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Comune-info

Luglio 2001, Luglio 2016. Quindici anni, esattamente. Quasi maggiorenne. In questi giorni scorre tanto inchiostro su uno degli anniversari più strani della nostra Repubblica, quello delle giornate di Genova del 2001. Ne gettiamo un po’ anche noi, per non essere da meno. Ma non è facile: non è facile trovare parole originali, analisi nuove, scrivere qualcosa di non retorico, evitare di ripetere pensieri altrui.

Una cosa mi sembra necessario evidenziare o ribadire: il movimento “no-global” (perché di movimento si trattò: il movimento, secondo me, è uno, oppure non è. Oggi molti parlano di movimenti, al plurale, ma credo sia un errore; non a caso non esiste una protesta globale semi-organizzata come quella di quindici anni fa. Ma ne ripareleremo), dicevo il movimento no-global aveva ragione. Sì, aveva proprio ragione, lapalissiana.

Le analisi erano corrette, le proposte ragionevoli e, se messe in pratica, probabilmente efficaci. Contro la finanziarizzazione dell’economia (vi ricordate Attac e la Tobin Tax?), contro le politiche delle multinazionali (i boicottaggi), contro il neoliberismo, per la partecipazione democratica reale (Porto Alegre e il bilancio partecipativo!), contro le politiche della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale (come la mettiamo con la Grecia di oggi?), per la pace, per il consumo critico, per il software libero, contro la globalizzazione commerciale sregolata.

Come si fa a dire che il movimento non avesse ragione e non avesse le ragioni per protestare, organizzarsi, alzare la voce? E non si tratta del senno di poi. Come mi è stato efficacemente detto, “il senno di poi è quello di chi legge i fatti di oggi alla luce delle loro premesse, mentre il movimento anticipava questo futuro, sebbene ne volesse proprio un altro”. Quindi non di senno di poi si tratta, ma di un te l’avevo detto. In ogni caso, qualcuno potrebbe pensare che è facile dare ragione, oggi, al movimento: c’è la crisi e l’austerità, le guerre e il terrorismo in franchising, Trump che forse arriva, Erdogan che ramazza la Turchia, neri ammazzati per strada da fascisti (nelle Marche!), i treni che si scontrano, la disoccupazione, la precarietà e le aziende che chiudono, i politici che rubano, il referendum e la legge elettorale che non va, il caldo, gli smartphone che si scaricano subito, il vicino che rompe, il traffico, le zanzare, “le cavallette”, come direbbe John Belushi…

Voglio dire, sembra facile affermare che i no-global avessero ragione visto come va il mondo oggi, vista l’insofferenza dilagante, l’insoddisfazione imperante, la frustrazione, la fragilità di tante teste, il rancore generalizzato, l’incattivimento. Viste quali sono le emozioni, le passioni, le sensazioni dominanti, direi quasi mainstream. Vista la paura che ci domina e ci permea, questo grande timore senza una forma ben specifica che ci attanaglia e tira fuori il peggio di noi.

Basta farsi una fila in un qualunque ufficio pubblico che funzioni neanche male, ma così-così, prendere la macchina anche non nelle ore di punta o un autobus pieno anche solo per metà. I cosiddetti “discorsi della gente”. Beh, io credo che i “discorsi della gente” di oggi possano essere del tutto collegati al 2001 e ai no-global che avevano ragione. Che proponevano una vita diversa, un sistema diverso, oltre la paura.

E allora torniamo al 2001. Torniamo a dire che un altro mondo è possibile. A leggere No logo di Naomi Klein, che è un libro splendido. A crederci, a pensare a un mondo migliore, così, banalmente detto, a non avere paura. A tirare fuori le nostre energie, le nostre intelligenze, i nostri saper-fare, le nostre passioni più belle, quelle che ci fanno camminare con il mento un po’ più in su e lo sguardo più deciso. Quelle che ci fanno sentire individui con dignità, quasi con fierezza.

I no global avevano ragione. E sì, un altro mondo è possibile. Facciamo in modo che quindici anni non siano passati invano. Riprendiamo in mano il testimone di quel movimento, proprio quello, il suo spirito, la sua spinta a cambiare, il suo metodo, il suo entusiasmo, il suo coraggio, i suoi sguardi larghi e lunghi, le sue parole più belle, i suoi colori. Non lasciamo che i manganelli della Diaz e le perquisizioni anali della Bolzaneto ce lo scippino per sempre, quel testimone.

Prima o poi, per il referendum costituzionale voteremo. Forse. Giunge notizia di una tesi che potrebbe farci dubitare. La Cassazione ha dichiarato ammissibili le richieste referendarie presentate dai parlamentari in data 6 maggio 2016. Secondo la legge 352/1970 il referendum viene indetto entro i 60 giorni successivi. Quindi il termine, se dovesse farsi decorrere dal 6 maggio, sarebbe ampiamente scaduto. Dando luogo ad almeno due domande: può essere indetto un referendum oltre il termine di legge? E se non fosse più possibile indirlo, che ne sarebbe della legge Renzi-Boschi?
Una tesi insostenibile. Anzitutto, come ho già scritto su queste pagine, la presentazione da parte di un comitato promotore della richiesta di raccogliere 500 mila firme apre la via al termine di tre mesi per la raccolta. La richiesta è stata nella specie presentata prima che i parlamentari presentassero la propria. L’iniziativa dei parlamentari non incide sulla richiesta del comitato promotore. Le norme vigenti pongono sullo stesso piano le tre possibili richieste referendarie: popolo, parlamentari, consigli regionali. Non c’è alcun criterio di supremazia gerarchica o di priorità.

Se l’iniziativa dei parlamentari non azzera quella di un comitato promotore, tanto meno può produrre questo effetto la pronuncia della Cassazione sull’iniziativa medesima. La pronuncia della Corte è meramente strumentale al prosieguo del procedimento per quanto riguarda la specifica richiesta. Quello che conta è il diritto garantito ai soggetti promotori dalla Costituzione e dalla legge. E quindi per l’indizione del referendum non può non tenersi conto dei tre mesi previsti per la raccolta delle 500 mila firme.

D’altra parte, se volessimo ritenere perentorio e scaduto il termine per l’indizione del referendum, ne verrebbe l’impossibilità di indirlo. La mancanza del voto popolare avrebbe come conseguenza inevitabile che la legge Renzi-Boschi non vedrebbe mai la luce. Ai sensi dell’art. 138 Cost. la legge di revisione approvata a maggioranza assoluta dei componenti è promulgata ed entra in vigore, qualora venga chiesto il referendum, solo a seguito di un voto popolare positivo. Se il voto è negativo, questo effetto non si produce. Lo stesso ovviamente accadrebbe se il voto mancasse del tutto. Possiamo discutere sulla qualificazione giuridica, Ma la riforma non esisterebbe come tale.

Lasciamo perdere. E pensiamo al da farsi per il voto che ci sarà, quando farà comodo al governo. La raccolta delle firme sui referendum istituzionali – legge Renzi-Boschi e Italicum – non ha avuto successo, ma ha comunque mobilitato centinaia di migliaia di persone, e ha fatto nascere un gran numero di comitati locali in tutto il paese. È su queste forze che dovremo contare nella campagna che sta per iniziare.

Va detto però che una campagna per la raccolta delle firme è cosa ben diversa da quella per il voto referendario. La persona che viene a un banchetto per firmare è già almeno in parte informata, o è disposta ad ascoltare e informarsi. Si ha la possibilità di argomentare le proprie ragioni e di controbattere quelle degli avversari. C’è un contatto ravvicinato che si conclude con la firma. Tutto questo in larga misura viene meno nella campagna elettorale in senso stretto. Nel 2006 votarono sulla riforma del centrodestra oltre 25 milioni di italiani (il 53,84% degli aventi diritto), e i no furono oltre 15 milioni (61,64%). Con una platea così vasta già sappiamo che non è il fine argomento giuridico a dare la vittoria. Non illudiamoci che possa far presa oltre una cerchia comunque relativamente ristretta l’illustrazione delle aporie, delle contraddizioni, delle omissioni, degli errori tecnici e di scrittura. Soprattutto quando dall’altra parte vengono argomenti rozzi che strizzano l’occhio all’antipolitica.

E allora? Bisogna far passare il messaggio che difendere la Costituzione conviene, è utile nel vivere quotidiano. Difendere la Costituzione non per il ricordo di ieri, ma per i bisogni di oggi. Partendo dalla constatazione che l’attacco è già cominciato con la riduzione dei diritti che la Costituzione garantisce – lavoro, salute, istruzione, ambiente – e la crescita esponenziale delle diseguaglianze. Le riforme in campo sono volte a consolidare e perpetuare le fratture sociali, economiche, territoriali, mettendo il bavaglio al dissenso e riducendo oltre ogni ragionevole misura la rappresentatività delle assemblee elettive. Puntano a un governo oligarchico e autoreferenziale, espressione di una minoranza che non sarà certo dalla parte dei più deboli. La vittoria del no può capovolgere questo indirizzo e aprire vie nuove per la politica italiana. La domanda è: Volete esserci e contare, tutti i giorni, e non un solo giorno ogni cinque anni, in cui votate per mettere i vostri diritti di cittadinanza in mano a chi comanda?

Il manifesto, 24 luglio 2016 (p.d.)
Cosa avesse davvero in testa il giovane attentatore di Monaco di Baviera non lo sapremo mai. La conclusione suicida della sua avventura non lascia spazio che al gioco delle illazioni analitiche. Ma in fondo non è poi così rilevante. Quello che è certo è che, come il diciassettenne accoltellatore afghano (forse pachistano) del treno di Wuerzburg, rappresentava nella sua persona la complessità, l’indistricabile intreccio e i fragili equilibri delle società europee in cui viviamo.

Iraniano di origine, musulmano, orgogliosamente tedesco, a quanto sembra, nemico giurato di non si sa quali stranieri, vendicatore di non si sa quali torti l’uno; profugo da un paese in guerra, adottato e improvvisato guerriero del Califfato, l’altro, ci hanno mostrato entrambi, senza troppi complimenti, cosa accade quando queste vite multiple e burrascose entrano, per le più diverse ragioni, in cortocircuito.

Qualcosa di non molto diverso da quanto accade nel più ampio contesto della vita collettiva: aggressioni, pogrom, sprezzo o soppressione dei diritti, legislazioni di emergenza, identità fittizie che digrignano i denti additando questo o quel nemico. La democrazia in cortocircuito genera la stessa irrazionalità omicida che muove l’azione del singolo giustiziere. Il risentimento per i torti subiti (reali o immaginari) colpisce alla cieca, ispirandosi a quanto il mercato ideologico offre in quel momento. Diversi governi europei non fanno molto di meglio.

L’odio, covato nell’ombra, dal giovane pistolero di Monaco non sembrerebbe poi così diverso da quello dei ragazzi americani autori della strage di Colombine e di tanti altri imprevedibili sterminatori scolastici. Sono il tempo e il contesto a essere diversi. Nel clima che ci circonda, pur non essendo in nessun modo riconducibile all’Is, anche il pluriomicida di Monaco fa la sua parte: ha origini islamiche e uccide a casaccio. Quanto basta per rinfocolare l’odio xenofobo.

Ogni tempo e ogni società dispongono di una rappresentazione «privilegiata» del Male che esercita sui «perdenti», le vittime e gli emarginati una potente forza di attrazione. A queste figure, così diverse tra loro ma accomunate da un sentimento di sconfitta che esige di essere riscattato, Hans Magnus Enzensberger aveva dedicato alcuni anni fa uno scritto illuminante, intitolato, appunto «Il perdente radicale».

Oggi, nel mondo e soprattutto in Europa, questa rappresentazione ha preso forma nel Califfato e nelle sue ramificazioni occulte. E non certo senza fondamento. Ma questo conferisce allo Stato islamico un formidabile vantaggio: quello di incarnare lo «spirito di vendetta» in generale, il quale non conosce confini territoriali né organigrammi organizzativi. Quella che potrebbe apparire una limitazione, e cioè la fede islamica interpretata nella maniera più rigida, in realtà non è che un’identità fittizia e provvisoria a disposizione di chiunque intenda portare a termine la propria personale «vendetta». Ai vertici del Califfato nessuno lo ignora ed è cinica consuetudine non andare troppo per il sottile. Del resto, come sappiamo, i «precetti della fede» incidono ben poco sui costumi e le abitudini di molti che si scoprono e si proclamano combattenti dello Stato islamico in Occidente. Questo fenomeno consente al Califfato e ai suoi organi di propaganda di intestarsi «a posteriori» anche quelle esplosioni di violenza che intrattengono un assai labile (a volte inesistente) legame con la sua dottrina. Quel che conta è, infatti, che il moltiplicarsi dei cortocircuiti individuali determini un grande cortocircuito sociale. A fronte di questa strategia le misure adottate dai governi europei rientrano in una sorta di decalogo dell’impotenza.

Gli «obiettivi sensibili» sono ormai un’espressione priva di qualunque senso. Se vi è qualcosa che non è mai stato toccato, dopo l’irripetibile attacco alle torri gemelle, sono proprio i luoghi e i simboli del potere politico ed economico. Che si tratti di cellule organizzate o di giustizieri improvvisati, l’obiettivo resta colpire nel mucchio. Cosicché tutti e ciascuno possano considerarsi potenziali vittime del terrorismo.

L’unica forma di protezione possibile è impedire che le nostre società si imbarbariscano, finendo col condividere la patologia vendicativa che anima gli autori delle stragi.

«Dopo il golpe turco. Noi italiani lo abbiamo imparato ai tempi delle Br. Ecco perché un despota come Erdogan è più un nemico che un alleato».

Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2016 (p.d.)

