«Oggi il capitale, col referendum costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti».
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 con postilla
La discussione sul referendum costituzionale che si celebrerà in autunno è iniziata. Sebbene si tratti indubbiamente dell’applicazione formale della trama di cui all’art. 148, l’illegittimità dichiarata della legge elettorale e l’Aventino delle opposizioni per respingere quanto elaborato da una maggioranza non eletta, mutano il senso di quanto sta avvenendo.
Più di un referendum con cui il popolo sovrano conferma un nuovo compromesso costituzionale fra i suoi rappresentanti in Parlamento, quello che sta andando in scena è un plebiscito muscolare con cui un gruppo di potere chiama il popolo a raccolta intorno al vitalismo (fare per fare) del proprio capo. Non un referendum costituente, ma un plebiscito politico intorno al mutamento formale di un documento, la Costituzione del ‘48, già nella prassi completamente svuotata di contenuto.
Difficile non accorgersi che in tutta Europa i Parlamenti da tempo non contano più nulla. Il potere legislativo si è concentrato progressivamente nelle mani dell’Esecutivo, secondo il modello della V Repubblica di De Gaulle. Senza modificare gli apparati formali, ovunque un uomo solo al comando risponde ai diktat del potere privato, ormai molto più forte di quello pubblico.
È futile dunque contrastare la riduzione del ruolo del Senato, quando né questo né la Camera svolgono oggi alcun ruolo legislativo, visto che tutte le leggi passano con il voto di fiducia. Di che riduzione stiamo parlando? Si può ridurre il nulla? In Italia oggi la sola fonte del diritto, inesistente quando negli Anni Ottanta ero studente in giurisprudenza, né prevista dalla Costituzione, è il Dpcm (Decreto presidente Consiglio dei ministri), un atto che non solo scavalca il legislativo ma pure la collegialità dell’esecutivo, nonché il tradizionale ruolo del Presidente del Consiglio come primus inter pares.
Dunque stiamo discutendo del nulla o meglio della simbologia del potere e del valore performativo delle parole. Secondo la strategia discorsiva del governo, chi sta col Sì è riformista vuole il cambiamento, il progresso, la modernità, il fare. Chi sta col No è conservatore, corporativo, perditempo, vecchio. Francamente, gran parte delle persone che danno immagine mediatica alla contrapposizione (i cosiddetti professoroni del No), confermano una impostazione spettacolare che culturalmente ha già vinto.
Non voglio negare che in Italia, come del resto in tutta Europa, sia in atto un momento Costituente. Voglio solo dire che esso sta altrove. Il Referendum sull’acqua del 2011 aveva concretizzato una spinta volta a invertire la rotta rispetto alla costituzione materiale neoliberale e ai suoi imperativi finanziari.
Il governo Monti fu la reazione del capitale a tale spinta. Iniziò, dopo la famosa lettera di Trichet e Draghi, un processo di ritrazione della democrazia che ha reso le stesse elezioni un rituale vuoto. Oggi il capitale, col Referendum Costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Negoziato in segreto, il Ttip infligge il colpo di grazia a ciò che resta della sovranità pubblica.
Il suo impatto costituente è la ristrutturazione, tramite il diritto, del rapporto fra capitale e lavoro. Gli Stati che intervengano a favore dei lavoratori, della salute e dell’ambiente, saranno considerati responsabili di un danno al capitale privato. Stuoli di avvocati ben pagati dalle corporation faranno causa agli Stati i quali dovranno guardarsi da qualunque intervento sul libero mercato (inclusa la tutela dello sciopero) che torna costituzionalizzato come valore trascendente. Altro che riforma del Senato!
postilla
Noi preferiamo sostenere che la battaglia è anche altrove e che bisogna vincerle entrambe, proprio perchè sono strettamente collegate, nei moventi, nelle conseguenze e negli attori. La riforma costituzionale che il referendum vuole cancellare non ha il suo veleno solo nella trasformazione del senato in un club, ma nel totale stravolgimento delle istituzioni: nella sostituzione della stato in un regime feudale. Certo è che la segretezza con la quale i governi hanno proceduto alla definizione del Ttip e la vergognosa disinformazione del sistema dei mass media (divenuta, almeno nel nostro paese, uno degli attori subalterni del nuovo capitalismo) rende necessario un impegno molto consistente nella lotta contro il Ttip.
Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016 (p.d.)
Il governo insiste a esercitare un ruolo preponderante nella campagna elettorale referendaria. Non a caso ha fortemente voluto queste modifiche della Costituzione e la nuova legge elettorale (Italicum) che sono due aspetti tra loro inscindibili. E non a caso l’approvazione in Parlamento di questi provvedimenti è stata ottenuta ricorrendo a vistose forzature regolamentari, voti di fiducia, ecc.
È la prima volta che il governo entra nelle modifiche costituzionali con tanta arroganza, iniziando di fatto a capovolgere quanto prevede la Costituzione che definisce con chiarezza l’Italia una repubblica parlamentare, quindi fondata sulla sovranità popolare e sul Parlamento che la rappresenta. Con questa pesante intromissione nelle modifiche della Costituzione inizia fin da ora ad essere il governo il vero asse portante dell’assetto istituzionale e in particolare lo è il capo del governo, in pratica un uomo solo al comando. Quanto sta avvenendo è l’anticipazione di cosa ci aspetta per l’effetto combinato della deformazione della Costituzione e della legge elettorale iper-maggioritaria (Italicum). Il governo insiste su questa strada entrando a gamba tesa nella campagna referendaria già iniziata (...).
Ora il governo lancia la raccolta delle firme sul referendum costituzionale. Lo fa perché ha capito che la raccolta che abbiamo iniziato, contro le modifiche costituzionali e per riportare l’Italicum, che assomiglia fin troppo al precedente Porcellum, nell’alveo della Costituzione, sono un punto forte di mobilitazione, di sensibilizzazione, al di là dell’obiettivo centrale di raccogliere le firme. Evidentemente Renzi e Boschi si stanno preoccupando e tentano una rincorsa promuovendo una loro raccolta di firme, cercando di rubare la scena a chi è contrario e approfittando del massiccio sostegno mediatico di cui godono. Comunque se il governo ci imita e favorisce la partecipazione a noi fa piacere perché lo sfregio più grave che si possa fare è tentare di cambiare la Carta sottobanco.
Da questa mobilitazione ispirata direttamente dal governo dobbiamo trarne anche noi, promotori dei referendum, delle precise conseguenze. Se qualcuno si illudeva che il governo avrebbe abbozzato, preparandosi ad accettare il giudizio degli elettori, ora dovrebbe avere capito che non sarà così. Del resto cosa potevamo aspettarci da un governo che ha caricato sull’esito del voto il ricatto delle sue dimissioni o, peggio ancora, del caos, con frasi degne di Luigi XIV? Stai sereno, si potrebbe rispondere al presidente del Consiglio: è solo democrazia.
Se il governo entra in campo pesantemente noi dobbiamo moltiplicare il nostro impegno, mobilitare tutte le energie disponibili per raccogliere le firme necessarie per i referendum, non solo per quello costituzionale, ma anche per i due sull’Italicum, per abolire il premio di maggioranza e restituire agli elettori il diritto di scegliere i loro eletti. Facciamo preoccupare il governo, raccogliamo le firme ora per avere una migliore campagna elettorale in ottobre, con l’obiettivo di vincere il referendum costituzionale votando un forte e secco No. Avanti tutta per raccogliere le firme, per fare iniziative, per spiegare e mobilitare le energie migliori del nostro paese e se questo darà un dispiacere a Renzi pazienza (...). Avanti tutta. Raccogliamo le firme e intensifichiamo la mobilitazio ne delle intelligenze. Battere questo tentativo di deformazione della Costituzione dipende anche da noi.
Comitati per il No

La Repubblica, 18 maggio 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, la riforma costituzionale Boschi non merita di essere confermata dal voto popolare. Non lo merita perché risente del vizio di origine, di essere stata il frutto di un’iniziativa governativa, e non parlamentare, come sarebbe stato corretto; di essere stata oggetto di un dibattito parlamentare fortemente condizionato dal governo come se si fosse trattato di una legge d’indirizzo politico di maggioranza; di essere stata approvata da un Parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, in base al quale era stato eletto. Il risultato della seconda deliberazione della Camera, indecoroso per una legge di revisione costituzionale, è stato il seguente: 361 voti favorevoli alla maggioranza, 7 contrari e 2 astenuti (su 630 deputati).
La riforma Boschi non merita di essere confermata dal popolo anche con riferimento ai suoi contenuti. Ne evidenzio alcuni.
1. Il Senato, oltre a cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica, verrebbe eletto dai consigli regionali, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo, non quindi direttamente dai cittadini, come invece previsto dalla Costituzione, secondo la quale «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione » (articolo 1). Con il che si è dimenticato dai riformatori che il voto dei cittadini costituisce «il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare » (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014): voto “diretto” quindi, e non “indiretto” per il tramite dei consigli regionali, perché la riforma Boschi né li qualifica né li disciplina come “grandi elettori”, come avviene in Francia con i 150mila cittadini eletti dal popolo perché a loro volta eleggano i 348 senatori.
2. Pur non essendo eletto dai cittadini, il Senato parteciperebbe alla funzione legislativa e di revisione costituzionale. Il che se da un lato sarebbe incostituzionale perché è essenziale che un organo legislativo sia direttamente legittimato dal popolo; dall’altro è inopportuno che siano i consigli regionali a eleggere i senatori, essendo noti i continui scandali della politica locale italiana.
3. Irrazionale è anche la differenza numerica dei deputati (630) rispetto ai senatori (100), che rende irrilevante la presenza del Senato — nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e dei componenti laici del Csm — a fronte della soverchiante rappresentanza della Camera. Parimenti irrazionale è il potere attribuito al Senato di eleggere due giudici costituzionali, mentre la Camera dei deputati ne eleggerebbe solo tre.
4. Ancorché le attribuzioni del Senato siano diminuite, esse sono ancora molte e gravose. Basterebbe ricordare, oltre alle competenze legislative ordinarie e costituzionali, la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni nonché la verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Ne segue che i 100 senatori non avrebbero tempo sufficiente per adempiere alle loro funzioni, dovendo svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. Se poi tali funzioni venissero esercitate dai senatori eletti negli stessi giorni, i soli a essere presenti sarebbe i cinque senatori “presidenziali”, mentre se si assentassero a giorni alterni, la media dei senatori presenti si aggirerebbe intorno a 50! Infine, ancorché non eletti dal popolo, godrebbero dell’insindacabilità e dell’immunità parlamentare, col rischio che il Senato divenga il refugium peccatorum.
5. Il costituzionalismo moderno ha sempre ritenuto essenziale la presenza di contropoteri. Mentre il Senato non costituirebbe più un contropotere “esterno” nei confronti della Camera, non sono stati previsti dei contropoteri “interni” alla Camera, quale, ad esempio, il potere d’inchiesta da parte della minoranza, come in Germania. Per la stessa ragione è criticabile che la disciplina dello “statuto delle opposizioni” venga demandata a un regolamento della Camera. Il quale, essendo approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti, si risolverebbe in un ulteriore privilegio per la maggioranza.
6. Il governo godrebbe dell’esclusiva fiducia della Camera dei deputati; eserciterebbe la funzione legislativa col Senato in un limitato, ma non scarso, numero di materie, mentre nelle restanti l’intervento del Senato sarebbe o eventuale o paritario rafforzato o non paritario o non paritario con esame obbligatorio, con potenziali conflitti tra le Camere. Dai due procedimenti legislativi esistenti si passerebbe agli otto o più procedimenti. Il che non costituisce una semplificazione.
7. Grazie all’Italicum che garantirebbe alla maggioranza 340 seggi alla Camera, e grazie al fatto che il presidente del Consiglio cumula la carica di segretario nazionale del Pd, il nostro ordinamento si orienterebbe verso un “premierato assoluto”, che condizionerebbe in negativo i poteri del presidente della Repubblica. Il governo avrebbe a disposizione i tradizionali poteri di decretazione d’urgenza e delegata, nonché la possibilità del voto a data certa. Al governo è stato garantito che i disegni di legge «ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo», vengano approvati dalla Camera entro settanta giorni. Il che è condivisibile, ma suscita il timore che il governo finisca per restringere ulteriormente lo spazio per le iniziative parlamentari, già limitate a meno del 20 per cento del tempo. Il che significherebbe la fine del Parlamento.
«Pubblichiamo ampi stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum».
Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2016 (c.m.c.)
Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.
1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro).
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.
2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”.
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?
3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”.
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.
4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia .
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)
5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse .
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza).
Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.
6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”.
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)
7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)
8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.
9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti.
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.
10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato.
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)
11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”.
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.
12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla.
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)
13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)
14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così.
Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.
Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme.
Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi
Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più.
La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda.
In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.
Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà.
Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.
15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky.
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero.
Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante.
A seguire i massmedia (con pochissime eccezioni) sembra che: 1. il referendum lo abbia convocato Renzi; 2. che l'oggetto del referendum sia la permanenza di questo governo; 3. che nessuno abbia aperto, da tempo, una campagna per bocciare la de-forma renziana. Ecco un’eccezione. Il manifesto
, 17 maggio 2016
Ma insomma, personalizza oppure no? Una volta dice che il referendum costituzionale sarà una sfida tra «l’Italia che vuole correre e quella ancorata al passato», che «se vince il no mi dimetto», che «il no si giustifica solo con l’odio nei miei confronti». Un’altra volta, per esempio ieri, Matteo Renzi spiega che «personalizzare il referendum non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del no». Ha cambiato strategia, si è reso conto che puntare tutto su di sé è controproducente, vuole dare ascolto alle inquietudini di Reichlin, forse di Napolitano e magari di Mattarella? No, Renzi è semplicemente in campagna elettorale. Dunque sostiene e sosterrà di tutto, facendo capriole e cercando di occupare ogni spazio dell’offerta politica. Ci riuscirà: tv e giornali non gli fanno notare le contraddizioni. In questo momento sono impegnati a lanciare con lui la raccolta di firme per il sì – comincia sabato – mentre non hanno ancora raccontato che la campagna del no è già partita da un mese.
L’identificazione tra il governo, anzi tra il presidente del Consiglio e la riforma costituzionale non è un’invenzione degli ultimi giorni. È il tratto originario del disegno di legge (Renzi-Boschi) che il governo ha scritto, emendato a palazzo Chigi, fatto approvare da senato e camera imponendo ritmi, trucchi e strappi ai regolamenti.
Presentandosi alle camere, il presidente del Consiglio aveva promesso la trasformazione del senato. Dunque ha ragione anche Boschi quando dice (personalizzando) che «non sarebbe serio tenere distinto il giudizio sulle riforme da quello sul governo». Ma in quel discorso Renzi aveva demolito il personale politico delle regioni: «È cambiato il clima per quello che è accaduto sui rimborsi elettorali». Pensava allora a un senato dei sindaci; rischiamo un senato di consiglieri regionali in gita a Roma.
Riportare la campagna elettorale al contenuto della riforma è faticoso, le pillole di «merito» dispensate da palazzo Chigi sono tutte avvelenate. «Se vince il sì, per fare le leggi e votare la fiducia sarà sufficiente il voto della camera come accade in tutte le democrazie», ha scritto ieri Renzi. Ma in Europa ci sono 13 paesi con un sistema parlamentare bicamerale, tra i quali Germania, Francia e Spagna. Bicamerale resterà anche il nostro: dopo la riforma ci saranno almeno sei diversi procedimenti legislativi, quattro dei quali passano per il senato. Non lo diciamo noi: lo ammette il governo nel volantino che ha prodotto per spiegare il nuovo articolo 70 della Costituzione. Prima era composto da 9 parole e adesso, per «semplificare», da 439.
Dall'interno del PD una nobile lettera al direttore di
Repubblica, giustamente angosciata per l'inferno sociale verso il quale Matteo Renzi sta portando il paese, che improvvidamente gli è stato affidato. La Repubblica, 17 maggio 2016
Caro Direttore, mi pesa dirlo, ma non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale. Temo uno scontro inconcludente. Dico inconcludente nel senso che chiunque sia il vincitore di questo Referendum il Paese non riesca a uscire dalla sua crisi. Forse esagero ma mi chiedo se ci rendiamo conto del bisogno assoluto che ha questo paese, confuso, sfiduciato come non mai verso la classe dirigente, arrabbiato e impoverito, con divisioni al suo interno che stanno diventando feroci, il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”? Stiamo parlando di una riforma Costituzionale, cioè di uno strumento per lo “stare insieme” non per dividerci.
