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«I diritti e i doveri scritti nel ’46 rappresentano le regole della coesione sociale». Scritti di Gianfranco Pasquino, Michele Ainis, Sabino Cassese, Guido Crainz.

La Nuova Venezia, la Repubblica, Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

La Nuova Venezia
ECCO PERCHÈ LA NOSTRA ITALIA
È UNA REPUBBLICA ESIGENTE
di Gianfranco Pasquino

Per nessuno scopo, analitico, interpretativo, propositivo, la Costituzione italiana può essere divisa nettamente in due parti: una attinente ai diritti (e doveri), l’altra all’ordinamento dello Stato. I principi ispiratori dei Costituenti e la loro visione complessiva informano chiaramente e coerentemente entrambe le parti. Tutte le componenti della Costituzione italiana si tengono insieme e segnalano che qualsiasi revisione, anche minima, deve essere valutata con riferimento al suo impatto complessivo. La tesi che argomento e svolgo nel libro La Costituzione in trenta lezioni (Utet 2015) è che nessuna Costituzione è mai semplicemente un documento giuridico. Le Costituzioni migliori, a cominciare da quella degli Stati Uniti d’America e a continuare con quella della Germania contemporanea, sono documenti eminentemente politici. Mirano a plasmare la vita di una comunità, a darle le regole di comportamento e di rapporti fra persone, associazioni, istituzioni.
Anche la Costituzione italiana mira a fare, limpidamente, tutto questo. Plasma la Repubblica democratica, evidenziando, fin dall’inizio, che la Repubblica sono i cittadini, siamo noi. Ai cittadini - elettori, rappresentanti, governanti - spetta il compito di rimuovere gli ostacoli all’effettiva partecipazione alla vita della comunità (articolo 3). Con questa indicazione, i Costituenti miravano a costruire le premesse della coesione sociale e a dare senso e identità ad una comunità di sconosciuti, usciti da vent’anni di fascismo che aveva teso a isolarli e a punirli se si associavano e se parlavano di politica.
A questi sconosciuti, anche agli stessi uomini e donne nell’Assemblea Costituente, apparve subito necessario ricordare l’importanza della partecipazione, sottolineare il riconoscimento del pluralismo e delle capacità associative, anche in partiti politici (articolo 49), mettere in evidenza che le cariche pubbliche, in politica, nelle istituzioni, nella burocrazia debbono essere adempiute con «disciplina e onore» (articolo 54). Ai detentori di cariche istituzionali, fra i quali si trovano, naturalmente, anche i magistrati, si raccomanda di tenere in grande conto sia la separazione dei poteri affinché ciascuno di loro svolga i compiti specifici affidatigli sia l’equilibrio affinché nelle loro inevitabili interazioni nessuna istituzione cerchi di sopraffare le altre e tutte operino in un complesso gioco di freni e contrappesi.
Forse, nella predisposizione di questi freni e contrappesi si colloca anche il fin troppo spesso menzionato complesso del tiranno, ma che i freni e i contrappesi siano la base sulla quale operano tutte le democrazie migliori appare innegabile. La Costituzione è un documento politico esigente. Funziona tanto meglio quanto più i cittadini, i rappresentanti e i governanti non si limitano a rivendicare diritti, ma si impegnano a svolgere fino in fondo i doveri ai quali vengono chiamati: educare i figli, votare, pagare le tasse in proporzione al loro reddito, riconoscere e rispettare il diritto d’asilo e porlo in pratica.
La Costituzione ha accompagnato e, oserei dire, ha guidato la crescita dell’Italia da Paese rurale, agricolo, ampiamente analfabeta, sostanzialmente impoverito e distrutto dal fascismo e dalla Guerra fino a farlo diventare l’ottava potenza industriale del mondo. Tuttavia, è sempre esistita una qualche insoddisfazione nella società e nella politica per obiettivi, il più importante dei quali è la crescita culturale e sociale, che non venivano raggiunti. Insomma, la società italiana non diventava, non è ancora diventata abbastanza civile. Né, oramai da anni, fa progressi, ad esempio, in materia di pagamento delle tasse o di contenimento e «respingimento» della corruzione. Questi gravissimi inconvenienti non sono evidentemente attribuibili alla Costituzione e ai suoi articoli, tantomeno alla sua ispirazione, agli accordi e ai compromessi, spesso fecondi, che i Costituenti raggiunsero fra loro, offrendo una non banale e non criticabile lezione di metodo.
Se, come ho detto e ribadisco, «la Repubblica siamo noi», allora dobbiamo criticare gli italiani, individualisti e egoisti, che pensano di cavarsela da soli e di non dovere nulla allo Stato e ai loro concittadini; gli italiani «familisti amorali», che orientano e giustificano qualsiasi loro comportamento con l’esclusivo perseguimento di vantaggi per la loro famiglia; gli italiani che si fanno forti della loro appartenenza a qualche corporazione (burocrazia, magistratura, classe politica, giornalismo); gli italiani che screditano qualsiasi forma di impegno e si rifiutano di riconoscere il merito e di premiarlo. Questi sono gli italiani che non hanno saputo né voluto capire che soltanto agendo nel rispetto delle regole, dei diritti, dei doveri scritti nella Costituzione, la Repubblica, di cui celebriamo i settant’anni, raggiungerà una apprezzabile qualità democratica e si accompagnerà ad una società davvero, finalmente civile.

La Repubblica
LA LEZIONE DEL 2 GIUGNO
di Michele Ainis

Italia in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti, però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele. Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante, comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.

Eppure il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.

Ecco perché cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.

E il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non si riconosca nella Repubblica italiana?

D’altronde lo stesso referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.

Corriere della Sera
LE STELLE RESTANO LONTANE?
di Sabino Cassese

«Credevamo che le stelle fossero a portata di mano», ha scritto un testimone di quei giorni, quando, disfatto lo Stato monarchico e fascista, il 2 giugno 1946, il popolo fece sentire la propria voce scegliendo la Repubblica ed eleggendo l’assemblea che un anno e mezzo dopo avrebbe dato all’Italia una Costituzione.

A un Paese autarchico, chiuso all’esterno, si sostituì una nazione che si uniformava alle norme del diritto internazionale e limitava la propria sovranità per assicurare pace e giustizia nel mondo: nel 1949 l’Italia aderì al Trattato del Nord Atlantico, nel 1951 alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nel 1957 alla Comunità economica europea e a quella dell’energia atomica.

Per vent’anni non erano state consentite libertà di parola e di associazione. Queste furono ripristinate e ai maggiori partiti si iscrissero 4 milioni di persone (la popolazione italiana era allora di 46 milioni), mentre alle elezioni partecipò il 90 per cento degli aventi diritto. Negli anni 70 si aprì una nuova stagione di diritti (come parità tra uomo e donna, Statuto dei lavoratori, divorzio).

Per cent’anni, la scuola era rimasta classista, con corsi separati per i figli della borghesia e per quelli degli operai e contadini, e all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti.

L’ Italia unificata aveva accettato forti divari al suo interno. Nel 1950 la riforma agraria iniziò a eliminare i latifondi meridionali e la Cassa del Mezzogiorno portò al Sud risorse per l’agricoltura e le opere pubbliche.

Ai Comuni, vissuti per cent’anni sotto il controllo statale, venne riconosciuta autonomia.

Il progresso civile e quello tecnologico hanno fatto il resto: la scuola media unificata, migrazioni interne e industrializzazione, televisione hanno finalmente condotto all’unificazione linguistica e Internet è divenuto un formidabile strumento per assicurare la trasparenza della gestione pubblica.

Ma sono state soddisfatte le grandi attese e mantenute tutte le promesse fatte settant’anni fa? Si era combattuto per chiudere completamente col fascismo. Molte sue istituzioni, invece, rimasero in vita, specialmente nel campo dell’economia. Gli italiani speravano in un nuovo Stato, ricostruito dalle fondamenta: si dovettero invece accontentare di una modifica del vertice (la Costituzione), mentre il resto rimase immutato, nel segno della continuità. La stessa Costituzione ebbe una «lentissima attuazione», come lamentato da uno dei suoi ispiratori, Massimo Severo Giannini: la Corte costituzionale cominciò la sua attività solo nel 1956, solo nel 1963 le donne potettero diventare giudici, i consigli regionali furono eletti nel 1970, ogni forma di censura teatrale venne soppressa solo nel 1998, prima della proiezione in pubblico i film debbono ancora ottenere un nulla osta.

La Costituzione prometteva che le ragioni della società prevalessero su quelle degli individui: invece, al benessere privato fa oggi riscontro povertà pubblica (basta entrare in una scuola o in un ospedale, o semplicemente camminare per le strade della capitale, per rendersene conto). Si voleva che il potere pubblico fosse limitato da contrappesi: invece, è stato solo ritardato da impedimenti. Si volevano evitare le degenerazioni del parlamentarismo: invece, abbiamo avuto 63 governi (nello stesso arco di tempo la Germania ne ha avuto 24), mentre il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare la sua funzione di controllo del governo. All’ordine giudiziario è stata riconosciuta indipendenza, ma la politica è rispuntata nel suo seno, mentre i processi sono troppo lenti e la giustizia si fa sempre attendere. Il Sud di oggi è molto diverso da quello di ieri, ma la distanza tra Sud e Nord è aumentata nuovamente. I dislivelli di statalità sono cresciuti, perché intere zone non sono sotto controllo pubblico, ma nel dominio di ordinamenti criminali. Lo Stato non si è mai dotato di una «noblesse d’Etat», in grado di emanciparlo dalla morsa degli interessi e dalla corruzione. La capitale della nazione, nella sua struttura fisica, somiglia più a una città africana che a una metropoli europea, quale dovrebbe essere. L’unità nazionale rimane fragile, la «costituzione materiale» resta diversa da quella formale, le stelle rimangono lontane.

La Repubblica
IL PAESE SPAESATO
CHE ANCORA S'INTERROGA SULLA SUA REPUBBLICA

di Guido Crainz

Molte le occasioni mancate: ce lo ricordano la diserzione dal voto e la corruzione dilagante. Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove». Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.

Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”. Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni.
Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove. Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa. E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione.
Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento. Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ». Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica - spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.

. Il manifesto, 2 giugno 2016 , con postilla

Nel non senso della politica italiana e particolarmente romana, la domanda pubblica posta da Asor Rosa appare quantomeno (ma non soltanto) salutare: si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza?

La domanda è così pertinente (dati i tempi) che forse accanto ai noti candidati sindaci: Meloni, Giachetti, Marchini, Raggi, e Fassina (che merita un discorso a parte come tenterò di dire oltre), nei talk show nostrani ne dovrebbe comparire un sesto il quale, appunto, dovrebbe rappresentare la domanda di Asor Rosa.

La tanto gloriosa Roma appare, come recita il libro di De Lucia ed Erbani, non più una città tanto il degrado fisico, urbanistico, morale, sociale e politico si è aggravato. Quasi ci sarebbe da chiedersi perché ci ostiniamo a vivere in questa città nonostante sia ormai quasi impossibile attraversarla da una parte all’altra senza affrontare i rischi, le sofferenze e i disagi di un avventuroso viaggio in un qualche paese straniero sconsigliato ai turisti. E non c’è nemmeno più il bisogno di dimostrare questa impressione tanto essa è diventata luogo comune, sensazione diffusa e generale (basta aspettare il bus in un giorno di festa o in un qualsiasi giorno di sera, che non arriverà).

A sentire i candidati sindaci, risolvere i problemi citati e arcinoti è semplicissimo: basta fare questo o quello e voilà i problemi spariscono, senza che nessuno di essi riesca però a spiegare perché fino ad oggi non si sono fatte queste o quelle cose (buche docet). Insomma manca un progetto (nel senso nobile del termine) per questa città e un candidato che comunque possa esprimerlo e tanto più realizzarlo.

Detto questo concordo totalmente con Asor Rosa e con Bevilacqua che la lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, anzi di più: una occasione che può rivelarsi fondamentale per il futuro prossimo della città se solo le istanze e le forze che essa rappresenta (la sinistra che rimane, o, se volete, l’unica che possa chiamarsi tale) non si dissolveranno a campagna elettorale conclusa (esperienza avvenuta troppe volte).

E qui mi permetto di dissentire con le conclusioni di Asor Rosa perché ho l’impressione che la eventuale vittoria finale del candidato dem possa liquefare rapidamente quel coagulo di forze popolari messo insieme da Fassina: è già accaduto con Rutelli e Veltroni, artefici del Piano Regolatore Generale e di quel nefasto Modello Roma (glorificato da Giachetti che propone di nuovo la politica dei Grandi Eventi) che sembrava annunciare il rinascimento urbano della Capitale; sinonimo di modernismo, innovazione, cambiamento.

Quel quindicennio (1993-2008) fu caratterizzato da una ingannevole assenza totale di ogni conflitto sociale. In altre parole sembra a me che Asor Rosa nutra quello stesso “giovanile ottimismo” che lui addebita (senza condividerlo) a Piero Bevilacqua. Perché Asor si chiede, in finale del suo articolo (come sempre lucidissimo, quasi didascalico): Roma che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere.

E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? La mia impressione è che, a sinistra, le lacerazioni siano ancora troppo forti (e purtroppo quasi sempre di natura personali) perché la coalizione Fassina possa sopravvivere a una eventuale vittoria del candidato dem senza esserne sussunta o ridotta a inutile alleanza.

Mi si chiederà: e allora? E allora, io penso, bisognerebbe prendere l’abitudine (che un tempo esisteva) di lavorare insieme prima e oltre le scadenze elettorali (ce lo ripetiamo sempre ma mai lo facciamo), perché per risalire la china dalla quale siamo rotolati in tanti anni, ci vorrà tempo, pazienza e fatica, senza cedere alle lusinghe di qualche furba tattica (sport prediletto e praticato dalla cultura italiota) che sembra mostrarci ingannevoli scorciatoie (che in politica non esistono e comunque non pagano): tertium non datur.

Un esempio che forse farà sorridere: un tempo esisteva a Roma una Casa della Cultura a Largo Argentina, dove si discuteva insieme dei tanti problemi emergenti: si facevano analisi, si polemizzava, si affrontavano (insieme) problemi. Qualcosa di analogo è ancora possibile per dare cemento (mi si scusi la parola che a Roma mette i brividi) a questo coagulo di forze che ancora crede sia possibile un’altra Roma (e un’altra Politica)?

postilla

Su eddyburg potete leggere gli articoli di Alberto Asor Rosa e di Piero Bevilacqua, cui si riferisce Enzo Scandurra. La critica di quest'ultimo riguarda l'affermazione di Asor Rosa secondo il quale nel ballottaggio finale si dovrà inevitabilmente scegliere t Giachetti , poichè l'alternativa sarebbe la destra oppure il movimento 5 stelle Non condivido questa posizione, per una ragione che si aggiunge a quelle di Scandurra. A mio parere il rischio più grave che corre la democrazia italiana è l'affermazione del regime rappresentato da Matteo Renzi, prosecutore del disegno avviato da Craxi e Berlusconi, con una lucidità ed efficacia ben superiore a quella dei suoi predecessori. La vittoria di Giachetti sarebbe un'ulteriore rafforzamento da Renzi, perciò se votassi a Roma certamente non voterei per lui (come a Venezia non votai per il pur stimabile Casson). Vedo anch'io, come Scandurra e Bevilacqua l'unica speranza per il futura nella nascita di una forza capace di svolgere oggi il ruolo che la sinistra del secolo scorso seppe svolgere per gli sfruttati e per la democrazia nelle condizioni di allora, e per il primo turno voterei senza esitazioni Fassina, mentre dubito fortemente che nel ballottaggio mi turerei il naso e voterei l'uomo del Monarca. (e.s.)

«L'omicidio della Magliana. Ci si chiede «ma io, cosa avrei fatto?». Domanda che incalza senza lasciare scampo. Il nodo è cosa occorre fare per aiutare le donne in pericolo». Il manifesto, 31 maggio 2016

Lascia impietriti, la fine di Sara Di Pietrantonio. Non solo per la furia del ragazzo, Vincenzo Paduano, così carino nelle foto insieme pubblicate su Instagram, una furia che lo ha portato a darle una morte crudele, né più né meno che un supplizio. Lui parla di sé stesso come un mostro, e sembra troppo facile. Non per lui, che chissà se mai ritroverà nel tempo tracce della propria umanità, ma i titoli dei giornali, le denunce fatte sempre dopo. Gela invece il cuore immaginare quei minuti, lei che cerca di scappare, riesce a buttarsi in mezzo alla strada, eppure le rare auto che passano non si fermano. Anche se chi guida vede una ragazza bionda che si sbraccia e chiede aiuto.

