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la Repubblica

«Diario di un cronista rider per un mese, guidato dallo smartphone e da un algoritmo Niente tutele ma alcuni colleghi dicono: “È un deserto, almeno qui ci pagano”»

Un mese da lavoratore della Gig Economy, per raccontare cosa vuol dire guadagnare cinque euro lordi a consegna, correndo come matti in bici con la pioggia, il vento, il buio e il cuore in gola. Senza tutele, sfidando il traffico (e gli incidenti) perché più consegni più guadagni, ma se invece ti fermi perché vuoi fare altro, o magari perché non ce la fai più, sei fuori, l’algoritmo ti bolla come poco disponibile. Via, entra un altro. Per un mese mi sono iscritto a “Deliveroo” (ma si dice “loggato”) per raccontare dal vivo cosa vuol dire nel 2018 tornare al lavoro a cottimo, magari “cottimo digitale”, ma il senso è lo stesso, è l’ultima frontiera del precariato per quelli della mia generazione. Ho “indossato” la mia “action cam”, una minuscola Go-Pro che mi servirà per documentare l’esperienza e sono partito. Ho incontrato studenti e studentesse, giovani laureati senza lavoro, italiani e stranieri, disoccupati di mezza età, ciclo-fattorini padri di famiglia che consegnano merci da due anni e mezzo senza sosta. Questo è il mio diario di un mese da rider di Deliveroo, dal 15 marzo al 15 aprile, Pasqua compresa.
13 marzo. Mi preparo. L’unica persona in carne e ossa di Deliveroo con cui interagisco è Antonio, che mi dà il kit da fattorino, zaino termico e indumenti antipioggia col marchio aziendale. Appuntamento in un ufficio di coworking in zona Prati, dove tutto è in affitto, telefoni, scrivanie, computer. Noi aspiranti fattorini veniamo convocati in una saletta riunioni. Intorno a un tavolo ci sono un giovane metallaro, un sessantenne, un ragazzo indiano che parla a malapena italiano, uno studente della Luiss. Scopriamo che il pagamento è di 5 euro lordi. E che Deliveroo ci garantisce da una a cinque consegne all’ora. Le consegne sono tutte nel raggio di 4 km.
Diamo l’iban ad Antonio e scarichiamo l’applicazione per i rider sui nostri smartphone. In mezz’ora siamo nel magazzino a ritirare. Sono ufficialmente un ciclo-fattorino di Deliveroo. Ma è più bello dire rider. Nelle 48 ore precedenti mi sono iscritto al sito, scannerizzato la carta d’identità, frequentato un breve corso online sulle regole di igiene e salute. Ho firmato con una applicazione digitale (non ho mai stampato il foglio) il contratto da collaboratore autonomo, da partner di Deliveroo.
16 marzo. Mi trasformo. La bici la compro usata in una ciclofficina del quartiere Portonaccio, una mountain bike assemblata “ad hoc” per il mio prossimo lavoro di rider. Lo smartphone di ultima generazione ce l’ho già. Il mio unico strumento di lavoro, oltre naturalmente al fiato e all’accettazione delle regole aziendali.
18 marzo. Si parte. Prenoto sulla app la sessione oraria delle 19 in zona Roma Centro. L’unica ancora libera. Ormai siamo tanti, troppi. Di mettermi gli indumenti aziendali mi rifiuto. È sufficiente la pubblicità (non pagata) che farò con l’enorme zaino termico marchiato per le strade di Roma.
Raggiungo in bicicletta il Colosseo, il confine sud della zona per cui sono prenotato. Attivo il Gps del mio smartphone, è il momento di dire alla piattaforma che sono attivo. Disponibile per le consegne. L’algoritmo inizia a lavorare. Incrocia le richieste dei clienti ai ristoratori con le posizioni dei rider più vicini.
Bip. Arriva la notifica. Corro. «Ti è stato assegnato un nuovo ordine. You have been assigned a new order. Gelateria Giolitti di fronte al Parlamento. Tre vaschette di gelato da 70 euro». È il momento clou della consegna cibo.
20 marzo. I colleghi. Incrocio per le strade rider di tutti i tipi. I marchi sono tanti: quelli rosa di “Foodora”, i “colleghi” che hanno avuto il coraggio di chiedere di essere inquadrati come lavoratori subordinati, e per questo erano stati cacciati. I gialli di “Glovo”, loro portano di tutto.
Siamo italiani, stranieri, un esercito che corre. L’applicazione mi fa sapere che si è liberata la sessione tra le 20 e le 21. La prenoto prima che lo faccia qualcun altro.
25 marzo. La fatica. I colli di Roma si fanno sentire. Non è una città bike-friendly. Salite, buche, voragini e sampietrini sconnessi rendono ogni consegna una sfida all’ultimo ostacolo… Nella salita tra Fontana di Trevi e il Quirinale pedalo a fatica affannato. Nessuno dell’azienda mi ha chiesto se sono cardiopatico o idoneo a fare decine di chilometri in poche ore. Potrei morire e la responsabilità sarebbe mia. In due ore ho fatto 4 consegne. Venti euro. Lordi.
Ritorno a casa. Per altri 40 minuti farò pubblicità a Deliveroo.
28 marzo. Le storie
La beffa è che tocca a me comprare del cibo su Deliveroo.
Ho una fame da lupo ma voglio anche parlare con un rider. Scelgo una margherita da 5 euro. Quello che mi sono guadagnato con una consegna, più 2,50 euro per la consegna. Chi bussa alla mia porta è un quarantenne che lavora 57 ore a settimana. È evidentemente affaticato, ma dice di essere contento: «Non c’è lavoro, è un deserto. Almeno Deliveroo mi paga».
Parlare e conoscere i colleghi non è facile. Ognuno pedala di fretta seguendo le istruzioni della propria app. Ma davanti ad ristorante, mentre il cameriere del Bangladesh, con aria di sufficienza, mi chiede di rimanere fuori, sullo zerbino, incontro Eric, sudamericano, rider agguerritissimo, 28 anni, con Deliveroo guadagna fino a 1.200 euro al mese. Lavora da un anno e riesce a fare anche 5 consegne all’ora: «Perché conosco le strade senza bisogno di usare Google Maps», rivela. Eric mi fa accedere ai tre gruppi WhatsApp dei Riders romani di Deliveroo, dove i tentativi di sindacalizzazione si mischiano a esultanze per la Roma.
Incontro Federica, 32 anni, architetta, che lavora per Foodora. «Ho lavorato in uno studio di architettura ma non mi pagavano. Non potevo mantenermi. Alla fine sono approdata a Foodora. Più volte ho rischiato di finire sotto una macchina, ma guadagno un po’ di soldi e faccio sport. Non è male». Forse. Ma la sensazione è che a Federica quei soldi servano per vivere.
1 aprile. Pasqua. La consegna è in Via Margutta. Un bellissimo appartamento, terrazze su Roma. Settanta euro di sushi, aperitivo del pranzo di Pasqua. Nessuna mancia però. Né in contanti né digitale. Tra i segreti di Deliveroo c’è anche la possibilità che il cliente, aggiunga qualche euro per fattorino. Al quale però i soldi arriveranno soltanto dopo un mese...
15 aprile. Il bonifico Mi arriva il primo bonifico da un conto inglese: undici consegne, guadagno lordo 55 euro. Sulle strade di questo nuovo caporalato digitale ho incontrato persone disposte a tutto pur di lavorare. Ma i rider si stanno organizzando. E tra ciclofficine e gruppi WhatsApp sta nascendo il nuovo sindacato

Il manifesto,



«Un percorso di letture sul concetto di Governance e la sua evoluzione. Due volumi - molto diversi - di Alain Deneault e di Colin Crouch fanno il punto sulla questione. Il passaggio dal piano economico a quello politico è al cuore del neoliberismo e della postdemocrazia»

Iltermine ha avuto una antica genesi e una accidentata traiettoria che lo havisto manifestarsi prima in ambito economico e poi in quello politico.Governance ha infatti origine nella teoria dell’organizzazione produttiva ed èstato usato per indicare quelle tecniche di gestione dei rapporti ågarantire la«pace sociale» interna e per contenere i «costi di transazione» delle imprese.In questo modello di gestione, il coordinamento è di competenza del consigliodi amministrazione, mentre distinti sono stati i momenti di incontro e didiscussione tra gli stakeholder, cioè portatori di interesse (i salariati, iconsumatori, i piccoli azionisti, l’indotto produttivo) che devono trovare ilmodo di armonizzare ciò che è potenzialmente conflittuale rispetto le strategieimprenditoriali.
Lagovernance è quindi l’orizzonte dove collocare tutte le «riforme» organizzativedell’impresa che ha corso però il rischio di essere scalzato da altresuggestioni nella riorganizzazione dei processi lavorativi. A salvare lagovernance dall’oblio è stata la proposta di un modello di gestione deiburrascosi rapporti tra le multinazionali e le popolazione locali nel Sud delmondo. Di fronte la resistenza verso le strategie di espropriazione e di«cattura» – di risorse naturali e di valore economico – le multinazionalipuntavano a recuperare il consenso perduto tra le popolazioni locali,istituendo un «partenariato» con il governo «indigeno» e popolazione locale.Passaggio obbligato era l’accento sulla responsabilità sociale dell’impresa, ilrispetto dell’ambiente e della qualità delle merci prodotte: retoriche cheassumono la dimensione politica delle relazioni che ogni impresa intrattieneall’interno (i rapporti sociali di produzione) e all’esterno al fine direlegarle a un costo di transazione da contenere attraverso misure virtuose diarmonizzazione degli interessi.
ÈSU QUESTO CRINALE cheil termine acquisisce il significato politico che ne decreterà la sua fortunanella crisi della democrazia rappresentativa, nello svuotamento della sovranitànazionale da parte degli organismi della globalizzazione economica. Lagovernance diviene cioè il modello usato nella costruzione del consenso edell’egemonia da parte del capitalismo neoliberista attraverso un feticismo delPolitico inteso come astratta e oggettiva pratica amministrativa chenaturalizza i rapporti sociali dominanti.
Èattorno questa migrazione della governance dall’economico al politico che sisnodano due recenti saggi da poco tradotti e pubblicati in Italia. Il primolibro è del canadese Alain Deneault e ha come titolo un secco Governance (NeriPozza, pp. 192, euro 16), ma un esplicativo sottotitolo: Il managementtotalitario. Il secondo saggio è dell’inglese Colin Crouch dal titoloesortativo Salviamo il capitalismo da se stesso (Il Mulino,pp. 102, euro 12). Autori tra loro diversissimi, sia per le loro costellazioniculturali che per la forma di scrittura che prediligono, ma accomunati dallaconvinzione che la crisi della democrazia sia il framework all’interno delquale le politiche predatorie del capitalismo contemporaneo cercano – e spessotrovano – la loro legittimità.
PERCROUCH ilcapitalismo neoliberista ha così alimentato la formazione di regimi politici«postdemocratici» nei quali i diritti civili e politici sono sì garantiti senzache il loro esercizio possa mettere in discussione il cambiamento radicalenella divisione ed equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo. La«postdemocrazia», costellata da molteplici sliding doors, vede esponentipolitici dismettere i panni del politico per sedere in qualche consiglio diamministrazione di una grande impresa; o, all’opposto, imprenditori accederealla carriera politica senza nessuna soluzione di continuità.
In questo saggio, lo studioso britannico segnala che il neoliberismo e la suaforma politica – la postdemocrazia, appunto – mettono in pericolo ilcapitalismo stesso. Per questo, invita a una riforma radicale della forma statoe dell’esercizio del potere, innovando le istituzioni della democraziarappresentativa al fine di favorire la partecipazione dei cittadini, attraversouna riqualificazione del welfare state, della funzione regolativa dello Statoimprenditore e il rilancio dei diritti sociali di cittadinanza.
Lacritica dello svuotamento della democrazia è proprio il punto di congiunzionetra l’analisi di Colin Crouch e quella di Alain Deneault. Questo filosofocanadese ha altri riferimenti teorici di Crouch; diverso è anche il contestosociale dove vive che lo porta a preferire la forma del pamphlet rispettocompassate monografie. Il suo precedente libro tradotto – La mediocrazia (ilmanifesto del 1 febbraio 2017) – è una sferzante critica alla retoricameritocratica propedeutica al consolidamento di un regime sociale e politicobasato su mediocri Yes man. Governance riprende infatti il filo della suariflessione, perché è questa la forma politica che favorisce il governo deimediocri e lo svuotamento appunto della democrazia.
LOSTILE SINCOPATO diDeneault è propedeutico ad affermazioni apodittiche sull’imperialismo culturaleche favorisce modelli di governance in paesi come Stati Uniti, il Canada el’Europa, ma li «esporta» nella Repubblica democratica del Congo, la Nigeria,il Sud Africa. E sebbene, la governance sia propagandata come sinonimo di softpower, è un modello di governo che manifesta una violenza evidente quando vieneassunto come dispositivo politico contraddistinto dal «partenariato» tra pubblicoe privato a favore di quest’ultimo. Governance significa alloraistituzionalizzazione di meccanismi di esclusione per tutti coloro chedissentono dal punto di vista dominante – quello delle imprese e dellemultinazionali – attraverso una continua valutazione dell’operato dei singoli elo sviluppo di una vera e propria antropologia della leadership che trae la sualegittimità nell’amplificare l’imperativo della performance e della trasparenzatra tutti i partecipanti agli organismi di governance.
DAQUESTO PUNTO divista – convergente con le tesi di Colin Crouch sulla postdemocrazia – ognitentativo di democrazia partecipativa deve essere vanificato o relegato adelementi insignificanti e marginali nella gestione della cosa pubblica. Nellagovernance, e qui Deneault rivela la sua nostalgia per la sovranità popolare ela rappresentanza politica, la buona democrazia è quella che favorisce ilpotere costituito, relegando a bizzarria ed eccentricità la pretesa che la vedecome il regime politico che esprime il «potere del popolo».
Rilevantesono infine le pagine che contestano l’interpretazione di Michel Foucault comefilosofo del neoliberismo. Alain Deneault ricostruisce i passaggi operati daiteorici della governance neoliberista dal termine governamentalità al terminegovernance. La governamentalità di Foucault, sintetizza l’autore, non èl’apologia della governance bensì la radiografia critica, cioè sovversiva,delle forme di biopotere (la figura pastorale dello Stato o il tema dei corpidocili votati all’obbedienza ne sono alcuni degli esempi proposti). Da qui ilgiudizio della governance come «meccanica disumana di un totalitarismo senzavolto».
ALDI LÀ DEI TONI edello stile enunciativo dei due autori, i loro saggi affrontano il nodo delleforme del Politico emerse nella grande trasformazione neoliberista. Sicollocano, cioè, su un sentiero di ricerca che dovrebbe però toccare altreesperienze di governo della società per sfuggire il rischio di unoccidentalismo seppur critico. Poco e nulla viene infatti dettagliato su comeregimi postdemocratici – per esempio quello indiano o cinese – si pongano ilproblema di come prevenire forme di conflitto presenti nella società; e di comeattuare la cooptazione delle forme di autorganizzazione della società civile.
Lasocietà armoniosa proposta da Pechino o la dinamica modernizzatrice promossa inIndia sono modelli di governance che non assecondano né lo svuotamento dellasovranità nazionale, come accade invece in Canada o nel vecchio continente. Enon contemplano neppure le figure degli stakeholders, facendo semmai levasull’invenzione di identità e di comunità immaginarie. Sono cioè varianti delmodello di governance piegate a specificità continentali, dove il soft powermanifesta tuttavia la stessa violenza celata dietro il velo dell’interessegenerale.

Nigrizia, 26 aprile 2018.

«Il 2018 si è aperto all’insegna di un rinnovato impulso nei rapporti tra Cina e Africa. Energia e infrastrutture in testa, con la Nuova Via della Seta, ma anche settori emergenti che puntano a una maggiore diversificazione economica. Il tutto sotto l’occhio critico e impotente di Washington. Non mancano però i timori legati al crescente debito africano e alla concentrazione di poteri nelle mani di Xi Jinping».«Cina e Africa sono più vicine che mai, e il 2018 segnerà un’ulteriore passo in questa direzione». Con queste parole Huo Jiangtao, fondatore della Settimana economica e culturale sino-africana, ha inaugurato la prima edizione dell’evento, che si è tenuto a Guangzhou dal 20 al 26 aprile. L’iniziativa ha visto la partecipazione di ambasciatori provenienti da 10 paesi africani – tra cui Nigeria, Angola ed Etiopia – oltre a molti esponenti del mondo imprenditoriale e artistico cinese.

Scopo dell’evento, secondo gli organizzatori, è quello di approfondire il clima di mutuo interesse economico e culturale tra le due regioni in vista della settima edizione del Forum per la Cooperazione Cina-Africa (Focac), che si terrà a Pechino il prossimo settembre.

