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«L’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità». La Repubblica, 12 aprile 2016


Una volta, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato preciso dai loro elettori, scattava il “referendum”: i delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche, portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure.
Assente nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale, con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema generale di democrazia rappresentativa.

Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare «i limiti dei partiti» dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare «la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare». E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale il referendum inquieta il potere costituito, settant’anni fa come oggi: «Il referendum - disse - si basa proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento».

Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore di non essere soltanto un “designatore” ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare nel modo che ritiene giusto ma «si deve votare perché partecipare al voto significa essere pienamente cittadini», anzi «fa parte della carta d’identità del buon cittadino».

Il potere dunque deve imparare, settant’anni dopo, che il «buon cittadino» è tale quando va alle urne per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere- abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale così com’è stato concepito.

Non c’è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo dall’altro.

La risposta su questo punto non può che essere radicale, assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento costituzionale: il referendum è programmaticamente - si potrebbe dire istituzionalmente - un elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente «perché il suo scopo è proprio questo», nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione «la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà politica del popolo». D’altra parte, almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge.

Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.

Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema.

Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica, come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza delle premesse su cui sono nate.

Nell'intervista a Liana Milella il presidente dell'ANM, Piercamillo Davigo, racconta come servirà la Giustizia difendendo il principio liberale della divisione tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), almeno per quanto riguarda quest'ultimo.

La Repubblica, 10 febbraio 2016, con postilla

Volto pallidissimo per tutto il giorno. Pier Camillo Davigo, il dottor Sottile di Mani pulite confessa: «Mi sveglio sempre alle 4 per scrivere le sentenze. Ho provato a piantarle, ma non crescono da sole...».

Comincia la guerra con Renzi?«Non commento perché non ho ancora potuto parlare con la giunta».

Però Giulia Bongiorno twitta “caro Renzi quanto mi ricordi Berlusconi con questo terrore per le intercettazioni”. Ce ne sono troppe in giro, a partire da quelle di Potenza?
«Glielo ripeto, non ho ancora consultato la giunta, ma posso ripetere ciò che dico da molto tempo: la pubblicazione di intercettazioni davvero non pertinenti è già vietata dalla legge penale quantomeno dal reato di diffamazione. Se non rientrano in quel reato o sono pertinenti oppure si tratta di fatti che attengono all’operato di un pubblico ufficiale. Nel qual caso la pubblicazione è lecita».

Da oltre vent’anni però la politica chiede una nuova legge per limitare magistrati e giornalisti sulle intercettazioni. È necessaria?
«Se si ritiene che le pene per la diffamazione non siano adeguate, basta aumentare quelle. Il resto è superfluo».

Ma è possibile che per legge si decida che cosa si può pubblicare oppure no, dove passa il limite tra la prova di un reato e la violazione della privacy?
«Ci sono limiti ovvi che la legge pone alla pubblicazione di notizie. Nessun giornalista pubblicherebbe mai i codici di lancio delle testate nucleari anche se ne venisse in possesso, perché le pene sono severissime. Ma dipende sempre dai valori che si devono tutelare».

Diventa presidente una figura come la sua, importante per la storia delle indagini italiane. Il suo passato condizionerà il suo incarico?
«Ovviamente tutti facciamo tesoro delle nostre esperienze, ma il presidente dell’Anm non è un uomo solo al comando».

Lei ha fama di “duro”. Sarà così intransigente, dottor Davigo, anche da domani?«Non si tratta di essere intransigenti, ma di avere chiari i principi. “Sia il vostro dire sì sì, no, no. Il di più viene dal maligno” così è scritto nel Vangelo».

Renzi e quella frase, “brr...che paura”, perché ha detto subito pubblicamente che non le è piaciuta? Per accattivarsi i suoi colleghi?
«Perché è la verità, quella frase non mi era piaciuta».

Come giudica un governo che fa la responsabilità civile, taglia le ferie e l’età pensionabile praticamente senza contraddittorio?
«Possiamo dire poco dialogante?».

Nel merito era d’accordo o no?
«No. Nessun datore di lavoro ridurrebbe le ferie ai dipendenti senza dialogare. È stata gabellata come un rimedio a problemi giudiziari che hanno tutt’altra causa la legge sulla responsabilità civile, che non serve a prevenire errori e comunque ci costa poco più di quello che pagavano prima di assicurazione, ma fa credere che gli errori possano dipendere soprattutto da negligenze e non da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi. La riduzione brusca dell’età pensionabile senza assicurare la copertura dei posti che si rendevano vacanti ha aumentato ulteriormente la scopertura di organico dei magistrati».

La corruzione, l’evasione fiscale, i condoni. Finora il governo ha fatto una lotta seria?
«La legge di iniziativa governativa che ha aumentato le pene per alcuni reati contro la pubblica amministrazione e introdotto una riduzione di pena per chi collabora è meglio di niente, ma per fronteggiare reati così gravi e così diffusi ci vogliono strumenti molto più efficaci, ad esempio le operazioni sotto copertura. Negli Usa mi sono sentire chiedere: ma in Italia fate le indagini sulla corruzione? Ho risposto che cercavamo di farle. Mi è stato obiettato che erano indagini troppo difficili. Mi sono stupito e ho chiesto se loro lasciassero rubare. Mi è stato detto che loro facevano il “test di integrità”. Dopo ogni elezione mandavano agenti di polizia sotto copertura ad offrire denaro agli eletti. Quelli che lo accettavano venivano arrestati. Mi hanno detto che così, ad ogni elezione, ripulivano la classe politica».

Perché in Italia invece non si approva subito?
«Questo bisogna chiederlo a chi è contrario ».

Il Pd stava con voi toghe, vi ha portato in molti in Parlamento, adesso invece vi attacca. La politica è comunque insofferente ai controlli?
«La domanda è faziosa. Ci sono stati magistrati eletti sia per il centrosinistra che per il centrodestra. La mia personale opinione è che i magistrati farebbero bene a non fare mai politica».

Renzi dice che lui non è Berlusconi perché non fa le leggi per bloccare i suoi processi. Però da quando è esplosa Potenza non fa che criticare i magistrati. Qual è l’effetto?
«A titolo personale dico che tra gli applausi e i fischi ho sempre preferito i fischi, tengono alta la soglia critica e aiutano a sbagliare di meno».

Orlando non è polemico come Renzi. Comincerà a parlare con lui?
«È tradizione che ogni nuova giunta esecutiva centrale chieda di essere ricevuta dal ministro della Giustizia. Io rispetto le tradizioni».

Durante la sua campagna elettorale per Autonomia e indipendenza, la sua corrente, aveva annunciato che l’Anm avrebbe controllato il Csm soprattutto per le nomine criticando quelle cosiddette a pacchetto. Comincerà a controllare quella di Milano?
«Tanto per cominciare quella di Milano deve ancora avvenire e non è a pacchetto, almeno che io sappia. Il problema delle nomine a pacchetto è che può accadere che l’unanimità non significhi il riconoscimento di meriti, ma sancisca una spartizione. E questo non credo sia ciò che i magistrati si attendono».

postilla

La difesa dell'autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri due è particolarmente importante per la sopravvivenza di una democrazia (sia pure imperfetta, quale la nostra) in una fase disgraziata quale quella che stiamo vivendo. Oggi infatti dei tre poteri dello Stato l'esecutivo (= Governo) ha asservito il legislativo (= Parlamento) Per di più l'esecutivo è diventato l'anello di congiunzione dei poteri statali con la catena di comando che ha al suo vertice i complessi multinazionali delle aziende capitalistiche.

«Il manifesto, 9 aprile 2016

Stefano Rodotà è una delle - poche - figure di riferimento di quella che potremmo definire la pubblica opinione democratica. È apparsa ieri su la Repubblica una sua drammatica denuncia sullo stato della moralità pubblica nel nostro paese. È uno stato disastroso. Ciclicamente, possiamo aggiungere, divampano fiammate moralizzatrici e innovatrici, ma subito si estinguono senza effetti di rilievo. Il confine tra moralizzatori e corrotti è permeabile.

Lo si è visto nel caso dell’antimafia – e non c’è segmento della vita pubblica che sfugga. Rodotà ha ragione. Ma quando si osserva un fenomeno così vasto e pervasivo, se si vuole provare a curarlo, bisogna anzitutto intendere le ragioni. Che sono sociali. Ne culturali, né individuali. Secondo Rodotà, l’Italia è un caso unico. In altri paesi per minime manchevolezze si è estromessi dalla vita pubblica. E pertanto il livello di moralità pubblica è ben più elevato. Mi permetto di dissentire. Altrove vigono regole diverse.

In America ad esempio i finanziamenti privati alla politica sono pienamente legittimi. Il più accreditato concorrente alla candidatura democratica è una signora che è stata a lungo a libro paga delle maggiori istituzioni finanziarie del paese. Il predecessore di Obama ha destabilizzato il Medio Oriente, e ormai anche l’Europa, a servizio della Halliburton e dei petrolieri texani.

In secondo luogo, gli scandali non difettano neanche altrove: in Francia, in Inghilterra, in Germania, dove restò impigliato perfino Kohl, senza perdere tuttavia l’etichetta di padre della patria. È forte dunque il sospetto che altrove si faccia solo meno clamore, mentre di quando in quando si celebra un rassicurante rito d’espiazione, con la conseguente fuoruscita del personaggio coinvolto. In Italia, secondo Rodotà, si esibisce invece la più spudorata indifferenza, malgrado il frastuono che certe vicende suscitano. In realtà, anche l’Italia celebra i suoi bravi riti di espiazione. Li celebra solo in maniera più vistosa. Tangentopoli e il collasso della cosiddetta prima Repubblica fu uno di essi. Il tramonto, sanguinoso, del berlusconismo, di cui l’ascesa di Renzi è stato lo scampanio, al momento, conclusivo, è stato un altro. In ambo i casi è stata licenziata tutta una classe politica, i cui misfatti hanno pagato, a altissimo costo, gli italiani, ovviamente i più indifesi. Quale delle due liturgie è preferibile? La scelta è ardua. E assai meglio sarebbe curare il male.

E qui bisogna chiamare in causa le società in cui viviamo e i principi che le reggono. Anzi il loro principio fondamentale, che è l’acquisizione – privata – di profitti, economici o di potere. Perché se l’economia è fondata sulla privatizzazione del profitto economico, la politica democratica si basa sulla concorrenza per il potere tra imprese politiche, tra cui spiccano i partiti, a cui se ne affiancano molte altre.

Si può ricercare il potere per nobilissimi motivi. Per far valere, ad esempio, i bisogni dei deboli e degli emarginati. Sono, questi ultimi, bisogni vastissimi. Ma sono pur sempre gli interessi di una parte a spese di un’altra.

Cosa impedisce che in economia e in politica l’interesse privato instauri il duraturo predominio di alcuni a spese dei più? Sicuramente le norme che regolano la concorrenza - in politica la costituzione in primo luogo - le quali, a conti fatti sono quel po’ di interesse generale su cui tutti concordano. Solo che poi viene il problema di chi fa valere le regole. Un po’ le fa valere la concorrenza stessa. In particolare la concorrenza tra politica elettiva, il cui interesse “privato” sono i cittadini, e l’economia, che rappresenta tutt’altri interessi. Un po’ le fanno valere una serie di istituzioni che si identificano con l’interesse generale. Un grande sociologo ha usato la formula dell'”interesse del disinteresse” in riferimento a quelle istituzioni, e quegli uomini, che si sentono obbligati a essere disinteressate, che si pongono al di sopra delle parti, che si identificano con l’interesse generale, o, per usare una parola grossa, con lo Stato. E che per questo ottengono importanti riconoscimenti simbolici. La magistratura è tra queste istituzioni. Ma vi rientrano pure le burocrazie pubbliche, le autorità indipendenti, le corti costituzionali.

Il congegno, va da sé, è complesso e delicato e i suoi ingranaggi non sempre funzionano a dovere. In Italia, ad esempio, lo Stato ha sempre manifestato parecchie manchevolezze. Per qualche ragione, non si è riusciti a trasmettere ai suoi addetti una dose sufficiente di “senso dello Stato”. Non esageriamo. Nella storia d’Italia non sono mancati servitori dello Stato di altissima qualità, istituzioni devote all’interesse generale. La Banca d’Italia, per fare un solo esempio, ha a lungo goduto di altissima reputazione. Quello che però accade attualmente è che su uno Stato non saldissimo si è abbattuta la tempesta del neoliberalismo, che ha posto sopra ogni cosa l’interesse privato, con la politica (e gli affari) a profittarne per allargare la loro influenza. Anche qui un solo esempio.

Un corpo pubblico di elevata professionalità erano fino a non molto tempo fa i segretari generali dei comuni. Erano un principio di contrasto, di tutela della legalità, opposto ai sindaci e alla politica. Oggi i segretari se li nominano i sindaci a loro misura, invocando la preminenza della politica elettiva e il principio di efficienza. I funzionari devono rispondere del loro operato alla cosiddetta utenza, non già sottomettersi a quell’obsoleto impiccio che è la legge.

Nell’Italia d’oggi lo Stato non c’è. C’è una pletora di agenzie, che si fanno la guerra, che si incrociano variamente con la politica elettiva e con i potentati economici. Capita pure altrove, ma in Italia forse un po’ di più. Se però non c’è senso dello Stato tra gli addetti allo Stato, come può esserci attenzione alla moralità pubblica in tutti gli altri luoghi della vita associata? A dire il vero, c’è n’è, ma va scemando sempre più.