E non è l’identificazione con lei, Sara, amica sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta, che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile. Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.

In effetti ci vuole coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto? È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in pericolo?

Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti. I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.

Sembra assurdo dover scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato, nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini.

È che ci vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria. Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli effetti dell’odio violento per le donne.

Non che tutti uccidano, menino, stuprino. Eppure pochi, pochissimi hanno la forza della parola pubblica. La forza di andare contro un ordine che vive della passività di chi, invece di chiedersi a quale vita è costretto, ricerca il privilegio perduto, con uno sguardo volto all’indietro. Manca la forza di andare contro l’ordine sociale in cui viviamo. Forse anche per questo ribellarsi non è all’ordine del giorno.

Il Fatto Quotidiano online, 1 giugno 2016 (p.d.)

Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militaremondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde,mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?

«». Il manifesto

Si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza? Se non si può, questo che segue, ospitato benevolmente da il manifesto, si presterà alle più feroci e giustificate critiche. Ma tanto vale provare… Vediamo.

Il soggetto è Roma e le sue imminenti elezioni comunali. Roma è una città millenaria, carica di gloria e di bellezza, e i candidati a ricoprire la carica di Sindaco sembrano, salvo qualche limitata eccezione, nati al massimo l’altroieri. Roma è sull’orlo di un collasso istituzionale ed esistenziale che non ha precedenti. Roma è la capitale più sporca, anzi, più correttamente, più “zozza” dell’Occidente democratico-capitalistico.

Roma è vittima di un degrado urbanistico ed edificatorio praticamente senza limiti (il recente libro di Francesco Erbani e Vezio De Lucia, Roma disfatta per Castelvecchi Editore, offre da questo punto di vista documentazioni e considerazioni che possono considerarsi definitive).

Se si passa al capitolo “traffico”, di cui praticamente nessuno parla, Roma non è più una città, è un “delirio”, una sorta di affannosa e disperata gara verso il nulla. Al tempo stesso il servizio di trasporto pubblico è inesistente o è catastrofico. La fiducia nelle istituzioni, dopo lo sciagurato fallimento dell’avventura Marino, è arrivata prossima allo zero. La corruzione s’era (s’è?) annidata dappertutto; se non ci fosse stata la magistratura, ci sarebbe ancora.

I segni di reazione, dopo le tristi esperienze degli anni passati, ci sono, ma sono molto limitati. La restituzione dell’onore delle urne della lista Fassina ha ridato fortunatamente spazio e spinta a una risposta, politica e popolare, positiva. Ma siamo ancora, – e non potrebbe essere diversamente, – a minoranze attive sul piano sociale e istituzionale, ma destinate, ovviamente, a una lunga battaglia, che non potrà avere esito con l’esito di questo voto (condivido quasi tutto dell’ultimo articolo di Piero Bevilacqua, salvo il suo giovanile ottimismo).

E allora, nel frattempo, che si fa? Io penso che la sinistra, – quella che ambisce presentarsi come più legata al passato e al tempo stesso più modernamente nuova e anticipatrice, – si trovi oggi classicamente stretta fra l’incudine e il martello (è accaduto altre volte nella storia). L’incudine è la protervia senza limiti (falsamente razionalizzatrice) del nostro attuale Presidente del consiglio; e il martello è la spinta, anch’essa durissima e feroce, della destra (qualsiasi tipo di destra, oggi tatticamente separata, ma sempre disponibile a ritrovarsi unita) allo scopo di riacquistare lo spazio che per ora le è stato sottratto. In questa situazione le scelte ferme e limpide del passato, – o si è da una parte o si è dall’altra, – sono tramontate.

La battaglia si svolge continuamente su di un duplice o addirittura triplice fronte: si può essere contro l’uno e contemporaneamente contro l’altro; ma, se serve, si può essere provvisoriamente con uno per essere meglio contro l’altro. Oppure: per combattere l’uno bisogna evitare di favorire (troppo) l’altro.

Questo vale, praticamente, per qualsiasi occasione politico-istituzionale contemporanea. Si pensi al referendum di ottobre. L’altro giorno passavo dal televisore acceso ho sentito una voce che pronunziava, con tono calmo e solenne, la seguente affermazione: «La nostra Costituzione è messa in pericolo dalla sciagurata riforma Renzi, Per questo, nel referendum di ottobre, bisogna votare fermamente e decisamente no». Mi sono voltato. A parlare era Silvio Berlusconi. Mi è venuto un forte senso di nausea. Ma certo non penso per questo che non sia opportuno e necessario votare “no” al referendum di ottobre. Solo che mi chiedo dove possa portarci l’insensata politicizzazione che di quel referendum (tutto costituzionale) ha dato in primissimo luogo il nostro ineguagliabile premier («o con me o contro di me»), e che è stata prontamente raccolta dalla nostra, – da tutta la nostra – destra, in attesa di riunirsi.

Ne usciremo (ne usciremmo) recuperando tout court spazio a sinistra (ma per ora come si fa?) o aprendo le porte alla rivincita di una (attualmente) delle destre più torbide e inquietanti del continente? Mi si potrà ragionevolmente rispondere: intanto vinciamo il referendum, – per giunta, molto probabilmente, senza l’apporto della destra non si vincerebbe, – poi si vedrà. Sì, certo, ma le domande restano. Insomma, ci vorrebbe una strategia di lungo periodo, che provi a mettere insieme queste cose difformi e suggerisca loro una possibile coerenza. Non basta, io penso, l’opposizione ferma e dura all'”attuale stato di cose esistenti”. Ma dove arrivare. E con quali tappe.

Le elezioni comunali a Roma, che per giunta si svolgono, come ho cercato sinteticamente di dire, nelle condizioni catastrofiche della Capitale, rappresentano secondo me un esempio calzante, anche se minore rispetto a tutto il resto, di tale discorso. La lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, si tratta di capire come meglio portarlo avanti.
Cerchiamo di circostanziare il quadro. In ballo ci sono due liste chiaramente e dichiaratamente di destra (Marchini-Berlusconi; Meloni-Salvini). Non ci si può certo augurare che una di esse prevalga. Poi c’è la lista, particolarmente forte del Movimento 5 Stelle.

Su questo punto, secondo me, occorrerebbe fare più chiarezza di quanto finora fra noi non ce ne sia stata. Il Movimento 5 Stelle è un singolare fenomeno tutto italiano, che nasce interamente dalla crisi del nostro sistema politico-istituzionale. E’ un partito ereditario, in cui le redini del potere trasmigrano, senza neanche bisogno del notaio, nelle mani del figlio quando il padre venga meno. E’ un partito autoritario, anzi dittatoriale, nel quale la volontà del Capo, e dei suoi più stretti accoliti, che del resto sono anche loro i primi ad esserle sottomessi, occupa solidamente il ruolo supremo, cancellando ogni sia pur timida manifestazione di democrazia interna (è necessario portare esempi, anche recenti e anche di grande portata?). Il Movimento 5 Stelle non ha nessuna vocazione sociale; in compenso ne nutre in seno una d’ispirazione xenofoba, abbastanza nascosta, per ora, ma visibile.

La vittoria della candidata grillina a Roma sarebbe dunque gravissima, per la sua carica gravida di significati nazionali; e anche perché, in caso di ballottaggio con il candidato dem, la massa dei voti di destra si riverserebbe su di lei onde ottenere la sconfitta del candidato dem, così come accadrà con il referendum di ottobre, dove votare per il no può non significare affatto in difesa della Costituzione, ma piuttosto per detronizzare il ducetto di Rignano sull’Arno e sostituirgli un orrido potere al tempo stesso antieuropeista, antisociale e antisolidaristico.

Dunque, in caso di ballottaggio non c’è altra scelta fra il non andare a votare e il votare per il candidato dem? Ma non andare a votare, ammesso che il candidato dem vada al ballottaggio, significherebbe inevitabilmente favorire la vittoria del candidato antagonista, sia che si tratti del candidato di destra sia che si tratti della candidata grillina.

Dunque, non c’è scelta, in caso di ballottaggio: ossia, votare per il candidato che a Roma rappresenta, anche molto ortodossamente, le posizioni del ducetto di Rignano sull’Arno? Se le condizioni sono quelle che finora ho descritto, mi pare che non ci sia altra scelta. Domanda: se le cose stanno così, non sarebbe meglio votare il candidato dem fin dal primo turno, onde assicurare più facilmente che vada al ballottaggio?

No, un seme va piantato. Nel rispetto di tutte le rispettive responsabilità e peculiarità. Per andare all’ultimo voto non basterà infatti solo la disponibilità della sinistra. Bisognerà che altre si manifestino. E’ così che un processo va avanti. E per deciderlo bisognerà essere in più di uno. Non spetta solo a noi farlo.

Ma in fondo, – in fondo a tutti i ragionamenti possibili, – dovrebbe esserci, – e ancora non c’è, non c’è proprio, – Roma, la grande, millenaria, bellissima, e sudicia, puzzolente, disastrata città, che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere. E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? Aspettiamo risposte, prima e dopo il voto

Coordinamento Democrazia Costituzionale, 1 giugno 2016 (p.d.)

Vanno evitate , per darsi conto della natura e dei caratteri reali del conflitto referendario in corso, letture ancorate prevalentemente ai soli dispositivi e criteri giuridici, pur importanti.

E’ indispensabile alzare lo sguardo sui movimenti della vita reale. Sottolineando in premessa che i legislatori che hanno duramente colpito diritti nel lavoro e del lavoro, ridotto le risorse per il Sistema previdenziale a ripartizione, affossato l’universalità dell’accesso alle cure sanitarie, non combattuto un’evasione scolastica strutturale e gravissima, trasferito ricchezza dal lavoro alle rendite e ai profitti , sono gli stessi che hanno progettato la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale. Naturalmente aiutati dal lavoro di altri che li hanno preceduti. La circostanza non è casuale.

Il conflitto per l’appropriazione della ricchezza prodotta né della quale la ridefinizione dei diritti costituisce uno snodo essenziale né il motore primo e la principale ragione di molti fenomeni tra loro legati, ognuno dei quali assolve un ruolo nella nostra vicenda:

1) l’oscurantismo costituzionale in corso. Un potere costituito – rappresentato da un parlamento eletto in modo costituzionalmente illegittimo, dominato dal PD che è forza minoritaria nel paese (25% dei voti validi alle elezioni politiche del 2013) – si fa potere costituente decidendo di revisionare così la stessa Costituzione e reiterare in altre forme gli architravi della medesima legge elettorale già dichiarata illegittima;

2) il trasformismo straripante. 252 cambi di casacca di altrettanti deputati/e in 3 anni di questa legislature, ragion per cui si è sempre cercata e trovata da parte del PD – una maggioranza a prescindere (una volta con Berlusconi /patto del Nazzareno; un’altra con Verdini e altri) in grado di approvare le riforme volute da Renzi. Il trasformismo non va indagato in termini solo moral/moralistici. Esso trae invece origine da fenomeni strutturali riguardanti il sistema politico e le dominanti economiche sociali. Precisamente, se guardiamo ad anni recenti a partire dal 2011, si può dire che il trasformismo che oggi vediamo all'opera nasce dalla capacità del berlusconismo, apparentemente alla sua fine, di traghettare una sinistra senza più bussola (quel che di essa era rimasto) ad aderire al governo “tecnico” (!) di Monti ed a far propri gli assunti di fondo del liberismo: opportunità invece che uguaglianza, individuo che si autoregola invece che legami sociali, fine della centralità del lavoro quale fondamento della stessa democrazia costituzionale, arretramento forte dei diritti di cittadinanza. Da quel momento ad oggi, passando da Monti a Letta a Renzi, col determinante sostegno parlamentare di maggioranze consociative e trasformiste , vi è stata una sostanziale continuità di politiche tese a sostenere interessi e valori che sono i medesimi alla base del DDL Boschi Renzi . In una parola è stata del tutto travolta, dagli anni ’90 ad oggi, la costituzione materiale repubblicana basata su uguaglianza e centralità politica del lavoro. In nessun modo questo italico trasformismo può essere quindi assimilato , e tantomeno compreso, nell’ambito del trasformismo storico dell’800 di De Pretis, che aveva altri presupposti e ragioni. Berlusconi prima e Verdini poi, il loro far parte di maggioranze di governo o costituzionali assieme al PD, non sono episodi di folklore passeggero o il frutto del cattivo cinismo di alcuni. Sono invece, per le ragioni spiegate, parti integranti della maggioranza politica che governa l’Italia da molti anni, la prova definitiva e lampante della resa della sinistra e del cattolicesimo democratico e, nel contempo, della vittoria della destra liberista.

3) il declino accellerato del principio di legalità, principio cardine di ogni ordinamento liberaldemocratico. E’ sufficiente richiamare quel che è seguito al referendum del 2011 sull'acqua bene comune:

A) vengono abrogate a seguito del referendum due norme (art.23 D.L. 112/2008 che favoriva la privatizzazione dei servizi idrici , art.154 D.Lgs 152/2006 che disciplinava la "adeguata remunerazione del capitale"),

B) pochi mesi dopo Berlusconi ripropone la disciplina abrogata con la L. 148/2011, poi dichiarata incostitizionale con sentenza n.199/2012;

C) ci riprova Monti coi Decreti nn. 1/ e 83 del 2012;

D) Renzi accelera e alza la posta con lo “sblocca italia” – Decreto n.133/2014 – con la legge di stabilità 2015, con norme che viaggiano in direzione contraria alla volontà dei legislatori referendari del 2011. Infine arriva la legge delega n.124/2015 per riorganizzare la Pubblica Amministrazione e la gestione dei servizi pubblici e idrici locali. Nel decreto attuativo di tale delega si reintroduce l’adeguata remunerazione del capitale, la proibizione delle gestioni pubbliche in economia, l’obbligo di gestione solo con società per azioni , il tutto con palese disprezzo dell'esito referendario, che viene ritenuto tamquam non esset. L’esempio, e ve ne sono altri, illustra quel che si diceva: democrazia dei cittadini e legge di origine referendaria non vengono rispettate, più forti della legalità formale si rivelano i comandi degli interessi economici dominanti.

4) La tendenziale scomparsa della rappresentanza politica e i suoi rapporti con le leggi elettorali. L’interrogativo è semplice: perché si progettano leggi elettorali che, come porcellum e italicum, travolgono del tutto il rapporto tra elettori e loro rappresentanza parlamentare, favorendo tendenziali dispotismi parlamentari/politici di forze minoritarie nel paese? La risposta non va cercata nelle contingenti e pur dannose scelte delle modeste elites politiche italiane ma nelle prepotenti dinamiche socio-economiche odierne: quelle che spingono impetuosamente, in tutto l'occidente, verso la “presidenzializzazione dei regimi politici” (come l’ha chiamata il politologo americano Lowi) ed il superamento definitivo della “repubblica dei partiti” disegnata dalla Costituzione del 48. La “rappresentanza”, come l'abbiamo conosciuta tramite i partiti , dei quali le rappresentanze istituzionali erano una delle loro forme, tende ad estinguersi per mancanza di linfa. Ne va pertanto costruita un'altra e non esiste nessun determinismo storicista che possa impedirlo. Renzi e il suo piglio futurista, la revisione costituzionale , l’italicum, la finta riforma dei partiti appena votata, l’oscurantismo costituzionale, la crisi del principio di legalità rappresentano ciascuna a modo suo traduzioni “coerenti” , illiberarli e classiste, a questo stato di cose. Qui origina l’autorefenzialità del ceto politico istituzionale: in un rapporto sempre più debole coi cittadini e sempre più esclusivo con le elites politiche ed economiche , quelle stesse che validano e permettono le candidature e l'elezione dei singoli rappresentanti. Il realismo dello sguardo e la dura sostanza dei fenomeni di fronte a noi non devono indurre alcun scoraggiamento sulla possibilità che abbiamo di vincere il referendum oppositivo alla riforma costituzionale.

Tutt’altro. Significa ribadire che dopo che avremo vinto questa essenziale tappa del conflitto in corso abbiamo davanti a noi compiti altrettanto impegnativi: edificare un'altra rappresentanza collettiva, come condizione per nuove istituzioni democratiche. Nelle date condizioni storiche attuali. La vittoria del No al referendum di ottobre può rappresentare quindi l’indispensabile avvio di un'altra storia, impervia quanto mai ma cionostante possibile: rimettere al primo posto l'uguaglianza e il lavoro come indicate negli art. 1 e 3 Cost., la dignità della persona, diritti universali di cittadinanza, un progetto economico sociale fondato sugli artt. 41 e seguenti della attuale costituzione, il ripensamento dei trattati europei, l’annullamento del TTPI. Al lavoro.

