«Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte».
Internazionale.it, 24 aprile 2016 (c.m.c.)
Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo.
Nell’ultimo decennio c’era sempre almeno lo strascico di qualche polemica: gli ultimi acciaccati neofascisti che avevano un rigurgito di esibita insofferenza, o un Silvio Berlusconi presidente del consiglio che non partecipava alle celebrazioni ufficiali e proponeva di chiamarla festa della libertà.
L’anno scorso, forse con l’urgenza dell’anniversario a cifra tonda, il governo aveva lanciato una discutibilissima campagna con l’hashtag #ilcoraggiodi che sovrapponeva gli eventi della lotta partigiana con le imprese di Alex Zanardi o Samantha Cristoforetti in un guazzabuglio ideologico quasi grottesco. Quest’anno praticamente nulla: se cercate 25 aprile su Google, sui social network si parla molto del rischio meteo che rovinerà il ponte a un sacco di italiani. La preoccupazione di un piccolo e bellissimo libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia (riedito l’anno scorso) è una profezia più che avverata:
«È ulteriormente aumentato il disinteresse intorno alla Resistenza, un fuggi-fuggi impressionante, inimmaginabile una decina di anni fa, per quanto già fosse chiaro allora quanta indifferenza si nascondesse dietro l’indignazione. I giovani hanno continuato a darsela a gambe, gli storici pure (poche, ancorché lodevoli le eccezioni). La maggior parte degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.»
Allarmati dalle forme più o meno striscianti di strumentalizzazione (la famosa affermazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, datata 1996 e tutto il fumus che ne è scaturito) non ci si è accorti di come la crisi della democrazia stesse trascinando con sé anche i dibattiti intorno ai temi ideali. La crisi dell’antifascismo di cui scriveva Sergio Luzzatto in un libro del 2004 era una crisi ancora intellettuale; lo storico riconosceva nell’aria i segnali sempre più scuri: un forte vento di revisionismo e la nuvola plumbea della cosiddetta memoria condivisa. Oggi questo dibattito storico si è rivelato per quel che era: il prodromo di una rimozione, la tempesta perfetta tutta in un bicchier d’acqua molto torbida, la condizione per una neutralizzazione così efficace da non essere nemmeno una mancanza avvertita.
Il rischio della morte dei testimoni diretti che David Bidussa evidenziava per le vittime dell’Olocausto in Dopo l’ultimo testimone (libro del 2009) è una catastrofe avvenuta senza troppo clamore per quello che riguarda i partigiani.
Chi parla più di resistenza, liberazione, antifascismo? Marzabotto o Stazzema sono nomi che alla maggior parte delle persone non evoca davvero più nulla, ma si può dire quasi lo stesso persino delle Fosse Ardeatine o di Cefalonia.
Del resto molto pochi sembrano sentire su di sé il compito di riflettere sulla memoria dell’evento centrale per la costruzione della nostra identità italiana e di elaborarne ogni volta la storia. Da quei “ragazzi di Salò” in poi buona parte della fiction che la Rai ha prodotto sugli anni dal 1943 al 1945 ha ridotto quella che Claudio Pavone ha raccontato come guerra civile e conflitto morale a una dimensione di feuilleton (Il graffio della tigre), di thriller semi-revisionista (Il sangue dei vinti), di melodramma revisionista tout-court (Il cuore nel pozzo). Vicende di singoli vittime della storia, o al massimo – davvero il migliore dei casi – esaltazione di alcuni eroi, i carabinieri in genere (Salvo d’acquisto, I martiri di Fiesole).
La dimensione popolare è praticamente scomparsa, così come come l’ambizione di indagare un grande momento di tensione, rinascita, conflitto morale. La questione dell’emancipazione sociale un fantasma, quella della coscienza politica nemmeno a parlarne. Affermare il ruolo centrale dei comunisti in tutta la guerra di liberazione e nel processo costituzionale oggi sembrerebbe un azzardo, così come è impensabile parlare pubblicamente di violenza giusta.
E anche nella scuola – l’ultimo alibi per chi non sente su di sé la responsabilità di questa indifferenza conclamata – far conoscere la resistenza è faticosissimo, un compito spesso lasciato alla buona volontà dei singoli presidi o dei singoli insegnanti, che devono ricominciare ogni volta da capo: a ribadire la differenza cruciale tra riconoscere le ragioni dei repubblichini e dargli dignità storica, a legare la storia della guerra di liberazione all’antifascismo precedente e a quello successivo, a indicare nella guerra partigiana le tracce ideali di quella che sarà la scrittura della costituzione, eccetera.
Pochi giorni fa è stato pubblicato un importante accordo siglato dal ministero dell’istruzione con l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, per cui nella settimana dal 25 al 30 aprile dovrebbero svolgersi lezioni e attività didattiche sulle questioni della resistenza. Ma quante scuole hanno accolto questo progetto? Chi sono gli esperti invitati a parlare? Come si svolgeranno queste lezioni? Quanto spazio gli sarà dato? E, soprattutto, sarà una sperimentazione che si replicherà negli anni prossimi?
Perché parlare e riflettere sulla resistenza non si deve ridurre, come spesso avviene, a quella specie di elemosina educativa che chiamiamo sensibilizzazione. L’esperienza dei partigiani, di tutti quelli che hanno dato vita all’antifascismo, ha un carattere pedagogico, paradigmatico, di educazione alla vita, che corrisponde perfettamente a quell’esemplarità che in filigrana possiamo leggere nella costituzione italiana. Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche la possibilità di immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte.
I più bei romanzi sulla resistenza hanno come protagonisti dei ragazzi e hanno come centro narrativo proprio questo percorso imprevedibile lungo il confine che in realtà è un fossato che passa tra il lasciare che le cose accadano e fare di tutto perché cambino. Ci sono due passaggi del Partigiano Johnny che mi sono particolarmente cari, e sono tra quelli in cui Johnny parla proprio di questo confine, e della bellezza di questo salto possibile.
«Johnny camminava, gli occhi fissi alla geniale silhouette di Tito, ma in realtà chiuso. Pensava a se stesso, al suo grado di sopravvivenza intellettuale gli parve di pericolare su un abisso quando, ad un text, constatò non ricordare nulla degli aoristi.
– Tutto questo finirà, ed io dovrò rimettermi da capo col greco, non potrò mai fare a meno del greco per tutta la vita… La cosa era orribilmente noiosa, da sentirmi d’ora la nausea della lontana fatica. Forse era meglio morire partigiani: incredibile, si trattava di una vera e propria sistemazione borghese. Tutto questo finirà…
ed allora decise di goderne, di quel marciare, nell’aria algida, con un’arma al braccio quel sole vittorioso, verso il delizioso paese del prelievo tabacchi. E si trovò a recitare: ‘Sumer’s icumen…’ a voce involontariamente intellegibile, sicché Tito si voltò intrigato e interessato: delizioso l’incrociarsi delle sue ciglia delinquenziali, e rivoltando avanti affondò nella neve inavvistata.
(…)
Partì verso la cresta. Le nove batterono crepuscolarmente a campanile ed egli controllò il suo orologio. Era ora ad un punto di femminea sottigliezza, ma duro come il ferro, il cinghietto di cuoio stava cadendo a pezzi. Lo strappò e fece scivolare l’orologio nel taschino sul fra le pieghe del suo fazzoletto azzurro. Quell’orologio aveva marcato le sue ore coscienti: l’aveva sbirciato mentre Monti parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma, Baudelaire, l’aveva al polso quando il capitano Vargiu aveva annunciato il 25 luglio, Johnny l’aveva consultato aspettando il ragazzo romano col vestito borghese qualche giorno dopo l’armistizio. Scosse la testa: passato e presente erano totalmente, incredibili. E un richiamo gli folgorò la testa: Johnny qual è l’aoristo di lambano?»
Buona festa della liberazione a tutti, pensate che è la vostra festa.
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«La scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore».
Il manifesto, 24 aprile 2016
Chi si ricorda più del 25 aprile? A settantuno anni dal giorno della Liberazione è lecito porsi questo interrogativo. Beninteso, non alludiamo al fatto in sé della conclusione della lotta di liberazione – anche se nella memoria della mia generazione quello fu comunque un giorno di festa e sarebbe anche opportuno che molti o pochi di noi ne rievocassimo le atmosfere e gli accadimenti -, ma più in generale al senso di quella conclusione, in una parola allo spirito del ‘45.
A guardare a ritroso i settanta e più anni trascorsi sembrano una distanza di tempo ultrasecolare se consideriamo la lontananza della realtà di oggi da quell’evento.
Contro la registrazione burocratica del 25 aprile come festa nazionale ci piacerebbe evocarlo come un momento sempre presente di esercizio della sovranità popolare. Perché la scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore. Questa riflessione ci è suggerita dalle vicende di questa nostra democrazia repubblicana che, seguendo un processo peraltro non soltanto italiano, ma generalizzabile a livello europeo (se non mondiale), tende a restringere sempre più lo spazio di autonomia e di sovranità degli individui e dei corpi sociali e con ciò anche la consapevolezza che essi potessero avere del loro ruolo in una società democratica. Complici la minaccia del terrorismo islamico, i problemi immani che derivano dalle migrazioni dell’ultimo decennio, le persistenti crisi economiche legate a un modello di sviluppo destinate a perpetuare diseguaglianze e ingiustizie, si riaffacciano dappertutto le tentazioni a rafforzare il potere esecutivo e a rigettare al margine le istanze di democratizzazione e di partecipazione.
