne già si misurano. E solo un patto stretto nel nucleo fondatore del nuova cosa alla vigilia della kermesse tiene a bada i fuochi. Infatti è Nicola Fratoianni, leader in pectore della nuova forza politica, a incaricarsi di buttare otri d’acqua: «Nessun dramma, il partito non esiste ancora». Per questa semplice ragione fisica ancora non può dividersi. L’invito è a guardare oltre le comunali, come pure fa Alfredo D’Attorre: presto sarà lanciata la raccolta firme per tre referendum contro Jobs act, riforma della scuola, Italicum. Il 17 aprile il referendum sulle trivelle, poi a ottobre la «grande prova» del referendum costituzionale. Il congresso del nuovo ’partito oltre il partito’ arriverà solo a dicembre, se tutto va bene.

Ieri Fratoianni viene gratificato di un sondaggio commissionato da Huffington post. Alla domanda ’chi vorrebbe come segretario di Si’ ha raccolto il 23,08% delle preferenze, seguito da Fassina con il 15,38, da D’Attore con il 13,46. A Vendola — che oggi ’parlerà’ attraverso un video che conterrà l’annuncio di «un passo a lato» — solo l’11,54. Un ragguardevole 29,8% per cento risponde «nessuno di questi».

Per il responsabile organizzazione di Sel, Peppe De Cristofaro, mettere in ordine l’elenco oratori per il gran finale di oggi è stata una faticaccia. Dal palco sono previsti trenta interventi, il video di Vendola e il saluto — scritto — di Maurizio Landini. Fra gli altri Luigi De Magistris e Leoluca Orlando, il segretario del Prc Ferrero. La deputata ex Pd Giovanna Martelli, già consigliera del governo per le pari opportunità, annuncerà un avvicinamento. Il senatore ex grillino Francesco Campanella, oggi nel misto con la casacca Altra Europa per Tsipras, l’ingresso in Sinistra italiana (malumori nell’Altra Europa che invece non entra nella nuova cosa). Annunci di adesione anche dall’ex grillino Fabrizio Bocchino e dall’ex Pd Corradino Mineo. Ci saranno Ilaria Cucchi e Luciana Castellina. E Gianni Cuperlo, che per essere qui si allontanerà dall’assemblea Pd: ma solo temporaneamente

». La Repubblica, 20 febbraio 2016

Cervelli in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi.

Il tasso di emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca (anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico “regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato a caro prezzo.

C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a 10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel 2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo 16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25 e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso d’Europa (media 82 %)».

Un indice significativo è offerto dai finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12 anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%. Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+ 61).

Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via: l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi universitari, congelati da anni e non competitivi.

Davanti a questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati dappertutto?

La scuola, l’università, la ricerca sono prove di futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti? Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo 0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin (“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque anni).

Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie “competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che essi stessi rappresentano.

Cosmopolitica. Davanti a duemila persone via al nuovo partito, il nome definitivo al congresso. Ci sarà un comitato promotore largo. "Ultima chiamata, riconquistiamo la fiducia dei nostri"». Il manifesto, 20 febbraio 2016

Grandi palloni rossi e sottili frecce gialle tipo patatine fritte, elementi stranianti nel razionalissimo Palazzo dei Congressi di Roma. Oltre 2mila presenze registrate, un palco che s’infila nella platea in un tentativo di accorciare le distanze fra chi parla e chi ascolta, come dire fra la sinistra e il suo popolo, perché l’obiettivo è «riconquistare la fiducia dei nostri», spiega Peppe De Cristofaro. È partita ieri pomeriggio la tre giorni di Cosmopolitica, ’cosmo’ anche perché è la ricerca di mettere ordine al ’caos’, spiega il professore Carlo Galli. È il primo giorno di «un’assemblea libera, che non può essere congressuale» (ancora De Cristofaro). Oggi si apriranno i 24 tavoli stile Leopolda e le quattro assemblee tematiche sulle quattro campagne del nuovo soggetto: democrazia, scuola, ambiente, lavoro e welfare. Poi un’intera sessione sulla democrazia digitale e su ’Commo’, la «casa online» di Si. Domenica sarà la giornata clou.

Ma il vero congresso invece arriverà a dicembre, così il vero simbolo, il vero nome, le vere regole. Fin lì è tutto provvisorio: il nome Sinistra italiana, che è quello del gruppo parlamentare nato alla camera dalla fusione fra Sel e cinque ex Pd. È noto il dissenso dei ragazzi del movimento Act sul nome, forse addirittura sulla parola «sinistra» per essere stata consumata da molti usurpatori, ma se ne riparlerà. Paolo Cento proporrà «Sinistra verde». Ma per ora giovani scapigliati e vecchie glorie sembrano d’accordo che bisogna tenere la creatura al riparo delle polemiche. Anche sulle perplessità sull’idea di «partito», altro termine su cui le anime più movimentiste sbuffano. Il risultato è la proposta di De Cristoaro: «Una formula ibrida, un partito oltre il classico partito», in grado — nelle intenzioni — di chiudere «il tempo degli accrocchi e di tutto quello che ha segnato la sconfitta della sinistra».

Ci sarà un comitato «ampio, imponente e aperto», e uno esecutivo più ristretto su cui si percepisce una certa effervescenza. Le questioni organizzative non scaldano i cuori (ma il confronto sì, mentre il manifesto va in stampa si svolge la prima delle due plenarie su questo delicato aspetto), ma sono importanti per capire se il nuovo soggetto avrà le gambe per affrontare la lunga traversata di una sinistra che diventa autonoma e indipendente.

La sfilata degli interventi, coordinati da Betta Piccolotti, affronta le battaglie qualificanti future. Immigrazione, democrazia, referendum sulle trivelle e quello sulla riforma costituzionale, la platea paziente ascolta. Si commuove per l’omaggio a Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, e Valeria Solesin, la ricercatrice morta al Bataclan di Parigi.

I temi sono tanti, si passano il testimone, a volte con qualche contraddizione. Voluta, non casuale: sono le contraddizioni della sinistra, intesa almeno fin qui nel suo significato più estensivo. Basta ascoltare Franco Martini, Cgil, l’autocritica di un sindacato che si è attestato «sulla difesa di quello che eravamo, di quello che ci stavano portando via», e subito dopo la ricercatrice Marta Fana che contesta alla Cgil proprio gli accordi per i quali i salari sono andati giù.