L’altro contrappeso a saltare è la separazione tra politica e economia. Al tempo dei partiti di massa ci si teneva parecchio. Fanfani volle che le imprese pubbliche uscissero da Confindustria. Più tardi il meccanismo è degenerato. Anziché ripristinarlo, dagli anni ’70, gli intrecci si sono moltiplicati, fino alle indecorose ammucchiate berlusconiane. Mentre Renzi ha nominato Guidi addirittura ministro delle attività produttive e Poletti ministro del lavoro. Dopo che Colanino Jr. è stato a lungo responsabile economico del Pd. Capita altrove anche questo, ma dappertutto fa danno.

Come se ne esce? Forse non se ne esce, perché siamo andati troppo oltre. Forse aiuterebbe una seria legge sul conflitto di interessi. Non fosse che di leggi davvero serie non ce n’è da nessuna parte. Forse però qualcosa si potrebbe fare per ripristinare il senso dello Stato, anzitutto rivalutando simbolicamente i suoi addetti, rispettandoli – altra cosa dalle sbrigative misure introdotte dal ministro Madia –, curandone la professionalità, reclutandoli tramite rigorosi concorsi, investendo davvero nel sistema universitario nazionale, anziché mettere stupidamente in concorrenza gli atenei. Così come potrebbe aiutare la scuola. Il corpo insegnante ha illustri tradizioni, malgrado il poco conto in cui spesso lo si è tenuto. Chi meglio potrebbe contribuire a sviluppare affezione per la moralità pubblica?

Niente di tutto questo accadrà. Purtroppo, malgrado le accorate parole di Rodotà, la situazione promette solo di peggiorare. Servirebbe forse un moto della pubblica opinione, dove la domanda di moralità non difetta. Ma a condizione che rifugga il moralismo alla Grillo e che piuttosto torni a incontrarsi con la critica sociale.

«La nostra Costituzione punto di riferimento costante anche per ritrovare quella virtù che vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza». La Repubblica, 8 aprile 2016 (c.m.c.)

Per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione" bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde. Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”. Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.

Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari). Comincia stabilendo che "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi". Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore". Parola, quest'ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule "non vi è nulla di penalmente rilevante", "non è stata violata alcuna norma amministrativa". Si cancella così la parte più significativa dell'articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.

Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un "valore aggiunto", che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all'interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l'onore rileva verso l'esterno, " n'agit qu'en vue du public ", mentre "la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza".

Ma da anni si è allargata un'area dove i "servitori dello Stato" si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d'essere della politica e dell'amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell'articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l'impunità, e si ripresenta la concezione "di una classe politica che si sente intoccabile", come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l'effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all'interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo "così fan tutti" che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti. Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell'uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l'incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l'elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).

Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare. In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la "constitutional morality".

In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella "controsocietà degli onesti" alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L'accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell'einaudiano "conoscere per deliberare", ma anche dell'ancor più attuale "conoscere per controllare", ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la "democrazia di appropriazione" spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull'accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v'è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti. Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull'accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d'Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.

Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l'amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: "Ah, dice, ma non sono in triplice copia!"». Non basta più l'evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.

I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all'italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d'interesse, evasione fiscale, collusioni d'ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l'uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l'attacco alla magistratura e l'esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull'etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l'attingere i nuovi "salvatori della patria" proprio dalla magistratura, così ritenuta l'unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all'esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.

«Il lavoro sta tornando ad essere semplicemente fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica. Ricostruire una cultura riformatrice dovrà comportare la ricomposizione del legame tra lavoro e diritti, affinché i molti non siano preda della propaganda nazionalista».

La Repubblica, 6 aprile 2016 (m.p.r.)

Il declino del riformismo sociale, scrive Ezio Mauro, è il segnale di una crisi ben più vasta che coinvolge lo stato democratico. Un declino che ha coinciso con l’emergere di fattori di mutamento profondi per la trasformazione dei rapporti politici connessi al lavoro: il declino del compromesso tra capitalismo e democrazia (per la trasformazione del primo da industriale a finanziario) e l’apertura dei confini simbolizzata dalla fine della Guerra fredda.

Le frontiere hanno consentito il riformismo sociale e la costruzione delle democrazie. In sostanza hanno reso possibile il compromesso tra capitalismo e democrazia, per cui chi possedeva i mezzi di produzione ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni erano prese contando i voti di tutti. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi devastante del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale che, invece di assistere i poveri, li impiegava o li trasformava in forza lavoro. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche. Questo generò incremento della domanda e ripresa dell’occupazione: come disse il presidente francese Léon Blum, l’investimento nel lavoro è un investimento nella democrazia. È questo il senso dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che presume confini nazionali e il controllo di entrata della forza lavoro, una politica che i Trattati di Roma (1957) hanno esteso al territorio dell’Unione, la nuova dimensione geografica alla quale venne esteso il diritto di circolazione dei lavoratori e dei beni.
L’esito di quel compromesso novecentesco fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: non una massa di disperati che la propaganda nazionalistica poteva manovrare, ma forze sociali organizzate in partiti che si incaricavano di essere rappresentativi di interessi sociali che la crescita economica consentiva di moderare e di disporre al compromesso. L’esito di questo bilanciamento delle popolazioni e degli interessi fu che l’allocazione delle risorse economiche - dal lavoro ai beni primari, fino ai servizi - venne gestita dalle forze politiche, mentre le classi sociali rinunciavano a fare da sole. La politica acquistò autorità e autorevolezza.
Il legame tra lavoro e politica, tra confini e potere di trattativa sui salari e sui diritti, si è allentato con il declino del mondo diviso, con la fine della Guerra fredda. L’apertura globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno insieme e si riflettono nel declino del riformismo sociale, che non può contare solo sulla buona volontà. La politica senza una condizione sociale di riferimento non è da sola capace di far rivivere il riformismo. Il secondo Dopoguerra è nato su fondamenti molto strutturati, tanto a livello nazionale che a livello internazionale. La divisione Est e Ovest si rifletteva in due modelli di democrazia alla base dei quali vi era comunque il lavoro: la democrazia “borghese” da un lato e quella socialista dall’altro. Nel primo caso, quello che ci interessa e che è sopravvissuto più a lungo, la difesa di diritti sociali aveva il compito di neutralizzare il peso delle diseguaglianze nel potere di prendere le decisioni politiche: dando a tutti i cittadini alcune opportunità di base, come sanità e scuola pubblica, lo stato democratico poteva garantire l’inclusione di tutti a egual titolo, lavoratori e capitalisti.
Nei paesi occidentali, la sfida lanciata dal mondo sovietico ha funzionato da deterrente per contenere le diseguaglianze con la messa in cantiere di uno stato sociale che doveva provare al mondo socialista di riuscire a coniugare le libertà economiche con la libertà politica e il benessere diffuso. La ricostruzione del Dopoguerra aveva del resto aperto grandi possibilità di crescita economica senza bisogno di uscire dai confini per trovare manodopera a basso costo. Sui confini tra Est e Ovest si è costruita la cultura dei diritti sociali e la filosofia lavorista, l’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica associata avrebbe potuto renderlo condizione di emancipazione. Le politiche di piena occupazione e l’espansione dei diritti hanno marciato insieme, in un mondo che aveva confini.
Questo scenario è radicalmente cambiato con la mondializzazione dei mercati e come conseguenza il lavoro sta tornando poco a poco ad essere semplicemente fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica. Ricostruire una cultura riformatrice dovrà comportare la ricomposizione del legame tra lavoro e diritti, affinché i molti non siano preda della propaganda nazionalista, affinché la prospettiva di vita che le democrazie offrono sia comparabilmente migliore di quella che le sirene xenofobiche promettono. È quindi sulla capacità della politica di ricatturare il lavoro che si gioca il futuro delle nostre democrazie.
Gli effetti degli incentivi a pioggia e la droga dei bonus di Renzi. Uno studio di Marta Fana e Michele Raitano su

Etica ed EconomiaIl manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Cari e inutili. Sono gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato con i quali il governo Renzi ha pensato, inutilmente, di aumentare l’occupazione. In una nuova analisi sui costi e i benefici di questa dispendiossisima misura, pubblicata online sul «Menabò» di Etica ed Economia, da Marta Fana e Michele Raitano emerge una nuova stima sul costo lordo per il bilancio pubblico nel triennio 2015-2017 che oscillerà, a seconda delle ipotesi, tra i 22,6 e i 14 miliardi. Non più dunque 11,8 miliardi ma undici in più nel caso in cui i contratti attivati nel 2015 dureranno 36 mesi, l’intero periodo della corresponsione dell’«esonero» contributivo alle imprese. Fana e Raitano formulano un secondo scenario più realistico, sulla base dei dati del ministero del Lavoro riguardanti i contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato tra il 2012 e il 2014 e cessati entro il terzo anno.

Fana e Raitano formulano un secondo scenario più realistico, sulla base dei dati del ministero del Lavoro riguardanti la durata dei contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato tra il 2012 e il 2014 e cessati entro il terzo anno. Nello specifico, il 13% dei contratti trasformati cessano mediamente entro il primo anno, il 17,7% entro il secondo, il 10,3% entro il terzo anno. Quindi in base all’evidenza storica il 41% dei contratti trasformati dura meno di 3 anni. Scadenza naturale perché, al 37esimo mese ci sarebbe l’obbligo di assumere il lavoratore, come stabilito da una direttiva europea, sostanzialmente neutralizzata dal «decreto Poletti» sui contratti a termine approvato prima del Jobs Act. Gli studiosi delineano anche un terzo scenario e avanzano l’ipotesi per cui il 20% delle assunzioni a tempo indeterminato duri 18 mesi, mentre il restante 80% raggiunga i 36 mesi. In questo caso l’onere lordo per le casse dello Stato sarebbe pari a 14,6 miliardi.

Una prospettiva che conferma la stima avanzata dai consulenti del lavoro secondo i quali mancano all’appello 3 miliardi. Il governo sarebbe paradossalmente vittima del suo successo: ha generato una richiesta di lavoro a termine finanziato dai contribuenti che non riesce a coprire. È tuttavia probabile che, al termine del triennio, l’impatto degli incentivi sul bilancio pubblico sarà inferiore visto che i contratti sono precari e prevedono una retribuzione al lavoratore inferiore alla media. Inoltre, a partire dal 2016, lo sgravio è diminuito da 8.060 a 3.250 euro per ogni assunzione a tempo indeterminato o trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. La nuova decontribuzione durerà 24 mesi e non 36 mesi. Una decisione necessaria anche per diminuire l’impatto degli incentivi sul bilancio.

Arriviamo ai risultati conosciuti della politica dei bonus sull’occupazione. Deludenti. Nel ricco dossier su «Etica ed Economia» si ripercorre il fallimento del Jobs Act, al netto della propaganda renziana finita anche sugli autobus delle principali città italiane in vista delle elezioni amministrative. Per l’Istat, nel 2015, i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato sono aumentati di 114 mila unità circa rispetto al 2014. Parliamo di meno dell’8% dei contratti finanziati dal governo. Prospettiva confermata dal bollettino di Bankitalia a gennaio: nel prossimo triennio, gli sgravi contributivi genereranno una nuova occupazione pari a circa 0,3 punti percentuali.

Undici miliardi di euro potrebbero portare a questo risultato a dir poco modesto. In questo scenario, il «contratto a tutele crescenti», pilastro del Jobs Act, contribuirà solo per l’1 per cento sull’occupazione complessiva. Tutto il resto lo faranno gli incentivi. Nel 2015, ricordano Fana e Raitano, i contratti che hanno beneficiato degli sgravi – incluse le trasformazioni dei rapporti a termine che sono la maggioranza e riguardano gli over 50 più dei giovani – sono 1.547.935 di cui solo un quarto (379.243) a dicembre 2015, quando le imprese hanno fatto una corsa per accaparrarsi il bonus renziano. Non è ancora chiaro quali saranno gli effetti della «droga» usata dal governo per gonfiare il mercato del lavoro quando gli incentivi si esauriranno. Quello che, al momento si sa, che ogni occupato in più costerà al contribuente tra i 25 mila e i 50 mila euro. Queste persone rischiano di tornare disoccupate nel 2018.

«Gli economisti che progettano sgravi e incentivi hanno una visione “naive” dell’impresa e una concezione dell’economia superata» si legge in una notadel dossier online. Le politiche degli incentivi, quelli a pioggia e quelli condizionati ai nuovi assunti, non funzionano. Renzi sta disperdendo preziose risorse pubbliche per un generico sostegno alla domanda aggregata. «Questa è una politica di stampo vetero-keynesiano». Anche Michele Tiraboschi, alla guida di Adapt, converge sulla stessa valutazione: «Il Jobs Act è il più costoso dei flop» ha scritto ieri sul bollettino del centro studi.