E se il 2018 si è aperto all’insegna di nuovi sviluppi nei rapporti sino-africani, con i leader di Camerun, Namibia e Zimbabwe recatisi in visita ufficiale a Pechino nell’ultimo mese, non sono però mancate voci critiche in merito a tali relazioni.

Crescente insofferenza Usa

In un discorso tenuto lo scorso mese alla George Mason University, in Virginia, l’allora Segretario di stato Usa, Rex Tillerson, aveva duramente criticato il modello cinese di sviluppo economico in Africa, definendolo un esempio lampante di espansione neocoloniale per espropriare il continente delle sue risorse.
La Cina, secondo Tillerson, destabilizzerebbe i governi africani tramite la concessione di «prestiti predatori», trascinandoli in una crescente spirale di debito estero e dipendenza da esportazione di materie prime. Una critica tagliente, quella dell’ex Segretario di stato, ribadita in occasione della sua visita ufficiale in Etiopia nei giorni successivi.

Dal canto suo, Pechino non è rimasta in silenzio. Lin Songtian, ambasciatore cinese in Sudafrica, ha definito il discorso di Tillerson «un deplorevole tentativo di voler insegnare ai governi africani come comportarsi, nonostante essi siano abbastanza maturi da poter scegliere da sé i propri partner commerciali».

A sostegno delle dichiarazioni di Songtian, il presidente della Namibia, Hage Geingob, ha di recente affermato che «non c’è alcuna istanza neocoloniale nei rapporti tra Africa e Cina. Nessun altro paese al mondo è stato in grado di dare un tale valore aggiunto ai nostri prodotti come la Cina. Pechino ha fatto molto in quanto a trasferimento tecnologico e creazione di nuovi posti di lavoro». Posizione, la sua, comune ad altri leader africani, tra cui quelli del Camerun e del Kenya.

Investimenti a tutto campo

L’Africa, con le sue abbondanti risorse naturali e una disperata necessità di sviluppo infrastrutturale, è da alcuni decenni un partner attraente per la Cina.

Tra il 2000 e il 2014, il commercio sino-africano è passato da 10 miliardi a 220 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, Pechino ha concesso oltre 86 miliardi di dollari in prestiti commerciali a paesi africani, circa 6 miliardi annui. Nel 2015, alla 6ª edizione del Focac, il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di rafforzare ulteriormente il ruolo della Cina come più grande creditore della regione: il paese, secondo il rapporto Foresight Africa 2018, detiene oggi il 14% del debito di tutta l’Africa subsahariana.

Non c’è dubbio che la 7ª edizione del Focac porterà a un ulteriore incremento dei rapporti economici tra le due regioni, con la concessione di nuovi prestiti per progetti di sviluppo delle infrastrutture. Fra questi spicca la Nuova Via della Seta, il ciclopico investimento infrastrutturale intrapreso da Pechino per rilanciare il suo ruolo nei traffici globali dopo il rallentamento dell’economia cinese registrato negli ultimi due anni.

Il progetto coinvolgerà alcuni paesi dell’Africa orientale come il Kenya e Gibuti, dove la Cina ha già stanziato oltre 300 milioni di dollari in nuovi progetti tra cui ferrovie, porti e gasdotti. Ed è proprio a Gibuti che il gigante asiatico ha inaugurato la sua prima base militare sul continente africano, tra le proteste degli Stati Uniti che vedono intaccata la propria egemonia nel Corno d’Africa.

Uno studio condotto nel 2017 dalla società di consulenza finanziaria Kinsley rivela come, nel complesso, gli investimenti cinesi nel continente africano stiano avendo un impatto positivo di crescente rilevanza, contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro e al trasferimento di expertise e tecnologie alle imprese locali nell’industria energetica, infrastrutturale e della manifattura. A questi si è aggiunta recentemente un’espansione verso nuovi settori, dall’agricoltura all’assicurazione bancaria e alle telecomunicazioni, che rafforza i tentativi di diversificazione economica intrapresi negli ultimi anni da molti governi africani per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime.

A fianco di quella economica, avanza al contempo anche la cooperazione culturale. Nel 2016, Pechino ha aumentato da 200 a mille le borse di studio per studenti africani, ora più presenti in Cina che negli Stati Uniti e nel Regno Unito insieme. Il Mandarino sta penetrando rapidamente nel sistema scolastico di molti paesi subsahariani, come ha sottolineato Franklin Asira, presidente dell’Associazione di scambio sino-africana lanciata quest’anno a Nairobi: «Imparare il cinese è un’opportunità enorme per un giovane africano che voglia aprirsi molte porte in futuro».

Lo spettro del debito e l’ombra di Xi Jinping

Nonostante le indubbie importanti prospettive di sviluppo economico e sociale, non mancano tuttavia alcuni timori legati alla penetrazione sempre più estensiva della Cina nel continente. Sul piano economico, questi riguardano in particolare il crescente debito estero accumulato da molti stati africani nell’accettare prestiti da Pechino per progetti infrastrutturali.

Mentre alcuni analisti ipotizzano l’adozione di misure per la cancellazione del debito, altri suggeriscono, invece, strategie volte a ridurre l’egemonia cinese nei rapporti bilaterali. In particolare, la Cina dovrebbe aprire le gare d’appalto alla competizione internazionale, anziché vincolare i prestiti commerciali a uso esclusivo di società cinesi con condizioni contrattuali spesso poco trasparenti. Ipotesi però confinate per il momento sul piano teorico, a fronte invece di un problema concreto sempre più allarmante.

Un altro timore prettamente politico è espresso in un rapporto pubblicato da Cobus van Staden del South African Institute of International Affairs. Esso riguarda le ripercussioni nei rapporti sino-africani che potrebbe avere la decisione, presa lo scorso mese dal parlamento cinese, di abrogare i limiti di mandato presidenziali, spianando la strada a una presidenza a vita per Xi Jinping.

L’uomo forte di Pechino, secondo van Staden, detiene oggi l’immenso potere di poter plasmare a suo piacimento le relazioni con il continente nero, almeno per il prossimo decennio. Ciò non giunge certo come un segnale positivo in un contesto politico, quello subsahariano, ancora fortemente segnato da personalismi e carenze sul piano democratico e partecipativo.

A questo si aggiungono le preoccupazioni in merito alla futura espansione militare cinese sul continente, a fronte di un incremento dell’8,1% del budget militare della Cina per il 2018 e di una sua sempre maggiore presenza nelle missioni di peacekeeping sul suolo africano. In rapida crescita, inoltre, è l’export di armamenti “made in China” che vede oggi due terzi dei paesi africani avere in dotazione armi cinesi, inclusi paesi non democratici come il Burundi e la Guinea Equatoriale.

Limitare gli effetti negativi di tali dinamiche è la grande sfida che attende il continente nei prossimi decenni. Ma una cosa sicuramente è certa: quello tra Cina e Africa è un matrimonio tutt’altro che in crisi con il quale il mondo, l’Occidente in primis, deve e dovrà continuare a fare i conti.

la Nuova Venezia, Nell'Italia di oggi

Reggio Emilia. È notte già da un bel pezzo quando Mike arriva, in bicicletta, nella zona industriale a nord di Reggio Emilia. Fa non poca fatica a capire in che razza di posto sia capitato; luoghi del genere non li aveva mai visti prima. Controlla la via: è quella scritta sul contratto di lavoro. Si mette ad andare avanti e indietro, poi alla fine trova il posto. È un capannone, non tanto grande, dove si vedono le luci accese. Entra. Gli chiedono il nome, e lui fa vedere quel pezzo di carta ripiegato in quattro che gli hanno dato in un'agenzia interinale. Probabilmente Mike non ha le idee chiare su cosa sia un'agenzia interinale, però sa che sono quelle persone che gli hanno trovato un lavoro. Adesso lui un lavoro ce l'ha, a differenza di molti fra quelli come lui che all'Europa chiedono un pezzetto di futuro.

Mike è un nome di fantasia, ma questa storia è tutta vera. È la storia di uno dei tanti giovani che al primo impatto con il mondo del lavoro, in questo caso a Reggio Emilia, scoprono il significato della parola precariato, qui però portato al parossismo, all'assurdo, arrivando a sfiorare il grottesco. In più il nostro Mike non è una persona come tutte le altre: è un giovane uomo di pelle nera, in Italia con la qualifica di richiedente asilo. Ha un documento valido in tasca, è certamente un cittadino di qualche posto in Africa, ma non è un cittadino italiano. Può restare in Italia, ma al momento senza una precisa garanzia; nessuno, per ora, gli ha riconosciuto il titolo di rifugiato. Mike però non è un bighellone, non sta tutto il giorno a gironzolare. Va a scuola per imparare l'italiano, è un bravo allievo (e infatti l'italiano lo parla bene) e soprattutto ha voglia di lavorare. Proprio per questo la festa del Primo Maggio sembra pensata apposta per lui.
Mike è il modello perfetto del giovane lavoratore mal pagato al quale il diritto del lavoro non offre alcuna garanzia. Lui e centinaia di migliaia di altri si meritano di diritto un posto nelle sfilate della Festa del Lavoro che si svolgono in giro per la penisola. Questo ragazzo straniero è orgoglioso del contratto di lavoro che ha in tasca, anche se forse non capisce fino in fondo tutto quello che c'è scritto sopra. Gli hanno detto di presentarsi alle 10 di sera, lui è lì puntuale. L'orario di lavoro prevede il suo impegno fino all'alba, e il contratto è a tempo determinato, questo è scritto chiaramente. Paga: 7 euro e rotti all'ora, ovviamente lordi. Alla fine una giornata (anzi una nottata) lavorativa non frutta granché, ma è sempre meglio che starsene lì a impazzire senza fare niente. In azienda viene accolto e gli spiegano quello che deve fare, cioè spostare contenitori. Da una parte all'altra. Un lavoro pesante, semplice, non proprio gratificante, ma in futuro - Mike lo crede fermamente - ci sarà di meglio.
Poco alla volta arriva l'alba, è il momento di tornare a casa. Mike chiede a che ora dovrà ripresentarsi e a questo punto arriva la sorpresa. Il lavoro è finito, nel senso che non ce n'è più. Non c'è un domani. E la paga, quei pochi biglietti da dieci euro? Gli verranno consegnati in maggio. Sconsolato, Mike riprende la sua bicicletta e se ne va, mentre la maggioranza degli altri italiani esce per andare a lavorare. È convinto di essere vittima di una fregatura ordita da qualche truffatore, invece è anche peggio. È tutto perfettamente legale. Il contratto infatti dice che il rapporto di lavoro è a tempo determinato per la durata di 5 (cinque) giorni e che il periodo di prova è di 1 (un) giorno. Quindi dopo una sola notte di fatica muscolare non c'è bisogno di tanti giri di parole per lasciarlo a casa. Tutto regolare. Mike il Primo Maggio non ha grandi motivi per festeggiare; di sicuro ha un'ottima ragione, insieme a tanti altri giovani, per protestare.

Internazionale, 2


Piove parecchio, è un invernomonotono e lunghissimo, quando un paio di mesi fa arrivo a Milano senzaombrello, invitato dal collettivo studentesco del liceo Parini per parteciparea un incontro sul tema neofascismo e antifascismo. Siamo ancora dentro lacamera dell’eco della campagna elettorale, all’indomani dei fatti di Macerata,cioè dell’omicidio di Pamela Mastropietro edella tentata strage di Luca Traini.

Nell’aulamagna si sono assiepate due-trecento persone, molte con il quaderno in mano,pronte a farmi delle domande. Le guardo, poggio su una sedia la giaccafradicia, provo ad anticiparle: qual è secondo voi la differenza tra populismoe fascismo? Quanti di voi conoscono bene la storia di Giacomo Matteotti? Chi miparla di Gianfranco Fini e della svolta di Fiuggi? Poi leggo ad alta voce escrivo alla lavagna la definizione che dà Emilio Gentile nel suo libro Fascismo. Storia e interpretazione:

«Ilfascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario,antiliberale e antimarxista, organizzato in un ‘partito milizia’, con unaconcezione totalitaria della politica e dello stato, con una ideologia afondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religionelaica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunitàorganica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno statocorporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenzae di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuovaciviltà».

Che ne pensate? L’assemblea si accende, ragioniamo sullesfumature, il rapporto tra violenza e politica, il maschilismo implicito delfascismo, la questione della memoria storica. Alla fine delle due ore, leragazze del collettivo che l’hanno organizzato vengono da me: “Questo dibattitoè un’eccezione. Qui quasi nessuno è interessato alla politica, ci siamo noi,qualche fascista, per fortuna pochi, la lista che ha vinto le elezionid’istituto aveva come programma di cambiare il distributore automatico, e dicomprare un biliardino”.

Il Parini è un liceo storico del centro di Milano. Nel 1966 sulgiornale scolastico, La zanzara, uscì un’inchiesta intitolata “Laposizione della donna nella società italiana”. L’episodio viene ricordato daglistorici come una delle micce da cui si è innescata la rivoluzione culturale delsessantotto. Il pezzo fu ripreso dai mezzi di comunicazione nazionali einternazionali: tra gli studenti stava nascendo un’onda che di lì a pocoavrebbe raggiunto ogni spazio pubblico.

Oggi invece il Parini arriva sulle pagine dei giornaliperché durante una gita scolastica è stata trovata dell’erba inuna classe di quindicenni, o perché di notte alcuni laboratori sono stati devastati,con computer spaccati e disegni di celtiche sui muri. Gli studenti vengonodescritti al massimo come scapestrati, indisciplinati, maleducati, imbelli.

Chiavi di lettura facili

Lavulgata secondo cui le ragazze e i ragazzi di oggi sono disimpegnati, non sonoattirati dalla politica, sembra la chiave di lettura più facile per descrivereuna generazione. È la conclusione che hanno introiettato anche loro stessi –viene fuori quando ci parlo, prima e dopo leelezioni del 4 marzo. Nei fatti però, altrettanto spesso, propriocoloro che si autorappresentano così, mi fanno conoscere un altro tipo distorie che mettono in discussione platealmente questo ritratto.
Una è quella di Valeria Grassi, che ha 22 anni, è di Torino, elunedì 19 marzo è stata arrestata – insieme ad altri quattro ragazzi, di cuitre poco più che maggiorenni – perché partecipava al corteo contro il comizio di CasaPound in città. Erail 22 febbraio e alla fine ci sono stati scontri con le forze dell’ordine. Acasa sua sono stati trovati 800 adesivi con la scritta “Qui abita unantifascista” – realizzati dopo che a Pavia qualcuno dell’estrema destra ne aveva usati degli altri per indicare le case dimilitanti di sinistra.

Il fatto che Grassi avesse quegli adesivi a casa è diventata unaprova per chi l’ha accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Da più di unmese è costretta all’obbligo di firma tre volte alla settimana al commissariatodi zona. Me lo ricorda lei stessa con un’alzata di spalle. Ha un tono sicuro eironico, e idee molto chiare su un sacco di cose, a partire dal modo in cui igiornalisti, i politici e perfino i giudici provano a definire l’antifascismo inItalia oggi: «C’era bisogno di elezioni come queste, in cui la polarizzazionetra fascismo e antifascismo è stata molto strumentalizzata, per compiereoperazioni di polizia del genere. La repressione è stata perfetta. Tieni contoche nelle premesse del giudice nell’ordinanza di arresto, c’è un passaggio incui si dice che le organizzazioni neofasciste sono l’espressione fisiologica diuna democrazia matura: ecco, questo è lo stato dell’arte».
La cerco quest’ordinanza, ed effettivamente resto a bocca aperta,quando a un certo punto leggo:
«L’obiettivo di impedire in ogni modo la libera manifestazione del pensiero avverso costituisce, invece, una forma di violenza politica che si pone alla stessa stregua del ‘fascismo storico’ da cui i manifestanti si professano, pure, così distanti».

L’antifascismo militante è da considerare un’imitazione delfascismo storico? Il giudice che ha arrestato Valeria Grassi e i suoi compagniavvalora una tesi che ormai circola da un po’, e cioè che esista un “fascismodegli antifascisti», strumentalizzando la citazione di volta in volta attribuita a Pier Paolo Pasolini o a Ennio Flaiano.
Grassiha invece le idee molto chiare su quello che è l’antifascismo oggi: «C’è chiusa l’antifascismo come pretesto, e chi pensa che significhi tornare a essereprotagonisti in politica. Da un punto di vista generazionale, è molto evidentenei nuovi movimenti femministi, nell’antirazzismo, nel ritrovarsi con il propriocorpo in piazza, magari per la prima volta. Quella diventa la tua educazionepolitica, quello è antifascismo».