Il cimento del percorso costituente è rimettere insieme non tanto i pezzi della sinistra ma un suo punto di vista. C’era Sel, ma non è bastata, il fallimento della coalizione Italia Bene comune lo dimostra. C’erano i movimenti e adesso non ci sono più, o almeno ci sono poco. Il rischio di chiudersi in una ridotta: per alcuni è considerato un pretesto per la conservazione dell’esistente, per altri è forte. In un’intervista video Laura Boldrini lo dice: «Il cambiamento non si fa in un angolo, il cambiamento non si fa ballando da soli».

Lo sa bene Stefano Fassina, qui presente, che cerca di mettere insieme tutta la sinistra romana per le amministrative. Dal versante opposto del residuo centrosinistra, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi ci sarà, ma non ha ancora deciso se parlare: a occhio questa la platea non voterebbe Sala, il candidato renziano che ha vinto le primarie. Sergio Cofferati lo dice: «Sala è la negazione della stagione dei sindaci arancioni». L’ex segretario Cgil però non vuole rubare la scena: «Oggi c’è la necessità e l’impegno a far emergere le forze dei giovani». Farà il padre nobile, magari un padre ancora molto attivo. Così anche Nichi Vendola, il cui intervento registrato è atteso per domenica.

Per dissenso invece non ci sono anche altri protagonisti: Civati, per esempio. Rifondazione e l’Altra Europa sono ospiti ma per ora stanno fuori da Si. «Spero che arrivino, nessuno è proprietario del processo costituente», dice l’ex dem Alfredo D’Attorre. Ma è il problema dei problemi. E non è questione (solo) di qualche parlamentare o qualche sigla, riguarda il popolo di una sinistra oggi senza popolo. «Il punto è che questo processo non ci chiuda in sé, che sappia dialogare con quello che c’è fuori. Che con i movimenti non costruisca un rapporto di cooptazione, che non abbia la pretesa di rappresentare tutto», è l’invito del professore Sandro Mezzadra.

Il manifesto e Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto
CASSON: «RENZI DEVE PRETENDERE RISPETTO DA AL-SISI»

Il senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla riservatezza», premette Casson.

Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in queste situazioni.

A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine feroci tra apparati e tra fazioni.

Il suo collega Giacomo Stucchi, il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato - che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro - che fanno quello che vogliono.

E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato. Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti internazionali.

In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più limitata.

Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi segreti».

Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.

Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?

Penso che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati. Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della propria sovranità che in questo caso è stata violata.

Quindi sta nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale, come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.

Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.

Infatti bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da tre o quattro legislature.

Corriere della Sera
L’INCHIESTA REGENI
DALL'EGITTO CAOS E SMENTITE.
I DUBBI DEGLI INVESTIGATORI ITALIANI
di Virginia Piccolilli

I media: il killer è dei Fratelli musulmani. La Procura del Cairo: non ci sono prove

«La Procura egiziana si sta avvicinando all’identificazione del killer». L’annuncio arriva nel pomeriggio sul portale egiziano filogovernativo Youm7: «Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano».

Dopo aver indicato come possibile causa di morte del 28enne friulano l’incidente stradale, poi il festino gay finito male, poi la rapina e poi il semplice atto criminale, i media egiziani suonano così la grancassa di un ultimo cambio di pista. Ipotizzato sin dall’inizio perché punta proprio dritto contro i più aspri nemici del governo di Al Sisi. Ma la stessa Procura di Giza, in serata, ieri, ha smentito le indiscrezioni: «Al momento ci stiamo concentrando sull’analisi dei suoi spostamenti e delle sue frequentazioni, questo perché non sappiamo ancora dove sia andato dopo essere uscito di casa il 25 gennaio scorso». Sarà stato davvero un abbaglio del quotidiano?
Aspettano di capirlo gli ambienti investigativi e diplomatici italiani. Il ministro Paolo Gentiloni ha detto che non accetteremo una «verità di comodo». Una svolta non dimostrata potrebbe avere delle conseguenze sul piano dei rapporti tra il governo egiziano e il nostro. Giacché, come ha già dichiarato il premier Matteo Renzi «l’amicizia è possibile solo nella verità». Invece in quindici giorni di indagini sul posto la nostra squadra investigativa ha ricevuto solo promesse di collaborazione dagli omologhi egiziani. Nessun elemento. Nè le immagini delle telecamere a circuito chiuso, che il Ros e lo Sco vorrebbe visionare anche se vuote. Nè i tabulati telefonici. Nè i risultati dell’autopsia egiziana.
La «svolta», annunciata citava proprio quelle prove. «La Procura di Giza sud, guidata dal presidente Ahmed Naji - si legge sul portale -, sta portando avanti gli sforzi per svelare i misteri e le circostanze» della morte del ventottenne italiano, e parla di «importanti indizi raccolti dopo aver ricevuto il rapporto medico e un resoconto dalle chiamate in entrata e uscita». E aggiungeva che il team di indagine italiano «era in stretto contatto con l’ufficio del procuratore generale» egiziano, con l’obiettivo di «aggiornarsi sugli ultimi sviluppi dell’indagine» e per «metterli a confronto» con i risultati ottenuti da loro. In realtà nemmeno ieri era giunto alcunché dalla squadra investigativa egiziana capeggiata da un poliziotto, Khaled Shalaby, condannato per aver torturato a morte, durante un interrogatorio, un arrestato.
Intanto il caso si fa più spinoso anche in Italia. Di fronte al Copasir, il Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, secondo indiscrezioni, avrebbe detto di «non escludere» che i report di Giulio Regeni - sulla situazione sempre più tesa nel sindacato degli ambulanti critici con il regime - «possano essere stati utilizzate da servizi stranieri». Anche se ciò sarebbe avvenuto senza una sua consapevolezza. Perché, come ha riferito il presidente Copasir, Stucchi, «il direttore dell’Aise ha confermato che Regeni non aveva alcuna collaborazione di nessun tipo con le nostre agenzie di intelligence». Manenti avrebbe anche detto che poco prima dell’omicidio di Regeni, ricercatori britannici e americani erano stati rimpatriati e al loro arrivo avevano riferito di violenze subite.
Manenti ha parlato di «coincidenza» per la sua presenza al Cairo il giorno del ritrovamento. E ha ricostruito «ora per ora» cosa ha fatto la nostra intelligence in quei giorni di buio, fino al 3 febbraio, quando il corpo è stato ritrovato. «Gli egiziani - ha concluso Stucchi - hanno commesso errori incredibili».