Figurarsi se io non vedo i vuoti e i pericoli di un “no”. Ma prima di votare io voglio capire bene di che cosa stiamo discutendo. Di una correzione matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a una dimensione regionale, con in più una serie di misure, alcune anche discutibili, ma nell’insieme accettabili? Oppure si tratta di un plebiscito popolare che Matteo Renzi chiede su se stesso? Sono due cose diverse, e molto diverse. Io non voglio una crisi di governo al buio e di Renzi apprezzo molte delle sue grandi doti. Ma considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti. Da un lato quello del Sì, cioè di chi “vuole bene all’Italia” e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono succeduti prima di questo (il discorso esaltato di Renzi a Firenze). Dall’altro lato il partito del No: il mondo dei conservatori, dei professori, dei gufi, dei nemici. Ma ci si rende conto delle conseguenze? Non credo che verrà il fascismo ma non aumenterà certo la governabilità.
Si dirà che quelle di Renzi sono solo parole. Ma, attenzione, le parole sono pietre, e così arrivano a un popolo che già crede poco alla politica come strumento per il “bene comune”. E vorrei rispondere a chi considera la mia distinzione così netta tra le vicende del governo e la funzione di una Costituzione un po’ ipocrita. Credo che sbagli. Se la Repubblica è arrivata sin qui è anche per quella “ipocrisia”. Ricordo la drammatica crisi del ’47: il viaggio di De Gasperi in America e, al suo ritorno, la cacciata dei comunisti dal governo. Si aprì una crisi feroce all’insegna della guerra fredda e ciò mentre l’elaborazione della Costituzione era ancora in corso, avviata nel quadro politico unitario precedente. Era una svolta quella che stava accadendo ed era forte la voglia di menar le mani, ma Togliatti non ebbe dubbi che dovevamo continuare a lavorare su quel testo tutti insieme. E così l’impresa fu portata a compimento. E non è vero che quella carta piaceva a tutti. Metà degli italiani aveva votato per la monarchia. Era chiaro però che si trattava di una “Casa di tutti”, concepita non per favorire un governo contro i suoi nemici.
Sento quindi il dovere di sollecitare un chiarimento serio sul perché di questo plebiscito e sul senso di questi diecimila comitati. E vorrei che una cosa fosse molto chiara. Non mi interessa affatto alimentare le vecchie dispute interne al Pd. Parla in me una grande preoccupazione sul “dove va l’Italia” (la sorte di Renzi davvero viene dopo). E ciò per tante ragioni interne e internazionali che non sto qui a elencare. Le quali ci dicono che l’Italia è a un passaggio cruciale della sua storia perché deve fronteggiare difficili sfide che mettono in discussione non tanto, cari “decisionisti”, i poteri del Capo del governo, quanto le ragioni dello “stare insieme degli italiani”. Dico degli italiani. È chiaro?
È così che io rivivo quello che fu lo sforzo di ricostruire una nazione. Era l’idea della Costituzione come il necessario strumento dello “stare insieme” degli italiani, di tutti gli italiani. E ciò per l’assillo che allora avevamo, che era quello di far fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il rischio incombente di una guerra civile interna, di una lacerazione tra Nord e Sud, tra monarchici e repubblicani, di una rivolta rabbiosa contro un padronato che si era arricchito servendo il fascismo. L’assillo nostro era: evitare di fare la fine della Grecia. Ricostruire. E perché ciò fu possibile? Perché De Gasperi rifiutò la spinta che veniva dal Vaticano, e da ambienti americani a mettere fuori legge i comunisti e perché Togliatti la prima cosa che disse al partito, al suo ritorno è che non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruire una classica democrazia parlamentare basata sul pluralismo dei partiti. Non una improbabile “nuova democrazia dei Cln” come tanti a sinistra chiedevano.
Sia dunque chiaro. Io ho condiviso, pur con qualche riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco perché non voglio plebisciti.
Il paese è in grave sofferenza perché ha perso troppi punti di riferimento. La “rottamazione” era in una certa misura necessaria. Ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale. Gli uomini saggi (se ancora ci sono) dovrebbero spiegare a Renzi perché è tempo di passare dell’Io al Noi.
Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016 (p.d.)
L'appello, stavolta, è diretto al presidente della Repubblica: è Sergio Mattarella che deve dire la sua contro quella “forma di pressione, per non dire ricatto” che sta portando avanti Matteo Renzi. A rivolgersi, “con rispetto”, al Quirinale “affinché dicesse al presidente del Consiglio che chi governa non può legare la sua sorte all'esito del referendum costituzionale”è il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky durante la presentazione del libro "Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla" di Salvatore Settis al Salone del libro di Torino.
Zagrebelsky lo fa perché con l'aut aut del capo del governo, che ha minacciato le dimissioni nel caso in cui la sua riforma fosse bocciata, “ci va di mezzo la democrazia”. Per spiegare questa forma di pressione, il giurista ricorda la frase attribuita a re Luigi XV di Francia, quel suo "Après nous, le déluge" che lascia intravedere drammatiche conseguenze in caso di sconfitta. Dopo di noi il diluvio, insiste il governo, sempre più intimorito dai sondaggi che non danno assolutamente per certa la vittoria del Sì.
Che il clima non sia dei più tranquilli, lo certifica il ministro dell’Interno Angelino Alfano: come per le prossime amministrative, pure ad ottobre - dice in un’intervista al quotidiano veronese L'Arena, sarebbe il caso di votare “anche il lunedì”. Obiettivo: aumentare l’affluenza, nonostante per il referendum costituzionale non sia previsto il quorum.
Il problema è il plebiscito, e all’appello di Zagrebelsky si unisce anche Settis: “Sarebbe opportuno che il capo dello Stato, nel pieno delle sue funzioni previste dalla Costituzione, ricordasse a Renzi che il referendum non è un plebiscito sul governo”. Tutto questo perché “invece di guardare al merito della questione, viene fatto intendere che se vince il no cade il governo e chissà che cosa succede ”. La Carta, prosegue il professore, “non prevede che all’esito di un referendum un presidente del Consiglio si debba dimettere”. Secondo Settis “se vincerà il no, e io so che è possibile, non si fermeranno”. Invece se vince il sì “sarà il trampolino di lancio per l’erosione di altri diritti”, come si è già tentato di fare in passato. “Le riforme di cui stiamo parlando oggi sono nella linea di Jp Morgan o del popolo?”, chiede Zagrebelsky a Settis, immaginando già la risposta. Così lo storico dell’arte ricorda il documento della banca americana del 28 maggio 2013 nel quale gli esperti dell’istituto d’affari criticavano i Paesi dell’Europa meridionale con parlamenti forti, governi deboli e molte tutele per i lavoratori. Tutti elementi che, secondo Jp Morgan, dovevano essere cambiati. A quel documento seguirono, due settimane dopo, le riforme proposte dall’ex premier Enrico Letta: “C’è una strana sintonia che va rilevata”, annota Settis.
E dire che l'incontro doveva avere un basso profilo. “In questo Salone del libro c’è un obbligo di correttezza - aveva premesso Zagrebelsky davanti a cinquecento persone arrivate ieri mattina -. Siamo in campagna elettorale e questo è un tema altamente politico. Dobbiamo fare un discorso di politica alta e dobbiamo fare attenzione a non
incappare nella scomunica”. L’intento si è infranto poco dopo, quando il giurista ripensa all’ultimo epiteto coniato da Renzi, quello sugli “archeologi travestiti da costituzionalisti” pronunciato la scorsa settimana alla direzione Pd per definire quelli che prima erano i “professoroni” e i “rosiconi”: “L’archeologia, checché ne dicano alcuni nostri governati, non è la ricerca di mucchi di pietre sotto la sabbia o di ossa. È la ricerca dell’arché, l’esplorazione delle fondamenta della nostra società”. Per questo lui è fiero del nuovo nomignolo: “Io mi onoro di essere della congregazione degli archeologi della Costituzione”.
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Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2016 (c.m.c.)
PER VOI CHE RAGIONATE
E NON PLEBISCITATE
C’E’ CHI CI METTE LA FACCIA,
NOI CI METTIAMO LA TESTA
“Noi crediamo profondamente in una democrazia così intesa, e noi ci batteremo per questa democrazia. Ma se altri gruppi avvalendosi, come dicevo in principio, di esigue ed effimere maggioranze, volessero far trionfare dei princìpi di parte, volessero darci una Costituzione che non rispecchiasse quella che è la profonda aspirazione della grande maggioranza degli italiani, che amano come noi la libertà e come noi amano la giustizia sociale, se volessero fare una Costituzione che fosse in un certo qual modo una Costituzione di parte, allora avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione ed il vento disperderà la vostra inutile fatica” (Lelio Basso, 6 marzo 1947, in Assemblea Costituente).
1. Il NO non significa immobilismo costituzionale. Non significa opposizione a qualsiasi riforma della Costituzione che sicuramente è una ottima costituzione. Ha obbligato con successo tutti gli attori politici a rispettarla. Ha fatto cambiare sia i comunisti sia i fascisti. Ha resistito alle spallate berlusconiane. Ha accompagnato la crescita dell’Italia da paese sconfitto, povero e semi-analfabeta a una delle otto potenze industriali del mondo. Non pochi esponenti del NO hanno combattuto molte battaglie riformiste e alcune le hanno vinte (legge elettorale, legge sui sindaci, abolizione di ministeri, eliminazione del finanziamento statale dei partiti).
Non pochi esponenti del NO desiderano riforme migliori e le hanno formulate. Le riforme del governo sono sbagliate nel metodo e nel merito. Non è indispensabile fare riforme condivise se si ha un progetto democratico e lo si argomenta in Parlamento e agli elettori. Non si debbono, però, fare riforme con accordi sottobanco, presentate come ultima spiaggia, imposte con ricatti, confuse e pasticciate. Noi non abbiamo cambiato idea. Riforme migliori sono possibili.
2. No, non è vero che la riforma del Senato nasce dalla necessita’ di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi. La riforma del Senato nasce con una motivazione che accarezza l’antipolitica “risparmiare soldi” (ma non sarà così che in minima parte) e perché la legge elettorale Porcellum ha prodotto due volte un Senato ingovernabile. Era sufficiente cambiare in meglio, non in un porcellinum, la legge elettorale. Il bicameralismo italiano ha sempre prodotto molte leggi, più dei bicameralismi differenziati di Germania e Gran Bretagna, più della Francia semipresidenziale e della Svezia monocamerale. Praticamente tutti i governi italiani sono sempre riusciti ad avere le leggi che volevano e, quando le loro maggioranze erano inquiete, divise e litigiose e i loro disegni di legge erano importanti e facevano parte dell’attuazione del programma di governo, ne ottenevano regolarmente l’approvazione in tempi brevi.
No, non è vero che il Senato era responsabile dei ritardi e delle lungaggini. Nessuno ha saputo portare esempi concreti a conferma di questa accusa perché non esistono. Napolitano, deputato di lungo corso, Presidente della Camera e poi Senatore a vita, dovrebbe saperlo meglio di altri. Piuttosto, il luogo dell’intoppo era proprio la Camera dei Deputati. Ritardi e lungaggini continueranno sia per le doppie letture eventuali sia per le prevedibili tensioni e conflitti fra senatori che vorranno affermare il loro ruolo e la loro rilevanza e deputati che vorranno imporre il loro volere di rappresentanti del popolo, ancorche’ nominati dai capipartito.
3. No, non è vero che gli esponenti del NO sono favorevoli al mantenimento del bicameralismo. Anzi, alcuni vorrebbero l’abolizione del Senato; altri ne vorrebbero una trasformazione profonda. La strada giusta era quella del modello Bundesrat, non quella del modello misto francese, peggiorato dalla assurda aggiunta di cinque senatori nominate dal Presidente della Repubblica (immaginiamo per presunti, difficilmente accertabili, meriti autonomisti, regionalisti, federalisti). Inopinatamente, a cento senatori variamente designati, nessuno eletto, si attribuisce addirittura il compito di eleggere due giudici costituzionali, mentre seicentotrenta deputati ne eleggeranno tre. E’ uno squilibrio intollerabile.
4. No, non è vero che e’ tutto da buttare. Alcuni di noi hanno proposto da tempo l’abolizione del CNEL. Questa abolizione dovrebbe essere spacchettata per consentire agli italiani di non fare, né a favore del “si’” ne’ a favore del “no”, di tutta l’erba un fascio. Però, no, non si può chiedere agli italiani di votare in blocco tutta la brutta riforma soltanto per eliminare il CNEL.
5. Alcuni di noi sono stati attivissimi referendari. Non se ne pentono anche perché possono rivendicare successi di qualche importanza. Abbiamo da tempo proposto una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi e l’introduzione di nuovi tipi di referendum e di nuove modalità di partecipazione dei cittadini. La riforma del governo non recepisce nulla di tutta questa vasta elaborazione. Si limita a piccoli palliativi probabilmente peggiorativi della situazione attuale. No, la riforma non è affatto interessata a predisporre canali e meccanismi per una più ampia e intensa partecipazione degli italiani tutti (anzi, abbiamo dovuto registrare con sconforto l’appello di Renzi all’astensione nel referendum sulle trivellazioni), ma in particolare di quelli più interessati alla politica.
6. No, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro. Il governo continuerà le sue propensioni alla decretazione per procurata urgenza. Impedirà con ripetute richieste di voti di fiducia persino ai suoi parlamentari di dissentire. Limitazioni dei decreti e delle richieste di fiducia dovevano, debbono costituire l’oggetto di riforme per un buongoverno. L’Italicum non selezionerà una classe politica migliore, ma consentirà ai capi dei partiti di premiare la fedeltà, che non fa quasi mai rima con capacità, e di punire i disobbedienti.
7. No, la riforma non interviene affatto sul governo e e sulle cause della sua presunta debolezza. Non tenta neppure minimamente di affrontare il problema di un eventuale cambiamento della forma di governo. Tardivi e impreparati commentatori hanno scoperto che il voto di sfiducia costruttivo esistente in Germania e importato dai Costituenti spagnoli è un potente strumento di stabilizzazione dei governi, anzi, dei loro capi. Hanno dimenticato di dire che: i) è un deterrente contro i facitori di crisi governative per interessi partigiani o personali (non sarebbe stato facile sostituire Letta con Renzi se fosse esistito il voto di sfiducia costruttivo); ii) si (deve) accompagna(re) a sistemi elettorali proporzionali non a sistemi elettorali, come l’Italicum, che insediano al governo il capo del partito che ha ottenuto più voti ed è stato ingrassato di seggi grazie al premio di maggioranza.
8. I sostenitori del NO vogliono sottolineare che la riforma costituzionale va letta, analizzata e bocciata insieme alla riforma del sistema elettorale. Infatti, l’Italicum squilibra tutto il sistema politico a favore del capo del governo. Toglie al Presidente della Repubblica il potere reale (non quello formale) di nominare il Presidente del Consiglio. Gli toglie anche, con buona pace di Scalfaro e di Napolitano che ne fecero uso efficace, il potere di non sciogliere il Parlamento, ovvero la Camera dei deputati, nella quale sarà la maggioranza di governo, ovvero il suo capo, a stabilire se, quando e come sciogliersi e comunicarlo al Presidente della Repubblica (magari dopo le 20.38 per non apparire nei telegiornali più visti).
9. No, quello che è stato malamente chiesto non è un referendum confermativo (aggettivo che non esiste da nessuna parte nella Costituzione italiana), ma un plebiscito sulla persona del capo del governo. Fin dall’inizio il capo del governo ha usato la clava delle riforme come strumento di una legittimazione elettorale di cui non dispone e di cui, dovrebbe sapere, neppure ha bisogno. Nelle democrazie parlamentari la legittimazione di ciascuno e di tutti i governi arriva dal voto di fiducia (o dal rapporto di fiducia) del Parlamento e se ne va formalmente o informalmente con la perdita di quella fiducia. Il capo del governo ha rilanciato. Vuole più della fiducia. Vuole l’acclamazione del popolo. Ci “ha messo la faccia”.