L’antifascismo necessario

Anna lavedo spesso prima di conoscerla. Quattro, cinque volte nell’ultimo anno,durante alcune manifestazioni. La noto perché è sempre in prima fila neicortei: quello per il diritto alla casa, quello di Non una di meno, quellocontro l’alternanza scuola-lavoro. La chiamo per un’intervista poco dopo leelezioni: «È stata la prima volta che ho votato, e non c’era nessuna lista chemi convincesse fino in fondo, alla fine ho votato Potere al popolo».
Sta preparando la commemorazione per le Fosse Ardeatine: «Pertoccare con mano la storia della resistenza, nonostante le istituzioni sianospesso assenti». Ha 18 anni, è di Roma, fa parte di un collettivo studentesco edel coordinamento dei collettivi di Roma, e racchiude il senso di una militanzamolto ampia proprio nell’antifascismo: “Per me l’antifascismo è sempre qualcosadi necessario, il che vuol dire stare in piazza o lì dove c’è bisogno, edeliminare ogni atteggiamento paternalistico, spazzando via ogni dibattito sucome rifondare la sinistra, su come rivedere il rapporto con la storia. Ladomanda che mi faccio non è tanto cos’è essere antifascisti, ma cosa fal’antifascismo. E cerco di metterlo in pratica ogni giorno. Per me non si puòprescindere da modelli di società utopiche, ispirate dalle comunità zapatiste odal federalismo democratico di Öcalan”.

Sembra remotissima, ma l’esperienza dell’Unità di protezione delpopolo (Ypg) – soprattutto delle loro combattenti in Kurdistan – è un orizzontecomune. Come una specie di patria d’elezione tiene insieme i militanti di Roma,quelli di Milano, quelli di Torino.

L’ideadi partire e andare a rischiare la vita in Siria contro il gruppo Statoislamico o contro le truppe di Recep Tayyip Erdoğan ricorda i volontari europeinella guerra civile spagnola, soprattutto gli anarchici del Partito operaio di unificazione marxista (Poum),stretti a un certo punto nella battaglia tra fascisti e stalinisti.

Esperienza generazionale

Hoprovato a mettermi in contatto con Maria Edgarda Marcucci ossia Eddi – 26 anni,torinese, partita nel settembre 2017 per la Siria – nei giorni della battaglia di Afrin, ma eraovviamente impossibile, e lei stessa, ho scoperto attraverso la madre, mi hadetto che non vuole parlare di quello che succede lì finché non tornerà. Ma anche solo guardando il suo video, in cui spiega le ragioni dellasua scelta, viene da pensare alle prime pagine di Omaggioalla Catalogna (1938) di George Orwell.

La sua esperienza, nonostante sia così estrema e unica, èindiscutibilmente generazionale, e questo elemento è rivendicato da molti. Checi faccio qui, in quest’Italia dove è difficile immaginare un futuro politico osociale?, sembrano chiedersi alcune ragazze e ragazzi. Per alcuni di loroandare a combattere in Kurdistan non è così paradossale. Qualche giorno primaavevo letto il romanzo-reportage di Davide Grasso, Hevalen (2017).Anche lui è andato in Siria, e ha affiancato l’Ypg per otto mesi. Poi èritornato in Italia. Un brano all’inizio del libro racconta la sua vocazione.Il momento in cui ha deciso di arruolarsi ha coinciso con i momenti successiviall’attentato del Bataclan a Parigi, contraddistinti dallo sconforto per lerisposte delle istituzioni e il rifiuto di quelle della politica:
«Con Valeria Solesin, e con le altre vittime, avevo stabilito in segreto un canale personale. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, precaria e in viaggio, emigrante e fuori sede. Eravamo stati scelti come bersaglio dai guerrieri di Allah perché espressione di un modo di vivere inaccettabile. Dopo pochi giorni il Bataclan avrebbe riaperto, nel primo anniversario della strage. Non ci sarei stato. Stavo tornando in Italia, per abbracciare la mia famiglia incredula. Il fasto dell’imminente cerimonia di Stato, in ogni caso, non mi interessava. La violenza era necessaria; ma ero partito per non delegarla a quegli squali in giacca e cravatta, ai loro intrighi e ai loro segreti, che infiniti Bataclan avevano distrutto nel resto del mondo».

La violenza necessaria. Quando leggo queste parole penso alrapporto tra violenza e antifascismo, una questione complicata. Su questo temalo storico Claudio Pavone ha scritto pagine importanti. Il suo libro Una guerra civile (1991)è una bussola per chi vuole capire la differenza fondamentale tra la violenzautile – necessaria contro il regime – e violenza fascista – nutrita dimachismo, di fatalismo, di autoritarismo, di sadismo.

Una brutta aria nellastoriografia

“Sulladifferenza tra le due violenze, quello che scrive Pavone è ancora un puntofermo”, ribadisce lo storico Carlo Greppi. Lo incontro a Roma a metà marzo, ciripariamo dalla pioggia sotto i portici dell’Auditorium di Renzo Piano, dove haappena presentato il suo nuovo libro. 25 aprile 1945 raccontala storia di tre padri della repubblica, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri eLuigi Longo – uno monarchico, uno azionista, uno comunista.

Greppi spiega che per uno studioso oggi occuparsi di quello che èsuccesso in Italia tra il 1943 e il 1945 vuol dire essere dentro il dibattitopolitico – l’intervista con Giampaolo Pansa di Aldo Cazzullo incui Pansa sostiene che “la storia della resistenza come la conosciamo è quasidel tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo” è uscita solo pochi giorniprima. Lo storico dice che “tira una brutta aria nella storiografia. Lastessa categoria dell’antifascismo, quanto più ce ne sarebbe bisogno, tanto più viene messa in discussione”. E aggiunge: “Siamo nella fase dell’anti-antifascismo, una posizione ormai condivisa. Pensa a tutti gli storici che dicono che qualsiasi cosa sia successa dopo il 1945, non si può parlare di fascismo perché il fascismo è finito con la guerra».
Per Greppi, questa interpretazione non tiene conto del fatto che «il fascismo – neofascismo, postfascismo – è tornato. Non è che sia stato sottovalutato un problema, è stato proprio negato».

Quello che è successo, dice Greppi, viene visto da molti come una specie di partita di calcio. “Ma non è vero che la lotta di liberazione è stata una guerra tra ‘neri’ e ‘rossi’: nella resistenza coesisteva un numero impressionante di anime. E soprattutto, per quanto riguarda i valori, parliamo di due universi che non possono coesistere, e si combattono. Un conto è ammettere la complessità e le contraddizioni nell’esperienza dei partigiani; un conto è ridurre tutto a un minestrone in cui tutto si somiglia e in cui una posizione vale l’altra: così si fa il gioco dei fascisti. È triste da dire, ma in Italia scagliarsi contro una presunta egemonia culturale, dare voce ai complottisti e ai fascisti, rende. Fare ‘controstoria’ è diventato un business”.

Da Macerata a Roma

Il 10 febbraio sono a Macerata per la manifestazione antifascista organizzata dopo l’attentato di Traini, insieme ad altre trentamila persone. Pioviggina, e fa talmente freddo che il corteo invece di sfilare sembra correre, circumnavigando le mura della città vecchia e le antiche porte che sono state chiuse con le camionette della polizia. Negozi, bar, saracinesche: tutto è chiuso.

Camminiamo in una città fantasma a cui il sindaco, in modo insensato, ha imposto un giorno di coprifuoco. Nonostante l’Associazione ricreativa culturale italiana (Arci), l’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi) e Libera non abbiano aderito, sono tante le loro sezioni che hanno scelto di partecipare; ed è pieno soprattutto di ragazzi di vent’anni o meno, e in tanti scendono in piazza per la prima volta.

La manifestazione è stata convocata dal centro sociale Sisma di Macerata e da altre associazioni. Il collettivo Antifa Macerata, che ha aderito alla manifestazione, qualche giorno dopo prova a ragionare su quello che è successo in un documento intitolato Si riparte da Macerata! Ma per andare dove?.

Le accuse sono molto pesanti. Alcune criticano Minniti, “a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste (…) ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni”. Altre i sindacati, che hanno “attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e alla limitazione sistematica del diritto di sciopero”. Altre ancora l’associazionismo e il suo “approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e autodeterminazione”.

Anpi, Arci, Cgil e altre venti associazioni e partiti convocano una manifestazione antifascista due settimane dopo quella di Macerata, il 24 febbraio. Il tentativo è stato quello di provare a riavvicinare le due anime, ma il rischio è stato di averne evidenziato le differenze, anche generazionali. Di fronte all’attore Giulio Scarpati che introduce sul palco i vecchi partigiani, i manifestanti non riempiono metà di piazza del Popolo, a Roma. L’età media è sessant’anni. E se la lettura delle lettere dei condannati a morte della resistenza tocca sempre il cuore, il resto appare come una sfilata dovuta, in cui perfino gli appelli di Scarpati – “Guai a far naufragare la resistenza nel rituale” – sembrano un’excusatio non petita.

Poco dopo, il sociologo Federico Bonadonna mi dice: «Nessuno ha parlato di politiche reali di accoglienza, reddito, casa, lavoro, scuola. Il fascismo è il nemico ideale: consente di non mettere in discussione le drammatiche politiche antisociali che hanno portato il 12 per cento degli italiani in condizioni di povertà estrema e i giovani disoccupati al 20 per cento».

Da Palermo a Milano: l’impegno quotidiano

Il giorno stesso a Palermo la manifestazione è piena di studenti. Sfilano esibendo in modo situazionista dei rotoli di scotch – qualche giorno prima il dirigente provinciale di Forza nuova Massimo Ursino è stato aggredito e legato con del nastro adesivo. Giorgio Martinico, del centro sociale Anomalia, mi spiega che il gesto situazionista è una risposta alle provocazioni dei neofascisti: «Palermo fino a quindici anni fa era una città dove la presenza fascista era forte. Ci abbiamo messo tanto a combatterla. Abbiamo organizzato presidi e abbiamo negato ‘agibilità politica’ ai fascisti. Oggi a Palermo non c’è nessuna recrudescenza fascista. In campagna elettorale, gli esponenti di Forza nuova come Massimo Ursino hanno provato a cercare consenso, facendo le ronde nei quartieri popolari. Lo scotch è un modo per esprimere una posizione: basta piangersi addosso e denunciare, serve un antifascismo militante».

Gaia Benzi, 27 anni, ricercatrice di italianistica e attivista della palestra popolare Scup a Roma, ha provato a capire come si può andare oltre le reazioni estemporanee per riempire di senso questo antifascismo militante. In Costruire l’antifascismo oltre l’emergenza scrive:

«Le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, ‘d’impatto’, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come ‘guerra tra bande’. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno. (…) Mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi».

Essere antifascisti in un paese in cui il disimpegno e l’antipolitica sono sempre più diffusi e creano un terreno fertile per il neofascismo, non è semplice. «Siamo i figli di una generazione di cinquantenni che passa il proprio tempo a insultarsi su Facebook”, mi aveva detto uno studente di sedici anni alla manifestazione di Non una di meno a Roma l’8 marzo. «Il fascismo è l’espressione di un vuoto culturale», dice Carlo Scarponi, giovane militante di Antifa Macerata, citando Cultura di destra di Furio Jesi. Quando gli chiedo quali sono i suoi libri di riferimento, mi risponde elencando testi spesso citati anche dalle ragazze e dai ragazzi che ho incontrato in questi mesi: dall’intersezionalità delle lotte di Angela Davis alla resistenza climatica di Naomi Klein. Femminismo, postcolonialismo e molto marxismo: dopo anni di antiintellettualismo – anche a sinistra – tante e tanti guardano ad autrici e autori radicali per costruirsi una biblioteca politica.

A Milano l’antifascismo è un impegno quotidiano. Il gesto del sindaco Beppe Sala – che il 18 marzo ha portato dei fiori sulla targa che ricorda Fausto e Iaio, uccisi quarant’anni fa da militanti neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari – sarebbe difficilmente replicabile in altre città.

In via Monte Rosa incontro uno degli attivisti storici dello spazio sociale Cantiere, Leon Blanchaert. Blanchaert riassume in poche parole il cuore delle battaglie di ragazze e ragazzi di oggi: «Gli studenti sono riusciti a ritrovarsi intorno a due mobilitazioni, gli Studenti meticci e Non una di meno, quindi intorno all’antirazzismo e all’antisessimo. Ce l’hanno fatta meno su temi loro, come l’alternanza scuola».

È quello che mi conferma L.M., 26 anni, attivista del Cantiere da quando era un ragazzino: «La riconquista di spazi di libertà e diritti per tutti – per neri gialli verdi blu, etero lesbiche gay trans – è il modo in cui le giovani generazioni vengono a contatto con l’antifascismo». Ma aggiunge anche un’altra considerazione: «Certo se tutti i giorni sei bombardato dalla televisione che parla di invasione o dalla balla dei 35 euro al giorno per gli immigrati, non è difficile capire come si forma una cultura razzista. Per fortuna Milano è una metropoli, in cui se escludi le cinque-sei scuole del centro, hai studenti di tutto il mondo: cinesi, arabi, indiani, e lì è difficile che attecchisca un’idea per cui c’è chi vale di più e chi di meno».

Sono passate due settimane dalle elezioni, e Salvini sembra riuscito a riportare l’estremismo di destra al centro della scena – a Milano, per esempio, strizzando l’occhio a movimenti neofascisti come Lealtà e azione. La sua vittoria, mi dice Blanchaert, va inquadrata in un quadro più complesso: “Esiste una questione che riguarda il suffragio universale e che politicamente nessuno affronta – anche se in parte è stato fatto con le manifestazioni per lo ius soli”.

Per spiegarla, Blanchaert invita a tenere presente alcune cifre: “Quasi il 12 per cento delle persone che vivono in Lombardia è straniero. Molti sono residenti qui da tanto tempo, ma non hanno diritto di voto”. E analizza le conseguenze di questo diritto negato: “Bisogna anche considerare che l’esclusione dei cittadini stranieri dal voto genera numerosi effetti sul dibattito pubblico. Per esempio i partiti non si devono preoccupare di urtare le sensibilità di chi non vota. A Milano, dove vivono 1,3 milioni di persone, hanno votato Lega e Fratelli d’Italia circa 130mila elettrici ed elettori su un milione: quindi, poco più del 10 per cento”.

Nuovi modelli di impegno

A Napoli la situazione dell’antifascismo si concretizza in altre storie ancora. La retorica nazionalista è presente nelle scuole, anche se in classe ci sono ragazze e ragazzi di tutto il mondo. Errico F., 17 anni, studente del liceo scientifico Vincenzo Cuoco e militante del Coordinamento Kaos, mi racconta le conferenze sull’antirazzismo che sono state organizzate nell’ultimo anno parallelamente alle partite dell’Afro Napoli – la squadra di calcio composta quasi per intero da ragazzi senegalesi, nigerini, tunisini, capoverdiani che abitano tra il rione Sanità e piazza Garibaldi – che oggi gioca nel campionato di Promozione.

L’esempio che cita Errico lo ritrovo in decine di altre esperienze che mi vengono raccontate nelle manifestazioni, nei cortei, nei centri sociali, nelle reti antifasciste durante questo ultimo anno: “Devi assolutamente sentire x, ti do il numero di y, c’è il compagno z a Genova che, devi conoscere quello che fanno a Padova, a Catania, a Bologna…”. Tutti mi raccontano di squadre di calcio formate da ragazzi italiani e stranieri, di palestre popolari, di occupazioni abitative. La militanza nasce e si sviluppa in questi contesti in modo imprevisto.

È questo il modello che si è imposto dopo la crisi dei centri sociali, sgomberati o diventati – negli anni duemila – luoghi nostalgici, in cui spesso non c’è stato un ricambio generazionale tra i militanti. Alcuni, poi, sono stati trasformati in trattorie, pub, discoteche…

Giulio Bartolini, responsabile della palestra popolare Valerio Verbano a Roma e uno dei fondatori del Coordinamento nazionale sport popolare (Conasp) me lo spiega bene. Chiacchieriamo davanti ai grandi murales che raffigurano Valerio Verbano, giovane attivista di sinistra ucciso nel 1980, e Carlo Giorgini, militante e maestro di karate morto qualche anno fa di malattia: «La palestra non può essere né una nicchia né un contenitore di indottrinamento, ma un luogo a cui le persone possono accedere senza distinzioni, soprattutto economiche. Fare sport oggi è un lusso: le palestre normali ti chiedono cento euro al mese. Noi accogliamo. O meglio, spesso andiamo a prendere quei ragazzini che stanno sul muretto a pippare cocaina alle quattro del pomeriggio e li portiamo dentro. Vengono da famiglie complicate, spesso i genitori sono analfabeti. Che faccio? Mi metto a spiegargli Karl Marx? Il passaggio dalla pratica sportiva all’educazione ai valori o all’attivismo viene da sé, frequentando gli altri iscritti. C’era un ragazzino che faceva boxe che pensava che Valerio Verbano ero io, che m’ero intestato la palestra a nome mio. Gli ho spiegato tutta la storia di Valerio, e quest’anno la sorella in terza media c’ha scritto la tesina. Ci si sono ritrovati, è la loro storia”.

La suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica

Un altro ragazzo, Giulio B., 28 anni, ha messo per la prima volta piede nella palestra a 18 anni e non se n’è più andato. Oggi fa l’educatore e mi racconta che “il passaggio di consegne tra generazioni è difficile”. Spiega che “è difficile trasmettere la memoria delle lotte della città e del quartiere, dalla resistenza alle lotte recenti, come quella per la casa” e aggiunge che “la scuola non ci aiuta”.

Del difficile rapporto tra generazioni – una questione cruciale – mi aveva parlato anche Carlo Greppi, che dall’inizio degli anni duemila organizza i viaggi della memoria: «All’inizio eravamo poco più grandi dei ragazzi che accompagnavamo, adesso potremmo essere i loro genitori. Un’esperienza importante, duemila ragazzi all’anno che con la nostra associazione Deina accompagniamo in vari lager nazisti in Europa. È questo, credo, essere antifascisti: mostrare le terrificanti conseguenze di un’ideologia che nel novecento ha messo a ferro e fuoco il mondo. Li portiamo su quelli che David Bidussa ha definito come ‘i luoghi del futuro che non vogliamo avere’».

Il ruolo della scuola

Dunque, la scuola. La scuola che «non ci aiuta», nelle parole di Giulio B., e quella che organizza i viaggi della memoria citati da Greppi. È di un anno fa il rinnovo del protocollo d’intesa siglato dall’Anpi e dal ministero dell’istruzione per “divulgare i valori espressi dalla costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale”. Perché è chiaro, come dice Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente dell’Anpi, che «la suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica».

Tuttavia, durante l’incontro che l’associazione dei partigiani ha organizzato un paio di mesi fa – attraverso la rivista Patria indipendente – tra storici dai cinquant’anni in su e ragazze e ragazzi di vent’anni di varie organizzazioni, è venuto fuori un confronto che in parte critica l’approccio dell’Anpi.

Martina Carpani, 21 anni, coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza, replica alla visione di Pagliarulo, che le sembra paternalista, insistendo sulla questione generazionale e dicendo che non si può non tenere conto di una disoccupazione giovanile al 33 per cento: “L’idea della politica come progetto, come trasformazione radicale, è andata sempre di più scomparendo, fino a morire, e questa scomparsa secondo me è stata alla base della frattura tra le istituzioni, i partiti, e le generazione più giovani. Non c’è la volontà di gestire i processi di trasformazione. I famosi braccialetti di Amazon sono reali, la precarietà è reale, ma mentre per noi è al centro di ogni discussione, non lo è nei discorsi delle generazioni più vecchie. Io ho l’impressione che la politica difenda se stessa e voglia ritornare a orizzonti precedenti alla crisi. Come se si potesse tornare indietro”.

Jacopo Buffolo della Rete degli studenti medi aggiunge:«A scuola non si studia cos’è successo dopo la seconda guerra mondiale, non sai cosa sono gli anni di piombo, né cos’è il neofascismo. E non è solo un problema di programmi, ma anche di come vengono messi in pratica. Esci dalle scuole superiori, finalmente puoi votare, ma non hai un’idea precisa. Il fascismo è l’ultimo modello di stato che ti viene comunicato a scuola. Non si arriva quasi mai ad affrontare la repubblica, e i processi politici da cui è nata e che la governano. Questo è un tema fondamentale, sul quale bisogna andare ad agire».

Come mi aveva fatto notare Davide Grasso, il ragazzo che è partito per andare a combattere con l’Ypg, sono cambiate molte cose nel passaggio tra il novecento e gli anni duemila: «Oggi chi lotta contro il fascismo è completamente diverso rispetto a chi lo faceva quindici anni fa, perché allora la cultura antifascista non veniva messa in discussione. Oggi per molti il fascismo è solo un’ideologia tra le tante, e non vedono l’antifascismo come qualcosa di giusto».

Mentre ci avviciniamo al 25 aprile, la questione ritorna in tutta la sua complessità: che ne facciamo dell’antifascismo? La sua crisi conclamata, analizzata nel 2004 da Sergio Luzzatto nel saggio intitolato proprio La crisi dell’antifascismo, cos’ha prodotto? Lacerazioni interne? Una nuova richiesta di radicalismo?

Ne parlo con lo storico David Bidussa. Avevo letto anni fa il suo Dopo l’ultimo testimone (2009), dove rifletteva su come tramandare la memoria dell’olocausto o della resistenza dopo la morte dei testimoni diretti. Mi aveva fatto cambiare prospettiva allora e oggi ci riesce di nuovo: «L’antifascismo è diventato qualcosa di archeologico. Ma oggi, per capire cosa sia, bisognerebbe vederlo come un’analisi critica delle ideologie autoritarie. Se lo consideri come l’espressione di una determinata epoca storica, allora implicitamente decidi che ha vinto Croce che pensava che il fascismo fosse una parentesi. L’antifascismo è un insieme di valori, idee, domande che riguardano i rapporti tra le persone, tra cittadini e potere, tra forze politiche. Domande, idee, valori che dovrebbero essere sul piatto della politica anche oggi. Per esempio, in questi anni si parla molto del fatto che le nuove generazioni hanno paura di non avere un futuro. Come reagiamo a questo? Chi si dichiara fascista giudica fallimentari le ricette usate finora e si rifà a un passato nostalgico, idealizzato, qualcosa che assomiglia a un sogno infranto. Mentre chi si dichiara antifascista prende quello che c’è di buono nelle esperienze passate e lo usa per affrontare le sfide del presente. Le risposte a queste sfide non sono la chiusura, la nostalgia, il nazionalismo, ma l’inclusione, la non discriminazione, la capacità di pensare al domani con una visione di crescita condivisa e governata».

il manifesto, 27 aprile 2018. postilla

Come ampiamente documentato sul sito online Roars , dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione.

Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata alle 8 competenze europee redatta dai loro insegnanti ed una parte a cura dell’Invalsi, che registrerà i risultati ottenuti ai test di Matematica, Italiano ed Inglese, diventando di fatto fonte privilegiata di informazioni pubbliche sui livelli di apprendimento del singolo allievo.

Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione è riferita alle otto competenze europee, tra cui proprio quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» e capaci di «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.

Fin da bambini «in una logica di verticalità», spiega la recente circolare ministeriale che suggerisce «percorsi di educazione all’imprenditorialità nelle scuole superiori», è importante orientare gli studenti verso «una forma mentis imprenditoriale», l’ «assunzione del rischio» e delle «proprie responsabilità». Tutte cose utili non solo per diventare imprenditori veri e propri – si chiarisce – ma in qualsiasi contesto lavorativo e di cittadinanza attiva. Il futuro cittadino-imprenditore globale, suggerisce la letteratura economico-educativa internazionale, va costruito fin da piccolo.

«Starting strong», scrive l’Ocse nella recente pubblicazione Early Childhood Education and Care, dove parole nobili come educazione e cura, non sono più diritti universali dell’infanzia di ciascuno, ma mezzi e strategie finalizzate e re-interpretate in funzione di un obiettivo: «gettare le fondamenta dello sviluppo di skills». Il futuro cittadino transnazionale è cittadino solo se attivo. Nei documenti scolastici la parola cittadinanza non esiste più, se non in concomitanza del termine «attiva». La qualificazione è diventata da qualche tempo necessaria, come se non potesse esistere un cittadino in-attivo, in-competente: un cittadino contemplativo, che non produce nulla. Che gioca, legge, colora, perde tempo. Almeno alle scuole elementari.

L’approccio alla realtà, competitiva e perennemente incerta. Il report europeo da cui nasce il modello Entrecomp, quadro europeo di riferimento per l’educazione imprenditoriale richiamato dalla normativa ministeriale, si pone il problema pedagogico – come insegnare l’imprenditorialità – in un paragrafo specifico: «La componente conoscenza non rappresenta una sfida per l’educazione imprenditoriale metodi come letture o elaborazione delle informazioni non sono appropriati». Continua: «Elementi di competitività vanno introdotti gradualmente dalla primaria alla secondaria, per dare agli allievi l’opportunità di convalidare le loro idee e l’ambiente imprenditoriale/di start up [in cui operano]». Il paradigma della competitività, pilastro concettuale del manifesto La Buona Scuola fin dalle premesse – dove si afferma che «bisogna dotarsi di quel capitale umano per tornare a crescere, competere, correre» – è alla base del pensiero imprenditoriale.

Insegnare a pensare, ragionare e progettare in maniera imprenditoriale significa in sintesi: stabilire un equilibrio ambivalente e schizofrenico tra cooperazione e competizione; sviluppare la capacità di ridefinire continuamente i propri obiettivi; gestire l’incertezza in una realtà non predicibile e non controllabile.

Il paradigma pedagogico è ormai esclusivamente quello economicistico, in una cornice di vero e proprio darwinismo sociale. Come scrive Sarasvathy, autore di riferimento del cosiddetto effectuation approach, richiamato dal Sillabo europeo :«Un imprenditore sa che le sorprese non sono deviazioni dal cammino. Sono la norma, la flora e la fauna del paesaggio da cui ciascuno impara a forgiare il proprio percorso nella giungla».

Siamo proprio convinti di voler introdurre, fin dalle elementari, un simile atteggiamento nei confronti della vita e del futuro? Di trasformare l’infanzia in un “paese dei mostri selvaggi” le cui cifre più profonde siano l’incertezza e la destrezza, la competitività, l’arrivismo? L’arte di vendersi imparata sui banchi di scuola?

Dovrebbe essere noto. Alla macchina del “pensiero unico”, strumento essenziale per il dominio del neoliberisomo, l’intellettuale vero fa paura. Infatti dovrebbe essere una persona che aiuta a comprendere come va il mondo, perché va male e come si dovrebbe cambiarlo perché vivessero meglio le persone, e gli altri esseri, che lo popolano o lo popoleranno, . Quindi il suo requisito essenziale dovrebbe essere il pensiero critico. Dovrebbe saper vedere, e raccontare, non solo la verità delle cose così come esse vengono esposte dai predicatori del “pensiero unico”, ma soprattutto quelle che dietro le apparenze si nascondono.
La realtà è complessa: è figlia di una moltitudine di culture, filosofie, condizioni storiche e sociali. Quindi il primo compito per i padroni del “pensiero unico” è semplificarle: ridurre la cognizione e il giudizio in un sistema binario. Il padrone, e per lui il sistema Invalsi, sulla base del quale si valuta (e quindi si progetta e si costruisce) il processo formativo ti presenta un insieme ricco e articolato di domande, a ciascuna delle quali puoi rispondere solo SI oppure NO.

il Fatto quotidiano,
Oggi è il 25 aprile e non è facile parlarne. Si festeggia la Liberazione dai nazifascisti e – contestualmente – l’ultima volta (73 anni fa) in cui il Paese si è veramente alzato in piedi e ha scritto una pagina di storia di cui andare fieri. I buoni hanno cacciato i cattivi a schioppettate dopo averne viste e sopportate di tutti i colori, il dittatore è finito appeso come nelle fiabe o nelle rivoluzioni, si è riunito un Paese, è nata una buonissima Costituzione, molto avanzata per i tempi, e ancora oggi decente baluardo al nuovo (vecchio) che avanza. Ognuno ha il suo 25 aprile e se lo tiene stretto nonostante mala tempora currunt.

I primi risultati su Google cercando “25 aprile” (sezione “notizie”, ora mentre scrivo) sono i seguenti: “25 aprile, chi apre e chi chiude tra le grandi catene”. “Che tempo farà nei ponti di 25 aprile e primo maggio”. Poi la solita querelle sui palestinesi con la kefieh (se possano o no andare alla manifestazione), e infine un’inchiesta giornalistica (a Pesaro) secondo la quale solo due studenti su dieci sanno cosa significhi la data. Chiosa (quinta notizia) un titolo de Il Giornale: “Il falso mito del 25 aprile. Un italiano su tre: che cos’è?”.

Eppure, oggi è il 25 aprile, e si festeggia. Non solo nelle grandi e piccole manifestazioni, ma in molti gesti di devozione popolare. Chi (esempio) ha mai fatto a Milano il giro delle lapidi dei partigiani fucilati, dove l’Anpi depone le corone con piccole volanti cerimonie, conosce un’intensità speciale, di quelle che rendono giustizia all’anniversario, che lo celebrano veramente.

Perché per anni ci hanno detto che ormai era soltanto retorica, discorsi vuoti, consuetudine, e invece no: nonostante il rischio di consunzione, la festa ha resistito, ed è ancora viva. Negli anni, i partigiani sono stati tirati di qua e di là per la giacchetta (disse un giorno la Boschi che “quelli veri” votavano sì al suo referendum), sballottati ora come figurine edificanti, ora come reliquie. Santificati e demonizzati. Il Pd milanese, che l’anno scorso alla manifestazione portò surreali bandiere blu, quest’anno sfilerà con le belle facce dei partigiani sugli striscioni, a segnalare che il 25 aprile è piuttosto elastico a seconda della bisogna, della tattica, dell’aria che tira.

E però si festeggia lo stesso, perché con tutto il discutere dotto e complesso su populismo, populismi e populisti, quella là, quella del 25 aprile, è stata la volta che si è visto veramente un popolo.

Dunque, ognuno ha il suo 25 aprile, e ognuno può mettere in atto gesti e trucchi per non farsi fregare dalle retoriche passeggere, dagli usi strumentali, dalle stupidaggini negazioniste.

Il mio metodo è di riprendere in mano, per qualche minuto, i volumi delle lettere dei Condannati a morte della Resistenza, e di andare a salutarne qualcuno. E poi torno sempre lì, da Giuseppe Bianchetti, operaio, 34 anni, di vicino Novara, fucilato dai tedeschi nel febbraio del ’44:

«Caro fratello Giovanni, scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia lettera. Non posso nasconderti che tra mezz’ora verrò fucilato; però ti raccomando le mie bambine, di dar loro il miglior aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine. T’auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello. Giuseppe. Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletò e ciò che resta. Ciau tuo fratello Giuseppe«

Leggo questa lettera ogni anno, da anni, perché in quel “paletò” da andare a prendere a Novara insieme a “ciò che resta” mi sembra di vedere una dignità inarrivabile, con la parola “popolo” che si riprende il suo posto. Siamo stati anche questo, per fortuna e sì, bisogna festeggiare.

la Repubblica,
Da sempre il 25aprile è il segnale di un clima: "racconta" il modificarsi di unPaese, il suo vivere il proprio passato e il suo immaginare il futuro. Ed è unosfregio il primo segnale venuto quest'anno, il rifiuto della giunta dicentrodestra di Todi di dare il proprio patrocinio alle celebrazioni dell'Anpi:l'antifascismo sarebbe "di parte", per una giunta che ha il sostegnodi CasaPound. Non è affatto un segnale minore, mentre sul proscenio sisusseguono incauti osanna alla "Terza Repubblica".

E ancora unavolta il 25 aprile chiama in causa tutte le parti in campo: "rivela"la cultura - o l'incultura - dei vincitori, ma anche la capacità di risposta -e la cultura - di chi non si rassegna, di chi non è disposto a cedere il campoquando sono in discussione i valori fondativi della comunità nazionale.Interroga dunque i nuovi "vincitori", il 25 aprile di quest'anno, eda essi esige risposte: anche da chi le ha sempre eluse. E interroga al tempostesso la sinistra, la costringe a riflettere su se stessa. O meglio: su quella"dissipazione di sé" che sembra prevalere. E l'urgenza di unariflessione non episodica è rafforzata e accentuata da molti altri, allarmantisegnali venuti nei mesi scorsi. Una riflessione che coinvolga l'educazionequotidiana alla democrazia (la quotidiana "pedagogia dellaCostituzione") e la mobilitazione politica e civile: così come è semprestato nella nostra storia, lontana o recente.

Può essereutile ricordare il clima di vent'anni fa o poco più, quando venne proclamatol'avvento di una seducente "Seconda Repubblica". In quel 1994 andavaal governo, sotto il segno di Berlusconi, una coalizione che comprendeva per laprima volta anche il Movimento sociale di Gianfranco Fini (un Movimento nonancora depurato a Fiuggi dalle sue radici neofasciste), assieme a una Lega chealimentava umori secessionisti. E se Fini proclamava allora Mussolini "ilpiù grande statista del secolo", trovando la "comprensione" diBerlusconi, gli faceva eco la allora presidente della Camera, Irene Pivetti:"Le cose migliori per le donne e la famiglia le ha fatte Mussolini",disse (era leghista, Pivetti, ma non disse cose molto diverse cinque anni fa lacapogruppo grillina a Montecitorio, Roberta Lombardi).