L'Italia sta velocemente diventando una penisola da cui andare via per vivere meno infelici. E poi tornare quando la distruzione à completata, come archeologi. articoli di Alessandro Gilioli e di Ferruccio di Bortoli,

l'Espresso e Corriere della Sera 30 e 31 marzo 2012

L'Espresso, 29 marzo 2016
FOIA: TRASPARENZA SÌ, PURCHÉ OPACA
di Alessandro Gilio
Il decreto Madia sull’accesso agli atti dello Stato è una beffa. E un 
arrocco della politica nei suoi segreti. Adesso c’è un mese per cambiarlo
All'articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta». Sembra uno scherzo, invece è il decreto legislativo “sulla trasparenza”, all’italiana. Che prevede appunto il silenzio-diniego: cioè consente allo Stato di non rispondere ai cittadini che vogliono avere accesso ai dati della pubblica amministrazione, senza fornire alcuna motivazione e senza alcuna sanzione per il proprio rifiuto. Ma non è finita: subito dopo, nella norma si aggiunge che non c’è alcuna chance di ottenere risposta se la domanda può essere intesa come relativa a «sicurezza pubblica e nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, interessi economici o commerciali di una persona fisica o giuridica» e molte altre eccezioni la cui vaghezza tiene il più ampio possibile l’ambito dei “non se ne parla”. Ed è ovviamente la pubblica amministrazione a decidere se questa attinenza c’è o no.

Doveva essere il Freedom Information Act italiano, cioè la norma per dare ai cittadini il “diritto di sapere”: quali immobili possiede un Comune, ad esempio, e a chi li affitta a quali prezzi; o quanto è costato ai contribuenti il viaggio di un ministro su un “aereo blu” o il ricevimento per l’inaugurazione di un cantiere. Ma anche quali sono stati i criteri di assegnazione di un appalto e quali i tempi per la sua realizzazione; quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua di una città; come sono stati spesi gli investimenti promessi dai politici nelle loro dichiarazioni; per quali motivi e con quali compensi è stata assegnata una consulenza a spese dei cittadini; chi si è intascato gli orologi regalati da un governo straniero durante un incontro di Stato; chi ha deciso di velare le statue a Roma durante la visita di un leader estero. E così via.


L'ILLUSIONE DELO STATO TRASPARENTE
di Ferruccio de Bortoli


Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, peccato che le eccezioni siano davvero tante
Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene.

Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nelmare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione.

Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».

I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.

Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa.
Domanda modestamente antinazionalista: aver pagato 150mila euro alle famiglie dei due pescatori indiani crivellati dai colpi di mitra dei due signori Girone e Latorre è prezzo sufficiente per consentire allo Stato cui appartengono di difenderli come "eroi"?

La Repubblica, 31 marzo 2016

Un altro no. L’apertura dell’arbitrato internazionale dell’Aja su chi debba celebrare il processo ai marò per l’uccisione di due pescatori indiani è l’ennesima delusione per Roma, che alla richiesta di concedere anche a Salvatore Girone di lasciare Delhi in attesa degli sviluppi dell’arbitrato si è vista allegare l’opposizione formale dell’India. Il dibattimento prosegue oggi e ci vorrà un mese perché il Tribunale dell’Aja decida se consentire o meno il rientro, ma la speranza italiana che la richiesta fosse avallata dal silenzio assenso dell’India si è subito dissolta.

Il rientro anticipato di Girone «fino alla decisione finale» dell’arbitrato sulla competenza giuridica, attesa non prima di tre anni, ricomporrebbe una vicenda che, al di là della questione giudiziaria, è ormai estremamente scomoda per entrambi i paesi. Visto che la decisione spetta all’Aja, la soluzione sarebbe a costo zero: nessuno smacco per l’India e via libera alla ricomposizione dei rapporti incrinati. Proprio ieri, tra l’altro, il dossier “marò” è finito di traverso sul tavolo del vertice Ue-India convocato a Bruxelles con un’agenda fitta di accordi politici ed economici. La conferenza stampa congiunta di fine giornata del premier Narendra Modi, dei presidenti di Consiglio e Commissione Ue Donald Tusk e Jean Claude Juncker e dell’Alto rappresentante Federica Mogherini è saltata per evitare domande (e risposte) scomode. Ma dietro le quinte il disgelo è in corso, al di là delle schermaglie all’Aja: «Entrambe le parti si impegnano a trovare una soluzione », è scritto nelle conclusioni.

La posizione italiana espressa ieri mattina in aula dall’ambasciatore Francesco Azzarello era chiara: l’arbitrato «potrebbe durare almeno 3 o 4 anni» durante i quali Girone rischia di rimanere «detenuto a Delhi, senza alcun capo d’accusa per un totale di sette o otto anni. Un essere umano non può essere usato come garanzia della condotta di uno Stato». E visto che «abbiamo già preso l’impegno di rispettare qualsiasi decisione di questo Tribunale», che senso avrebbe accanirsi in attesa che inizi il processo vero e proprio?

La replica è una doccia fredda: la richiesta italiana è «inammissibile» perché «c’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione. Non è in prigione. Vive bene nella residenza dell’ambasciatore italiano a Delhi e la sua famiglia può rendergli visita ». Insomma, per l’India sono «condizioni ragionevoli» in proporzione alla gravità delle accuse. Tant’è, la partita è in corso: l’eventuale rientro di Girone disinnescherebbe anche la miccia del rientro del collega Latorre, che a fine mese - senza proroghe - dovrebbe tornare in India costringendo l’Italia a una scomodissima resa o a una pericolosa rottura. La soluzione? Sembra averla voluta indicare proprio Delhi: «Sarebbero necessarie assicurazioni» sul rientro di Girone. Quelle arrivate fino a oggi «sono insufficienti».

per la democrazia, e alla scarsa attenzione al problema da parte della sinistra. Rifondazione.it newsletter, 24marzo 2016)


Sonosolita dire da un po’ che se il femminismo non cerca trova altri punti di partenza, non può resistere alla recente, non ancora del tutto consolidata,vittoria del Patriarcato; ma che ciò non blocca la crisi capitalistica, la qualeanzi, con l’appoggio del “patriarcato gentile” va sempre più non già verso l’uscitadalla crisi, con una nuova gloriosa socialdemocrazia, detta pure“riformismo”, bensì a capofitto nella barbarie che ha il nome proprio di“guerra”.
Vogliocercare di spiegarmi bene: che cosa sia il patriarcato è noto e qui non ho da inventare nulla. Che il patriarcato stia vincendo si vede dall’ininterrottoe non risolutivo dominio della finanza in economia. Che la sua incipiente“vittoria” sia una sciagura, si vede dalle vicende greche; dallaperdita di significato della parola “classe”; dalla trasformazionedel sindacato in corporazione (cioè dal “progresso” verso il Feudalesimo!), dall’emergere di una emancipazione ottusamentemimetica, che produce persino le ragazze “bulle”, nonché le ministre adoranti, come quelle del governo Renzi o le parlamentari come la Moretti chesvolgono benissimo la parte di altoparlante del “capo”. E mi spiace molto didover mettere in elenco pure la vicesegretaria nazionale del Pd, che è una donnaintelligente, la quale non può non capire quel che fa.
Citroviamo dunque in una fase - che non credo sarà lunga, ma non è nemmeno un attimo fuggente - di regresso e di caduta. Da qualche tempo, sia purein modo apparentemente casuale emergenziale e non organizzato, nè analizzato a dovere, si palesano alcune “maglie rotte” nella rete della barbarie del capitalismoin crisi strutturale globale e -credo- finale (crisi, non crollo). Mentre ciòsuccede, sembra che ciò che viene chiamato “sinistra” non se ne accorga nemmeno, non ne abbia coscienza e provi a fare del riformismo,senza nemmeno riuscire, proprio nei paesi dove la socialdemocrazia europeafu più gloriosa e consolidata, a contenere le crescenti spinte razziste, guerrafondaiee neocolonialiste, cioè fascisteggianti.
Collocoqui il fenomeno che chiamo “patriarcato gentile”, cioè quello “di sinistra”, che usa persino a volte il linguaggio inclusivo, dice “ministra” o“sindaca”, che non dice più “porca Eva”, anzi persino avanza analisisulla “democrazia imperfetta per le donne”. Qui è il possibile aggancio nuovo. Prendo in considerazione una dichiarazionedelle N.U. (da alcuni decenni si chiamano Nazioni Unite e non più ONU) fontenon sospetta di posizione preconcetta progressista, ma abbastanza attendibile,che suona: “Le donne sono ormai stabilmente la maggioranza della popolazionedel pianeta e di ogni paese che lo compone e occupano ovunque gli stratipiù modesti”. Se volessi tradurre subito in politichese sinistrese direi:dunque noi donne siamo il nuovo proletariato mondiale o almeno la sua stabilemaggioranza.

Milimito ad osservare che se le donne sono ormai la stabile maggioranza della popolazione,“una democrazia imperfetta per le donne” è “una democrazia imperfetta” e basta. Toccherebbe a tutte e tutti rispondere correttamenteal conseguente “che fare?” A destra si accetta sia pure di malavogliae col contagocce di mollare un po’ di potere (bisogna dire che socialmente la destrane ha di più e il sacrificio é minore). Ma a “sinistra” il niente. Nonsono disposta a considerare “sinistra” una cosa così. Ripartiamoin ogni circostanza col ricordare che noi siamo la maggioranza e che chi non loriconosce, non può di conseguenza dichiararsi se non conservatoreo addirittura reazionario. E avanti tutta!

«». Il manifesto
È quasi impossibile dar conto di un convegno durato tre giorni (sei sessioni, due eventi pubblici, decine di relatori). Un centinaio di partecipanti, un terzo stranieri, promosso da Syriza, dal Partito della sinistra europea, da Transform e dalla «Fondazione Pulanzas»: «Alleanza contro l’austerità e per la democrazia in Europa». Non i soliti esperti delle oscure cose europee, o, almeno, non solo, anche non pochi accademici e però poco accademici.

Uno soprattutto, fantastico, dell’orribile Ungheria, che ha detto fra l’altro: «non serve un piano per i profughi, serve un piano per la pace e dubito che la Turchia stia lavorando per questo». C’erano – dicevo – politici di primo piano : da Alexis Tsipras al suo vice primo ministro Dragasakis e parecchi altri sottosegretari per parte greca; Marisa Matias, che era stata la candidata alla presidenza della Repubblica per il Bloque de Isquerda, ora alle prese con la inedita esperienza di essere nella maggioranza governativa del Portogallo; Tania Gonzalez Penas, la più votata di Podemos alle ultime elezioni di Spagna dove, invece, un governo non si riesce a fare (e per questo Iglesias non è potuto venire di persona e ha mandato un lungo e caloroso saluto) ; Gregor Gisy, spiritoso come sempre, e Gaby Zimmer, presidente del Gue al Parlamento Europeo, per la Linke; Declan Kearney, l’assai euforico presidente del Sin Fein, oggi un ragguardevole partito parlamentare, e io faccio tutt’ora fatica a stabilire un legame, pur strettissimo, fra il partito di oggi, e gli armatissimi militanti dell’Ira che nei primissimi mesi di vita del intervistai in una rocambolesca gita attraverso l’Irlanda, paese raggiunto grazie al fatto che, avendo vinto un biglietto d’aereo a una gara di sci, il giornale aveva potuto permettersi il viaggio; infine la tradizione, Pierre Laurent, segretario del Pcf, e una novità, il messaggio di Geremy Corbin, inatteso sorprendente leader del Partito Laburista.

Ad alto livello – e anche questa è una novità – parecchi esponenti dei partiti Verdi tedesco, austriaco, danese, e un paio di rappresentanti della sinistra del Psf, che, sebbene si noti poco di questi tempi nella Francia di Hollande, all’ultimo congresso di quel partito aveva preso ben il 40% e insiste per un fronte comune con le forze raccolte nel Gue. Insomma: la nostra sinistra si rinnova, e si allarga. Ancora poco all’est, che pure era questa volta finalmente presente, almeno con qualche associazione o intellettuale.

Con commozione ho riabbracciato Jan Kavan, ben conosciuto da tutti i pacifisti degli anni ’80, perché era il nostro riferimento in Cecoslovacchia, uno dei pochi che pur essendo dissidente non invocava l’intervento della Nato, ma si batteva come noi per un’Europa fuori dai blocchi e perciò venivamo indicati dalla Cia come agenti del Kgb e dal Kgb come agenti della Cia. Caduto il Muro, Jan divenne persino ministro, ma per poco: dissentiva anche dal nuovo regime anticomunista. Con qualche ragione.

E poi c’erano i sindacati: folta e autorevole la partecipazione italiana, della Fiom e della Cgil, le Commissioni Obreras, la Cgt francese e la Confederazione belga. Anche su questo tema, una discussione concreta, per affrontare l’offensiva in atto ovunque contro il sindacato (e dunque per smantellare un caposaldo del modello europeo) impegnandosi non solo a difendersi ma a conquistare diritti che nell’Unione europea non sono mai stati riconosciuti, né ci si è mai veramente battuti per avere: per cominciare il diritto a convocare scioperi transfrontalieri da parte delle Confederazioni europee relegate al ruolo di uffici studi più che a quello di strumenti di lotta.

Il tema sindacato in Grecia è un dente che duole: la Gsee, dei lavoratori del settore privato, è egemonizzato dal Pasok e dal Kke (il partito comunista ) è in queste stesse ore, riunito a Congresso a Rodi, è in subbuglio perché questi due partiti si sono alleati per escludere i rappresentanti di Siryza e della destra dagli organismi dirigenti, provocando contestazioni e anche ricorsi. Anche la Adedy, il sindacato del settore pubblico, è controllato dalla vecchia burocrazia del Pasok. Difficile superare questa debolezza storica in una situazione in cui il governo Tsipras è costretto dal Memorandum a tagliare il welfare, sebbene con più equità possibile. I rappresentanti del sindacato dei lavoratori del porto del Pireo sono presenti: in grande sofferenza per via delle conseguenze indotte dalla “imposta” privatizzazione in corso.