Antonio Ferrari, sul Corriere della Sera, sostiene – argomenti convincenti alla mano –che in Turchia c’è stato un “minigolpe improprio, a scoppio anticipato”(il titolo parla di “golpe fasullo”). Ma neppure se fosse stato un vero golpe si potrebbe comprendere l’enormità degli arresti e delle purghe comandati da Erdogan contro militari, poliziotti, magistrati, giornalisti, impiegati pubblici, intellettuali, docenti, imam.

Ancor meno, peraltro, si riesce a comprendere come di fronte a tanto scempio i principali capi di Stato occidentali possano limitarsi a prese di posizione da “minimo sindacale”, chiedendo “il rispetto della democrazia” (Obama), oppure dichiarando che la linea della tolleranza sarebbe oltrepassata solo in caso di ripristino della pena di morte (Merkel).

In un contesto difficile, che mescola Nato, guerra contro l’Isis, esodo dei profughi siriani e flussi di migrazione in generale, intricati rapporti con Russia e Assad, va bene la realpolitik, anche in dose massiccia. Ma ci sono dei limiti non oltrepassabili.

Chi ha più consenso elettorale, governa. Vale anche per Erdogan. Ma in ogni paese che aspiri a essere democratico, il potere deve rispettare il principio di legalità e i limiti di una sfera non negoziabile: quella della dignità e dei diritti di tutti, sottratta al potere della maggioranza e tutelata da una stampa libera e una magistratura indipendente, estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Il rispetto di questi principi è fondamentale. Altrimenti, come già insegnava quasi due secoli fa Toqueville, subentra “la tirannide della maggioranza”.

È il caso della Turchia, dove la libertà di stampa è pressoché annientata e i magistrati sono perseguitati con liste di proscrizione, licenziamenti e arresti a migliaia. Un’apocalisse. Che il Guardian del 18 luglio ha ben sintetizzato con la formula “Attenzione ai dittatori eletti”. E tutto ciò mentre infuria la guerra al (e del) terrorismo internazionale, che ripropone il tema della democrazia come possibile,utile antidoto.

Un tema che l’Italia ha affrontato con le Br. La teoria dei brigatisti era che lo Stato democratico non esiste, è una finzione. Noi brigatisti – di cevano – un colpo dopo l’altro (cioè omicidi, “gambizzazioni” e sequestri) disveleremo il volto autentico dello Stato, reazionario e fascista, di negazione dei diritti. E quando questo volto sarà disvelato, le masse – finalmente “istruite” – si ribelleranno e si uniranno all’avanguardia organizzata di noi Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria. In questa trappola il nostro Paese non è caduto. La risposta al terrorismo brigatista non ha mai abbandonato i principi fondamentali dello Stato di diritto.Abbiamo elaborato una legislazione “specialistica” sulla realtà dei fenomeni, costretta sì a raschiare il fondo del barile dei valori costituzionali, ma senza mai andare oltre.

Non è emerso, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, alcun volto fascista dello Stato, e questo ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo. La nostra esperienza (pur essendo riferita a situazioni molto diverse) può essere utile anche oggi contro il terrorismo cosiddetto islamico. Che va combattuto con forte determinazione, ma ricordando che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace. Ispirarsi a logiche di ferma sicurezza (a fronte di un fondamentalismo sempre più intollerante e sanguinario, ormai con tecniche da macellai) è doveroso. Ma se si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano diritti, istruzione, sanità, sviluppo umano, ci si avvita in un circolo vizioso, che va interrotto. Altrimenti si rischiano nuovi poteri, così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia che – si dice – si vogliono tutelare e magari esportare. E a questo proposito, la feroce repressione di Erdogan ne fa un “alleato” molto scomodo. A dire davvero poco.

Un'analisi delle particolari condizioni nelle quali è nata, si è sviluppata ed è degenerata la forma democratica del potere nello stato turco nell'ambito della tradizione religiosa dell'islamismo.

La Repubblica, 21 luglio 2016, con postilla

La rapida drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.

Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili pulsioni verso l’intolleranza. La moderazione ha successo se e quando la costituzione è più di un documento scritto, l’ethos che innerva il comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul consenso va giudicato non dal punto di vista dell’ampiezza del consenso ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e contestato. Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge, che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure, per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere, qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.

La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo. Essa però non è un “ismo” o un’ideologia, ma la condizione stessa dello stato della legge e del diritto perché un’attitudine dell’autorità civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e con culture diverse. Richiede per questo l’emancipazione del diritto dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono: questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale che rende la democrazia un buon governo.

Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza. Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e costituzionali. Ricordiamo l’insegnamento del Leviatano di Thomas Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato nazionale turco dopo la dissoluzione dell’Impero Turco- Ottomano, che era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con una religione dominante che resisteva alla sua sovranità. Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per tener sotto controllo la religione — mise in evidenza il nesso tra democratizzazione e ismalizzazione. Atatürk fu il padre della sovranità assoluta dello Stato e, sulle orme di Hobbes, mise la religione dentro e sotto la sua potestà. Secolarizzò lo Stato per riuscire ad affermare l’autorità della legge civile su quella religiosa. La storia politica della Turchia moderna è documento vivo delle contraddizioni che possono nascere dal connubio tra stato-nazionale e sua trasformazione democratica in paesi dove l’aspetto “nazionale” è essenzialmente identificato con la tradizione religiosa che, a sua volta, cerca e vuole il controllo dello Stato. L’arte della separazione tra politica e religione è riuscita ad Atatürk a patto di impedire la democratizzazione piena e quindi l’ingresso dell’opinione della maggioranza nel potere dello Stato. Il processo in corso dopo il fallito tentativo di colpo di stato sembra dare ragione a quel vecchio progetto — o secolarismo di Stato o una radicale confessionalizzazione. In entrambi i casi è la democrazia liberale a non aver ossigeno.

postilla

Difficile il percorso verso una democrazia compiuta (e perciò condivisa dalla pluralità di popoli e di culture esistenti) in un mondo nel quale si esercita da qualche secolo il dominio di una sola delle culture che vi si sono affermate. Ancora più difficile quando la cultura dominante ha assunto l'arricchimento dei più ricchi come il suo vessillo, e la violenza della guerra come la sua arma priviegiata. In alcuni paesi, poi, non ha rinunciato neppure all'impiego della tortura.

Il manifesto, 21 luglio 2016

Nella conversazione che segue la parola chiave è «instabilità», la «cifra che rimane sempre dentro», dice Fausto Bertinotti, o «La scintilla che può incendiare la prateria» come ha intitolato il suo editoriale nell’ultimo numero della rivista Alternative per il socialismo. A pensar male l’instabilità potrebbe essere la cifra della sua vita politica, date le indimenticabili rotture di cui ancora oggi si professa «orgoglioso». Ma non è di Prodi che parliamo stavolta. Parliamo di Renzi. Che per Bertinotti non è neanche un caso speciale: «È un po’ più o un po’ meno ma tutto sommato come gli altri che governano l’Europa. Sarebbe meglio che cadessero tutti, provocherebbe instabilità. Ma se non si ricostruisce la democrazia, va via lui ma viene avanti un altro uguale».

Un passo alla volta. Renzi ha perso la spinta propulsiva?
La sua ipotesi, dopo un inizio di successo, ora ha elementi di crisi. Il suo compito era dare una forma stabile alla governabilità, cosa in cui non erano riusciti i predecessori. Prima sul terreno sociale, come gli chiedevano i padroni del vapore attraverso Draghi: ha risposto ’obbedisco’. Ed ecco il jobs act e la controriforma della scuola.

Chi sono i padroni del vapore?

Il capitalismo globale finanziario. Le grandi multinazionali. Le banche centrali. Il governo sovranazionale chiamato Troika. Renzi poi, secondo passo, doveva realizzare la governabilità rendendo le istituzioni stabili anche in presenza di uno scarso consenso popolare. Ed ecco la riforma costituzionale, fine di un lungo ciclo per mettere in mora le assemblee elettive e sostituirle con la centralità del governo. All’inizio un parte del mondo politico era attratta da Renzi, anche i grandi facitori di opinione. Ma l’assolutizzazione della governabilità produce instabilità.

È un paradosso.
Sì. La rana vuole farsi mucca ma non ce la fa e scoppia. Il conflitto, domato in termini di alternativa politica, destra-sinistra, con il suicidio della sinistra, ritorna in termini di alto-basso e lotta contro le élite. Il partito unico del governo non ce la fa, le politiche reali producono crisi della coesione sociale. È successo a Valls, a Cameron, a Rajoy. E l’irresistibile ascesa va in crisi.

In tutto questo il referendum che ruolo ha?
«È un appuntamento importante, carico di significati non iscritti nella contesa. Questo è stata la Brexit: ormai la percezione ha preso il posto del programma. L’evocata volontà popolare diventa un giudizio di dio sulle classi dirigenti: fra chi vuole che continuino a guidare il convoglio e chi invece dice: ci portano verso il baratro, fermiamo il convoglio.

Lei voterà no, dunque.
Ma con un voto smagato. Voterò no per contribuire a fermare il convoglio. Anche se poi, fermate le macchine, resteremo in un regime neoautoritario dove la sovranità popolare è sospesa. Bisognerebbe che, scesi dal convoglio, ci rimettessimo in marcia per la conquista della democrazia. Non per la difesa: cosa difendi se la democrazia non c’è più? Come disse Togliatti, con solita perfidia, ai comunisti francesi che si opponevano alla riforma di De Gaulle: non si può difendere con efficacia la democrazia quando è già ridotta a un simulacro. Ma insomma: gli Indignados, la Nuit debut, sono tutti già scesi dal convoglio.

Qui in Italia ci sono i 5 stelle.
Loro sono ’antisistema’ però solo sul versante ’politico’. Ma il sistema è quello capitalistico. In ogni caso: a loro sono interessato perché contribuiscono a battere il partito della stabilità. Scriverò l’elogio dell’instabilità. La stabilità è il nostro nemico, batterla è la condizione per tornare a respirare. E del resto la loro stabilità non governa niente: né i treni di Andria, né la Promenade des Anglais, né la Brexit. Diceva Mao : grande è il disordine, la situazione è eccellente. Non sarà eccellente, ma meglio che niente.

Ma l’instabilità non è un programma. E una volta destabilizzato il governo?Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua. L’instabilità costringe a mettere al primo posto la pratica sociale.

Comunque Pd e 5 stelle pari non sono?
No, non sono pari. Il Pd è il sacerdote della stabilità, il M5S si è costruito all’opposizione del sistema politico, introduce contraddizioni. E se cambiassero linea sui migranti passerei a un atteggiamento anche più coinvolto. Perché loro sono in conflitto con le élite, basso contro alto, esattamente il terreno che dovrebbe praticare la sinistra. Alle sindache Raggi e Appendino direi: fate una passeggiata a Barcellona e Madrid per discutere con le due colleghe sindache l’idea di ’città nuova’ come parte di una nuova Europa.

A suo parere Sinistra italiana va nella direzione giusta? I leader sono quasi tutti suoi allievi, la generazione di Genova 2001.
Non voglio entrare nei conflitti interni di una forza nascente. Ma a mio parere non nascerà nessuna sinistra se non fuoriesce dall’involucro dell’istituzione partito per andare verso le pratiche sociali. A Genova sbagliammo a non accettare fino in fondo la sfida di assumere la testa del movimento sciogliendo l’ultimo partito del 900. Diceva un insigne teologo: solo dall’imprevisto può venire la salvezza. La spagnola Podemos e la greca Syriza vengono da Genova e nascono dalla piazza.

Tsipras un partito l’ha costruito, eccome.
In Syriza sono approdati esponenti del vecchio Synaspismós, ma resta che è stata la piazza greca a far nascere la Coalizione. Anche in Italia il processo costituente deve nascere dalla piazza. Non per partenogenesi.

E se in Italia la piazza non c’è?
E allora si adoperino a costruirla. Bisogna costruire un popolo, scomparso al pari dei partiti. E non lo reinventeranno con una costruzione politica, ennesima prigione, ma con una pratica sociale. La sinistra non ha neanche la mappa di tutte le forme di partecipazione, associazione, autogoverno. E perché? Perché le interessa un altro terreno, quello dell’istituzione-partito. Così la diaspora del suo voto approda altrove, ai 5 stelle.

Il manifesto, 19 luglio 2016

Il 17 luglio di ottanta anni fa, un «pronunciamiento» militare prese le mosse dal Marocco, estendendosi il giorno successivo in tutta la Spagna, secondo un piano da tempo preparato da alcuni generali spagnoli. L’intento dei cospiratori era quello di provocare la caduta del governo repubblicano e di imporre un regime autoritario.

Dopo tre giorni, il golpe poteva considerarsi parzialmente fallito: la spontanea reazione da parte delle masse popolari, che risposero all’appello per una difesa in armi della Repubblica lanciato dai partiti vincitori delle elezioni nel febbraio dello stesso anno e dai sindacati, diede vita una guerra che, seppur combattuta solamente sul suolo iberico, coinvolse tutto il mondo e, in modo particolare, l’Italia. Non solo perché i golpisti ottennero il sostegno di Mussolini, che inviò oltre a un ingente quantitativo di materiale bellico un corpo di spedizione di circa cinquantamila soldati, ma anche perché a fianco del legittimo governo accorsero circa quattromila volontari antifascisti. Combattere in Spagna fu un’esperienza coinvolgente e drammatica per molti giovani italiani, convinti fascisti seppure di sinistra che, in quell’estate del 1936, videro cambiare la propria vita.