Il processo di svilimento dei partiti politici e di svigorimento degli stessi sindacati, che avrebbero dovuto rappresentare la palestra della democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, ha aperto un vuoto e fa da sfondo a questa invasione del potere esecutivo. Nella cultura politica del nostro Paese lo spirito del ’45 non si è mai riflesso interamente, è penetrato a intermittenza, con qualche fiammata che non è riuscita a interrompere la continuità di un mediocre barcamenarsi in una perpetua navigazione a vista. Anche per questo alla classe dirigente dell’antifascismo storico, che rimane pur sempre quanto di meglio il Paese ha espresso, non ha fatto seguito la formazione di una classe dirigente degna di questo nome. La sua mediocrità è sotto gli occhi di tutti e, a differenza che in altri contesti europei, le sue insufficienze non sono state e non sono compensate neppure da un ceto amministrativo di provata capacità tecnico-gestionale e di assoluta probità. La corruzione in cui affonda il Paese non è l’ultimo dei fattori che espropria i cittadini della possibilità della partecipazione alla cosa pubblica come contributo a livello individuale dell’esercizio della sovranità.
Le utopie del ’45, il rinnovamento politico e morale all’interno e il sogno degli Stati Uniti d’Europa sul piano internazionale, si scontrano oggi con il rozzo empirismo di mestieranti della politica e il riemergere di anacronistici quanto feroci e aggressivi egoismi nazionali.
Le aspettative del ’45 hanno avuto breve durata. Nello spazio di due anni lo spirito di conservazione, la nostalgia del quieto vivere, e l’eterna paura del salto nel buio hanno frenato e affossato sul nascere le speranze e le istanze del rinnovamento. Il 18 aprile del 1948 non è stato soltanto la sconfitta elettorale della sinistra, è stato il rifiuto a lungo termine delle aperture del ’45.
Non è certamente un caso che nel momento in cui si pone mano ad una pur necessaria revisione della Costituzione, che di per sé rimane l’espressione della stagione di rinnovamento aperta dalla Liberazione, non si è trovata strada migliore che proporre il pasticcio di una riforma costituzionale che, unita a un sistema elettorale truffaldino, intacca seriamente il principio della rappresentanza e di fatto limita il ruolo stesso del Parlamento.
Richiamare lo spirito del ’45 non vuole essere espressione di una improbabile nostalgia; vorrebbe essere un incoraggiamento a tornare a pensare fuori dalla contingenza immediata con una visuale di tempi lunghi, recuperando un patrimonio ideale che non è affatto spento. Contro la retorica della memoria ci piacerebbe che questa memoria fosse rivissuta nella pratica.
Perchè il ricordo della Resistenza da cui nacquero la Repubblica italiana e la sua Costituzione non sia pura retorica, o disarmata nostalgia, pubblichiamo questa lettera scritta da un ragazzo d'allora, fucilato dai fascisti a 19 anni. Sono parole che rivolge ai ragazzi (e agli adulti) di oggi
Era un ragazzo di 19 anni quando fu fucilato. Studente, dopo l'8 settembre 1943 aderisce alla Resistenza. Dal febbraio 1944 riceve numerosi incarichi di collegamento tra i Comitati di liberazione nazionale di Parma e di Carrara . Collabora per l'organizzazione dei renitenti alla leva e con gli ufficiali alleati evasi sulle colline tosco emiliane. Arrestato più volte, torturato e più volte evaso è fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Tra un arresto e un altro scrive questa lettera: una riflessione profonda, valida oggi più che mai.
Cari Amici,
vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti".
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo; insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L'egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credere nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria, della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Il giorno dell'esecuzione scrive quest'ultima lettera
C
arissima mamma, ti chiedo scusa di averti fatto soffrire. Io sto benissimo e sono tranquillo come ti diranno questi cari Bassi. Sono molto buoni. Non mi rincresce quello che succede: è quanto ho rischiato e mi è andata male. Io spero che i tempi migliori verranno e spero...Sono interrotto dai Bassi che piangono. Io non ne sento il bisogno, riesco a non pensare al vostro dolore e sono molto tranquillo. Ringrazio tutti quelli che hanno fatto qualcosa per me. Soprattutto tu sai chi. E penso sempre al caro lontano: non riesco a scrivere molte cose. Perdonatemi. Ti abbraccio con tutta l'anima
Riferimenti
Abbiamo tratto le lettere da: Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana,
a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Giulio Einaudi editore, 1961. Su Giacomo Ulivi vedi anche Michela Cerocchi, La giovinezza tenace. I luoghi e le parole di Giacomo Ulivi. Per una biografia vedi sul sito dell'ANPI, e precisamente qui
AntonioGramsci
Odio gli indifferenti
Odio gli indifferenti. Credo chevivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non esserecittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, èvigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Sandro PertiniMessaggio di fine anno agli Italiani,
1979
Dietro ogni articolodella Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamodifenderla, costi quel che costi.
Gianni Rodari
Compagni fratelli Cervi
1955
Sette fratelli comesette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi:
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.
Salvador Allende
1973
È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo,apparterrà ai lavoratori. L'umanità avanza verso la conquista di una vitamigliore.
Viva ilCile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e hola certezza che il mio sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, per lomeno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia eil tradimento.
W.G. Sebald
Gli emigrati (tit. orig. Die Ausgewanderten, 1994)
Distruggete anche l’ultima cosa, ma non il ricordo.
Martin Niemöller
Bertold Brecht
1931
Prima di tutto vennero a prenderegli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavanoantipatici.
Poi vennero a prendere gliomosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché nonero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno aprotestare.
La "deforma" della Costituzione di Matteo Renzi e dei suoi complici altolocati corona il sogno della peggiore destra democristiana della nostra storia. Twittare Avanti e marciare all'indietro, questo è il passo del renzismo.
Il manifesto, 24 aprile 2016
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.
La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.
Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.
La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.
C
«Non sono manifestazioni rituali quelle che l'Anpi sta organizzando per domani in tutta Italia».
Il manifesto, 24 aprile 2016
Anche l’Anpi, di solito prudente, sottolinea che questo 25 aprile non è solo una festa. Le tragedie non sono da tenere vive solo nella memoria e non basta la retorica degli orrori che si possono ripetere, perché il 71esimo anniversario della Liberazione «cade in un complesso di vicende europee che riporta l’orologio della storia in un tempo dove la civiltà e le pratiche democratiche erano pesantemente oscurate». Dunque non sono manifestazioni rituali quelle che l’associazione dei partigiani sta organizzando per domani in tutta Italia. Come non è rituale la denuncia dei «movimenti di chiara marca neonazista e neofascista che arrivano fin dentro i governi». Non è questa «la società che sognavano i combattenti per la libertà», scrive l’Anpi riferendosi ai profughi in fuga da guerre e fame respinti dall’Europa.
A Milano, dove si terrà la manifestazione nazionale (da Porta Venezia, ore 14), risulta evidente l’urgenza di far vivere questo 25 aprire non limitandosi a commemorare il passato. Lo si intuisce a partire dal palco di piazza Duomo, che ospiterà Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, l’autorità che più di ogni altra sente la vertigine della fine dell’Europa come era stata immaginata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Il suo grido di dolore è inascoltato (sul palco è previsto anche un intervento del sindaco Pisapia e del presidente nazionale dell’Anpi Smuraglia). La stessa tensione a ragionare sul presente si respirerà anche lungo il corteo che sempre dà spazio a chiunque lo voglia attraversare – fascisti esclusi – e che questa volta si caratterizza con alcuni spezzoni di “movimento” significativi. Il primo è dedicato alle “nuove resistenze” e vedrà la partecipazione della comunità curda e palestinese. Il secondo marcia in sintonia con la campagna “Stop war not people” che da settimane lavora per unire pezzi di movimento e portare in piazza alcune comunità straniere. Infine, fino a notte, la rete Partigiani in Ogni Quartiere organizza il festival delle culture antifasciste (da ieri a lunedì a Trenno).
Corteo anche a Roma, con partenza alle 10 dal Colosseo e arrivo a Porta San Paolo, dove interverranno alcuni partigiani e Luciana Castellina. Nel pomeriggio una delegazione si recherà a Ostia per rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invece, ha deciso di celebrare la Liberazione a Varallo, nel cuore della Val Sesia (Piemonte), una delle zone a più alta densità partigiana d’Italia. Salvo poi dedicarla ai marò. [incredibile]
ppello firmato anche da 11 ex presidenti della Corte costituzionale in vista del referendum di ottobre Nel mirino la pluralità di iter legislativi “con rischi di incertezze e conflitti”».
La Repubblica, 24 aprile 2016 (c.m.c.)
Cinquantasei giuristi hanno pubblicato un documento di critica alla riforma costituzionale in vista del referendum confermativo di ottobre, quello su cui Matteo Renzi ha deciso di giocarsi la permanenza a Palazzo Chigi. «Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo - scrivono i firmatari, tra cui costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Antonio Baldassarre, Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo -. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto in una potenziale fonte di nuove disfunzioni e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione».
MAGGIORANZA ONDEGGIANTE
La prima preoccupazione riguarda il modo con cui la riforma è stata approvata, «da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche». Un timore aggravato dal fatto che l’approvazione del referendum è diventata dirimente per la permanenza in carica del governo. «La Costituzione, e così la sua riforma - si legge nel documento - sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso».
SENATO DEBOLE
Secondo i firmatari l’obiettivo, «largamente condivisibile », di superare il bicameralismo perfetto è stato perseguito «in modo incoerente e sbagliato». Così, dare alla sola Camera la possibilità di votare la fiducia al governo e creare un Senato di 100 eletti (consiglieri regionali e sindaci oltre ai 5 scelti dal capo dello Stato) altererebbe gli equilibri creando una seconda Camera debole, che non ha «poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni».
RISCHIO DI CONFLITTI
I molti procedimenti legislativi differenziati, a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, daranno vita - per chi ha steso il documento - a incertezze e conflitti.
REGIONI MENO AUTONOME
Alle Regioni, dicono i 56 giuristi, verrebbe tolto «quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali)».
COSTI DELLA RAPPRESENTANZA
«Il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche - si legge nel testo - ma di equilibrio fra organi diversi e di potenziamento delle rappresentanze elettive ». Vengono perciò criticate l’abolizione delle province (sarebbe stata meglio una razionalizzazione) e del Cnel.