».Il manifesto, 28 maggio 2016 (c.m.c.)


Tra le fila dei manifestanti della Cgt a Parigi, Repubblica Tv, raccoglie la seguente parola d’ordine: «Che ci detestino pure, purché ci temano!» A prima vista può apparire come una contrapposizione piuttosto ruvida tra la forza e il consenso ( secondo la versione di Hollande che strepita contro «una minoranza» che blocca il paese e danneggia l’interesse nazionale), ma in realtà coglie un punto molto importante. Nessuna lotta è in grado, non dico di vincere, ma nemmeno di scompaginare o incrinare i giochi dell’avversario se non è nelle condizioni di incutere timore, di dimostrare concretamente che c’è un prezzo da pagare ed è piuttosto salato.

E l’avversario, naturalmente, non è l’eterna menzogna della Nazione, ma un padronato e una élite politica che vogliono guadagnare competitività insieme a una crescita sostanziosa dei profitti.

Il famoso articolo 2 della loi travail, quello che privilegia la contrattazione aziendale su quella collettiva, ha come posta in gioco sostanziale l’orario di lavoro, e cioè la tenuta di quelle sacrosante 35 ore settimanali conquistate con decenni di conflitti. È quasi superfluo ricordare che la lotta per la riduzione dell’orario è stata la costante più pura, meno ideologica e più aperta all’idea di libertà nell’intera storia del movimento operaio.

Il suo valore simbolico è grandissimo, tanto più nel momento in cui disoccupazione, sottoccupazione e precarietà fanno da beffardo contrappunto all’estensione del tempo di lavoro e all’ordinarietà crescente degli straordinari. Smentendo ripetutamente i benefici effetti sulla ripresa dell’occupazione attribuiti alle cosiddette «riforme». Le 35 ore, poi, contrariamente al nostro articolo 18, non riguardano uno strumento di difesa che si attiva in determinate (e rare) circostanze, ma la condizione permanente di vita quotidiana dei salariati.

Nonostante l’automazione e la massiccia contrazione del lavoro salariato esistono ancora settori di classe operaia (trasporti, logistica, energia) in grado di rallentare, se non di arrestare, la macchina produttiva di qualunque «sistema paese». Ronald Reagan lo sapeva benissimo quando diede il via alla riscossa del neoliberismo piegando con la forza lo sciopero dei controllori di volo.

In questi casi il gioco del potere consiste nell’isolare questi lavoratori in lotta, accusandoli di presidiare gli snodi decisivi nei quali operano in difesa di un privilegio corporativo contrapposto all’«interesse generale». Ma, in questo caso il gioco ha il fiato particolarmente corto. La riforma del lavoro non riguarda infatti questa o quella categoria produttiva, ma il rapporto tra capitale e lavoro en general. Si può sensatamente obiettare che una fetta crescente del lavoro è completamente escluso dalle tutele, dalle garanzie e dalla residuale forza contrattuale del lavoro subordinato.

Tuttavia anche questi soggetti si sono resi conto che la flessibilità imposta ai salariati, lungi dal rappresentare una possibilità di inclusione per loro, non farà che intensificare quel «dumping sociale» di cui già sono vittime. La ricattabilità del lavoro è una evidente reazione a catena. Non si spiegherebbe altrimenti una partecipazione così massiccia di studenti e giovani non certo provenienti dai ranghi del lavoro subordinato, né ad esso destinati, a una mobilitazione così lunga e tenace come quella cui stiamo assistendo in Francia.

La questione è ragionevolmente percepita come una questione politica, destinata a determinare il rapporto di forza tra soggetti subalterni e poteri dominanti, se non, addirittura, tra governanti e governati.

Temuti, ma detestati? La forza va forse a scapito del consenso? A guardare diversi sondaggi eseguiti nelle ultime settimane tra il 60 e il 70 per cento dei francesi si dichiarerebbe decisamente contrario alla legge così caparbiamente voluta da Valls e Hollande. E, del resto, il modo in cui la legge è stata fatta passare al primo vaglio dell’Assemblea nazionale, ricorrendo a una procedura che elude la discussione parlamentare, non sembra proprio dare un gran valore al consenso.

Non vi è dubbio che la rappresentanza sindacale sia indebolita in tutta Europa e la sua presa sulla realtà sociale risulti allentata. Ma cosa dire allora della rappresentanza politica? Il gradimento del governo socialista è ai minimi storici, l’impopolarità del presidente Hollande è alle stelle e una sua rielezione nel ’17 fuori dall’ordine del possibile. L’incapacità di ascoltare la società francese assodata. Eppure l’esecutivo si pretende incarnazione indiscutibile della «volontà generale».

Se la destra avanza a grandi passi verso il potere non sarà certo dovuto a qualche disordine di piazza, a qualche vetrina infranta, ma alla politica impopolare e al tempo stesso arrogante condotta da ciò che (disgraziatamente) resta del socialismo francese.

Giunti a questo punto forse è fin troppo tardi per arrestare l’ascesa del Front National o di un’altra destra che concorra a sedurne l’elettorato. Ma se una possibilità c’è è quella di rinunciare a imporre questa riforma recuperando un qualche rapporto col mondo del lavoro. Sappiamo che questo non accadrà per intelligenza politica del partito di governo. Potrebbe accadere solo per la sua paura di perdere il controllo della situazione.

«Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio».

Il manifesto, 28 maggio 2016

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando.

È mera rappresentazione. In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando. È mera rappresentazione.

In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza?

La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito?

La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario.

Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze. Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci.

La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo – unitamente a quella di partito – può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste.

In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di autorità.

Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa. In più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340?

Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio. La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd.

«Valls rifiuta il dialogo. "La Loi Travail è retrograda", per la competitività conta la qualità delle relazioni tra capitale e lavoro. I rischi del populismo». Il manifesto

Dominique Plihon è un economiste atterré, professore di economia finanziaria a Paris XIII e portavoce di Attac France.

Come interpreta la situazione, all’ottava giornata di manifestazioni, dopo ormai quasi tre mesi di lotte contro la Loi Travail? “E’ un importante conflitto, di grandi dimensioni e gravità. La Francia ne ha avuti altri, nel ’95, poi all’inizio degli anni 2000 e ogni volta hanno portato o al ritiro della legge contestata o a una crisi politica, a un cambiamento politico. Nel ’95 ci sono state elezioni e la sinistra è andata al potere”.
Ma adesso al potere c’è il Ps…
“Difatti, è una cosa gravissima, questo governo che si pretende di sinistra sta facendo una politica altrettanto dura di quella della destra. Non ha nessuna propensione al dialogo. Valls è maldestro, incapace di negoziare. Siamo di fronte a una politica di lotta di classe, c’è chiaramente uno scontro tra i lavoratori, la maggior parte dei lavoratori – anche se i sindacati sono divisi – e un governo alleato del padronato. La Loi Travail ha cristallizzato la situazione, ma c’erano già tensioni prima. Siamo di fronte a un importante cambiamento della logica delle relazioni tra capitale e lavoro, sul diritto dei lavoratori, sul ruolo dei sindacati”.

La Cfdt pero’ ha contribuito alla redazione della nuova versione della legge.
“Ci sono due visioni sindacali: la Cfdt considera che la versione attuale fa abbastanza passi avanti per accettarla, mentre la Cgt e Fo ritengono che i passi indietro sociali siano superiori a quelli avanti”.

Lei ha citato lotte del passato. Ma oggi con la mondializzazione in atto, non sarebbe necessario adeguare la legislazione?
“Credo che di fronte alla mondializzazione chi ha una visione molto conservatrice e reazionaria sulle relazioni capitale-lavoro sia il padronato. Oggi, un’efficacia massima, una maggiore competitività passano per una buona qualità delle relazioni capitale-lavoro e per il riconoscimento del ruolo dei lavoratori nelle imprese. Ma questo non è il caso oggi, il governo ha una concezione retrograda e il padronato francese è molto conservatore. La legge, sotto questo aspetto, è molto negativa”.

Tra un anno ci sono presidenziali e legislative. Non tutti sono in piazza, molti si lamentano degli effetti della protesta e delle manifestazioni. Questo movimento sociale non rischia di andare a vantaggio dell’estrema destra?
“C’è un vero rischio, considerevole, abbiamo appena visto i risultati elettorali in Austria. Ma questo è una ragione sufficiente per accettare una legge pericolosa per i lavoratori? La minaccia populista viene dall’insoddisfazione dei cittadini nei confronti della situazione attuale e della politica che viene attuata. Non c’è quindi ragione di accattare una legge non buona e non è neppure detto che, accettandola, si limiterebbe il rischio populista. La maggioranza dei cittadini è contro la riforma”.

Come vede una possibile via d’uscita?
“Probabilmente, ci saranno concessioni da parte del governo sull’articolo 2, il più pericoloso, che riduce il ruolo dei sindacati ed è un fattore potenziale di regressione dei diritti. Il Partito socialista è diviso, ci possono essere concessioni. La tattica del governo è di cercare di dividere i sindacati, puntando a che Fo accetti, per isolare la Cgt. E’ una tattica che puo’ avere successo a breve, ma negativa sul lungo periodo perché creerà una crisi permanente tra governo e Cgt. Un altro scenario possibile è che il movimento si amplifichi e il governo sia obbligato a cedere, portando a una crisi politica grave. Il governo non avrà più nessuna credibilità, il primo passo in questa direzione era stata la proposta di privazione della nazionalità per i bi-nazionali. Questa crisi puo’ essere pericolosa, il populismo puo’ approfittarne. C’è una grande incertezza politica.

Anche la destra, pero’, è divisa, farà quello che dice oggi nei programmi elettorali?
La dottrina economica del Fronte nazionale è poco realista, era un partito liberista ora è più interventista, possono aver successo perchè difendono una visione economica non ultraliberista. Ma ha poche possibilità di vincere. Forse mi sbaglio, sono troppo ottimista”.

La Repubblica, 27 maggio 2016
Profughi, debiti, disoccupazione: la crisi dell’Europa sembra non aver fine. Per una parte crescente della popolazione, la sola risposta leggibile è quella del ripiegamento nazionale: usciamo dall’Europa, torniamo allo Stato-nazione e tutto andrà meglio. Di fronte a questa promessa illusoria — ma che ha il merito della chiarezza — il campo progressista non fa che tergiversare: certo, la situazione non è brillante, ma bisogna persistere e attendere che le cose migliorino, e in ogni caso è impossibile cambiare le regole europee. Questa strategia mortifera non può durare. È venuto il momento che i Paesi più importanti della zona euro riprendano l’iniziativa e propongano la costituzione di un nocciolo duro in grado di prendere decisioni e rilanciare il nostro continente.

Bisogna cominciare facendo piazza pulita di quell’idea secondo cui lo stato dell’opinione pubblica impedirebbe di toccare i trattati europei: i cittadini detestano l’Europa attuale, quindi non cambiamo nulla. Il ragionamento è assurdo, e soprattutto falso. Per essere più preciso: rivedere l’insieme dei trattati conclusi dai 28 Paesi per istituire l’Unione Europea, in particolare in occasione del trattato di Lisbona del 2007, probabilmente è prematuro; il Regno Unito e la Polonia, per citarne solo due, hanno programmi che non sono i nostri. Ma questo non significa che si debba restare inoperosi: ci sono tutte le condizioni per concludere, parallelamente ai trattati esistenti, un nuovo trattato intergovernativo fra i Paesi della zona euro che lo desiderano.
La prova migliore è quello che è stato fatto nel 2011-2012. In pochi mesi, i Paesi dell’Eurozona negoziarono e ratificarono due trattati intergovernativi con pesantissime conseguenze sui bilanci pubblici: uno istituiva il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, un fondo provvisto di 700 miliardi di euro per venire in aiuto ai Paesi dell’Eurozona); l’altro, chiamato «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria », e volgarmente noto come fiscal compact, fissava le nuove regole di bilancio e prevedeva sanzioni automatiche da applicare agli Stati membri.

Il problema è che questi due trattati sono serviti solo ad aggravare la recessione e la deriva tecnocratica dell’Europa. I Paesi che richiedono il sostegno del Mes devono firmare un «protocollo di intesa» con i rappresentanti della famigerata «trojka» (articolo 13 del trattato del Mes). In poche righe è stato concesso a un pugno di tecnocrati della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, a volte competenti e a volte molto meno, il potere di supervisionare la riforma dei sistemi sanitari, pensionistici, fiscali e così via di interi Paesi, il tutto nella quasi totale assenza di trasparenza e controllo democratico. Quanto al fiscal compact (articolo 3), fissa un obbiettivo assolutamente irrealistico di disavanzo strutturale massimo dello 0,5 per cento del Pil. Precisiamo che si tratta di un obbiettivo di disavanzo secondario, che quindi tiene conto anche degli interessi sul debito: quando i tassi di interesse risaliranno, significherà che per decenni tutti i Paesi che avranno accumulato debiti significativi in seguito alla crisi (cioè la quasi totalità dei Paesi della zona euro) dovranno mantenere un avanzo primario enorme, del 3-4 per cento del Pil.
Ci si dimentica, en passant, che l’Europa fu costruita negli anni Cinquanta proprio sulla cancellazione dei debiti passati (di cui beneficiò in particolare la Germania), e che furono quelle scelte politiche a consentire di investire nella crescita e nelle nuove generazioni.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo bell’edificio — Mes e fiscal compact — è sottoposto al controllo del consiglio dei ministri dell’Economia della zona euro, che si riunisce a porte chiuse e ci annuncia regolarmente, nel pieno della notte, di aver salvato l’Europa, salvo poi renderci conto, il giorno seguente, che i suoi membri non sanno neppure loro cosa hanno deciso. Bel successo per la democrazia europea del XXI secolo.
La soluzione è evidente: bisogna rimettere in cantiere quei due trattati e dotare la zona euro di istituzioni democratiche autentiche, in grado di prendere decisioni chiare a seguito di discussioni condotte alla luce del sole. L’opzione migliore sarebbe costituire una camera parlamentare dell’Eurozona, composta di rappresentanti dei Parlamenti nazionali, in proporzione alla popolazione di ciascun Paese e ai diversi gruppi politici. Questa camera dovrebbe deliberare su tutte le decisioni finanziarie riguardanti direttamente l’Eurozona, a cominciare dal Mes, il controllo dei disavanzi e la ristrutturazione dei debiti. Potrebbe votare anche un’imposta comune sulle società e un bilancio dell’Eurozona che consenta di investire nelle infrastrutture e nelle università.
Questo nocciolo duro europeo sarà aperto a tutti i Paesi, ma nessuno deve poter bloccare chi desidera avanzare più in fretta. Concretamente parlando, se la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, che rappresentano insieme più del 75 per cento della popolazione e del Pil della zona euro, pervengono a un accordo, questo nuovo trattato intergovernativo deve poter entrare in vigore.
In un primo momento, la Germania probabilmente avrà paura di essere messa in minoranza in questo Parlamento. Ma non potrà rifiutare apertamente la democrazia se non vuole correre il rischio di rafforzare in modo irrimediabile il campo anti-euro. Soprattutto, questo nuovo sistema rappresenta una proposta equilibrata: si apre la strada a cancellazioni del debito, ma nello stesso tempo si obbliga coloro che ne vogliono beneficiare — come la Grecia — a sottomettersi per il futuro alla legge della maggioranza. Un compromesso è a portata di mano, se solo si accetterà di mettere da parte conservatorismi ed egoismi nazionali.
«. Il manifesto, 27 maggio 2016 (c.m.c.)

Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.

Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».

Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.

Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.

Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.

Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.

I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.

Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.

Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.

Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2016 (p.d.)

1. Perché raccogliere le firme, se il referendum è stato già chiesto dai parlamentari?

Non si può lasciare al Palazzo la scelta se votare su una vasta modifica della Costituzione, facendone un plebiscito Renzi sì-Renzi no. La richiesta dei cittadini corregge la torsione plebiscitaria, inaccettabile perché impedisce la discussione di merito su una modifica pessima e stravolgente, che va respinta a prescindere dalla sorte del governo.

2. Ma anche Renzi ha avviato la raccolta delle firme.

Lo ha fatto non per amore di democrazia, ma solo perché i sondaggi hanno dimostrato che la via del plebiscito personale era per lui pericolosa. È anche un tentativo di scippare la bandiera della raccolta firme ai sostenitori del no. Tutto deve essere nel nome del governo.