Ripensamenti politici

La scelta di appoggiare la lotta dei repubblicani spagnoli – e come testimoniò Romano Bilenchi «scoppiò la guerra di Spagna; e noi trepidammo per ’i rossi’ e soffrimmo il soffribile» – li indirizzò verso (non è dato sapere fino a che punto) una consapevole scelta di campo antifascista, aprendo la strada a un profondo cambiamento, perché, come notò lo scrittore inglese Stephen Spender, in poche settimane, la Spagna era diventata il simbolo della speranza per tutti gli antifascisti. Offriva al Ventesimo secolo un nuovo 1848 e cioè un tempo e un luogo nel quale una causa che rappresenta un grado di libertà e giustizia più alto di quella reazionaria, che gli si oppone, riusciva ad ottenere vittorie. Divenne possibile vedere la lotta tra fascismo e antifascismo come un reale conflitto di idee e non solo come la vicenda di dittatori che strappano il potere a deboli oppositori.

Tra coloro che iniziarono un sofferto ripensamento sull’essere giovani intellettuali fascisti, alcuni svolgeranno in seguito un ruolo importante nello scenario politico e culturale del secondo dopoguerra italiano e citiamo, solo per indicare i più noti, Pietro Ingrao, Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Mario Alicata, Antonio Amendola, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti, Renato Guttuso, Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli.

La presenza di futuri dirigenti del Pci e di «intellettuali organici» a partire dal 1945 non significa, come ha fatto notare Claudio Pavone, che sia esistita una continuità tra l’esperienza politica dei giovani fascisti di «sinistra» e il loro diventare comunisti. Non vi era dunque un universo giovanile fascista, predestinato a muoversi, fatalmente, verso lidi antifascisti e prioritariamente comunisti, essendo essi, come ebbe a definirli Togliatti, «comunisti che si ignoravano».

Colui che testimoniò con forza e più volte questo percorso fu Vittorini, che nel 1945 sul primo numero de Il Politecnico non solo rendeva un omaggio al martoriato popolo spagnolo ma, ricordando quei giorni, tracciava un bilancio delle proprie scelte politiche e umane. «La guerra civile di Spagna – affermava lo scrittore siracusano – ha una grande importanza nella storia italiana. Tutta la gioventù italiana era senza contatto, prima del luglio 1936, con il mondo della democrazia progressiva. Dobbiamo dirlo: l’antifascismo italiano risultava morto per gli italiani; era tutto all’estero, emigrato, o era in prigione, era al confino, chiuso in se stesso e molti di noi non l’avevano mai conosciuto. Madrid, Barcellona… Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull’Italia, ogni notte dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».

L’altro cammino


Appare significativo come Vittorini abbia sentito il bisogno di ricollegarsi alla guerra di Spagna, ai suoi valori e ai suoi miti proprio nel primo numero del settimanale che, a liberazione avvenuta, espresse il pensiero di una nuova élite culturale. Quasi mezzo secolo dopo Ingrao gli fece eco nella sua autobiografia, affermando che per lui «il punto discriminante ha proprio una data precisa: è la guerra di Spagna. Con una frase un po’ retorica direi che la guerra di Spagna, proprio, è una data che spacca la mia vita: da allora comincia un altro cammino».

Non fu un percorso facile e neppure lineare. Come ha giustamente sottolineato Emilio Gentile, il paradigma mussoliniano appariva con un futuro entusiasmante per le nuove generazioni, soprattutto per quelle cresciute culturalmente nel contesto totalitario dove la percezione della realtà era condizionata dalla propaganda fascista che, come sottolineò Vittorini, era riuscita a instillare «nei giovani l’illusione di essere rivoluzionari ad esser fascisti».

Sia che fossero già delusi dal fascismo dopo una giovanile e convinta adesione, sia che lo fossero diventati dopo l’appoggio del regime ai nazionalisti spagnoli che si presentava davanti ai loro occhi come un atto antirivoluzionario, la tragedia spagnola rappresentò una svolta esistenziale, portandoli verso una dura e sofferta autocritica che li rese consapevoli di come avrebbero potuto riacquistare la dignità soltanto dotandosi di un nuovo codice comportamentale.

La reazione del proletariato spagnolo segnava un nuovo inizio, mentre, contemporaneamente, con l’aiuto ai generali golpisti, il fascismo, fino a quel momento difeso nonostante tutto, gettava la sua maschera mostrando il proprio fallimento. Ma le notizie giunte attraverso le radio a galena, non dimostravano solo questo.

Per alcuni la guerra civile spagnola non rappresentò soltanto un esempio concreto di lotta antifascista ma – grazie all’influenza dei movimenti letterari e artistici europei, idealmente partecipi a fianco della repubblica spagnola – si inserì in un più ampio paradigma di sprovincializzazione della cultura italiana. Se in un primo tempo i temi della discussione si ispiravano alla vecchia tradizione antifascista, la guerra civile di Spagna – con l’aggressione da parte dell’oligarchia terriera, di buona parte dell’esercito e dei vertici della Chiesa cattolica a quanti si battevano per una democratica modernizzazione del paese – poneva di fronte i più giovani a una nuova realtà.

Dopo l’estate del 1936 non si sentirono più isolati dal resto del mondo, perché attraverso le notizie che filtravano tra le maglie della censura avevano capito di essere in sintonia con le forze migliori della cultura europea e americana, da Hemingway a Orwell, passando per Malraux, ovvero intellettuali che si stavano battendo a fianco dei repubblicani spagnoli. Un elemento che non rappresentava solo un fatto d’armi e una solidarietà politica militante, ma una esaltante novità culturale. Attraverso la fucilazione di Garcia Lorca, l’Italia scoprì come il mondo culturale spagnolo non si fosse fermato a Miguel De Unamuno, ma esistessero anche Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez e Rafael Alberti. Parimenti, comprese come le ragioni dell’antifascismo potessero trionfare non solo grazie alla lotta della classe operaia in armi, ma anche attraverso il linguaggio rivoluzionario del cubismo, adottando il rinnovamento narrativo espresso da Hemingway, oppure ascoltando le nuove espressioni musicali. In questo clima, maturarono consapevolezze che resero ineluttabile l’esigenza di fare i conti anche con una tradizione culturale italiana, fino a quel momento inadeguata non solo a resistere al fascismo, ma soprattutto a fornire, una volta resasi chiara la sua natura totalitaria, gli strumenti per combatterlo.

Nel suo libro, tuttora attuale, sugli intellettuali e la guerra di Spagna, Aldo Garosci affermava che il dramma della Spagna simboleggiò, per una parte della giovane generazione intellettuale italiana alla vigilia e durante la lotta della liberazione, il ritorno del problema etico nella politica.

Nuovi sentimenti

Nacque da un impulso di dare vita a un «nuovo antifascismo», anche se non contrapposto o in concorrenza con quello fino a quel momento operante in Italia e soprattutto all’estero. Ma, proprio come accadde al fascismo «di sinistra» che mai si trasformò in un progetto politico e organizzativo, anche il «nuovo antifascismo» rimase un sentimento individuale, seppur condiviso, all’interno di ambienti culturali ben definiti, che preconizzava come a fianco della tradizionale opposizione al regime dei settori del proletariato più politicizzato si sviluppasse un impegno militante di giovani studenti, intellettuali e artisti.

Non importa se si trattò di un’esperienza minoritaria debole e confusa, che agiva da una parte all’interno di un mondo dominato dalla «fabbrica del consenso totalitario» tutta protesa alla creazione di un «mondo» e un «uomo nuovo», e dall’altra dalla mancanza di contatti con l’antifascismo tradizionale, trovatosi, dopo la guerra d’Etiopia, in una condizione di crisi e disorganizzazione. Era la prima volta che nel soffocante controllo culturale imposto dal regime, si prendeva coscienza di come nella realtà della vita quotidiana, l’intellettuale italiano potesse e dovesse recitare il proprio ruolo, facendo confluire il suo impegno culturale, per utilizzare un termine coniato da Vittorini, nella «ragione antifascista». Una ragione che si formò «non per trasmissione di esperienza da padri a figli e da vecchi a giovani, ma per dure, brutali lezioni avute direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni individuali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-educazione, e tutta tra il luglio del ’36 e il maggio del ’39».

Qualche speranza dall'area che tenta di far nascere una formazione di sinistra all'altezza dei tempi partendo ciò che resta della sinistra novecentesca. Reste una domanda: qual'è oggi il mondo dello sfruttamento?

Il manifesto, 19 luglio 2016

Scrivo per dire ai lettori de manifesto interessati alle sorti del costruendo nuovo soggetto di sinistra, provvisoriamente chiamato SI – e che tengono in qualche conto l’ opinione di una ottuagenaria – che, secondo me, l’assemblea di sabato nella Sala di via dei Frentani è stata positiva. Anche più di quanto prevedevo. Non solo per il numero dei partecipanti, ma anche per la loro qualità: quasi tutti più giovani (e più equilibrati per genere) degli abituali frequentatori degli innumerevoli appuntamenti della sinistra; e perciò meno oppressi dai rancori prodotti dalla sua frantumata storia.

E tuttavia, incoraggiata dalla introduzione di Alfredo D’Attorre che non ha risparmiato l’autocritica sul nostro comune vissuto di questi ultimi mesi, vorrei dire anche io cosa mi sembra ancora non vada. Estraggo solo un paio di cose fra i molti temi di cui vorrei si discutesse seriamente già nella fase di preparazione del congresso. (Se si mette al mondo un partito si può anche accettare che non tutti siano d’accordo su tutto, ma occorre almeno che le diversità siano rese esplicite per poterle superare).

Comincio dall’alternativa. Nicola Fratoianni ha risposto con efficacia nel suo intervento alla denuncia dei compagni sardi (francamente un po’ rozza: chiedere di andarsene al gruppo dirigente di Sel perché non avrebbe vinto, presentando invece vincente la carta del centro sinistra, è davvero un po’ troppo ).

Né ha qualche fondamento l’ipotesi di un centro sinistra che rinascerebbe dalle ceneri solo che Renzi fosse sconfitto, perché oramai il Pd riflette un altro blocco sociale, un’altra cultura, altri valori;e perché Renzi non è un marziano, ma il rappresentante locale di una potente corrente mondiale, e specificamente europea, che considera la democrazia quale la abbiamo conosciuta un impiccio ormai non sopportabile per il sistema; che dunque va sostituita con la governance, e cioè sottraendo il potere deliberante alla sovranità popolare per affidarlo a esecutivi simili ai Consigli d’amministrazione delle imprese. (Altra cosa è quanto resta del vecchio corpaccio comunista, portatore di una memoria importante, e però incapace di accettare il dovere di un nuovo inizio. In quel pezzo di popolo ci sono naturalmente tutt’ora interlocutori per noi decisivi).

La parvenza di realismo della posizione dei nostalgici del centrosinistra sta nel dire: un altro schieramento governativo oggi non c’è. Il che è assolutamente vero. Le nostre liste alle elezioni amministrative non hanno avuto successo – molti l’hanno detto – proprio per questo. A differenza dei 5 Stelle, che un’alternativa l’hanno rappresentata in alcune importanti metropoli. Almeno nominalmente, poi vedremo.

Prendere d’atto che per ora non esiste una formula sostitutiva del defunto centrosinistra a livello nazionale – altra cosa sono le istituzioni locali, perché il territorio sta già dando prova di essere ricco di energie e formule inedite di rappresentanza – non rende tuttavia affatto meno credibile il nostro discorso. A condizione si renda chiaro che la premessa di ogni seria alternativa è la ricostruzione di un tessuto democratico pesantemente slabbrato, capace di ricreare le condizioni affinché la politica torni ad avere un ruolo. Senza la paziente e difficile ricostruzione di forme di partecipazione e di assunzione di responsabilità collettiva, vince l’idea della efficienza manageriale (Renzi) o la comunicazione mediatica che crea il mito di individui onesti in virtù dello spirito santo. O, peggio, il disincanto. Quando chiediamo voti è intanto per dar forza a questo progetto immediato ed urgente.

Non vuol dire ignorare la necessità di conquistare un ruolo istituzionale e rifugiarsi nella cuccia dell’extraparlamento. Anche questa battaglia può portare frutti corposi: basta con questa ossessione “governista” che delega i risultati solo e sempre a quanto potrebbe fare un governo. (Se combattiamo contro lo stravolgimento costituzionale minacciato da Renzi non è del resto proprio perché il suo nocciolo consiste nel voler consegnare il potere di deliberare tutto e solo nelle mani dell’esecutivo, nel ridurre la democrazia alla tutela del monopolio della maggioranza, alla c.d.”governabilità”?)

Il vecchio Pci al governo non c’è stato mai, ma sappiamo che quasi tutto quanto di buono abbiamo conquistato è stato merito della sua azione. Anche allora non c’era una prospettiva immediata di governo, ma quel partito è stato efficace perché ha saputo conservare un’ottica di governo ( che è altra cosa), senza chiudersi in sterili minoritarismi.

Attrezziamoci a creare le condizioni per ottenere altrettanto, nelle forme adeguate ai tempi presenti. Il che vuol dire dar vita non solo al Partito che vogliamo far nascere, ma contemporaneamente essere l’anima, lo stimolo, per la crescita non solo di movimenti di protesta, ma di una rete di più consolidati organismi che si assumono sul territorio, e laddove c’è lavoro sfruttato, la responsabilità di gestire la collettività e di dar luce e prospettiva alla sua conflittualità. Da questo punto di vista le coalizioni che si sono costituite in molte città per le elezioni amministrative possono essere una risorsa preziosa ed è nostro interesse tenerle in vita. (Del resto il solo modo per impedire che un partito diventi autoreferenziale è mantenere vivo un rapporto dialettico con quanto si muove al di fuori, nella società. (Non averlo fatto, dal ’68 in poi, è stato il mortale errore del Pci).

È difficile un simile discorso, poco “popolare”? Sì, lo è.