Il documento si conclude ricordando alcuni lati positivi, come la restrizione della possibilità del governo di emanare decreti legge e i tempi certi per alcuni progetti legislativi. Esprime però un’ultima preoccupazione: un referendum confermativo con un solo quesito, sì o no. Secondo i firmatari, dovrebbero invece esserci più domande sui grandi temi della riforma.
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Intervista di Aldo Cazzullo a Piercamillo Davigo. « Nel 1994 con Tangentopoli erano crollati cinque partiti. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».
Corriere della Sera, 22 aprile 2016 (m.p.r.)
Piercamillo Davigo - consigliere presso la Cassazione, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati - 24 anni fa era nel pool di Mani Pulite.
Dottor Davigo, com’è cambiata l’Italia da allora?
«Con i colleghi stracciammo il velo dell’ipocrisia. E questo ha peggiorato le cose».
Vale a dire?
«La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nella Prima Repubblica se non altro si riconosceva la superiorità della virtù. Quando Tanassi fu arrestato e parlò di “delitto politico”, io non capivo cosa dicesse. Poi ho realizzato che forse intendeva dire: “È un delitto politico perché vado in galera solo io”. Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose; perché quando le sappiamo partono i processi».
E partì Mani Pulite.
«Dopo l’arresto di Mario Chiesa, Craxi disse che a Milano non un solo dirigente del Psi era stato condannato con sentenza definitiva, fino al “mariuolo”. Nessuno esplose in una fragorosa risata. Il velo dell’ipocrisia teneva ancora».
E ora?
«Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti».
«Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Lo disse davvero?
«Certo. In un contesto preciso. Ma mi citano fuori contesto per farmi passare per matto».
Qual era il contesto?
«Appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano. Prenda la Metropolitana Milanese. Costruita da imprese associate, con una capogruppo che raccoglieva il denaro da tutte le aziende e lo versava a un politico che lo divideva tra tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Di giorno fingevano di litigare; la notte rubavano insieme».
Voi però l’opposizione non l’avete colpita.
Davigo si inalbera: «Non è vero! Questa è una leggenda diffusa ad arte per screditarci! Io stesso condussi una perquisizione a Botteghe Oscure!».
Ma Forlani si dimise, Craxi morì ad Hammamet. Occhetto e D’Alema restarono al loro posto.
«Forlani fece una figuraccia al processo Enimont. Su Craxi si trovarono le prove, infatti fu condannato. Su altri non trovammo le prove. Il Pci era finanziato dalle coop in modo dichiarato e quindi legittimo. Ma a Milano, dove partecipavano alla spartizione delle tangenti, abbiamo mandato sotto processo diversi dirigenti comunisti».
Il Paese era con voi.
«Gli italiani non hanno mai avuto una grande considerazione di sé: siamo gli unici a dire di noi stessi cose terribili nell’inno nazionale, “calpesti”, “derisi”, “divisi”. All’epoca sembrò che tutto potesse cambiare. Ricordo un’intervista ai volontari che friggevano le salamelle alla festa dell’Unità; erano i primi a volere in galera i dirigenti che li avevano traditi. Ma cominciò presto il coro opposto: “E gli altri, perché non li avete presi?”».
Oggi la situazione è come allora?
«È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: “Qui non si fa la battaglia contro le mosche?”. “L’abbiamo fatta - risponde il podestà -. Solo che hanno vinto le mosche”. Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti».
Davvero pensa questo del nostro Paese?
«È il rimprovero che mi fece Vladimiro Zagrebelski. Al Csm erano ospiti 35 magistrati francesi, che mi chiesero di Tangentopoli. Risposi che nel 1994 erano crollati cinque partiti, tra cui quello di maggioranza relativa e tre che avevano più di cent’anni. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre zebre erano diventate più veloci. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».
Fu Berlusconi a fermarvi?
«Cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un po’ genuflessi sì».
Ad esempio?
«La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla».
Con Renzi come va?
«Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?».
Renzi ricorda spesso di aver aumentato le pene e di conseguenza la prescrizione per i corrotti.
«Ma prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta. Lo diceva anche Cantone; anche se ora ha smesso di dirlo».
Perché Cantone ha smesso di dirlo?
«Lo capisco. E non aggiungo altro».
Quindi si ruba più di prima?
«Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata».
Com’è la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati?
«L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano».
Renzi viene paragonato ora a Craxi, ora a Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Non mi piacciono i paragoni».
E del caso Guidi cosa pensa?
Davigo sorride: «Non ne parlo perché se capita a me in Cassazione poi mi ricusano».
«Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni». Autentica anche questa?
«Sì. Ma non è una mia opinione; è un dato oggettivo. L’Italia è il Paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione. Ed è il Paese della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, della sacra corona; e della corruzione diffusa. Certo che servono nuove carceri. Con le frontiere ormai evanescenti, i Paesi con una repressione penale più forte esportano crimine; quelli con una repressione penale più debole lo importano».
L’Italia lo importa.
«Una volta a San Vittore trovai un borseggiatore cileno. Era stato arrestato quattro volte in un mese. Mi accolse con un sorriso: “Che bel Paese, l’Italia!”. Prima era stato arrestato a Ottawa ed era stato in galera due anni».
In Italia ci sono troppi avvocati?
«In una riunione europea degli Ordini professionali il presidente di turno ha detto che nell’Ue ci sono quasi 900 mila avvocati; e un terzo sono italiani. I più interessati al numero chiuso a giurisprudenza dovrebbero essere gli avvocati; se non altro per tutelare i loro redditi».
E ci sono troppi pochi magistrati?
«Ne mancano un migliaio. Ma non è un mestiere facile: ogni anno facciamo un concorso con 20 mila domande per 350 posti, e non riusciamo ad assegnarli tutti. Non è che ci sono pochi magistrati; è che ci sono troppi processi».
Come ridurli?
«In Italia tutte le condanne a pene da eseguire vengono appellate; in Francia solo il 40%. Sa perché? Perché in Francia si può emettere in appello una condanna più severa rispetto al primo grado. Facciamo così anche in Italia, e vedrà come si decongestionano le corti d’appello».
Ci sono troppi magistrati in politica?
«Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza; e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici».
establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”?». Micromega-online, 23 aprile 2016
Pessimo, pessimo, pessimo Cantone (inteso come Raffaele Cantone, il magistrato di renziana predilezione, investito dal premier del cruciale incarico di presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione”) che ha lanciato un’intemerata contro Piercamillo Davigo al grido di «dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione». E pessimissimo Giovanni Legnini, plurisenatore Pd e plurisottosegretario, fortissimamente voluto da Renzi alla vicetesta del Consiglio superiore della Magistratura (a presiederlo, di diritto ma di fatto solo in circostanze eccezionali, è il Presidente della Repubblica) che ha bollato le parole di Davigo con un «rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno».
Quali parole false, diffamatorie, oscene, violente aveva infatti pronunciato l’ex magistrato di Mani pulite, da qualche giorno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, da giustificare questo corale stracciarsi di vesti istituzionale?
Piercamillo Davigo aveva in realtà pronunciato un’ovvietà: «la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi». Qualsiasi persona sensata, in qualsiasi democrazia, una frase del genere la sottoscrive, e se non la pronuncia è perché considera che vada da sé. Una classe dirigente, quando delinque, certamente e incontrovertibilmente fa più danni del ladro di polli, dello scippatore, e perfino del rapinatore di banca.
Cantone pensa che invece una classe dirigente, quando delinque, faccia danni meno gravi? Non risulta lo abbia mai detto o scritto, anzi, e se davvero lo pensasse sarebbe opportuno che lasciasse il suo incarico per manifesta incompatibilità. Ma che lo pensi è una ipotetica di terzo tipo.
Perché allora gli viene in mente di tradurre automaticamente la frase inoppugnabile e priva di equivoci di Davigo in un “la classe dirigente è tutta corrotta” che Davigo non ha mai pronunciato e anzi in un quarto di secolo di notorietà ha sempre combattuto? La risposta standard di Davigo, quando un politico o un giornalista polemizzava con lui chiedendogli perché ritenesse che tutti nella classe dirigente fossero corrotti è sempre stato: «lei è corrotto? No. Io neppure, come vede è falso che tutti siano corrotti. Lo sono molti politici, ma si tratta di un’affermazione ben diversa e purtroppo suffragata da molte indagini e sentenze».
Eppure alle orecchie di Cantone, dire che “una classe politica quando delinque …” e che “tutto è corruzione” hanno suonato come frasi sinonime. Perché attribuire a Davigo quello che non ha detto, e che anzi nella sua intera carriera ha sempre rifiutato? Forse Cantone, dal suo osservatorio, trova quotidianamente fin troppi sintomi che gli fanno temere che la quasi totalità della classe dirigente sia corrotta, e inconsciamente gli viene perciò da assimilare le due affermazioni? Altra spiegazione non vedo.
In che senso l’ovvietà pronunciata da Davigo (e per la quale è agevole rintracciare una panoplia di analoghe affermazioni nei classici del pensiero e della politica democratica) rischi di alimentare un conflitto di cui il Paese non ha proprio bisogno risulta ancor più misterioso. Un danno micidiale per il paese sono i politici che rubano e gli imprenditori corruttori o corrotti, non i magistrati che li scoprono. Un danno micidiale per il paese sono governo e parlamentari che non fanno leggi più efficaci per contrastare il multiforme ingegno dei crimini di establishment e si muovono anzi in direzione opposta, rendendone più agevole l’impunità, non i magistrati (o qualsiasi altro cittadino) che richiamino all’ovvio della convivenza democratica.