3. Finalmente si riesce dove tutti avevano fallito.

È decisivo il come. Un Parlamento illegittimo per l’incostituzionalità della legge elettorale, e una maggioranza raccogliticcia e occasionale, col sostegno decisivo dei voltagabbana, stravolgono la Costituzione nata dalla Resistenza. L’irrisione e gli insulti rivolti agli avversari vogliono nascondere l’incapacità di rispondere alle critiche.

4. La legge Renzi-Boschi riduce i costi della politica, cancellando le indennità per i senatori non elettivi.

Il risparmio è di spiccioli. La gran parte dei costi viene non dalle indennità, ma dalla gestione degli immobili, dai servizi, dal personale. Mentre anche il senatore non elettivo ha un costo per la trasferta e la permanenza a Roma, nonché per l’esercizio delle funzioni (segreteria, assistente parlamentare, etc). Risparmi con certezza maggiori si avrebbero – anche mantenendo il carattere elettivo – riducendo la Camera a 400 deputati, e il Senato a 200. Avremmo in totale 600 parlamentari, invece dei 730 che la legge Renzi-Boschi ci consegna.

5. I senatori eletti dai consigli regionali nel proprio ambito, insieme a un sindaco per ogni regione, rappresentano le istituzioni di autonomia. È la Camera delle Regioni, da tempo richiesta.
Falso. Un consigliere regionale è espressione di un territorio limitato e infraregionale, cui rimane legato per la sua carriera politica. Lo stesso vale per il sindaco-senatore. Avendo pochi senatori, ogni regione sarà rappresentata a macchia di leopardo. Pochi territori avranno voce nel Senato, e tutti gli altri non l’avranno. È la Camera dei localismi, non delle regioni.

6. Sarebbe stato meglio con l’elezione diretta?

Certo, perché i senatori eletti avrebbero dato rappresentanza a tutto il territorio regionale e a tutti i comuni. Una vera Camera delle regioni richiede l’elezione diretta, mentre l’elezione di secondo grado apre la via ai localismi e agli egoismi territoriali.

7. Il riconoscimento del seggio senatoriale può essere la via per creare un circuito di eccellenza nel ceto politico regionale e locale.

È vero piuttosto, al contrario, che si rischia un abbassamento della qualità nei massimi livelli di rappresentanza nazionale. Basta considerare le cronache di stampa e giudiziarie. Soprattutto perché ai consiglieri-senatori e ai sindaci-senatori si riconoscono le prerogative dei parlamentari quanto ad arresti, perquisizioni, intercettazioni. Un’inchiesta penale a loro carico può diventare molto difficile, o di fatto impossibile.

8. Ma le prerogative non riguardano le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, che rimangono senza copertura costituzionale.

E come si possono distinguere? Se il sindaco-senatore o il consigliere-senatore usa il proprio telefono nell’esercizio delle funzioni connesse alla carica locale diventa per questo intercettabile? E se tiene riunioni nella sua segreteria di senatore? Le attività di indagine verrebbero scoraggiate, o quanto meno gravemente impedite.

9. L’elezione diretta dei senatori è stata sostanzialmente recuperata nell’ultima stesura per le pressioni della minoranza Pd.

Falso. Rimane scritto che i senatori sono eletti dai consigli regionali tra i propri componenti. È stato solo aggiunto il principio che debba essere assicurata la conformità agli indirizzi espressi dagli elettori nel voto per il consiglio. Ma è tecnicamente impossibile. A 10 regioni e province (Valle d’Aosta, Bolzano, Trento, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata) spettano 2 seggi, e a Calabria e Sardegna ne spettano 3. Uno dei seggi è riservato a un sindaco. Come si può rispettare la volontà degli elettori quando il consiglio elegge un solo consigliere-senatore, o due?

10. Il principio della conformità al volere degli elettori è comunque stabilito.

Ma cosa la “conformità” significhi, come possa realizzarsi, e cosa accadrebbe nel caso non si realizzasse rimane oscuro. In ogni caso si rinvia a una successiva legge, che – vista l’impossibilità di risolvere il problema – potrebbe anche non venire mai. Una norma transitoria rimette in pieno la scelta ai consigli regionali.

11. Ma il Senato non elettivo serve a superare il bicameralismo paritario, fonte di continui e gravi ritardi.

Falso. Si poteva giungere a un identico bicameralismo differenziato lasciando la natura elettiva del Senato. In ogni caso, le statistiche parlamentari – disponibili sul sito del Senato – ci dicono che nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate all’approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Numeri, non chiacchiere.

12. Il bicameralismo differenziato semplifica comunque i processi decisionali e assicura maggiore rapidità.

Solo in apparenza. Negli art. 70 e 72 vigenti il procedimento legislativo è disciplinato con 198 parole. La legge Renzi-Boschi sostituisce i due articoli con 870 parole. Può mai essere una semplificazione? In realtà si moltiplicano i procedimenti legislativi diversificandoli in rapporto all’oggetto della legislazione. Ne vengono incertezze e potenziali conflitti tra le due camere, che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale.

13. Ma su molte materie la Camera ha l’ultima parola, e questo evita le “navette”.

Le navette prolungate, con reiterati passaggi tra le due Camere, sono in genere sintomo di difficoltà politiche nella maggioranza, che – se ci fossero – si manifesterebbero anche con una sola Camera. Mentre il Senato comunque partecipa paritariamente su materie di grande rilievo, come le riforme costituzionali. Con quale legittimazione sostanziale, data la sua composizione non elettiva?

14. La fiducia viene data dalla sola Camera e questo contribuisce alla stabilità.

Poco o nulla. Nell’intera storia repubblicana il diniego della fiducia ha fatto cadere soltanto due governi (i due Prodi). Lo stesso governo Renzi è nato con una manovra di palazzo volta all’omicidio politico di Letta. Senza quella manovra, Letta potrebbe essere ancora in carica dall’inizio della legislatura.

15. Il rapporto di fiducia verso la sola Camera rafforza la governabilità.

La governabilità dipende non dal numero delle Camere, ma dalla coesione della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza composita e frammentata non potrà mai produrre governabilità. È decisiva una buona legge elettorale, che componga in modo corretto i valori “governabilità”e“rappresentanza”.

16. Per questo l’Italicum è il giusto complemento alla riforma della Costituzione.

Niente affatto. L’Italicum riproduce i vizi del Porcellum già dichiarati costituzionalmente illegittimi: eccesso di disproporzionalità tra i voti e i seggi attribuiti con il premio di maggioranza, per di più dato a un singolo partito; lesione della libertà di voto dell’elettore per il voto bloccato sui capilista, che possono anche essere candidati in più collegi.

17. Ma l’Italicum prevede una soglia al 40%, superata la quale la lista ottiene 340 deputati, e il ballottaggio a due nel caso la soglia non venga raggiunta. Con il ballottaggio ci sarà comunque un vincitore che supera il 50%.

Al ballottaggio e al premio si accede senza alcuna soglia. Se nel ballottaggio un partito prendesse 2 voti e l’altro 1, il primo avrebbe comunque 340 seggi. Come col Porcellum è possibile che un singolo partito con pochi consensi nel Paese abbia in Parlamento una maggioranza blindata di 340 seggi, mentre tutti gli altri soggetti politici, che pure assommano nel totale maggiori consensi, si dividono i seggi rimanenti. Conseguenza: il voto dato alla lista vincente pesa sull’esito elettorale fino a 4 volte il voto per le altre liste. Un grave elemento di diseguaglianza tra gli elettori.

18. Un premio di maggioranza non è di per sé incostituzionale.

Ma è incostituzionale quello dell’Italicum. Già la soglia al 40% configura un premio di maggioranza enorme, con 340 deputati garantiti. Per di più, essendo sempre 340 i seggi assegnati alla lista vincente, il premio sarà maggiore per chi ha il 40% dei voti, minore per chi ha il 41%, e così via. Meno voti si prendono, più seggi aggiuntivi si ottengono con il premio. Un elemento di manifesta irrazionalità.

19. Ma l’Italicum garantisce che si sappia chi vince la sera del giorno in cui si vota. Un elemento di certezza.

Che nessun sistema elettorale potrà sempre e comunque assicurare. E in ogni caso la governabilità non si assicura dando un potere blindato con artifici aritmetici a chi ha una minoranza – anche ristretta – di consensi reali nel paese. Sarà pur sempre un governo al quale la parte prevalente del corpo elettorale ha negato adesione e sostegno.

20. Non è corretto censurare l’Italicum con l’argomento che apre la via all’uomo solo al comando.

Invece sì. L’Italicum prevede, come già il Porcellum, la figura del “capo”del partito. Il voto bloccato sui capilista e le candidature plurime per gli stessi capilista consentono al leader del partito di controllare in ampia misura la scelta dei parlamentari da eleggere, per la maggioranza blindata dal premio. La concentrazione del potere è indiscutibile.

21. Ma chi firma per il referendum abrogativo sull’Italicum vuole tornare al proporzionale puro di lista e preferenza, con tutti i rischi di ingovernabilità?

Niente affatto. Si vuole soltanto ristabilire una condizione politica non viziata da meccanismi elettorali costituzionalmente illegittimi. Si potrà allora scegliere – con corretta partecipazione democratica e piena rappresentanza politica – di quali riforme il paese ha bisogno, inclusa la scelta di una legge elettorale conforme a Costituzione.

22. È comunque eccessiva l’accusa di deriva autoritaria. Resta intatto il sistema di checks and balances.

Ma l’effetto sinergico della riduzione del numero dei senatori e il dominio sulla Camera assicurato dal premio rendono decisiva l’influenza della maggioranza di governo nell’elezione in seduta comune del capo dello Stato e dei membri del Csm, come anche per la Camera dei membri della Corte costituzionale o delle Autorità indipendenti.

23. Sono effetti bilanciati dal rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, ad esempio per l’iniziativa legislativa popolare.

Falso. Le firme richieste per la presentazione di una proposta di legge sono triplicate, da 50 a 150 mila. Le garanzie sono rinviate al Regolamento, e la maggioranza parlamentare rimane libera di rigettare o modificare la proposta. In altri ordinamenti, la proposta può andare all’approvazione per via referendaria, quanto meno nel caso di modifica o rigetto del Parlamento.

24. Ma il referendum abrogativo si rafforza per l’abbassamento del quorum di validità, fissato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera.

Solo nel caso che sia stato richiesto con ben 800.000 firme, tetto quasi impossibile da raggiungere in un tempo in cui i corpi intermedi – partiti, sindacati – sono indeboliti o sostanzialmente dissolti. E non si capisce perché un referendum debba avere un quorum più alto se richiesto da 500.000 cittadini e più basso se richiesto da 800.000.

25. Si prevedono i referendum propositivi e di indirizzo.

È fumo negli occhi. I referendum propositivi e di indirizzo sono solo menzionati a futura memoria nella legge Renzi-Boschi, che ne rinvia la disciplina a una successiva legge costituzionale. Tutto rimane da fare. Cosa impediva di introdurre fin da ora una disciplina compiuta? Un chiaro intento di non provvedere.

26. Si correggono gli errori fatti nella revisione del Titolo V approvata nel 2001.

Non si correggono gli errori vecchi facendone di nuovi e sostituendo alla frammentazione un neo-centralismo statalista. Ad esempio, non è accettabile che il governo passi sulla testa delle popolazioni locali nella gestione del territorio sotto l’etichetta di opere di interesse nazionale o simili. La vicenda trivelle deve insegnarci qualcosa.

27. Si semplifica il rapporto tra Stato e Regioni, che ha dato luogo a un enorme contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

Ma non mancano contraddizioni e ambiguità,che possono tradursi in nuovo contenzioso. La soppressione della potestà concorrente in chiave di semplificazione del rapporto Stato-Regioni è ad esempio pubblicità ingannevole, perché si crea una nuova categoria di “disposizioni generali e comuni” che è difficile distinguere dalle leggi cornice della attuale potestà concorrente. E c’è anche un richiamo a “disposizioni di principio”.

28. Si rafforza lo Stato riportando a esso potestà legislative importanti.

La legge Renzi-Boschi riduce sostanzialmente lo spazio costituzionalmente riconosciuto alle autonomie. Alcuni profili potrebbero essere – se isolatamente considerati – apprezzabili. Ma il neo-centralismo statale è negativo in un contesto di complessiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica e di rappresentanza politica.
29. La de-costituzionalizzazione delle Province è un momento importante di semplificazione istituzionale.
Vale anche per le Province quanto detto per il neo-centralismo statale. Inoltre, sono un elemento marginale nell’impianto della legge Renzi-Boschi. Una parte persino non necessaria, come è provato dal fatto che la riforma delle Province è stata già da tempo avviata. Il punto dolente è il modo in cui si sta realizzando.

30. La soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) è positiva.

Vero, dal momento che il Cnel non esercita alcuna essenziale funzione politica o istituzionale. Ma la soppressione prende solo poche righe in una modifica della Costituzione per altro verso ampia e stravolgente. Bastava una leggina costituzionale mirata, che non avrebbe dato luogo a polemiche. La positività della soppressione non può certo bilanciare la valutazione negativa di tutto il resto.

Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2016, (p.d.)

Alessandro Pace ha un’agenda satura d’impegni: “Mi spiace, il tempo è scarso”. Il professore emerito di Diritto costituzionale presiede il Comitato per il No che intende bloccare la riforma della Carta. A ottobre ci sarà il referendum confermativo, ma la campagna elettorale è adesso. In piazza e sui media.

Professore, la presenza sui canali Rai del comitato la soddisfa?Mi fa una domanda ingenua, è retorica?

Anche retorica.Per la Rai siamo inesistenti. Io non mi sorprendo, non mi aspettavo trattamenti degni di un servizio pubblico aperto al dibattito. Ma la realtà supera le mie più fosche previsioni. Ho contato i secondi.

I secondi?Con i minuti facciamo troppo presto. Ascolti, le fornisco i dettagli. Il Tg3 mi ha intervistato per circa tre minuti, ma in onda sarà andato un pezzetto. Il programma Bianco e Nero su Radio1 mi ha interpellato per un paio di minuti o 120 secondi, scelga lei.

E il resto?A memoria ricordo Gaetano Azzariti a La7 da Lilli Gruber, e poi sempre a Otto e Mezzo nei prossimi giorni ci saranno altri esponenti. Ma noi parliamo di Rai, le nostre statistiche riguardano la Rai, esatto?

Sì, professore.Perché abbiamo capito che il tallone di Matteo Renzi è La7, l’unica rete che ospita le idee di chi non è schierato con il governo sul referendum. La7 fa servizio pubblico.

E che fa Viale Mazzini?Quello che fa da sempre: tutela gli interessi del governo. In questa circostanza – e mi stupisco ancora – con maggiore attenzione. Con Berlusconi c’era addirittura più spazio per le opposizioni. Oggi la situazione è peggiorata.

A chi vi appellate, come reag i te?Abbiamo scritto e riscritto al professore Angelo Cardani, il presidente dell’Autorità garante per le Comunicazioni.

Co s ’è accaduto?Niente.

Per voi il confronto pubblico fra le ragioni del sì e del no è impari?Ammetto che da un punto di vista oggettivo è una battaglia persa.

Perché, professore?In tv non compariamo e non abbiamo quattrini. Ho chiesto due pareri agli avvocati e sono riuscito a ricavare 30 mila euro dall’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Allora è rassegnato?No, per carità. I ragazzi che incontriamo ai convegni ci trasmettono un’energia preziosa, proseguiamo con vigore, andiamo avanti. Abbiamo 285 comitati locali, l’11 e il 12 giugno lanceremo una manifestazione in cento e più città con la speranza di accelerare la raccolta delle firme. A Milano abbiamo riempito tre sale di Palazzo Marino, a Bergamo c’era gente in piedi, così pure alla Sapienza di Roma.

Ma chi se n’è accorto?Osservazione corretta: non c’era una telecamera.

E sui giornali va meglio?C’è chi ospita dei nostri interventi e chi osteggia il comitato per il no. Un cronista di un quotidiano nazionale ci ha definito “forza antisistema”. È una etichetta assurda, tremenda e, soprattutto, di una falsità eclatante. Noi difendiamo la Carta con passione, difendiamo i principi dell’articolo 138. Non possiamo tollerare degli insulti gratuiti.

«Nella civilissima Parma, un delitto particolarmente efferato che non sembra attirare i riflettori come altri casi simili. Forse perché la vittima è un ragazzo tunisino, torturato e ucciso per futili motivi da un commando che ha agito sotto la guida di due "insospettabili" cittadini italiani». Il manifesto, 25 maggio 2016

Nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi, una sorta di squadrone della morte, capeggiato da due individui di mezz’età, fa irruzione nel modesto appartamento di un uomo sui trent’anni. I sei, a volto scoperto, indossano guanti di lattice e sono armati di una mazza da baseball, una spranga di ferro, un martello, un tirapugni, una pinza a pappagallo, perfino un guanto in maglia d’acciaio. Non v’è dubbio alcuno, dunque, che intendano dare una lezione assai dura alla loro vittima.