Ma difficilissimo – dobbiamo saperlo – è fare un partito, tanto più in un tempo in cui la bussola non è più offerta, linearmente, da un soggetto socialmente omogeneo come era la classe operaia novecentesca. All’assemblea di via dei Frentani si è sentita molto spesso l’eco, soprattutto negli interventi dei più giovani, del dibattito che è riemerso sul populismo di sinistra, reintrodotto da Laclau tramite Pablo Iglesias. Anche questo mi pare un tema da affrontare. Capisco la preoccupazione di chi teme un distacco dalle masse popolari, l’intellettualismo di certo sinistrese, il timore che suscita vedere la sinistra vincere solo fra i ceti medi colti e non più nelle periferie. Ma non semplifichiamo troppo questo discorso.

Ernesto Laclau, al di là di qualche stravolgimento interpretativo che c’è stato, intendeva in realtà riproporre (e lo ha fatto un po’ confusamente) la tesi gramsciana sulla necessità di costruire anche in Italia un popolo-nazione. Ma Gramsci voleva sottolineare l’importanza a questo fine del momento soggettivo, contro ogni spontaneità elementare. Credeva al ruolo degli intellettuali, non come detentori di uno specialismo e come esponenti di una professionalizzazione della politica, bensì, tutt’al contrario, al loro diventare “organici”, per superare la loro separazione e colmare la distanza fra governanti e governati, sola base reale della democrazia. Nella società e nei partiti. Solo i populisti veri sono quelli che hanno interesse a lasciare il popolo preda di una cultura primitiva, che riflette solo quella del potere, laddove l’obiettivo – certo ambizioso – è rendere possibile un progresso intellettuale di massa e non di ridotte elites. Il famoso “intellettuale collettivo”.

Non vorrei che il sacrosanto accento sulla necessità di recuperare un rapporto con il popolo fosse immeschinito. Proprio oggi quando anche solo immaginare un mondo che produca, consumi, viva in modo diverso richiede una eccezionale capacità innovativa. Se poi invece questo richiamo è lanciato nell’intento di recuperare anche quel rapporto fisico che un tempo c’è stato nella sinistra – qualcuno ha detto “mischiarsi”- allora ben venga. Perché tornare a vivere e a far politica in luoghi comuni è essenziale: voglio ricordare la più proficua esperienza, ancora una volta del vecchio Pci, quando segretari delle sezioni più periferiche sono stati i più importanti intellettuali comunisti.

«Promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali… Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del

debito». Comune-info, 17 luglio 2016 (c.m.c.)

No, la violenza a Genova 2001 non è riuscita a reprimere le ragioni e la forza del “movimento altermondialista”. Quella ragioni e quella forza sono riemerse in altre forme, come dimostrano ad esempio le lotte di molti territori contro grandi opere e l’estrattivismo, oppure le straordinarie mobilitazioni per l’acqua bene comune e campagne come Stop T-Ttip.

Anche le battaglie per la liberazione dai debiti illegittimi e odiosi, che tante energie avevano raccolto in quella stagione, oggi sembrano riaffiorare, con le diverse esperienze di resistenza alle ricette di austerity applicate ad alcuni paesi del Nord del mondo.

Per questo c’è chi ha scelto Genova per alimentare vecchie e nuove speranze, per mettere in relazioni temi ma soprattutto persone e gruppi, per continuare a «promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali… Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del debito…»

Genova non è casuale. Questa città, così come il tema del debito, è un crocevia di storie, di sofferenze, di visioni. Chiunque lotta prima o poi si imbatte in questa questione ormai globale. Genova, così come il tema del debito, cerca di essere un telaio che mette insieme più fili affinché possano trasformarsi in un tessuto in cui si colgono, sì le differenze che però non dovrebbero essere mai squarci. Ma Genova è anche stato il luogo di scontri in cui sangue innocente è stato versato: per me sorgente di una nuova umanità.

A tutti coloro che prepararono e vissero quei giorni intensi e drammatici del G8 2001 e che da quei giorni trassero la forza per continuare a saldare culture differenti, ma non indifferenti, a questi penso sia dedicata: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia». Ci unisce oggi l’attenzione ai problemi delle persone e dei popoli schiavi del debito e la propensione a privilegiare le esistenze rispetto alle teorie ovvero i volti rispetto alle dottrine. Dopo quindici anni dal G8 di Genova e nell’anno del Giubileo, come cittadini diversamente credenti, ci siamo dati appuntamento per condividere una delle questioni globali più urgenti: il progressivo indebitamento dei popoli dell’intero pianeta.

Indagheremo come, anche in Europa, sembra prevalere l’ideologia della finanza e dei vincoli di bilancio che hanno creato debito, diseguaglianze, risvegliato egoismi, nazionalismi e spinte isolazionistiche che ampliano il solco di un’Europa senza anima, riportando indietro l’orologio della storia a periodi caratterizzati da drammatici conflitti.

Sotto i nostri occhi si consuma l’orrore di esclusioni e della pericolosissima costruzione di muri materiali e mentali, conseguenza di un malinteso senso del limite che colpisce bersagli umani invece di quelli che animano la finanza senza regole, rafforzatasi dopo la crisi a danno di un economia umana.

Sembra infatti prevalere un’economia estrattiva che porta con se privatizzazioni di beni comuni, distruzione, miseria, violenze, guerre, migrazioni epocali e irreversibili cambiamenti climatici che colpiscono aree del pianeta vulnerabili, creando un debito ecologico pagato soprattutto da paesi non responsabili, ma gravati da un debito pubblico in gran parte illegittimo. Verrebbe da dire che ci stiamo allontanando dal terreno dell’umano!

Vogliamo confrontarci in maniera responsabile per verificare se e quali impegni assumere per scongiurare gli effetti di una invisibile dittatura finanziaria e di una economia dei più forti, provando a scegliere di stare dalla parte di chi, come noi, paga il prezzo più elevato di queste ingiustizie. In particolare vorremmo verificare se è possibile promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali, smascherando la geografia dei poteri che dietro di esso si nasconde.

La domanda è: vogliamo impegnarci in prima persona cercando di coinvolgere tutte le organizzazioni disponibili affinché siano adottate misure di contrasto al debito privato e pubblico che impediscono la piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale, economica e democratica?

Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del debito?

Vogliamo e in che misura promuovere e vivere un diverso modello sociale ed economico che rimetta al centro la piena dignità di ogni persona nel rispetto della vita del nostro pianeta? Quindici anni fa i movimenti dicevano che un altro mondo è possibile e da allora molta strada è stata fatta anche attraverso la grande stagione referendaria per l’acqua bene comune, del forum per una nuova finanza pubblica e sociale, dello stop al T-Ttip, delle piccole e grandi battaglie per il territorio, solo per citarne alcune, ma oggi a che punto è la costruzione di quel mondo?

».

Altraeconomia, 14 luglio 2016 (c.m.c)

Il sistema degli spazi chiusi. È lo specifico sistema di potere sulla vita di tutti che ha preso corpo con la finanziarizzazione dell’economia e della società intera. Penso a fenomeni quali i processi economici, il degrado della politica, l’emergere dei luoghi comuni di massa, il prevalere dello scoramento per la mancanza di alternative, le migrazioni forzate e il ritorno dei muri, il moltiplicarsi di scontri bellici e tensioni internazionali, la mutazione genetica delle istituzioni, la rottura dell’alleanza tra le generazioni. Questi fatti sono a sé stanti o rientrano in un quadro d’insieme?

Nel suo libro del 1949, Origine e senso della storia, il filosofo tedesco Karl Jaspers avanzava l’ipotesi per cui tra l’800 e il 200 a. C. si verificò una fioritura policentrica della coscienza dell’umanità che coinvolse Cina, India ed Europa. In queste aree del mondo affiorarono correnti spirituali che videro protagonisti maestri come Confucio, Lao-tse, Buddha, Zarathustra, Elia, Isaia e Geremia, Omero, i Presocratici, Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide e Archimede.

Giunsero così a una straordinaria maturazione la coscienza della dignità umana, il senso della libertà e della responsabilità, il riconoscimento della comune condizione che lega tutti. Jaspers considera quella svolta come un asse della storia, che fu «il punto in cui fu generato tutto quello che, dopo di allora, l’uomo è riuscito a essere» (Mimesis, p. 19). Perciò egli parla di epoca assiale, nella quale furono aperti inediti spazi culturali, comunitari, politici. Ogni progresso vero schiude alla libertà della comunità umana un territorio prima sconosciuto.

Nel confrontare la fioritura di allora con la tendenza dell’epoca presente viene da pensare che noi siamo in un’epoca assiale rovesciata, in una stagione storica in cui ciò che è più elevato nel vivere umanamente viene mortificato.

Nell’etimologia del termine finanza c’è il significato del «portare alla fine, estinguere». La società finanziarizzata chiude gli spazi alle esperienze essenziali e le spegne.

Penso al valore delle relazioni interpersonali senza che debbano essere mediate dal denaro; al radicamento delle persone nella propria casa, lingua e patria; al lavoro come espressione della creatività e della responsabilità sociale di ciascuno; al rapporto con la natura; alla facoltà di costruire una vita comune mediante l’azione politica nella sua forma democratica; all’esercizio del pensiero critico, che salva dal conformismo e dalla menzogna. Tutte queste esperienze e capacità hanno bisogno di un loro spazio: affettivo, territoriale, sociale, ambientale, politico, mentale.

A uno sguardo d’insieme che colga l’andamento del sistema di potere vigente si rende visibile la tendenza a chiudere questi spazi. L’umanità del nostro tempo soffre di claustrofobia perché gli ambiti più preziosi dell’esperienza sociale vengono surrogati da stretti percorsi obbligati e da spazi soltanto virtuali.

Uno dei processi che attuano tale tendenza è quello della fine dello spazio politico. Le “riforme” del governo Renzi su Costituzione e legge elettorale non sono riducibili al protagonismo del premier, né al progetto di rimodernare la Costituzione del 1948. Il significato radicale di tali “riforme” è quello di completare la chiusura degli spazi per la partecipazione democratica e per la rappresentanza delle istanze più vive nella società.

La scelta di tale chiusura deriva dall’idea secondo cui il mercato governa più velocemente della democrazia e risponde a ogni esigenza, la politica non serve più. Fare politica partecipando in prima persona, elaborando idee, discutendo, lottando, dialogando, progettando è ormai come insistere a usare la macchina da scrivere invece del computer.

Resta quasi soltanto la pseudopolitica fatta di carrierismo, corruzione e servilismo verso la finanza. Perciò è urgente ribellarsi a questo incantamento e contrastarlo alla prima occasione: il referendum costituzionale di ottobre.

«». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)

Professor Rodotà, Renzi sembra essersi emendato sulla ’personalizzazione’ del referendum e aver cambiato verso sulla legge elettorale: dopo aver imposto la fiducia, ora dice che il parlamento è libero di decidere. Ci crede? O è solo tattica, una finta per rilanciarsi?
In questi giorni Renzi sembra in difficoltà. Dire «sulla legge elettorale si vada in parlamento», visti i trascorsi, è significativo del modo in cui intende muoversi. Siamo alla contraddizione quotidiana. Ma alla fine è il sintomo di una regressione culturale, e lo dico anche se di cultura fin qui se n’è vista poca da parte sua e del suo ceto politico. Le riforme hanno chiari elementi di conservazione: non ’aprono’, non vanno nella direzione del cambiamento democratico. E la cultura di quel ceto politico è inadeguata alle domande che vengono dalla società, dallo stesso ceto politico e persino dai conflitti dentro il Pd.

Le domande della società sono quelle avanzate dal ricambio emerso alle comunali?
Il ceto politico inadeguato che si è presentato alle elezioni non poteva ottenere consenso da parte dei cittadini che si erano allontanati dalla linea del Pd. La risposta politica è stata marcata. Senza enfatizzare, basta guardare come si è distribuito il voto fra il centro e le periferie. Renzi l’innovatore ha fallito sul terreno in cui si dichiarava forte, l’incontro con la società.

Per Renzi il referendum può diventare un boomerang, come lo è stato per Cameron quello sul Brexit? E però nel voto di Londra non ci sono molti elementi progressivi.
Il parallelo con la mossa di Cameron sta nella furberia di usare un referendum per chiudere i conti nel proprio partito. Intendiamoci, in politica non è una novità. Quando in Francia ci fu il referendum sul Trattato costituzionale, io da estensore della Carta dei diritti fondamentali partecipai alla campagna per il Sì.
Ma una serie di parlamentari socialisti con cui avevo lavorato molto mi spiegarono che votavano no: «Perché Fabius gioca una sua partita nel Ps».

In questi anni si è venuto manifestando, non solo in Italia, un uso delle istituzioni legato sempre più a regolare conti interni. Il voto su Brexit ne è un esempio. Ma è sbagliato e pericoloso. Renzi non si preoccupa della divisione che promuove nella società. Invece la massima preoccupazione dei Costituenti fu che nella Carta si riconoscesse il maggior numero di soggetti politici e di cittadini, tant’è che quando De Gasperi escluse socialisti e comunisti dal governo non ci fu nessuna reazione aggressiva, si andò avanti lo stesso. Qui stiamo all’opposto, a conferma l’inadeguatezza del ceto politico. Hanno un problema con i 5 stelle, hanno bisogno di Alfano per sopravvivere, allora cambiano la legge elettorale. Gestiscono i conflitti politici con l’uso congiunturale delle istituzioni. Tutto è appiattito sul giorno per giorno.

Renzi è divisivo e felice di esserlo?
Del resto lui da subito ha puntato sulla divisione. Cos’altro è la rottamazione se non un’esclusione? Chi non accetta la mia linea lo escludo. Con parole aggressive e una continua falsificazione della realtà. Potrei parlare dell’informazione falsificata sulle proposte di Zagrebelsky, Onida, Azzariti e mie. Ma hanno persino falsificato la posizione di Pietro Ingrao della «centralità del parlamento».