Noi ci mettiamo la testa: le nostre accertabili competenze, la nostra biografia personale e professionale, se del caso, anche l’esperienza che viene con l’età ben vissuta, sul referendum costituzionale (che doveva lasciare chiedere agli oppositori, referendum, semmai da definirsi oppositivo: si oppone alle riforme fatte, le vuole vanificare). Lo ha trasformato in un malposto giudizio sulla sua persona. Ne ha fatto un plebiscito accompagnato dal ricatto: “se perdo me ne vado”.
10. Le riforme costituzionali sono più importanti di qualsiasi governo. Durano di più. Se abborracciate senza visione, sono difficili da cambiare. Sono regole del gioco che influenzano tutti gli attori, generazioni di attori. Caduto un governo se ne fa un altro. La grande flessibilità e duttilità delle democrazie parlamentari non trasforma mai una crisi politica in una crisi istituzionale. Riforme costituzionali confuse e squilibratrici sono sempre l’anticamera di possibili distorsioni e stravolgimenti istituzionali. Il ricatto plebiscitario del Presidente del Consiglio va, molto serenamente e molto pacatamente, respinto.
Quello che sta passando non è affatto l’ultimo trenino delle riformette. Molti, purtroppo, non tutti, hanno imparato qualcosa in corso d’opera. Non è difficile fare nuovamente approvare l’abolizione del CNEL, e lo si può fare rapidamente. Non è difficile ritornare sulla riforma del Senato e abolirlo del tutto (ma allora attenzione alla legge elettorale) oppure trasformarlo in Bundesrat. Altre riforme verranno e hanno alte probabilità di essere preferibili e di gran lunga migliori del pasticciaccio brutto renzian-boschiano. No, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il NO chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte e da tempo scritte e disponibili.
Un'intelligente analisi dell'intellettuale dell'età renziana. «L’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano, la deve seguire».
CRS - Centro per la riforma dello Stato online, 30 aprile 2016
“Abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di super saggi, l’età media supera gli 81 anni”. E’ questo il principale argomento che Elisabetta Gualmini – classe 1968, docente di Scienza politica all’università di Bologna, ex presidente dell’Istituto Cattaneo, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, editorialista della Stampa nonché star prediletta dei talk show mattutini e serali – e Salvatore Vassallo – classe 1965, docente di Scienza politica a Bologna, vicedirettore del Cattaneo, ex prodian-parisian-veltroniano – sfoderano,
in un articolo a doppia firma sull’Unità del 27 aprile, contro il documento per il no al referendum sulla riforma costituzionale stilato, firmato e diffuso nei giorni scorsi da 56 autorevoli costituzionalisti (da Zagrebelsky a Onida, Casavola, Cheli, Carlassare, Manzella, Zaccaria, De Siervo e via dicendo). E tanto perché l’età non sembri un argomento troppo rozzo, la mettono in metafora: “Ci pare significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare”: criterio tanto più “stonato”, “di fronte a un paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere”. Siamo alle solite: con le ali di Renzi l’Italia vorrebbe tanto spiccare il volo, non fosse per parrucconi e gufi che glielo impediscono.
Ma procediamo. Secondo argomento. “A pensar male, il primo sottinteso [del testo dei costituzionalisti] pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-il-plebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa (sic) i tecnici e ancor di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia”.
Terzo argomento. “ [Nel documento dei 56] non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni…Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei”.
Fra il primo e il secondo argomento, a panino come l’opposizione nei Tg di regime, i due politologi entrano approssimativamente nel merito del documento dei costituzionalisti, a difesa della riforma Boschi. Ma con ogni evidenza il punto non è il merito, nemmeno per una alquanto ossessiva appassionata della materia come, per quel nulla che conta, la sottoscritta. C’è un livello infatti che viene prima perfino della Costituzione e di qualunque legge fondamentale, ed è il livello dello scambio fra i comuni parlanti e della produzione di senso comune che ne deriva. Quando si inquina o si frattura questo livello, non è in questione la Costituzione ma la qualità della convivenza. Ed è a questo livello che il testo della coppia Gualmini-Vassallo si colloca e va letto.
Nel suo blog sull’Espresso, Marco Damilano, a sua volta colpito dall’obliqua sintomaticità dell’articolo, lo interpreta come la prova provata dell’assenza di una nuova leva di intellettuali renziani: “intellettuali veri, capaci cioè di indicare un punto di vista non scontato, con un certo tasso di anticonformismo, con il gusto di restare fuori dalle curve, dalle tifoserie da social network, dal talk-show perenne”. Mi piacerebbe dargli ragione, ma non sono d’accordo. L’articolo in questione è al contrario la prova provata che questa nuova leva intellettuale renziana c’è ed è questa, nella sua desolante miseria.
I tre argomenti di cui sopra sono infatti una mirabile sintesi dei veleni che la cosiddetta narrazione renziana, in realtà una vera e propria ideologia, ha fin qui distillato e instillato nel senso comune. E si possono sintetizzare come segue.
Primo, la guerra generazionale come motore cinico della produzione di un consenso rancoroso. Com’era chiaro fin dall’inizio, in questione non è mai stata solo la “rottamazione” di un ceto politico usurato, bensì la produzione programmatica di barriere generazionali che legittimano politiche economiche devastanti per il legame sociale, mettendo continuamente in conflitto vecchi e giovani, pensionati (o pre-pensionati forzati o pensionandi) e precari a vita, occupati e disoccupati, titolari di diritti acquisiti e soggetti deprivati di ogni diritto. La produzione altrettanto sistematica di rancore nelle generazioni giovani verso quelle precedenti, unita alla instillazione di un senso di colpa connesso all’età nelle generazioni “decadenti”, è il collante sentimentale di queste barriere, che ostacolano la riorganizzazione del conflitto sociale su una base di classe o lungo altre frontiere antagonistiche sensate, e promuovono una competizione individuale generalizzata, legittimata come una lotta per la sopravvivenza che giustifica l’annichilimento altrui. Si tratta dunque di una precisa strategia neoliberale con risvolti di darwinismo sociale, coperta da un arrembaggio giovanilistico rottamatorio che in un paese come gli Stati uniti, sbandierato a proposito e a sproposito dai “nuovi intellettuali” come faro progressista, sarebbe accusato senza mezzi termini di age discrimination (e, per inciso, sbarrerebbe qualunque carriera accademica a chiunque se ne facesse portatore).
Secondo, la rivendicazione dell’anti-intellettualismo fascistoide già caratteristico del ventennio berlusconiano, ma oggi, se possibile, ancor più ostentato, e soprattutto più infondato di allora. La retorica è la stessa – il tycoon spregiudicato contro i “salotti buoni” del capitalismo allora, il “plebeo” contro i “professori al caviale” oggi -, ma a differenza di ieri, quando si appoggiava su un’impresa come quella berlusconiana che aveva effettivamente rivoluzionato i modi della produzione intellettuale, oggi non si basa su niente, se non su un’arroganza che non ha precedenti nemmeno nel ceto politico berlusconiano. Anche qui, nulla di innocente e nemmeno di innocuo: l’anti-intellettualismo di regime produce e promuove, con l’aiuto consistente ed entusiasta dei media di regime, un ceto intellettuale in parte nuovo, in parte riciclato dal ventennio precedente (vedi la mappa del management che conta nella Rai e in altri ruoli chiave dell’industria culturale disegnata il 27/4 sul Foglio da quell’altra musa ispiratrice del renzismo che è Claudio Cerasa per dimostrare come qualmente “Berlusconi, anno domini 2016, ha comunque vinto e sta vincendo alla grande”).
Terzo, l’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano Gualmini e Vassallo, la deve seguire. E qui lo studente di primo anno, che i due politologi invocano come bocciatore certo del documento dei 56, boccerebbe invece di sicuro loro. E farebbe bene.
La Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, piegandoli alla sua volontà. Così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.». Il manifesto, 13 maggio 2016
Messina è la tredicesima città italiana per abitanti, la terza città metropolitana della Sicilia, una città con una grande storia alle spalle che sta morendo a fuoco lento per via del Presidente del Collegio dei Revisori Conti, dottore Dario Zaccone, che da cinque mesi blocca la giunta Accorinti, impedendogli di approvare il bilancio previsionale 2015. Per capire come stanno le cose dobbiamo fare un passo indietro.
Renato Accorinti è stato eletto sindaco della città di Messina nel giugno del 2013 dopo uno spareggio con Felice Calabrò, esponente del Pd sostenuto dall’ex onorevole Francantonio Genovese.
Al primo turno Accorinti, uno dei leader del movimento No Ponte e del movimento non violento italiano, aveva ottenuto il 23 per cento dei voti scavalcando il rappresentante di Forza Italia, l’on Garofalo, ma la sua lista «Cambiamo Messina dal basso» aveva ottenuto solo il 9% e quattro consiglieri. Calabrò che al primo turno aveva ottenuto il 49,9 per cento dei voti e non era stato eletto per soli 60 voti andò baldanzoso al ballottaggio, ma perse nettamente. Questa anomalia si è tradotta in un Consiglio comunale dove la giunta Accorinti poteva contare solo su 4 consiglieri su 40, con una parte consistente dei consiglieri legata strettamente al grande capo Francantonio Genovese, finito agli arresti domiciliari per essersi appropriato di oltre 800mila euro di corsi professionali finanziati dalla Ue, e oggi colpito da un altro capo d’imputazione per aver portato in Svizzera capitali per 16 milioni di euro.
Il 19 dicembre scorso, Genovese appena uscito dagli arresti domiciliari ed in attesa del processo, convoca una assemblea all’Hotel Royal per festeggiare il suo passaggio dal Pd a Forza Italia, partito al quale immediatamente aderiscono 11 consiglieri comunali Pd su 14, facendo così diventare Fi il primo partito del Consiglio Comunale di Messina ed il Pd l’ultimo o quasi. Non solo. Dal ritorno sulla scena di Genovese cambia tutto il panorama politico messinese e, soprattutto, cambia l’atteggiamento di Dario Zaccone, commercialista e consulente di alcune imprese che fanno capo all’impero di Francantonio Genovese, uno degli uomini più ricchi della Sicilia.
Da quel momento, Zaccone che negli anni precedenti aveva dimostrato di svolgere tranquillamente il suo mestiere, cambia registro e adotta una strategia di logoramento della giunta Accorinti: dal 9 dicembre ad oggi la giunta Accorinti ha approvato sette, dicasi 7 volte, il bilancio previsionale 2015 e regolarmente Zaccone ha espresso parere negativo. Per chi si intende anche un po’ di bilanci sa che approvare oggi un bilancio preventivo 2015 è un gioco da ragazzi. Nel senso che non c’è più nulla da «prevedere» e che, non trattandosi di un consuntivo dove possono sorgere problemi con i residui, si tratta di elencare le spese fatte. Semplice. Lo capirebbe anche un bambino, ma non avviene.
Nel frattempo viene arrestato Paolo David, già capogruppo Pd ed oggi Forza Italia, per voto di scambio mafioso e i consiglieri comunali tremano nuovamente. Come era successo nello scorso mese di novembre quando ricevettero un avviso di garanzia 23 consiglieri comunali per quello che fu chiamato lo scandalo di «gettonopoli», ovvero dei Consiglieri comunali che si prendevano un gettone di presenza senza partecipare ai lavori delle Commissioni, ma ponendo solo la firma.
Sono gli stessi Consiglieri che qualche giorno prima stavano raccogliendo le firme per sfiduciare Renato Accorinti che sembra sia nato sotto una buona stella perché ogni volta che sembra pronta la sfiducia succede qualcosa che la blocca. Ma, nulla può fare un’amministrazione dalle mani pulite quando il potere usa gli strumenti della burocrazia per distruggerti. E Zaccone è in buona compagnia: anche la Corte dei Conti ha chiesto il default del Comune, malgrado sia stato presentato da tempo al Ministero un Piano di rientro dal debito enorme (circa 500 milioni) accumulato dalle precedenti amministrazioni, comprese quelle di Genovese sindaco e successivamente del suo delfino Buzzanca. Una Corte dei Conti che già nell’aprile del 2014 dichiarava il Comune in pre-dissesto finanziario e stabiliva quali voci di spesa fossero ammissibili e quali non lo fossero (in primis la cultura e la promozione turistica). Un abuso di potere incredibile. Tu, Corte Conti puoi chiedermi di non sforare il tetto della spesa, ma non come devo spendere a casa mia. È come se una banca a cui chiedi un prestito ti imponga una lista della spesa, di ciò che puoi comprare o meno.
Così si affossa la democrazia che nei Comuni trova le sue fondamenta. Se la Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, non solo la Grecia, e piegandoli alla sua volontà, così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.
«L'allarme del politologo Colin Crouch autore del libro "Postdemocrazia" in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate: governi svuotati di potere e significato. Per evitare che la globalizzazione sia guidata da un'oligarchia delle multinazionali "serve più Europa e meno nazionalismo"». Intervista di Giuliano Balestreri. Huffington Post, 13 maggio 2016
MILANO - Governi svuotati di potere e significato. La democrazia che cede il passo all'oligarchia delle multinazionali. Addio alle politiche social-democratiche che hanno fatto la storia dell'Europa per lasciar spazio al neo liberismo. E' l'epilogo temuto da Colin Crouch sociologo e politologo britannico celebre per aver coniato il termine "postdemocrazia" nell'omonimo libro in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate. In Italia per partecipare al Festival "Fare la pace" di Bergamo fino a 15 maggio, Crouch punta il dito con il Ttip, il trattato transatlantico di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, che "servirebbe ad aumentare le tutele di consumatori, ma invece viene usato solo per ridurle". E critica l'Unione europea perché "ha dimenticato l'eredità delle Commissioni Delors e Prodi fondate sul compromesso tra liberismo e socialdemocrazia per interessarsi solo al liberismo. Siamo caduti in una trappola da cui non riusciamo a uscire".
Più che vittima di una trappola, il Vecchio continente sembra stretto tra due idee antitetiche di Europa. Non crede?
No, siamo davvero in trappola. Da un lato siamo consapevoli dei cambiamenti che porta la globalizzazione e delle necessità di avere un'Unione europea capace di affermarsi ai massimi livelli dove vengono prese le principali decisioni economiche; dall'altro abbiamo bisogno di una politica più vicina alla vita quotidiana. Bruxelles dovrebbe convivere con istituzioni vicine alle persone: le decisioni devono essere prese a livelli diversi a seconda degli argomenti. Il rischio che corriamo è quello di pensare che il nazionalismo rafforzi la democrazia.
Il referendum su Brexit, il prossimo 23 giugno, metterà alla prova le due idee di Europa.
L'appartenenza alla nazione rimane tra le poche identità, che legano la gente al mondo politico. E in un mondo pieno di rischi internazionali - dalla globalizzazione economica, che sembra minacciare il lavoro, all'immigrazione fino al terrorismo islamico - c'è la forte tentazione di vedere la nazione come una fortezza. Il referendum britannico darà ai cittadini la possibilità di concentrare tutte queste ansie su un bersaglio singolo: l'Unione europea. Una tentazione che si scontra con la paura di un futuro totalmente incerto, dicendo addio a tutti i nostri rapporti economici degli ultimi 40 anni. Sarà una battaglia tra due paure: quella di un mondo incontrollabile contro quella di un isolamento totale.
Come si sconfigge la paura?
Con un'Europa più intensa. Delors e Prodi lo avevano capito: bisogna legare in maniera indissolubile i livelli più alti a quelli più bassi. Bisogna riscoprire le politiche regionali, aumentando il loro peso. La Scozia è un caso emblematico: vogliono più autonomia a livello locale, ma sono molto legati all'Unione europea per mantenere un ruolo di peso a livello globale. L'Europa non è una tecnocrazia apolitica, ma rischia di diventarlo se ripensiamo rapidamente il ruolo delle istituzioni.
Gli anni dell'austerity hanno contribuito ad allontanare Bruxelles dai cittadini.
Sì, perché sono stati anni persi a consumare tutta l'energia nel tagliare la spesa e a fare attenzione ai bilanci. Invece, sarebbero serviti a fare altre cose.
Per esempio il Ttip?