Colto di sorpresa e abbandonato dall’amico ch’era in casa - forse fuggito in preda al panico alla vista dello squadrone - lo sventurato dapprima tenta di difendersi, poi soccombe alla violenza dei suoi carnefici. Così che questi, in specie i due capibanda, potranno svolgere con tutta calma l’opera di sevizie, torture, mutilazioni. Nonostante siano imbottiti, si dice, di una miscela di cocaina e alcool, eseguiranno il lavoro con meticolosità quasi scientifica: gli recidono un orecchio, gli strappano parte del naso e con la pinza gli tranciano di netto un mignolo e un alluce, che poi gettano nel lavandino.
Nella notte silenziosa del borgo risuonano le urla strazianti della vittima. Eppure per circa un’ora nessuno interviene a fermare il massacro. Infine, qualcuno dà l’allarme. Ma quando le forze dell’ordine si risolveranno a fare irruzione nell’appartamento sarà troppo tardi: il poveruomo è ormai morto. Martoriato, mutilato, dissanguato da emorragie interne ed esterne, ha patito una lunga agonia.

Ma dove diavolo siamo

Non siamo nel Cile di Pinochet o nell’Argentina di Videla, neppure nell’Egitto del generale al Sisi. Bensì, più modestamente, a Basilicagoiano, frazione di Montechiarugolo, a pochi chilometri dalla civilissima Parma, ove risiedono i due principali carnefici. Gli altri quattro della banda, operai romeni, sarebbero stati arruolati in funzione ausiliaria, per così dire. Anch’essi sono in carcere con l’imputazione di concorso in omicidio e le aggravanti della premeditazione e della crudeltà.
I due aguzzini - persone «assolutamente insospettabili», secondo le cronache locali - sono rei confessi ed è perciò che ci permettiamo di nominarli. L’uno, il 42enne Alessio Alberici, fermato la notte stessa del delitto, è un grafico e illustratore «ben noto a Parma». In quanto fumettista di un «noir d’atmosfera», lo ritroviamo, tramite la rete, tra gli ospiti «illustri» di una serata «dedicata al giallo e al mistero»: cosa che oggi suona come un terribile paradosso. L’altro, Luca Del Vasto, di 46 anni, l’ideatore della spedizione punitiva e il carnefice più spietato, è titolare di un’impresa di pulizie, ma anche gestore di un locale ben noto, il Buddha Bar di Sala Baganza: un dettaglio, anche questo, atrocemente beffardo, data l’inclinazione alla crudeltà e al sadismo di cui darà prova il barista “buddista”, che proprio all’interno di quel bar organizza il raid fatale in cui si distinguerà per le mutilazioni inflitte alla vittima.

Confinato nella cronaca locale

Nonostante questo caso non sia certo tra i più consueti e banali, è stato confinato nella cronaca locale. I maggiori quotidiani nazionali, che di solito non disdegnano la nera più truculenta, gli hanno dedicato solo alcuni pezzi nelle edizioni locali (parliamo delle versioni online). Eppure, non foss’altro che per l’efferatezza dell’assassinio, preceduto da sevizie e torture, esso presenta qualche analogia con l’omicidio di Luca Varani. E questo è stato oggetto non solo di lunghe serie di articoli di cronaca in giornali mainstream, ma anche di commenti e analisi.

Una delle ragioni di una tale sottovalutazione è facilmente intuibile. Gli ideatori e principali esecutori dell’atroce martirio avevano sì «piccoli precedenti per spaccio», ma, italiani e per di più parmigiani doc, erano considerati cittadini rispettabili. La vittima, invece, non era che un «extracomunitario»: Mohamed Habassi, di trentatre anni e cittadinanza tunisina, oltre tutto disoccupato.

Il rovesciamento dello schema privilegiato da buona parte dei media, che vuole le persone immigrate nel ruolo dei criminali, probabilmente non li ha incoraggiati a occuparsi di un tale delitto “anomalo”.
Quanto al movente, almeno quello confessato dai due aguzzini, non potrebbe essere più meschino: Mohamed non pagava la pigione dell’appartamento di proprietà della “convivente” di Del Vasto, a suo tempo preso in fitto dalla sua compagna, morta lo scorso agosto in un terribile incidente d’auto. Ma si sospetta che vi siano anche altri moventi.

Tra i posti migliori al mondo

Nel 2014 il quotidiano britannico The Telegraph ha classificato Parma al quarto posto tra i luoghi migliori al mondo per qualità della vita, sorvolando su scandali e corruzione. Comunque sia, la città del parmigiano e del Parmigianino, con la sua provincia, non ha certo portato fortuna a Mohamed, né alla sua compagna, postina di professione, lei stessa immigrata, sia pur da Trapani. E ha sorriso poco anche al loro bambino, che oggi ha sei anni: sopravvissuto all’incidente che è costato la vita alla madre, quindi gravemente scioccato, ormai orfano anche del padre, che amava molto e dal quale era altrettanto riamato.

Dopo la prima disgrazia, per decisione del tribunale, il piccolo Samir era stato dato in custodia al padre. E Mohamed, a sua volta, lo aveva affidato alle cure della nonna paterna, anche per sottrarlo a conflitti familiari e probabilmente in attesa di tornare lui stesso in patria. Il bimbo, dunque, non abita più a pochi chilometri da Parma, bensì in una località del governatorato di Tunisi. Se un giorno, divenuto adulto, fosse costretto a emigrare, chissà se aspirerebbe a tornare nella quarta città al mondo per qualità della vita.
Nonostante la vicenda di questa famiglia sia così coerentemente tragica da apparire letteraria, così struggente da non poter sollecitare altro se non commozione e pietas, e il delitto così mostruoso da lasciare attoniti, vi è chi non ha resistito alla tentazione di diffamare la vittima. L’autrice del primo articolo che Parma.repubblica.it ha dedicato al caso, invece d’interrogarsi sull’identità dei carnefici, scrive che «alcune risposte» sui «punti oscuri di questa vicenda (…) possono essere cercate nell’identità della vittima». Mohamed Habassi, infatti, «non era per nulla amato nel vicinato», cui «arrecava disturbo», tra l’altro ascoltando «musica ad alto volume». C’è da trasecolare. Se per Del Vasto è normale che non pagare la pigione possa essere punito con un tale martirio, le allusioni della giornalista rivelano nient’altro che pregiudizio verso la vittima e indulgenza verso i carnefici: Habassi se l’è cercata, in definitiva. Gli «extracomunitari» stiano attenti quando ascoltano musica: la loro vita vale così poco che rischiano d’essere suppliziati dai vicini.
Da parte del movimento antirazzista e della sinistra più “radicale”, nessuna protesta pubblica è intervenuta finora a bucare un così spesso muro di orrore, ma anche di pregiudizio e cinismo. Tuttavia, qualche piccolo barlume di solidarietà riesce a trapelare. Per esempio, alcune educatrici e altre persone che hanno conosciuto Samir in tempi migliori e lo hanno curato, protetto, amato, hanno pubblicato un appello su Parmatoday per sapere in che modo possano aiutare il bambino: «Caro piccolo, non ti dimentichiamo, ci stringiamo a te e combatteremo per un mondo in cui il denaro non valga più della vita, dell’amore, della cura verso i più deboli e i più piccoli».
Articoli di A. Fabozzi, A Burgio e M. Villone sulle mosse di Renzi. Ciò che stupisce di più non è il sempre più grossolano e protervo adoperare ghli strumenti ci ,enzogne, camuffamenti e svisamenti dellarealtà cpmiuti dal lesder delPD, ma il fatto che a molte brave persone ancora restino all'interno di quella formazione. Il

manifesto, 24 maggio 2016

PROFESSORI PER IL SI,
ECCO IL LISTONE
di Andrea Fabozzi

«Riforme. 184 nomi favorevoli alla riforma costituzionale. Non tutti costituzionalisti, e neanche giuristi. Quel che conta è fare numero. Ma nemmeno loro se la sentono di difendere l’incrocio con l’Italicum»

Anche Renzi ha i suoi professori. È comparso ieri – sul sito della campagna governativa per il Sì al referendum costituzionale – un appello di docenti favorevoli alla riforma. È un contrappello e una prova di forza. Se infatti erano 56 i costituzionalisti raccolti da Onida e Cheli che un mese fa si sono pronunciati per il No, e sono una decina i costituzionalisti del comitato del No, quelli del Sì messi insieme dai professori Caravita, Ceccanti, Fusaro e Ciarlo sono ben 184. Non sono però tutti costituzionalisti, e nemmeno tutti giuristi: ci sono filosofi, storici, economisti, tributaristi, sociologi. Non sono neanche tutti professori ordinari, nell’elencone che chiama al sì ci sono diversi associati e ricercatori. Un buon segnale, dal punto di vista della partecipazione alla vita pubblica dei più giovani. Ma anche un’innovazione nel galateo universitario, in base al quale è generalmente ritenuto più corretto non far schierare i docenti che devono ancora superare un concorso. E che dunque saranno giudicati da accademici che hanno aderito all’una o all’altra cordata.

Buona parte delle firme di questo nuovo appello provengono da quelle raccolte già due mesi fa dal professor Caravita, costituzionalista della Sapienza di Roma, in calce a un appello che non si schierava ancora né per il Sì né per il No. Ma si presentava, allora, come un invito a non personalizzare la partita del referendum e a favorire «un voto informato e consapevole». La nuova lista dei professori per il Sì contiene nomi noti – Bassanini, Panebianco, Treu, Salvati, Tabellini – e si apre con la firma di Salvo Andò. Socialista, già ministro della difesa del governo Amato, compare come docente dell’università Kore di Enna, della quale è stato rettore, anche se le cronache raccontano di una sua estromissione (seguita dal commissariamento della fondazione).

Come tutti gli appelli, si legge più per le firme che per il testo. Che del resto è assai simile al contenuto dei documenti governativi. Ma è interessante il passaggio sulla nuova legge elettorale, che evidentemente anche i sostenitori del Sì fanno fatica a difendere. Si raccomanda infatti agli elettori di votare al referendum pensando solo alla riforma costituzionale e non all’Italicum, che in ogni caso sarà soggetto al vaglio della Corte costituzionale. E poi si truccano un po’ i conti, si dice che in fondo questa nuova legge maggioritaria concede al vincitore un vantaggio di soli 24 seggi. A prima vista una smentita totale dei tanti allarmi lanciati in questi mesi da chi vede nell’Italicum un sistema per blindare la maggioranza, alla quale vengono regalati 340 seggi. Il calcolo dei professori per il Sì è fatto immaginando che tutto il resto del parlamento, i 290 deputati residui – e dunque in ipotesi grillini, leghisti, sinistra radicale e berlusconiani – si comporti come un blocco unitario. E anche in questo caso, la differenza tra 340 seggi e 290 fa 50. Ma, ecco il sofisma, se 26 di questi senatori di maggioranza passassero a votare con l’opposizione, potrebbero rovesciare il governo. Dunque la maggioranza è di soli 24 deputati. Fuori dal sofisma, le simulazioni dimostrano che con l’Italicum chi vince al ballottaggio di un solo voto, anche avendo raccolto il 20% al primo turno, avrà circa 230 deputati in più rispetto al secondo partito.

Nel frattempo il governo è ancora impegnato nella sua polemica con L’Associazione nazionale partigiani, colpevole di aver deciso al congresso (300 voti contro 3 astenuti) di invitare a votare No al referendum. Come del resto aveva già fatto nel 2006, contro la riforma Bossi-Berlusconi (appoggiata invece da alcuni dei professori che oggi sono schierati per il Sì a Renzi), in quel caso senza polemiche. Dopo che la ministra Boschi ha spiegato in tv come riconoscere i «veri» partigiani (sono quelli schierati per la riforma, e ce ne sono), il presidente del Consiglio Renzi ha corretto il tiro: «Quella dell’Anpi è una posizione legittima, ci sono veri partigiani che voteranno Sì e che voteranno No e noi abbiamo rispetto per tutti». Segue un triste censimento di ex combattenti, tutti naturalmente assai anziani, schierati con l’una e con l’altra parte. Che raggiunge lo scopo: limitare l’impatto negativo della notizia che l’associazione più importante dei partigiani ha deciso, con una discussione e un voto, di bocciare la nuova Costituzione.

L’operazione non finisce qui, perché la propaganda del Pd ha arruolato con il Sì Pietro Ingrao – notoriamente favorevole al monocameralismo, ma in tempi di legge elettorale proporzionale – e Nilde Jotti – che una dirigente Pd ha recentemente rivisto nella figura della ministra Boschi: tra due giorni in un convegno a Piombino è in programma la reincarnazione. Alla propaganda ha replicato Celeste Ingrao, prima figlia di Pietro: «Gira una foto di papà con appiccicato sopra un grosso Sì e il simbolo del Pd, prendendo a pretesto frasi pronunciate in tutt’altro contesto e avendo in mente tutt’altra riforma. Se, come si usa dire ora, bisogna metterci la faccia, allora ci mettano la loro e quella dei loro ispiratori».

SE RENZI ALZA
LA BANDIERA DEL PCI
di Alberto Burgio

Se il buon giorno si vede dal mattino, l’avvio della campagna referendaria lascia prevedere cinque mesi di violenza verbale, di forzature, menzogne e abusi di potere di cui proprio non si sentiva il bisogno.

Non si era ancora spenta l’eco dei nuovi editti bulgari all’indirizzo di giornalisti non ossequiosi, che è scoppiata quest’altra penosa grana. Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao e Nilde Jotti variamente arruolati tra gli antesignani della «riforma» renziana. Non certo perché davvero lo si creda, che discorsi. Ma perché può servire, se non altro, a confondere le acque e le carte.

Naturalmente chi ha a cuore la buona memoria del Pci e dei suoi dirigenti storici ha subito reagito e puntualizzato. La questione potrebbe con ciò considerarsi chiusa, almeno in punto di diritto. Ma forse vale la pena di dedicare qualche minuto a quello che episodi del genere rivelano o confermano. E, appunto, fanno presagire.

In primo luogo, perché questa scelta, perché queste figure?

È ovvio che, chiamando in causa emblemi del «vecchio Pci», i propagandisti del Sì sperano di convincere l’ala sinistra dell’elettorato democratico, in sofferenza per lo sgangherato protagonismo renziano e per le politiche padronali del governo, oltre che per il merito di un pateracchio che minaccia di trasformare la repubblica parlamentare in un regime iper-presidenzialistico.

Si dirà: è la logica della propaganda. Vero. Ma c’è propaganda e propaganda, come c’è argomento e argomento. Questo uso della propaganda politica è odioso proprio perché, come si diceva, punta a disinformare e a fuorviare. Odioso, ma anche utile: una misura fedele di che cosa è diventata la politica oggi, nell’Italia del renzismo trionfante.

Si fa una cosa di destra, che più di destra non si può. Si pongono le premesse per una dittatura della premiership sfigurando la Costituzione e agganciandola a una legge elettorale che consegna i pieni poteri al Capo del partito di maggioranza relativa (una esigua minoranza del paese). Ma al tempo stesso la si camuffa da cosa di sinistra, per raggirare qualche milione di disinformati.

Di più. Mentre si medita di disegnare le istituzioni della Repubblica in forme consone allo strapotere delle oligarchie vicine al capo del governo, si agitano i volti di personaggi della storia repubblicana che incarnano valori antitetici. Il rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica. La concezione partecipata della democrazia. L’appartenenza alla storia e alla cultura di quel movimento operaio che si considera un’anticaglia e un fastidioso residuo del tempo che fu. Una perfetta vergogna.

Spiace in tutto questo soprattutto l’abuso dell’icona di Enrico Berlinguer, chiamata in causa direttamente dal presidente del consiglio, come già fece qualche tempo fa Veltroni, altro campione dell’americanismo italiota. Avesse se non altro buon gusto, Renzi non si sarebbe permesso di scomodare un uomo che mai avrebbe fatto del proprio partito una macchina da guerra contro il mondo del lavoro e contro il sindacato.

Ma si capisce, per chi vuole vincere a tutti i costi non è semplice resistere alla tentazione di sfruttare l’immagine di chi non può difendersi. Propaganda, sì: ma di infimo ordine. O piuttosto irrisione e presa in giro. Conforme, del resto, a tutto uno stile di governo.