Oggi invece Renzi e Boschi dicono: «discutiamo di merito», «spersonalizziamo».
Spersonalizzare non può, non può più se non abbandona le falsificazioni. E allora: non c’è alcuna semplificazione del procedimento legislativo. I risparmi sbandierati sono una strizzata d’occhio alla peggiore antipolitica, e comunque potevano esser fatti in maniera più efficace. Non sappiamo ancora come verranno selezionati i senatori. E ancora: dire che se non si vota sì non ci sarà più la possibilità di riformare la costituzione è un altro argomento falso. Quando si dà la voce ai cittadini, i cittadini debbono avere piena libertà di manifestare la loro opinione.

Il centro studi di Confidunstria calcola che la vittoria del no farebbe perdere al paese 4 punti di Pil e 600mila posti di lavoro. Anche il Fondo monetario prevede sfaceli.
La drammatizzazione è un altro modo di non entrare nel merito. Avverto che chi dice così non è in grado di analizzare la società italiana. Come chi dice che con il no l’Italia non avrebbe più un governo. In caso di dimissioni di Renzi c’è un passaggio costituzionale obbligato: il presidente Mattarella dovrebbe accertare se c’è un’altra maggioranza.

Intanto Renzi cerca di portare dalla sua qualche forza politica promettendo il premio di maggioranza alla coalizione, nell’Italicum.
È un tentativo un po’ ingenuo all’indirizzo di chi cerca un alibi per votare sì.

Anche perché quello che viene contestato all’Italicum davanti alla Consulta è il premio di maggioranza, non a chi viene attribuito.
Sull’Italicum non serve una modifica qualsiasi. I problemi aperti sono in primo luogo quelli legati alla sentenza sul Porcellum che riguarda la rappresentanza dei cittadini, l’Italicum tende a mantenerla bassa per il modo in cui è organizzata la scelta del capolista e di come sono selezionati i candidati. Ma siamo di nuovo all’uso congiunturale delle istituzioni. L’Italicum nasce quando la parola d’ordine di Renzi era un Pd al 40 per cento. Oggi che i dati sono cambiati, cambiano la legge: per costruire una coalizione che fronteggi il M5S e per tenere insieme il centrodestra.

I 5 stelle dunque hanno ragione a dire che è una mossa contro di loro?
Ma è evidente. Intendiamoci, nessuno scandalo: è chiaro che le leggi vengano fatte dalle maggioranze per vincere. Contro Le Pen Mitterrand introdusse un elemento di proporzionalità alla legge francese. Ma c’è una soglia di decenza che non dovrebbe essere superata.

Lei è favorevole allo ’spacchettamento’ del quesito?
Ho molte riserve. Sono stati messi in evidenza i problemi tecnici. E c’è il rischio che il legame fra la riforma costituzionale e la legge elettorale venga ricacciato sullo sfondo.

Ma dalla parte opposta, il fronte del no coglie la debolezza di Renzi? La mancata raccolta delle firme, anche sul quesito dell’Italicum parla di una scarsa mobilitazione oppure di una scarsa consapevolezza della posta in gioco?
Questo problema c’è. In questo momento è assolutamente indispensabile accentuare il lavoro sul versate del no. E mettere in evidenza i conflitti e le contraddizioni di cui abbiamo parlato.

C’è una coincidenza sfortunata, che forse coincidenza non è: proprio in questo momento la sinistra è debole, infiacchita dall’insuccesso delle amministrative, e nel pieno di uno stallo organizzativo.
Non c’è dubbio. Ma su questo non ho una risposta sbrigativa. Avevamo lanciato la Coalizione sociale sull’idea che non fosse sufficiente mettere insieme le forze già esistenti più o meno riferibili alla sinistra. Serviva un passo in una direzione più larga. Il tentativo non è andato bene. Dobbiamo discuterne perché, per esempio, contemporaneamente invece sono successe cose importanti: la Cgil ha raccolto le firme che annunciano una stagione referendaria importanti su grandi questioni.

Perché la Coalizione sociale di Maurizio Landini non è andata bene?
Ci rifletto da qualche tempo. Certo le forze politiche organizzate non sono state generose. Non avrebbero dovuto fare un passo indietro ma aprirsi a un altro modo di lavorare.

E come potevano i partiti non fare un passo indietro? Lei all’epoca li aveva definiti «zavorra».
Può darsi che l’espressione non fosse felice. Ma ero convinto che se non si parlava chiaro le forze politiche avrebbero portato in quella nuova esperienza i loro fallimenti passati. E non c’è bisogno di ricordarli, da Ingroia all’Arcobaleno. Ora, da spettatore, guardo all’iniziativa di Cosmopolitica. Ma aspetto di vederne il contenuto reale.

Nelle città invece un ricambio c’è stato. A Torino e Roma hanno vinto i 5 stelle, a Napoli De Magistris. Succederà che non sarà la sinistra ’storica’ a rilanciare un’idea concreta dei beni comuni?
Le città sono i luoghi della creazione dei beni comuni. Il rapporto fra i diritti fondamentali delle persone e i beni perché questi diritti vengano organizzati. Bisogna creare le istituzioni dell’eguaglianza, che sono i beni comuni, della redistribuzione delle risorse. E rilanciare la discussione sul reddito garantito, che è difficile ma non può essere liquidata dicendo che non ci sono i soldi.

Veramente Renzi ha chiuso il discorso sul tema sostenendo che il reddito di cittadinanza è incostituzionale.
Renzi ormai può dire qualsiasi cosa. C’è una lettura dell’articolo 1 della Costituzione che va in tutt’altra altra direzione. La sua è un’affermazione sbrigativa che non coglie né gli aspetti istituzionali né quelli sociali della questione. Torniamo al punto di partenza: Renzi e i suoi hanno una cultura del tutto inadeguata alle domande che vengono dalla società.

Giulia Merlo intervista Luciana Castellina, limpida voce della migliore sinistra novecentesca e della speranza di un futuro alla sua altezza. «Il Partito comunista ha realizzato le cose migliori per questo paese. Ora c’è la morte: le periferie prima erano dense di vita collettiva e politica, oggi sono luoghi dove non c’è nulla». Il Dubbio, 11 luglio 2016

«Sinistra significa cercare ciò che nessuna rivoluzione è ancora riuscita a ottenere: coniugarel’uguaglianza con la libertà. Un obiettivo non ancora raggiunto, ma non vedo perché dovremmo rinunciare». E Luciana Castellina rinunciare non intende di certo. Figlia della generazione “giovane e bella” che ha visto sbocciare l’Italia repubblicana, è stata una protagonista della sinistra in tutte le sue forme: da politica come dirigente del Partito comunista, da intellettuale quando fondò Il manifesto, uscendo traumaticamente da quello che ancora oggi considera il suo partito, e ora da memoria storica, che guarda con disincanto dalla sua casa di Roma le macerie di una politica da rifondare.

Cominciamo dall’oggi. Guardando alla sinistra italiana, nel Partito Democratico di oggi vede una qualche eredità del suo Partito comunista?Il Partito Democratico non è l’eredità del Pci, è l’aborto. Pur con tutta la buona volontà, non vedo nulla di quella storia. Certo, quando giro per l’Italia incontro tanti bravi compagni, che sono rimasti uniti per quello che loro considerano ancora “il partito”, ma io mi chiedo quale partito. Il Pd non esiste come struttura partitica viva nel Paese.

Quella del Pci è una tradizione che è andata dispersa, quindi?
Il Partito comunista italiano è un cadavere che giace abbandonato. Con la costituzione del Pd è stata spezzata una storia, un orgoglio e una soggettività, e lo si è fatto in modo mortificante. Anche questo ha contribuito a far germinare la cultura dell’antipolitica e dell’individualismo, che stanno distruggendo l’idea stessa di democrazia.

L’ultimo portatore della tradizione comunista, forse, è Massimo D’Alema.
Mah. D’Alema è una figura bizzarra, perché non è parte del Partito Democratico ma continua a dimenarsi al suo interno, combinandone di ogni genere. Lo considero una persona intelligente, ma politicamente le ha sbagliate tutte.

Eppure il suo leader, il premier Matteo Renzi, è indubbiamente una figura carismatica che ha riportato il centro-sinistra alla guida del Paese.
Mi viene difficile definire di sinistra un Governo che sostiene che il Parlamento debba intralciare il meno possibile, che i sindacati siano da ammazzare e che la governance vada affidata a tecnici e a fantomatici “esperti”. Per quel che riguarda la leadership, un leader non può esistere senza un partito. La politica di oggi è uguale ai programmi televisivi, che ragionano solo in termini di auditel e che cambiano per incontrare il gradimento del pubblico. E’ un gioco di specchi: la politica coincide con l’opinione pubblica, che segue ciò che il potere costituito le induce.

Come dovrebbe essere, invece?
La politica è costruzione di senso, di un progetto e dunque di un soggetto consapevole. E qui incontriamo il problema sociale dei nostri tempi: la collettività, che non riesce a ritrovare il proprio protagonismo.

Lei ha vissuto gli anni più intensi della storia del Partito comunista e della sinistra italiana. Che cosa ricorda di quegli anni?

Il Partito ha vissuto una storia più ortodossa e una più eretica, che poi è stata la mia. Nell’insieme, però, tutto ciò che di buono si è ottenuto in questo paese viene dal Partito comunista italiano. Ricordo gli anni Cinquanta, difficilissimi e con lotte terribili, ma anche anni di costruzione e di grande entusiasmo. Poi gli anni Sessanta, in cui la sinistra italiana si è aperta alle correnti politiche e culturali internazionali, generando un dibattito vivace, sfociato poi nella bellissima stagione del 1968. In questi anni abbiamo combattuto per impedire il degrado del Pci, che si stava burocratizzando e arroccando nelle istituzioni e nei poteri locali, perdendo contatto con le lotte. Gli anni Settanta sono stati invece l’inizio della fine.

Ricorda quando ha preso la prima tessera del Pci?
Io mi sono iscritta nel novembre 1947, l’anno delle elezioni amministrative a Roma. Venivo dalle battaglie del partito a livello giovanile con il Fronte della gioventù, e a spingermi a prendere la tessera è stato un episodio di cronaca. In quell’anno un militante della Democrazia Cristiana venne ammazzato a piazza Vittorio, mentre attaccava dei manifesti. Dell’omicidio furono accusati tre ragazzi comunisti, arrestati e poi scarcerati, e fu forse la prima delle provocazioni di quel periodo di grandi contrasti. Non si scoprì mai chi uccise quel giovane, ma per me quello fu il segnale che i tempi belli del Dopoguerra e delle speranze erano finiti e che cominciava un periodo duro, di scontro anticomunista. Lì ho capito che non si poteva più solo simpatizzare ma bisognava impegnarsi completamente.

Quella è stata anche la stagione dei grandi leader di partito. Chi ricorda con più nostalgia?
Sicuramente Palmiro Togliatti. Fu un personaggio di statura straordinaria, di cui oggi non si parla più. Io l’ho conosciuto: parlava come un professore di liceo e scriveva in modo molto difficile, portava sempre un vestito blu a righe con il doppio petto e gli occhiali. Aveva tutto tranne che l’aspetto di un leader carismatico come lo intendiamo oggi, eppure la sua morte ha provocato il primo vero moto spontaneo e nemmeno previsto dei militanti del Pci. Un milione di persone si riversò a Roma per il suo funerale, una mobilitazione immensa che non si era mai vista, vent’anni prima di Berlinguer.

Un nome, quello di Enrico Berlinguer, che più di Togliatti è rimasto nella memoria collettiva della sinistra di oggi.
Berlinguer è stato fatto passare per una sorta di zio buono e un po’ scemo. In questo senso, l’informazione ha fatto un servizio terribile alla sua memoria. Per ciò che posso dire io, il giudizio migliore su di lui me lo diede una militante, che mi disse: «Parla così male che è assolutamente certo che dica la verità». Questo per dire come non era certo l’arruffapopoli che ad alcuni piace descrivere.

Com’è stato essere donna in un partito come il Pci?
Quando ferveva il dibattito sul voto femminile, la parte più retrograda del partito era contraria perché temeva che, dando il voto alle donne, queste avrebbero ascoltato il parroco e votato per la Democrazia Cristiana. Fu Togliatti ad imporsi, rivendicando il protagonismo politico femminile: il Pci ha consapevolmente costruito una soggettività delle donne, pur scontando un’origine culturale profondamente contadina.

Il Pci ha anche dato al Parlamento la prima donna Presidente della Camera...
Io ho apprezzato Nilde Iotti soprattutto nella sua fase politica precedente, perché poi la retorica l’ha trasformata in una specie di busto marmoreo. Lei invece ha diretto con grande intelligenza la sezione femminile del Pci e il suo merito è stato di avere il coraggio di essere una donna normale, senza travestirsi né da guerrigliera né da suora missionaria.

Lei però il Pci lo ha abbandonato, quando fondò Il manifesto insieme a Pintor, Rossanda e Parlato.
E’ stata una scelta drammatica per me, che ero iscritta al partito da 25 anni. Il nostro però non è stato lo strappo con un mondo, perché il nostro obiettivo era quello di rifondare il Partito comunista. Ricordo ancora lo slogan: volevamo «scioglierci in un rigenerato comunismo italiano».

Anche l’informazione, in Italia, è cambiata molto da quel 1971.
Sicuramente oggi i quotidiani mi annoiano molto più di allora. Oggi i giornali dovrebbero essere più difficili, non rincorrere facilonerie. Per le cose facili c’è internet, se compro un giornale vorrei che qualcuno mi spiegasse ciò che non capisco, invece di infarcire le pagine di banalità.



Tornando a parlare dell’oggi, Roma ha appena eletto la prima sindaca donnadel Movimento 5 Stelle e le periferie hanno definitivamente abbandonato lasinistra. Se lo aspettava?
Non mi ha meravigliato. Non nutro speranze su Virginia Raggi, ma del restonemmeno Gesù Cristo potrebbe risollevare Roma. Basta andare a vederle, quelleperiferie: prima erano dense di vita collettiva e politica, oggi sono luoghidove non c’è nulla. Questa città è cambiata in modo tremendo: se penso acom’erano le mie borgate, dove andavo a lavorare per il partito negli anniCinquanta! Erano luoghi tremendi, pieni di profughi, ladri, prostitute,affamati e analfabeti, ma fremevano di uno straordinario protagonismo che oggisi è completamente perso.