Anche. Il Trattato transatlantico di libero scambio serve davvero, ma solo se ci permette di aumentare gli standard di sicurezza. Per il momento, invece, le discussioni vertono solo sul come ridurre gli standard: anche perché un mondo con standard di sicurezza più alti ad ogni livello sarebbe un mondo più caro. E gli americani non possono accettarlo. Però gli europei sbagliano a pensare di essere gli unici a garantire la piena tutela dei consumatori e dei cittadini. In alcuni campi è certamente vero, ma sul fronte bancario la realtà è diametralmente opposta: siamo noi che dovremmo imitare i loro standard. E comunque anche negli Stati Uniti crescono le resistenze con la diffidenza ad aprire il loro mercato agli europei.
A preoccupare i cittadini sono soprattutto le clausole Isds che permettono alle aziende di citare per danni gli Stati che con le loro norme mettano a repentaglio i loro profitti.
E' vero, sono la cosa più pericolosa del trattato. La clausola più antidemocratica. Certo oggi già esistono, ma gli Stati sono liberi di scegliere se riconoscere il diritto alle aziende o meno, con il Ttip diventerebbe invece una regola vincolante per tutti. Il meccanismo di citare in giudizio gli Stati che promulgassero leggi contrarie agli interessi delle aziende era nato per attirare risorse finanziarie nei paesi in via di sviluppo: le multinazionali chiedevano garanzie prima di investire negli Stati a rischio temendo che un cambio di repentino di governo le avrebbe danneggiate. Insomma, il principio era in qualche modo positivo, era un incentivo alla stabilità, ma lentamente il sistema di è esteso fino all'Europa. Basti pensare alla svedese Vattenfall che ha chiesto miliardi di danni alla Germania dopo la decisione - in seguito alla tragedia di Fukushima - chi chiudere le centrali nucleari. Il Ttip in questo senso sarebbe un disastro, il mercato entrerebbe direttamente nelle politiche sociali dei governi che non potrebbe più tornare indietro.
In questo modo il potere sarebbe trasferito alla multinazionali?
Sì, sarebbe il punto finale della post democrazia. Un mondo nel quale le istituzioni tradizionali continuano a esistere, ma si svuotano di significato e la politica non è più in grado di incidere. Per fortuna non siamo ancora a questo punto, ma la strada che abbiamo imboccato è proprio quella. E il Ttip darebbe un'accelerata in questa direzione.
Anche per questo le trattative per il Ttip stanno sollevando proteste in tutta Europa.
E' vero, le resistenze sono molte: i cittadini stanno prendendo coscienza di questa rischio, ma l'atteggiamento dei manifestanti è ambiguo, si uniscono le proteste di sinistre a quelle della destra nazionalista. Bisogna fare attenzione, perché la difesa delle democrazione non passa per più sovranità. I movimenti nazionalisti cavalcano solo i diasgi della popolazione, dalla paura dell'immigrazione alle paure per l'occupazione.
Come si fa?
I governi devono uscire dalla trappola dei debiti, insomma credo che serva una certa austerità, ma diversa da quella applicata in Europa. Serve un cambiamento di direzione delle politiche sociali che oggi hanno strutture non sono adatte: le pensioni sono troppo generose, mentre mancano le risorse per la formazione e l'istruzione. Abbiamo bisogno di un grande compromesso a livello europeo per incentivare i paesi a usare i soldi in modo migliore. Il caso della Grecia è emblematico: riceve critiche per come usa le sue finanze, ma non è chiaro quali siano le cose giuste da fare. Un tempo l'Europa mediava tra liberismo e democrazia sociale, ora la palla è in mano solo ai primi, senza alcun compromesso.
Renzi si scontra spesso con le politiche europee. Come lo giudica?
Ho casa in Umbria, ma non conosco abbastanza bene la sua politica, di certo vuole essere
il Tony Blair d'Italia solo che il suo governo arriva in un momento in cui non c'è molto spazio di manovra proprio per colpa dell'austerity. Per fare riforme profonde bisogna sempre poter offrire qualcosa di nuovo e allettante, non vedo cosa si possa fare in questo momento.
Ecco un'intervista (e un libro) che dovrebbero essere letti da chiunque voglia comportarsi da cittadino democratico, impegnato a salvare la nostra democrazia dall'ulteriore decadenza nel referendum del prossimo ottobre.
Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2016 (p.d.)
A guardarlo, il libro del professor Settis, mette di buon umore. E non solo perché s'intitola Costituzione!, con quel punto esclamativo che sembra un’esortazione. Poi c’è il sottotitolo: “Perché attuarla è meglio che modificarla”. Dentro i contributi –raccolti e aggiornati –che negli anni sono apparsi sui giornali o pronunciati in eventi pubblici e che parlano di lavoro, salute, scuola, paesaggio: beni comuni e diritti a cui l’operare dello Stato dovrebbe orientarsi. Ma non accade, “perché i governi hanno smontato lo Stato”.
Professore, partiamo dal sottotitolo: attuarla.
Chi insiste nel ripetere che la Costituzione va cambiata sostenendo che la prima parte non si tocca, non dice mai cosa di quella prima parte è realmente attuato. L’articolo 32, sul diritto alla salute, è attuato o no? Da quando, con la riforma del Titolo V, il sistema sanitario è organizzato su base regionale, come risulta da un’inchiesta del Corriere, la vita media degli italiani sta calando. Mi piacerebbe che chi dice di voler cambiare la Carta, s’impegnasse anche ad applicare le molte parti rimaste inattuate.
I riformatori risponderebbero che il nuovo sistema corregge i danni del federalismo, facendo tornare molte materie alla competenza del legislatore nazionale.
Sulla riforma del titolo V del 2001 –di cui mi sono occupato in particolar modo per quanto attiene alla tutela del paesaggio –sono sempre stato critico. Questa parte del ddl Boschi – senza entrare nel merito di com’è fatta, cioè malissimo – ha una qualche ragione d’essere. L’attuazione dell’art. 32 non dipende solo dal federalismo. Il problema sono i continui tagli e l’imposizione di ticket che sembra no portarci lentamente verso un sistema di sanità privata. Mentre gli Usa di Obama cercano di imitare noi, noi cerchiamo di imitare Reagan.
Il premier l’ha messa sul personale: si vota o con lui o contro di lui.
Non bisogna cadere nella trappola del referendum-plebiscito. La vera ragione per cui essere contrari è che la riforma intacca un terzo del testo costituzionale, diminuendo il prestigio del presidente della Repubblica – attraverso un meccanismo di elezione ridicolo – e il peso del Parlamento. Con un Senato, non più eletto dal popolo, ridotto a un dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali. Il principio della sovranità popolare viene indebolito. Non ho alcun dubbio che siamo solo all’inizio di un percorso...
Infatti lei parla di un “assalto alla Carta”, che parte ben prima del governo Renzi.
C’è una convergenza tra il famoso reportdi JP Morgan del 2013 che punta il dito contro le Costituzioni del Sud Europa “troppo influenzate da idee socialiste”e l’agire dei governi, in particolare mi riferisco al documento Letta: Renzi è stato più cauto. È il segno di una mentalità che si è fatta strada nei circoli della finanza internazionale e delle élite politiche europee, penso alla Commissione e alla Banca centrale, che vuole imporre un ultraliberismo che viene spacciato per nuovo. Ma a me risulta che il thatcherismo non sia proprio un modello nuovo.
Quando si occupa della riforma dell’articolo 81 – con l'introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – parla di un precetto seguito dal governo Monti che la Carta nega: la priorità dell’economia sui diritti.
In quel momento anch’io ho sottovalutato l’impatto della riforma. Ma quella è stata una specie di prova generale della maggioranza delle larghe intese: un progetto molto chiaro del presidente Napolitano per modificare la Costituzione senza bisogno di un referendum. Il principio che sta dietro all’articolo 81 è lo stesso che alberga a Taranto, dove il diritto alla salute viene scambiato con il diritto al lavoro. Certi temi non si affrontano perché l’economia ne risente. Ma sono i cittadini a rimetterci. Farò un paragone che può sembrare improprio: perché sul caso Regeni l’Italia ha solo finto di fare la voce grossa? Perché dietro ci sono interessi economici. Questo per dire che i diritti di una persona o della persona vengono schiacciati in nome dell’economia che dovrebbe salvare il Paese, nonostante la lunga stagnazione e la disoccupazione giovanile al 38%.
In più punti del libro sottolinea la sospetta confusione, anche lessicale, della riforma: come se fosse scritta per non essere capita.
Lo sforzo che ho fatto in questo volume è stato articolare il ragionamento sulla riforma, affrontandone via via i temi nello specifico. Perciò ho inserito una corposa appendice con tutte le riforme costituzionali state fatte fino ad oggi, compresa l’ultima. L’articolo 70 – che prima contava 4 parole e ora 434 – è fatto per non essere capito, per confondere le idee e tenere i cittadini lontano dalla Costituzione. Dicono che il bicameralismo produce solo danni: avrebbero fatto miglior figura a cancellare il Senato. Non è vero, tra l’altro, che il bicameralismo è stato abolito. Per quanto riguarda la cosiddetta semplificazione, ci sono almeno 23 fattispecie di leggi che devono passare per il Senato. Ecco perché nella lettera dei costituzionalisti – 11 dei quali presidenti emeriti della Consulta – si dice chiaramente che la riforma non funzionerà. Succederà che si farà ancor più ricorso ai decreti legge del governo, delegittimando ulteriormente il Parlamento. Quindi l’esecutivo – per evitare che il Paese si fermi – diventerà ancora più potente perché, come si usa dire, “non c'è alternativa”.
Renzi ha parlato di “archeologi travestiti da costituzionalisti”. Forse pensava a lei...
Non desidero interloquire a questi livelli. Si deve parlare del merito della riforma, che è ciò che interessa ai cittadini. Sulla rottamazione mi permetto di osservare che Renzi ha fatto il patto del Nazareno con Berlusconi, che non è proprio un giovanotto. Come del resto Verdini. I vecchi vanno bene se sono amici suoi. Ma dal premier voglio sapere, punto per punto, come cambierà la nostra democrazia.
«Una Costituzione che promette di non fare troppi danni solo a patto che una maggioranza specifica governi è una costituzione per il presente, non per il futuro, e quindi è improvvida».
Libertaegiustizia.it, 11 maggio 2016 (m.p.r.)
Il clima che i proponenti della riforma costituzionale, Renzi e Boschi, stanno premeditatamente creando ha davvero ben poco a che fare con la politica costituzionale. La Costituzione è diventata, a questo punto e per loro espresso proposito, un oggetto di contenzioso politico, proprio come un programma elettorale: di costituzionale non vi è nulla. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
E fa davvero stupire il più sprovveduto osservatore leggere le opinioni di stimati articolisti, giornalisti, e intellettuali: tutti loro “bevono” (per usare un verbo che piaceva a Piero Gobetti) l’espediente retorico del plebiscito: non c’è alternativa. La catena di idee è questa: poiché non ci possiamo permettere, come Paese, di avere una crisi di governo, e siccome Renzi la scatenerebbe se perdesse il plebiscito, non abbiamo alternativa se non votare come lui vuole, anche perché non c’è altro politico disponibile in questo momento a parte Renzi: quindi turarsi il naso e votare. La nuova Costituzione è brutta, può essere pericolosa perché non ci tutela da cattive maggioranze, eppure per “spirito di responsabilità” la si deve votare. La responsabilità è invocata per l’oggi e verso l’oggi, non per e verso il paese.
La retorica del catastrofismo ha fatto breccia nel cervello degli intellettuali, che mostrano così la labilità della razionalità e dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che davvero nessuno può dirsi “intellettuale” in una democrazia, perché tutti lo sono poiché indistintamente di tutti sono queste emozioni così poco razionali.
Ma appunto per questo, appunto perché i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che può generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum. Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte “per i demoni non per gli angeli”. E come per il ‘Peter sobrio’, che scrive le regole pensando a se stesso quando potrebbe essere ubriaco, queste carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quando e se tenuto da mani sconsiderate. Una Costituzione che promette di non fare troppi danni solo a patto che una maggioranza specifica governi è una costituzione per il presente, non per il futuro (o per un presente corto rispetto al futuro lungo, secondo cui dovrebbe essere pensata la vita di una Costituzione), e quindi è improvvida. E allora, come si può coerentemente e razionalmente sostenere che, sì, questo nuovo Senato è pasticciato, e forse necessiterà di ritocchi in corso d’opera, e però deve essere approvato? Perché, sapendo che ha questi problemi, non si è provveduto a superarli prima di giungere alla sua approvazione? Non è irrazionale questo comportamento?
La campagna referendaria che ci attende sarà in molta parte all’insegna dell’odio verso i sostenitori del No - l’unico modo per sfuggire alle obiezioni, per non rispondere nel merito, per non dar conto di questa irrazionalità. E’ a questo che ci si deve preparare - a un parlare senza dialogo e senza discussione; a un parlare su binari paralleli per convertire i propri e condannare al rogo mediatico gli altri. Alla fine, quale che sia l’esito, l’Italia sarà una società molto divisa. La Costituzione, la grammatica comune, sarà essa stessa la causa della divisione. Anche in questo vi è una sovrabbondanza di irrazionalità.

Ecco perché la magistratura (il potere giudiziario) ha non solo il diritto, ma il dovere di esprimersi sulle azioni del potere legislativo e di quello esecutivo. Ed ecco anche, in filigrana, perché a Matteo Renzi non è bastato assorbire il legislativo nell'esecutivo (il Parlamento nel Governo) ma vuole papparsi anche il giudiziario, cioè la Magistratura). Micromega, 11 maggio 2016
Proprio per evitare che la promessa costituzionale restasse un libro dei sogni e per impedire che il pendolo della storia tornasse indietro a causa delle pulsioni autoritarie della parte più retriva della classe dirigente e del ritardo culturale delle masse, i padri costituenti concepirono nella seconda parte della Costituzione una complessa architettura istituzionale di impianto antioligarchico basata sulla centralità del Parlamento e sul reciproco bilanciamento dei poteri".Il procuratore di Palermo dissente dal vicepresidente del Csm Legnini: "I magistrati possono partecipare al referendum".
"Se non capisci come funziona il gioco grande... sarai giocato". Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, toga famosa per le sue indagini sulla mafia, è convinto che i magistrati "debbano" esprimersi sul referendum non solo perché "è un nostro diritto", ma per la futura valenza che la riforma comporta.
Il vice presidente del Csm Legnini (e altri con lui) dice che i magistrati non devono impegnarsi nella campagna referendaria perché finirebbero nella contesa politica. Che ne pensa?
Mi permetto di dissentire. Forse a tanti non è sufficientemente chiaro quale sia la reale posta in gioco che travalica di molto la mera contingenza politica. A mio parere siamo dinanzi a uno spartiacque storico tra un prima e un dopo nel modo di essere dello Stato, della società e dello stesso ruolo della magistratura. Nulla è destinato a essere come prima".
Cosa potrebbe cambiare nel futuro rispetto al passato?
A proposito del passato mi consenta di partire da una testimonianza personale. Tanti anni fa ho deciso di lasciare il mio lavoro di dirigente della Banca d'Italia e di entrare in magistratura perché ero innamorato della promessa-scommessa contenuta nella Costituzione del 1948 alla quale ho giurato fedeltà.
E quale sarebbe questa "promessa-scommessa?
Quella scritta nell'articolo 3 di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese". Era uno straordinario programma di lotta alle ingiustizie e un invito a innamorarsi del destino degli altri. La Repubblica si impegnava a porre fine a una secolare storia nazionale che Sciascia e Salvemini avevano definito "di servi e padroni" perché sino ad allora intessuta di disuguaglianze e sopraffazioni che avevano avuto il loro acme nel fascismo e nella disfatta della seconda guerra mondiale".
Sì, però l'attuale riforma costituzionale si occupa solo della seconda parte della Costituzione e lascia intatta la prima sui diritti. Cosa la turba lo stesso?
La seconda parte è strettamente funzionale alla prima.
E perché tutto questo coinvolgerebbe le toghe? Realizzare la promessa non era compito della politica?"All'interno di questo disegno veniva affidato alla magistratura il ruolo strategico di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo.
Un'affermazione forte... Ma di quale vigilanza parla?"I giudici, tra più interpretazioni possibili della legge ordinaria, devono privilegiare quella conforme alla Costituzione e, se ciò non è possibile, devono "processare la legge", cioè sottoporla al vaglio della Consulta. La magistratura italiana quindi è una "magistratura costituzionale" e, in quanto tale, la sua fedeltà alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria. È una rivoluzione copernicana del rapporto tra politica e legge di tale portata che a tutt'oggi non è stata ancora metabolizzata da buona parte della classe politica che continua a lamentare che la magistratura intralcia la governabilità sovrapponendosi alla volontà del Parlamento.