Quando però una verità ovvia e banale scatena lo scandalo diventa doveroso capire il perché di una reazione che dal punto di vista logico è palesemente assurda. Perché l’establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”? La risposta la sanno anche i sassi: i padroni della politica e della finanza vogliono opacità anziché trasparenza, non vogliono controlli di legalità (cioè una magistratura che possa davvero indagare autonomamente) ma mani libere, benché Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, ormai quasi tre secoli fa, abbia cominciato a teorizzare la divisione dei poteri proprio a partire dalla consapevolezza che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente.
Perciò, o ci mobilitiamo noi cittadini a difesa dell’autonomia dei magistrati, o Renzi nei prossimi mesi distruggerà dalle fondamenta la possibilità di ogni azione efficace di contrasto ai crimini di establishment, hybris di corruzione in primis.
«Il testo scardina il Parlamento e assegna tutto il potere al governo. Nadia Urbinati, la presidente di Libertà e Giustizia: “Questa legge è un pasticcio, nelle mani sbagliate potrebbe portare guai”».
Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016 (p.d.)
Renzi vuole trasformare il referendum di ottobre in un plebiscito perché deve semplificare tutto. Non può spiegare che la riforma cambierà circa 40 articoli della Costituzione, mutando la forma di governo: ma accettare la sua logica, quella del “o con me o il diluvio” sarebbe un errore. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica presso la Columbia University di New York, neo-presidente di Libertà e Giustizia, boccia la riforma costituzionale: “Se finisse nelle mani sbagliate, con un’altra maggioranza, ci sarebbe da rabbrividire”.
Perché è così dura? Chi si oppone è solo un conservatore, obietterebbero i renziani.
I pensatori del ‘700 dicevano che le buone Costituzioni sono quelle scritte per i demoni e non per gli angeli. Bene, questa riforma della Carta devono averla scritta pensando agli angeli, perché scardina il sistema parlamentare e concentra il potere nelle mani del presidente del Consiglio, del suo governo e della sua maggioranza. E quindi va maneggiata con molta cura.
Vede rischi di deriva autoritaria?
L’attuale maggioranza non mi suscita ancora queste preoccupazioni. Ma se ne arrivasse una diversa...
Rimane il fatto che su questa riforma Renzi punta tutto. “Se perdo il referendum vado a casa”, ripete allo sfinimento.
Come Giovanni Sartori, propendo a non credergli. Cerca il plebiscito perché non può e non vuole spiegare nel dettaglio questa riforma. L’articolo 138 della Costituzione disciplina le leggi di revisione della Carta. Ma questa non è una revisione, un intervento mirato su alcuni punti, bensì è una riforma radicale, che muta la forma della nostra Repubblica. Per cui, sottoporla a referendum significa necessariamente chiedere un voto sui suoi proponenti e non sul merito. Non è possibile che in un semplice Sì o No si possa tenere conto di tutti gli aspetti di questa legge. E poi porre l'aut aut è tipico di Renzi, e della sua visione della politica. Una visione di comando.
Ma in tutto il mondo è ormai il tempo dei leader che decidono, non crede?
Non è così. I leader preponderanti nelle democrazie costituzionali devono fare i conti con sistemi di contrappesi al loro potere. Nella riforma renziana invece i meccanismi di controllo saranno pesantemente espressione della maggioranza. C’è un presidenzialismo non confessato e quindi senza una struttura con precisi contrappesi e controlli, come avviene invece nelle repubbliche presidenziali. Questa legge è un pasticcio, che concede un’ampia discrezionalità di azione al governo e al suo leader.
Però in Italia decidere è sempre stato complicato. Renzi vuole dare più poteri al governo per velocizzare tutto, e forse su questo ha ragione.
Il fare non è in sé necessariamente buono o giusto. Dopodiché, non è vero che con i sistemi parlamentari non si decide. In Italia abbiamo avuto importanti decisioni molte delle quali buone, prese in Parlamento. Certo, il bicameralismo perfetto andrebbe riformato, ma non così. Da questo punto di vista, la Renzi-Boschi è un’occasione perduta.
Il cardine della riforma è proprio il nuovo Senato, con poteri limitati...
Ecco, non è vero che il nuovo Senato renderà più veloci i lavori. Sono previsti almeno sette procedimenti legislativi per Palazzo Madama, e ciò renderà tutto più farraginoso.
Non si andrà più veloci?
Non sembrerebbe.
Renzi però potrà contare su argomenti forti a ottobre. Potrà propagandare il taglio dei senatori e quindi dei costi. Come si può ribattere?
Non sarà facile, anche perché sulle tv e sui grandi giornali appare solo lui. Parla sempre e soltanto Renzi, e a ridosso della votazione questo fenomeno aumenterà. Detto questo, è un errore scendere sul piano del plebiscito. Bisognerà contestare questa strategia entrando nel merito, mostrando le conseguenze di questa riforma.
Però il tema è difficile, ostico. Come si può portare la gente alle urne se non politicizzando questo referendum, anche contro Renzi?
Questo è un problema concreto. Io dico che all'inizio bisognerà mostrare tutti i vizi di questa riforma. Poi, quando Renzi radicalizzerà la strategia verso il plebiscito, bisognerà evidenziare tutti i suoi limiti e quelli del suo governo. Si dovrà arrivare a questo manicheismo, con tutti i rischi che comporta. Ma soprattutto si dovrà porre il tema di un’equa competizione a tutte le autorità, a cominciare dal Quirinale. Lo strapotere mediatico del presidente del Consiglio va contenuto, o rischia di non esserci partita.

«Il manifesto,
23aprile 2016 (c.m.c.)
L’Europa continua a chiedere sacrifici alla Grecia, e il governo di Syriza cerca di proteggere le classi sociali più deboli. È questo, in sostanza, il messaggio arrivato ieri dall’Eurogruppo e dal governo Tsipras. Per chiudere la fase di valutazione dei progressi compiuti finora da Atene, i ministri delle finanze Ue, chiedono all’esecutivo Tsipras di approvare delle misure straordinarie, che somigliano molto a quelle che in Italia ci si è abituati a chiamare clausole di salvaguardia: misure che verranno adottate solo nel caso in cui non dovessero venire centrati gli obiettivi di bilancio previsti, con particolare riferimento alle entrate.
Nei prossimi giorni dovrebbero venire definite nel dettaglio, in collaborazione con il ministro delle finanze, Efklidis Tsakalotos. Per il prossimo giovedì, 28 aprile, infine, si dovrebbe arrivare a un Eurogruppo straordinario per poter chiudere questa delicatissima fase. Il problema, ovviamente, è sotto gli occhi di tutti. Se si insiste nel chiedere misure basate sulla logica dell’austerità, è molto probabile che la ripresa non riesca ad arrivare, e che non si possa, quindi- in una situazione di perenne depressione- centrare gli obiettivi di bilancio. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha dichiarato che negli ultimi giorni ci sono stati importanti progressi nelle trattative con la Grecia, insistendo, tuttavia, sull’importanza dell’approvazione delle clausole di salvaguardia le quali, ha chiarito, dovranno essere approvate dal parlamento ellenico.
Il governo di sinistra greco si trova davanti ad una ennesima, difficile sfida: da una parte impedire che il paese rimanga senza liquidità e non permettere che ambienti della finanza ultraliberista riescano ad asfissiare economicamente la Grecia. Dall’altra ribadire -e confermarlo nel concreto- che la priorità politica deve essere costituita dalla protezione delle classi sociali più deboli, che sono state dissanguate da cinque anni di austerity scriteriata. E le difficoltà non mancano neanche dal punto di vista pratico: il ministro Tsakalotos ha sottolineato, in conferenza stampa, che la legislazione greca non permette al parlamento di votare delle misure che potrebbero essere applicate, in futuro, solo nel caso in cui si dovessero verificare determinate condizioni.
«È in limite che pone non solo la legge ellenica, ma anche quella francese», ha aggiunto. Tuttavia, Tsakalotos ha sottolineato che Atene sta collaborando con i creditori per cercare di trovare una via praticabile, che soddisfi le loro richieste, ma anche le esigenze greche. Per ora, le istituzioni creditrici chiedono che queste misure straordinarie da approvare e attuare in futuro, arrivino a 3,6 miliardi di euro. Cifra che corrisponde al 2% del prodotto interno lordo del paese. Uno dei problemi principali, riguarda il peso dei provvedimenti decisi lo scorso luglio, con il compromesso seguito al vertice europeo che ha scongiurato l’uscita della Grecia dall’Euro. Il governo di Alexis Tsipras e l’Europa ritengono che quanto pattuito nove mesi fa permetterà al paese di giungere, nel 2018, ad un avanzo primario del 3.5% del Pil. Il Fondo Monetario, invece, prevede che non si dovrebbe andare oltre l’1,5% e chiede nuovi interventi.
Un pessimismo che non viene suffragato, tuttavia, dagli ultimi dati: secondo quanto reso noto questa settimana da Eurostat, la Grecia, nel 2015, ha fatto registrare un avanzo primario dello 0.7%, mentre l’Fmi sinora continuava a parlare di disavanzo. Atene, in tutto ciò, spinge per poter chiudere questa fase e passare alla discussione sulla modalità per l’alleggerimento del debito pubblico del paese e l’Eurogruppo di ieri ha dato l’incarico a Dijsselbloem di verificare verso quale direzione ci si dovrà muovere.
La maggior parte dei paesi europei si pone a favore di un allungamento dei tempi di pagamento, senza un taglio netto dell’intero ammontare del debito. Tsipras e Tsakalotos, tuttavia, vogliono che venga mandato un segnale chiaro: che il paese non rischia e non rischierà di fallire, in modo da cercare di allontanare definitivamente avvoltoi e speculatori. A condizione, certo, che finalmente, sia il Fondo Monetario che Berlino si rendano conto che la stagione dell’austerità è finita, e che senza delle mosse coraggiose, è e sarà impossibile uscire dal pantano.
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». Il manifesto, 23 aprile 2016 (p.d.)