Eppure alcuni analisti vedono qualcosa del vecchio Pci nella struttura delMovimento 5 Stelle.
Falso, non bisogna confondere un partito di massa con il populismo. Il Pci eraun partito del popolo che riusciva a interpretare la propria storia per darleun senso popolare e non d’élite. I 5 Stelle, invece, credono che il popolosiano le poche manciate di persone che rispondono ai loro sondaggi su internet.

E nella sinistra italiana qualcosa si sta muovendo?
La società italiana è dinamica, i movimenti stanno riprendendo forza,soprattutto quelli che si occupano di immigrazione, e anche la rete deglistudenti di sinistra è una realtà meravigliosa. Si tratta, però, di unadimensione frantumata che va ricostruita, soprattutto dal punto di vista dellacomunicazione e della visibilità. Il vero obiettivo, però, rimane quello diriportare la gente ad amare la democrazia, ricominciando dall’Abc e riportandoi giovani alla politica, che significa prima di tutto pensare il mondo inrelazione all’altro e non a se stessi.

A proposito di democrazia, andrà a votare al referendum costituzionale diottobre?
Assolutamente sì. Andrò a votare, parteciperò ai comitati e voterò no, proprioin nome della cultura democratica di cui abbiamo parlato.

L’Europa è il tema del suo ultimo libro, Manuale antiretorico dell’UnioneEuropea, in cui analizza le origini ma soprattutto il futuro di questaistituzione. Lei che giudizio dà?
Anzitutto io credo sia necessario sciogliere un equivoco. L’Europa e la suaistituzione - prima la Cee e oggi l’Unione Europea- sono due cose moltodiverse. Si può amare molto l’Europa e detestarne invece l’istituzione. Delresto, che l’Ue fosse detestabile si vedeva già dalla sua costituzione, bastipensare che gli stessi federalisti della scuola di Altiero Spinelli ladisconobbero subito come loro creatura. L’Unione nasceva con l’ideale diimpedire le guerre nel continente, ma poi nel concreto divenne da subito partein campo della Guerra Fredda, coincise con la Nato e con l’armarsidell’Occidente. Per quanto riguarda un giudizio sull’oggi, l’Europa deltrattato di Maastricht e Lisbona è se possibile anche peggiore di quellainiziale.

La risposta è la Brexit, allora?
Certo che no. La Brexit nasce da una pulsione diversa, lo scetticismobritannico verso un’istituzione che viveva come riduttiva del suo ruolostorico. Inoltre in Gran Bretagna c’è stata una fortissima polemica delsindacato operaio contro un’Europa che avvertiva come responsabile di unattacco al welfare, cosa per altro storicamente falsa perché è stata MargaretThatcher a smantellarlo. Io credo che, nonostante tutto, una forma diistituzione europea vada mantenuta, perché necessaria come strutturapolitico-democratica che prenda le decisioni in un mondo sempre piùglobalizzato. In questo senso considero il ritorno alla sovranità nazionalecome una pura follia, e chi crede il contrario non sa di che parla. Rimaneresoli come stati nazionali significa cadere nell’oceano della globalizzazione evenire risucchiati.

E dunque che direzione dovrebbe prendere quest’Europa?
Io sono convinta però che la strada sia quella di creare macroregioni in cuiricostruire un meccanismo di controllo politico sull’Unione, il cui malemaggiore è che lascia le decisioni fondamentali agli accordi tra capitaleprivato e multinazionali, mentre gli stati sovrani si occupano solo di regolamentiapplicativi.

C’è un problema di democrazia, quindi.
Certo, e la Gran Bretagna ne è stata esempio. Lì abbiamo assistito a un votoantiestablishment e l’errore di chi governa è stato fare un referendum su untema assolutamente complesso, su cui si sono scaricate l’emotività e la nonconoscenza. La democrazia, però, non è questo: la democrazia deve essere colta,una struttura che nutre le articolazioni sociali e collettive e che dà aicittadini gli strumenti per capire che cosa sta votando.

Potrebbe essere questo il ruolo della sinistra europea, di cui da anni siparla come cuore di una futura forza riformista?
Willy Brandt diceva che il Partito socialista europeo è il miglior posto doveandare a leggere i giornali dei propri paesi. In pratica non conta nulla,perché è una formazione puramente formale. La vera responsabilità dellasinistra, però, è un’altra: non aver mai lavorato per una vera costruzione diun demos europeo. Per incidere sulle decisioni, infatti, sarebbe statonecessario costituire un soggetto politico-sociale, un’opinione pubblica chevalicasse i confini nazionali dei singoli stati.

«Il "primum vivere", che viene dalle teorie e pratiche originali del femminismo, trova paradossalmente nell’orizzonte chiuso di chi dice di non avere futuro, la sua spinta più forte e più convincente».

Comune-info, 10 luglio 2016 (c.m.c.)

Dell’ “erba voglio” si dice proverbialmente che non cresce neppure nel giardino de re. Eppure c’è stato un tempo, una stagione «breve, intensa ed esclusiva», in cui è comparsa nei luoghi più impensati: dalla scuola alle fabbriche, agli interni di famiglia.

Tra gli anni Sessanta e Settanta, nella fase di massima espansione della società dei consumi, che prometteva cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, due “soggetti” tenuti per secoli ai margini della storia – i giovani e le donne – hanno dato prova di una straordinaria «creatività generativa», destinata a cambiare il volto della politica e dell’idea stessa di rivoluzione.

Con loro hanno fatto ingresso nella polis le categorie del “desiderio” e della “felicità”, guardate con sospetto dalla sinistra parlamentare ed extraparlamentare perché ritenute meno materialistiche di quella del bisogno, e hanno aperto prospettive inedite al “tragico” dualismo che ha diviso e contrapposto privato e pubblico, individuo e società, natura e cultura, destino del maschio e della femmina.

Elvio Fachinelli, originale interprete del ’68, in un articolo uscito sui Quaderni piacentini nel febbraio dello stesso anno, così definiva il «desiderio dissidente»: una «diversa logica di comportamento rispetto al reale e al possibile, contrapposta alla logica del soddisfacimento dei bisogni fino allora dominante».

Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione.

Il venir meno dei confini tra vita e politica, anziché portare all’evidenza i nessi, che ci sono sempre stati, tra due poli astrattamente divisi dell’esperienza umana, sembra aver prodotto un amalgama difficile da districare, ma proprio per questo destinato a muovere resistenze, prese di distanza individuali e collettive.

A lasciare aperta la speranza è ancora una volta la lettura che Fachinelli fece dell’“utopia” di Walter Benjamin: «esigenze radicali», di cui si può dire che rappresentino in un particolare momento storico il «possibile attualmente impossibile», e che per questa stessa ragione si ripropongono nel tempo a venire, chiedendo risposte e soluzioni.

Che la crisi economica sia anche la crisi di un modello di sviluppo e di una civiltà che ha avuto come protagonista unico il sesso maschile, che la sessualità sia parte essenziale non riconosciuta della vita pubblica, dei suoi poteri, della sue istituzioni, dei suoi linguaggi, sono acquisizioni oggi presenti nelle coscienze di uomini e donne, più di quanto la generazione del ’68 potesse immaginare. Il «primum vivere», che viene dalle teorie e pratiche originali del femminismo, trova paradossalmente nell’orizzonte chiuso di chi dice di non avere futuro, la sua spinta più forte e più convincente.

Chi ha seguito un’altra logica, un altro ritmo, non può fallire e scomparire per sempre. Attualità e inattualità, presente e passato, continuità e imprevisto, intelligenza personale ed elaborazione collettiva, non ubbidiscono a «passaggi meccanici». Il rimando reciproco non è quello di causa-effetto e del discorso lineare, ma dei movimenti improvvisi, della frattura.

A tenerli insieme è la possibilità della “ripresa” aperta a nuove, impensate soluzioni. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce lo aspettiamo.

». Il manifesto, 9 luglio 2016 (c.m.c.)

Il rapporto tra poteri e resistenze è anche una partita tra luce e ombra. E non si tratta di stabilire una volta per tutte un primato tra i due ambienti, piuttosto di tracciare la loro reversibilità tattica. Ma se è vero che il controllo oggi si gioca sulla necessità di prevedere il comportamento di soggetti liberi e mobili, ciò significa che la luce su cui si fonda dovrà partire dai soggetti stessi. Da qui, forse, la necessità di un elogio dell’ombra, a quarant’anni da Sorvegliare e punire di Michel Foucault e a più di sessanta da L’uomo invisibile, unico romanzo compiuto di Ralph Ellison.

Sessant’anni potrebbero essere un tempo congruo per disperdere l’eco delle prime parole di quel libro. Eppure erano potenti, le note di un manifesto a venire, una new thing: «sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito?»

Poche frasi e la voce si localizza, facendo di un seminterrato l’indirizzo da cui recapitare un’autobiografia a ritroso destinata a insinuarsi di piatto nelle pieghe di un secolo tagliato a metà dalla linea del colore: «vivo abusivamente in un edificio affittato solo ai bianchi, in una sezione del seminterrato che fu interrotta e dimenticata durante il XIX secolo». Dove può abitare uno squatter nero, in un condominio per soli bianchi, se non nell’ombra? A ripensarci, Ellison è stato davvero lo scrittore dell’ombra.

Shadow and Act è il titolo della raccolta di saggi che seguirà, anni dopo, il primo lavoro – quando ormai il jazz era diventato il suo nuovo condominio, un condominio black, anche se sotto costante minaccia di sfratto, e prima che le 2000 pagine del secondo infinito romanzo bruciassero insieme al tentativo disperato di riscriverle. La questione però era sempre la stessa: la condanna a vivere nell’ombra che diventa possibilità di agire nell’ombra, magari indossando maschere ad hoc, come suggerirà in Black Mask of Humanity. Forse Ellison conosceva l’etimo latino di persona, che rimanda a phaersu, la maschera funebre etrusca, e probabilmente a per-sonare, il suono che passa attraverso una maschera comica, o l’ancia di un sax.

Anonimato mainstream

Due mesi fa un gruppo di ricercatori del Queen Mary ha annunciato di aver smascherato Banksy, membro non anonimo del popolo degli invisibili – schiera eterogenea che dal passamontagna del subcomandante Marcos arriva all’ombra accecante del famigerato Jihadi John, l’aguzzino di Daesh. Le modalità di cattura aggiornano un’«arte» antica, la caccia all’uomo: geo-localizzazione, incrocio di dati, macchie di calore, hot-spot che tracciano percorsi, frequenze, profili. E poco importa che finiscano per confermare vecchie ipotesi, un’inchiesta tradizionale di un tabloid inglese pervenuta allo stesso nome e indirizzo.

Piuttosto vale la pena chiedersi perché proprio Banksy. Lo spiega un articolo sull’Independent: «the academics made the unflattering comparison between Banksy’s street artwork and acts of criminal vandalism». Certo, Banksy è un tagger, mainstream ma pur sempre vandalo. Si è trattato dunque della prova generale di una app da lanciare altrove, nel mare magno del mercato della sicurezza.

Da oggi, si annuncia, vandali, tagger ma anche molestatori oltre ovviamente a criminali e potenziali terroristi non avranno più ombra: nessuno bacerà o ucciderà nell’ombra. La stagione degli uomini invisibili sembra alle nostre spalle. Va detto però che «invisibili», in origine, nel diritto internazionale, erano gli undocumented, soggetti divenuti tali per aver perduto ogni nazionalità: in Grecia e Turchia all’inizio del Novecento, dappertutto nell’Europa a cavallo tra le due guerre, a milioni sotto il Reich e poi ancora nel dopoguerra, per esempio tra gli «sciavi» in Friuli.

La lista si potrebbe aggiornare, se non fosse che gli undocumented di oggi, una volta varcata una linea di fuga, finiscono per lo più sotto i fari di una motovedetta, un molo, una frontiera spinata. E qui diventano visibilissimi, pressoché trasparenti, attraverso hot spot (ancora), bodyscanner, rilevamenti biometrici e schedature che confluiscono in database sigillati in acronimi à la Russolo, come Sis-Eurodac. Per inciso, l’ultimo intervento di Banksy, quando ancora era invisibile (una Marianne avvolta da lacrimogeni con alle spalle un tricolore lacerato), puntava contro lo sgombero della invisible jungle di Calais e la schedatura e la deportazione degli invisibili in centri panottici.

Vite in fuga

Vale la pena chiedersi che fine abbia fatto oggi l’uomo invisibile, se si può ancora scrivere, oltre che leggere, un libro così. I suoi discendenti li ritroviamo per esempio a Philadelphia, accompagnati giorno e notte da Alice Goffman nelle pagine di On the run. Fugitive lifes in an American City per riscoprire, nelle evoluzioni statiche della linea del colore, cosa significhi avere sempre e ovunque i fari puntati addosso: animali in una riserva, prede braccate senza possibilità di ombra o di fuga e con una probabilità su 4 di finire in galera. E allora occorrerebbe chiedersi anche cosa significhi fuggire nell’epoca dei Gps, di segnali agganciati a celle satellitari, nei giorni di una caccia all’uomo che dalle tracce analogiche (un’impronta, una piuma) passa alle scie digitali che ognuno si lascia alle spalle. E magari rendersi conto che road movies come Thelma e Louise o Blues Brothers oggi non durerebbero più di un quarto d’ora, forse anche a Molenbeeck.