Veniamo infine ai due argomenti che Renzi si è inventato per dare forza alle proprie esternazioni in giro per l’Italia.

Se prevale il No, sostiene, vince l’ingovernabilità e trionfano gli inciuci. Quindi oggi, visto che la bella «riforma» non è ancora in vigore, l’Italia non sarebbe governata? Per certi versi in effetti è così, dipende dall’idea che si ha del governo e del buongoverno. Ma evocare il caos si inscrive a pieno titolo nella categoria del terrorismo mediatico per la quale valgono le considerazioni precedenti.

Quanto agli inciuci, forse è questa l’unica punta di paradossale verità in questa fiera della mistificazione. Lui, che sistematicamente impone alle Camere la propria volontà grazie al soccorso verdiniano, sembra voler dire – o dire suo malgrado – che simili mezzi – simili inciuci, appunto – imperverseranno, finché siederà a Palazzo Chigi, a meno che non gli si consegnino tutte le chiavi del potere con la sua «riforma».

In altri termini: bisogna «dire sì», come ai bei tempi delle adunate oceaniche, giusto per rendere superfluo lo sconcio al quale siamo costretti ad assistere. Non per «cambiare verso», solo per dare al Capo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo.

La morale di questa storia è tutta politica, oltre che morale. Il renzismo si riduce a un binomio: strapotere delle lobbies e uso spregiudicato – compulsivo e mendace – della comunicazione (con la zelante complicità dei giornali «perbene»). Per i prossimi mesi questa miscela tossica minaccia di pervadere la sfera pubblica. Contrastarla sin d’ora – oltre che prepararsi a bocciare sonoramente la controriforma della Costituzione – è indispensabile per scongiurare l’inquinamento irreversibile della politica italiana.

ALL'ANPI LA RIFORMA NON PIACE
E RESISTE
di Massimo Villone

«Riforme. La scelta del No arriva dopo una discussione lunga e complessa, con un dibattito vissuto anche nella stagione congressuale. L’aggressione renziana è segno di difficoltà»

Adesso sappiamo che se vince il no nel referendum costituzionale se ne va anche la Boschi. Il piatto diventa davvero interessante: due al prezzo di uno.

Monta la preoccupazione a Palazzo Chigi. Si alzano i toni, si aggredisce chi non si allinea, si lancia la coscrizione obbligatoria di sostenitori non si sa quanto convinti. Da ultimo, 70 senatori scrivono all’Anpi una lettera aperta, affiancandosi alla frase della Boschi sui «veri partigiani» che votano sì. Non accade certo per caso: è una strategia di provocazione verso un’associazione che è ad un tempo un pezzo di storia del paese e un’icona della sinistra, e non prende ordini da nessuno.

Non sapevamo che ectoplasmi senatoriali fossero in grado di parlare. In realtà i senatori firmatari sono la prova che almeno per una parte Renzi ha avuto ragione. Se una rottamazione riesce, allora andava fatta, perché era meglio comunque liberarsi del fradicio su cui si è abbattuta. E i 70 senatori ne sono la prova. Come possono parlare all’Anpi di una democrazia piena ed efficace, quando hanno approvato una riforma costituzionale e una legge elettorale che la ridurrebbero a un teatrino di comparse pronte all’omaggio servile? Siamo lieti che i senatori protagonisti dello scempio siano rottamati e ancor più per il futuro rottamandi. D’altronde, su quale seguito e consenso popolare potrebbero più contare?

Ma proprio per questo siamo contrari al senato di Renzi, che lo vuole riempito di personaggi non migliori, ed anzi peggiori. Gli è sfuggito, nella foga del discorso a Bergamo, un richiamo alle mutande verdi comprate con i soldi pubblici. Peccato non abbia colto l’ironia: secondo la sua riforma proprio gli acquirenti delle mutande – come tutti ricordano, consiglieri regionali – sarebbero domani elevati alla dignità del seggio senatoriale. E avrebbero la copertura delle prerogative parlamentari anche per l’acquisto delle anzidette mutande.

La politica alla Renzi la conosciamo ancora prima del voto sulla riforma. È la junk politics – la politica spazzatura – tipica degli Stati uniti. La vediamo proprio in questi mesi di primarie per la presidenza. E l’atteggiamento e il linguaggio di Renzi e dei suoi sostenitori sono un buon esempio di “trumpismo” all’italiana. La stessa propensione all’invettiva, all’insulto, alla derisione quando non alla denigrazione dell’avversario. La stessa avversione per il ragionamento e il pensiero intelligente.

L’Anpi è giunta a definire l’atteggiamento sulla riforma e sui referendum attraverso un dibattito lungo e complesso. Un dibattito che è vissuto anche in una stagione congressuale. Le ragioni dei favorevoli e dei contrari hanno avuto modo di svolgersi in un confronto pienamente democratico, e la maggioranza favorevole a difendere la Costituzione è stata ampia. È confluita in essa la consapevolezza che un momento storico decisivo per l’Italia si è trasfuso nella Costituzione, che ha definito e definisce ancora oggi l’identità del paese, nei suoi elementi essenziali di paese moderno e democratico. La sgangherata legge Renzi-Boschi, unitamente all’altrettanto sgangherato Italicum, attacca quella identità. Ed è del tutto ovvio e naturale che una associazione come l’Anpi, per quel che è e quel che rappresenta, si schieri a difesa. L’Anpi, non i pochi pezzi di essa renziani a prescindere.

La frase della Boschi segnala la rabbia per la disobbedienza di chi si vorrebbe subordinato e servo. Noi siamo per l’Anpi che decide di resistere, come siamo per i magistrati che vogliono prendere posizione in difesa della Costituzione. E ancora siamo per i professori autorevoli che decidono di parlare contro le cattive riforme, senza farsi intimorire da quelli che si arruolano nelle truppe del premier nella qualità di giovani di belle speranze. A questi facciamo comunque i migliori auguri di successo per una brillante carriera. Ci permettiamo solo un consiglio: studino la vasta letteratura sulla intrinseca fragilità del potere personale, per dato genetico destinato a durare poco. Gli ultimi che pensavano di durare mille anni sono finiti male.

Renzi deve farsene una ragione. C’è un pezzo di Italia che la sua Costituzione proprio non la vuole. La legge Renzi-Boschi è il peggior prodotto che decenni di dibattiti abbiano mai visto, per il banale motivo che il manico non era buono. Si poteva fare meglio? Certamente, cambiando in profondità ma senza scivolare in una deriva di potere personale e cerchi magici. Gli atti parlamentari sono pieni di proposte. Si poteva con soluzioni efficaci e condivise risparmiare di più e mantenere il senato elettivo, superare il bicameralismo paritario, rafforzare l’istituzione parlamento, ampliare la partecipazione democratica, consolidare il sistema di checks and balances, riequilibrare il rapporto Stato-Regioni. Bastava leggere, ascoltare, riflettere.

Invece l’arroganza di Renzi ora ricatta e spacca il paese. E che gli varrebbe vincere il referendum per una manciata di voti? Ne uscirebbe comunque indebolito lui, e ancor più la sua costituzione. Per questo è nell’interesse del paese che perda. E se volesse rimanere in carica dopo la sconfitta del sì, non avremmo nulla in contrario. Gradiremmo solo che decidesse, da qui a ottobre, se vuole fare lo statista, o il faccendiere di Palazzo Chigi.

La Repubblica, 24 maggio 2016 (c.m.c.)

Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.

Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.

Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?

Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.

Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.

La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.

Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.

Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.

Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.

Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.

Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.

E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.

Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.

Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016 (p.d.)

Quaranta anime sparse per la campagna del Mugello. La Chiesa e il cimitero. La parrocchia minuscola appoggiata sul monte Giovi a quasi 500 metri nel Comune di Vicchio. Né acqua, né luce. Per raggiungerla, una strada di sassi. Questa era Barbiana quel 7 dicembre del 1954 quando arrivò Don Lorenzo Milani mandato dalla curia Fiorentina per punizione.

Il prete-maestro che di sé diceva: “Non sono un sognatore e un politico:io sono un educatore di ragazzi vivi, e educo i miei ragazzi vivi a essere buoni figlioli, responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani”. In nove anni, fino a quando una leucemia lo ha strappato alla vita a soli 44 anni, ha trasformato Barbiana in cattedra della povertà.

Il suo pallino era l’istruzione, combattere l’analfabetismo dei figli dei poveri per renderli liberi. La prima pietra fu proprio la scuola. Tempo pieno dalle otto del mattino fino al calar del sole dove si faceva educazione “per tutti e partecipata da tutti per imparare la partecipazione attiva nella scuola, nella vita pubblica, nella politica, nel sindacato”.

Pastorale e filosofia. Un’esperienza rivoluzionaria che Don Milani descriverà nel libro Lettera a una professoressa.“Dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l’umanità va avanti”. E ancora: “Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola”.

Rivolgendosi ai suoi alunni diceva: “Voi non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttate come disperati sulle pagine dello sport. È il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”.

Appena arrivò disse: “Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette”. La cultura che “non è solo possedere la parola, esser messi in condizione di potersi esprimere, di poter mettere a disposizione di tutti quello che noi abbiamo ricevuto: è anche appartenere alla massa ed essere consapevoli di questa appartenenza”.

A parlardi di lui è Giancarlo Carotti, uno dei primi sei alunni che varcarono la soglia della scuola. Oggi settantunenne, padre di due figlie, nonno di tre nipoti, il quarto in arrivo, è stato per una vita operaio metalmeccanico e da pensionato torna a Barbiana per dedicarsi alla Fondazione. Qui in sei anni sono arrivate 850 scolaresche e ogni anno, percorrendo il Sentiero della Costituzione, salgono diecimilapersone. Una sorta di via crucis laica nel bosco con quarantacinque stazioni, ognuna è un articolo della Costituzione italiana illustrato con i disegni dei ragazzi di diverse scuole d’Italia. Un giorno un ragazzo di solida famiglia cattolica chiese a Don Milani: “Ma lei insegna anche a lui che è comunista e dichiarato nemico della Chiesa? Io gli insegno il bene –rispose – gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere comunista, sarà un comunista migliore”.

Nato a Firenze il 6 settembre del 1895 da famiglia borghese, ha avuto con la mamma Alice Weiss, ebrea, un rapporto intenso. Quando andò per la prima volta a trovarlo a Barbiana informò i sei ragazzi della scuola che non era cristiana e che dovevano essere premurosi e tolleranti se non avesse compreso la loro esperienza: “Cerchiamo di aiutarla in tutto e di attenuare i suoi disagi, perché noi cristiani dobbiamo dimostrare di essere migliori”.

Giancarlo è stato uno dei primi due bambini ad incontrare Don Milani quando mise piede a Barbiana. Aveva 9 anni ed era il più grande di tre figli di genitori contadini, molto poveri. “Spiegò che era stato mandato all’esilio ecclesiastico perché il suo modo di essere prete era troppo avanti per i tempi ed era diventato un personaggio scomodo per le alte sfere della Chiesa. Questa sua sincerità conquistò tutti. La scuola partì con sei alunni che man mano divennero quarantadue. Noi eravamo figli di contadini poverissimi –continua Giancarlo –il nostro destino era segnato se non fosse capitato don Lorenzo a cambiarlo. Il suo pallino era insegnarci la padronanza della lingua italiana, della parola. Non ha mai preteso di modificare il mondo ma di portarci ad un certo livello culturale. Il metodo era completamente diverso da quello tradizionale, nella nostra scuola non c’erano pagelle, voti e nessuno veniva bocciato.

Io sono andato via da Barbiana nel giugno del ‘68, un anno dopo la morte di Don Lorenzo. Ho iniziato a lavorare a Sesto Fiorentino e ho girato mezzo mondo”. Alla domanda su cosa ha significato per lui Barbiana risponde di getto: “Io sono la scuola di Barbiana”. L’utopia di Don Milani vive ancora? “Certamente. Vive in papa Francesco che gli assomiglia tanto. Non a caso quando due anni fa ha ricevuto gli studenti ha citato solo Don Lorenzo come uno dei maggiori educatori italiani. E ‘tra parentesi prete’, così ha detto”. È rivoluzionario, basti pensare che “quando le classi erano divise in maschi e femmine a Barbiana le otto bambine sedevano sugli stessi nostri banchi e stiamo parlando di 60 anni fa. D’estate per approfondire la lingua, andavamo in Francia, in Inghilterra in autostop, zaino e tenda in spalle, e ragazze più piccole avevano solo tredici anni”.

Giancarlo, si è mai sentito una tuta blu diversa dalle altre? “No. Ma i miei compagni di lavoro lo scoprivano da soli. Don Lorenzo ci ha insegnato ad essere umili trasparenti e seri: “Vedrete – ci diceva – che la gente si accorgerà che siete diversi e verrà a chiedervi perché. Imparare ad imparare, quando uno ha imparato ad imparare, significa essere un gradino sopra gli altri”. Come imparare ad osare. Al cardinale di Palermo Ruffini, che non voleva che i giornalisti scrivessero della Spagna franchista, perché averla amica “potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo”, Don Milani rispose: “Compito d’ogni cristiano è quello di informare il proprio vescovo che sbaglia, anche a costo di essere perseguitato oppure esiliato in vetta al monte Giovi”.

I ragazzi di Barbiana sono sparsi per l’Italia: “Abbiamo anche idee diverse, così come voleva Don Milani. Avrebbe considerato un fallimento la ‘costruzione’ di quarantadue ‘lorenzini’, perché ognuno doveva pensare con la sua testa e possedere la capacità di confrontarsi con l’altro”.

Un educatore aperto alla diversità di opinioni, di culture di religioni. “A Barbiana invitava personaggi famosi di estrazione politica e religiosa diversa. Si mettevano a nostra disposizione e noi li bombardavamo di domande perché, come ci ripeteva sempre: non è il cartoncino che fa grande un uomo. Mi raccomando non vi fate imbavagliare dal numero dei cartoncini che hanno”.

Barbiana volutamente è rimasta un luogo poverissimo dove ancora si respira l’aria pulita di un riscatto sociale che non è morto ma tarda solo ad arrivare.

Riflessione sul binomio dittatura-schiavitù e sul suo opposto democrazia-libertà: «Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana». La Repubblica, 21 maggio 2016

Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura-schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà».

Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica. La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?

Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.

È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.

Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù.
È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » ( Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).

A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.

Trasparenza trasparente: «un codicillo inserito all’ultimo nel testo sull’accesso agli atti chiude un’altra porta».

Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2016 (p.d.)

Se l’incarico è gratis la trasparenza può attendere. Tempo tre mesi e a Palazzo Chigi arriverà il commissario per il digitale e l’innovazione Diego Piacenti, vicepresidente di Amazon, il colosso americano dell’e-commerce sotto accertamento fiscale per i profitti realizzati in Italia. Nel frattempo il governo ha varato un decreto sulla trasparenza della Pa digitale ispirato al Freedom information act (Foia), la legge che negli Stati Uniti da cinquant’anni garantisce l’accesso ad ogni informazione in possesso dello Stato. Ma di Mr. Amazon, applicando i nuovi obblighi in capo alle amministrazioni, non saranno pubblicati l’atto di nomina, il curriculum, la dichiarazione dei redditi, eventuali partecipazioni insomma tutto quello che serve a rilevare eventuali conflitti d’interesse.

Per averli bisognerà bussare a Palazzo Chigi, sempre che non ci siano “eccezioni”e cavilli con cui verranno negati. Tutta colpa di un codicillo in filato all’ultimo, in perfetto italian style, a un testo che era stato raddrizzato in corsa dopo molte critiche e viene ora salutato come un importante passo avanti sulla trasparenza. Quel neo rischia però di segnarne mezzo indietro e di spalancare praterie a chi vorrà approfittarne.

La breccia arriva all’articolo 14 della legge, quello che disciplina gli obblighi di pubblicazione per i titolari di “incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali”. Sotto questo cappello, nel testo licenziato, è spuntato un comma 1-bis che esenta dall’obbligo di pubblicazione gli incarichi conferiti dalle amministrazioni a titolo gratuito “ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. La portata dell’eccezione si coglie a pieno se messa in relazione con la famosa circolare Madia che a novembre ha esentato i pensionati dal divieto gli incarichi svolti a titolo gratuito riaprendo il vaso di Pandora delle consulenze. La ratio è la stessa: l’assenza di oneri per lo Stato come lasciapassare per nomine di qualunque tipo.