A completare ilquadro venne allora un programma televisivo sulla caduta del fascismo, Combatfilm, che proponeva un messaggio di sostanziale equiparazione fra le due partiin conflitto. Fascismo e Resistenza pari sono per la Rai, commentava MarioPirani su questo giornale, mentre Barbara Spinelli osservava: in pochi giorni èavvenuto qualcosa di importante in Italia, "c'è clima di banalizzazionedel Ventennio, di libertinismo verbale, licenza assoluta di dire. Morta la"Prima Repubblica" tutto diventa possibile, tutto diventapermesso". Un giudizio scritto allora, ma che rischia di ritornaredrammaticamente attuale.

In quel 1994 larisposta fu chiara e netta: una sinistra disorientata e sconfitta sepperitrovare se stessa e le proprie ragioni (anche se il primo stimolo non vennedai partiti o dai sindacati, ma da un piccolo quotidiano, il manifesto). La mobilitazione fu realmente ampia e confluìnella grande manifestazione nazionale del 25 aprile di quell'anno, a Milano:"un'altra Italia" non era scomparsa e a partire da essa era possibilericostruire nella coscienza di tutti le ragioni della democrazia. E questoavvenne, in una "Seconda Repubblica" per altri versi infausta: siavviò da quel 1994 il percorso che portò una destra sin lì neofascista arinnegare le proprie radici (un merito di Gianfranco Fini che non può esseredimenticato). E il 25 aprile si impose anche a chi, come Silvio Berlusconi, siera sempre sentito estraneo a esso: ci vollero 15 anni, ma il 25 aprile del2009, nella Onna colpita dal terremoto, come capo del governo pronunciò undiscorso esemplare. In contrasto esplicito con quel che aveva sostenuto sin lì(e non da solo).

Anche allora il25 aprile era stato più forte, e naturalmente non vanno dimenticate neppurealtre e più lontane fasi della nostra storia repubblicana, quando lediscriminazioni nei confronti delle associazioni partigiane e delle sinistreerano quotidiane. Avveniva metodicamente negli anni Cinquanta, nel clima della"guerra fredda", con punte talora estreme: nei confronti degliantifascisti, ad esempio, continuarono a funzionare a lungo quei controlli dipolizia e quelle "schedature" del Casellario politico centrale che ilfascismo aveva ampliato a dismisura. Tempi lontani, appunto, travolti allora damobilitazioni popolari che videro attivamente presenti i giovani (le"magliette a strisce" del luglio 1960): travolti, più in generale, dauna modernizzazione del Paese che si coniugava all'ampliamento della democraziae alla progressiva attuazione dei valori e dei principi sanciti dallaCostituzione.

Modernizzazionee ampliamento della democrazia, progredire del Paese e rinsaldarsi dei valoridell'antifascismo, in una mobilitazione culturale, politica e civile contro chisi opponeva a essi in modo esplicito o contro chi ne appannava la rilevanzadecisiva (tratto comune a non pochi "vincitori" del 4 marzo): questoè stato il tratto fondativo della nostra storia repubblicana, e sempre il Paeseha saputo rispondere. È ancora così? Questa è la vera domanda che il 25 apriledi quest'anno pone alla sinistra nel suo insieme, nel momento in cui il suoruolo decisivo - se non la sua stessa esistenza - sembra messo in discussione.Ed è una domanda sul futuro del Paese: riguarda ciascuno di noi.
Guido Crainz, la Repubblica, 22 aprile 2018

L’articolo è tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,
È stata Juliet Schor, sociologa al Boston College, ad accorgersi del fenomeno. Stava studiando le famiglie che negli Usa praticano il cosiddetto downshifting, vale a dire la riduzione dei consumi, la decelerazione nella vita quotidiana, l’attitudine alla sobrietà e alla semplicità dei rapporti umani. E si accorse ben presto di una stranezza: nessuna delle famiglie che aveva fatto quella scelta aveva bambini in casa.

Da quella scoperta fu indotta a occuparsi del consumismo fra i bambini americani e scoprì un continente sommerso.In alcuni mesi di ricerca fu in grado di constatare una frattura storica sconvolgente: per la prima volta nella storia l’influenza formativa sui bambini dalle mani delle famiglie e degli insegnanti era passata alle imprese. Queste avevano lavorato alacremente per allargare un mercato ancora vergine e pressoché illimitato. Dal 1980 al 2004 gli investimenti in pubblicità destinata all’infanzia erano passati da 15 milioni di dollari l’anno a 15 miliardi.
Non è naturalmente un fenomeno americano. La Psicologa Susan Linn in un saggio del 2010 del Worldwatch Institute dedicato alla «commercializzazione nella vita dei bambini», ha rilevato che le sole industrie alimentari spendono circa 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne di marketing mirate ai bambini di tutto il mondo. Non è una pratica senza conseguenze: «L’organizzazione mondiale della sanità e altre istituzioni per la salute pubblica identificano nel marketing rivolto all’infanzia un fattore rilevante dell’epidemia globale di obesità infantile».

Non è solo la pubblicità, ovviamente.Tutta la cultura capitalistica dei nostri anni cerca con feroce determinazione in ogni angolo del vivente materia da cui estrarre profitto. E trova sempre solerti figure intellettuali pronti a fornire motivazioni di utilità generale. Negli Usa è esplosa la questione dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione è stata quella di rendere more productive, più produttivi i bambini, che devono impiegare tutto il tempo scolastico ad apprendere. Eppure è noto, e non da oggi, che proprio il gioco, tra i bambini, è una esperienza formativa decisiva per il loro futuro e per il futuro di tutti noi. «La spiritualità – ricorda ancora la Linn – e i progressi scientifici e artistici si fondano tutti sul gioco. Il gioco promuove attributi essenziali a una popolazione democratica, quali la curiosità, il ragionamento, l’empatia, la condivisione, la cooperazione e un senso di competenza, cioè la convinzione che un individuo possa cambiare le cose in questo mondo». E il gioco sta sparendo nel XXI secolo, sostituito da attività istituzionalizzate e disciplinate (scuole, palestre), dalla fruizione passiva della tv, dagli intrattenimenti digitali sempre più pervasivi, al punto da creare ormai patologie di massa.

Ma ora è l’Europa che entra più esplicitamente in campo per forgiare esemplarmente la nostra infanzia. Non per creare zelanti e totalitari consumatori, ma addirittura volitivi e vincenti imprenditori. In un documento di 40 pagine elaborato dal Joint Research Centre dell’Unione europea, e varato nel 2016, il cosiddetto Entrecomp: the entrepreneurship competence, framework più importante delle 8 competenze europee, che il Miur esorta ad assumere come riferimento teorico anche per la scuola italiana, è la capacità di fare impresa.

Per intenderci e per usare le espressioni dei nuovi manager che si stanno impossessando della scuola europea, occorre fare apprendere come si diventa capitalisti di successo «attraverso metodi di insegnamento e apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare».

Già i bambini di 5 o 6 anni dovrebbero apprendere ad «assumersi rischi», «prendere iniziative», imparare a «mobilitare gli altri», ecc. Si tratta, per chi stenta a credere – ma si leggano in rete gli articoli di Rossella Latempa sulla rivista Roars – di un passo in avanti, rispetto alle esortazioni degli anni scorsi, da parte del ministero dell’Istruzione, a fornirsi di «competenze trasferibili», soprattutto quelle digitali, «che i datori di lavoro esigono sempre di più». Dalla a scuola a servizio delle imprese, alla scuola che ha per fine ultimo quello di creare imprese.

Non ci sono dubbi. Siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni dell’economia capitalistica. Il pensiero unico vuol crearsi le basi antropologiche della propria infinita riproduzione. Ma che società sarà quella popolata da un uniforme esercito di imprenditori? Quanto può durare un mondo di uomini che vogliono, tutti, competere e vincere? E che fine fa l’infanzia, chi protegge i nostri bambini contro tali progetti di pedofilia economicistica? Quando reagiremo, di fronte a queste forme ormai dispiegate di criminalità intellettuale?

il manifesto, Corriere della sera, 20 aprile 2018.

VERTECCHI: LA SOCIETÀ
DELL’EROISMO DEVIATO»

di Alessandra Pigliaru

«Bullismo. Un’intervista al decano dei pedagogisti italiani sul caso di Lucca e le tensioni tra studenti, docenti e genitori negli istituti. "Non c’è un vero cambiamento in questi episodi recenti. Assistiamo a una forma di esibizionismo, ma la scuola non vive in un luogo separato dal mondo"»

Chiedeva il sei politico lo studente dell’Itc «Carrarà» di Lucca, mentre sbeffeggiava l’uomo di 64 anni a cui ha chiesto di inginocchiarsi domandandogli chi comandasse. Un atto di prepotenza a cui si è tristemente abituati, eppure nella congiuntura dei cinquant’anni del ’68 è piuttosto straordinario osservare come la parabola della contestazione studentesca sia così diversa nel deserto politico contemporaneo che, spesso, non prevede nessun orizzonte di radicalità in cui inserirsi. Né di nuove parole e pratiche da inventare per sottrarre l’insofferenza al puro scacco del disagio. Ciò che emerge è allora la reiterazione della violenza che diventa tortura nella prossemica di quanto accaduto a Lucca e nella riproducibilità tecnica della scena che ci si apprestava ad allestire.

Ne abbiamo parlato con Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani e protagonista cruciale del dibattito sull’educazione anche in relazione al sistema scolastico. Già presidente del Centro europeo dell’educazione (Cede) e dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione (Invalsi). «Mi sono laureato proprio nel ’68 – racconta il professor Vertecchi che, tra gli impegni accademici, ha collaborato a numerose ricerche promosse dall’Ocse e dall’Association for the Evaluation of the Educational Achievement -. La rozzezza a cui si assiste oggi allora era inimmaginabile. Esisteva un esprit de finesse, a cominciare dalla preparazione politica e culturale degli studenti – oggi quasi del tutto assenti. Ciò nonostante il conflitto sociale era aspro e si aveva la capcità di aprirlo con un senso e un significato».

Cosa è cambiato nel fenomeno del bullismo?

«Il cambiamento non è nel fenomeno in sé ma nell’amplificazione consentita dai mezzi di comunicazione. È vero tuttavia che il bullismo classico era un fenomeno ben diverso perché inteso come forma di manifestazione della forza di chi non ha coraggio; quello a cui invece assistiamo oggi è una forma di esibizionismo, considerando l’enfasi di un certo «eroismo deviato».

Il problema non è nella Rete però…

«È più facile diffondere esempi di bullismo e trarne un beneficio perverso come ritorno di immagine. Detto questo, lo sviluppo di attività in cui compare la prevaricazione di un singolo o di un gruppo sull’altro non è qualcosa che riguarda solo la scuola. Sappiamo che è presente in altri ambiti, assistiamo quotidianamente all’imbarbarimento della cultura sociale che passa per un deterioramento del linguaggio (pensiamo solo alla pessima lingua utilizzata dai nostri politici), esiste una violenza verbale, una lingua sguaiata, veicolata dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione che diviene un esempio piuttosto pervasivo per chiunque, soprattutto per chi è giovane. Una forma di autorizzazione, di legittimazione alla violenza. Non è una questione morale, è che anche il linguaggio determina dei comportamenti conseguenti».

Crede si tratti di una rottura del patto con la scuola o il problema è un altro?

«Non è il patto con la scuola a essersi rotto, bensì quello della convivenza sociale. Il fatto che simili episodi, variamente articolati, non avvengano esclusivamente in ambito scolasticosignifica che dobbiamo guardare all’ampiezza delle condizioni sociali. Del resto dovremmo finirla con la divisione tra l’educazione formale e quella informale; la scuola non vive in un luogo separato della società.».

Come mai gli e le studenti non riconoscono autorevolezza a chi insegna? È un’esautorazione che passa dalle famiglie?

«La figura dell’insegnante è molto indebolita perché ha perso molti dei caratteri che prima la distinguevano da altri ruoli. Ora l’insegnante è più simile a un professionista intermedio con funzioni modeste e soprattutto ricopre un ruolo non socialmente desiderabile. Il «credito» che gode nei confronti dei genitori è altrettanto modesto. Se consideriamo l’aspetto economico, il lavoro dell’insegnante è sempre stato piuttosto sottopagato; la differenza tra allora e oggi risiede nel prestigio culturale. Cioè è diminuito il credito sociale esattamente come la densità culturale di cui era portatore e a cui poteva dedicarsi. Ora alle scuole vengono dati una quantità di compiti tra i più vari e che tengono molto impegnati nel loro svolgimento».

SCHEDA: VIRALE IL VIDEO DELL’UMILIAZIONE
Ha fatto il giro della rete il video dello studente dell’istituto tecnico Carrarà di Lucca mentre umilia e minaccia il suo docente, chiedendogli il 6 e intimandolo di mettersi in ginocchio. Di ieri è un altro video, proveniente dalla stessa scuola, con protagonisti tre studenti minorenni – accusati ora di violenza privata aggravata in concorso e dunque iscritti nel registro degli indagati. Anche il preside ha presentato denuncia formale.
LA SCUOLA É SOLA
di Alba Sasso

Quel che colpisce nelle immagini diffuse dai media sui fatti della scuola di Lucca è un’aria di tragica normalità. Ricorda altre recenti vicende come quella di una insegnante, quasi in «balia» di una classe in pieno subbuglio, rassegnata, impossibilitata ad agire. Tanto da non essere neppure stata lei a denunciare il fatto. Non è comunque sempre la stessa liturgia: in alcuni casi la classe sembra indifferente o estranea a quanto avviene, in altri casi parteggia per l’una o per l’altra parte.

Ma quel che è più preoccupante è che al di là dei fatti, quel che sembra interessare gli alunni è la «visualizzazione» di quegli stessi fatti e la loro diffusione nel web. Che finisce col contare, anche di più della vita reale. E allora non siamo più solo in una situazione di allarme singolo. Siamo in una situazione nella quale quello a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la punta di un iceberg: l’evidenza di un malessere più profondo, che le recenti riforme o presunte tali non solo non hanno risolto, ma addirittura aggravato.Quella scuola che ci raccontano quei video è una scuola antica, quella della lezione frontale, dove conta il voto che assolve o condanna. Dove gli insegnanti sembrano stremati e soli, senza neanche la voglia di socializzare i problemi. Dove il tema di cosa si insegna e si impara a scuola, e come, sembra una questione dimenticata.

Vi ricordate:«un po’di inglese, un po’ di informatica» o le quattro chiacchiere a proposito di sapere della scuola contenute nella legge 107? Ma questa scuola non è la realtà. Anzi le è antitetica. L’individualismo ha permeato la società, le famiglie sostengono i figli, anziché educarli, tutto marcia al contrario.

Si è interrotta, e da tempo, nonostante l’impegno «accanito» di tanti docenti che continuano a fare una «buona scuola», una riflessione sul rapporto tra cultura della scuola e contemporaneità, sul sapere capace di fornire strumenti per conoscere, capire, diventare cittadine e cittadini di un mondo sempre più vasto. E si è pensato addirittura che per essere preparati al mondo, che poi sarebbe solo quello della produzione, possa bastare l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, realizzata come fosse un’ altra materia di studio. E con esperienze denunciate dalle stesse studentesse e studenti come inutili o addirittura negative. (dai McDonald a Zara).

Manca da tempo un’attenzione, forse anche un bilancio di quel che sta succedendo nelle scuole. Dove certo, i fatti di questi giorni non sono la norma, ma rappresentano un allarme, di cui tener conto. Colpisce ancora il silenzio delle famiglie di fronte a questi fenomeni, quelle famiglie che spesso si comportano solo da utenti, alle volte rissosi e violenti, piuttosto che come componente essenziale del più complessivo governo del sistema.

La scuola è sola, di fronte a problemi enormi. Sono soli i suoi insegnanti, «stanchi di guerra», sono soli quei bulli, sono sole le famiglie e sono soli persino i dirigenti. E purtroppo la scuola torna alla ribalta solo per questi «scandali».

E allora bisogna ricominciare a ricostruire quel tessuto solidale nella scuola e intorno alla scuola, come già tante scuole e territori fanno- ma di loro non c’è traccia nei media- perché hanno capito, a differenza dei mestieranti della politica, che i luoghi della formazione sono decisivi per costruire un futuro migliore per tutte e tutti.