In queste pieghe l’invisibilità sembra svanire e lo smascheramento, consapevole o meno, volontario o meno, è all’ordine del giorno. Se la psicoanalisi, quella più easy, segnala che l’individuo «ipermoderno» (narciso/cinico/desiderante) è mosso da un’irrefrenabile pulsione scopica e narrativa (e non serve fare i nomi dei dispositivi social che la innervano), questo soggetto traslucido non lo troviamo solo seduto davanti al rumore bianco di uno schermo ma dappertutto, nelle maglie larghe di un controllo giocato sulla luce e la prevedibilità. In gioco sembra essere la possibilità di abitare i due millimetri che separano una maschera dalla pelle: una parte nascosta, sotto la superficie, che si potrebbe chiamare diritto all’invisibilità ma che è soprattutto ombra, spazio sottratto alla luce.

Chi ha letto Il cerchio di Dave Eggers (un «castello» poco kafkiano e di vetro che vale per google e in cui si dettano gli imperativi morali di una società trasparente), anche a costo di una letteralità lontana dalla scrittura di Ellison si sarà fatto un’idea delle scarse possibilità di recuperare quei due millimetri, la distanza rispetto a soi meme, espressione forse di un’altra verità, mai adiacente e identica, che diventa occasione per de-soggettivarsi, «strappare il soggetto a se stesso». Resterebbero i meandri del deep-web, ma anche lì finiremmo per scoprire che molti hacktivisti, sbandierando la trasparenza come obiettivo e la rivelazione come strategia, adottano strumenti (malware, trojan) e procedure di data-mining analoghi ai cookies di Google e del mercato estrattivo dei big-data o alle logiche di controllo di programmi governativi come Prism.

Invisibilità tattica

Certo, in questi casi un intero regime di visibilità appare ribaltato, e tra le fila di Anonymous è possibile scorgere un’invisibilità tattica che riconduce a Ellison ricordandoci come il conflitto sia sempre mimetico. Resta però un isomorfismo di fondo: il fatto che in tutti i casi (per rivelare o per controllare) le maschere saltano, l’ombra si ritrae e la luce trionfa. Si tratta di una luce che scaturisce per lo più dai soggetti stessi, che induce e soprattutto seduce. E anche qui vale la pena non farsi abbagliare: il prefisso «se-», più che a un immediato gesto riflessivo (se-ducere sta per condurre fuori) rimanda a un movente che origina dal soggetto e lo spinge a competere in primo luogo con se stesso. Del resto l’auto-imprenditorialità, cardine della sharing economy, la ritroviamo ovunque, da airbnb ai makers, e ci restituisce le traiettorie di una soggettività «dividuale», all’incrocio di profili, punti accumulati, in costante competizione e soprattutto trasparente.

«La piena luce e lo sguardo captano più di quanto facesse l’ombra, che alla fine proteggeva.» Sono quaranta gli anni che ci separano da Sorvegliare e punire, percorso che riannoda i fili di tecnologie immanenti che producono corpi docili, imprigionati in anime indotte a credere di essere sempre sotto i fari di uno sguardo disciplinante. Reclusi e osservati in una stanza: la famiglia, la scuola, l’ospedale, la prigione, la fabbrica. Gilles Deleuze ha detto che non siamo più (solo) così. E mentre videocamere e guinzagli elettronici avvicinano l’idea di un individuo portatore del proprio assoggettamento, diverse pareti saltano: l’impresa ha sostituito la fabbrica, il self-care l’ospedale, l’(auto)valutazione l’esame. Lo sguardo incorporato dello schema di Jeremy Bentham (quello del Panopticon) si fondava sull’inverificabilità, ma proveniva da una torre visibile, oggettiva, altra da sé.

Lo spazio del buio

Oggi quello sguardo sembra partire dai soggetti stessi, da dati, tracce e profili autocostruiti prima ancora di venire aggregati e messi a valore dagli algoritmi del capitale. Se governare attraverso la libertà è la bussola neoliberale, una simile libertà è fatta di luce, irretita nelle trappole della visibilità. Ed è sempre il soggetto la posta in palio: che cosa stiamo diventando?

Sulla scia di Kant e dell’Aufklarung Foucault si chiedeva soprattutto questo. In tempi di anime al lavoro, farsi carico del peso dei lumi significa vedere cosa può succedere dalle parti del buio: contro la piena luce di un’esibizione di sé, coatta o meno, sondare lo spazio di agibilità consentito dall’ombra. Edouard Glissant rivendicava il diritto all’opacità come principio di non identità rispetto a ogni sguardo o modello trasparente. Si dovrebbe partire da qui per trovare un antidoto ai fasci di luce che presidiano le professioni di sé e i confini del presente.

». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)

Quando mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico (ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo entourage).

Gli sconquassi sono molti ma uno li riassume tutti e sta nella stessa concezione della politica sottostante alla riforma Renzi-Boschi. Essa, infatti, non è una semplice (ancorché brutta) operazione di ingegneria istituzionale ma un intervento che incide profondamente e negativamente sul senso della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla struttura della democrazia. Partiamo, dunque, da qui.

Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una collettività.

Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini.

Non a caso essa venne approvata, pur all’esito di un dibattito a volte aspro, con 453 voti favorevoli su 515 e non ebbero ricadute sul patto costituzionale neppure la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del 1947, come sottolineò, nella dichiarazione di voto per conto del Partito comunista, l’onorevole Togliatti precisando che: «noi siamo fuori del Governo ma dentro la Costituzione».

Questa impostazione ha guidato tutti i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».

Tutt’altro il disegno che ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).

Non è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra, le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi, dall’esito referendario.

Ora, anche con il supporto di una inedita campagna mediatica, si persegue la chiusura del cerchio di un progetto nato agli albori della cosiddetta seconda Repubblica su iniziativa di forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve, infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco Miglio, la teorizzazione secondo cui «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà.Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze» (L’indipendente, 25 marzo 1994).

Oggi quel progetto si realizza e la Costituzione si trasforma da “casa di tutti” in “attico per alcuni”, legge di parte, “bottino di guerra” dei vincitori. Ciò – è bene sottolinearlo – porta con sé la delegittimazione della rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto come regola della democrazia, un modello di società divisa e disuguale in cui non c’è posto per gli sconfitti.
L’effetto inevitabile è una società disgregata, senza punti di riferimento comuni (in particolare nei momenti difficili, quando i governanti invocano l’unità del paese…), in cui viene travolto nei fatti anche il principio di uguaglianza previsto nell’articolo 3 della Carta (che non può fondarsi sulla prevaricazione del più forte).

». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)

Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: «ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….»E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).

Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.

Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni – che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).

E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere.

Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.

E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente.

Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.

In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.

Formiche.it, rilanciata dal Coordinamento Democrazia Costituzioanle online. 6 luglio 2016 (p.d.)


Prof. Pace, lei è il Presidente del Comitato per il No alla Riforma Costituzionale. Chi fa parte di questo comitato oltre a lei?
Giuristi come Gianni Ferrara, Lorenza Carlassare, Massimo Villone, Giuseppe Ugo Rescigno, Mauro Volpi, Gaetano Azzariti e Francesco Bilancia; magistrati come Domenico Gallo, Armando Spataro, Giovanni Palombarini e Nicola D’Angelo; sindacalisti come Alfiero Grandi e Mauro Beschi; ex parlamentari come Francesco Pardi, Vincenzo Vita, Giovanni Russo Spena. Successivamente si sono aggiunti ex giudici costituzionali come Franco Bile, Riccardo Chieppa, Gustavo Zagrebelsky e Paolo Maddalena; politologi come Gianfranco Pasquino, Michele Prospero, Nadia Urbinati e Maurizio Viroli; storici di discipline umanistiche come Nicola Tranfaglia, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Salvatore Settis, Marco Revelli e Tomaso Montanari; filosofi come Gianni Vattimo, Girolamo Cotroneo e Giuseppe Rocco Gembillo; fisici come Piergiogio Odifreddi, Giorgio Parisi e Giorgio Nebbia; registi cinematografici come Giuliano Montaldo e Citto Maselli; attori come Monica Guerritore, Toni Servillo e Moni Ovadia; un attore-autore come Dario Fo, e infine due sacerdoti impegnati nel sociale come don Luigi Ciotti e don Alex Zanotelli.

E cosa vi ha spinti a compiere questa scelta?

Ciò che ci ha spinti a questa scelta è stata la difesa dei principi della nostra Costituzione, che con questa riforma verrebbero travolti, in quanto essa va ben oltre alla modifica della seconda parte.

Secondo alcuni, i sostenitori del No sono dei conservatori. Persone che vorrebbero impedire che questo paese venga riformato. È così? Si ritrova in questa descrizione?
Niente affatto! Un filosofo indiano, Inayat Khan, molti anni fa, scrisse che non tutto quello che viene dopo, è progresso. E la riforma Boschi costituisce complessivamente un regresso rispetto alla Costituzione del 1947. E’ una riforma pasticciata: 1) perché i senatori, nella falsa ed infondata pretesa di rappresentare gli enti territoriali minori – che si potrebbe avere soltanto negli Stati federali – , svolgerebbero part-time sia le funzioni di consiglieri regionali o di sindaci, sia quelle di senatore, ancorché le funzioni del Senato siano notevoli e impegnative; 2) perché i tipi di procedimento legislativo, dagli attuali due, diventerebbero almeno otto, con notevoli rischi di contrasto tra Camera e Senato; 3) perché la distribuzione delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni, oltre ad essere fortemente sperequata a favore dello Stato, è piena di errori e di dimenticanze con riferimento anche a materie importanti; 4) perché, in prospettiva, grazie all’Italicum – che della riforma costituzionale ha costituito il perno -, il Presidente del Consiglio, con il Senato ridotto ad un ombra, avrebbe il dominio incontrastato dei deputati in parte da lui stesso nominati, con un implicito e strisciante ridimensionamento degli organi di garanzia.

Arriviamo alla sostanza della questione: la riforma della Costituzione. Nel testo “la Costituzione Bene Comune” lei dà un giudizio molto severo dell’operato di questo Parlamento. Cita la sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale e il “principio fondamentale della continuità dello Stato”. Lei sostiene che questo Parlamento non era legittimato a intraprendere un percorso di riforme come quello messo in atto con Renzi?
Non lo dico io. Lo ha scritto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 1 del 2014 – che la legge n. 270 del 2005, il così detto Porcellum, era incostituzionale perché la governabilità veniva assicurata a danno della rappresentatività.

L’intendimento della Consulta in quella sentenza era chiaro: le Camere, ancorché delegittimate, avrebbero potuto e dovuto approvare al più presto le nuove leggi elettorali, non già in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, ma in forza del «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato», e subito dopo avrebbero dovuto essere sciolte. Invece, le Camere hanno continuato ad operare. Anzi, nonostante non fossero rappresentative, venne loro affidato, grazie all’allora Presidente della Repubblica, e soprattutto al PD (con il nuovo segretario privo di mandato elettorale) e a Forza Italia, il compito più oneroso che possa essere attribuito ad un’assemblea politica: la “riforma” della Costituzione. Un vero e proprio azzardo perché la Consulta, aveva fatto capire, con due esempi, che il «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato» può operare solo per brevi periodi di tempo. La Consulta citò infatti gli articoli 61 e 77 della Costituzione, i quali consentono bensì la prorogatio delle funzioni dei parlamentari in caso di scioglimento delle Camere, ma tutt’al più solo per un paio di mesi di tempo.

Chi ha sbagliato allora, il Presidente della Repubblica o la Corte Costituzionale nel non intervenire?
È ben vero che all’inizio del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco. Ma per evitare questo pericolo sarebbe stato sufficiente soprassedere, per il momento, allo scioglimento delle Camere. Invece si è messa in cantiere una riforma costituzionale da parte di un Parlamento delegittimato, con parlamentari insicuri del proprio futuro e quindi pronti a cambiar casacca. Il che è appunto accaduto, essendoci state ben 325 migrazioni, se non di più, da un gruppo parlamentare ad un altro. La responsabilità ricade in effetti sia sull’allora Presidente Napolitano – che la Ministra Boschi ha ripetutamente omaggiato come il “padre della riforma” -, sia sul Presidente del Consiglio Renzi, sia infine, come Lei suggerisce, sulla Corte costituzionale, anche se ipotizzo che ci sia stato un tempestivo intervento del Quirinale per evitare pubbliche prese di posizione da parte dell’allora Presidente della Corte costituzionale.

Torniamo un momento indietro. La riforma della Costituzione riguarda la modifica del ruolo e delle funzioni del Senato, primariamente. Quali sono gli aspetti tecnici che valuta negativamente?
Sono svariati. In primo luogo, la violazione dell’articolo 1 della Costituzione, secondo il quale il fulcro della sovranità popolare sta nell’elettività diretta negli organi legislativi, come sottolineato dalla stessa Consulta nella sentenza citata, laddove i senatori verrebbero eletti non dal popolo bensì dai consigli regionali. E poi c’è tutta una serie di scelte irrazionali.

E dove sono, secondo lei, le ambiguità, le scelte irrazionali o le fratture che hanno spinto alcuni, come il prof. Zagrebelsky, a parlare di una “democrazia svuotata”?

In primo luogo, nonostante l’importanza e la quantità delle loro funzioni, i senatori dovrebbero nel contempo esercitare le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. In secondo luogo, la eccessiva differenza tra il numero dei deputati (630) e quello dei senatori (100), con la conseguenza dell’assoluta irrilevanza della presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. L’incongruità della nomina da parte del Presidente della Repubblica di cinque senatori per un periodo corrispondente alla durata del suo mandato. La sproporzione tra i due giudici costituzionali eletti dai 100 senatori e i tre giudici costituzionali eletti dai 630 deputati, con la conseguenza che l’elezione selettiva da parte del Senato potrebbe rischiare di introdurre nella Corte una logica corporativa.