Il clima sociale è teso in Grecia e sarebbe ingenuo aspettarsi che così non fosse. Ne abbiamo avuto la prova anche al convegno dove ha fatto irruzione un drappello di ragazzi con uno striscione polemico. Parlano arrabbiati, non avranno la pensione, nessuna prospettiva di vita. Anche il tema immigrazione è causa di turbamento: il governo ha firmato l’orribile accordo europeo e lo stesso Tsipras ci spiega che, altrimenti, gli avrebbero scaricato migliaia e migliaia di rifugiati in Grecia, dove è facilissimo approdare, e dove però non c’è, nelle condizioni attuali, la possibilità di poterli integrare.

Ho sottolineato il livello e la pluralità della partecipazione perché è l’indice di due cose importanti: finalmente c’è davvero interesse per le cose europee, fino ad oggi normalmente oggetto di incontri distratti, come del resto tutti quelli promossi dai fantomatici partiti europei di ogni colore, quelli di cui a suo tempo Willy Brandt diceva che erano il luogo migliore per andar a leggere i propri giornali. Il livello del dibattito non formale – sugli immigrati, sulla svolta ecologica, sull’economia – ha dimostrato che finalmente la sinistra ha cominciato a occuparsi d’Europa sul serio. Merito della crisi, certamente, che ha imposto il tema; ma anche di Syriza, che in questo ultimo anno ha reso l’Unione Europea un campo di battaglia e non più il titolo di qualche seminario.

In secondo luogo emerge anche che “qualcosa a sinistra si muove”: con tutti i limiti che restano oggi un soggetto di sinistra a livello europeo comincia a vedersi. Anche la sinistra italiana era ben rappresentata: oltre all’Arci, Sisel, i comitati Tsipras, Rifondazione Comunista. Potremmo dire: troppi. E infatti, come in ogni occasione, gli italiani sono sempre tanti, ma non hanno diritto di figurare al tavolo maggiore, cui hanno accesso solo i paesi dove a sinistra c’è un solo, indiscusso partito di sinistra. Che da noi ancora non c’è (per questo è così importante il processo costituente avviato con Cosmopolitica).

Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza” l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza»La Repubblica, 22 marzo 2016

La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.

Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.

Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?

È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).

Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».

Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.

Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.

Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.

La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni.

Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».

IL LIBRO

Il costituzionalista riluttante ( Einaudi, a cura Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, pagg. 489, euro 35) è una raccolta di saggi dedicata alla riflessione intellettuale di Gustavo Zagrebelsky, in tutte le sue articolazioni: dalla democrazia alla giustizia. Tra i numerosi contributi ci sono quelli di Ezio Mauro, Enzo Bianchi, Luciano Canfora, Carlo Petrini, Nadia Urbinati. Questo è un estratto del saggio di Vito Mancuso

Silvia Truzzi intervista Luciana Castellina: «Dagli attacchi alla Meloni e alla sua gravidanza,a quelli della Bedori. Eppure siamo alsettantesimo dal suffragio universale. Oggi il problema è un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa». Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2016

Abbiamo rincorso Luciana Castellina per gli aeroporti di Roma, Atene e Parigi. Alla fine l’abbiamo trovata Oltralpe, a casa di Ginevra Bompiani, scrittrice ed editrice di Nottetempo. Parliamo di donne e politica nella settimana della polemica su Giorgia Meloni, candidata sindaco in dolce attesa.
Cosa pensa della decisione di candidarsi nonostante la gravidanza? E delle reazioni maschili?
Non mi è piaciuto affatto che a criticare la Meloni per la sua scelta sono stati solo gli uomini: che stiano zitti. Sa perché le donne non si sono azzardate a dire nulla? Perché sanno che è una decisione personalissima. Sono tante le donne che fanno figli e continuano a lavorare. Abbiamo ministri, in tutti i Paesi, che hanno avuto bimbi durante il loro mandato. Fare il sindaco è un lavoro impegnativo ma non credo non si possa avere il tempo di allattare! Io con la Meloni ce l’ho per ragioni molto più serie, perché è una fascista, è sguaiata e ha posizioni politiche per me inaccettabili
Interviene Ginevra Bompiani: “È una furbetta la Meloni, altroché. A me non piace affatto. Sta usando strumentalmente la gravidanza per avere consenso. Basta vedere co-me e dove l’ha annunciata: dal palco del Family day”.

In tanti han
no criticato
l’annuncio
 fatto in quel
 contesto: non
 si può dire “proteggiamo i bambini” e poi utilizzarli o dare l’impressione di farlo. La stessa Meloni all’inizio aveva indicato nella gravidanza un ostacolo alla candidatura.
Sull’annuncio al Family day ono perfettamente d’accordo con Ginevra: mi ha dato molto fastidio. Ma la scelta di candidarsi resta sua. Io ho lavorato fino al momento del parto e non avrei accettato da nessuno imposizioni in questo senso.

Patrizia Bedori, rinunciando a correre per Palazzo Marino a Milano, ha detto di essere stata insultata perché non avvenente. Stessa cosa pare essere capitata alla segretaria di un circolo Pd di Bologna. Per anni si è detto che Berlusconi candidava solo belle ragazze, ma qui parliamo di mondi che dovrebbero avere tutt’altra cultura. Questo modo di guardare le donne ha contagiato un po’ tutti?
Ma certo che il contagio c’è stato: una bella ragazza ha più chance perché non importa quello che pensa o quello che sa, importa che sia carina. La Bedori ha ragione da vendere. È un insulto a tutte le donne. A nessuno viene mai in mente di dire che questo o quel politico è brutto: e dire che di Adoni ce ne sono pochi, sono quasi tutti bruttissimi.

L’obiezione che potrebbero fare a lei è: “Facile dirlo da parte di una donna straordinariamente bella”.
Mi offenderebbe terribilmente se qualcuno mi dicese che ho fatto o scritto delle buone cose perché avevo le gambe dritte. E ribadisco: mai che si pensi a queste sciocchezze per i maschi.

Quest’anno ricorrono i settant’anni del suffragio universale. Lei non ha votato al Referendum del ‘46, ma si ricorderà certamente il clima di quel momento storico. Il bilancio che ne fa dopo tanti decenni?
Mi ricordo l’emozione di mia nonna. Per lei era un fatto rivoluzionario, sconvolgente. Per mia madre già meno: faceva coincidere questa cosa con la caduta del Fascismo. Allora ci fu un acceso dibattito all’interno del Pci. Tanti dicevano “per carità, le donne vanno in chiesa a confessarsi e i preti le faranno votare per la Dc. Perderemmo un sacco di voti”. Poi arrivò Togliatti che disse: “Ma che siete matti? È molto più importante che le donne possano votare, che diventino soggetti consapevoli della vita sociale”. Fu una vera battaglia. Questo per dire che nel ’46 perfino nel Partito comunista il suffragio universale era in discussione. La battaglia delle donne è una delle poche che abbiamo vinto: oggi non potremmo mai dire a una ragazza che ha meno diritti di un ragazzo.

Sulle quote rosa le posizioni sono molto diverse anche tra le stesse donne. C’è chi dice: è un modo per ghettizzarci e “Non mi sento rappresentata da una donna solo perché è donna”. Ma l’obiezione è ragionevole: se non colmiamo questo divario “ex legge” le cose resteranno così per sempre. Lei, che è stata parlamentare sia a Roma che a Strasburgo, quale posizione sposa?
L’idea stessa che sia una quota minoritaria e non al 50 per cento è un modo per rendere legale l’inferiorità delle donne: lo trovo molto umiliante. Ciò detto, ci sono momenti in cui si fanno anche battaglie tattiche. E siccome i simboli contano molto, vedere un po’ di donne nei cda di importanti società aiuta l’immaginario. E di questo c’è bisogno. Dunque vanno bene le quota rosa, provvisoriamente, ma sempre continuando a dire che la quota resta minoritaria.

Il governo Renzi è stato inaugurato all’insegna della parità: otto ministri, otto ministre. Basta?
Il punto che interessa le donne è che i governi facciano scelte che tengano conto delle caratteristiche e delle necessita delle donne nell’organizzazione sociale, soprattutto nel mondo del lavoro. Una donna che entra in un’organizzazione completamente basata sulla cultura maschile non serve a nulla. Però resta l’importanza del simbolo.

La presidente della Camera insiste molto sulla questione linguistica. L’anno scorso, in occasione dell’otto marzo, Laura Boldrini scrisse una lettera ai parlamentari chiedendo che negli interventi in aula le cariche e i ruoli istituzionali venissero richiamati nelle forme corrette, secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono. Lei cosa ne pensa?
Io faccio parte di una generazione per cui non è naturale declinare le parole al femminile. Ma è colpa mia. Torniamo al valore simbolico delle cose: pensi a quanto è stato importante negli Stati Uniti che si cominciassero a vedere facce nere in posti di potere e nelle istituzioni. La stessa cosa vale per gli interventi della Boldrini sull’immagine della donna nelle pubblicità: fateci vedere qualche maschio che fa il bucato, lava i piatti e serve a tavola.

Qual è stata la battaglia più importante vinta dalle donne in questi settant’anni?
Capire che il nostro scopo non doveva essere diventare come gli uomini. Sembra una banalità, ma per arrivarci io ci ho messo un sacco di tempo. Ho vissuto a lungo come una frustrazione il fatto di essere donna. Come una specie di handicap. C’era, da parte degli uomini, una diffidenza preconcetta che oggi in larga parte non c’è più. Era il riflesso del nostro sentirci inferiori. Ora il problema non è più questo. Ma un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa. Mi colpisce sempre la percentuale delle donne manager: quelle che hanno figli sono il 35% contro il 95% dei loro colleghi maschi. Come dire: si può accedere a posizioni importanti, ma rinunciando a qualcosa d’importantissimo.

«La politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

«In un mondo ideale, un partito che invita gli elettori ad astenersi dal votare al referendum sulle trivelle sarebbe una vergogna. Ma visto il degrado politico e morale del Pd, nemico dei beni comuni, la cosa non mi sorprende». Ugo Mattei, docente di diritto internazionale comparato all’Hastings College of the Law dell’Università della California, è stato sei anni fa tra i promotori delle consultazioni popolari in favore dell’a cqua pubblica. «Il 17 aprile - spiega - dobbiamo votare perché la politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta».

Dal Pd “inutile” il referendum...
Allora tanto per cominciare potevano accorparlo alle amministrative, così avremmo risparmiato 400 milioni di euro. Più che inutile, lo definirei dannoso per i poteri forti, ossia le compagnie che hanno le concessioni. Dato che ora la legge non permette più nuovi permessi entro le 12 miglia marine, è stato fatto loro un regalino, estendendo la durata di quelli già in essere anche dopo la scadenza, fino a quando è conveniente.
Quindi qual è il rischio in caso non si raggiungesse il quorum o vincesse il No?
Le compagnie potranno tenere i siti inoperativi fino a quando il prezzo del petrolio tornerà a salire: in quel momento riprenderanno le estrazioni e ci guadagneranno un bel po’. Votando Sì, abbiamo l’opportunità di stabilire che dopo la scadenza dei permessi, le estrazioni devono bloccarsi. Le sembra inutile togliere questo regalino?
Come farlo capire ai cittadini, con tutta questa propaganda per l’astensione?
Una battaglia disperata. Questo referendum non è stato chiesto con la raccolta firme, che avrebbe creato interesse al tema tra la società civile. Gli argomenti per il Sì sono forti, il governo lo sa e per questo ci ha lasciato poco tempo per la campagna di informazione.
Qualcuno potrebbe farsi scoraggiare dal fatto che poi la politica potrebbe comunque disattendere l’esito referendario?
Questo è il punto più importante di tutti. Il referendum sull’acqua pubblica ha avuto un risultato straordinario. Se avessimo perso quella battaglia, avremmo assistito a una privatizzazione del valore di 200 miliardi di euro, più grande di quella fatta negli anni Novanta. Non mi pare che si sia ottenuto poco.
In questi giorni, però, è in atto un tentativo di tradire quel risultato.
La proposta di legge di cui parliamo è di iniziativa parlamentare, non passerà mai, sono pronto a scommetterci. E il fatto che sia venuto fuori quel tentativo è positivo: ha dato lo spunto per tornare a parlare di beni comuni e quindi di referendum, aiutando i movimenti per il Sì per l’appuntamento del 17 aprile.
Tuttavia, stanno tornando i sostenitori della privatizzazione, con il solito argomento secondo il quale il pubblico non ha le risorse per gli investimenti...
Quello che è mancato dopo le consultazioni del 2011 è stata la piena ripubblicizzazione del servizio idrico. Noi per “pubblico” non intendiamo il vecchio metodo burocratico, corrotto e in mano alla politica. Intendiamo la nascita di istituzioni trasparenti, partecipate e con progetti di lungo periodo. Gli investimenti potrebbero anche avere una quota privata, ma di certo devono essere slegati dalla logica del profitto.
«Da Banksy a Elena Ferrante. Scegliere di non firmare le proprie opere o di usare uno pseudonimo corrisponde a un programma etico e politico. E ha un’origine nobile che risale al Medioevo». La

Repubblica, 20 marzo 2016

I writers somigliano ai tanti pittori vissuti prima del Rinascimento e di cui conosciamo la produzione ma non i nomi In qualche modo chi dipinge su un muro rifiuta l’eredità del moderno e predilige una tradizione fatta di comunità e non di singoli

Chi è Banksy? Chi è Elena Ferrante? Siamo disposti ad arrampicarci sulle più improbabili congetture pur di riuscire a dare un volto, una biografia, una foto senza trucco ai pochi artisti o scrittori che hanno scelto di negare al circo mediatico la propria persona. Non tolleriamo che qualcuno «si nasconda » dietro uno pseudonimo: e basterebbe la scelta del verbo «nascondersi» per rivelare lo spirito vagamente inquisitoriale col quale guardiamo a chi vuole parlare solo con le proprie opere. Molti che non hanno mai visto un Banksy, né letto una riga della Ferrante si sono, negli ultimi giorni, appassionati all’abilissima cronaca della caccia alla loro identità anagrafica: poterli mettere a sedere tra gli ospiti in un programma del primo pomeriggio (quando «non c’è due senza trash», come canta Fedez) sarebbe il sogno di qualunque venditore di immagine.