Con la riforma Renzi questo equilibrio potrebbe saltare?
Alcune parti di questa riforma si iscrivono in un trend più complesso. Oggi tutto ciò rischia di restare solo una storia terminale della prima Repubblica, perché quello che Giovanni Falcone chiamava "il gioco grande", si è riavviato su basi completamente nuove. Alla fine del secolo scorso, a seguito di fenomeni di portata storica e mondiale, sono completamente mutati i rapporti di forza sociali macrosistemici che furono alla base del compromesso liberal-democratico trasfuso nella Costituzione del 1948. Lo scioglimento del coatto matrimonio di interessi tra liberismo e democrazia ha messo in libertà gli "animal spirits" del primo che ha individuato nelle Costituzioni post fasciste del centro Europa una camicia di forza di cui liberarsi.
Un attimo: cosa si sarebbe rimesso in moto?
Si è avviato un complesso e sofisticato processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere che si declina a livello sovranazionale e nazionale lungo due direttrici. La prima è quella di sovrapporre i principi cardini del liberismo a quelli costituzionali trasfondendo i primi in trattati internazionali e trasferendoli poi nelle costituzioni nazionali. Esempio tipico è l'articolo 81 della Costituzione che imponendo l'obbligo del pareggio di bilancio impedisce il finanziamento in deficit dello Stato sociale e trasforma i diritti assoluti sanciti nella prima parte della Costituzione in diritti relativi, cioè subordinati a discrezionali politiche di bilancio imposte da organi sovranazionali spesso di tipo informale e privi di legittimazione democratica. La seconda direttrice consiste nel trasferimento dei centri decisionali strategici negli esecutivi nazionali incardinati ad esecutivi sovranazionali, declassando i Parlamenti a organi di ratifica delle decisioni governative e sganciandoli dai territori tramite la selezione del personale parlamentare per cooptazione elitaria grazie a leggi elettorali ad hoc. Il gioco dialettico tra maggioranza- minoranza viene disinnescato grazie a premi di maggioranza tali da condannare le forze di opposizione all'impotenza.
Questo è uno scenario politico. Perché ciò dovrebbe interessare la magistratura?
Se muta la Costituzione, cioè la Supernorma che condiziona tutte le altre, rischia di cambiare di riflesso anche la giurisdizione. La magistratura già oggi è sempre più spesso chiamata a farsi carico della cosiddetta legalità sostenibile, cioè della subordinazione dei diritti alle esigenze dei mercati, e quindi delle forze che governano i mercati. L'articolo 81 della Costituzione ha costituzionalizzato il principio della legalità sostenibile che si avvia a divenire una norma di sistema baricentrica del processo di ricostituzionalizzazione in corso. La conformazione culturale della magistratura al nuovo corso potrà essere agevolata dalla possibilità di minoranze, trasformate artificialmente in maggioranze grazie al combinato disposto dell'Italicum e di alcune delle nuove norme costituzionali, di selezionare i giudici della Consulta e la componente laica del Csm.
Cosa direbbe a un giovane magistrato oggi indeciso se impegnarsi nella campagna referendaria?
Che se non capisci come funziona il gioco grande, sarai giocato. Da amministratore di giustizia rischi di trasformarti inconsapevolmente in amministratore di ingiustizia.
«Il sindaco di Livorno, per fare chiarezza sul collasso della municipalizzata dei rifiuti, decide di portare i libri in tribunale. Poco dopo anche per lui scatta l’avviso di garanzia. Eppure qual è il compito dell’amministratore pubblico se non provare a risolvere i problemi della collettività?».
Lavoce.info, 10 maggio 2016 (m.p.r.)
La pessima prassi di nascondere i “piccoli” problemi…
Vita dura quella dell’amministratore della cosa pubblica. Ne sa qualcosa il sindaco di Livorno, che dopo aver cercato di fare chiarezza sul collasso di un’impresa pubblica (la municipalizzata dei rifiuti dello stesso comune, rovinata da anni di mala gestione) e dopo avere fatto un atto di estremo coraggio (portare i libri in tribunale) è rimasto coinvolto dallo scandalo che lui stesso aveva sollevato.
Vita dura davvero. E vale la pena di ricostruirne i passaggi.
Anno 2014. Dopo settanta anni di indiscussa amministrazione di sinistra (dal Pci al Pd, dal 1944 nessun sindaco livornese ha avuto un’estrazione diversa) viene eletto sindaco Filippo Nogarin, del Movimento 5 Stelle. Forse i livornesi si sono accorti che “qualcosa” non andava? Non lo so. Ma da allora - tra i tanti problemi sul tappeto - il neo sindaco si trova ad affrontare il tema della locale azienda dei rifiuti (Aamps), al 100 per cento del comune. E qui, le cose che non andavano erano tante.
È almeno dal 2010 che il margine operativo dell’impresa non è superiore agli ammortamenti: in cinque anni, oltre 7,3 milioni di perdite a livello di risultato operativo netto (i bilanci sono sul sito del comune). Tanto che nel 2013 una verifica da parte del ministero dell’Economia aveva denunciato una decina di “non conformità”, alcune decisamente gravissime. Come si legge, per esempio, nello stesso bilancio dell’impresa, “non puntuale riscossione della tariffa di igiene Ambientale; squilibrio tendenziale fra costi della produzione e ricavi; eccessivo ricorso all’indebitamento verso istituti bancari”.
Ciononostante, nella primavera 2014 gli amministratori chiudono “tranquillamente” il bilancio del 2013 facendo apparire utili minimi ma superiori allo zero e parlando più in generale di “un risultato positivo (…) che ci fa ben sperare per il futuro”. Decisione coraggiosa, di fronte di una relazione del collegio sindacale (l’organo di controllo) il quale concludeva, con insolita franchezza, che il “progetto di bilancio al 31/12/2013 non è stato redatto con chiarezza e non rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il
risultato economico di Aamps”.
… fin quando i problemi stessi non siano troppo grandi
Dopo qualche settimana si insedia la nuova amministrazione, che deve decidere cosa fare dei problemi che fino allora erano finiti sotto il tappeto. Il risultato è che il bilancio di fine 2014 fa segnare quasi 12 milioni di perdita, con debiti a breve verso le banche saliti da 4 a 12,5 milioni. Una situazione in gran parte dovuta alla necessità di accantonare somme ingenti per crediti vecchi ormai di fatto inesigibili: le tariffe “di igiene ambientale” che le precedenti amministrazioni mantenevano a bilancio quasi si trattasse di crediti di imminente incasso.
Anche questo è stato un bilancio molto sofferto, approvato a fine ottobre (cinque mesi oltre il normale), di nuovo con il parere negativo dei sindaci, che sollevano forti dubbi sulla “continuità aziendale”. A fine 2015 la nuova amministrazione deve quindi portare i libri in tribunale; preferisce tentare altre strade, ma – anche mancandole le risorse – il 25 febbraio 2016 viene presentata domanda di ammissione al concordato preventivo, ciò che il tribunale concede il 5 marzo.
Un concordato con poca concordia
Il concordato ha tante conseguenze. Citiamone due per tutte, giusto per chiarire i risvolti economici e politici della cosa. La prima è che l’impresa può sospendere il pagamento degli interessi alle banche. A cominciare dal Monte dei Paschi, che a quanto pare riceveva da questa fonte quasi un milione all’anno. La seconda conseguenza è che di fatto tutti i contratti dell’azienda vengono ora passati al setaccio, con prospettive tutte da verificare per artigiani e cooperative locali. E lo scontento monta su diversi fronti…
Purtroppo, nel gennaio di quest’anno la società (non ancora in concordato, ma sicuramente in situazione delicatissima) decide di stabilizzare una trentina di precari, assumendoli a tempo indeterminato. Atto opportuno? Sicuramente no. Atto dovuto? Forse. Ora, arriva l’avviso di garanzia, forse legittimo, per carità, ma almeno altrettanto paradossale. Il provvedimento finisce infatti per coinvolgere proprio la persona che questo bubbone lo ha fatto scoppiare. La polemica politica non mi interessa; se però il sindaco avesse continuato a nascondere le magagne sotto il tappeto, ora probabilmente staremmo parlando di altro.
Chiunque abbia un ruolo amministrativo e provi a prendersi responsabilità “vere” è avvisato. Il coraggio - almeno per ora - non paga. Ma, d’altra parte, se fai l’amministratore pubblico senza provare a risolvere i problemi della tua collettività, a cosa servi?
PIl manifesto, 11 maggio 2016
A sentire Renzi nell’ultima direzione Pd, sul referendum costituzionale è guerra totale. Chiama Il partito alle armi, e propone una moratoria. Fino al voto sulla riforma tutti insieme appassionatamente. Il minuto dopo si scateni pure l’inferno, e si vada alla conta. Un principio di affanno? Timore che i guai giudiziari del Pd appannino l’appeal populistico del leader? Sull’attacco alla magistratura, avviato in stile berlusconiano, è sceso un improvviso silenzio. Che non potrà essere rotto perché i magistrati – com’è nel loro pieno diritto – si esprimono sulla riforma.
Ma rimane grande l’arroganza dell’occupante di Palazzo Chigi: un Renzi vale una Costituzione. Se volete Renzi, dovete volere anche la Costituzione di Renzi. È l’offerta speciale di autunno: due al prezzo di uno. La battuta della Boschi su Casa Pound non merita l’onore di una citazione. E l’esangue minoranza Pd perde un’occasione, e si allinea. Lo scambio è con il congresso, cui – prevedibilmente – seguirà la pulizia etnica dei dissenzienti, salvo pochi esponenti più rappresentativi da imbalsamare a scopo di studio come esemplari di una specie estinta.
Per il resto, siamo all’archeologia costituzionale.
Secondo il dizionario, l’archeologia “mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso la scavo e lo studio della varia documentazione”. Cosa troviamo nell’antica civiltà dell’Assemblea Costituente?
Anzitutto, un Governo che si tiene da parte. Nella Costituente i banchi dell’esecutivo rimasero vuoti. De Gasperi prese la parola per la prima volta sulla nuova Costituzione, come componente dell’Assemblea e non come Presidente del consiglio, il 25 marzo del 1947, quasi scusandosi, per sostenere l’inserimento nella carta fondamentale del rapporto tra Stato e Chiesa cattolica. Il 22 dicembre 1947, giorno del voto finale, commentò che i membri del governo avevano con “un certo senso di invidia” osservato il nascere della Costituzione, “mentre noi, dalle esigenze di tutti i giorni, eravamo costretti ad occuparci dei piccoli particolari”. Il 13 dicembre 1947 Scelba, ministro dell’interno, precisò che il governo aveva presentato una proposta di legge elettorale al solo fine di facilitare il lavoro “senza che questo potesse minimamente significare né impegno del Governo di decidere su quel determinato progetto, né menomazione dell’autorità dell’Assemblea Costituente”. Dunque l’esecutivo non sarebbe intervenuto nel merito delle votazioni, rimettendosi in ogni caso all’Aula.
Inoltre, vediamo l’obiettivo di un testo condiviso nel suo complesso, pur nel dissenso su singoli punti anche rilevanti. Ad esempio, sulla Parte II della Costituzione le sinistre ebbero un atteggiamento critico: in specie, gli interventi di Nenni, 10 marzo, e Togliatti, 11 marzo 1947. Ma si pervenne a un consenso unitario per la volontà di dare al paese una Costituzione ampiamente condivisa. Era cruciale, disse Togliatti, trovare un terreno comune abbastanza solido per costruire una Costituzione, andando “al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare”. Tanto che, come affermò il 6 marzo 1947 Basso, se avvalendosi di “esigue maggioranze” qualcuno avesse voluto fare una Costituzione “di parte”, “avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione e il vento disperderà la vostra inutile fatica”. Non è in questione il dissenso, che anzi va lodato, come disse V.E. Orlando il 22 dicembre 1947 “come il mezzo più idoneo per scoprire la verità o per avvicinarci ad essa il più che sia possibile”. Il fine era quello di costruire una Costituzione “proporzionata al corpo sociale” come affermò La Pira l’11 marzo 1947: “sia nella prima parte, quando definisce i rapporti dei singoli con lo Stato, ed i rapporti dei singoli fra di loro, sia nella seconda parte, quando, mediante la. struttura dello Stato, esso dispone in modo che questi diritti abbiano la tutela ed abbiano le garanzie”.
Sulla composizione del Senato l’Assemblea discusse il 24 e 25 settembre, e ancora il 10 ottobre 1947. Furono respinte la composizione mista, e l’elezione di secondo grado. Su questa, il 24 settembre Laconi sottolineò il pericolo di “veder trasformato il Senato in una Camera che rappresenti unicamente, e nel modo più ristretto, degli interessi locali di piccoli gruppi configurati territorialmente e politicamente”. Mentre Nitti si scagliò contro l’elezione di secondo grado, meccanismo inquinato e inquinante, perché “il nostro Paese non ha ancora una struttura politica, dopo tante vicende, che assicuri contro le cattive influenze e contro la corruzione”.
Certo, il breve spazio di un articolo consente solo poche ed emblematiche citazioni. Ma bastano a dirci che i costituenti di oggi avrebbero tutto da imparare dal metodo, e più ampiamente dal modo di pensare, dei costituenti di ieri. Quelli operarono in un paese devastato dalla guerra, e pure vediamo che la civiltà antica batte la moderna, di molte lunghezze. Anche allora i professori erano in campo, e Nenni li ringraziava, il 10 marzo 1947, per aver contribuito “a mettere tutta l’assemblea in condizioni di discutere i problemi costituzionali, e a mettere il paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni “.
Altri tempi. Ma non ci spiace affatto la qualifica di archeologi costituzionali. Sempre che al duo Renzi-Boschi venga riconosciuta quella di tombaroli.
«Il Belpaese. L’incapacità di assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi sono i mali più evidenti della nostra società». Le tre tesi di J.M. Keynes e la loro utilità attuale». Il manifesto, 11 maggio 2016
Che cosa pensare di questo nostro povero paese, in cui soltanto pochi stanno bene? Eccone i tratti somatici: tre milioni di disoccupati; più di dieci di inattivi, di cui quasi due milioni perché “scoraggiati”; due milioni e mezzo di precari; quasi due milioni di lavoratori in nero; una evasione fiscale complessiva tra il 20 e il 30% del Pil; una distribuzione del reddito tale che l’1% della popolazione possiede oltre il 10% della ricchezza complessiva – mentre in sette milioni vivono in povertà.
L’Italia non rispetta dunque due dei “Principȋ fondamentali” della sua Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; né della Costituzione si rispetta l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Oltre i 75.000 euro di reddito, che è oggi il quinto e ultimo scaglione di reddito, l’aliquota IRPEF è invece ferma al 43%.
Che l’incapacità a assicurare la piena occupazione, e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi, siano i mali più evidenti della società economica nella quale viviamo, e mali destinati a aggravarsi se permane l’attuale processo di deflazione, l’aveva già capito J. M. Keynes; che ne aveva suggerito una terapia nelle Note conclusive sulla Filosofia sociale alla quale la Teoria generale potrebbe condurre (1936). Il disegno di Keynes è articolato in tre tesi.
La prima, a sua volta, è articolata in due punti:
È falsa la tesi ancora oggi corrente, secondo la quale l’accumulazione del capitale dipenderebbe dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio dei ricchi, la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolata. La propensione marginale al consumo dei ricchi è minore di quella dei poveri. Dunque una redistribuzione del reddito per via fiscale, dai ricchi ai poveri, farebbe aumentare la propensione media al consumo, dunque la domanda per consumi dunque gli investimenti dunque la domanda effettiva dunque il reddito nazionale dunque l’occupazione.