Un'occasione da non perdere per tentare di costituire una forza politica nettamente "di parte" che dia voce e speranza alle vittime della fase attuale del sistema capitalistico. Una cronaca del primo giorno dell'assemblea nazionale e il documento d'apertura. Il manifesto, 19 febbraio 2016

NUOVO SOGGETTO COSMOPOLITICO
di D.P.


Sinistra. Al Palazzo dei Congressi la tre giorni romana, quasi-nascita del partito. Da oggi un fitto programma di tavoli, dibattiti, laboratori e colpi di scena. Ci saranno anche Zedda e Pisapia

Un ricordo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo, dei cui assassini ancora non si sa nulla. Un video sull’esaltante campagna elettorale di Bernie Sanders. Il promo di un film sulle trivelle (il regista è Emanuele Bonaccorsi) per ricordare che il primo appuntamento con il destino, per la nuova creatura politica che nasce, è quello del referendum del 17 aprile.

Partono oggi pomeriggio alle quattro — al Palazzo dei Congressi di Roma — le tre giornate di Cosmopolitica, la quasi-nascita del nuovo soggetto della sinistra. Il vero parto avverrà a dicembre, almeno secondo la proposta di molti del gruppo di organizzatori, quando dovrebbe tenersi il congresso fondativo; dopo il referendum sulla riforma costituzionale, che sarà uno spartiacque per il futuro del paese.

Il programma è fitto di dibattiti, laboratori, tavoli ma anche piccoli eventi e colpi di scena, in qualche misura. Il modello è quello della kermesse ’sellina’ Human Factor, e non è diversissimo dalla Leopolda renziana. Ma gli organizzatori smentiscono con fastidio: i dibattiti dei tavoli finiranno condensati in una sintesi che poi andrà a implementare il programma politico. Si vedrà.

Nei laboratori o nel palco della plenaria arriveranno figure storiche della sinistra italiana, come Luciana Castellina, ma anche storie più recenti, e più impreviste, come quella di Giovanna Martelli, consigliera per le pari opportunità del governo Renzi che qualche settimana fa ha lasciato il gruppo del Pd in polemica. C’è chi dice che potrebbe annunciare il suo avvicinamento a Sinistra italiana.

Ci saranno i sindaci Leoluca Orlando e Luigi De Magistris, ma anche Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che è vero che sono di Sel, ma la loro presenza non era per niente scontata: si tratta pur sempre della nascita di un soggetto ostile alle alleanze con il Pd in piena campagna elettorale nelle proprie rispettive città.

Fra gli scettici, ma con motivazioni opposte, anche Marco Revelli dell’Altra Europa e Paolo Ferrero del Prc, ma anche loro ci saranno. Come i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, un messaggio di Maurizio Landini, i presidenti di Legambiente, Arci, Arcigay.

Nichi Vendola non ci sarà, sarà presente con un video che sarà proiettato domenica. E c’è da scommettere che sarà un momento delicato per l’assemblea, quello del fondatore di Sel non presente al suo evento di trasformazione in nuovo partito.

Ma l’elenco è impossibile, il programma completo si trova su Cosmopolitica.org. Il calcio d’avvio è affidato a Betta Piccolotti, responsabile comunicazione di Sel, poi a Andrea Ranieri, il braccio destro di Sergio Cofferati che riassumerà il documento politico su cui nasce l’ipotesi del nuovo soggetto, e ancora il sociologo Carlo Galli, ex deputato Pd e ora entrato nel gruppo di Sinistra italiana e poi la filosofa Laura Bazzicalupo.

Più o meno a questo punto dovrebbe andare in onda il video di Laura Boldrini, la presidente della camera proveniente dalle file di Sel ma che guarda con qualche apprensione il percorso della ’nuova cosa’. Per la quale, spiega, è certa che ci sia «uno spazio politico». Altri due ’scettici’ della possibile radicalizzazione a sinistra saranno presenti di persona: domani Giuliano Pisapia, alle prese con grosse turbolenze nella sua ex lista, domenica Massimo Zedda.

Più tardi, già oggi, la prima assemblea plenaria sul percorso costituente, per dare un minimo di organizzazione e un comitato provvisorio nel periodo transitorio di qui al congresso (questa sessione sarà tenuta da Peppe De Cristofaro, senatore e responsabile organizzazione di Sel).

L’assemblea si riconvocherà domani alla stessa ora. Qui si parlerà della forma partito, qui si deciderà il nome della nuova cosa, almeno quello provvisorio. «Sinistra italiana» per ora è il più quotato da Sel ed ex Pd, ma anche il più criticato dai movimenti.

Domani sarà giorno dei ventiquattro tavoli tematici (dai diritti civili al disarmo, dalla sanità al futuro del terzo settore, dalle banche all’antimafia fino al Sud e all’accesso ai saperi, dal Jobs Act all’austerità alla criminalizzazione delle migrazioni), e della discussione sulla democrazia digitale anche per cominciare a prendere le misure con Commo, la piattaforma digitale del nuovo soggetto politico, che rischia di essere una presenza sovraccarica di senso — forse anche di aspettative — sin dall’inizio del nuovo percorso.

Nel pomeriggio quattro assemblee sulle altrettante aree tematiche che sostanzieranno le quattro prime campagne del nuovo soggetto, insomma il primo abbozzo di programma. «Democrazia, partecipazione, riforme costituzionali», «Saperi, scuola, istruzione, conoscenza», «Ambiente, clima, conversione ecologica dell’economia», «Lavoro, welfare, politiche economiche».

CONQUISTARE I DELUSI
IL PARTITO NODO DELLA RETE
di Cosmopolitica
Il documento di apertura del congresso della sinistra a Roma. Un nuovo spazio, politico e alternativo, per rispondere a chi ha perso la fiducia ma non rinuncia
Viviamo in un tempo in cui comandano i mercati, e se dentro i mercati comanda il grande capitale finanziario, la democrazia si restringe. Nei tempi, così come nei contenuti, “i mercati non aspettano” perché le scelte sono determinate non dai bisogni e dai desideri dei cittadini ma dalla disponibilità del grande capitale ad investire in un determinato territorio. E come è noto i capitali preferiscono collocarsi dove minori sono i salari e i diritti.