ETICA ED EDUCAZIONE
di Antonio Polito

Perché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il sei politico dal suo docente, e un altro lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?

È da qui che bisogna partire se si vuol trarre una lezione dalla impressionante sequenza di insegnanti intimiditi e maltrattati da «branchi» di studenti, che si filmano e si rilanciano sui social. Ma non per interrogarsi sul coraggio personale di chi viene umiliato. Nessuno, salvo forse chi opera nelle forze dell’ordine, ha un dovere al coraggio fisico sul lavoro.

No, la domanda che dobbiamo farci è come sia potuto accadere che un insegnante si possa sentire così solo, così indifeso, così deprezzato e abbandonato, dalla scuola, dai genitori, dal resto della società, da preferire di lasciar correre, magari sperando di evitare guai peggiori all’istituto e ai suoi stessi alunni. La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole.

Qui non si tratta di uscirsene con la solita lamentazione sui bei tempi andati, dare la colpa al ’68 e alzare le spalle come se non ci fosse ormai più niente da fare. Si tratta invece di rimettere in piedi nella nostra era, fatta di smartphone e di Rete, con i giovani come sono fatti oggi, un’idea di libertà che non sia licenza e di autorità che non sia imperio. Anzi, si tratta di far leva proprio sullo spirito critico dei nostri ragazzi, oggi mille volte più stimolabile che in passato, per indirizzarlo verso il bene, piuttosto che verso il male.

Il senso di onnipotenza che pervade un adolescente, e che gli deriva tra l’altro anche da una struttura fisica del cervello ancora in formazione, può condurre infatti a esiti molto diversi.

Sui media finiscono quelli peggiori, vediamo in azione giovani che sembrano aver del tutto smarrito il senso del limite, la linea di confine che passa tra la vita reale e quella virtuale, e che spesso nella vita reale sembrano quasi recitare per il pubblico dei social, ansiosi di costruirsi un’identità di successo, perché oggi si ha successo se si è famosi, qualsiasi sia il motivo della fama.

Ma, diciamoci la verità: da quanto tempo noi, società degli adulti, abbiamo smesso di occuparci di una buona semina, di saperi e di valori, in questi cervelli così fertili, in questi cuori così ricettivi? E, soprattutto, da quanto tempo abbiamo smesso di occuparci della manutenzione non solo delle scuole, ma anche dei docenti: della loro frustrazione, della loro fatica, delle loro solitudini?

Nel suo libro, Ultimo banco, Giovanni Floris riferisce quel che gli ha detto la vicepreside di un istituto del Sud: «Un ragazzo, grazie allo studio, ha l’occasione di dimenticare le mode che ossessionano il gruppo di amici; un bullizzato ha l’occasione di scoprirsi più forte del bullo: la scuola è il mondo in cui il pensiero autorizza l’alunno a crescere libero da stereotipi e costrizioni». È così; o meglio, dovrebbe essere così. Ma noi abbiamo lasciato che i sacerdoti di questo culto della libertà che è l’educazione venissero un po’ alla volta spogliati di ogni rispetto. Lo abbiamo fatto noi famiglie, che scambiamo il pezzo di carta con l’istruzione trasformandoci in sindacalisti dei nostri figli, pronti a ricorrere perfino al Tar contro la valutazione degli insegnanti. Lo ha fatto lo Stato che ha consentito di trasformare i docenti nella categoria di laureati peggio pagata. Lo ha fatto un’austerità di bilancio che ha salvato molte spese inutili ma ha lasciato invecchiare e deperire il nostro corpo docente (in Germania a fine carriera un professore della scuola secondaria guadagna 74.538 euro, in Italia 39.304).

E lo ha fatto una cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti.

Ieri il raccontava di che cosa è successo in un istituto milanese nel quale il preside ha avuto il coraggio di punire un gruppo di studenti che avevano diffuso sui social le immagini intime di una ragazzina, obbligandoli a una corvée di pulizie nella scuola. Ebbene, molti genitori hanno preso le parti dei figli: punizione eccessiva, quasi una gogna, in fin dei conti la colpa è della ragazza che mandava in giro le sue foto.

Contro questo demone del giustificazionismo, questa paura della responsabilità etica, normativa e talvolta perfino punitiva che i veri educatori devono invece assolvere, bisogna combattere una guerra comune. Il cui esito non è certo meno importante, per le sorti della comunità nazionale, di quello della crisi di governo.

il Fatto quotidiano, 19 aprile 2018.

«La Costituzione non indica vaghi principi, ma obiettivi precisi e spiega come raggiungerli. Il dibattito politico però ha rimosso il tema nelle sue declinazioni cruciali, l’accesso alle cure e alla cultura»

Vita dura per chi, negli estenuanti negoziati all’inseguimento di ipotetiche alleanze di governo, cerca col lanternino non solo qualche rada dichiarazione programmatica, ma un’idea di Italia, una visione del futuro, un orizzonte verso cui camminare, un traguardo. Al cittadino comune non resta che gettare un messaggio in bottiglia, pur temendo che naufraghi in un oceano di chiacchiere. La persistente assenza di un governo è un problema, certo. Ma molto più allarmanti sono altre assenze, sintomo che alcuni problemi capitali sono stati tacitamente relegati a impolverarsi in soffitta. Per esempio, l’eguaglianza.

Di eguaglianza parla l’articolo 3 della Costituzione, e lo fa in termini tutt’altro che generici. Non è uno slogan, un’etichetta, una predica a vuoto destinata a restare lettera morta. È l’articolo più rivoluzionario e radicale della nostra Costituzione, anzi vi rappresenta il cardine dei diritti sociali e della stessa democrazia. E non perché annunci l’avvento di un’eguaglianza già attuata, ma perché la addita come imprescindibile obiettivo dell’azione di governo.

L’articolo 3 dichiara che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», ma non si ferma qui, anzi quel che aggiunge è ancor più importante, e non ha precedenti in altre Costituzioni. «La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

L’eguaglianza fra i cittadini è qui affermata attraverso la loro dignità sociale. La dignità, raggiunta mediante il lavoro, è identificata con il pieno sviluppo della persona. Dignità, sviluppo della persona e lavoro convergono per creare equilibrio fra i diritti del singolo e i suoi «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La democrazia secondo la Costituzione è dunque «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», e il suo protagonista è il cittadino-lavoratore: perciò l’art. 4 garantisce il diritto al lavoro. Questa idea di democrazia risulta dalla somma di dignità personale e sociale, lavoro, eguaglianza, solidarietà. Dà forma concreta alla sovranità popolare dell’art. 1, ed è il fondamento di larga parte della Carta: non solo gli articoli sui diritti e doveri dei cittadini e sui rapporti etico-sociali (artt. 13-34), ma anche quelli sui rapporti economici (artt. 35-47) e politici. Una parte, questa, che include anche la seconda parte della Costituzione (Ordinamento della Repubblica).

Irraggiandosi su tutta la Costituzione, il principio di eguaglianza sostanziale introdotto dall’art. 3 comporta il progetto di una profonda modificazione della società. Qualcosa da cui siamo, in tempi di impoverimento crescente, di alta disoccupazione e di crescita delle disuguaglianze, più lontani che mai. Quel testo così rivoluzionario fu il “capolavoro istituzionale” di Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, allora capo di gabinetto del ministero della Costituente, retto da Pietro Nenni. Dal libro sull’art. 3 di Mario Dogliani e Chiara Giorgi (nella bella serie sui principi fondamentali della Costituzione pubblicata da Carocci) risulta anche il contributo in Costituente di Moro, La Pira, Fanfani. Ma questa “norma-cardine del nostro ordinamento costituzionale” (Romagnoli), che dovrebbe ispirare ogni legge e ogni atto del Parlamento e dei governi, è stata troppo spesso ignorata. Eppure il traguardo costituzionale dell’eguaglianza, data la sua straordinaria, visionaria forza e ricchezza, dovrebbe essere la stella polare di qualsiasi programma di governo.

Per fare solo qualche esempio: il diritto alla salute prescritto dall’art. 32 della Costituzione è palesemente uno strumento di eguaglianza, dunque dev’essere identicamente garantito a tutti. Ma ognun sa che vi sono regioni (specialmente nel Sud) dove il costo pro capite della sanità è assai più alto che in altre (Centro-Nord), mentre i servizi offerti sono molto meno efficienti; per non dire della quota di famiglie impoverite che, a causa delle crescenti spese (ticket etc.), tendono a rinunciare a ogni cura (28.000 nuclei familiari in Calabria, 69.000 in Sicilia).

C’è forse un piano per correggere questa stortura? E come rimediare alla crescente disoccupazione giovanile (58,7 per cento in Calabria)? Il “reddito di cittadinanza” è un rimedio ma non una risposta, e una vera politica del lavoro e della piena occupazione è di là da venire. A fronte di una Costituzione che individua nel lavoro l’ingrediente essenziale della dignità della persona e della democrazia, quali sono i progetti dei partiti? Per fare solo un altro esempio: anche la cultura, e in particolare l’istruzione scolastica, è secondo la Costituzione un ingranaggio irrinunciabile della dignità personale, dello sviluppo della persona, e dunque della democrazia.

Ma che cosa si intende fare per invertire la rotta di una crescente disuguaglianza di classe favorita da una scuola che è stata battezzata “buona” proprio nel momento in cui da cattiva diventava pessima? E da cosa nascerà l’innovazione e lo sviluppo (dunque anche l’occupazione), se l’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del Pil, contro il 3,3 per cento della Svezia, il 3,1 per cento dell’Austria, il 2,9 per cento della Germania? E se l’università è mortificata da pessimi criteri di valutazione della ricerca, strangolata dalla persistente carenza di fondi, umiliata dalla precarizzazione crescente dell’insegnamento?

L’eguaglianza non è un traguardo facile, ma ignorarlo vuol dire calpestare quella stessa Costituzione che i cittadini hanno difeso nel referendum del 4 dicembre 2016. Quel voto, e così quello del 4 marzo di quest’anno, chiedono radicali cambiamenti, ma in quale direzione? Per uscire dalla palude bastano volti nuovi, nuove alleanze, nuovi slogan? Da questo Parlamento e dal futuro governo dovremmo esigere la competenza e l’immaginazione necessarie a indicare un traguardo degno della nostra Costituzione e della nostra storia. Un futuro per cittadini-lavoratori che nella dignità della loro persona e nella solidarietà riconoscano l’alfabeto della democrazia e la speranza per le nuove generazioni.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,

Un’assemblea come quella di lunedì al Tpo di Bologna non si era mai vista. Innanzitutto non era mai successo che un arcivescovo, monsignor Matteo Zuppi, si presentasse in un centro sociale per dialogare con un gruppo storico di antagonisti. Se poi consideriamo che stiamo parlando di una delle diocesi più importanti d’Italia, per decenni guidata da una curia di stampo conservatrice, e in una città dalla lunga tradizione di sinistra; e se aggiungiamo che lo spunto per il confronto è venuto dai discorsi ai movimenti popolari di papa Francesco (diffusi dal manifesto), allora ci sono tutti gli elementi per parlare di una serata importante.

Era stata ideata come una presentazione del volume Terra, Casa, Lavoro da me curato (con l’introduzione di Gianni La Bella), ma era chiaro già da prima che il libro avrebbe dovuto funzionare da innesco per un confronto assembleare sulla trasformazione e sulla crisi del tempo presente, su Bologna e sulle sue emergenze sociali. Tra i relatori, oltre a chi scrive, Luciana Castellina e Domenico Mucignat, voce storica del Tpo.

La speranza era di avere un momento partecipato, ma neppure nelle migliori aspettative ci si sarebbe immaginati di vedere il capannone del centro sociale pieno di giovani attivisti, esponenti dell’associazionismo di base, seminaristi e abitanti del quartiere (insieme a un numero consistente di giornalisti e ad alcuni nomi della politica locale: assessori della giunta comunale (Matteo Lepore e Davide Conte), consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione e altri volti della «sinistra diffusa». Insomma, un insieme decisamente composito e tutt’altro che privo di quella dose di autoironia – «dai, che tra poco inizia la messa», si scherza davanti al bar – che diventa quasi necessaria, anche per stemperare la tensione della prima volta.

Va detto poi che alle spalle dell’assemblea c’è stato un lungo lavoro: i contatti tra gli antagonisti e Zuppi risalgono ad almeno due anni fa, cioè da circa un anno dopo l’insediamento dell’arcivescovo venuto dalle periferie romane.

In questo tempo il vescovo scelto da Bergoglio non ha mancato di dare più volte prova di come intenda la sua pastorale: coerentemente per gli ultimi e senza paura del dialogo con le realtà cittadine. «La serata – spiega in apertura Mucignat – è il punto di arrivo di un percorso che ha mosso i primi passi dalla collaborazione tra la diocesi, lo sportello Migranti del Tpo e il progetto Accoglienza degna (dello spazio Làbas) per dare una soluzione all’emergenza abitativa di un richiedente asilo di comune conoscenza».

Il confronto assembleare prende avvio proprio da come le parole di riscatto sociale del papa possano essere tradotte concretamente nel contesto italiano. A questo proposito, ho invitato a non dimenticare che quei discorsi hanno un peso particolare anche per via del quadro in cui sono stati pronunciati, cioè nella rete mondiale dei movimenti che ha riunito in Vaticano (e nel 2015 in Bolivia) centinaia di organizzazioni di diversa estrazione politica e culturale che da anni praticano il conflitto. Non solo teoria dunque, e certo non solamente slogan, come racconta la storia dei Sem Terra e del Movimento dei lavoratori esclusi argentino.

Un’analisi dei discorsi del papa è venuta da Luciana Castellina, che ha sollecitato direttamente l’interlocutore ecclesiastico chiamando in causa la storia del dialogo tra cattolici e comunisti, il contributo del Pci e del gruppo del .

Attento e dotato di un sostanzioso dossier di appunti, Zuppi ha precisato subito che lo stupore dei media per la sua partecipazione è risultato in effetti del tutto ingiustificato: il dato preoccupante, semmai, è che «parlare faccia notizia».

Quindi ha coinvolto l’assemblea su un’analisi dei discorsi di Bergoglio, mettendo in evidenza i passaggi dai quali si evince che un’azione collettiva è necessaria, così come lo è il rispetto delle diversità d’impostazione. Ha ricordato che i cartoneros in Italia rischiano spesso il carcere e che i movimenti agiscono senza manicheismi e con in testa un’etica. Insomma, una riflessione sgombra dal timore di una reciproca strumentalizzazione, e sostanzialmente incentrata sulla definizione di un umanesimo alternativo al sistema dominato dalla finanza, ma partendo dalle emergenze concrete (migranti, lavoro, ambiente).

Durante le due ore di discussione sono risuonate più volte le parole chiave: «ingiustizia», «muri», «conflitto», «dialogo». Non sono mancati appunti sulla distanza notevole che separa la Chiesa cattolica da chi pensa che senza l’autodeterminazione dei corpi non ci possa essere una prospettiva di riscatto collettivo. Ma si può dire che, come in occasione degli incontri mondiali dei movimenti, è prevalsa la ricerca di un linguaggio condiviso.

Per Gianmarco De Pieri del Tpo, «abbiamo messo a tema come organizzare la resistenza contro l’ingiustizia. Due mondi che da tempo si parlavano, invitano tutti gli altri mondi a parlarsi. Nei periodi più felici, per esempio a Genova nel 2001, i movimenti sociali hanno camminato insieme. Ricominciamo a farlo».

Rimanendo nel terreno della storia, la serata di lunedì fa pensare agli anni Sessanta e agli incontri tra quelli che allora erano detti i «cattolici del dissenso» e i militanti della sinistra, quella vecchia e quella nascente. I concetti dell’epoca erano simili, quando non gli stessi, ma la sensazione è che siamo, nello stesso tempo, vicini e lontani anni luce dalle dinamiche di allora. Siamo vicini nella misura in cui, dopo decenni nei quali la Chiesa cattolica si è arroccata in una campagna sulla bioetica, Francesco ha compiuto un rinnovamento, con al centro il discorso sociale, che ricorda la stagione di Roncalli e del suo concilio.

In mezzo però si è consumata la fine del Novecento, con quell’accelerazione della crisi culturale e politica che obbliga a un ripensamento profondo delle categorie, un tempo definite anche in opposizione tra loro.

L’assemblea di Bologna ha reso palese, verrebbe da dire quasi con semplicità, che è in corso un cambiamento d’epoca e che, senza rinunciare alla propria appartenenza, c’è un percorso di movimento da riprendere, serve un nuovo «tessuto sociale» (Zuppi) e, soprattutto, un agire comune di resistenza e risposta, senza «pasticci ideologici» (Castellina) che suonano oggi inutilmente anacronistici.