L’anno scorso Renzi, per dire, ha designato 7 consiglieri economici, tutti rigorosamente a titolo gratuito. Erano davvero il meglio su piazza? Non si sa, ma sono gratis e tanto basta. Filippo Sensi è il suo portavoce, quello che con abilità e imperio detta agenda e agenzie ai giornali. Le sue incursioni per orientare titoli e spifferi non sono sempre gradite. Ma nel 2014 aveva fatto il suo ingresso alla Pcdm, insieme ad altri 27 professionisti, tutti titolari d’incarico a titolo gratuito, e tanto bastava. Certo, l’anno dopo si è rifatto con uno stipendio da capogiro (170 mila euro lordi l’anno) che supera perfino quello del premier. Anche nella spartizione delle poltrone nel cda della Rai è esploso il caso, quando si è scoperto che quattro consiglieri su sette erano pensionati. E dunque o rinunciavano al posto o all’emolumento. A scendere anche ministeri, regioni e comuni hanno scoperto la manna del consulente pro-bono, quello che non guasta perché non costa.

E così le amministrazioni di ogni livello sono permeate di frotte d'incompetenti, parenti ed eterni imbucati in ogni dove. Una pletora di lavoratori che non guarda al vil denaro ma in cambio ottiene beni anche più preziosi: favori, protezioni, le famose “entrature” che a volte nella vita fanno la differenza. Così, come ha ricordato pochi mesi fa Michele Ainis, si svuota a cucchiaiate il principio che fonda la Repubblica sul lavoro. Il primo articolo della Costituzione diventa l’ultimo, perché tutto è lecito se non costa. A questo lasciapassare, per effetto del Foia all’italiana, si aggiunge ora la copertura per eventuali situazioni di incompatibilità, un male endemico degli incarichi di nomina politica. Sotto questo profilo la nuova legge peggiora la vecchia del 2012. Fa calare un velo proprio sugli incarichi che, in assenza di un compenso in denaro, meglio si prestano a contropartite poco chiare. E che al motto “più trasparenza” saranno meno tracciabili.

«Rapporto Istat 2016: l'Italia è il paese dove le diseguaglianze di classe sono cresciute di più al mondo dopo il Regno Unito. I giovani e i minori, schiacciati dal sistema della precarietà, sono senza giustizia».

Il manifesto, 21 maggio 2016 (p.d.)

Il paese dove le differenze di classe crescono e si rafforzano. È il ritratto che emerge dal rapporto annuale 2016 presentato ieri dal presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e in coincidenza del 90° anniversario dell’istituto nazionale di statistica. Tra il 1990 e il 2010 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate da 0,40 a 0,51 nell’indice Gini sui redditi individuali lordi da lavoro. È l’incremento più alto tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati.

Chi proviene da una famiglia con uno status alto – ha una casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitario – ha visto accrescere la distanza economica e sociale rispetto a chi proviene da famiglie di status basso: l’Italia è al 63%, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%). Primo in classifica è il Regno Unito con il 79%, il paese della rivoluzione thatcheriana che ha rafforzato a dismisura dagli anni Ottanta in poi le differenze di classe, come ha ricordato da ultimo Anthony Atkinson nel suo libro Diseguaglianza.

Dopo veniamo noi, sintomo che è avvenuta un’analoga rivoluzione che ha premiato un’elite a svantaggio dei molti. Parliamo di una realtà antecedente all’esplosione della crisi, ma dai dati dell’Istat emerge una il ritratto di un paese dove la povertà colpisce tre volte più al Sud che al Nord, mentre la spesa sociale che cresce meno che in altri paesi è la più inefficiente al mondo. Peggio dell’Italia fa la Grecia stritolata dai memorandum della Troika dal 2010 a oggi.

Lotta di classe dall’alto

I più danneggiati dalla guerra sociale in corso sono i minori che vivono nelle famiglie in cui il capofamiglia e disoccupato, precario o lavoratore part-time: la spesa pro capite per interventi destinati a famiglie e minori è scesa tra il 2011 e il 2012 da 117 a 113 euro, con differenze territoriali decisamente importanti, dai 237 euro dell’Emilia-Romagna ai 20 euro della Calabria. I minori sono i soggetti che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi in termini di povertà e deprivazione, scontando un peggioramento della loro condizione. Tra il 1997 e il 2011 l’incidenza della povertà relativa era al 12%. Nel 2014 ha raggiunto il 19%.

La forbice della diseguaglianza si allarga rispetto alle generazioni più anziane che nel 1997 presentavano un’incidenza di povertà di oltre 5 punti percentuali superiore a quella dei minori. Nel 2014 l’incidenza è diminuita del 10% rispetto ai più giovani. Questo significa due cose: gli effetti della contro-rivoluzione sono solo all’inizio: oggi producono precarietà di massa, domani porterà una povertà epocale tra gli attuali tredicenni. Secondo elemento: il paese è spaccato a più livelli, Sud contro Nord, tra le generazioni, tra i redditi e tra territori contigui.

Altro che «bamboccioni»

Dopo il calo del biennio 2013-2014, l’indicatore sulla «grave deprivazione materiale» si è stabilizzato all’11,5% nel 2015. Ma si mantiene su livelli alti per le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione. A livello strutturale, dunque, la tendenza è la stessa degli ultimi 25 anni. Senza contare che esiste un’ampia sfera di lavoro grigio o sommerso che deriva dalla somma di disoccupati e forze lavoro potenziali, ovvero le persone che vorrebbero lavorare ma che non trovano lavoro: 6,5 milioni nel 2015.

In questo quadro rientra la sotto-occupazione e il «disallineamento» tra le competenze e i lavori dei laureati. Uno su tre tra 15 e 34 anni è «sovraistruito» rispetto a quanto richiede il mercato. Uno su quattro è precario. A tre anni dalla laurea solo il 53,2% ha trovato un lavoro «ottimale». L’impossibilità di trovare un reddito dignitoso per sostenere un affitto, spinge 6 giovani su 10 a vivere con i genitori fino ai 34 anni. Oltre un quarto è disoccupati o inoccupato, e non cerca lavoro: 2,3 milioni. Altro che «bamboccioni». Il non lavoro, o il lavoro povero, non è una colpa, ma un problema politico.

Questa situazione coesiste con la diminuzione della disoccupazione di 203 mila unità, poco più di 3 milioni di persone (11,9%) e con la crescita di 186 mila occupati nel 2015. L’Istat, infatti, registra «un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro» nei prossimi anni. Nel 2025 il tasso di occupazione – in Italia tra i più bassi dei paesi Ocse (56,7%) – potrebbe restare «prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva». Per garantire un simile ampliamento serve una discontinuità radicale, superiore all’aumento occasionale, e di breve durata, prodotto dai costosi incentivi governativi per i neo-assunti del Jobs Act. Quello che sembra essere certo oggi è che il paese resterà fermo per altri quindici anni.

Bomba sociale

L’Italia è il paese più invecchiato al mondo. Prevalgono gli over 64, mentre le nascite sono al minimo storico. Sui 60,7 milioni di residenti, gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Insieme a Giappone e Germania, un altro primato. Le nuove generazioni di anziani vivono meglio del secolo scorso e dei loro genitori. Stili di vita salutari, un sistema previdenziale e sanitario migliore, nonostante i redditi bassi e i tagli e i disservizi della sanità pubblica. L’aspettativa di vita fino a 80 anni costituisce per i più giovani, figli e nipoti, un ammortizzatore sociale di ultima istanza, nella totale assenza di un moderno Welfare universalistico.

Questo è il regime biopolitico di sussistenza che dal pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015 permette ai «riformatori» di sperimentare le loro ricette sulla precarietà che oggi interessano due generazioni: i nati negli anni Settanta e quelli tra il 1981 e il 1995. In mancanza di una redistribuzione della ricchezza esistente, si distribuisce il reddito pensionistico. Un altro modo per aggravare le diseguaglianze strutturali nel paese. Chi è nato negli anni Ottanta, ha ricordato Boeri dell’Inps, lavorerà fino a 75 anni. Con ogni probabilità, non percepirà la pensione e non sosterrà i propri figli al posto del Welfare. È la bomba sociale a cui porterà il sistema della precarietà e il regime contributivo delle pensioni a partire dal 2032.

Rimedi sbagliati

Ai sostenitori della «staffetta generazionale» non piacerà questa tendenza del mercato del lavoro. A questa ipotesi, tornata di moda nel dibattito sulle pensioni e la «flessibilità in uscita», viene affidata la flebile speranza di sostituire i pensionati che accettano di decurtarsi l’assegno con giovani precari assunti con il Jobs Act.

Il confronto tra i 15-34enni occupati e i 54enni in pensione da non più di tre anni dimostra la difficile sostituibilità «posto per posto» tra anziani e giovani. Commercio, alberghi, ristoranti o servizi sono i settori dove questi ultimi sono occupati, con i voucher (+45% nel 2016) o a termine, le uscite non sono state rimpiazzate dalle entrate: dentro ci sono 319 mila, fuori 130 mila. Nella P.A. e nella scuola, ne sono usciti 125 mila, 37 mila sono entrati.

Esiste un blocco strutturale che impedisce la realizzabilità dell’ipotesi su cui si regge l’attuale dibattito tra sindacati e governo. Ma nessuno se ne rende conto. Apparentemente.

Il Manifesto, 20 maggio 2016 (p.d.)

No uno, bensì dieci. Sono i No pronunciati da Gianfranco Pasquino, Carlo Galli, Marco Valbruzzi e Maurizio Viroli nel loro documento-appello che boccia la «deforma» costituzionale voluta dal governo e smaschera luoghi comuni e falsità della retorica renziana.

A partire dal fatto che «no, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il No chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte da tempo scritte e disponibili».
O che «no, la riforma non interviene affatto sul governo e sulle cause della sua presunta «debolezza». O ancora che «no, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro». Argomenti proposti a «voi che ragionate e non plebiscitate», perché «c’è chi ci mette la faccia, noi ci mettiamo la testa».

Proprio per «metterci la testa», cioè per capire e informare, domani il Comitato per il No scende in piazza a Bologna e lo fa in grande stile con un importante momento pubblico di approfondimento ma anche di festa per la Costituzione.

A partire dalle ore 18, in piazza Santo Stefano, Francesco Di Matteo (Comitato Alessandro Baldini), Maurizio Landini (Fiom), Luigi Ferrajoli (Comitati Dossetti), Nadia Urbinati (Libertà e Giustizia) e Carlo Smuraglia (Anpi, quella stessa Anpi in questi giorni oggetto di feroci attacchi per essersi schierata «contro»), spiegheranno tutte le ragioni del no alla modifica del Senato e dei 47 articoli della Costituzione e alla legge elettorale Italicum.
Interventi che saranno intervallati da momenti di cultura e musica con Moni Ovadia (in video) che reciterà per la Costituzione, I Mulini a vento e il Quartetto Mozart. Un’occasione per fare il pieno di firme per i referendum, grazie alla presenza, per tutta la durata della manifestazione, di stand e banchetti.

Raccolta di firme che prosegue in tutta Italia con rinnovato entusiasmo, ora che dal Movimento 5 Stelle è arrivato un sostegno ufficiale, dopo un incontro dei parlamentari M5S con i rappresentanti del Comitato del No.

«Abbiamo avuto un proficuo scambio di idee e opinioni – hanno detto i parlamentari – Si converge sul fatto che in questa prima fase sia fondamentale spiegare ai cittadini cosa comprende la revisione costituzionale e la sua micidiale combinazione con la nuova legge elettorale». Per questo, nella reciproca autonomia, si organizzeranno iniziative comuni nei territori».

Prossime iniziative

Padova: oggi, banchetto di raccolta firme durante lo spettacolo di Dario Fo al Teatro Geox; domani ore 10-13 e 16-20 banchetti in Piazza delle Erbe e Canton del Gallo;

Milano: lunedì 23, dibattito con Gherardo Colombo, Antonio Lettieri, Antonio Pizzinato, Massimo Villone – ore 20,30, Salone Di Vittorio, Camera del Lavoro Cgil, Corso Porta Vittoria 43 (si potrà firmare per i referendum);

Cinisello Balsamo: domani, ore 10-12 banchetto al mercato di via Cilea; mercoledì 25, incontro pubblico con Marco Dal Toso (Giuristi Democratici), Luciano Belli Paci (avvocato), Silvia Truzzi (Fatto Quotidiano) – ore 20,45, Villa Ghirlanda Silva, via Frova 10;

Marzabotto: oggi, No e Sì a confronto, con Domenico Gallo e Stefano Ceccanti, ore 20,30, Casa della Cultura e della Memoria;

Cecina: oggi, ore 21, dibattito con Massimo Villone e raccolta firme, Comune Vecchio;

Opera: lunedì 23, serata di approfondimento con Vittorio Angiolini (costituzionalista), Aldo Giannuli (storico), Felice Besostri (avvocato costituzionalista) – ore 21, Centro Polifunzionale, via Cinque Giornate.

Tutti i futuri incontri pubblici organizzati dal Comitato per il No possono essere ricercati nei seguenti siti:
www.iovotono.it, cliccare la voce "iniziative" nel menu orizzontale riportato sotto la testata
www.referendumitalicum.it, cliccare sull'immagine del calendario nel menu verticale di sinistra

La Repubblica.it, 19 maggio 2016 (p.d.)

Pubblicità regresso. Dopo lo spot della Telecom che, forse sensibile ai venti neoautoritari, esalta «la libertà di non dover più scegliere», arriva quello del cornetto Algida, che associa ai classici giochi da spiaggia una canzone che dice: «E ancora un'altra estate arriverà / E compreremo un altro esame all'università».

L’effetto del montaggio è un boomerang: cioè un ritratto grottesco dell’Italia, e della sua povera università, che è piena di difetti e certo non è esente da corruzioni, ma non è un suq.

E infatti in queste ore sta montando la reazione del mondo accademico. Il professor Claudio Della Volpe ha chiesto l’intervento dell’Autorità garante per la concorrenza: «che si usi come messaggio pubblicitario la vendita degli esami all’università è una cosa che come cittadino che insegna all’università e che non ha mai sognato di vendersi un esame mi sconcerta alquanto. Direi che la scelta è del tutto fuori luogo, e anche offensiva per chi fa il suo lavoro con passione e correttezza: la stragrande maggioranza». Alle proteste di un altro professore (Stefano Chimichi), il team italiano di Unilever ha risposto che «Al centro del nuovo spot di Cornetto Algida, sulle note di “Vorrei ma non posto”, sono protagonisti l’estate e i sentimenti di sempre, ma raccontati all’epoca dei social. La invitiamo ad ascoltare il pezzo nella sua interezza in modo da poter interpretare in maniera corretta il messaggio che viene raccontato: il testo vuole estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi, che non danno il giusto peso a diverse cose importanti della vita».

La multinazionale proprietaria di Algida si riferisce alla canzone di Fedez e J-Ax da cui è tratta la frase: ma è una risposta che non convince. Perché un conto è, appunto quella frase nel suo originario contesto testuale e visivo (il video è urticante e estremo), un conto è averla isolata, e montata sulle immagini convenzionali e dolciastre dello spot.

La vera domanda è: se davvero lo spot voleva «estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi» (secondo il singolare intento moralizzatore dichiarato della multinazionale dolciaria) perché allora non si è scelta, per esempio, quest’altra mirabile strofa: «E come faranno i figli a prenderci sul serio / con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook / Il papà che ogni weekend era ubriaco perso /E mamma che lanciava il reggiseno ad ogni concerto /Che abbiamo speso un patrimonio /Impazziti per la moda, Armani /L'iphone ha preso il posto di una parte del corpo /E infatti si fa gara a chi ce l'ha più grosso»?

Evidentemente i grandi brand del mercato sono intoccabili, mentre la molle università pubblica italiana può essere diffamata impunemente. Ma Unilever stia attenta: la ministraStefania Giannini ha appena annunciato che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».

Quando l’università sarà una cosa sola col mercato, allora anch’essa sarà intoccabile: e saranno tempi duri per chi vorrà trovare carne da cannone per il moralismo da spot.