La competizione politica in questi anni ha avuto come posta il dimostrarsi più efficiente e più pronta a modellare il proprio paese secondo i dettami del pensiero unico neoliberista. Ma è così che la politica perde la sua ragion d’essere e la sua credibilità.

Se la politica agisce sulla base di stati di necessità determinati altrove, le persone ritengono sempre più inutile votare e partecipare alla vita dei partiti. Specialmente le persone più povere, per reddito e per sapere. La politica che compete nel campo ristretto disegnato dagli interessi del grande capitale finanziario diventa sempre più rissosa e meno trasparente. La degenerazione morale della politica origina dal venire meno di chiare alternative strategiche, di interessi e di valori.

Se gli obiettivi da raggiungere sono per tutti gli stessi, se si rifiuta in partenza l’idea che un altro mondo è possibile, se cadono le distinzioni che hanno segnato le storie della sinistra e della destra, la politica diventa sempre di più un affare interno di chi nella politica investe per affermare se stesso. La casta dei professionisti della politica, che si rottama per rigenerarne una nuova.

È per questo che abbiamo deciso di intraprendere la strada della costruzione di un partito della sinistra. Perché siamo partigiani. Rispetto alla parte che ha voce, soldi, potere noi scegliamo l’altra parte, quella che oggi non trova voce e ascolto dentro la politica istituzionale. La parte di quelli che hanno visto ridurre il proprio reddito e la possibilità di decidere della propria vita, mentre ricchezze e potere si sono concentrati nelle mani dei pochi. La parte di quelli che credono che il sapere sia un modo per orientarsi nel modo e per orientarlo, che stia insieme alla libertà e alla bellezza e non alla ricerca del profitto e dell’utile. La parte delle intelligenze negate, di quelli a cui non è stata data la possibilità di accedere al sapere e di quelli che vedono ogni giorno svalorizzata la conoscenza che hanno acquisito con impegno e fatica. La parte di quelli che non misurano l’uscita dalla crisi sulla base di qualche decimale di PIL in più o in meno, magari trainati da quegli stessi fattori (il petrolio a buon mercato, l’aumento della liquidità monetaria) che hanno provocato la crisi economica e messo a rischio il pianeta; bensì dal lavoro buono e dignitoso che si riuscirà a costruire, dalla salubrità dell’ambiente in cui viviamo, dalla diffusione del sapere e della cultura, dalla salvaguardia e dall’estensione dei beni comuni, da una più equa redistribuzione dei profitti dalle rendite finanziarie verso i salari, la ricerca libera e l’innovazione tecnologica.

Rispetto ad un mondo che ha subordinato ogni cosa all’utile e al profitto siamo dalla parte dell’uguaglianza e della libertà.

Ma i partiti attuali non sembrano avere nessuna voglia di affrontare le ragioni vere della loro crisi di rappresentanza, che si manifesta nel crescente astensionismo e nel venire meno della partecipazione alla loro vita. Hanno anzi scelto quasi ovunque la strada del decisionismo e del restringimento degli spazi nei quali si esercita la democrazia. Si vota per decidere chi comanda. Dopo starà a chi comanda esercitare un potere sempre meno trasparente e sempre più subalterno alle logiche del grande capitale.

È questa la ragione di fondo che orienta la riforma della Costituzione e quella delle legge elettorale che il Parlamento ha votato e che saremo chiamati a confermare o a respingere con un referendum.
Se si intende continuare a smantellare lo stato sociale, a ridurre i diritti di chi lavora, a martoriare il territorio con le grandi opere e le trivellazioni, occorre ridurre gli spazi dove il popolo e che lo rappresenta prendono la parola. Il Parlamento deve essere un luogo di maggioranze blindate e di truppe fedeli, con tempi sempre più ristretti per discutere e deliberare.

Rischiamo di diventare la repubblica del silenzio ­assenso rispetto alle decisioni di chi comanda. E si riducono le risorse economiche e progettuali a disposizione delle autonomie locali, quelle che comunque devono fare i conti in presa diretta con le domande dei cittadini.

Il referendum per la Costituzione sarà il primo terreno su cui il nuovo soggetto politico in costruzione si cimenterà. Per evitare che venga prosciugata l’acqua in cui la buona politica può esercitarsi.

Non sarà solo una battaglia a difesa della Costituzione nata dalla Resistenza. Sarà una battaglia per dare alla Costituzione piena attuazione. Dal diritto al lavoro, a quello alla salute, alla casa, all’istruzione e alla cultura, promuovendo campagne e se occorre referendum per affermare i diritti negati dalle misure del governo su questi terreni. E per affrontare con lo spirito della nostra Costituzione i nuovi grandi problemi che mettono a rischio la convivenza e la vita stessa nel nostro Paese e nel Pianeta.

Il riscaldamento climatico, le migrazione dei popoli, la risposta al terrorismo e alla guerra, il diritto ad una vita felice delle donne e degli uomini indipendentemente dal loro orientamento sessuale. E come aprire nei luoghi del lavoro e della vita spazi di partecipazione nei quali le persone siano chiamate a deliberare sulle scelte che riguardano il loro presente e il loro futuro.

Il partito che vogliamo costruire si presenterà alle elezioni ma non sarà il partito delle elezioni.
Sarà presente nelle istituzioni ma non sarà il partito degli eletti. Sarà il partito che intende promuovere la democrazia di ogni giorno. E che assicurerà il suo pieno sostegno e quello delle sue stesse presenze istituzionali, come già oggi fanno il gruppo parlamentare della sinistra italiana e gli amministratori locali impegnati sul progetto, a tutti i movimenti, i sindacati, le associazioni che nel territorio e nei luoghi di lavoro promuovono partecipazione e conflitto.

Perché sa che nessun vero cambiamento è possibile senza rivitalizzazione della società e del tessuto democratico diffuso del nostro Paese, senza ricostruzione della trama sociale lacerata e divisa da anni di egemonia politica, culturale, economica e sociale del neoliberismo.