Un recente articolo di grande interesse apparso sul
Corriere della Sera riferisce delle ultime acquisizioni nel campo delle neuro scienze. Pare, secondo gli studi dei neuro scienziati, che la lingua e il tipo di linguaggio utilizzato dalle persone influisca sulla qualità dei loro pensieri.
La temperie dei social network, in particolare di quelli che chiedono di esprimersi con estrema sintesi e con la loro lingua schematico-primitiva, deve verosimilmente esercitare effetti nefasti sulle capacità del cervello umano.
Gli esempi di decadenza antropologica mostrato dagli infimi livelli di espressione delle opinioni che si è instaurato nel cyberspazio planetario, oggi ci regala un riscontro perfetto di questo stato delle cose. Il sindaco tory di Londra, Boris Johnson, ha commentato l’opinione critica espressa dal presidente degli Stati uniti nei confronti del Brexit, ovvero la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea a seguito di un prossimo referendum, con una reazione stizzita articolata in due epititeti: ipocrita e mezzo keniota! Ora, il primo, un insulto, può starci nella visione di un politico ultraconservatore, ma mezzo keniano è un fatto, il problema è che Boris l’imperiale lo usa come attributo infamante di stampo razzista.
Non male come esternazione del primo cittadino di una delle più grandi e importanti metropoli del mondo. La colpa imperdonabile di Barack Obama agli occhi di Boris è quello di essere un mezzo ex colonizzato, revanscista. Il suo retro pensiero inespresso, a mio modo di vedere, è: «come si permette questo mezzo negro di gettare fango sul nostro prestigio imperiale che ci permette di fottercene dell’Europa Unita».
L’insulto a Barak Obama, per ciò che riguarda le relazioni diplomatiche fra le due nazioni cugine, è un minuscolo incidente diplomatico, al quale per altro il presidente Usa sembra non attribuire la minima importanza. Per ciò che attiene all’ordine del discorso qualifica Johnson per quello che è: un residuato dell’infame colonialismo e del suo parto più coerente, il razzismo.
Ma per quanto interessa noi cittadini europei, l’esternazione di Boris Johnson sollecita una domanda. Cosa ci fanno politici come questo sindaco di Londra in Europa? Boris Johnson è solo uno di loro, ma questi personaggi stanno crescendo come funghi, l’arrivo di grandi flussi migratori favorisce populismi, parafascismi e nazionalismi di ogni sorta.
Gli eurocrati miopi e proni ai grandi interessi, nutriti da una cultura ottusamente economicista, non hanno considerato in prospettiva strategica il contrasto ad ogni eredità del velenoso passato dell’Europa. Hanno lasciato correre per quieto vivere o per pavidità i progressivi e crescenti rigurgiti di intolleranze, xenofobie e razzismo. Le pur sfiancate forze democratiche dell’Europa Comunitaria dovrebbero riprendere con forza, come un tonico per ritrovare senso, la lotta per affermare come priorità assoluta, i principi di Ventotene e quelli delle grandi Carte costituzionali.
Il tempo per questo tipo di impegno non scade mai!
Il manifesto, 22 aprile 2016 (p.d.)
A proposito di referendum (e non solo). Dire partito democratico (o Pd) ormai suona come una contraddizione in termini. Lasciamo stare quello di domenica scorsa, boicottato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, e mettiamo tra parentesi anche quello sulle riforme costituzionali del prossimo ottobre imposto come una prova di forza che sa di deriva plebiscitaria. Torniamo invece su quello per l’acqua pubblica del 2011 votato da milioni di cittadini – il 57% degli aventi diritto al voto con il 95% schierato per la difesa dell’acqua bene comune – e stravolto l’altra sera con la votazione finale del ddl approvato alla Camera (243 i voti a favore, 129 i contrari e 2 gli astenuti, il prossimo passaggio sarà al Senato).
Durante la votazione, tutti i parlamentari del Movimento 5 Stelle – applauditi e sostenuti da Sinistra Italiana – hanno sventolato magliette e bandiere blu del referendum urlando contro i banchi della maggioranza. Dalle tribune, alcuni attivisti mescolati tra il pubblico hanno lanciato volantini e bandiere del Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica. Caos democratico. Il parapiglia fuori programma, e il corpo a corpo tra penta stellati e alcuni commessi chiamati a riportare l’ordine in aula, hanno provocato la sospensione della seduta. «L’acqua secondo il Pd è chiaramente a gestione privata – hanno detto i deputati della Commissione ambiente M5S – è il solito teatrino del Pd che sosteneva di rispettare la volontà popolare e invece oggi ha calato la maschera». Per Sinistra Italiana, «la gestione dell’acqua deve essere pubblica come chiesto a gran voce da milioni di cittadini con il referendum del 2011. Solo il pubblico è in grado di mettere in atto quel processo virtuoso tra tariffe, spese di gestione e servizio». Sembra che sia andata diversamente.
Certe intemperanze poco rispettose del parlamento verranno presto sanzionate, se è vero che in seguito alla solidarietà espressa ieri da tutti i capigruppo ai commessi della Camera verrà convocato un ufficio di presidenza su iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini. Fioccheranno sanzioni, mentre ancora non è dato sapere come la politica reagirà – e se reagirà – al colpo di mano che con un bizantinismo da azzeccagarbugli, emendamento su emendamento, ha stravolto l’impianto di un disegno di legge che originariamente era stato pensato per rendere nuovamente pubblico il sistema idrico. Come da volontà popolare.
A una prima lettura, il ddl appena approvato introduce nuove norme che sembrano positive sulla gestione, la pianificazione e il finanziamento del servizio idrico interrato. Ma alcune differenze significative saltano all’occhio se confrontiamo il testo con la sua stesura originaria che sottolineava esplicitamente la totale ripubblicizzazione del servizio idrico. Il nuovo testo, invece, stabilisce che «il servizio idrico integrativo sia considerato un servizio pubblico locale di interesse economico generale assicurato alla collettività, che può essere affidato anche in via diretta a società interamente pubbliche in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate da tutti gli enti locali ricadenti nell’Ato (Ambito territoriale ottimale)».
Dove sta il trucco? Nel testo iniziale l’affidamento della gestione in house era blindato con la parola «prioritariamente». La sua eliminazione non sarebbe un dettaglio di poco conto, anzi, secondo M5S e Si si tratta di un vero e proprio insulto alla democrazia. Le novità più rilevanti, insieme ad altre modifiche cesellate ad arte, infatti prefigurano nuovi scenari che si scontrano con la volontà del popolo italiano. Il servizio idrico smette di essere qualificato come un servizio pubblico che non avendo una rilevanza economica viene sottratto alla libera concorrenza: ci si potrà lucrare sopra. La gestione e l’erogazione del servizio possono essere nelle mani dello stesso soggetto (anche di società quotate in borsa), e fognature, acquedotti e impianti di depurazione non devono essere affidate necessariamente a organi di diritto pubblico. Sono state apportate modifiche anche sulle concessioni per uso differente da quello potabile: nel ddl originale potevano essere revocate anche prima della loro scadenza e assolutamente non più rinnovabili, mentre ora la materia verrà regolamentata da un decreto legislativo ancora tutto da scrivere entro il 2016.
Altre novità, invece, risultano meno sgradite. A tutti i cittadini, sulla carta, dovranno essere garantiti almeno 50 litri di acqua potabile al giorno (anche in caso di mancato pagamento delle bollette, che presto verranno conteggiate con nuovi contatori installati in ogni abitazione). Le bollette diventeranno più «trasparenti» (con parametri di qualità dell’acqua, conteggio delle perdite idriche e dati sugli investimenti negli acquedotti). Sull’acquisto di ogni bottiglia di acqua minerale sarà previsto il contributo di 1 centesimo per finanziare progetti di cooperazione per l’accesso all’acqua potabile. Niente di particolarmente grave per le intoccabili multinazionali dell’acqua: aumenteranno i prezzi.
La TV, regina dei mass media e formatrice delle teste di paglia, dedica la maggior parte del suo tempo (tra il 60 e il 70%) alla politica politicante. Indovinate chi ne mangia più di tutti? Il partito diMatteo Renzi, perfino più di quello del Cavaliere quando era in sella.
Il manifesto, 21 aprile 2016
Le cronache, le inchieste, la società? No, in tv la parte del leone la fanno la politica e i suoi esponenti. Al punto che è legittimo chiedersi quanto di quello che viene raccontato dai telegiornali, pubblici e privati, abbia a che fare con la realtà vera o non sia piuttosto un artefatto ad uso del teatro della politica e dei suoi attori. In paesi a noi vicini i telegiornali non si sognerebbero mai di dedicare, e non dedicano, il 60 o il 70% delle notizie a governi, ministri, partiti, esponenti di partito, amministrazioni politiche centrali o periferiche.
Nell’ultimo mese, secondo Agcom, il tempo di parola messo a disposizione di personaggi delle professioni, della scienza, della cultura, del mondo dell’informazione, dello spettacolo, dello sport, della cronaca, o della gente comune, è poco più del 20% del tempo complessivo. Quasi tutto il resto va alla politica. Dopo avere cancellato il paese degli eroi, dei santi, dei poeti, dei navigatori, i nostri tiggì s’inventano un paese di capi di governo, ministri, sottosegretari, sindaci e onorevoli.
Accade ovunque, sia alla Rai che a Mediaset, sia a La 7 che a Sky: Anche la storica diversità del Tg5, il cui successo nacque sullo spazio riservato alla cronaca, oggi è cancellata: ammalato di politica il Tg del biscione dedica ai suoi protagonisti addirittura il 77% del tempo di parola, un record, seguito dal Tg4 con il 72%, mentre Tg1 e Tg3 si attestano intorno al 70%.