Intendiamoci, il culto della personalità degli artisti è un culto antico. Se è vero che esso conta tra i molti tratti che si sono esasperati e radicalizzati nel passaggio dalla «società dello spettacolo» (Guy Débord) alla totalitaria «civiltà dello spettacolo» (Mario Vargas Llosa), è anche vero che la storia dell’arte come la intendiamo oggi rinasce — dopo l’anonimato del millennio medioevale — con un’autobiografia d’artista: quella di Lorenzo Ghiberti, alla metà del Quattrocento. Leggendo Plinio e altre fonti antiche, gli uomini del Rinascimento scoprivano una legione di artisti: ne conoscevano i nomi e i successi, le conquiste figurative e le avventure personali. I testi erano stati davvero più duraturi del bronzo (come aveva predetto Orazio), e se le opere avevano fatto naufragio, le biografie si erano in qualche modo salvate.

È su queste basi che Giorgio Vasari edifica un monumento storiografico che tuttora ci condiziona: le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550 e 1568) culminano nell’apoteosi di un Michelangelo divino, contro cui Roberto Longhi mostrava, nel 1950, tutta la sua insofferenza («e s’è già troppo sofferto del mito di artisti divini e divinissimi, invece che semplicemente umani»). Parliamo ancora con le parole di Vasari quando chiamiamo «divi» e «dive» gli attori o le cantanti che ci sembrano più grandi, e la medaglia ha il suo rovescio: quello dell’artista sporco, sociopatico e assassino. Caravaggio, dunque: caso in cui l’arte ci sembra indissolubile dalla biografia, lo stile del pennello da quello della spada.

Ma è proprio con Caravaggio che diventa evidente il prezzo enorme di questa affermazione di una forte individualità eterodossa: quando le sue pale d’altare vengono rifiutate dalle chiese ed entrano subito nelle grandi collezioni private, inizia a rompersi il nesso opera-funzione. Inizia il lungo processo verso l’arte di oggi: che «non fa perdere all’arte la sua qualità di arte, ma le fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfluità» (Edgar Wind).

Consapevolmente o no, è contro tutto questo che lotta il writer Blu quando cancella le opere che aveva fatto sui muri di Bologna perché non vengano staccate ed esposte nell’ennesima mostra di cassetta sulla Street Art. È in questo senso che l’anonimato di Banksy non sembra solo un vezzo personale, o la conseguenza del carattere illegale dello scrivere sui muri, ma un programma artistico, etico, politico.

Un’«arte senza nomi» che prova a riportare indietro le lancette della storia: a prima di Ghiberti. Ottimi studi sulle firme e i ritratti degli artisti (soprattutto italiani) del Medioevo hanno ormai messo in crisi «l’immagine romantica dell’artista che annulla la sua personalità nell’opera condotta insieme ad altri, a maggior gloria di Dio», ma è innegabile che «percorrendo a ritroso il Medioevo si direbbe che i tratti individuali degli artisti, i loro stessi nomi sfumino e si confondano insieme, unificati in una sorta di configurazione collettiva» (Enrico Castelnuovo). E proprio Peter C. Claussen (lo storico dell’arte che più di ogni altro ha saputo censire le tracce individuali degli artisti medioevali) ha sottolineato l’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, tra il 1130 e il 1250: le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori collettivi voluti e costruiti da comunità civili.

È in questo senso che la Street Art rifiuta l’eredità del moderno, cercando altrove. Per molti versi viviamo in un nuovo Medioevo: nelle nuove città torri sempre più alte separano la vita lussuosa dei nuovi signori feudali da quella della massa dei servi, non della gleba, ma di un mercato senza regole. A redimere la programmatica bruttezza dei non luoghi dove vive la maggior parte degli occidentali è nata un’arte che appare collettiva per natura, e generata quasi in opposizione simmetrica a quella mainstream.

Se quest’ultima è un’arte privata per definizione, un’arte da interno che nasce per gallerie e per case di lusso, o per musei, simili a lounges aeroportuali, nei quali si paga un biglietto, la Street Art è un’arte pubblica, un’arte da esterno che si vede gratis perché aderisce come una seconda pelle ai luoghi dove vive e lavora chi possiede quasi solo la propria pelle. La prima non puoi comprarla perché costa milioni, la seconda non puoi comprarla perché non è in vendita: e negare il nesso arte-mercato è un altro tratto che nega tutta la tradizione moderna, tornando al nesso medioevale arte- comunità. E anche per macchine tritatutto come il mercato dell’arte e l’industria delle mostre non è facile digerire la Street Art: perché quando la sradichi, ne uccidi anche il valore estetico.

In questo gioco di contrari, il divismo esasperato dei Jeff Koons, Damien Hirst o Maurizio Cattelan trova un corrispondente perfetto nell’anonimato di Banksy.

Dei writers — come di molti artisti medioevali — conosciamo solo le firme, e — proprio come accade per l’arte europea dell’alto Medioevo — non possiamo interpretarne l’arte alla luce delle biografie: non possiamo individualizzarla, e dunque siamo “costretti” a leggerla come un’arte davvero collettiva.

Equesta strategia funziona: difficilmente vedremmo i cittadini insorgere in difesa di un museo d’arte contemporanea, mentre in molte città d’Europa (e ora a Bologna) succede che la comunità si preoccupi della sorte di un’arte che sente “sua” anche grazie all’eclissi della personalità del creatore. Non di rado i writers italiani mettono in atto progetti di notevole valore civico, oltre che artistico: come il collettivo FX, che ricopre con il testo dell’articolo 9 della Costituzione i muri di cemento che l’hanno violato distruggendo il paesaggio. O come il Gridas (Gruppo Risveglio dal Sonno), che ha raccontato l’epopea collettiva dei cittadini di Scampia non «coprendo le brutture» del quartiere, ma «usandole in modo creativo» (lo raccontano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Graffiti. Arte e ordine pubblico, il Mulino 2016).

Se oggi in molti pensiamo che «le parole dei profeti /sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi» (come recitava, già nel 1964, la fine di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel) è anche perché i writers continuano a pensare che la loro arte valga più del loro egotismo. Un messaggio, questo sì, profetico.

La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale: quella di tenere insieme libertà e giustizia; un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone di scegliere» Ma Renzi appartiene alla "sinistra democratica"?Huffington post, 20 marzo 2016

La sofferenza della sinistra va oltre le vicende nazionali e le scissioni, minacciate o reali, che la segnano. Come un processo di partenogenesi, da un seme comune -- che porta il nome di giustizia sociale tra liberi e eguali -- molti e diversi corpi nascono, cadono e si sviluppano senza interruzione. E’ possibile leggere questo fenomeno come un segno di libertà e di vivacità politica che esiste solo nelle società aperte e libere. Partenogenesi è, dopo tutto, nuova vita non frammentazione ed espressone di un segno per fortuna mai sopito che esiste il bisogno di pensare, di riflettere criticamente sulle modificazioni sociali e su come queste cambino le interpretazioni dei comuni valori e principi. Dissenso implica ricerca.

Tuttavia, nonostante questo sforzo di vedere le cose in positivo, per la tradizione della sinistra democratica e liberale questa è e sarà ricordata come un’età di grande sofferenza, per la difficoltà di trovare un punto di riferimento solido che stia oltre le figure politiche individuali, oltre leader rappresentativi, e invece nei processi sociali e nelle costruzioni ideali che tengono insieme forme collettive. E’ nel partito che le trasformazioni e le ricerche possono e devono trovare radicamento, in un movimento collettivo. La leadership in solitudine non basta e in alcuni casi può essere ostruttiva del processo di trasformazione.

La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale. Quella di tenere insieme libertà e giustizia -- un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone agli attori politici, ai cittadini e ai leader, di scegliere. In un clima di scarsità delle risorse, come è quello in cui ci troviamo, finita la fase di crescita espansiva dei consumi e della programmazione via stato della redistribuzione della ricchezza tra eguali cittadini della nazione democratica, la sinistra nei paesi occidentali, ed europei soprattutto, ha cominciato a registrare una reale crisi di identità e un declino di identificazione. Si tratta di un fenomeno non recentissimo e che ha preso i caratteri specifici dei paesi di appartenenza.

E' la profonda insoddisfazione verso le politiche sociali del Partito Democratico che mette in risalto la difficoltà di Hillary Clinton a conquistare una forte e chiara nomination nelle primarie per le prossime elezioni presidenziali. Come un fiume carsico, l’energia contestatrice di democrazia sociale e di criitica della straordinaria disegueglianza economica che si è sprigionata con Occupy Wall Street sta emergendo in maniera dirompente, senza timidezza, con lo straordinario successo di opinione e identificazione intorno a Berny Sanders. E anche se la sua campagna per la nomination non avrà successo, le richieste che rappresenta – fare del sogno americano una promessa realizzabile non un opium populi—non sono destinate a scomparire. E così, in Francia, gli scioperi contro laderegolamentazione del lavoro e la decurtazione dei diritti sociali rendeno isocialisti al governo la controparte contro la quale i cittadini (e isocialisti) contestano la violazione della promessa di giustizia sociale. Nonsarà facile per il partito di Holland arginare il movimento e restare allaguida del movimento. Essere partito dilotta e di governo, arduo in sè, è praticamente impossibile quando lecondizioni per la redistribuzione della ricchezza sono ridotte all’osso. In questa Europa, gruppi sociali e poterihanno voci molto ineguali e indubbiamente la radicalizzazione dei conflitti puòdiventare isostenibile per le democrazie costituzionali.

Al di fuori dei partititradizionali, il movimento di ricostruzione della sinistra in contestisocio-economici disastrati o difficili ha preso strade movimentiste e populiste,linguaggi e forme di aggregazione che fino a qualche tempo fa erano, in Europaalmeno, praticate soprattutto dalla destra. Il populismo che la sinistrabrandisce in Grecia e in Spagna ha il significato esplicito di una reazionecontro partiti socialisti consumati dall’esercizio del potere. Senza classi sociali sulle quali ricostruireil tessuto connettivo degli ideali di giustizia e solidarietà, è il popolo deimolti, la maggioranza larga di coloro che vivono (male) del proprio lavoro, enon hanno rappresentanza sociale forte, a fare da tessuto connettivo. Ilpopulsimo al quale la sinistra si è rivolta è il segno di un “grido di dolore”(come chiamava Emile Durkheim il socialismo) che i partiti tradizionali dellasinistra non sembrano capaci o desiderosi di ascoltate e che il populismostesso non garantisce di risolvere.

E’ in questa età complessa che la sinistra vive lasofferenza di una cultura politica che non sembra riuscire più ad orientare leazioni e unire larghe forze collettive, che ha smarrito il linguaggio delriformismo sociale. Accanto agli esempidi indubbio coraggio politico che vengono dagli Stati Uniti (e dal pocomenzionato Canada, un esempio di vittoria della sinistra democratica dirilievo) vi sono casi come quello italiano di profonda e radicale frammentazione.In Italia, dove l'erosione della tradizione e dei valori delle sinistra si èintrecciata al declino per vie giudiziarie della classe politica e dei partitiche fecero la ricostruzione post-bellica, la transizione verso un soggettopolitico nuovo sembra infinita. E nonancora approdata ad una sedimentazione delle fondamenta. Nel moto tellurico disigle, statuti, e leadership, sembrano essere stati travolti quegli stessiprincipi di democrazia sociale che vengono tuttavia propagandati e proclamati.La sinistra italiana sembra annaspare senza riuscire a trovare un appigliosicuro a partire dal quale recuperare energie e tornare a nagivare in mareaperto. Essa é l’immagine più esemplare della sofferenza

Dall’insegnamento universitario dovrà scomparire innanzi tutto il passato. Ciò che fa la differenza è il potere che ogni raggruppamento disciplinare è in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri: l’accesso a finanziamenti privati, la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo e la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei». Corriere della Sera, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

L’Italia che insegna e che studia, che ricerca e scrive libri cercando anche così di conservare al Paese il suo posto tra gli altri del mondo, non solo è sempre più povera (come si sa destiniamo all’istruzione superiore la cifra di gran lunga più bassa tra tutti i grandi Paesi europei), non solo appare sempre più divisa tra Nord e Sud, ma ormai vede aprirsi all’interno dell’istituzione universitaria una drammatica frattura tra ambiti culturali. Da un lato quelli destinati a restare importanti e centrali, dall’altro quelli destinati invece, se le cose continueranno così come oggi, a spegnersi più o meno rapidamente.

Detto in breve, dall’insegnamento universitario - e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani - dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo.

Non sto scherzando. Sto semplicemente scorrendo i dati meritoriamente raccolti e ordinati da Andrea Zannini, un valente docente di Storia moderna dell’Università di Udine, e pubblicati sul sito Roars (Return on academic research).