Nella società degli individui frammentati e massificati, tenuti insieme dalla cultura del consumismo, vince la destra comunque si chiami. Il nostro partito non pretenderà di esser il soggetto unico della politica. Se c’è ancora speranza di salvare l’Italia e l’Europa è perché in questi anni migliaia di presone hanno continuato a pensare e a ragionare insieme sulle scelte che riguardano la loro vita e il loro rapporto coi grandi problemi del mondo. Cominciando a praticare le cose che chiedevano e rivendicavano.

Dal diritto alla casa, all’istruzione, alla salute, al rispetto dell’ambiente, alla solidarietà attiva nei confronti dei migranti, alla difesa e alla valorizzazione del beni comuni. La nostra aspirazione al governo e la nostra possibilità di governare si fondano sulla piena autonomia e sulla creatività di questi soggetti. Soggetti che dal canto loro ogni giorno verificano come, proprio per salvaguardare la loro autonomia e la loro capacità di incidere, sia necessaria anche una presenza che ne assuma contenuti e obiettivi nelle sedi dove si possono spostare e finalizzare risorse, dove di decide lo spessore delle frontiere,la pace e la guerra. Nel governo delle amministrazioni locali, degli Stati, dell’Europa.

Questo intreccio fra movimenti sociali e obiettivi di governo spiega l’avanzata in Europa di una nuova sinistra, da Syriza a Podemos. E l’affermarsi in alcuni degli stessi partiti storici di leaders esplicitamente alternativi al neoliberismo dominante e al predominio della finanza.

Jeremy Corbyn in Inghilterra. Bernie Sanders negli Stati Uniti. Si apre oggi in Italia, in Europa, nel mondo un nuovo spazio politico a sinistra oltre la crisi delle socialdemocrazie. Il nostro partito non pensa se stesso come il vertice di una piramide ma come il nodo di una rete in cui si moltiplicano le esperienze di autogestione, di mutualismo, di auto organizzazione.

Nemmeno il percorso che intendiamo intraprendere per fondare il nuovo partito sarà verticale, tanto meno verticista. Nessuno deve essere legittimato a dirigere sulla base delle sue precedenti esperienze di direzione.

Perché anche il modo di fare politica di chi ha messo a disposizione sé stesso per il nuovo progetto, nei partiti come nei movimenti, non è stato esente dai molti dei vizi della politica che vogliamo superare. E perché oggi l’intelligenza necessaria ad affrontare i grandi problemi che il mondo attraversa è diffusa tra quelle migliaia di persone che mentre la politica insisteva nei vecchi rituali e nelle vecchie formule, hanno provato a tenere insieme e a pensare insieme i loro problemi e i problemi del mondo. Sono loro che devono essere protagoniste del percorso che si apre. Sono le loro idee, le loro esperienze che devono nutrire il percorso a partire dai tre giorni di febbraio. Loro come persone e non per la tessera che hanno in tasca.

Il nuovo soggetto non può essere la semplice unione tra quanti in questi anni hanno provato a resistere, coi loro partiti o come minoranza nel partito di Renzi, alla deriva neoliberista e decisionista.
Non ha come obiettivo di conquistare una dignitosa percentuale all’interno di un corpo elettorale drasticamente ridotto dalla sfiducia e dall’astensionismo. Deve avere l’ambizione di conquistare alla partecipazione democratica gli sfiduciati e i delusi: e i tanti che fanno politica, la politica che conta, nei luoghi del lavoro e della vita.

È per questo che abbiamo detto no al nuovo soggetto come federazione delle esperienze organizzate esistenti.È per questo che partirà una vera e propria marcia per l’alternativa, un cammino di assemblee e di piccoli e grandi incontri che attraverserà l’Italia per organizzare il confronto pubblico sui temi, coinvolgendo reti sociali e di movimento, associazioni, ricercatori, sindacati e singoli cittadini in una grande discussione sul futuro del paese.Chi farà nel nuovo partito la sua prima esperienza politica deve contare quanto chi viene da una lunga storia.

Certamente sarà necessario dare vita a strutture di coordinamento e di servizio che organizzino la partecipazione e la mobilitazione sugli obiettivi che insieme ci daremo. Ma siamo chiamati tutti a vigilare perché questa delega provvisoria fino al Congresso Costituente non sia una requisizione del dibattito politico e delle decisioni.

Le strutture territoriali che costruiremo non dovranno essere semplici terminali per mobilitare la gente su decisioni assunte altrove, ma i momenti essenziali della stessa elaborazione politica.
I grandi obiettivi generali che ci daremo saranno tanto più forti e convincenti quanto più nasceranno dalle pratiche sociali e dai pensieri che le alimentano.
I nuovi strumenti di comunicazione, come la piattaforma digitale, così come il coordinamento intelligente delle occasioni più tradizionali di confronto diretto, rappresenteranno i luoghi nei quali si incontreranno le idee e le proposte nate nei territori, per diventare patrimonio di tutte e di tutti.

«L’economista ed ex ministro delle finanze greco parla del Movimento per la democrazia in Europa lanciato a Berlino. "La tempesta perfetta del 2015 allarma anche chi non aveva posizioni critiche sull’Unione. C’è spazio per nuove coalizioni"». Il manifesto,

Incontriamo Yanis Varoufakis il giorno dopo il lancio del Movimento per la democrazia in Europa (DiEM 25) alla Volksbühne di Berlino, chiedendogli, per iniziare, un’illustrazione del progetto.

«Nel 2015 abbiamo avuto in Europa una sorta di tempesta perfetta, per il sommarsi di molteplici fattori di crisi: lo scontro tra il governo greco e la troika, i rifugiati, l’assenza di una politica estera europea su quanto accade in Nord Africa e in Siria, in Ucraina. Queste crisi hanno due conseguenze essenziali: accelerano una tendenza alla disintegrazione dell’Unione Europea, ma mettono in allarme anche quanti, in questi anni, non hanno avuto posizioni critiche sull’Europa: molti democratici liberali, moderati, affezionati alla democrazia, difficilmente possono sentirsi a loro agio in questa Unione, dopo quanto è avvenuto nel 2015. Questo disagio lascia spazio a nuove coalizioni, tra democratici liberali, socialdemocratici, radicali di sinistra, verdi, attivisti come quelli della rete Blockupy. È una possibilità che non durerà a lungo. Se non la cogliamo, se non costruiamo un movimento “pan-europeo” capace di interrompere la tendenza alla disintegrazione dell’Europa, al riemergere dei nazionalismi, mancheremmo un compito decisivo».