NENAnews, 1

«Dopo aver visitato 8 campi nelle province irachene di Ninive e Salahddin, l’ong denuncia “uno sfruttamento sessuale straziante”. A pagare il prezzo più alto sono le donne sospettate di avere legami con lo Stato Islamico. A compiere gli abusi sono le forze di sicurezza e i membri delle milizie»

Le donne sospettate di avere legami con lo “Stato Islamico” (Is) sono vittime si sfruttamento sessuale e discriminazione nei campi rifugiati iracheni. A dirlo è Amnesty International (AI) in un rapporto che si concentra su otto campi profughi sparsi tra le province irachene di Ninive e Salahdin, un tempo aree controllate dal “califfato”.Irisultati dello studio della ong inglese sono drammatici: ovunque le donne sono maltrattate. Ma quelle “che si pensa abbiano rapporti con l’Is subiscono un alto grado di discriminazione e varie violazioni dei diritti umani” ha detto Nicolette Waldman, ricercatrice per Amnesty in Iraq. “Quello che per me è stato scioccante – ha aggiunto Waldman – è la violenza sessuale. Abbiamo scoperto che è diffusa e il modo in cui queste donne siano abusate è straziante”.

Una donna, citata nel rapporto, denuncia: “Non possiamo restare da sole fuori il campo, non è sicuro per noi. Ma in realtà è lo stesso anche dentro. Nessun posto è sicuro”. Dallo studio di AI emerge che a compiere gli abusi sono le forze di sicurezza a protezione dei campi e i membri delle milizie. Una accusa grave, ma che al momento il governo iracheno preferisce non commentare.

Secondo alcune ong che lavorano in Iraq, le donne che hanno mariti e padri morti o dispersi sono quelle più costrette a matrimoni forzati o a subire violenza. Particolarmente grave è anche la situazione di chi è analfabeta e non sa come ottenere documenti d’identità per accedere ad aiuti governativi o cibo. “La loro vulnerabilità li rende vittime di sfruttamento umano” ha detto Karl Schembri, consigliere regionale del Medio Oriente del Consiglio rifugiati norvegese.Condizioni di vita inaccettabili che però, sostiene AI, potrebbero peggiorare a causa della crisi economica che vive l’Iraq: le autorità irachene affermano che sono necessari soltanto 88 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese. Una cifra che è di gran superiore a quella che è stata promessa o data dai donatori internazionali.

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«Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propriaimpotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocatofrustrazione e disincanto», così sostiene Gigi Riva su la Repubblica del 16aprile, ed enumera gli eventi che sosterrebbero la sua tesi. Analogo parereaveva esposto qualche giorno prima Gianni Toniolo in un editoriale de il Sole24ore, argomentando che in ogni azione pacifista, prima di muoversi, si sarebbedovuto valutare freddamente se era possibile vincere.

C’è del vero in queste posizioni, ma sarebbe un pericoloso errorearrendersi senza domandarsi che cosa è cambiato, e se davvero è necessariorinunciare a battersi per la pace.

Noi non diremmo che il pacifismo sia scomparso, ma che si è disgregato.Il nostro mondo è pieno di conflitti nei quali si scontrano forze (deboli opotenti, pattuglie o eserciti) che si battono per l’opzione pace / guerra:dall’Ucraina al Congo, dalle Filippine alla Colombia, dal Venezuela allaPalestina, dallo Yemen alla Siria, dal Pashmir alla Somalia - per non ricordareche alcuni dei mille conflitti aperti.

Ma tra le parti in conflitto c’è una grande differenza: lefazioni che operano per la guerra hanno alle spalle un sistema potentissimo chele alimenta: quello del “complesso degli armamenti”, più forte di tutte le altreholding che animano il finanz-capitalismo. Le forze della pace sono invecedisgregate. Ciascuna delle sue porzioni vede solo l’avversario immediato,combatte da solo, come Davide contro Golia.
Questa situazione perdura dagli anni Ottanta del secoloscorso. In un momento come questo, in cui la conflittualità e l’interventismomilitare internazionale si intensificano in tutto il pianeta, secondo lamutevole geografia degli interessi Usa, la credibilità dell’ONU diminuisce e ildibattito sulla democrazia internazionale è a minimi storici, ci sembra deltutto evidente che occorre recuperare unadimensione globale della pace. Non possono esistere tanti separatipacifismi, uno per ciascun conflitto se si vuole essere incisivi.

E’ indispensabile (ri)prendere il dibattito sul pacifismo esulla democrazia internazionale, mettendo al centro non la politica interna, maquella estera. Limitare il principio democratico ai singoli stati significaschiacciarlo su considerazioni di politica interna, che lascia il campo anchealla razionalità e convenienza della guerra per difendere gli interessinazionali. Infatti, la politica moderna ammette la guerra come legittima nelrapporto con gli altri stati. Diceva Frederick Engels nel 1848 «Come voleteagire democraticamente verso l'esterno, finché la democrazia è imbavagliataall'interno?»
Occorre rendersi conto che la pace è una condizione indivisibile dell’umanità. E che ognilotta per la pace è sterile, e sarà sconfitta, finché non diventerà un’unicaazione contro la guerra in sé – e quindi, necessariamente, contro il complessoindustriale e finanziario che la alimenta, e il sistema economico-sociale dicui è parte integrante.
Bisogna scendere in piazza, uniti si per la pace, ma anchechiedendo a gran forza il disarmo, la dismissione delle basi nucleari, laconversione delle industrie belliche in Italia, e battersi nelle prossime elezioni europee peril disarmo unilaterale dell’Unione Europea.
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il Fatto quotidiano,

Caro direttore, continuo a pensare che un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd (un governo il cui presidente, la cui composizione e il cui programma dovrebbero essere l’oggetto di un confronto libero da qualsiasi pregiudiziale) sarebbe il modo migliore di uscire da questa situazione: che è del tutto fisiologica, in un sistema parlamentare, e che solo l’inadeguatezza del nostro ceto politico trasforma in uno ‘stallo’.

Lo penso perché guardo all’aspetto più clamoroso del voto del 4 marzo: quello sociale. In quel voto è tornata la lotta di classe. Senza programmarlo, senza tematizzarlo, senza nemmeno dirlo. Anche se non lo sanno, o non sono interessati a vedersi così, i 5 Stelle e la Lega sono di fatto partiti delle classi subalterne. Votati in massa soprattutto (anche se non solo) dagli ultimi, dai sommersi, da coloro che sono sul filo del galleggiamento (iniziando dai giovani precari, i nuovi schiavi), in un Paese con 18 milioni di cittadini a rischio di povertà (al Sud quasi uno su due). Mentre il Pd (e anche Liberi e Uguali) e Forza Italia sono stati votati dai salvati, dai relativamente sicuri, dai benestanti. Dunque, la faglia sistema-antisistema è sociale, prima ancora che di opinione, ed è una faglia che spacca in due il centrodestra. E quando il Pd spinge i 5 Stelle tra le braccia della Lega non obbedisce solo al puerile, irresponsabile ricatto renziano o al retaggio dell’inciucio del Nazareno, ma risponde a una logica più profonda, quella del blocco sociale che condivide con Forza Italia.

Sperare che questa cristallizzazione si rompa, significa sperare che il Pd possa ritrovare la forza di rappresentare i ceti più deboli: non si tratta di de-renzizzarsi (è solo una misura di necessaria igiene), ma di invertire la rotta rispetto a un tradimento delle ragioni elementari della sinistra iniziato negli anni Novanta, con la genuflessione a Blair e allo stato delle cose che fu indifferentemente compiuta da un Veltroni e un D’Alema.

È l’ultima chiamata, e se il Pd avvertisse lo strappo dei milioni di suoi elettori che hanno scelto i 5 Stelle potrebbe avere la forza di cambiare. Non sarebbe facile, certo: ma l’alternativa è trasformarsi, culturalmente e numericamente, in una specie di Scelta Civica. Volendoci provare, il terreno del confronto possibile con i 5 Stelle è quello dell’attuazione della Costituzione, a partire dai principi fondamentali: il terreno in cui il Pd potrebbe tentare una palingenesi, e il Movimento rimanere fedele a se stesso.

Se queste sono le speranze, l’osservazione della realtà non spinge all’ottimismo. Perché l’ansia di Luigi Di Maio di andare al governo rischia di far saltare ai 5 Stelle il fosso verso il sistema: e a tempo di record. Prendiamo la vicenda della guerra: la più cruciale di tutte. Dopo qualche sbandamento, i 5 Stelle hanno usato le stesse parole scelte da Martina: “Siamo fedeli all’alleanza atlantica”. Che tradotto vuol dire: se Trump ci chiede le basi per una ulteriore azione di guerra, noi le daremo. Alla faccia della Costituzione (art. 11) che si dice di voler attuare.

Dopo mesi di grottesca campagna sulle fake news, culminata nell’idea di un fact checking di Stato affidato a Minniti (!), i 5 Stelle non sanno reagire esercitando e argomentando una critica sulle ‘prove’ esibite dal fronte atlantico e supinamente accettate come tali dalla stampa. I canali della Chiesa cattolica dalla Siria, per esempio, raccontano un’altra verità, riassunta in un tweet dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi: “Sono in contatto telefonico con monaci e vescovi ortodossi in Siria. L’attacco degli Usa e dei francesi e l’ipocrisia del governo italiano mi rattrista e mi indigna. Menzogne e menzogne per continuare una guerra che vuole umiliare il medio oriente arabo”. Non sarà così semplice, e certo la situazione è complessa: ma proprio per questo non è possibile acconsentire a una guerra a scatola chiusa.

Contemporaneamente, Matteo Salvini denuncia la follia delle armi. Collateralismo alla Russia di Putin? Può darsi: ma anche sintonia profonda con la metà del Paese che è convinta che questo sistema, il sistema globale, è insostenibile. Una metà del Paese in cui si trova anche chi ha firmato l’appello della Rete della Pace contro questa guerra: tutta la sinistra (quella sociale, visto il suicidio di quella politica), il mondo cattolico, i sindacati, l’Anpi, Libera, Libertà e Giustizia.

Naturalmente non voglio ‘riabilitare’ la Lega perché oggi è per la pace. Non dimentico la trasformazione della Lega in un partito lepenista, simboleggiata dalla foto in cui Salvini dava la mano al terrorista fascista di Macerata, già candidato con la stessa Lega.

Se il rapporto tra Cinque Stelle e Pd, invece di far cambiare il Pd, facesse cambiare i 5 Stelle, lasciando solo la Lega a rappresentare chi è contro questo orrendo sistema, allora sarebbe un disastro.

la Repubblica,

Il governo non c’è, le Camere ci sono però immobili, come la Bella addormentata. E nel frattempo il potere dove sta, dove si trova? Il potere è altrove, disse Sciascia nel 1983, chiudendo la sua breve esperienza da deputato. Aveva ragione, rispetto ai potentati economici e sociali che condizionano la nostra vita pubblica. Aveva torto, rispetto al cuore pulsante delle istituzioni. Che batte pur sempre in seno alle assemblee parlamentari, anche quando l’aula è vuota. E che trae linfa da altri organi, se il circuito principale s’interrompe, come succede durante una crisi di governo.

È il caso, innanzitutto, del Consiglio supremo di difesa. Nessuno ne conosce l’esistenza, oltre la schiera degli addetti ai lavori. Eppure, in questa crisi siriana, potrebbe dettare la parola decisiva. Perché le sue competenze vertono sulla politica militare dello Stato, come stabilisce la legge istitutiva del 1950. Perché nella prassi, dopo la presidenza Ciampi e soprattutto quella di Napolitano, il ruolo di quest’organismo è divenuto sempre più incisivo. E perché, nell’interregno fra vecchio e nuovo esecutivo, il suo spazio non può che dilatarsi, come l’acqua d’un fiume quando si rompono le dighe.
Dopotutto l’horror vacui costituisce una legge non scritta delle istituzioni, non solo della fisica.
Chi ne fa parte? Il capo dello Stato, che ne è pure il presidente. Una manciata di ministri. Il capo di Stato Maggiore della difesa. Ma altresì, su invito, i vertici dell’esercito, della marina, dell’aeronautica. Tutte istituzioni che incarnano la continuità della Repubblica italiana, nonostante la discontinuità della politica italiana. E presiedute, non a caso, da un’istituzione indifferente all’altalena dei governi. Anzi: quando c’è un vuoto di potere s’espande il potere del presidente della Repubblica, sicché quest’ultimo diventa il «reggitore dello Stato», come diceva Schmitt, e dopo di lui Esposito.
Quanto alle Camere, quaranta giorni dopo le elezioni sono tuttora orfane dei loro strumenti principali: le commissioni permanenti, il cui apporto è indispensabile nel procedimento di formazione delle leggi. In base a una prassi sempre osservata nelle ultime cinque legislature, per costituirle s’attende infatti l’insediamento del nuovo esecutivo. Le ragioni sono tre: perché ciascuna commissione è il dirimpettaio parlamentare d’un ministero, ne rappresenta insomma il controllore, e allora meglio evitare che ministro e presidente di commissione appartengano al medesimo partito; perché non si sa ancora chi stia in maggioranza e chi all’opposizione, quindi è impossibile assegnare alla prima l’Ufficio di presidenza nelle varie commissioni; perché in ogni caso, senza un governo che abbia ricevuto la fiducia, l’attività parlamentare si riduce all’osso.
Ragioni insormontabili? Dipende. L’ 11 aprile 2013, durante l’avvio della legislatura scorsa, s’accese un dibattito presso la Giunta per il regolamento della Camera; e in quella sede il deputato Toninelli sostenne l’esigenza «indifferibile» di rendere le commissioni subito operanti. Lui, adesso, è il capogruppo dei 5 Stelle al Senato, il suo partito ha guadagnato la presidenza della Camera, ma a quanto pare l’urgenza si è rivestita di pazienza. Tanto c’è sempre la Commissione speciale sugli atti urgenti del governo, che appare come la Fata Morgana al battesimo d’ogni legislatura: il Senato l’ha istituita il 28 marzo, la Camera una settimana dopo, scatenando l’ira funesta del Pd, escluso dalla tolda di comando.
Ma che ha di speciale questa Commissione speciale? E perché i partiti s’accapigliano per prenderne il timone? È un organismo temporaneo, sempre che la crisi di governo sia davvero temporanea. E ha competenze circoscritte all’esame dei decreti varati dal Consiglio dei ministri, tuttavia si può allungare la lista della spesa. Così, Fratelli d’Italia ha chiesto che la Commissione s’occupi della nuova legge elettorale, ricevendo un niet. Però non si sa mai, magari nel prossimo futuro scatterà il verde del semaforo, se la crisi s’avvita su se stessa. Ciò che sappiamo fin da adesso è che il potere ha cambiato domicilio, e che per il momento dimora in luoghi misteriosi come la Commissione speciale o il Consiglio supremo di difesa. La vittima di questa lunga crisi si chiama trasparenza.

Comune-info, 8 aprile 2018.

«La brillantezza di rossetti, ombretti, smalti da unghie (ma anche delle vernici) è dovuta alla mica, minerale diffuso soprattutto in India. Ad estrarlo nelle miniere sono spesso ragazzi e bambini, almeno 22.000, tanti di loro sotto i dodici anni. Quei bambini non devono fare i conti solo con la fatica, ma anche con la polvere che compromette i loro polmoni e con gli incidenti talvolta così gravi da provocare ferite e fratture mutilanti se non la morte. L’organizzazione indiana Bachpan Bachao Andolan ritiene che nelle miniere di mica muoiano ogni mese una decina di persone, molte di loro minori. Naturalmente sono noti ben noti i nomi delle multinazionali della cosmesi più assetate di mica. Ma come qualsiasi impresa dipende in gran parte dai cittadini consumatori…»

Pochi sanno che la brillantezza e l’effetto perla di rossetti, ombretti, smalto per unghie, prodotti per capelli, è dovuta alla presenza di mica, un minerale friabile di aspetto cristallino che in virtù delle sue proprietà luminose, termiche, chimiche, è utilizzato non solo nell’industria della cosmetica, ma anche delle vernici, dell’elettronica, delle automobili. Ancora più esiguo è il numero di quanti sanno che un quarto della produzione mondiale di mica proviene dall’India, stati di Jharkhand e Bihar, da parte di miniere per il 90 per cento illegali che impiegano una gran quantità di lavoro minorile. Un rapporto appena pubblicato dall’istituto olandese Somo, Global mining mica and the impact on children rights, ci informa che in India i minori impiegati nell’estrazione di mica sono attorno a 22.000, molti di loro sotto i dodici anni. Invece di andare a scuola passano le loro giornate a sminuzzare le scaglie di mica, quando non si calano nei tunnel sotterranei per staccare le lastre e portarle in superficie. Bambini con paghe da schiavi, come d’altronde sono da schiavi quelle dei loro padri, che proprio a causa dei salari miserabili sono costretti a chiedere ai loro bambini di seguirli al lavoro. Ed eccoli là fra le pietre, polverosi, malvestiti e rachitici i nostri piccoli produttori di mica che ci permettono di mettere a punto trucchi smaglianti.