La seconda tesi di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta reddività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: “l’eutanasia del rentier” e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. L’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra, e oggi i tassi di interesse sono già bassi per effetto della politica monetaria perseguita dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia ciò ha colpito i piccoli redditieri ma non i grandi speculatori; e d’altra parte le banche non trasmettono alle imprese gli effetti di quella politica monetaria, poiché preferiscono il più tranquillo e redditizio acquisto di titoli di stato. Qui sarebbero possibili interventi del Governo, mentre per le grandi istituzioni finanziarie sarebbe necessaria una regolamentazione sovranazionale – va infatti ricordato che sia a livello nazionale sia a livello internazionale queste istituzioni costituiscono una sorta di “senato virtuale”; senato virtuale che è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). L’Italia ne sa qualcosa.
Terza tesi di Keynes, circa il ruolo dello Stato: «Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse. Sembra però improbabile che l’influenza della politica monetaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento: ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena». Nel caso dell’Italia questa tesi dovrebbe esser letta in questo modo: Non privatizzare le industrie pubbliche né sollecitare investimenti esteri, poiché questi non costituiscono ”investimenti” ma semplici trasferimenti di proprietà e dei profitti associati; e sottintendono la vergognosa convinzione che i privati, con qualsiasi passaporto, siano imprenditori migliori di quelli pubblici nazionali: questo è però un problema del nostro ceto dirigente.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Sono invece riforme possibili, ben fondate teoricamente e socialmente desiderabili: a differenza delle “riforme passive” di cui è fatta l’agenda di questo Governo (che tali si potrebbero definire per analogia con le “rivoluzioni passive” di Cuoco e Gramsci). Sotto a tutte le decisioni di politica economica c’è una qualche teoria economica e dunque una qualche filosofia sociale.
Quale sia la teoria economica e la filosofia sociale che ispirano il nostro Governo non è chiaro, tuttavia esso sembra credere ancora alla vecchia teoria neoclassica, fondata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, teoria che per un aumento dell’occupazione indica come necessaria e sufficiente una riduzione del costo del lavoro; e la cui filosofia sociale è quella del “Laissez faire”: motto che risale a un incontro tra il ministro Colbert e un mercante di nome Legendre intorno al 1680: alla domanda di Colbert «Que faut-il faire pour vous aider?», la risposta di Legendre fu «Nous laisser faire!»: “Lasciate fare a noi mercanti!”.

«» Ergo i magistrati, se vogliono, possono dire ciò che vogliono sul referendum sul quale si esprimeranno col voto. La Repubblica, (c.m.c.)
Caro direttore, alcune prese di posizione di magistrati sulla vicenda referendaria hanno dato l’avvio a un serrato dibattito, nel quale sono risuonati echi dell’annosa contrapposizione (c’è chi la chiama guerra) fra politica e magistratura. Per la verità, tranne pochi estemporanei pasdaran, nessuno fra gli esponenti politici intervenuti ha sostenuto che si debba vietare ai giudici di esprimere le proprie idee. Il richiamo, semmai, è alla categoria dell’”opportunità”: non è vietato esprimersi, ma è inopportuno, per esempio, che una corrente della magistratura si schieri apertamente per il “no” al referendum, o, peggio, che aderisca a questo o a quel comitato, ancorché animato da insigni esperti della materia.
L’opportunità sembra essere dunque l’ultima frontiera fra ciò che è consentito e non sarebbe illecito, ma, diciamo così, vivamente sconsigliato. La novità è che, di solito, l’opportunità viene invocata quando si verte in materia di valutazione strettamente politica, o per sottolineare aspetti “eccentrici” della vita privata dell’uomo pubblico, o per rimarcare condotte che potrebbero apparire pregiudizievoli all’immagine di questo o di quel magistrato, di questo o di quel politico.
Niente a che vedere con un referendum decisivo per il nostro destino comune di cittadini italiani: magistrati inclusi. Perché fra qualche mese andremo a votare per cambiare (o conservare) l’attuale Costituzione: ed è dunque sacrosanto che ciascuno esprima, attraverso il voto, il proprio gradimento o il proprio rifiuto. Ora, i magistrati, al pari dei professori, degli avvocati, dei tecnici, insomma, dispongono di un patrimonio di conoscenze specifiche che attribuisce alle loro prospettazioni un valore del tutto particolare.
E’, dunque, “opportuno” che facciano sentire la propria voce? Non sarebbe la prima volta. I giudici italiani furono attivi protagonisti nelle campagne referendarie del 2000 e del 2006, anche allora schierandosi. Affermarono, in passato, idee dissonanti con quelle delle maggioranze di centro-destra. Nessuno ritenne “inopportuni” i loro interventi. Oggi dall’interno della magistratura si levano voci dissonanti con l’attuale maggioranza di centro-sinistra. Perché dovrebbero essere giudicate “inopportune”? La sensazione è che non l’opinione del singolo, non l’adesione di una corrente a un comitato siano in discussione, ma la persistenza di una disallineamento fra politiche legislative e alcuni settori della magistratura.
Se così fosse, l’opportunità sarebbe invocata invano.Non solo e non tanto perché alla fine decideranno i cittadini - e non certo una “corporazione” che conta meno di diecimila individui - ma per il semplice motivo che una perfetta sintonia fra politiche legislative e valutazioni della magistratura non è ipotizzabile, a meno di non voler riesumare l’antica pretesa del giudice “bocca della legge”: utopia giacobina che appartiene a epoche remote. La ragione è ben nota agli addetti ai lavori: giudicare significa necessariamente interpretare le leggi. Non fosse così, non ci sarebbe bisogno di una Corte Costituzionale che è chiamata a pronunciarsi proprio su questo, sulla corrispondenza della legge in concreto ai principi della Carta.
Che fra politica e magistratura esista un fisiologico disallineamento risulta confermato, in Italia, da esempi storici: il governo piemontese postunitario adottò le leggi Pica per la repressione del brigantaggio per vincere le resistenze di una magistratura sì di formazione borbonica, ma “inquinata” dai principi iluministici della rivoluzione napoletana del ’99; il Fascismo fu indotto a istituire tribunali speciali perchè quelli ordinari, “inquinati” dal liberalismo giolittiano, apparivano troppo blandi nella repressione degli avversari politici. E i primi governi post-fascisti, analogamente, si trovarono a dover dialettizzare con una magistratura fortemente “inquinata” dall’eredità della dittatura.
In questo quadro storico e culturale, dunque, non c’è niente di inopportuno nello schierarsi per il “sì” o per il “no”, e la stessa magistratura è divisa, non è quel monolite granitico che alcuni rappresentano. Ma l’invocata categoria dell’opportunità suggerisce altre riflessioni. “Opportunità” è un termine scivoloso, inafferrabile. Delinea una zona grigia disancorata da riferimenti precisi e - direbbero i giuristi - tipizzati. Una valutazione rimessa al discernimento del singolo, e nello stesso tempo potenzialmente soggetta a intervento censorio di organi di vigilanza e controllo.
Il rischio è che, in assenza di contorni nettamente delineati, si tramuti in un’arma da brandire contro le voci dissenzienti in quanto tali. O che il timore di essere giudicati “inopportuni” induca all’autocensura e al silenzio. Si finirebbe così per preferire, a una leale battaglia di idee professate a viso aperto, il mormorio livoroso delle segrete stanze. Si finirebbe per preferire a uomini orgogliosi delle proprie idee il trafficare di soggetti che millantano di non possedere alcuna idea.
Qualche giorno fa il Tribunale di Roma si è aperto a una folla di ragazzi a cui, insieme ad artisti, scrittori, giornalisti, molti magistrati hanno cercato di spiegare il senso profondo di parole abusate come “legalità”. E’ stato un momento di grande apertura. Ai ragazzi si è spiegato quanto sia importante lo spirito critico, quanto sia decisivo lottare contro il pregiudizio. Noi che c’eravamo siamo stati “inopportuni”? Secondo alcuni sì. Ma sicuramente non siamo stati opportunisti.
Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2016 (p.d.)
Un tempo volevano andare tutti in Italia. Ora il sogno, qui, è Raqqa. Cinque anni, e in Siria, 500mila morti dopo, la Tunisia è il solo paese della primavera araba in cui la rivoluzione non è deragliata. Gli islamisti di Ennahda sono al governo insieme ai laici di Nidaa Tounes, e nonostante un vicino difficile come la Libia, nonostante l’attentato al museo del Bardo e poi quello di Sousse, un anno fa, con cui i jihadisti hanno colpito il turismo, la prima fonte di reddito del paese, crollato dell’85 percento, ogni angolo qui ha ancora intatto tutto il suo fascino. La Tunisia ti ricorda molto l’Europa, è vivace, libera: è tutta un caffè all'aperto, i tavolini affollati fino a tardi. Ed è vero. Ma perché sono tutti disoccupati, qui.
Bilal ha 31 anni e una laurea in ingegneria, ma fa la guida ai turisti. E ha deciso di unirsi ai 6mila tunisini che si sono arruolati nell’ISIS. “Perché in apparenza io e te siamo simili, la vita, qui, è una vita normale. Ma osservami bene: non ho che una copia cinese di quello che hai tu. I jeans, il giubbotto di pelle... Tutto finto. Non è pelle, è plastica. Sembriamo simili, ma io torno a casa stasera, a un’ora da qui, in un posto che non è la Tunisia che conosci tu, la Tunisia è una fogna in cui non ho l’elettricità, non ho l’acqua calda, ho solo un materasso, per terra e delle coperte, e perché neppure ho un lavoro: è finto anche questo: e non solo perché sono un ingegnere, ma perché con quello che guadagno mi pago a stento i mezzi per venire qui. Torno a casa, la sera, e mi sento uno zero”. La Tunisia, per quelli come Bilal, non è stabile: è immobile. “Non ho nessuna prospettiva. Nel resto del mondo sei giovane e sei pieno di energie, di progetti. Avviare un’impresa, iscriverti a un dottorato. Cambiare città. O anche solo un viaggio. Ma io? Posso solo tornare qui, domani, e vivere un altro giorno identico a questo”.
Eppure Bilal è uno di quelli che ha creduto nella rivoluzione. Uno di quelli che alle manifestazioni, cinque anni fa, è stato in prima fila. “Ma abbiamo sbagliato. Abbiamo pensato che il nemico fosse Ben Ali. E invece avevamo contro tutto il mondo, perché quando una manciata di miliardari possiede la stessa ricchezza di metà della popolazione del pianeta, non è questione di Ben Ali e dei conti svizzeri di sua moglie:è questione che tutti voi dovete rinunciare a qualcosa. Ma non l’avevamo capito. Non avevamo capito che la battaglia non si poteva vincere solo in Tunisia, perché non riguardava solo la Tunisia”. Uno dei suoi amici è già in Siria. E un altro, in Siria, è già morto. Non hai paura? “No, sono già un po' morto”.
Non è difficile, qui, incontrare ragazzi così. Né raro. Non però dove è istintivo cercarli: non a Kairouan, per esempio, quarto centro sacro per l’Islam dopo la Mecca, la Medina e Gerusalemme. Nel 2012, 10mila salafiti hanno marciato per le sue strade chiedendo l’introduzione della sharia: ma Kairouan rimane una piccola, incantevole città di luce e colori chiari, gli archi in pietra, le finestre blu. Le lanterne in ferro battuto. A Kairouan si viene a bere l’acqua che si dice arrivi dalla stessa fonte della Mecca, ma soprattutto, si viene a comprare tappeti. Gli adepti dell’ISIS non si trovano qui, a meditare sul Corano, ma nelle sterminate, improvvisate periferie di Tunisi come Ettadhamen, in mezzo a quel 90 percento di tunisini che possiede solo il 20 percento della ricchezza del paese – in mezzo a distese di case scalcinate e nient’altro, costruite così, una dopo l'altra, senza un progetto, senza infrastrutture, spazi senza luoghi, polvere d’estate e fango d’i nverno. “Tranquilla, è una zona sicura: perché non c’è niente da rubare”, mi hanno detto al Café De Paris, in centro. L’ecstasy locale si chiama Equanil: è un antidepressivo. Se hai vent’anni e sei tunisino, non ti fai per sballarti, ma per dimenticare.
La scintilla, in questi mesi, è Kasserine, al confine con l’Algeria. Uno di quei posti in cui ti sbagli, e scambi il mercato per una discarica: a Kasserine non si vendono neppure cose cinesi, solo cose usate, dove le madri vendono i pupazzi dei figli appena crescono. La Tunisia non è Europa, qui, è Africa. Il 21 gennaio, all’ennesima domanda di lavoro respinta, Ridha Yahyaoui, 28 anni, si è arrampicato su un traliccio dell’elettricità e si è ucciso. Si è fulminato. Da allora cammini, a Kasserine, a Sfax, a Sousse, ovunque, nella medina di Tunisi, tra i turisti, e all’improvviso, vedi un ragazzo in bilico su un cornicione: e tutti, sotto, che cercano di fermarlo. Se hai vent’anni e sei tunisino, o muori jihadista o muori suicida. “Non è una questione di povertà, però, ma più esattamente, di frustrazione”, dice Kais Zriba, 24 anni, giornalista di Inkifada, la testata che in queste ore sta scavando nei Panama Papers. “In Tunisia, e non solo, tutto viene ridotto a uno scontro tra laici e islamisti. Ma lo scontro è sociale e generazionale. Rispetto a cinque anni fa, certo, abbiamo molta più libertà: ma è solo libertà di espressione, perché non abbiamo alcun potere. Siamo tagliati fuori dal governo. Dalle decisioni. In realtà qui lo scontro è tra inclusi e esclusi”.
In Tunisia Beji Caid Essebsi, il presidente, ha 90 anni, metà della popolazione meno di trenta. Ed è vero che Ben Ali è stato spedito in esilio in Arabia Saudita, ma il processo per i 335 morti dei 28 giorni della rivoluzione si è concluso con una semplice condanna per omicidio colposo dei vertici delle forze di sicurezza, tutti già scarcerati.
Ora poi, è stata approvata la cosiddetta legge di riconciliazione economica: un’amnistia generale per tutti i responsabili di reati finanziari. “Che invece è la vera emergenza”, dice Kais Zriba, “perché qui tutto funziona attraverso mazzette, clientele, parentele: e quindi si arricchiscono solo i già ricchi. La crescita non è crescita del benessere, ma delle disuguaglianze. Il problema vero, in Tunisia, non è che laici e islamisti sono incompatibili, al contrario: è che sono alleati. Sono uguali”.
Secondo le stime, la metà dei miliziani dell’ISIS, in Libia, arriva dalla Tunisia. “Se volete sconfiggere l’ISIS, ha più senso investire in Tunisia che bombardare la Libia”. Dei tanti tunisini che vogliono unirsi all’ISIS, quello che più colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento all’Islam. Alla religione. L’ISIS, qui, è quello che per altri è la Germania: un’opportunità di lavoro. La Tunisia, colonia francese, rimane un paese sostanzialmente laico. “Siamo finiti nel mirino dell’ISIS proprio perché siamo la prova che l’Islam è un’altra cosa”, dice Imen Ben-Mohamed, 31 anni, deputata di an-Nahda. Un partito di “demo-musulmani”, nella sua definizione, “come un tempo, da voi, i democristiani. Siamo stati protagonisti della battaglia per la democrazia”, dice – suo padre è un rifugiato: era un oppositore di Ben Ali, e fu costretto all’esilio. I primi di marzo, jihadisti infiltrati dalla Libia hanno assaltato la città di frontiera di Ben Guerdane, probabilmente più per crearsi una sorta di retrovia che per fondare una nuova provincia del califfato. Almeno per ora. Negli scontri sono morti 12 poliziotti, 7 civili e 43 jihadisti. “Ma sono stati i tunisini stessi, non solo i militari, a combattere e respingerli. Per questo è importante investire nella Tunisia: perché possiamo essere di esempio”.
Fino a oggi, il sostegno internazionale è stato più morale che materiale: il premio Nobel alla società civile, al cosiddetto Quartetto, i sindacati che hanno mediato tra laici e islamisti. A ottobre l’Unione Europea, primo partner commercialedella Tunisia, ha avviato negoziati per un'area di libero scambio. Ma sono negoziati che durano anni: l'unica misura concreta, davanti all'ondata di suicidi, è stata l’esenzione dal dazio per l'importazione di altre 35mila tonnellate di olio d'oliva. In realtà, più per rimediare al calo della produzione italiana, che per aiutare la Tunisia. “Non è che non ci siano progetti e risorse”, dice Damiano Duchemin, cooperante del GVC di Bologna. “Solo che magari l’obiettivo di fondo è più contrastare il terrorismo e l’immigrazione. La Tunisia non interessa in sé”. E in effetti anche i reportage, i libri, non sono molti, la Tunisia non fa notizia. Non ha il petrolio: è la sua fortuna e la sua condanna.