Dati che riguardano gli effetti che ha avuto sulle varie aree scientifiche il processo di contrazione del corpo docente accademico che si è verificato negli ultimi sette-otto anni. In complesso, nel periodo tra il 2008 e il 2015, tale contrazione è stata del 12 per cento (la maggiore, io credo, verificatasi nel pubblico impiego: da 62 mila a 54 mila persone circa) a causa di tre fattori soprattutto: il taglio generale dei fondi a tutto il sistema universitario, le nuove assunzioni limitate a una percentuale ridottissima rispetto al numero dei pensionamenti, il nuovo sistema di scorrimento delle carriere.

Ma tale contrazione - ed è questo il punto - non è stata eguale per tutti. Al contrario. Essa ha diviso spietatamente i sommersi dai salvati, i settori disciplinari che hanno visto il numero dei propri effettivi diminuire percentualmente solo di poco, ovvero restare tali e quali e talvolta addirittura crescere; e quelli che viceversa sono stati ridimensionati in misura brutale fino alla prospettiva di una virtuale cancellazione entro un tempo non troppo lungo.

Le discipline storiche sono state quelle più duramente colpite, seguite a ruota da quelle filosofiche. In neppure un decennio esse hanno visto i loro addetti diminuire rispettivamente del 27,8 e del 22,1 per cento (con punte di oltre il 32 per cento nel caso di «Storia moderna», «Storia della filosofia», «Storia delle religioni» e «Storia del cristianesimo», mentre «Storia medievale» è a meno 29,4 per cento e «Storia contemporanea» a meno 25,1). Ma messi assai male appaiono anche il settore geografico, con una decurtazione di oltre il 20 per cento e il raggruppamento letterario-artistico con un calo del 19,2 per cento.

Anche tra le discipline in senso lato umanistiche vi sono però figli e figliastri. Di fronte alle discipline demo-etno-antropologiche, ad esempio, che perdono oltre il 25 per cento degli addetti si segnalano le materie pedagogiche che invece fanno segnare quasi tutte ottime performance con il record ottenuto da «Pedagogia sperimentale» con un bel più 25 per cento di aumento.

Il raggruppamento disciplinare (comprendente più discipline) in assoluto più baciato dalla fortuna risulta comunque quello d’Ingegneria, che addirittura cresce del 2,1 per cento. Vengono subito dopo quelli delle materie economiche, sociologiche e giuridiche, tutti con diminuzioni poco significative. Non quello di Medicina - e forse qualcuno si stupirà - la cui consistenza esatta è peraltro difficile da calcolare per la commistione/sovrapposizione con il Servizio Sanitario Nazionale.

Come si vede la divisione tra i sommersi e i salvati non è propriamente tra settori umanistici e settori scientifici. Prova ne sia che le discipline matematiche e informatiche, quelle fisiche, quelle biologiche e quelle geologiche, fanno segnare tutte decrementi tra il 12 e il 20,5 per cento.

Ciò che fa la differenza è altro. È il potere che ogni raggruppamento disciplinare (cioè i suoi docenti) sono in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri soprattutto: l’accesso a finanziamenti privati (che è quasi nullo per le scienze di base e per le discipline umanistiche mentre è massimo per le scienze applicate: vedi Ingegneria et similia), la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo (è il caso delle discipline pedagogiche divenute ormai una sorta di altra faccia del ministero dell’Istruzione), e infine la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei. Qui soprattutto sta il punto forse più importante, dal momento che sono tali organi di autogoverno (Rettore, Consiglio d’amministrazione) quelli che in pratica gestiscono le risorse e la loro distribuzione tra i diversi raggruppamenti disciplinari, decidendo così delle nuove assunzioni da parte di ogni singola sede universitaria.

Ebbene, in un numero crescente di atenei ormai da tempo il gruppo di comando è nelle mani di un blocco formato perlopiù intorno a un nucleo ingegneristico-medico-giuridico il quale - forte del peso costituito sia dalla propria entità numerica che dalle proprie specifiche competenze, certo più utili a governare di quelle di un filosofo o di un biologo - ha finito per monopolizzare di fatto il potere. Ed è incline a utilizzarlo, com’è inevitabile, per fare gli interessi innanzi tutto delle proprie discipline di appartenenza.

È in questo modo che l’Italia decide del suo futuro culturale e della direzione che prenderanno i suoi studi; decide che cosa sarà delle sue non proprio indegne tradizioni in alcuni campi del sapere. Nella completa latitanza della politica, da tempo rappresentata da ministri dell’Istruzione politicamente insignificanti, perciò incerti e timorosi di tutto, sempre prigionieri dei più triti luoghi comuni, e dominati dalle corporazioni accademiche forti alle quali addirittura essi stessi per primi talvolta appartengono.

«Cosa accadrebbe se fossero i cittadini a chiedere a parlamentari o ministri di esercitare gratuitamente le loro funzioni istituzionali. Lo dico con tutto il rispetto che si deve ai rappresentanti del popolo. Sono convito che l'attività politica vada retribuita giustamente, così come quella giornalistica». Il manifesto, 18 aprile 2016 (m.p.r.)

Il lavoro gratuito al Viminale «non è una novità». La notizia è stata fornita ieri dal ministro dell'Interno Angelino Alfano in una dichiarazione a seguito delle polemiche sollevate da un bando pubblicato dal suo ministero per giornalisti «a titolo assolutamente gratuito». «Non sarebbe incardinato in via permanente nei ruoli del Ministero - ha detto Alfano - Non è una novità. Nessuno costringe nessuno. Vediamo se qualcuno vuol dare una mano d'aiuto in questo modo, viceversa prenderemo atto che nessuno ha voglia».

Poi la precisazione che rivela, più di altre, la realtà disperante di chi, costretto dalle necessità, considera comunque il lavoro gratuito un’opportunità. «Suppongo - ha continuato Alfano - che qualcuno presenterà la domanda». Una certezza da verificare: se la gara andasse deserta sarebbe un punto a favore della resistenza al ricatto del lavoro gratuito. Alfano, invece, è sicuro del contrario. La questione del reddito, escluso per un incarico per ufficio stampa che si occuperà di immigrazione, è stata derubricata a questione «sindacale». «Il nostro è invece un approccio che dà l'opportunità di un'esperienza». L'opportunità di lavorare gratis.
Una durezza simile ancora non si era vista in Italia. All'Expo, ad esempio, l'ex Ad della kermesse e attuale candidato sindaco per il centro-sinistra Giuseppe Sala, aveva usato un vasto repertorio di eufemismi per giustificare il lavoro gratuito di 18.500 «volontari», stabiliti da un accordo sindacale con Cgil, Cisl e Uil. Alfano propone la stessa retorica dell'opportunità che fa curriculum e ribadisce che il lavoro sarà gratis. Il caso, ne abbiamo scritto ieri su Il Manifesto, ha prodotto indignazione, una pioggia di articoli online, la reazione del sindacato dei giornalisti che ha chiesto il ritiro del bando.
«Viene da chiedersi come mai la richiesta non sia stata fatta anche ad altre categorie professionali - sostiene il segretario Fnsi Raffaele Lorusso - Immagino che il Viminale retribuisca medici o avvocati secondo i parametri previsti. Mi chiedo cosa accadrebbe se fossero i cittadini a chiedere a parlamentari o ministri di esercitare gratuitamente le loro funzioni istituzionali. Lo dico con tutto il rispetto che si deve ai rappresentanti del popolo. Sono convito che l'attività politica vada retribuita giustamente, così come quella giornalistica che ha ugualmente una dignità costituzionale». Nel bando Lorusso ha riscontrato «una chiara violazione della legge sugli uffici stampa che parla di giornalisti pubblicisti e professionisti nella pubblica amministrazione - continua - Nel bando si fa riferimento solo ai professionisti. C'è una discriminazione ai danni dei pubblicisti. Questo profilo potrebbe essere sicuramente oggetto di un'impugnativa».
Stampa Romana, l'associazione dei giornalisti di Roma e del Lazio, ieri ha presentato un esposto all'autorità anticorruzione di Raffaele Cantone per valutare la presenza di irregolarità nel bando. «Se un ministro importante come il titolare del Viminale arriva a giustificare il lavoro gratis e lo considera alla stregua di un'opportunità - afferma il segretario di Stampa Romana Lazzaro Pappagallo - vuol dire che il patto sociale fondato sull'articolo uno e trentasei della Costituzione è stato scardinato». Un rapporto Lsdi del 2014 sostiene che riguardi un giornalista su quattro in Italia.
«Questo ci fa orrore quando il committente è privato - risponde Pappagallo - Qui parliamo di un committente pubblico, un ministero. Abbiamo contestato situazioni simili nei casi di piccoli comuni. Ora è il ministero dell'Interno, ramificato in tutto il paese, a farlo. Il collega che sarà selezionato dovrà occuparsi di immigrazione. Trattare questo compito come un'"opportunità di fare esperienza", quindi come un’esperienza formativa, non mi pare sia all'altezza della complessità di un lavoro chiesto comunque a chi lo svolge da anni». Il bando è stato definito «gravissimo» in una nota diffusa da Fp-Cgil: «Grave pensare di non pagare chi lavora, ancora di più scoprire che lo fa il Viminale». Fabio Lavagno (Pd) ha presentato un’interrogazione. In un’altra il movimento 5 Stelle ha chiesto «l’immediato ritiro del bando».

La contraddizione profonda tra lo scippo renziano del referendum per l'acqua pubblica e il moltiplicarsi di iniziative referendarie, con le quali il popolo, tradito dalla politica politicante, vuole riappropiarsi della democrazia. La Repubblica, 17 marzo 2016

oQUASI cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel quale ci troviamo.

Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l’anno del referendum o dei referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato l’Italicum alla Consulta).

Questo non significa che quest’anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell’Adriatico. Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni, questo attivismo testimonia l’esistenza di riserve diffuse di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non sollecitate dall’alto che non possono per alcuna ragione essere sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i cittadini diventano protagonisti della costruzione dell’agenda politica, dell’indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese.

Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”, che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente incidono sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l’Italicum. Le leggi d’iniziativa popolare riguardano l’articolo 81 della Costituzione, il diritto allo studio nell’università (per iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell’ambiente e dei beni comuni. E bisogna aggiungere l’iniziativa della Cgil che sta consultando tutti i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali del lavoro”, mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.

Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l’unico referendum che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e che si possa ignorarne gli effetti.

Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono giunti negli ultimi giorni, nell’approvare le nuove norme sui servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l’acqua rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma qui, come s’era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della ”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto referendario.

È evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le istituzioni rischia d’essere vanificato. Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente travolgerli.

Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l’attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso dall’alto, e dunque l’opposto del referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra “il capo e la folla” indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così delicato della democrazia diretta.

Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente parlare di democrazia “in pubblico” e che il moltiplicarsi degli strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che la democrazia si è fatta “continua”. Ma forse, se vogliamo indagare il nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo trasferimento a quest’ultimo di quote crescenti di potere di decisione, questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre Rosanvallon, di una “democrazia di appropriazione”, nella quale il mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini, passaggio necessario per recuperare una “democrazia della fiducia”.

A proposito delle polemiche provocate dagli strumentali attacchi dei campioni del maschilismo italiano (B&B) a Meloni una riflessione che ricorda, ai più vecchi, temi degli anni 60 del secolo scorso. LaRepubblica, 16 marzo 2016

PER le donne sembra non ci sia mai il momento giusto per dedicarsi al lavoro, alla politica, all’impegno sociale, al perseguimento di un interesse. Se non hanno figli potrebbero tuttavia averne in un prossimo futuro; quindi sono considerate un rischio per i datori di lavoro. Se ne hanno di piccoli, sono inaffidabili perché devono occuparsi di loro. Se ne hanno di adolescenti, è bene che non li perdano di vista perché potrebbero mettersi nei guai.

Gli uomini invece no, possono dedicarsi anima e corpo al lavoro, alla politica, o a qualsiasi altro interesse, anche se hanno figli. Forse è per questa visione ottocentesca condivisa ancora da troppi uomini italiani, specie a capo di aziende o in politica, che l’organizzazione del lavoro è così ostile alle mamme lavoratrici, si investe così poco nei servizi, gli orari delle organizzazioni politiche e sindacali sono così difficili da conciliare con la vita e le responsabilità familiari, per le donne e per gli uomini. Se anche i padri si occupassero di più dei figli, forse penserebbero a modelli organizzativi più ragionevoli. Avviene già in altri paesi, dove non a caso si vedono anche più donne, anche mamme, in politica e a dirigere aziende. E dove i padri prendono qualche mese di congedo per stare con i figli piccoli.

In Italia invece c’è chi, non avendo mai lontanamente pensato di fare una cosa del genere e neppure, avendone il potere (da premier, oltre che come capo di aziende), ha mai fatto nulla per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare, si permette di dare consigli su come dovrebbe comportarsi una vera madre. Tra l’altro, sembra che ogni figlio di donna in politica (o comunque in carriera) nasca orfano di padre. La presenza di questi non è prevista come adeguato sostituto della madre nelle ore o giorni in cui questa non potesse essere accanto al piccolo. Quanto al congedo di maternità, evocato da Berlusconi come impedimento alla candidatura di Meloni, è un diritto duramente conquistato dalle donne lavoratrici, per proteggerne la salute, dare loro tempo con il neonato, non esporle al rischio di licenziamento. Ma non le esime, per lo più, dal lavoro domestico e dalla cura dei figli, se ne hanno già altri. E molte libere professioniste o artigiane, per necessità o scelta, non abbandonano del tutto il lavoro anche durante il congedo. Ho il sospetto che lo stipendio da parlamentare, ma anche da sindaco di una grande città, consenta di delegare ad altri il lavoro domestico e anche parte della cura del neonato, a differenza di quanto avviene per molte madri lavoratrici. Decidere di assumere un impegno gravoso durante la gravidanza e dopo il parto può essere una scelta che si può o meno condividere individualmente, non da impedire o dichiarare impossibile.