Il progetto e il manifesto di DiEM pongono al centro la questione della democrazia. Ma come intendono superare quella crisi della democrazia rappresentativa così evidente non solo a livello europeo ma anche nei singoli Stati membri? A noi sembra che vi siano ragioni strutturali che spingono verso l’emergere di processi di governo “post-democratici”. E che dunque il riferimento alla democrazia debba essere qualificato in maniera radicalmente innovativa.

«Credo che si debbano distinguere due aspetti. C’è una crisi generale della democrazia, nell’epoca del capitalismo finanziarizzato. Il capitale finanziario è nemico della democrazia ovunque nel mondo, negli Usa come in Europa. Ma c’è una specificità tossica per quanto riguarda l’Europa: non abbiamo una federazione con specifiche istituzioni democratiche, la stessa Banca Centrale Europea ha uno statuto non paragonabile ad esempio a quello della Federal Reserve. Non abbiamo neppure i checks and balances di base che caratterizzano le democrazie. La stessa crisi della democrazia negli Stati nazionali è qui connessa con il modo in cui funziona l’Ue: quest’ultima prende tutte le decisioni che contano per un Paese come l’Italia, ad esempio, e il demos non ha la possibilità di intervenire. I suoi rappresentanti nazionali non hanno alcun potere di realizzare le loro promesse, come abbiamo visto in Grecia».
Ci sembra tuttavia che in questo modo non venga aggirata la difficoltà di riproporre sul livello europeo soluzioni istituzionali centrate attorno alla rappresentanza, nel momento in cui questa si trova di fronte a fattori di crisi che hai definito «universali».

«Non sono un federalista nel senso conservatore del termine, non penso che la soluzione consista semplicemente nel fatto che i governi si riuniscano e decidano qualche tipo di federazione. Penso ad esempio alle proposte di Schäuble: non determinerebbero democrazia ma autocrazia, condurrebbero a una sorta di dispotismo fiscale. L’unione politica non è necessariamente democratica. Il punto fondamentale è questo: noi non pensiamo che la democratizzazione possa venire dall’alto! Può solo venire dal basso, e questa convinzione è ciò che fa di DiEM un movimento, e non un think tank o un partito federalista europeo. Il primo passaggio per noi è la trasparenza dei processi decisionali: siamo fortemente convinti che questo punto possa cambiare le regole del gioco. La seconda priorità, per discutere sulla democratizzazione dell’Ue, è rimuovere i fattori che ne stanno determinando la disintegrazione. Penso a interventi radicali sul debito, sul sistema bancario, sul basso tasso di investimenti, sulla povertà e sulle migrazioni. Si può farlo reinterpretando le regole esistenti, non semplicemente invocando “flessibilità” come fa Renzi, e cioè la gentile concessione di non seguire le regole. Dobbiamo riorganizzare le istituzioni esistenti, cambiare la politica della Bce, della Banca Europea per gli Investimenti. È possibile lavorare all’interno delle regole, ma reinterpretandole radicalmente: Schäuble lo fa di continuo, a modo suo».
La disintegrazione dell’Europa ha tra l’altro aspetti che si possono definire in termini geografici. Alla divisione tra Nord e Sud si aggiunge ora, in maniera molto aspra quella tra Est e Ovest, che non riguarda solo la questione dei rifugiati ma l’idea stessa del rapporto tra governanti e governati. In queste condizioni come può svilupparsi un’iniziativa “pan-europea”?

«La frattura tra Est e Ovest attraversa ogni ambito, dal tema dei migranti a quello dell’organizzazione della zona euro e della politica estera. Molti Paesi dell’Est reclamano una politica aggressiva, militaristica contro la Russia, pretendono la nostra solidarietà su questo terreno senza offrirne alcuna su questioni come la ristrutturazione del debito pubblico. Come possiamo costruire ponti tra Est e Ovest? L’unico modo è attraverso movimenti capaci di coinvolgere i democratici, i progressisti di quei Paesi, offrendo loro un’opportunità. Immaginate di essere giovani dissidenti ungheresi, non avete un’iniziativa, un soggetto a cui aderire. Il partito europeo della sinistra non accetta iscrizioni dirette, è una confederazione di partiti nazionali, e i suoi rappresentanti in Paesi come l’Ungheria o la Repubblica Ceca sono screditati. Se il DiEM riesce ad affermarsi come punto di riferimento credibile e attraente per i democratici nell’Europa dell’Est, può costruire dei ponti».

La questione del rapporto con la Russia ci sembra cruciale e gravida di pericoli. Alle sue spalle c’è la questione del rapporto tra l’Unione europea e gli Stati uniti e in particolare il ruolo della Nato. Che cosa ne pensi?
«Ho lavorato a lungo negli Stati Uniti, e ho avuto colleghi collaboratori della Nato. Molti di loro sono convinti che la Nato abbia esaurito la sua funzione. Il problema è che la Nato è alla costante ricerca di ragioni che ne legittimino l’esistenza. Deve inventare continuamente nuovi nemici. È quel che vogliamo in Europa? Non credo. Prendiamo Putin. Lo considero un criminale di guerra, non per l’Ucraina ma per quel che ha fatto in Cecenia. Il più grande regalo alla carriera politica di Putin è stata l’espansione della Nato a est. Può dire al suo popolo che l’autoritarismo in Russia è giustificato dall’incombere di un nemico. Oggi la Nato offre un senso di sicurezza fittizio a Paesi come l’Estonia, la Georgia, l’Ucraina. In realtà la sua espansione a est comporta militarizzazione e continue occasioni di conflitto con la Russia. Una Ue consapevole dei suoi interessi dovrebbe semplicemente non partecipare a questo gioco.

L’obiettivo di lungo termine del DiEM è la convocazione di un’assemblea costituente in Europa. Quali sono le condizioni per compiere questo passo che, nella storia, ha sempre seguito grandi rotture e sommovimenti sociali?