Chiedi cosa è cambiato, rispetto a cinque anni fa, e nessuno ha dubbi: la libertà, ti rispondono. “Siamo liberi di dire che è una vita del cazzo”. Sidi Bouzid è a 200 chilometri da Tunisi, ed è la città in cui tutto è iniziato. La città in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, 26 anni, siè cosparso di benzina e ucciso dopo la confisca del carretto di frutta e verdura con cui tirava a campare. Lavorava da quando aveva 10 anni. Il suo suicidio ha travolto Ben Ali e l’intero mondo arabo, e oggi la strada principale, qui, ha il suo nome. Ma è la sola differenza. “Si pensa che sia tutta colpa degli attentati, della crisi del turismo. E io per primo sono stato licenziato: ma per me non è cambiato niente”, mi dice un ragazzo che chiamerò Bilal: perché come l’altro Bilal, ha deciso di andare in Siria. Lavorava a Djerba. Come cameriere. Ma il turismo, qui, anche a pieno regime, è low cost, pacchetti tutto incluso, “e i profitti vanno ai proprietari dei resort, agli operatori internazionali e i loro soci locali. Ti pagano 400 dinari al mese per dieci ore al giorno sette giorni su sette, 200 euro, e solo per la stagione. Sei un servo. Della Tunisia, della tua vita, conoscono solo l’aeroporto”. E non è solo il turismo, in realtà. Tutta l’economia, qui, è a bassa qualifica e basso salario, al servizio di altri paesi. Assemblaggio, call center. Chi non studia ha il doppio di probabilità di trovare lavoro rispetto a chi studia.
Poi cammini sulla sabbia, lungo il mare di Zarzis, e trovi scarpe. Scarpe, e relitti di barca. Mohsen Lihidheb, il postino, ha percorso questa costa in bici per vent’anni. Su, fino a Djerba, e ritorno, ogni giorno. 150 chilometri. Ora la sua casa è il Museo della Memoria del Mare. Scaffali di spazzole, accendini, fotografie, documenti. Una cassetta di bottiglie con dentro messaggi, torce, lampade, confezioni di cioccolato, di medicine, banconote della Libia, del Senegal, del Mali. E poi scarpe. Decine e decine di scarpe, la suola sottile, tenuta insieme con lo spago. Non c'è una targhetta, una data, una descrizione: niente. D’altra parte, cosa si potrebbe scriverci? Sono vite di cui non è rimasto neppure un numero. Mohsen ti dice solo: le ossa le ho sepolte.
Zarzis non è uno dei nomi sui giornali di questi giorni. Lesbos, Calais, Idomeni. Keleti. I punti di partenza e approdo cambiano di settimana in settimana. “E tutti pensano che al fondo, il problema sia la Siria. Ma non si fugge solo dalla guerra, si fugge anche dal resto”, dice Mohsen –dal mondo nascosto tra le statistiche, o forse, dalle statistiche: in Tunisia l’economia ha un tasso di crescita del 3,5 percento, ma la disoccupazione è raddoppiata. “I giornalisti vengono e ripartono. La notizia è altrove. Promettono tutti di scrivere, fare, cambiare, ma poi spariscono. La Tunisia non interessa". A Zarzis tornano solo le scarpe.

«». La Repubblica, 8 maggio 2016 (c.m.c.)
NEL GIORNO della festa della mamma è bene ricordare che le mamme italiane sono insieme tra le più denigrate per quanto succede ai loro figli (dall’accusa di mammismo che impedirebbe ai figli di diventare autonomi, a quella di narcisismo se appena distolgono lo sguardo da quello che viene loro assegnato come compito principale, se non esclusivo) e le meno sostenute nella vita quotidiana.
Il Rapporto di Save the Children reso pubblico qualche giorno fa — “Le Equilibriste, da scommessa a investimento: maternità in Italia” — riprende e allarga quanto era già emerso dal rapporto “Come cambia la vita delle donne”, una delle ultime fatiche curate per l’Istat da Linda Laura Sabbadini e dalle sue collaboratrici.
In Italia ci sono oltre 4 milioni e mezzo di donne che vivono con figli dagli 0 agli undici anni, ovvero con un’età che richiede ancora una forte intensità di cura e presenza. Sono le donne che fanno più fatica a stare nel mercato del lavoro proprio per il carico di lavoro non pagato e più in generale delle responsabilità di cura e supervisione genitoriale loro attribuite in modo quasi esclusivo. In tutte le fasce di età, e soprattutto tra i 30 e i 49 anni, infatti, il tasso di occupazione delle donne che vivono da sole è simile a quello degli uomini. Ma a differenza di quanto avviene ormai da decenni negli altri Paesi sviluppati, già il vivere in coppia provoca una diminuzione.
La diminuzione, quindi la distanza rispetto ad un tasso di occupazione maschile che non è certo tra i più alti in Europa e nell’Ocse diviene molto marcata quando si tratta di madri: 35 punti di differenza per le 25-29enni, 34 punti per le 30-34enni, in aumento per ogni figlio aggiuntivo.Simmetricamente, cresce il distacco dagli uomini, dai padri, nel carico di lavoro non pagato. Nelle coppie le donne fanno il 76,5% di tutto il lavoro famigliare, una percentuale di poco inferiore a quella rilevata nel 2003, senza molte differenze tra chi ha e chi non ha figli. Ciò significa che, a fronte dell’aumento del lavoro famigliare dovuto alla presenza di figli, una volta divenuti padri gli uomini, nel migliore dei casi, ne fanno qualche mezzora in più, ma non modificano la propria quota complessiva.
Ciò spiega il divergente comportamento di madri e padri nel mercato del lavoro, con conseguenze su redditi personali, carriere, contributi pensionistici e futuro ammontare delle pensioni, asimmetrie nei rischi economici e organizzativi in caso di rottura di coppia. Le madri separate e divorziate, infatti, da un lato sono a rischio di caduta in povertà, dall’altro devono essere disponibili a stare (o rientrare) nel mercato del lavoro in maggior misura di quelle ancora in coppia, nonostante debbano per lo più far fronte da sole, senza alcun contributo del padre, anche al lavoro familiare legato alla presenza dei figli.
Il tutto in una situazione in cui l’offerta di servizi per l’infanzia e di scuole a tempo pieno, già non generosissima e fortemente diseguale sul territorio nazionale, si è ridotta e/o è diventata più costosa, rendendone difficile l’accesso ai ceti più modesti e in cui la precarietà del lavoro rende particolarmente vulnerabili le madri.Si spiega così come mai l’Italia sia solo al 111 posto su 145 Paesi nel Rapporto globale sulla disparità di genere per quanto riguarda l’accesso al lavoro remunerato.
Naturalmente esistono forti differenze e diseguaglianze tra madri: tra chi ha una istruzione elevata (laurea) e chi una bassa (scuola dell’obbligo), tra chi vive nel Centro-Nord e chi vive nel Mezzogiorno. Secondo il Rapporto di Save the Children, tenendo conto di indicatori diversi (tassi di occupazione, servizi, divisione del lavoro famigliare), la regione più “amichevole verso le mamme” risulta essere il Trentino Alto Adige, seguito nell’ordine da Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Piemonte e poi dalle altre regioni del nord, che mostrano in generale condizioni più favorevoli alla maternità. In fondo alla classifica è la Calabria, preceduta di poco da altre regioni del Mezzogiorno come Puglia (16), Basilicata (17), Sicilia (18) e Campania (19).
Anche rispetto alla maternità, quindi, le disuguaglianze sociali e territoriali disegnano un’Italia in cui le chance di vita e i gradi di libertà nell’utilizzarle sono più accentuate di quanto non sarebbe accettabile in un Paese democratico. Non deve perciò stupire che oggi siano proprio le regioni meridionali, che tradizionalmente avevano tassi di fecondità più alti di quelli del Centro-Nord, a contribuire in maggior misura al bassissimo tasso di fecondità rilevato nel nostro Paese.
Per festeggiare davvero le mamme, più che una festa simbolica e zuccherosa una volta all’anno, occorrerebbe ampliare i loro gradi di libertà e non costringere le donne, specie quelle più svantaggiate, nella alternativa maternità o lavoro di sapore ottocentesco.

». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)
L’articolo 9 della Costituzione afferma che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, dove il paesaggio e la storia rimandano a quegli esiti significativi e olistici dell’esistenza carichi più di significato che di qualità estetica. La cultura non si limita al bello.
Diffusa è l’idea che la cultura equivalga al bello e di qui il pensiero, ormai troppo fatto, della bellezza che salverà il mondo. Ma l’uomo si salva solo coltivando varie aiuole dell’orto, non una sola. Se ritorniamo ai Greci, troviamo una idea di cultura ampia che dovremmo fare nostra, quella del kalokagathos, cioè del bello unito al buono. Essa comprende corpi e spiriti eccellenti, istituzioni, costumi e leggi da preferire, le cose che rifulgono, insomma tutto ciò che s’impone nel continuum tra “significato” storico e “rappresentazione” estetica. Quanto lontano da questa idea di cultura è l’uomo d’oggi, unilateralmente disciplinare e maniacalmente economico, la cui umanità a brandelli invoca una rilegatura.
Da un punto di vista filosofico, il bene è il campo in cui fioriscono le idee morali e politiche che servono a governare la vita individuale, di gruppo e di comunità. I valori primi possono essere considerati singolarmente – pace, libertà, felicità, giustizia, amore, creatività – e nel loro confluire in quei paesaggi e sistemi d’idee che sono le civiltà. Riguardano temi sui quali i pensatori s’interrogano da millenni e che portano ogni giorno ciascuno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, alla fortuna o alla rovina. Ecco perché è importante imparare, fin sui banchi di scuola, come essere curiosi di sé ma anche di amici, rivali e nemici, perché frammenti di verità si trovano anche nelle tasche altrui e i frammenti nella nostra tasca non bastano.
Esagerare un fine primo come la libertà oppure l’uguaglianza porta a trasformare un bene in un male, perché nell’uomo sempre fermentano più valori primi, tutti ugualmente necessari, che solo il buon senso consente in una qualche misura di combinare, anche quando contrastano fra loro. I disastri del ’900 provengono da esagerazioni sia dell’Illuminismo che del Romanticismo, entrambi in origine movimenti liberatori. Esiste un terreno comune umano di fini primi che riguarda alcuni valori morali accettati da gran parte degli uomini, non sempre e ovunque ma in grande parte dei tempi e dei luoghi. Si tratta di valori condivisi senza i quali le società non comunicherebbero, non si comprenderebbero e non si riprodurrebbero.
Terreno comune è distinguere il bene dal male, il vero dal falso e il giusto dall’ingiusto; perseguire bisogni basilari come cibo, riparo, sicurezza e appartenenza a un gruppo; raggiungere un minimo di libertà, felicità e sviluppo delle proprie potenzialità; concepire gli individui in relazione al loro ambiente maturale e culturale, etc. Si tratta dei limitati valori primi che sono dati, accettati, validi in sé e parte del mondo oggettivo; distinti da usanze e inclinazioni inventate e adottate che la storia mostra come numerosissime e diversissime.
Secondo una durevole e prevalente tradizione di pensiero gli uomini disporrebbero della conoscenza naturale innata di un certo numero di verità universali ed eterne quali l’esistenza di Dio, la conoscenza del bene e del male e del giusto e dell’ingiusto, l’obbligo di dire il vero, di restituire i prestiti, di mantenere le promesse e di seguire alcuni o tutti i comandamenti della Bibbia. Al contrario, secondo pensatori come Epicuro, Lucrezio, Vico, Herder, Hume e Marx, le suddette verità si sarebbero formate tramite evoluzione e sviluppo culturale, sarebbero cioè il risultato di effetti cumulativi, privi tuttavia di struttura e di scopo. Per questi pensatori la “natura umana” sarebbe si comune ma non fissa. È un atteggiamento che porta al pluralismo dei valori, ma non al relativismo, per il quale i fini primi sono soggettivi, arbitrari e infiniti, idea che i pluralisti rifiutano.
È comune pensare che i beni contrastino con i mali e si armonizzino invece tra loro; ma è una idea sbagliata. È doloroso prendere coscienza che i beni possano contrastare anche fra di loro. Ciò spiega perché sia così difficile agire moralmente e politicamente per il bene delle persone e comune. Quando si tratta di beni che configgono, la scelta si fa drammatica. Infatti è impossibile essere perfettamente liberi e perfettamente uguali, perfettamente giusti e perfettamente compassionevoli, perfettamente pianificati e perfettamente spontanei, perfettamente consapevoli e perfettamente felici; altrettanto impossibile è essere a un tempo lucidi e stupefatti, calmi e furiosi, leali e neutrali. Risulta pertanto incoerente qualsiasi idea di una armonia perfetta tra tutti i fini primi.
Ne consegue che l’attuazione totale e contemporanea di valori può rivelarsi impossibile quando sono tra loro incompatibili. Necessità e bisogni antinomici possono essere bilanciati ricorrendo, più che a una magica sintesi dialettica, a imperfette e provvisorie composizioni: ad esempio concedendo una dose di libertà e una dose di uguaglianza, in modo che nessuno dei due fini giunga a schiacciare l’altro. Altre volte un tale compromesso si rivela impossibile, come quando una comunità si propone di massimizzare un valore ritenuto preminente, per cui non dà spazio agli altri valori.
Ogni scelta comporta la perdita delle alternative scartate e nel caso di valori incompatibili, il sacrificio di un fine a favore di un altro, così che la commedia umana si converte sovente in un doloroso dilemma. Neppure è possibile gerarchizzare i valori primi, distinguere i più importanti dai meno importanti, perché manca un criterio valido per misurarli. Ne consegue che i valori primi sono incommensurabili e quindi tutti ugualmente necessari.
Sono da ritenere validi non solamente i fini che prediligiamo ma anche quelli che scartiamo o addirittura detestiamo. Se ci dotiamo dell’empatia che Vico e Herder insegnano, capiamo come, in condizioni storiche particolari, sia stato possibile scegliere e perseguire in maniera coerente e comprensibile scopi che non sentiamo più come nostri. Grazie all’immaginazione è dato intravedere cosa abbia significato essere un servo greco, un soldato romano, un martire cristiano, un giacobino, un ayatollah o un hippy americano: tutti modi di vivere che hanno avuto senso in altri tempi e luoghi. Penetriamo e comprendiamo gli eroi di Omero e Wagner, ma non condividiamo più i valori di Achille e Sigfrido, pur rientrando Iliade e Tetralogia nel nostro canone culturale. I missionari hanno potuto convertire gli Isolani delle Trobriand e i Pigmei dell’Africa, perché si appellavano a valori che anche gli altri intendevano.
Il fatto che tutto il mondo desideri visitare l’Italia rivela anch’esso l’esistenza di un terreno comune umano, cioè la possibilità di apprezzare una serie di civiltà anche se si appartiene a un diversissimo paesaggio di idee.I valori di una civiltà possono confliggere con i nostri eppure rientrare in quel genere di fini che immaginiamo perseguibili senza che smettano di apparirci umani. Sono fioriture che appartengono ad aiuole diverse e comprendere le aiuole lontane è diventato compito affrontabile solo a partire dello storicismo, che la cultura europea ha inventato nel XVIII secolo; una conquista che ancora non ha raggiunto numerose parti del globo, come ogni giorno è dato di constatare.
Capire quanto non condividiamo è divenuta una necessità imprescindibile anche nel nostro Paese. Dobbiamo preservare il nostro centro di gravità culturale e farlo conoscere e rispettare a chi viene da fuori, ma possiamo al tempo stesso esercitarci in idee e gusti di altri continenti. Capire falsi miti, fanatismi e estremismi non esclude che si possa combattere per difendere la forma di vita che preferiamo dal nemico che si proponesse di distruggerla. Valori comuni ed empatie fungono da ponte tra le culture nell’andirivieni ininterrotto tra limitati valori primi che uniscono e innumerevoli usanze che dividono.