È vero che la prima ad alludere ad una incompatibilità tra maternità imminente e candidatura a sindaco era stata proprio Giorgia Meloni, quando ha utilizzato il palcoscenico del Family day, con i suoi slogan sulle nette distinzioni tra padri e madri, per annunciare di essere incinta. È probabile, tuttavia che, al netto della strumentalizzazione della circostanza per accreditarsi in quell’elettorato, Meloni si riferisse a un suo personale, comprensibile, desiderio di godersi gravidanza e primi mesi di vita del bambino, senza imbarcarsi in una impresa indubbiamente faticosa, non ad una impossibilità, o incapacità a tenere insieme le due cose. E in effetti, anche prima di decidere di candidarsi, non ha smesso neppure un giorno la propria attività politica, dando anche più di un indizio che, forse, era stata troppo precipitosa nel chiamarsi fuori. Chissà se gli interessati consigli che sta ricevendo dai suoi (ex?) alleati, così intrisi di antichi stereotipi di genere, non la facciano guardare con maggiore spirito critico alle sue battaglie contro “la teoria gender”.

L'analisi sferzante e sarcastica che D'Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al

Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce ... (continua la lettura)

L'analisi sferzante e sarcastica che D'Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce più per l'autorevolezza del vecchio dirigente e per il campo da cui proviene, che per la sua originalità. Non pochi commentatori avevano già mostrato per tempo che cosa fosse diventato il PD di Renzi. Non lo dico per sminuire l'efficacia politica di quel messaggio, utile quanto meno per svegliare tanta parte del popolo della sinistra (forse anche qualche vecchio intellettuale) che crede ancora di appartenere al partito che fu di Berlinguer. Ma lo sottolineo per più sostanziali ragioni.

Intanto la mossa tattica nasconde una grave insidia. Sarebbe un errore non vedere le complicazioni che una scissione del PD, capeggiata da D'Alema, creerebbe al nascente soggetto politico della sinistra. La tentazione di dar vita a una riedizione del centro-sinistra diventerebbe così forte da esercitare un irresistibile potere di attrazione su alcuni dei protagonisti oggi al lavoro, disarticolando l'intero progetto. E' un timore che non nasce certo dalla pretesa settaria di costruire in purezza un partito privo di contaminazioni con la realtà e con la storia. Ma che al contrario è fondato sull'analisi storica. Il bisogno drammatico del nostro Paese è oggi la costruzione di un partito di sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella società, progetto e visione. Non di una formula di alleanza per vincere le elezioni.

Occorrerebbe notare che mai è venuta dai dirigenti del PD (e delle sue precedenti incarnazioni) una seria autocritica delle scelte compiute dal questa mutevole formazione negli ultimi 30 anni, mai un serio sforzo di ricostruzione storica per comprendere in profondità quel che era avvenuto nei rapporti tra il partito e la classe operaia italiana, le grandi masse popolari, le figure intellettuali, un tempo forza e punto di riferimento del vecchio PCI. Allorché gli intellettuali concorrevano allo sforzo di comprendere un mondo che si aveva l'ambizione di trasformare, e non servivano per vincere dei turni elettorali.

Senza questa riflessione storica l'avvento di Renzi appare come un caso fortuito, ed è invece la continuazione coerente di un percorso. Il jobs act del presente governo conclude un itinerario avviato nel 1997 con la prima riforma del lavoro firmata da un ministro di centro-sinistra. La “buona scuola” e l'emarginazione dell' Università, pur con tutti i distinguo necessari, continua sulla scia delle riforme avviate da Luigi Berlinguer, ed è continuata senza soluzioni di continuità tra governi di centro-destra e di centro-sinistra. La filosofia della contrattazione programmata, quella politica che ha dato mano libera ai costruttori di devastare senza vincoli le nostre città, di cementificare il territorio, è stata accettata di fatto da tutti i governi nazionali degli ultimi 30 anni e ora viene rinvigorita dal cosiddetto “sblocca Italia”. E si potrebbe continuare.

In realtà è mancata e manca, anche in chi critica Renzi, non solo la capacità di guardare dentro la natura del riformismo del centro-sinistra, ma di vedere a quali imperiosi interessi dell'epoca esso di fatto ha finito col rispondere. Perché dopo 1989 nulla è più stato come prima. Il tracollo dell'URSS non ha messo all'angolo solo i vecchi partiti comunisti, ha colpito anche la socialdemocrazia europea. Il potere del capitalismo occidentale, rivitalizzato dai governi della Thatcher e di Reagan, e coadiuvato dalla nuova intellettualità neoliberista, ha affondato la sua critica demolitrice anche contro la burocratizzazione del welfare, la rigidità corporativa dei sindacati, il crescente peso fiscale dello Stato: tutte costruzioni, in buona parte, della sinistra europea del dopoguerra. Debolezze che racchiudevano tuttavia conquiste e diritti.

E questo bisogna proprio dirselo: la sinistra, tutte le sinistre maggioritarie europee, hanno accettato quella critica, l'hanno fatta propria. Se non si comprende tale passaggio si capisce ben poco della storia europea degli ultimi decenni. Dopotutto, di che stupirsi? Le teorie neoliberistiche non prospettavano una società pauperistica. Al contrario, esse promettevano una straordinaria ripresa dello sviluppo, cioé del processo di accumulazione capitalistica, sol che la macchina economica fosse stata liberata da “lacci e laccioli”. Maggiore produzione di ricchezza che si sarebbe ripartita automaticamente fra tutti.

Nessuna meraviglia, dunque, se, in seguito all'accettazione di tale lettura, i vecchi partiti popolari si son dovuti muovere in uno spazio ristretto e in un'unica direzione: indietreggiare, indietreggiare lentamente, lasciare sempre più libertà ai gruppi industriali e finanziari e nel frattempo gestire presso i ceti popolari il processo di riduzione progressiva del welfare. Una ritirata, diventata sempre più ardua quando gli effetti della globalizzazione si sono manifestati in tutto la loro pienezza. Allorché le imprese occidentali delocalizzate hanno messo in concorrenza i salari operai del Bangladesh con quelli di Stoccarda e di Torino.

La costituzione dell'UE poteva essere un'occasione per battere nuove strade. Qualcuno si ricorda della promessa di costruire una “economia sociale di mercato”? Com'è noto, né gli ex comunisti italiani, né gli altri partiti della sinistra europea sono stati in grado di incidere sulla filosofia neoliberistica dei trattati su cui si veniva costruendo l'Unione, sulla fragilità costitutiva dell'euro, sull'architettura complessiva dei poteri, alcuni dei quali, come la BCE, sottratti a ogni controllo democratico.

Ebbene, la vicenda di questi ultimi 30 anni trova pochi storici dentro il vecchio schieramento della sinistra perché il tentativo riformatore, compiuto nel cono d'ombra del nuovo potere del capitale, è fallito. E' morto con la Grande Crisi esplosa nel 2008. Sia il progetto neoliberista di un Nuovo Ordine mondiale dello sviluppo, che il tentativo di una sua gestione riformista, sono caduti insieme. E tale verità trova nuove verifiche nel presente. Mentre la BCE inonda di denaro le banche del continente, la disoccupazione resta fuori controllo, i ceti medi si assottigliano, si espandono le aree di povertà, le diseguaglianze si fanno più aspre, si riduce il welfare, si restringono gli spazi della democrazia, il lavoro si compra ormai con un voucher come un viaggio ai tropici.... Ebbene, nonostante questo debordante potere del capitale (o esattamente per questo?) l'agognata crescita non riparte. Il capitalismo pare una balena spiaggiata nelle secche delle sue iniquità.

Dunque, un nuovo soggetto politico, che realisticamente si deve muovere su un terreno riformatore, non può prescindere da una rilettura radicalmente classista della storia recente del mondo. Occorre porre al centro, come ha ricordato Gallino, la consapevolezza che il capitale sta muovendo guerra al lavoro e alle sue conquiste storiche. E tale presa d'atto non può venire da una riedizione del centro-sinistra e dal ripescaggio dei suoi vecchi protagonisti. Il tentativo in corso di cambiar strada deve avere l'ambizione di lasciarsi alle spalle il vecchio industrialismo sviluppista, unico orizzonte culturale degli uomini e delle donne di quella pur illustre tradizione. Non può non nutrirsi delle nuove culture ecologiche, di un ripensamento radicale delle forme della produzione industriale e della durata del lavoro, di una nuova attenzione ai caratteri del nostro territorio, al destino del bene comune delle città e al loro carattere ecosistemico, ai limiti che il riscaldamento climatico pone nell'uso delle risorse, a un nuovo immaginario - che è un salto di civiltà - in cui il rapporto uomo natura sia dominato dalla cura e non più dallo spirito di predazione.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

FIRMA L’APPELLO PER DIRE NO

ALLE RIFORME CHE RIDUCONO LE DEMOCRAZIA


Manca ormai solo il voto della Camera ad aprile per l’approvazione di una revisione costituzionale che riduce il Senato a un’assemblea non eletta dai cittadini e sottrae poteri alle Regioni per consegnarli al governo, mentre scompaiono le Province. Potevano essere trovate altre soluzioni, equilibrate, di modifica dell’assetto istituzionale, ascoltando le osservazioni, le proposte, le critiche emerse perfino nel seno della maggioranza. Si è preferito forzare la mano creando un confuso pasticcio istituzionale, non privo di seri pericoli. La revisione sarà oggetto di referendum popolare nel prossimo autunno, ma la conoscenza in proposito è scarsissima.

I cittadini, cui secondo Costituzione appartiene la sovranità, non sono mai stati coinvolti nella discussione. Domina la scena la voce del governo che ha voluto e dettato al Parlamento questadeformazione della Costituzione, che viene descritta come passo decisivo per la semplificazione dell’attività legislativa e per il risparmio sui costi della politica: il risparmio è tutto da dimostrare e la semplificazione non ci sarà. Avremo invece la moltiplicazione dei procedimenti legislativi e la proliferazione di conflitti di competenza tra Camera e nuovo Senato, tra Stato e Regioni.

Il risultato è prevedibile: sono ridotte le autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente dal Parlamento al governo, in contraddizione con il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e per di più il governo non sarà più l’espressione di una maggioranza del Paese. Già l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale definita Porcellum. Ancora di più in futuro: con la nuova legge elettorale (c.d. Italicum) – risultato diforzature parlamentari e di voti di fiducia – una minoranza, grazie ad un abnorme premio di maggioranza e al ballottaggio, si impadronirà alla Camera di 340 seggi su 630.

Ridotto a un’ombra il Senato, il Presidente del consiglio avrà ildominio incontrastato sui deputati in pratica da lui stesso nominati. Gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm) ne usciranno ridimensionati, o peggio subalterni. Se questa revisione costituzionale sarà definitivamente approvata la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ne risulterà stravolta in profondità. E’ gravissimo che un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Corte abbia sconvolto il patto costituzionale che sorregge la vita politica e sociale del nostro paese. Nel deserto della comunicazione pubblica e con la Rai sempre più nelle mani del governo,chiediamo a tutte le persone di cultura e di scienza di esprimersi in un vasto dibattito pubblico, anzitutto per informare e poi per invitare i cittadini a partecipare in tutte le forme possibili per ottenere i referendum, firmando la richiesta, e per bocciare con il voto nei referendum queste pessime leggi.

Sentiamo forte e irrinunciabile il compito di costruire e diffondere conoscenza per giungere al voto con una piena consapevolezza popolare, prima nel referendum sulla Costituzione e poi nei referendum abrogativi sulla legge elettorale. Per ottenere questi referendum sulla Costituzione e sulla legge elettoraleoccorrono almeno 500.000 firme, per questo dal prossimo aprile vi invitiamo a sostenere pienamente questo impegno. Facciamo appello a tutte le persone di buona volontà affinché diano il loro contributo creativo a questo essenziale dovere civico.