Viene da chiedersi quanto tutto ciò faccia bene ai cittadini e se mai ci sia un rapporto tra la crescente sfiducia nei partiti e questa messa in scena in dosi da cavallo della politica nazionale. Ma i numeri, preziosi, dell’Autorità ci dicono anche altro. Ci svelano ad esempio che il TgLa7, pur lontano dai record iperpolitici del Tg5, è quello dove il Pd copre (col 34,3%) più di un terzo del tempo di parola dei soggetti politico-istituzionali. Ci fanno scoprire come il Tg3, pur offrendo il più ampio spazio ai partiti (e in particolare al Pd, con un 31% che non trova riscontro negli altri tg della Rai), penalizzi invece più di qualsiasi altro telegiornale (pubblico e privato) Sinistra Italiana-Sel, concedendo ai suoi esponenti ( con lo 0,56%) la miseria di 38 secondi di parola (Telekabul è un lontano ricordo).
«Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo». Già, ma si tratta di capire quale Stato, espressione di quali forze sociali, con quale democrazia. La Repubblica, 21 aprile 2016
Sono passati quasi vent’anni da quando scrissi “L’uomo flessibile”, uno studio sui cambiamenti nell’economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego.
Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.
Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo faber, l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima.
Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull’assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini.
La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”. La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro.
In Gran Bretagna stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non sono d’accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori (per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo), semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo lavoro, perfino acquistando l’intera Tata Steel per per fare in modo che i lavoratori vadano avanti. Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.
Non sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of Economics.
È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l’idraulico, l’elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse.
Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.
«Ri-Mediamo. La copertura informativa del referendum del 17 aprile è stata l’anticipazione del clima che a breve si scatenerà sul voto confermativo sulla (contro)riforma costituzionale». Il manifesto,
20aprile 2016 (c.m.c.)
Allarme rosso per la democrazia dell’informazione. L’elettroregime di Matteo Renzi è persino più pesante di quello dell’allora premier Berlusconi – quasi da punteggio tennistico. I dati pubblicati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (elaborati da Geca Italia) sulle presenze televisive di marzo sono impietosi e segnalano una bulimia mediatica senza precedenti.
Il vecchio duopolio Rai – Mediaset ormai è un coro ossessivo con un’unica nota.
Lo stesso Renzi si è lanciato nella serata di domenica in un’invettiva contro talk, facebook, twitter: «rei» di muovere delle critiche, come se anche l’articolo 21 della Costituzione fosse già stato abrogato. Eppure, proprio di tali strumenti si è giovato sempre con bulimia l’attuale presidente del consiglio per la sua affermazione. L’inquietante gravità della situazione meriterebbe tutt’altra reazione. E’ un antico vizietto, duro a morire. La sottovalutazione fu un peccato già grave a fronte di una società più strutturata e di un sistema mediale lento e meno esteso. Ora è un vero e proprio peccato mortale, visto che ciò che residua della sfera politica naviga nel flusso ininterrotto della comunicazione.
E non per caso il proprietario di facebook Mark Zuckerberg ha adombrato una sorta di «scesa in campo». Non solo. La «destra» culturale si sta riorganizzando, con Bolloré e il pur ammaccato – ma sempre vispo negli affari – uomo di Arcore. Le Monde è da un po’ che parla dei fenomeni in corso. La copertura informativa del referendum del 17 aprile è stata l’anticipazione del clima che a breve si scatenerà sul voto confermativo sulla (contro)riforma costituzionale.
Ecco, le parole a caldo del premier la sera di domenica 17 ci raccontano di quale miscela di demagogia e arroganza autoritaria sarà infarcita la campagna che ci attende.
E’ inderogabile, quindi, una campagna di chiarimento su quanto è stato deciso dalla maggioranza parlamentare, che ha scelto di ridimensionare fortemente il circuito democratico della decisione. Altro che riduzione della casta. Ma di tutto questo sarà possibile parlare in trasmissioni adeguatamente istruite e pubblicizzate (almeno come «Rischiatutto»), collocate in orari decenti? Tribune referendarie immaginate per il pubblico del «Commissario Montalbano», per capirci.
L’odierna routine va completamente ripensata.
Basti osservare collocazione nel palinsesto e conseguenti ascolti degli spazi offerti dalla Rai alle «trivelle». Tredici tribune ed altrettanti messaggi autogestiti, mai nelle fasce di buon ascolto, e quindi relegate ad audience inesorabilmente modeste: da 71mila utenti ad un «picco» quasi eccezionale di un milione e 200mila. Il problema va studiato e a questo dovrebbero dedicarsi l’Agcom e la commissione parlamentare di vigilanza.
Nell’ultima vicenda – sempre dai dati dell’Autorità – il tempo dedicato ai referendari è stato al di sotto di ogni sospetto, ma proprio l’Agcom non ha ritenuto di intervenire con i correttivi necessari. Tra l’altro, come ha sempre lucidamente sottolineato il centro di ascolto dei radicali, ore e minuti non vanno contati, bensì «pesati». Una diretta del Tg1 conta ben diversamente di una tribunetta inserita come riempitivo. E non è certo beneaugurante la risposta data dal presidente Cardani ad Alessandro Pace, che presiede il comitato per il no al referendum. Non basta. Buio totale avvolge la raccolta di firme su ulteriori quesiti (contro la legge elettorale e la «buona scuola», nonché le proposte sul lavoro).
Si avvicina un’altra notte della repubblica, in silenzio?
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2016 (p.d.)
Cosa rappresenta per lui e per tutto il sindacato nemmeno lo domandiamo.
“La Carta –spiega Maurizio Landini, segretario dei metalmeccanici della Cgil – è il manifesto della Repubblica che ha il lavoro come fondamento”. E aggiunge: “ Se penso alla vicenda della Fiom con la Fiat che ci voleva escludere dalla contrattazione, la nostra partecipazione è stata garantita dalla Carta costituzionale e dalla Corte costituzionale”.
Dunque, la Carta al centro.
Avete paura di perdere? Informare i cittadini e far capire l'importanza del referendum non sarà semplice: la materia è ostica.
Alla luce delle intercettazioni che hanno svelato gli affari attorno a Tempa Rossa, manderei un messaggio molto preciso e semplice: il problema non è la Costituzione, il problema è la corruzione. La riforma Boschi mira a ridurre gli spazi di partecipazione dei cittadini e aumenta gli spazi di gestione autoritaria. Bisognerebbe con forza affermare che sempre la Corte costituzionale ha anche giudicato illegittima la legge elettorale con cui è stato eletto il Parlamento attualmente in carica. Il quale ha ben pensato di procedere a una riforma costituzionale, nonostante la dichiarazione d’illegittimità della consulta.
Questo ci racconta una certa spudoratezza.
Ma questo è anche il Parlamento dei record di cambi di casacca! Una legislatura che va avanti a colpi di fiducia. Stiamo vedendo solo un antipasto di quello che ci verrà servito se passa la riforma. Il punto non può essere Renzi o chiunque altro: le persone passano. Dobbiamo domandarci cosa – quale Paese – lasciamo a chi verrà dopo di noi. Io penso che la Costituzione andrebbe applicata, non modificata.
Renzi dice che il no si spiega solo con l’odio nei suoi confronti e che se non passa il referendum se ne va.
Questo è un messaggio da rispedire con forza al mittente. Deve smetterla: oltretutto non ha mai sottoposto ai cittadini un programma, governa con i voti di Bersani. E a proposito di questo: per redigere la Costituzione fu votata dai cittadini italiani un’assemblea che aveva questo esplicito mandato, cioè regolare il patto di convivenza, su quali principi si dovesse fondare il nostro vivere insieme come comunità. Tra l’altro quell’assemblea fu eletta con un sistema proporzionale. Lo sottolineo perché l’intenzione era quella di affermare al massimo il principio di rappresentanza.
Secondo lei a cosa è funzionale questa riforma?
I provvedimenti presi dagli ultimi governi sono quelli indicati dalla Bce nella famosa lettera al governo Berlusconi: pensioni, possibilità di licenziamento, processo di privatizzazione, cancellazione dei contratti nazionali. Vorrei ricordare anche quel report di JP Morgan, banca d’affari, che nel 2013 si premurò di spiegare che il problema europeo sono le Costituzioni dei Paesi del Sud Europa, troppo influenzate da idee socialiste. Applicare la costituzione vuol dire cercare di allargare gli spazi di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori alla vita democratica. Non il contrario. Avanza l’idea di una Repubblica fondata sullo sfruttamento del lavoro e sul superamento della cittadinanza nei luoghi di lavoro.
In gennaio alla presentazione del Comitato per il No, Stefano Rodotà ha detto: “Il 2016 rischia di essere l'anno del congedo dalla Costituzione, mentre si preparano le celebrazioni per i 70 anni della Costituente”.
Io spero e credo che il 2016 sia l’anno in cui le persone devono essere messe di nuovo in condizione di poter decidere e partecipare. Inoltre, dal 9 aprile la Cgil ha cominciato una raccolta di firme per abrogare le leggi sbagliate che sono state fatte sul lavoro e per estendere i diritti a tutte le persone che lavorano.
Come legge i risultati del referendum sulle trivelle?
Ieri sono andate a votare 15,8 milioni di persone. E, di queste, 13,3 milioni hanno votato sì. In realtà, se mettiamo insieme i voti presi alle elezioni europee del 2014 del Pd e del Ncd - i partiti che ci stanno governando - sono meno di 12 milioni e mezzo. Questo dimostra che non è affatto scontato che il governo sulle scelte di politica economica e sociale che sta facendo abbia la maggioranza del Paese. Si è scontato il fatto che questo è stato un referendum nascosto dai mezzi d’informazione. Alla fine, sono scesi in campo anche il premier e un ex presidente della Repubblica per farlo fallire. Chi invita all’astensione incassa già il fatto che ormai quasi la metà degli italiani aventi diritto non votano, ciò determina situazioni paradossali. In Emilia Romagna, per il referendum è andato a votare il 34%. Due anni fa per l’elezione del presidente sono andati a votare il 37% degli aventi diritto. Anche Bonaccini non ha superato il “quorum”, ma è lo stesso governatore dell’Emilia. Il problema generale che si pone è che meno i cittadini esercitano gli strumenti democratici messi a loro disposizione, più aumenta il potere delle lobby e la distanza con la rappresentanza politica. Credo che i quasi 16 milioni di voti di ieri dicano che c’è richiesta di un nuovo modello di sviluppo, che oggi non ha rappresentanza, ma che non va lasciata cadere.