Chi crede in un sistema unico e finalizzato di valori inalterabili, universali ed eterni, più che nel terreno comune umano che empiricamente è dato riscontrare, tende all’intolleranza verso quanto ritiene falso, perverso e deviato. È così accaduto che perfino l’illuminista Voltaire abbia dato del barbaro a Shakespeare. Lo storicismo, figlio del Romanticismo, impedisce ormai a noi simili pregiudizi, per cui possiamo essere legati al nostro paese e al tempo stesso sentirci parti di un unico Pianeta.
Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)
Quando si esalta un tiranno, magari per farci ricchi e convenienti affari, prima o poi va a finire male. Anzi malissimo. E’ capitato a Matteo Renzi con il generale presidente Al Sisi, ora capita a tutti i leader europei con il Sultano atlantico Erdogan che sta trasformando la Turchia in una buia prigione. Nascondendo il fatto che il presidente golpista egiziano aveva le mani sporche di sangue, il presidente del Consiglio italiano ha sdoganato Al Sisi per primo, la ha riempito di elogi pubblicamente, ha intessuto con lui una rapporto preferenziale perfino amicale.
Ora non sa che dire di fronte al fatto che quel regime depista e nasconde le prove sul delitto di Stato di Giulio Regeni, fa dire che quella del Cairo è su questo una «collaborazione inadeguata», mentre in Egitto infuriano repressione, sparizioni violente, arresti e condanne a morte. Tanto che è stato incarcerato anche Ahmed Abdallah, attivista dei diritti umani e consulente della famiglia Regeni.
Sul fronte turco, hai voglia a prendersela con le malefatte «ottomane» del presidente turco. Siamo noi che andiamo alla sua corte a prendere lezioni di umanità, democrazia e rispetto delle libertà. Così ha fatto Merkel che è corsa ad Ankara dopo avere accettato la messa sotto accusa in Germania del comico Jan Böhmermann che si era «permesso» una canzoncina satirica su Erdogan. Al quale abbiamo prima attribuito il compito, tramite la coalizione degli «Amici della Siria» di destabilizzare la Siria coinvolgendola direttamente nel sostegno in armi e addestramento a tutta la galassia degli insorti anche jihadisti, compresi Al Nusra (Al Qaeda) e Isis.
Operazione riuscita a metà – non completamente come in Libia – ma con la devastazione di un altro Stato in Medio Oriente, con costi umani e sociali da apocalisse. Poi, di fronte alla tragedia di decine di milioni di profughi in fuga da quella guerra che anche noi abbiamo attivato, riconosciamo sempre ad Erdogan con tanto di elargizione di ben 6 miliardi, il ruolo di salvatore dell’Europa perché si trasformerà per noi con abile maquillage in «posto sicuro» dove, a nostre spese, continuerà ad accogliere la marea di disperati. Tutto, insomma, purché non arrivino a casa nostra.
Nell’Unione europea che nessuno riconosce più e che, invece che madre – secondo l’auspicio di papa Francesco – sembra, attorno ad una moneta, una camera di tortura disseminata di ostacoli e muri. La vicenda è smaccatamente sotto gli occhi di tutti, al punto che emerge perfino la coda di paglia di Matteo Renzi che dichiara, tra un tweet e l’altro, di essere preoccupato per la bontà dell’accordo della Ue con Ankara. Ma quando l’ha sottoscritto ignorava forse quello che tutti sapevano?
E il Sultano turco che fa? A ventiquattrore dalla defenestrazione del «troppo filo-occidentale» premier Davutoglu, punta ad una nuova Costituzione più presidenziale e autoritaria. E, nello stesso giorno in cui i due giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuryet, il direttore Cam Dündar e il caporedattore Erdem Gül, vengono condannati a 5 anni di galera per violazione del segreto di Stato per avere documentato e denunciato traffici di armi con i jihadisti in Siria; e nelle stesse ore in cui davanti al tribunale di Istanbul proprio Dündar subisce un attentato a mano armata perché «traditore», ecco che Erdogan dichiara con durezza all’Europa che lui non cambia le leggi antiterrorismo. Le stesse che il Consiglio d’Europa accusa di essere lo strumento per «reprimere le attività della società civile, asfissiare il legittimo confronto politico e il giornalismo investigativo».
Perfino gli Stati uniti denunciano gli stessi argomenti . Mentre aumentano i processi per «insulto al presidente» e la Turchia ha il triste primato del maggior numero di giornalisti in carcere. E mentre i leader della sinistra kurda sono minacciati di morte e le città kurde sono investite da una violenza repressiva senza pari, bombardate e sotto coprifuoco, che qui da noi non fa nemmeno notizia.
Il grande scrittore Orhan Pamuk ha lanciato in questi giorni un doloroso quanto impotente grido d’allarme: «Salvate Istanbul, viviamo nella paura». Il fatto è che il Sultano, islamista moderato, è anche il baluardo sud dell’Alleanza atlantica che tace su ogni repressione dei diritti civili in Turchia. Se la Turchia fosse investita da una legittima rivolta democratica, L’Unione europea sarebbe persa.
Così Erdogan tiene in scacco le cancellerie del Vecchio continente. Si avvia infatti a gestire per noi in appalto in nuovi universi concentrazionari (cioè campi di concentramento) la disperazione dei profughi. Vale a dire la vergognosa arroganza della fortezza Europa. Davvero non c’è più bisogno che Ankara entri nell’Unione. È al nostro «livello», l’integrazione è realizzata: i veri turchi siamo noi.
Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)
La bella e partecipata manifestazione della coalizione Stop-Ttip di ieri a Roma è stata anzitutto un bel momento di democrazia in una vicenda, quella delle trattative sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, avvolte finora in un alone di riservatezza e opacità al dibattito pubblico. Se i documenti resi noti da Greenpeace Olanda – 13 dei 17 capitoli di testo «consolidato» – hanno contribuito a far circolare l’informazione su una trattativa che riguarda un’amplissima serie di materie rilevanti per l’economia, l’ambiente e la società, la manifestazione conclusa a piazza San Giovanni per opporsi al Ttip è, anzitutto, una richiesta di maggiore democrazia e trasparenza.
E, dunque, il contrario di quello che si capisce dai documenti che rappresentano lo stato della trattativa com’era a fine marzo. Su alcune materie come quelle ambientali, i negoziatori americani fanno più volte riferimento alla necessità di avere un parere dalle associazioni industriali, come quelle della chimica, tra le più interessate ad allentare le norme europee che sono ben più restrittive di quelle statunitensi. L’interesse dell’industria prima di tutto.
Il regolamento Reach, che come Greenpeace avremmo voluto ancora più severo, è stato più volte additato da parte americana come un inutile intralcio al commercio: in Europa le sostanze chimiche vietate sono oltre mille, negli Usa una manciata. L’obbligo di etichettatura per prodotti contenenti Ogm com’è noto è un altro esempio. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha messo da tempo in evidenza come il Ttip sia un modo per scavalcare le tutele europee per tutelare invece gli interessi di alcuni settori specifici dell’economia statunitense. L’agrochimica certamente è tra queste.
Il Presidente francese Hollande e il Cancelliere austriaco Faymann hanno rotto il fronte attaccando il Ttip. Oggi il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina ha ribadito che non si abbasseranno mai le tutele in campo agroalimentare. Sarebbe carino che oltre a queste rassicurazioni se ne trovasse traccia anche nei testi, mentre in 248 pagine, ad esempio, non si trova mai citato il principio di precauzione, principio basilare nella normativa europea.
Come Greenpeace non siamo contrari agli accordi commerciali, purché siano garantite certe condizioni. Se, ad esempio, si mettesse insieme la parte migliore della normativa statunitense – ad esempio sulle emissioni di mercurio dalle centrali a carbone, sulle emissioni delle auto, sui composti chimici nei giocattoli dei bambini – assieme alla parte migliore delle norme europee, il quadro del dibattito potrebbe cambiare. I testi del trattato mostrano, al contrario, che la spinta statunitense è tutta dalla parte opposta ed è molto determinata.
Ma, proprio in questi giorni, Hillary Clinton in corsa per le presidenziali, rispondendo per iscritto a un gruppo di sindacati e associazioni ambientaliste ha ribadito che «mi oppongo all’accordo sul Ttp (quello trans-pacifico, ndr), sia prima che dopo le elezioni». L’intero approccio degli Stati uniti agli accordi commerciali va ripensato, aggiunge la Clinton.
Credo che dovremmo dire la stessa cosa noi dal versante europeo. E, certo, concludere trattati commerciali con gli Usa mentre i principali candidati alla prossima presidenza li attaccano appare un tantino bizzarro.
Sarebbe ora di fermarsi e consentire un dibattito più ampio e partecipato su che tipo di regole vogliamo avere negli scambi commerciali con gli Usa, e che tipo di futuro desideriamo per la nostra società e la nostra economia. Ma non sembra che partecipazione e democrazia siano in cima alle priorità di chi spinge, come il governo Renzi, per il Ttip.
«Per lo storico Geert Mak l’assetto istituzionale attuale non sopravviverà oltre il prossimo decennio: o è svolta o disintegrazione
». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)
In questo inizio di primavera, Amsterdam non delude le attese. Il primo sole dell’anno induce a sfidare le folate di vento freddo provenienti dal Mar del Nord, accomodandosi ai tavolini all’aperto, mentre tra le dimore seicentesche si fanno strada le consuete biciclette scampanellanti. In un cielo attraversato da nuvole minacciose, la luce è tersa. La capitale olandese non tradisce il letterato Gregorio Leti che nel 1690 reputava Amsterdam «la più libera e la meglio regolata» delle città. Eppure, la metropoli sta attraversando un periodo tormentato: come in altre occasioni, il futuro dell’Europa passa anche dall’Olanda.
Il Paese di Pim Fortuyn e di Geert Wilders è nuovamente alle prese con dubbi e angosce. In aprile, gli olandesi hanno colto l’occasione di un voto sul futuro accordo di associazione tra l’Unione e l’Ucraina per esprimere nuova e profonda disaffezione per l’Europa. «I Paesi Bassi sono sempre stati divisi tra un Ovest più cosmopolita e moderno, e un Est, oltre la città di Utrecht, più conservatore e provinciale – spiega Geert Mak –. In questa fase sembra purtroppo prevalere la seconda delle due tendenze. D’altro canto in quasi tutti i Paesi assistiamo a un ritorno del nazionalismo».
Mentre l’Europa aspetta con timore l’esito del referendum inglese di giugno, dedicato alla permanenza del Paese nell’Unione, le pessimistiche impressioni di Mak sono utili per capire i sentimenti che segnano l’intellighentsia del Nord Europa in una fase in cui il continente affronta come non mai il rischio della disintegrazione. Giornalista, storico, documentarista, Mak, 69 anni, è una delle voci più ascoltate della pubblicistica olandese, una specie di A.J.P. Taylor di lingua fiamminga. Mentre passeggiamo per il centro di Amsterdam alla ricerca di un locale, i passanti accennano un saluto discreto.
Nel 1999, il nostro interlocutore fece un lungo viaggio attraverso l’Europa per raccontare il secolo che stava per concludersi. Per un anno pubblicò tutti i giorni le sue impressioni nel giornale «NRC Handelsblad». Nel 2004, trasse dalla sua rubrica quotidiana un libro venduto in oltre 400mila copie e tradotto in una ventina di lingue - in Italia da Fazi con il titolo In Europa. «Stiamo inciampando – dice oggi – da una crisi all’altra, in mezzo alla tempesta. Dobbiamo fermarci in un porto e riparare la nave. Vorrei essere ottimista, ma non riesco ad esserlo…».
Agli occhi di Geert Mak, le risposte alle diverse crisi affrontate dall’Europa in questo ultimo decennio – quella finanziaria, poi economica, poi ancora debitoria, ora terroristica e migratoria – non sono state convincenti. «Guardate alla politica monetaria ultra accomodante della Banca centrale europea o al discusso accordo dei Ventotto con la Turchia: su entrambi i fronti sembra prevalere il panico. Sono molto preoccupato per il futuro dell’Europa».
Se i partiti più radicali stanno mettendo radici a livello nazionale – nei Paesi Bassi, in Francia, Italia, Austria e anche in Germania - non è solo per la perdurante crisi economica. «L’attuale assetto europeo è a metà federale e a metà confederale. L’Unione è nata per trovare soluzioni tecniche, non politiche. Il populismo è anche una reazione al modo in cui vengono ideate e applicate le politiche europee. Gli elettori hanno l’impressione che la classe politica non abbia il controllo della situazione, e quindi si stanno affidando sempre più a chi offre loro soluzioni prettamente nazionali».
Secondo lo storico olandese, l’emergenza provocata dall’arrivo di milioni di migranti in fuga dal Vicino Oriente o dal Nord Africa rischia di rivelarsi per l’Europa ciò che fu il disastro di Tchernobyl per l’Urss: un campanello d’allarme dalle conseguenze imprevedibili. «I sovietici scoprirono all’improvviso le enormi deficienze del sistema politico. Così sta avvenendo oggi in Europa. L’Unione non è neanche capace di inviare nelle isole greche i funzionari necessari per gestire in modo rapido ed efficiente lo sbarco dei rifugiati. Gli europei stanno scoprendo le gravissime debolezze della costruzione comunitaria».
Seduto in un animato e rumoroso caffè di Amsterdam, Mak non ha nulla dell’intellettuale estremista. Anzi, il sorriso caloroso, i capelli arruffati, i modi simpatici gli danno un’aria rassicurante e bonaria. Prima di iniziare la nostra conversazione, aveva premesso di sentirsi «più un europeo che un olandese». Eppure, oggi non riesce a essere fiducioso: «Mi sembra impossibile che l’attuale assetto istituzionale possa sopravvivere al prossimo decennio. Non funziona e non gode di sufficiente legittimità. Sto dicendo questo con il cuore affranto».
Ammette di essere d’accordo con la cancelliera tedesca Angela Merkel che qualche mese fa, riprendendo il titolo di un famoso libro dello storico Christopher Clark, ha definito i dirigenti politici europei dei «sonnanbuli», diretti inconsapevolmente, come all’inizio del Novecento, verso una catastrofe. «Lo sconquasso della moneta unica così come la crisi dell’Ucraina hanno dimostrato che c’è bisogno di un profilo politico, e non solo tecnico. L’Europa deve pensare il proprio ruolo geopolitico. È destinata ad affrontare nuove grandi crisi. Per questo, mi aspetto una sua disintegrazione, e una sua ricostruzione su basi più piccole». Cosa intende per grande crisi: c’è il rischio di una guerra? La risposta tarda ad arrivare. Finalmente, dopo un lungo silenzio di riflessione, Mak risponde: «Siamo in bilico tra pace e guerra. Le fratture potrebbero rimarginarsi, oppure peggiorare drammaticamente.
Vi sono per esempio molti fattori che in Crimea potrebbero portare a un conflitto aperto. Altri focolai sono l’Egitto e la Libia, che non sono più un baluardo a difesa dell’Europa contro l’arrivo di milioni di migranti dall’Africa. La Turchia, poi, è un Paese sull’orlo della guerra civile, fosse solo per la presenza della folta minoranza curda». Alla ricerca di un confronto storico sull’attuale stato dell’Europa, trova un esempio nella repubblica confederale che governò le Province Unite tra il 1581 e il 1795.
«In parte, la fine del Secolo d’Oro fu determinata dalla difficoltà a creare un potere centrale. I federalisti americani videro nel caso olandese la ragione per puntare con decisione verso un assetto federalista». Torna alla mente James Madison in Il Federalista: la repubblica olandese, scrisse nel 1787, mostra «l’imbecillità nel governo, il disaccordo tra le province, l’indegna influenza straniera, una precaria esistenza in tempo di pace e calamità in tempo di guerra».
Le parole dell’uomo che da lì a poco sarebbe diventato il quarto presidente degli Stati Uniti suonano attuali, se riferite a una Europa che continua tra le altre cose a ospitare truppe americane sul suo territorio. Simbolica delle differenze europee, l’Olanda è al tempo stesso proiettata oltre Atlantico e al centro del continente europeo. Tornando alla descrizione di Gregorio Leti, appare permissiva quando si tratta di omosessualità e droghe leggere; rigorosa quando bisogna risanare i conti pubblici o applicare le regole. Gli olandesi usano spesso nelle loro risposte l’espressione moet kunnen che si traduce liberamente con «E perché no!». L’esclamazione riflette tolleranza e pragmatismo. Rileggendola alla luce del pessimismo di Geert Mak, sembra quasi autorizzare l’impensabile.