CLICCA QUI PER FIRMARE LA PETIZIONE SULLA PIATTAFORMA CHANGE.ORG

Ecco i primi firmatari:

Nicola Acocella, Marco Albeltaro, Vittorio Angiolini, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Michele Bacci, Andrea Bajani, Laura Barile, Carlo Bertelli, Francesco Bilancia, Franco Bile, Sofia Boesch, Ginevra Bompiani, Sandra Bonsanti, Mario Bova, Giuseppe Bozzi, Alberto Bradanini, Alberto Burgio, Maria Agostina Cabiddu, Giuseppe Campione, Luciano Canfora, Paolo Caretti, Lorenza Carlassare, Loris Caruso, Riccardo Chieppa, Luigi Ciotti, Pasquale Colella, Daria Colombo, Michele Conforti, Fernanda Contri, Girolamo Cotroneo, Nicola D’Angelo, Claudio De Fiores, Claudio Della Valle, Ida Dominijanni, Angelo D’Orsi, Roberto Einaudi, Vittorio Emiliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Vincenzo Ferrari, Maria Luisa Forenza, Patrizia Fregonese, Mino Gabriele, Alberto Gajano, Giuseppe Rocco Gembillo, Roberto Giannarelli, Paul Ginsborg, Antonio Giuliano, Fabio Grossi, Riccardo Guastini, Monica Guerritore, Elvira Guida, Leo Gullotta, Alexander Hobel, Elena Lattanzi, Paolo Leon, Antonio Lettieri, Rosetta Loy, Paolo Maddalena, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Maria Mantello, Ivano Marescotti, Annibale Marini, Anna Marson, Federico Martino, Enzo Marzo, Citto Maselli, Stefano Merlini, Gian Giacomo Migone, Giuliano Montaldo, Tomaso Montanari, Paolo Napolitano, Giorgio Nebbia, Guido Neppi Modona, Diego Novelli, Piergiorgio Odifreddi, Massimo Oldoni, Moni Ovadia, Alessandro Pace, Valentino Pace, Antonio Padellaro, Giovanni Palombarini, Giorgio Parisi, Gianfranco Pasquino, Valerio Pocar, Daniela Poggi, Michele Prospero, Alfonso Quaranta, Antonella Ranaldi, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Giuseppe Ugo Rescigno, Marco Revelli, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Gennaro Sasso, Vincenzo Scalisi, Giacomo Scarpelli, Silvia Scola, Giuseppe Sergi, Tullio Seppilli, Toni Servillo, Salvatore Settis, Armando Spataro, Mario Tiberi, Alessandro Torre, Nicola Tranfaglia, Marco Travaglio, Nadia Urbinati, Gianni Vattimo, Daniele Vicari, Massimo Villone, Maurizio Viroli, Mauro Volpi, Roberto Zaccaria, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanotelli.

Intervistata da Gianni Barbacetto la scrittrice motiva la sua adesione al referendum contro l'Italicum. "Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione"

Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016

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osetta Loy, dopo tanti romanzi, ci ha regalato un racconto dell’Italia recente (Gli anni fra cane e lupo, Chiarelettere 2009) che è una storia addolorata di un Paese sospeso e braccato, tra stragi, corruzione e cattiva politica. Oggi meriterebbe un nuovo capitolo, quella sua storia che dalla bomba di piazza Fontana arrivava fino a Berlusconi. Intanto Rosetta Loy ha messo anche la sua firma sotto l’appello per il No al referendum costituzionale. “La nostra Costituzione non deve essere ferita. Ha retto benissimo il tempo, non vedo perché stravolgerla così”. Riforma? “Piuttosto un passo verso un sistema in cui i cittadini hanno sempre meno voce. Quello che verrà consolidato è il sistema della casta che taglia fuori i cittadini. Loro decidono, noi siamo fuori. Invece democrazia vuol dire: voce ai cittadini”.

Protagonista della scena politica e promotore della riforma costituzionale è Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico. “Renzi non mi ha mai conquistato, come figura politica, ma all’inizio mi sembrava una persona decisa, uno che voleva rinnovare la politica italiana. Si eraautoproclanato rottaatore. Invece non ho visto rinnovamento. Mi pare anzi di essere tornata ai tempi della Dc, con una casta che comanda dopo aver conquistato la maggioranza: ma non la maggioranza degli elettori, la maggioranza dentro la casta dei politici”.

È cambiato anche il partito, quel Pd erede del vecchio Pci. “È cambiato moltissimo. Attenzione: io non sono una politica, quindi non so fare un discorso politico. Sono sempre stata un po’ diffidente nei confronti della politica. Però sono una cittadina che è sempre stata attenta alla storia del suo Paese e si è sempre impegnata per cercare di capire ciò che succedeva. Oggi questo impegno, per i cittadini, è diventato molto più difficile. Ed ha anche molta meno forza, meno possibilità di pesare, di incidere sulla realtà”.

L’Italia è molto cambiata, dopo gli anni “fra cane e lupo”. Anche la cultura italiana. “Un tempo cultura e politica vivevano insieme. Forse perché c’era stata la guerra, c’era stato il fascismo: c’era un interesse forte che univa cultura e politica. Questo oggi si è stemperato tantissimo. Anche la cultura, oggi, non sai dove sia. La insegui, ma è come un gabbiano che vola in cielo e non capisci dove finirà.

Ci sono ancora figure che uniscono cultura e politica, io per esempio stimo moltissimo Stefano Rodotà. Ce ne sono anche altre. Sul versante politico, ho una grande stima per Pier Luigi Bersani. Quello che però non vedo più è una politica capace di discutere con gli elettori, di coinvolgere i cittadini. Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione. Non c’era bisogno di una riforma che regalasse più potere al governo, togliendolo al Parlamento. Non c’era bisogno di un ‘rinnovamento’ che consegnasse gran parte del potere politico nelle mani del capo del governo”. È l’effetto congiunto di riforma costituzionale e nuova legge elettorale. “Non fa parte della nostra storia. Forse potrà andare bene in America, ma noi in Italia abbiamo un’altra tradizione. Le garanzie e il bilanciamento dei poteri che ci vengono dalla nostra Costituzione sono un bene prezioso che dobbiamo conservare. Perché buttarle via? Per avere un governo più efficiente, ci dicono. Ma efficiente per fare che cosa? Per andare dove? Si occupassero almeno con efficienza della corruzione che sventra il Paese e dovrebbe essere la prima preoccupazione della politica. O della mafia che è partita dalle regioni del Sud ed è arrivata fino ai confini settentrionali del Paese”.

Invece la politica e i suoi nuovi personaggi di riferimento si occupano prevalentemente d’altro. “Maria Elena Boschi, la ministra delle riforme che ha dato la sua faccia a questo stravolgimento della Costituzione, è una delle creature di Renzi. Non è l’unica. E dietro di loro vedo occhieggiare un’altra figura: quella di Denis Verdini”.

Abbandonare il parlamentarismo - come di fatto sta avvenendo - comporta inevitabilmente e il trasferimento della funzione di decidere a una sola persona. Ma evitare questo rischio è possibile solo se si trasforma l'attuale funzionamento del Parlamento.

Il manifesto, 9 marzo 2016

«Non si può mettere seriamente in dubbio che il parlamentarismo sia l’unica possibile forma reale in cui nell’odierno contesto sociale possa essere attuata l’idea di democrazia; e perciò la condanna del parlamentarismo è al tempo stesso la condanna della democrazia». Così scriveva Hans Kelsen nel 1924 in aperta polemica contro coloro che – sia a destra sia a sinistra – avversavano con sempre maggior foga il principio parlamentare. Oggi nell’opinione pubblica l’antiparlamentarismo dilaga, mentre le forze politiche abbandonano le camere ad un loro triste declino. Da anni ormai si assiste ad una «fuga dal parlamento»: la funzione sostanzialmente legislativa è ormai stabilmente esercitata dal governo; l’autonoma funzione di indirizzo politico parlamentare (il controllo, l’inchiesta) si è avvizzita, anch’essa assorbita nella sfera del governo.

Molte sono le cause di questa progressiva emarginazione del parlamento, tra queste certamente la scelta sciagurata per le forme reali della democrazia di adottare sistemi elettorali sempre più distorsivi della rappresentanza. L’ultima legge approvata (Italicum) porta all’estremo questo tragitto, garantendo in ogni caso una maggioranza parlamentare, anche contro la rappresentanza reale. Anche in questo caso il grande acume di Kelsen aveva visto lontano: la rappresentanza è una «crassa finzione», aveva sostenuto il maestro praghese. E chi può oggi negare che di finzione si tratti? Ma su quali gambe – in base a quale legittimazione politica, sociale, culturale – può reggersi un parlamento privato del suo demos? Così non può stupire che il potere (il kratos, la faccia nascosta della democrazia) si concentri in un altro luogo, quello che può essere legittimato dal diverso principio identitario: il governo, la leadership, il capo.

La crisi del parlamentarismo, dunque, se non la fine della democrazia tout court, sembra almeno annunciare il consolidarsi di un altro tipo di democrazia, quella «identitaria».

Il maggior teorico di questo particolare modello costituzionale – Carl Schmitt – in effetti rivendicava il fondamento democratico del principio identitario, poiché, egli scriveva, il popolo deve essere inteso nella sua unità politica, oltre le organizzazioni dei gruppi sociali, superando le divisioni pluralistiche. In questa prospettiva è chiaro che il parlamento perde di ogni ruolo costituzionalmente rilevante, non ha diritto a frapporsi alla «decisione» che non può trovare ostacoli. Se l’organo della rappresentanza non ha la forza politica necessaria per prevalere – scriverà a chiare lettere Schmitt – «allora non ha il diritto di chiedere che tutti gli altri uffici responsabili siano incapaci di agire». Ed oggi, in Italia, in effetti la sede della «decisione» non è certo nel parlamento, bensì fuori da esso. Al principio parlamentare si va sostituendo quello presidenziale.

C’è a questo punto da chiedersi se possiamo noi rinunciare al modello parlamentare. Se – seguendo Kelsen – la risposta dovesse essere negativa, dovremmo cominciare a riflettere su com’è possibile invertire la rotta, poiché è chiaro che dinanzi ad un parlamento sempre più svuotato, delegittimato, lontano dalla rappresentanza reale, la ricetta identitaria non potrà che stabilizzarsi.

Da dove ripartire? Sulla legge elettorale si sta giocando la partita referendaria, ma non basta. Per rivitalizzare l’organo parlamentare bisogna anche guardare al suo interno. I regolamenti modificati nel corso degli anni hanno ormai cancellato ogni possibilità di discussione e confronto tra le forze politiche (contingentando i tempi, accelerando le procedure, sottraendo i poteri di intervento ai singoli parlamentari). Le interpretazioni fornite di questi stessi regolamenti hanno poi ulteriormente costretto il dibattito (legittimando maxiemendamenti, consentendo di reiterare richieste di fiducia anche su atti dello stesso governo, ammettendo emendamenti premissivi privi di contenuto normativo). La stessa opposizione, impotente, non si è sottratta al gioco della delegittimazione dell’istituzione parlamentare (plateali uscite dall’aula, Aventini dichiarati e poi rapidamente rimossi, uso strumentale del potere emendativo per fini esclusivamente ostativi e non invece alternativi o modificativi).

In questa situazione un primo piccolo passo potrebbe essere quello di richiedere la modifica dei regolamenti al fine di riscrivere le regole del dibattito parlamentare, con la speranza di dare voce ad un parlamento ormai afono. Non è neppure difficile indicare i principi che dovrebbero essere seguiti: garantire il dibattito e la possibilità per tutti i parlamentari di esercitare liberamente il proprio mandato. Non si possono negare le prerogative della maggioranza (e dunque eventuali corsie preferenziali per gli atti collegati all’indirizzo politico dell’esecutivo), ma il contrappeso deve essere uno statuto delle opposizioni che assicuri la discussione delle proposte delle forze politiche minoritarie.

Anche il potere emendativo, lo strumento più importante di discussione e di decisione, deve essere razionalizzato. Se si vuole evitare l’assurdo di un’opposizione senza testa che sforna emendamenti affidandosi agli algoritmi anziché alla forza delle proprie convinzioni, è necessario impedire l’arroganza di maggioranza, la possibilità che questa – forte solo dei numeri, ma non dei propri argomenti – imponga la fine di ogni discussione presentando maxiemendamenti, emendamenti preclusivi del dibattito, reiterate fiducie esclusivamente tecniche.

Anche la procedura legislativa vuole le sue nuove regole. Un tempo ci si lamentava del troppo lavoro in commissione, sede di compromessi oscuri, ora, invece, si stronca ogni funzione istruttoria. Le commissioni referenti lavorano inutilmente, sempre pronte a lasciare il passo al passaggio in aula prima di aver ultimato i propri lavori, soprattutto nei casi più delicati e che più richiederebbero di essere discussi in commissione per raggiungere un solido compromesso tra le diverse forze politiche.
In aula, poi, ormai, si fa solo «teatro». Altisonanti ma vuoti discorsi rivolti al pubblico e costruiti per i titoli dei giornali del giorno dopo. Senza lavoro istruttorio alla spalle, l’unica possibilità per giungere alla decisione è che qualcuno in altre stanze (quelle del governo o nelle riunioni ristrette dei fiduciari di partito) faccia pervenire il testo da approvare con disciplina, ma senza onore. Se si vuole tentare di arginare questa deriva si dovrebbe avere il coraggio di affermare che le commissioni e non l’aula sono il cuore pulsante del parlamento, poiché solo in quelle sedi si può discutere realmente e decidere consapevolmente. Una riserva di commissione, almeno per le materie più importanti, potrebbe essere necessaria, estendendo i casi di «procedura normale» previsti da un negletto articolo della nostra costituzione.

Infine, le leggi sono fatte di parole, ma se queste sono incomprensibili rischiano di produrre effetti indesiderati e danni collaterali. A scapito, ancora una volta, della legittimazione dell’organo che le ha espresse. E allora se il regolamento parlamentare stabilisse regole sulla fattura delle leggi che, ad esempio, escludesse la possibilità di presentare articoli con più oggetti ed imponesse l’unitarietà dei commi, forse potremmo evitare lo scempio di leggi della vergogna, che dentro un solo articolo condensano in un centinaia di commi il caos universale.

Cambiare i regolamenti parlamentari non risolverà la crisi del parlamentarismo, ma da qualche parte si dovrà pure iniziare. Se stiamo fermi ad aspettare temo che saremo travolti, in fondo la slavina della riforma costituzionale, che pone ancor più ai margini il sistema parlamentare, è annunciata. Proviamo a reagire.

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