«La mia compagna, un’artista, una volta mi ha detto: perché sugli aerei c’è una scatola nera che ci potrà dire dopo la catastrofe per quali ragioni siamo morti? Non sarebbe meglio averne una da aprire prima dell’incidente, in modo che questo non avvenga? Mi sembra un’ottima domanda: perché dovremmo aspettare il disastro per organizzare un’assemblea costituente e non farlo invece perché non avvenga? Le condizioni oggettive per un’assemblea costituente sono date in Europa per la frammentazione di fronte a cui ci troviamo. Abbiamo bisogno di un insieme di movimenti che impongano alle istituzioni europee un’agenda di stabilizzazione nel senso che cercavo di spiegare prima. Solo su questa base si può creare un sistema elettorale inclusivo e realmente europeo per l’elezione dell’assemblea. I tedeschi, ad esempio, devono avere la possibilità di votare candidati italiani o francesi (e viceversa). Una buona fonte di ispirazione possono essere i progetti di ricerca finanziati dalla Commissione nelle università: se vuoi fare domanda per un finanziamento devi creare un consorzio tra Università di almeno sette Paesi. Perché non immaginare che per candidarsi alla costituente sia necessario formare liste con candidati di dieci o quindici Paesi?»

Hai parlato in questi giorni dell’austerità come una forma di “guerra di classe” dall’alto. Ma quali forze oggi possono essere messe in campo dal basso non solo per difendersi dall’attacco ma per esercitare un reale potere costituente?

«Molti compagni e amici mi hanno rimproverato un riferimento troppo generico alla democrazia. Ma pensate alla definizione che ne ha dato Aristotele, il quale non era certo un democratico: il governo dei liberi e dei poveri. È una buona definizione: i poveri, i subalterni, gli sfruttati sono la maggioranza. E dunque una democrazia reale non può che essere dominata dai movimenti dei poveri. Le democrazia liberali, che hanno le loro radici nella tradizione della Magna Charta, sono state certo un’altra cosa. La Magna Charta è una carta dei baroni, dei proprietari terrieri contro il Re, che garantiva loro di avere i propri servi e di non vederseli portare via dal sovrano. La democrazia liberale ha questo pedigree. Questa democrazia è arrivata ai suoi limiti con il capitalismo finanziarizzato. Un movimento democratico oggi è per definizione un movimento che punta a mettere fine alla guerra di classe dall’altro organizzando un contrattacco dal basso».

Questo pone il problema, per noi fondamentale, di pensare una nuova articolazione tra movimento democratico e lotta di classe. Come pensi concretamente una simile articolazione?

«Se è la stabilizzazione il problema basilare in Europa, questa non è possibile senza la crescita tumultuosa di un movimento democratico. I poteri esistenti non ne sono in grado. Immaginate un movimento che imponga alla Banca centrale di cominciare ad acquistare il debito della Banca Europea per gli Investimenti anziché quello tedesco o italiano, per finanziare un ambizioso Green New Deal per l’Europa. Invece di stampare moneta per i circuiti del capitale finanziario, la creazione di moneta andrebbe a finanziare la cooperazione produttiva, a creare posti di lavoro in settori innovativi, ponendo al tempo stesso condizioni favorevoli per l’organizzazione e la lotta dei lavoratori e contrastando la mercificazione e la precarizzazione del lavoro».

DiEM ha l’ambizione di costituire una forza transnazionale di tipo nuovo, collegando attivisti, politici, intellettuali, artisti, sindacalisti su un terreno immediatamente “pan-europeo”. Non è una scommessa facile e sono pochi i modelli a cui ispirarsi. Qual è il processo innovativo che hai in mente?

«La disintegrazione dell’Ue è qualcosa di inedito, contraddice una storia fondata sul progressivo avanzamento dell’integrazione. Per questo c’è bisogno di uno strumento nuovo. I partiti di sinistra europei hanno la loro base negli Stati nazionali, e il Gue ne costituisce una sorta di confederazione, che non mette in discussione il fondamento nazionale. È una delle ragioni della loro impotenza. Non è una questione di cattiva volontà: sono costretti ad articolare programmi di governo che non potranno mai essere attuati. Se questa diagnosi è corretta una piattaforma comune per i democratici in Europa deve essere costruita attraverso un’azione politica che non abbia la propria base negli Stati nazionali. E non può essere un partito, per definizione gerarchico. I militanti dei partiti di sinistra possono aderire a DiEM e continuare a militare nel loro partito nazionale. Ma in DiEM affrontiamo i nostri problemi comuni indipendentemente dalla affiliazione partitica o dalle convinzioni filosofiche di ciascuno. La risposta alla vostra domanda non potrà che essere trovata gradualmente. È un work in progress. Come diceva Brian Eno alla Volksbühne martedì, se non hai una ricetta comincia a cucinare, la ricetta arriverà».

Quali saranno i prossimi passi di DiEM?

«Abbiamo già annunciato una petizione, indirizzata ai Presidenti dell’Eurogruppo, del Consiglio Europeo e della Bce, chiedendo che assicurino lo streaming delle loro riunioni (alla Bce chiediamo di fare quello che fa la Federal Reserve: rendere pubblici i verbali delle riunioni due settimane dopo che si sono tenute). Sarà anche un’occasione per cominciare a organizzare il movimento attorno a una campagna concreta. Stiamo cominciando a costituire gruppi di lavoro per costruire una piattaforma digitale che ci consenta di intervenire nel dibattito pubblico e di articolare il nostro lavoro. Abbiamo poi individuato cinque aree tematiche, di cruciale importanza per il futuro dell’Europa: il Green New Deal, la questione del debito e del sistema bancario, le migrazioni e i confini, la trasparenza e il tipo di Costituzione di cui l’Europa ha bisogno. Vogliamo arrivare nel giro di un anno ad avere cinque policy papers su questi temi. Cominceremo con il comporre un elenco di problemi e di domande per ciascuna di queste aree tematiche, per poi lanciare una grande campagna di consultazione in diverse sedi e in diversi Paesi. Da queste riunioni emergeranno proposte che verranno “filtrate” e “ricombinate” da gruppi di lavoro che sottoporranno il risultato a grandi assemblee tematiche. Queste assemblee voteranno un documento finale, che sarà poi sottoposto al giudizio di tutti i membri di DiEM. È un processo che può essere definito di democrazia in azione, da cui emergerà un vero Manifesto di DiEM, non una semplice dichiarazione di principi».

(La versione integrale dell’intervista è pubblicata nel sito www.euronomade.info)
«Quel che può capitare a giovani giornalisti o ricercatori in contesti drammatici, è un risvolto di situazioni inaccettabili per chi ci vive, che in qualche misura ci rimbalzano addosso. Accettare violazioni di diritti non porta mai niente di buono».