I governi dell'ex sinistra europea punte avanzate nella lotta del neoliberalismo contro le classi lsvoratrici. la sinistra di popolo si unirà per combattere insieme Hollande e Renzi? Corrispondenza di Anna Maria Merlo da Parigi e commento di Ignazio Masulli. Il manifesto, 20 maggio 2016

LOI TRAVAIL:
LE MANIFESTAZIONI NON SI FERMANO
di Ann Maria Merlo

Francia. Ancora cortei, 400mila persone in piazza, malgrado le tensioni e il grave episodio della vigilia a Parigi contro una pattuglia della polizia. Valls ai sindacati: "interrogatevi sulla pertinenza" della protesta. Stato di emergenza votato fino a fine luglio
La Cgt propone una nuova giornata di protesta il 26 maggio, per aumentare la pressione e arrivare al ritiro della Loi Travail. Fo propende per una giornata di manifestazioni e di scioperi interprofessionali a giugno, quando il testo di legge arriverà in discussione al Senato (il 13, dove dovrebbe ritrovare la versione iniziale, quella prima della concertazione con la Cfdt, poiché qui è la destra ad avere la maggioranza). Ieri, secondo la Cgt in Francia sono scese in piazza almeno 400mila persone, numero in crescita rispetto a martedi’, primo appuntamento di protesta di questa settimana. Ieri, era la settima giornata di manifestazioni contro la riforma del lavoro in un po’ più di due mesi. I blocchi dei camionisti sono continuati, in particolare nell’ovest del paese, dove già alcune pompe di benzina sono a secco. Sciopero anche nelle ferrovie, seguito al 15% (secondo la direzione), a Orly è stato annullato circa il 15% dei voli. Il primo ministro, Manuel Valls, ha affermato ieri di essere “pronto a far levare i blocchi di porti, aeroporti e raffinerie”, minacciando l’invio della polizia. Valls ha messo in guardia i sindacati e chiesto loro di “interrogarsi sulla pertinenza” delle manifestazioni continue, dopo il grave episodio della vigilia, con l’aggressione di una pattuglia, dove c’erano due agenti, in Quai de Valmy, mentre c’era la manifestazione dei poliziotti contro l’”odio anti-flic”. Cinque persone erano ieri in stato di fermo, la Procura ha aperto un’inchiesta per “tentativo di omicidio volontario”. I sindacati rispondono che il governo vive “sulla luna”. Per Jean-Claude Mailly, segretario di Fo, basterebbe che il governo si mettesse a discutere, “ritirando i punti più controversi”, per far cessare le manifestazioni. Philippe Martinez, della Cgt, il progetto di legge “deve essere ritirato, la palla è ormai nel campo del governo”.

Malgrado le violenze della viglia, a Parigi, c’è stato un corteo consistente, 100mila persone per la Cgt, 13-14mila per la polizia. La presenza della polizia è stata massiccia, una sfilata di decine di camionette prima del passaggio del corteo, strade chiuse da barricate di protezione lungo il percorso, da Nation a place d’Italie. Sul boulevard de l’Hôpital e poi in place d’Italie e dintorni ci sono stati momenti di tensione, sempre in testa al corteo, dove si sono concentrati i giovani più radicali, con il volto coperto. Vetrine spaccate (soprattutto di agenzie bancarie), lanci di oggetti, replica con lacrimogeni e granate assordanti da parte delle polizia presente in forza, un elicottero ha seguito, come al solito, la manifestazione dal cielo. A Parigi, ci sono stati 9 fermi di persone accusate di avere armi improprie e di aver lanciato oggetti contro le forze dell’ordine. Il ricorso alla violenza è giustificato da questi giovani: “hanno avuto quello che meritano”, spiega uno studente, riferendosi sia al servizio d’ordine dei sindacati, accusato di essere un “collabo” della polizia che ai poliziotti. “Il popolo non fa che rispondere con un’eguale violenza”, aggiunge lo studente. Un manifestante più anziano, sempre nella parte calda del corteo, spiega: “c’è l’esasperazione per non essere ascoltati” dal governo, che continua a dire che le legge sarà varata al termine di un iter parlamentare a colpi di 49.3 (cioè senza voto). Dietro, hanno sfilato nella calma i sindacati, evocando a tratti lo “sciopero generale”. Tra gli slogan più gettonati: “legge del padronato, 49.3, non li vogliamo”, “Hollande, Valls, Medef, casseurs del sociale”. Il caso del Cpe di dieci anni fa, il contratto di primo impiego votato, pubblicato sul Journal Officiel ma poi annullato, viene evocato come un precedente da ripetere oggi.

Manifestazioni anche in molte altre città, Saint-Nazaire, Le Havre, Rennes, Bordeaux, Montpellier, Clermont-Ferrand, Lione, dove ci sono stati due fermi. 19 persone sono state fermate a Rennes, dopo un tentativo di vandalismo nella metropolitana. A Nantes, dove il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, aveva proibito la manifestazione, c’è stato un corteo improvvisato al grido: “stato d’emergenza, stato di polizia, non ci impediranno di manifestare”. Intanto, ieri l’Assemblea ha confermato il voto già avvenuto al Senato, che prolunga lo stato d’emergenza per altri due mesi, fino a fine luglio, per coprire l’Euro di calcio, che inizia il 10 giugno, e il Tour de France, due appuntamenti considerati a rischio. Effetto del terremoto politico in corso: il gruppo Verde non esiste più all’Assemblea, la frattura tra pro e contro il governo è consumata. Sei deputati di Europa Ecologia hanno abbandonato e sono entrati nel gruppo socialista, ma conserveranno l’indipendenza di voto.

LA TRASVERSALITÀ
E PIÙ FRONTI DI LOTTA

di Ignazio Masulli

La lezione francese - Nuit Debout. Precarietà e libertà di licenziare. Come in forme più gravi il Jobs act italiano e le leggi di Cameron
Il movimento di massa in atto da quasi due mesi in Francia ha varie cose da dirci. Com’è noto, il motivo iniziale e principale della protesta è una legge che riduce ulteriormente i diritti dei lavoratori e ne aumenta la precarietà. Il punto di maggior contrasto è costituito dalla decisa spinta che la «Loi Travail» vuol dare alla contrattazione aziendale.
Non diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei, in Francia quest’obbiettivo è stato perseguito anche in passato dal padronato, col deciso supporto dei governi di destra.
In particolare, la legge Fillon del 2004 stabiliva la possibilità di accordi aziendali stipulati in deroga a quanto previsto da quelli nazionali.

Ma, a questo proposito, occorre tener conto di due fattori. Il primo consiste nel fatto che il diritto del lavoro in Francia riconosce il principio per cui un accordo aziendale deve essere più favorevole ai lavoratori di quanto è previsto dal contratto nazionale di settore. E questo, a sua volta, non può essere meno favorevole del codice del lavoro. Sicché il tentativo di dare maggiore potere contrattuale ai datori di lavoro spostando il negoziato a livello aziendale va contro un principio non solo consolidato, ma giuridicamente formalizzato.

In secondo luogo, il tasso di sindacalizzazione, che oltralpe è piuttosto basso, trova compensazione nel fatto che circa il 90% dei lavoratori è tutelato dai contratti collettivi. Ed è quindi essenziale resistere su questo punto. A questo va aggiunto un altro motivo di resistenza dovuto a nuove misure che, con il falso obiettivo di favorire l’inserimento nel mercato del lavoro, obbligano di fatto chi è in difficoltà ad accettare occupazioni poco appetibili e mal retribuite.

I francesi, che hanno già sperimentato gli effetti della “Grenelle Insertion” voluta da Sarkozy nel 2008, sanno bene che le analoghe misure imposte ora dal governo pseudo-socialista di Valls peggioreranno la competizione al ribasso nel mercato del lavoro. Ancora una volta, il risultato non può che essere l’aumento della precarietà. Come non bastasse, la precarietà e mercificazione del lavoro, che ha già raggiunto punti limite, è addirittura generalizzata dal riconoscimento anche formale della libertà di licenziamento per motivi economici.
Il fatto che tutti e tre questi punti si riscontrino in forme anche più gravi nel Jobs Act italiano o negli ulteriori peggioramenti della legislazione sul lavoro varati da Cameron in Gran Bretagna, ma senza aver provocato reazioni massicce e persistenti come quelle cui stiamo assistendo in Francia pone alcuni interrogativi che meritano un’attenta riflessione.

Alla reazione contro la Loi Travail si sono aggiunti e intrecciati altri motivi di protesta, a cominciare da quello degli studenti. Anche loro contestano le politiche neoliberiste e i tagli allo Stato sociale che, oltre a sanità e pensioni, tornano a colpire la scuola pubblica. In secondo luogo, pure in Francia si assiste ad un crescente divario tra i livelli di formazione raggiunti e le tipologie occupazionali cui è possibile accedere. Il che si connette con le difficoltà che i giovani incontrano nella ricerca del primo impiego e la prospettiva sempre più incombente di doversi adattare a lavori precari e sottoremunerati.
Certo, anche in altri paesi europei non sono mancati cicli di lotte che hanno affiancato lavoratori e studenti. Ma non c’è dubbio che in Francia tale alleanza è stata più persistente e si è riproposta con forza anche in anni recenti. Non si può dimenticare che proprio la spinta radicale di giovani e studenti ha costretto il governo di destra di Jean- Pierre Raffarin a ritirare il suo disegno di legge sul lavoro del 2003. Lo stesso è accaduto nel 2006, quando la protesta congiunta di studenti, lavoratori e sindacati ha obbligato il primo ministro Dominique de Villepin a rinunciare alla proposta di un “contratto di primo impiego”.

Quest’alleanza si ripropone oggi in nuove forme nel movimento Nuit Debout e si allarga ulteriormente collegandosi ad altri movimenti ed obiettivi di lotta.
Va sottolineato che non si tratta di un mero affiancamento di più soggetti sociali in lotta con obiettivi diversi e che trovano una solidarietà più o meno congiunturale. Il fatto rilevante consiste nell’individuazione di un nemico comune da battere. E non v’è esitazione nel riconoscerlo nei potentati economici, finanziari, tecno-militari e politici che esercitano uno strapotere senza precedenti nella maniera più parziale ed irresponsabile.

Si tratta, quindi di una trasversalità che connette più fronti di lotta. V’è la piena consapevolezza che le ragioni di crisi economica, malessere sociale, peggioramento dei sistemi di vita che si percepiscono più da vicino dipendono dagli stessi interessi e scelte dei gruppi dominanti che causano disastri ambientali, provocano guerre unilaterali e avventuriste, chiudono le frontiere a rifugiati e profughi.
È questa la trasversalità autentica e più significativa. Né si può dire che la mira è troppo alta. Da un lato, essa è coerente con l’analisi. Dall’altro, l’esperienza storica c’insegna che non ci si può proporre obiettivi di cambiamento effettivo, anche a breve, se non iscrivendoli in una prospettiva di mutamento più ampia e a lungo termine.

L’altro punto di forza di Nuit Debout consiste nell’auto-organizzazione. Da essa dipende la capacità di rigenerarsi e di trovare gli elementi di orientamento e di rotta al proprio interno. Non a caso, v’è il dichiarato rifiuto di una guida eteronoma e l’attenta difesa della propria autonomia. Anche questo secondo aspetto contiene una sfida. L’auto-organizzazione, infatti, può mostrarsi efficace se si radica in ragioni profonde e tenaci di resistenza, se si nutre di una consapevolezza e volontà forte di cambiamento. A tali condizioni l’auto-organizzazione di un movimento può trovare anche forme nuove di consolidamento ed espressione politica.
Sono proprio questi due caratteri, della trasversalità e dell’auto-organizzazione, che consentono al movimento in atto in Francia di espandersi rapidamente e a macchia d’olio. Ed è su tali dinamiche e sulla loro capacità di dar corpo a nuove modalità di coalizione sociale ed azione politica che è utile riflettere da parte di quanti ritengono possibili risposte alternative alle tendenze di crisi del tardo capitalismo.

Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 (p.d.)

“Mi accorgo che i giornali sono tutti uguali”, diceva Nanni Moretti nel suo Aprile mentre incollava, una dopo l’altra, pagine di testate diverse fino a creare un “unico grande giornale”. Era l’inizio del ventennio berlusconiano, oggi molto è cambiato, ma in questi mesi si assiste a una coincidenza di tempi: mentre si avvicinano gli appuntamenti più rilevanti per la politica (il referendum costituzionale di ottobre, le prossime elezioni politiche), si sblocca il settore dell’editoria che all’improvviso inizia a reagire ai traumi della crisi con un processo di aggregazioni e concentrazioni. Che spinge i grandi gruppi più vicini all’orbita del governo renziano. Ecco la fotografia della rivoluzione in corso.

RCS. La cordata di Andrea Bonomi e dei soci storici (Mediobanca, Della Valle, Pirelli, UnipolSai) ha presentato un’offerta migliore di quella dell’editore puro Urbano Cairo, sostenuto da Intesa Sanpaolo. Bonomi ha un fondo di private equity, vuole fare soldi (e l’unico modo è facendo operazioni sulla parte sportiva, Gazzetta dello Sport e Marca), agli altri il Corriere serve per pesare politicamente. E Mediobanca, regista della cordata, vuole rimanere al centro di un sistema finanziario che vive di operazioni legate al settore pubblico e alle grandi imprese controllate dal governo. Per Palazzo Chigi un Corriere del la Sera così non sarà certo un problema (mentre quello attuale, che ha approfittato della frammentazione dell’azionariato per ritrovare indipendenza, è parecchio sofferto). La battaglia tra Cairo e gli altri si deciderà entro l’estate.

STAMPUBBLICA. A marzo, l’annuncio della fusione tra Gruppo Espresso (Repubblica, Espresso, giornali locali, radio) e Itedi (Stampa, Secolo XIX) ha messo le basi di un grande gruppo editoriale controllato dalla Cir dei De Benedetti e da Exor di John Elkann. Un grande gruppo con i conti in ordine,ma i cui soci hanno una lunga lista di interessi fuori dall’editoria che lambiscono la politica: la Cir ha appena venduto parte del suo business sanitario a F2i, fondo partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti, la Fiat che John Elkann presiede è parte integrante della proiezione internazionale di Matteo Renzi (che spesso si consulta con Carlo De Benedetti). Sorgenia, la società energetica che era controllata dalla Cir, è naufragata sotto il peso di scelte sbagliate e se la sono accollata le banche creditrici, a cominciare da Mps. Al presidente di Sorgenia, Chicco Testa, i renziani di governo avevano promesso il posto di ministro dello Sviluppo, ma ci sono state troppe polemiche. Il presidente del Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, non si è mai espresso pubblicamente sul referendum di ottobre, ma ha affidato il giornale a Mario Calabresi, già direttore di una Stampa molto renziana. A Repubblica ha confermato la stessa linea (in questi giorni però qualche spazio lo
hanno avuto anche i sostenitori del “no”).

CALTAGIRONE. Altro gruppo sano che ha interessi soprattutto nella politica romana: è sufficiente ricordare la campagna contro la candidata sindaco Virginia Raggi, M5S, appena ha provato ad avvicinarsi all’Acea, ex municipalizzata di cui il Gruppo Caltagirone è il primo azionista privato. Con il governo ha buoni rapporti, ma ha rifiutato di farsi carico del Corriere della Sera. Però ha deciso di uscire dalla Fieg, la federazione degli editori. Uno strappo che – temono i giornalisti – darà ancora più potere ai gruppi editoriali riducendo l’autonomia di chi scrive che potrebbe non avere più le tutele del contratto nazionale di categoria.

IL FOGLIO. A parte una piccola quota (pignorata dai giudici) in mano a Denis Verdini, il Foglioè passato per intero all’imprenditore immobiliare Valter Mainetti dopo che il finanziere Matteo Arpe ha deciso di non voler fare l’azionista di minoranza. Mainetti appoggia in pieno la linea renziana del direttore Claudio Cerasa, che ha appena lanciato una campagna per convincere l’ex editore Silvio Berlusconi (che aveva intestato il quotidiano alla ex moglie Veronica Lario) a sostenere il “Sì” al referendum di ottobre.

LIBERO. La famiglia Angelucci (vedi articolo a fianco) licenzia il direttore Maurizio Belpietro, che si congeda con un editoriale sull’importanza di votare “No” al referendum di ottobre. Al suo posto torna Vittorio Feltri, già schierato per il “Sì”.

IL SOLE 24 ORE. Da mesi i pezzi di Confindustria più contigui alla politica sono insofferenti ogni volta che il Sole 24 Ore, di cui sono editori, muove qualche critica al governo, con il direttore Roberto Napoletano. Nell’elezione del nuovo presidente Vincenzo Boccia sono state determinanti le imprese a controllo pubblico (renziano), in particolare l’Eni presieduto da Emma Marcegaglia. Da Radio 24, che fa parte del gruppo, il giornalista Oscar Giannino denuncia pressioni renziane di un governo “affamato di informazione”.

L’UNITÀ. Che come direttore resti Erasmo D’Angelis, già collaboratore di Renzi a Palazzo Chigi, o arrivi Riccardo Luna, altro consulente del premier sul digitale, il giornale non cambierà. La sua sostenibilità economica è a rischio (si parla di 250 mila euro di perdite al mese), ma almeno fino al referendum deve resistere in edicola, per diffondere l’interpretazione autentica del pensiero renziano. Poi si vedrà.

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