Già nel 2016 la Reuters Foundation, aveva pubblicato un servizio che segnalava la loro triste condizione facendo presente che i bambini lavoratori non devono fare i conti solo con la fatica, ma anche con la polvere che compromette i loro polmoni e con gli incidenti talvolta così gravi da provocare ferite e fratture mutilanti se non la morte. L’organizzazione indiana Bachpan Bachao Andolan, attiva contro il lavoro minorile, ritiene che nelle miniere di mica muoiano ogni mese una decina di persone, molte di loro minori.

Il servizio dalla Reuters Foundation indusse varie imprese che utilizzano mica, fra cui l’Oréal, Chanel, H&M), a correre ai ripari formando un coordinamento denominato RMI (Responsible Mica Initiative) con lo scopo di individuare e perseguire strategie comuni di contrasto al lavoro minorile. Ma un anno dopo la Reuters Foundation è tornata nelle zone di estrazione ed ha trovato che poco o niente era cambiato. In un nuovo documento pubblicato nel dicembre 2017, si legge che i bambini continuano a morire nelle miniere fantasma. Ironia della sorte, proprio il Primo maggio a Girihit, stato del Jharkhand, erano morte quattro persone di cui due adolescenti. La mamma di una di loro racconta:

«Quando abbiamo saputo che la miniera era crollata siamo venuti di corsa ed abbiamo scavato con le mani nude per ritrovare Laxmi. Nonostante una gamba rotta, la bambina ce l’aveva fatta a farsi strada verso la bocca d’uscita, ma siamo arrivati troppo tardi: l’abbiamo trovata morta. Aveva dodici anni».

E i rappresentanti delle Organizzazioni non governative indiane incalzano: “L’RMI ha fatto tante promesse, ma tutte a vuoto”. Le imprese stesse ammettono: “Le iniziative assunte fino ad ora hanno contribuito solo marginalmente a combattere il lavoro minorile perché è mancato lo sforzo collettivo auspicato dall’alleanza”.

Tutt’al più sono state assunte iniziative filantropiche, più utili al social washing che all’elevazione umana. La vera sfida è la dignità del lavoro, perché il lavoro minorile scompare da solo se si liberano le famiglie dal bisogno. Un obiettivo che richiede molto di più di semplici azioni di controllo. Come primo passo va benissimo la gendarmeria per escludere la presenza di fornitori illegali nelle proprie filiere produttive. Ma poi servono politiche proattive per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, le libertà sindacali, il pagamento di salari vivibili. Le imprese, tuttavia, difficilmente si avvieranno spontaneamente per una strada che mal si concilia con la logica del profitto. Lo faranno solo se spinte dai consumatori che nel settore dei cosmetici hanno al proprio attivo già un risultato importante.

Nel 2009 venne adottato un regolamento europeo che vieta di sperimentare i cosmetici sugli animali e di vendere cosmetici contenenti ingredienti testati sugli animali. La disposizione fu il frutto di una lunga battaglia della società civile, a dimostrazione che volere è potere. Oggi dobbiamo usare la stessa determinazione per liberare la bellezza da un’altra forma di crudeltà ancora più odiosa. Dobbiamo richiedere a istituzioni ed imprese di adottare tutte le misure che servono, per garantire la dignità del lavoro e liberare l’umanità dalla vergogna del lavoro minorile. Non farlo sarebbe come dire che abbiamo meno rispetto per la vita di un bambino che quella di un ratto.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Nigrizia, 10 aprile 2018.

«Si impedisce il libero dibattito, si fomenta l’intolleranza, si attaccano i movimenti sociali. Coinvolta una parte del potere giudiziario e anche segmenti del potere militare. Occorre reagire con la nonviolenza».

In un momento estremamente complicato della vita politica e delle relazioni sociali in Brasile, è necessario prendere una posizione. Soprattutto noi che dedichiamo la vita affinché tutte le persone e la Creazione abbiano vita piena. Non intendo entrare nell’analisi delle specifiche decisioni giuridiche, e neppure dichiararmi in maniera assoluta sulla performance politica o l’onestà di questo o quel partito. Vediamo però il susseguirsi dei fatti negli ultimi anni, la disparità di trattamento riservata agli attori della scena politica, le analisi degli osservatori indipendenti.

Prendo decisamente le distanze dal fanatismo partigiano che in questi anni ha influenzato mente e cuore di molta gente in forma viscerale e aggressiva. Allo stesso modo non intendo difendere acriticamente le decisioni e la gestione delle coalizioni di governo. Per molti di noi però è chiaro che il susseguirsi di decisioni – dall’“impeachment” di Dilma Rousseff fino al mandato d’incarcerazione per l’ex presidente Lula – evidenzia un progetto di demolizione dei diritti collettivi acquisiti a prezzo di molte lotte e di una forte organizzazione popolare. Una parte molto influente del potere giudiziario e, più recentemente, del potere militare, mostrano di essere a servizio di questo progetto.

Sono preoccupato dal livello di violenza e intolleranza che si sta diffondendo tra la gente tramite i mezzi di comunicazione sociale e la manipolazione della verità tramite i social. L’odio che si sta concentrando su figure storiche, istituzioni e movimenti sociali impedisce ogni forma di dibattito, di approfondimento e di sano discernimento partendo da vari e legittimi punti di vista su un progetto di società.

È così, invece di promuovere politiche che cerchino la promozione dei diritti collettivi e la garanzia di una buona qualità della vita per tutta la popolazione, la politica è ridotta a una disputa pro o contro una sola persona. Questo clima di divisione e lotta fomenta il fanatismo e favorisce unicamente di progetto di disfacimento del paese.

In prigione o libero, l’ex presidente Lula rappresenta un progetto storico e politico che ha il diritto di essere valutato dai brasiliani attraverso una votazione popolare. Siamo contrari a ogni forma di violenza, ma sosteniamo fermamente la posizione di chi difende questo diritto.

la Repubblica

Recentemente è apparso un libro bellissimo, Popolocrazia, di Ilvo Diamanti e Marc Lazar, che mi augurerei fosse letto dal numero più ampio di italiani, e in modo particolare di politici italiani, per la natura precisa e circostanziata delle analisi. La mia opinione è che il termine-concetto “ populismo” sia inappropriato alla materia che pretenderebbe di descrivere: e che perciò, usato a sproposito (non è certo il caso di Diamanti e Lazar), possa produrre qualche equivoco. Perché “inappropriato”? Perché il termine-concetto, da cui esso prende ovviamente origine, è a sua volta desueto e inappropriato alla materia da descrivere. In che senso? Nel senso che il “popolo” - non più in questo caso termine-concetto, ma realtà politico-sociale attivamente presente sul piano storico - sta uscendo di scena da diversi decenni. Dove accade questo? In tutte - io penso - le forme di democrazia rappresentativa esistenti e funzionanti nel mondo occidentale, ma soprattutto qui in Italia.

Il “popolo”, storicamente inteso, è un organismo estremamente complesso, fatto di classi, ceti sociali, orientamenti culturali e ideali, categorie professionali, ecc. spesso in lotta fra loro, ma al tempo stesso sempre, o quasi sempre, riunificati alla fine sotto il segno di un interesse comune (non a caso il concetto di “popolo” è storicamente connesso con quello di Nazione). È ciò di cui si trattava, quando io scrissi Scrittori e popolo nel 1965: in cui rampognavo il Pci di aver optato per la complessità e al tempo stesso unitarietà (nazionale) del popolo invece di rappresentare strategicamente la diversità antagonistica della classe operaia. Non negavo che ci fosse “ il popolo”, e neanche ne attaccavo la radice storico- sociale (capirai, aveva fatto la Resistenza!): negavo che il “ popolo”, proprio in ragione di quella complessità e di quella finale unitarietà, potesse diventare il protagonista di una lotta seriamente rivoluzionaria.
Ora di quella complessità, e al tempo stesso di quella finale unitarietà, non esiste quasi più nulla. Sarebbe da studiare in che misura la crisi politica ha messo in crisi la sfera sociale; e in che misura la crisi sociale ha messo in crisi la sfera politica. È indubbio peraltro che l’uscita di scena dei due grandi partiti (italiani, s’intende, in questo caso), il Pci e la Dc, abbia contribuito alla rapida disgregazione di quel sistema e all’altrettanto rapido e inesorabile affermarsi di questo.
Se non c’è più il “popolo”, cosa c’è? Io dico - l’ho già detto altrove - che c’è la “massa”. La “massa” è il vero protagonista dell’attuale momento storico nel mondo occidentale, ma con virulenza particolare in Italia. Il concetto di “massa”, cui io penso e di cui mi servo, sta a significare quella realtà umano-sociale in cui caratteri e funzioni delle principali forme associative e identitarie sono sempre meno visibili e sempre meno rilevanti (dai sindacati ai partiti): mentre prevale una caratterizzazione individuale in senso stretto, di singolo individuo accanto a singolo individuo. Però questi singoli individui tendono sempre di più ad assomigliarsi fra loro, diversamente dal passato, a riconoscersi e, appunto, a “far massa”. Non hanno altro modo, la società e la politica oggi non offrono altro modo per riconoscere che ci sono.

Quello che si costituisce è perciò un agglomerato confuso e oscillante, peraltro non contraddittorio, o meno contraddittorio che in passato, al proprio interno; quindi, in un certo senso, particolarmente coeso e uniforme, che risponde soltanto a quei messaggi che corrispondono di più ai suoi fondamentali modi di essere, e che consistono essenzialmente in un atteggiamento di esaltazione e gratificazione dei suoi fondamentali modi di essere. Il sociale diventa ipso facto l’ideale. La proposta politica e ideale (se tale si può definire) consiste essenzialmente nel garantire alla “massa” che si costituiranno le condizioni (monetarie, economiche, sociali e istituzionali) perché le sia consentito di restare, sostanzialmente, quello che è (la predicazione di Beppe Grillo e Matteo Salvini è da questo punto di vista anche retoricamente esemplare; il programma del Reddito di cittadinanza va risolutamente in questa direzione).

Esiste una vasta ed estremamente autorevole bibliografia di studi e interpretazioni della “massa”, quasi tutta però concentrata nella fase storica che va dagli inizi agli anni ‘30 del secolo scorso. Come mai? Ma perché in quella fase veniva maturando quell’estesa, profonda e drammatica crisi della democrazia rappresentativa che avrebbe portato in Italia e in Germania all’avvento del fascismo e del nazismo, movimenti come pochi altri di “ massa”. Non voglio tentare paragoni azzardati, anzi, non li penso neanche. Però non c’è dubbio che in ogni manifestazione di “massa” ci sia una componente mentale totalitaria: essere per sé quel che si è, e basta. Oggi infatti predominano - anche a livello di “massa”, sì, di “massa”, - il disprezzo sostanziale per la democrazia rappresentativa e il rifiuto, anzi, di più, l’ignoranza di qualsiasi elemento storico (Resistenza, Costituzione, organizzazione visibile ed esplicita degli interessi, ecc.) abbia costituito finora la concreta manifestazione di un’identità italiana sopra le parti (non caso, insieme al termine-concetto di “popolo”, tramonta ancor più decisamente quello di Nazione).

Siamo di fronte, dunque, al compito sovrumano che consiste non nel combattere il “populismo” ma nel tentare di ricostituire e rimettere in piedi un “ popolo”, sottraendolo alla dissoluzione nella “massa” (se sono la stessa cosa, tanto meglio). Affrontare questo compito tuttavia non si può, almeno dal nostro punto di vista, senza chiederci e chiarire perché la Sinistra in tutte le sue forme non ha impedito la retrocessione e l’inabissamento del “popolo” nella “massa”, anzi ha favorito il formarsi e l’emergere della “massa” come elemento costitutivo fondamentale del nostro (italiano) modo di pensare, progettare e fare politica. Cioè ha operato il proprio suicidio.

la Repubblica

La casistica degli infortuni sul lavoro ci regala un nuovo lugubre record: quello delle morti plurime. Tre morti il 20 marzo scorso nello scoppio di un locale a Catania. Due morti otto giorni dopo nel porto di Livorno per l’esplosione di un serbatoio. Altri due nel giorno di Pasqua a Treviglio per lo scoppio di un’autoclave. E ancora due morti proprio ieri a Crotone, travolti dal muro di contenimento in un cantiere edile: Giuseppe Greco, 51 anni, e Kiriac Dragos Petru, rumeno di 35 anni.

L’impressione è che ci sia in questi mesi un’accelerazione degli infortuni mortali, soprattutto nei cantieri edili. Il dato più clamoroso viene dalla Fillea Cgil, che rappresenta i lavoratori delle costruzioni. « Dall’inizio dell’anno — dice il segretario generale Alessandro Genovesi — abbiamo avuto un aumento del 50% degli infortuni mortali rispetto al 2017 » . Insomma, stanno raddoppiando i morti nell’edilizia.
E la ripresa economica, in assenza di una stretta sui controlli, non fa che aumentare le probabilità di infortuni. « È proprio quello che sta succedendo — spiega Genovesi — Da una parte assistiamo a un risveglio dell’edilizia che però non produce nuove assunzioni, ma solo più ore di lavoro per gli stessi dipendenti, e quindi molta fatica in più. Dall’altra, numerose aziende ( soprattutto subappaltanti) applicano ai propri lavoratori, per risparmiare, non più il contratto da edile ma contratti meno costosi: ad esempio quello multiservizi (settore pulizie) o quello florovivaistico. Ci sono persino lavoratori con il contratto da badante. Tutti questi dipendenti, a differenza degli edili, non fanno i corsi di formazione obbligatori di almeno 16 ore, e non hanno in dotazione ( a meno che non lo chiedano) i dispositivi di sicurezza come caschi, cinture, corde, scarpe speciali e così via». In queste condizioni, è difficile non prevedere una recrudescenza degli infortuni.
Insomma, anche quando non si impiega lavoro in nero, molte aziende trovano il modo di risparmiare sui corsi di formazione anti- infortunistica e di complicare i controlli degli ispettori, soprattutto con il subappalto. E poi c’è l’utilizzo sempre più frequente di lavoratori “anziani”. Scorrendo la casistica dell’Anmil, l’associazione dei mutilati e degli invalidi del lavoro, si scopre che dal primo marzo ad oggi, la metà dei morti aveva più di 55 anni. E molti erano over 60. Come Antonio Di Nardo, 69 anni, caduto in una cava e colpito da un masso a Lanciano (Chieti). O come Luigi Vilardo, 63 anni, scivolato da una scala nel capannone dove lavorava a Caracagno (Parma).
Ma quanti sono nel complesso le morti sul lavoro in questo primo scorcio del 2018? Non è dato saperlo in modo ufficiale. Ogni associazione ha le sue stime. Inutile sperare in una qualche certezza statistica: c’è solo il conteggio giornaliero eseguito da sindacati o da semplici persone di buona volontà che raccolgono le notizie degli incidenti dalle fonti più disparate: i propri associati, i siti internet, le agenzie di stampa, i giornali, le tv. È il caso dell’Osservatorio di Bologna, guidato da Carlo Soricelli, secondo il quale dall’inizio dell’anno sono già 159 gli infortuni mortali, l’ 8,9% in più sugli stessi mesi del 2017.
E le statistiche dell’Inail? I dati dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro sono fermi a gennaio, con 67 decessi contro i 69 del gennaio 2017, ma nei dodici mesi precedenti denunciavano un aumento delle morti a 1.029, dai 1.018 del 2016.
Il vero problema, tuttavia, non sta in un semplice ritardo tecnico di comunicazione: sta nel fatto che l’Inail non raccoglie tutte le denunce di infortunio ma solo quelle dei propri assicurati. Sfuggono tutti i liberi professionisti e le partite Iva, tutti i dipendenti delle forze armate, delle forze di polizia e dei vigili del fuoco. Insomma, milioni di persone sono assicurati con altri istituti, e se hanno un incidente magari vengono risarciti, ma ai fini statistici restano dei fantasmi. Così come restano invisibili tutti i lavoratori in nero.
Amara conclusione: non esiste un ente pubblico che raccolga tutti i dati sugli infortuni, mortali e non. «Già nel 2012 — dice il presidente dell’Inail, Massimo De Felice — auspicammo la costruzione di una base informativa efficiente e l’accreditamento del nostro Istituto come fornitore unico di informazioni sulla sicurezza e sulla salute nei luoghi di lavoro. È un impegno che continuiamo a segnalare alle autorità competenti » . Ma l’appello, finora, è caduto nel vuoto.
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