«La battaglia di un medico, l’università, il movimento di intellettuali a spronarlo. La Rai. Tutti insieme per restituire dignità a migliaia di malati, eppure trattati come bestie».
Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (m.p.r.)
Niente Basaglia senza l’apporto di “intellettuali, scrittori, editori, giornalisti e artisti che dedicarono tempo e talento alla lotta per il cambiame nto” scrive John Foot, docente di Storia moderna italiana presso lo University College, nella “Repubblica dei matti”. E niente Basaglia, aggiungiamo noi, senza l'apporto della Rai che seguì le vicende del manicomio di Gorizia raggiungendo l'apice di ascolti (10milioni di persone) con lo speciale di Tv 7 I giardini di Abele di Sergio Zavoli. Che iniziava così “I malati di mente li troviamo sempre in fondo a un viale di periferia, forse perché la loro immagine non turbi la nostra esistenza...”.
La Rai che nel 1967 svolge a pieno il ruolo di servizio pubblico raccontando la grande intuizione di Franco Basaglia, direttore del manicomio di Gorizia che, al termine di una profonda rivisitazione del significato di malattia mentale, dell'esclusione sociale che porta con sé, pervase il mondo culturale e politico fino all'approvazione nel'78 della legge 180 e alla chiusura dei manicomi. «Un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali... di tutto ciò che anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità».
Basta con le sevizie, gli orrori a cui erano condannati negli ospedali psichiatrici, paragonabili a lager nazisti. «Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo... i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso... nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere». È l'indelebile ricordo che Eugenio Borgna ex da direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara affida al collega Antonio Gnoli. Ma una volta abbattuti i muri dei manicomi restavano da abbattere, quelli, forse, ancor più pericolosi, i muri invisibili: quelli culturali.
Un esempio che viene ricordato da John Foot è il dopo il terremoto dell’Aquila, quando la protezione civile decide di «costruire una tendopoli dedicata ai servizi psichiatrici e ai loro pazienti, e solo a loro, ben distante dalla città per timore che in mezzo ai comuni cittadini potesse creare problemi nella gestione dell’emergenza. Il responsabile del servizio, Vittorio Sconci aveva risposto che non se ne parlava, che in Italia la salute mentale, per legge, non si persegue rinchiudendo o isolando i pazienti in strutture apposite, ma favorendone il reinserimento nella comunità; quindi anche i matti avrebbero dovuto essere accolti nelle tendopoli, come tutti».
La grande utopia di Basaglia: dare voce al silenzio di quegli sguardi persi nel nulla del dolore e dell'impotenza che si intravvedevano tra le inferriate. «La più grande rivoluzione italiana», come la definisce la storica Vanessa Roghi riconoscendo a Franco Basaglia il merito di essere stato il più importante intellettuale della storia dell'Italia repubblicana. Tutto inizia nel 1961: Franco Basaglia, il “filosofo” come veniva definito negli ambienti dell'Università di Padova, diventa direttore del manicomio di Gorizia e per la prima volta furono aperti i reparti, i malati partecipavano alle assemblee, e tornarono in possesso dei loro oggetti personali. Gli amministratori iniziano a sentire come propria la condizione in cui vivono i malati.
Basaglia, spiega Foot, ha bisogno di farsi capire dal mondo esterno che ospita gli ospedali. Sente su di sé l'ostilità di Gorizia che toccherà l'apice nel 68 quando un paziente tornato a casa per un giorno uccise la moglie. La reazione dell'opinione pubblica fu durissima. Basaglia lasciò l'ospedale di Gorizia per quello di Trieste, i suoi collaboratori si divisero tra alcune città e Paesi del sud del Mondo. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa fosse l'utopia avrebbe risposto, per dirla con Eduardo Galeano: «È come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: per continuare a camminare». Chiudere i manicomi per lui era un imperativo: la libertà è terapeutica. E la legge 180 restituisce finalmente il diritto di cittadinanza alle persone con disturbi mentali. «Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia» disse Jean-Paul Sartre.
Una legge che pur restando una pietra miliare, ancora oggi fatica nella sua completa attuazione. Chi sembra aver fatto sua l'affermazione di Muriel Rukeyser: «Dicono che il mondo è fatto di atomi ma il mondo è fatto di storie che permettono di convertire il passato nel presente, di trasformare il distante nel vicino» è Ernesto Buondonno con il libro Frammenti. Piccole storie di psichiatria edito dalla rivista nazionale di psichiatria democratica. A 90 anni, lo psichiatra seguace di Basaglia, primario e direttore anche del manicomio di Fermo, con la penna dell'umiltà intinta nell'inchiostro dell'umanità, racconta la drammatica e straordinaria esperienza di liberazione dei reclusi.
Storie per imparare a riconoscere la grandezza nascosta nelle piccole cose, scritte «tenendo un occhio nel microscopio e un altro nel telescopio». Protestava da molti anni per essere dimesso. «Un giorno un infermiere lo mise alla prova: esci, vai via» gli disse. Lui si avvicinò al cancello aperto, si fermò perplesso e poi rientrò. In manicomio veniva considerato un ribelle irrecuperabile tanto che una volta un direttore gli disse: «Tu sei il più matto di tutti, vedi quell'albero? Va a parlare con lui io non ti ascolto». Ma non era affatto stupido, non voleva essere cacciato come un cane, voleva essere dimesso con tutte le regole e le tutele. Era refrattario ad una vita senza amore e speranza. La concreta liberazione dal manicomio prevedeva una adeguata rete di servizi che si sarebbero fatti carico di lui. Non era una vaga utopia. Lui aveva chiara la distinzione tra liberazione e abbandono». Dopo molti anni, Buondonno, lo incontra in banca. Dopo aver parlato del più e del meno prima di salutarsi, lui rivolgendosi alla cassiera disse: «Trattate bene questo dottore, è mio amico, mi raccomando». Colsi nella sua voce l'espressione premurosa verso un amico anziano. Quella grande esperienza rivoluzionaria non finirà mai finché resterà viva la capacità di conservare la dignità di emozionarsi e sbalordirsi”.
«Abbiamo perso la speranza e non vediamo quella degli altri a cui resta solo la religione» La provocazione dello studioso francese Jean Birnbaum, autore di “Un silence religieux” (Seuil), intervistato da Fabio Gambaro. La Repubblica, 15 aprile 2016
«Anche se motivato da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno nulla a che fare con l’islam». Parte da qui la riflessione di Jean Birnbaum, studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri di “Le Monde”, che ha da poco mandato in libreria Un silence religieux (Seuil), un saggio controcorrente, il cui sottotitolo recita:
La sinistra di fronte al jihadismo. Secondo l’autore, troppi esponenti della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta.
Quindi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui discorso si rifà di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l’Islam. Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo l’islamismo si esercita in nome dell’islam, anche se per fortuna non tutto l’islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini sociali e culturali molto diverse, l’unico elemento che li unisce è il loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il che evidentemente non significa giustificarli».
Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico?
«Perché significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell’islam sanno benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di combatterla. All’interno del mondo musulmano si sta svolgendo un’aspra battaglia tra due diverse concezioni dell’islam. Dobbiamo prenderne atto e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida. Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali».
Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa?
«La sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo un’illusione, una chimera. Il famoso “oppio dei popoli”, di cui parlava Marx e che l’emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos’altro. Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che la fede, lungi dall’essere solo un’illusione o un riflesso, può diventare una forza materiale».
A questo proposito lei rende omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza politica dell’islam, quando si recò in Iran all’inizio della rivoluzione islamica...
«Foucault ha saputo sottolineare la forza propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di “politica spirituale”. In Iran capì che l’energia che stava dando fuoco alle polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l’altro che in occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede. Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad».
Perché tali motivazioni religiose danno luogo all’iperterrorismo?
«L’islamismo è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di modernizzare l’islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte, quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la violenza. Nell’islam oggi però c’è qualcosa di particolare, come sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L’islam si propone come un’alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta che s’intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono distruggerlo».
Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire?
«Non voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può pensare che questi giovani siano mossi all’inizio solo dall’odio e dal desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i fratelli del Califfato. Insomma, all’inizio sono motivati dal bisogno di giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta accadendo ».
Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell’aldilà...
«I jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l’elogio della morte. Ma tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana — quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà, più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la gestione del presente».
Le ragioni per le quali è infondata la richiesta di dichiarare illegittima la pubblicazione delle itercettazioni relative allo scandalo Tampa Rossa.
La Repubblica, 15 aprile 2016
FU PROPRIO questo giornale, subito accompagnato dall’attivismo della Rete e poi dal risveglio delle piazze, ad avviare nel 2010 la campagna “No bavaglio”, che impedì l’approvazione di una pessima legge sulle intercettazioni che avrebbe limitato gravemente la libertà d’informazione. Ma da allora in poi si è assistito ad uno stillicidio di polemiche e di proposte, quasi sempre insincere e strumentali, che andavano sostanzialmente nella stessa direzione. Si diceva che era necessario tutelare la privacy dei cittadini, perché le intercettazioni avevano fatto nascere una sorveglianza di massa. Tesi del tutto infondata, ma che cercava di offrire una giustificazione ad iniziative di una classe politica che voleva costruirsi una rete di protezione che la mettesse al riparo da una conoscenza diffusa di fatti che avrebbero messo in evidenza corruzione, conflitti d’interessi, evasione fiscale, prepotenze privatistiche. Erano i tempi in cui Berlusconi lanciava appelli che riprendevano l’invito attribuito a François Guizot, «Arricchitevi » senza farsi troppi scrupoli. Questa legittimazione anche di comportamenti illegali di massa, che ha molto pesato nel deperimento dell’etica civile, in realtà serviva a coprire la volontà di liberare l’esercizio del potere di governo da quella particolare e democratica forma di controllo resa possibile da una informazione puntuale che obbliga i soggetti pubblici a rendere immediatamente conto del loro operato.