Il manifesto, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Avrei potuto fare la fine di Giulio Regeni quando mi arrestarono in Cile dopo il colpo di stato, tanti anni fa? Per un po’ di giorni l’Ambasciata non mi trovava né aveva conferma dell’arresto. Qualche europeo e qualche nordamericano vennero uccisi. Alcuni corpi non vennero mai trovati. Nel mio caso la notizia uscì quasi subito in Italia e ci furono sia le pressioni movimentiste di Lotta Continua («ridateci il nostro compagno», «collabora col nostro quotidiano») che quelle istituzionali diplomatiche richieste dalla mia famiglia.

Ci fu anche il rischio di uno scontro tra le due pressioni, perché Lotta Continua, accanto alle invocazioni per la mia liberazione, aprì una sottoscrizione per comprare Armi alla Resistenza, mentre la tesi difensiva mia e dell’ambasciata era che io ero solo un turista! Finì bene, non venni neanche torturato: per le pressioni diplomatiche e politiche ma forse anche perché nessuno ce l’aveva con me, non volevano far vittime europee. E un po’ anche per caso, perché il caso conta non solo nelle guerre ma anche nelle ondate di terrore repressivo. Le macchine del terrore non sono del tutto precise e logiche, servono appunto a terrorizzare. Mi scuso per questo attimo di autobiografismo, mi rendo conto che la vicenda di Giulio è diversa, non solo perché è finita in modo atroce ma perché molto probabilmente è anche cominciata in modo diverso.

Io ero stato arrestato da militari in divisa e portato allo Stadio (campo di concentramento), lui è stato sequestrato da non si sa bene chi. Tanto che c’è anche chi pensa (pochi, ma ci sono) che sia stato scambiato per una spia anti-islamista, non fatto fuori dal regime. Tornando a quella che sembra invece l’ipotesi più probabile, quella di un omicidio in qualche modo di stato, c’è da chiedersi se lo potevamo evitare. C’è chi sostiene che l’opinione pubblica e di conseguenza i giornali e di conseguenza il governo han fatto poche e tardive pressioni sul regime egiziano.Un’ipotesi inquietante.

Sento il bisogno di interrogare chi conosce questi meccanismi meglio di me.

Ed ecco la risposta di Roberto Toscano, l’allora giovane diplomatico a Santiago del Cile che si occupò del mio arresto, poi ambasciatore in vari paesi. «Sembra strano sostenerlo ma anche nel campo della repressione e delle dittature ci possono essere gradi diversi non solo per quanto riguarda l’orrore, ma anche in relazione alla possibilità di fare qualcosa. Voglio dire che, per quanto il golpe cileno fosse brutale, come diplomatico avevo la possibilità di muovermi sapendo dove andare e cosa chiedere per affrontare un caso come il tuo.

Quando sono andato al Ministero degli esteri cileno per denunciare la tua scomparsa mi hanno accompagnato in un ufficio dove una gentile impiegata ha sfogliato in mia presenza dei tabulati IBM: «Hutter…Hutter..ecco! è detenuto allo Stadio Nazionale». La storia successiva la sai anche tu: la visita, il pacchetto con le mutande di ricambio, il rilascio dopo qualche giorno. Certo, c’era il fatto che non ce l’avevano particolarmente con te. Sapevano che eri un sovversivo, naturalmente, ma non particolarmente pericoloso. Ma c’era anche, dietro questo modo di operare, il monopolio militare della repressione, senza spazio per gli squadroni della morte free-lance.

E c’era anche una preoccupazione per il mondo esterno, e per i rapporti con l’Italia. Trasportiamo tutto questo all’Egitto di oggi, e cominceremo a renderci conto del caso Giulio e delle sue difficoltà per chi vuole agire. Uno stato meno strutturato; il probabile ricorso a squadre di delinquenti — collaboratori; la fiducia (e forse questo è l’elemento più drammatico) che comunque sia l’Egitto è troppo importante per la sicurezza e l’economia per essere trattato con la durezza che altrimenti meriterebbe. Mi sembra che l’ambasciata si sia mossa tempestivamente.

(E chi ti parla, come sai, non è mai stato un diplomatico integrista-corporativo: quando c’è da criticare non mi tiro indietro). Il problema è più di fondo, è l’ indulgenza che siamo disposti a dimostrare per ragioni di “realismo” nei confronti di regimi che violano brutalmente e sistematicamente i diritti umani. Temo che se non fosse capitata questa tragedia, cioè il massacro di un italiano, l’insensibilità nei confronti di quello che accade in Egitto sarebbe da noi generalizzata. Ecco un altro elemento di differenza dal Cile: la sensibilità di un’Italia dove esisteva ancora la politica, e soprattutto la sinistra!».

Ecco. La tortura non è mai giustificabile. In nome della lotta al terrorismo, insomma per paura del terrorismo islamico, troppo spesso si abbassa la guardia sui diritti fondamentali. E si sottovaluta, noi, la necessità e possibilità di incidere almeno sui paesi del Mediterraneo. Vorrei che l’attenzione alla tragica fine di Giulio segni una inversione di tendenza. Non vorrei invece che un inconscio voyeurismo dell’orrore porti a sottovalutare altre violenze di stato solo perché non arrivano a quei livelli.

Sto seguendo alcuni giovani tunisini vittime di pesante bullismo omofobico nel carcere di Kairouan. Intervenire per i diritti umani in Tunisia è molto meno difficile che in Egitto, ma può esser utile per dare un buon esempio in tutto il mondo arabo. La tragedia di Giulio — e le ripercussioni che ha avuto anche al Cairo- deve spingerci ad alzare le pretese, non a rassegnarci. Mi immagino di proporre un articolo sulla denuncia dei gay contro le violenze nelle carceri tunisine e un caporedattore (immaginario) che mi risponda: «Non è interessante, cosa vuoi che sia dopo il caso di Giulio?» No, non è così. Al giovane Jihed di Tunisi, ancora frastornato dalle botte in carcere, e che nei prossimi giorni affronterà (a piede libero, adesso) l’appello per «atti omosessuali» vorrei invece dire che dopo quel che è successo a Giulio l’Italia e l’Europa sono più sensibili ed esigenti anche per lui, al suo fianco.

© 2025 Eddyburg