Si faticava, e si fatica ancora, ad acquistare piena consapevolezza di un dato istituzionale che negli Stati Uniti è stato messo in evidenza fin dal 1964. In quell’anno la Corte Suprema, decidendo un caso che vedeva il New York Times accusato da una persona di averla diffamata, stabiliva il principio secondo il quale le “figure pubbliche” ricevono una tutela giuridica attenuata proprio perché i cittadini debbono poter esprimere in ogni momento il loro giudizio su di loro, disponendo di tutte le necessarie informazioni. Questo circolo virtuoso si ritrova oggi nei più diversi Paesi, ha dato origine a moltissime sentenze, e riguarda in particolare proprio situazioni di cui oggi in Italia si discute intensamente, chiedendosi se sia legittimo rendere pubbliche informazioni sulla vita privata che possono sconfinare nel pettegolezzo.
Per discutere con buona cognizione dei termini giuridici del problema, difficile come sempre accade quando si tratta di stabilire un punto d’equilibrio tra privacy e informazione, è necessario tener presenti alcuni specifici riferimenti. Il primo è rappresentato proprio dalla categoria delle figure pubbliche, che non comprende soltanto i politici, ma pure sportivi e persone del mondo dello spettacolo, e che si è venuta estendendo per effetto del dilatarsi del numero di persone che decidono appunto di “vivere in pubblico”. L’esposizione allo ”sguardo generale” non è il risultato di una imposizione, ma di una libera scelta della persona, che dev’essere consapevole del fatto che ciò produce conseguenze sull’intero sistema delle sue relazioni sociali. E la più rilevante di queste conseguenze è rappresentata proprio dal fatto che le figure pubbliche, come s’usa dire, hanno una più ridotta “aspettativa di privacy”.
Questo è il metro di giudizio al quale ricorrere quando si devono individuare i criteri per stabilire quali siano le informazioni personali legittimamente pubblicabili, provengano da intercettazioni telefoniche o da altre fonti. Criteri che, nel nostro sistema giuridico, hanno trovato una traduzione precisa nel modo in cui la questione è affrontata dall’articolo 6 del Codice di deontologia dell’attività giornalistica, che è un insieme di vere e proprie norme giuridiche, applicabili dai giudici civili, penali e amministrativi, e non solo da organi deontologici.
La norma è molto chiara. “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le informazioni o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Ho sottolineato le parole “alcun rilievo” perché esse indicano una soglia particolarmente rigorosa e restrittiva per quanto riguarda l’individuazione dei casi in cui la pubblicazione di una informazione può essere ritenuta illegittima. Deve poi essere messo in evidenza il fatto che le parole adoperate in questo articolo - esercizio di “funzioni pubbliche” - corrispondono a quanto è scritto nell’articolo 54 della Costituzione, che impone a questi soggetti di comportarsi con “disciplina e onore”.
Siamo così di fronte all’attuazione di un criterio costituzionalmente rilevante. E, pur registrando il fatto che principi e regole costituzionali stanno conoscendo torsioni assai preoccupanti, sembra davvero difficile considerare prive di alcun rilievo le parole pubblicate in questi giorni, che connotano in modo del tutto disonorevole il modo in cui sono intese e praticate funzioni pubbliche, addirittura ministeriali, sì che appare del tutto arbitrario derubricarle a «pettegolezzo».
Poiché siamo in materia propriamente costituzionale, bisogna aggiungere un’altra riflessione. Si è messo in evidenza, non da oggi, che le nuove norme sulle intercettazioni sono previste in una delega al governo di cui è stata ripetutamente sottolineata la genericità, e quindi l’incostituzionalità, per la mancanza di quei precisi principi e criteri direttivi ai quali fa esplicito riferimento l’articolo 76 della Costituzione. Si deve aggiungere che intervenire su diritti fondamentali, in questo caso quello all’informazione, dovrebbe indurre a non espropriare il Parlamento di questa delicatissima funzione, che consente all’intera procedura legislativa d’essere pubblica e controllabile, mentre la delega la affida al chiuso di commissioni ministeriali. Si è detto, infine, con una delle tante giravolte politiche di questi tempi, che non si vuole toccare la disciplina delle intercettazioni. Tre ragioni che consigliano di stralciare dal disegno di legge in discussione al Senato una parte così difficile e controversa.
«Il manifesto, 13 aprile 2016
«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma arbitrio del più forte).
Oggi un Governo non legittimato da un voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47 articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il Presidente del Consiglio).
Vorrei mostrare perché questo enorme furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura da anni.
«Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio 2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).
Questo cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto delle nostre vite. Un mercato a cui non c’è alternativa: There Is No Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.
La genesi ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi “padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta (e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale) sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte prima della Carta costituzionale».
È un testo cruciale per comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art. 9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale».
Questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali. In quegli stessi giorni del giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano l’eco di un importante documento della grande banca d’affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche»….
È impressionante notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace».
Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».
E la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo, correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce, poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi deboli» rispetto ai Parlamenti. E, d’altra parte, la verticalizzazione autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager…
È questo il paradossale cuore del progetto: costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014). È questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra».
« La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti». Ecco le quattro spine mortali del fiore avvelenato che Renzi (e chi gli sta dietro) vuole imporre alla nostra Repubblica.
Corriere della sera,
Chi l’avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum ) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle) armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova.
Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito.Al referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi . La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l’angolo non c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle.
Sarebbe stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine. Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo «nel dettaglio», come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su Federalismi.it .
Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più. Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente.
Ma intanto ecco l’elenco degli esami. Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state?
Secondo: l’efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L’ iter legis , per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?
Terzo: le garanzie. Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca spiega le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato. Ma sta di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient . Con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum ), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi. In compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali. Ma il compenso compensa lo scompenso?
Quarto: la partecipazione. Quali strumenti di decisione e di controllo restano in tasca ai cittadini? E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca? Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum. Però i regolamenti parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari, però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e d’indirizzo). Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22 anni (la legge sui referendum è del 1970). Dunque è questione d’ottimismo, di fiducia. E voi, siete ottimisti o pessimisti?
La corruzione non è un dato esclusivo dell'Italia, ma «l’etica pubblica ha conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale.
Il manifesto, 12 aprile 2016
Ho letto le osservazioni
critiche di Alfio Mastropaolo riguardanti un mio articolo sulla corruzione e su esse, per motivi di chiarezza, vorrei rapidamente tornare.
Non ho sostenuto che l’Italia sia un caso «unico», quasi che altrove la corruzione fosse sconosciuta. Ho cercato di segnalare, anche con qualche rinvio a fatti accaduti in paesi a noi comparabili, come l’etica pubblica abbia conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale.
Oltre a molti libri «di battaglia», esiste da tempo una buona letteratura che, sia pure con accenti diversi, dà solide basi a questa constatazione, fornendo elementi precisi per spiegare una persistenza e una continuità nel tempo, incarnate talora addirittura dalle medesime persone, che hanno prodotto una proterva «controetica», esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari (con quelle che sono state chiamate assoluzioni «sociologiche» dei corrotti).
Sono stati così generati non solo comportamenti amministrativi sempre più diffusi e addirittura interventi legislativi, ma un vero e proprio «indirizzo politico», che viene rivelato dalla continua cascata di documenti ufficiali che quantificano non solo singoli casi di corruzione, ma la corruzione strutturale di interi «comparti», dagli appalti pubblici alla sanità.
Tutto questo non ha corrispondenza in Francia, Germania, Regno Unito e in altri paesi che ci precedono nella graduatoria di Transparency International, che non sopravvaluto (non l’ho citata), ma che ha sicuramente qualche significato informativo.
Certo, tutto questo rimanda alle ragioni sociali del fenomeno, ha uno sfondo e un denominatore comuni da ritrovare nella esasperazione della logica del profitto e di una finanziarizzazione che davvero ha fatto del denaro la misura di tutte le cose. Ma, come si diceva un tempo, fatta questa constatazione occorre una «analisi differenziata». E questa ci farebbe scoprire, senza troppa fatica, che proprio i «riti di espiazione», ai quali Mastropaolo rimanda, rivelano situazioni assai diverse a seconda che riguardino casi individuali o interi ceti o strutture.
Non è che l’Italia li celebri in modo più vistoso. E’ proprio la loro dimensione sociale a rivelare una qualità assai diversa del fenomeno, dalla quale non si può prescindere se si vuole avviare una efficace strategia di contrasto.
Accentuando, per visibili ragioni polemiche, la portata della corruzione italiana, intendevo mettere l’accento su patologie istituzionali, non certificare la scomparsa delle persone oneste, o la totale perdita del senso dello Stato (anche se poi, quando si vuole ritrovarlo nelle istituzioni si finisce troppo spesso nel citare la Banca d’Italia). Non caso prendevo le mosse dalla «controsocietà degli onesti» di Italo Calvino.
Aggiungo che le concrete proposte di Mastropaolo sono tutte condivisibili, e su tutte in vari tempi mi sono espresso o direttamente impegnato. Non hanno dato finora frutti. E questo vuol dire che bisogna lavorare per una cultura che rimuova questo ostacolo.Il terreno è quello dell’etica civile. Se poi questo produce l’accusa di moralismo, che sia benvenuta.
Nell'icona una protesta contro la corruzione in Turchia