Ma le ragioni per le quali si è giustamente parlato di democrazia svuotata stanno solo in parte nell’eliminazione del Senato come possibile contropotere. Esse stanno altresì nella mancata previsione di contropoteri in capo alle opposizioni, come la previsione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata, che in Germania esiste sin dalla Costituzione di Weimar. Nella riforma Boschi essa costituì l’oggetto di più emendamenti che non furono accettati dal Governo. Ma c’è di più: nella riforma Boschi i diritti delle minoranze parlamentari e lo statuto delle opposizioni sono rimessi ai regolamenti parlamentari che, com’è noto, devono essere approvati dalla maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea.

Se dovesse citare solo pochi aspetti concreti, diciamo due, per dire che è importante e giusto votare no alla riforma costituzionale, quali sarebbero?

Il pericolo maggiore, già accennato in precedenza, sta nella combinazione della riforma Boschi con l’Italicum, grazie alla quale il leader del partito vittorioso, anche con solo il 25 per cento dei voti, sarebbe, di fatto, un “premier assoluto”. Ma quand’anche, prima del referendum, venisse modificata la legge elettorale attribuendo il “premio di maggioranza” (sic!) alla coalizione vincitrice anziché al partito, l’atteggiamento critico nei confronti della riforma non cambierebbe, non solo per quanto detto in risposta alla precedente domanda, ma anche perché il Senato, così come disegnato, non funzionerebbe.

Perché?
Il futuro articolo 55 proclama che il Senato rappresenterebbe le istituzioni territoriali, ma le funzioni elencate in quell’articolo sono del Senato non in quanto rappresentante delle istituzioni territoriale, ma in quanto organo dello Stato (funzione legislativa, partecipazione alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea ecc.). Inoltre la partecipazione del Senato alla funzione legislativa, sia quella bicamerale, sia quella eventuale concernerebbe soltanto gli aspetti organizzativi. Per cui, nei rapporti dello Stato con le Regioni, le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato verrebbero disciplinate dalla sola Camera dei deputati.

La riforma della potestà legislativa nel rapporto Stato-Regioni è talmente sbilanciata a favore del potere centrale, da potersi addirittura prospettare la violazione dell’art. 5 Cost. che riconosce e tutela le autonomie locali. Le cinque Regioni a statuto speciale resterebbero immuni dalle modifiche della legge Boschi e di conseguenza ad esse non si applicherebbero gli indicatori del “costi-standard”, il che determinerebbe, nel sistema, una gravissima contraddizione di fondo. Per contro, le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, ingiustamente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato-Regioni. Verrebbero invece previste due potestà legislativa esclusive: una dello Stato in ben 51 materie e l’altra delle Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative.

Materie tipiche di ogni assetto autonomistico, quali la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo, verrebbero attribuite allo Stato ma al solo fine di dettare «disposizioni generali e comuni», senza però attribuire a chicchessia, e quindi nemmeno alle Regioni la relativa potestà di attuazione. E materie importanti come la circolazione statale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’attività mineraria, le cave, la caccia e la pesca non sono state attribuite esplicitamente né allo Stato né alle Regioni, il che costituisce più il frutto di una dimenticanza che di una consapevole ma implicita scelta in favore delle Regioni.

Recentemente il Ministro Boschi è stata a Berlino per parlare alla sede della Konrad-Adenauer Stiftung, associazione vicina alla CDU di Angela Merkel. Ha raccontato di uno sforzo per avere un Senato simile a quello tedesco. Ravvede queste somiglianze?

Nessuna. Nel Bundesrat sono infatti presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder, preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871. I Länder, per il tramite di loro rappresentanti (uno o più), hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione.

Abbiamo già accennato a un aspetto importante, che molti esponenti del vostro Comitato sottolineano, cioè il combinato disposto con la legge elettorale. Perché si deve parlare della legge elettorale, se il Referendum di ottobre sarà sulle modifiche al Senato?

Perché, grazie alla legge elettorale denominata comunemente Italicum – che ripete i due vizi per i quali il Porcellumfu dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 1 de 2014, cioè il voto “bloccato” limitatamente ai capilista e premio di maggioranza assegnato, a seguito di ballottaggio, alla lista più votata ancorché abbia raggiunto anche solo il 25 per cento – il partito di maggioranza otterrebbe 340 seggi alla Camera dei deputati. Conseguentemente si avrebbe, da parte dell’elettorato, un’investitura quasi-diretta del leader del partito alla Presidenza del Consiglio, come ho già accennato. Il nostro ordinamento si orienterebbe perciò, di fatto, verso un “premierato assoluto”, non già grazie a particolari poteri ma in conseguenza dell’assenza di adeguati contro-poteri, come ho già avvertito.

Quali sono gli scenari che lei immagina per il Referendum di ottobre? Se vince il Sì davvero il Paese rischia una deriva autoritaria? Se vince il No, Matteo Renzi e una intera classe dirigente dice che lascerà la politica, e per Benigni significherà che questo Paese è irriformabile.
Ritengo eccessivo sostenere che con la vittoria del Sì ci sarebbe di per sé una svolta autoritaria. Certamente però la riforma porrebbe in essere i presupposti necessari perché un politico spregiudicato possa ridurre gli spazi di democrazia delle istituzioni repubblicane. Renzi ha sbagliato a condizionare la sua permanenza alla vittoria nel referendum di ottobre. E’ un tentativo di ricatto al quale gli elettori non devono soccombere. Ma costituisce l’ovvia conseguenza dell’azzardo dell’allora Presidente della Repubblica e dell’attuale Presidente del Consiglio, di aver voluto iniziare un percorso costituzionale in una Legislatura, come la XVII, notoriamente delegittimata, un azzardo tanto più sbagliato in quanto l’iniziativa della riforma costituzionale è stata del Governo, e non del Parlamento, con tutte le numerose storture procedurali che ho già ripetutamente denunciato altrove.

Quanto a Benigni, non credo che abbia chiara la distinzione tra revisione costituzionale e riforma costituzionale, ma sono d’accordo con lui che la nostra Costituzione non può essere modificata con riforme. Potrebbe esserlo ma solo con le revisioni costituzionali previste dall’art. 138 della Costituzione. Queste, a differenza delle riforme, concernono infatti soltanto le modifiche puntuali e omogenee della Costituzione a fronte delle quali l’elettore è libero di dire Sì o No. Le riforme concernono invece la modifica contestuale di varie parti della Costituzione, come la riforma Berlusconi che fu bocciata dal popolo nel 2006, e come la riforma Boschi, la cui intitolazione è significativa: «Superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del CNEL e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione».

A parte il fatto che l’intitolazione della legge Boschi è addirittura parziale, perché tace, tra l’altro, delle modifiche del procedimento legislativo e dell’elezione dei giudizi costituzionali, è del tutto evidente che, a fronte delle modifiche indicate, l’elettore sarà costretto a rispondere con un solo Si o No, il che viola la libertà di voto, che costituisce uno dei principi fondamentali del nostro sistema costituzionale. Ad esempio, io voterò No, ma con riferimento all’abolizione del CNEL, se avessi potuto, avrei votato Sì.

Quindi…
In conclusione, la mia personale convinzione, da tempo maturata, è che, se si vogliono effettuare dei cambiamenti costituzionali partecipati dalla maggioranza dei cittadini, ci si dovrebbe limitare a proporre solo modifiche puntuali ed omogenee, quali la diminuzione bilanciata del numero dei deputati e dei senatori; l’attribuzione alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col Governo; la trasformazione del Senato in una effettiva camera territoriale; l’attribuzione alla Corte costituzionale del giudizio sull’incompatibilità e sull’ineleggibilità dei parlamentari; l’introduzione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata; l’abolizione del CNEL e così via.

L'intervento che l'autore non ha potuto svolgere alla riunione della Direzione del suo partito, il PD. Un'ulteriore, splendida analisi delle ragioni per cui il partito di Renzi è quello che è. In calce il mio commento (e.s.).

Di seguito l'intervento che avevo preparato per la Direzione del PD sull'analisi del voto. Purtroppo non è stato possibile pronunciarlo all'assemblea del 4 Luglio 2016.(W.T.)

C'è un aspetto surreale della nostra campagna elettorale; mai si era visto finora un partito impegnato in due diverse consultazioni popolari. Mentre i candidati e i militanti combattevano nelle città, il PD nazionale si mobilitava per un referendum che si terrà in una data imprecisata. La sovrapposizione non ha portato voti, ma ha contribuito a unire gli avversari. L'anticipazione del referendum sembrava un tentativo di oscurare le amministrative, perché non turbassero la narrazione del leader vincente. Meglio sarebbe stato provare a vincere nelle città con l’impegno del leader.

All’assemblea romana del PD, prima del ballottaggio, proposi di rafforzare Giachetti nelle periferie affiancandolo con Renzi, che così avrebbe potuto spiegare al popolo il “cantiere sociale” di cui ci ha parlato oggi. Sulla mia proposta calò il silenzio imbarazzato dei dirigenti locali. Mi rispose un giovane renziano sostenendo che la presenza del segretario ci avrebbe fatto perdere voti. C’è voluto il candore giovanile per svelare il problema politico delle amministrative.

È un errore di provincialismo continuare a sottovalutare il voto nelle storiche capitali italiane: Torino, Napoli e soprattutto l’umiliante sconfitta di Roma. Se ne è parlato sui giornali di tutto il mondo, ma qui si fa finta di niente; la lunga relazione introduttiva ha glissato e anche Orfini ha parlato in generale, dimenticando il ruolo di Commissario del PD romano. L'unica menzione è nel triste riferimento sessista di De Luca alla sindaca Raggi.

Nella campagna elettorale alcuni hanno hanno preso sul serio la priorità referendaria, fino a promettere la riforma del bicameralismo a quei cittadini che chiedevano pane e lavoro. E come biasimarli, d’altronde? Da tanto tempo i politici che non sanno governare il Paese attribuiscono la colpa alla Costituzione. L’ossessione ormai trentennale nel modificare la Carta non trova paragoni in nessun paese occidentale, è una patologia solo italiana. È stato il sogno della nostra generazione, ha ricordato Franceschini; direi meglio, è stata la fuga onirica dalla realtà del Paese. La nuova generazione doveva cambiare verso e invece scopiazza maldestramente i progetti di Aldo Bozzi, di Ciriaco De Mita e di Massimo D’Alema. Si adottano vecchie soluzioni ormai travolte da nuovi problemi. Si applica il modello Westminster quando il bipolarismo non funziona più in nessun paese europeo. Si concentrano i poteri sui governi, proprio mentre perdono la fiducia dei cittadini e non vengono quasi mai rieletti. Si aumentano i premi di maggioranza per compensare gli elettori che non votano, così voteranno sempre di meno.

Con l’Italicum e la revisione costituzionale viene meno la saggezza, sia nella politica che nelle istituzioni. Si crea la possibilità di un leader aggressivo che, con il sostegno del 20% dei cittadini, arrivi a conquistare il banco e modificare le regole fondamentali.

Si poteva fare meglio? Certo, seguendo un percorso diverso. Poco fa abbiamo rivisto sullo schermo il discorso di Napolitano al Parlamento per la sua rielezione. Quel giorno c'ero e non l’ho applaudito. Perché trasferiva in una crisi costituzionale quella che era invece una crisi politica del Pd, incapace di eleggere il suo fondatore al Quirinale. Si doveva tornare al voto al più presto, approvando la nuova legge elettorale basata sui collegi, c’erano anche i numeri alla Camera e al Senato. Invece si avviò la revisione costituzionale per legittimare governi sprovvisti di mandato popolare e per tenere in vita un Parlamento eletto con legge incostituzionale.

Le Costituzioni non devono scriverle i governi, altrimenti durano poco e alimentano la discordia nazionale. Era già accaduto nel 2005 con la destra, e nel 2000 con la sinistra. Avevamo promesso di non farlo più, ma ripetiamo l’errore.

Voterò No al referendum per aprire la strada a una riforma più saggia e più condivisa. E per cambiare le priorità, nonché l'asticella del leader.

Il Presidente del Consiglio non dovrebbe drammatizzare l’esito referendario. Da troppo tempo si creano emergenze artificiose per imporre scelte sbagliate. Invece, il segretario fallirebbe il suo compito se non riuscisse a cambiare il Pd come aveva promesso nelle primarie.

La crisi italiana non dipende dall'ingegneria istituzionale, ma dalla sfiducia nei partiti. La prima riforma costituzionale è la riforma della politica. Proprio con questa ambizione avevamo fondato il PD, ormai quasi dieci anni fa. Possiamo dire di aver realizzato le speranze di allora?

Avevamo immaginato il partito degli elettori, ci ritroviamo il partito degli eletti. Volevamo costruire una moderna forza popolare, siamo stati spiantati dalle periferie italiane. Volevamo rinnovare la classe dirigente, non abbiamo candidati vincenti nelle grandi città.

Il PD che sognammo non è mai nato, è cresciuta invece una filiera di notabili, chiusa in se stessa, senza anima e senza progetti. Quando amministra bene, come a Torino, non riesce a rappresentare né le speranze né i lamenti della gente. Quando delude gli elettori, come a Napoli e a Roma, non ha né l’umiltà né il coraggio per riconquistare la loro stima. Dopo Mafia Capitale bisognava dimostrare di aver capito la lezione. Almeno l’umiliazione si poteva evitare, promuovendo una lista civica del centrosinistra, mettendo a disposizione le nostre forze migliori per ricostruire una classe dirigente competente e autorevole. Invece, il ceto politico locale ha conservato se stesso e ha puntato l’indice sui circoli, mortificando i militanti e scambiando gli effetti con le cause.

Eppure dovremmo essere orgogliosi del volontariato, dell’impegno civile e del buongoverno di tante democratiche e democratici. C’è voluta una rivista americana per valorizzare il capolavoro del nostro sindaco di Riace che ha rigenerato il centro storico accogliendo i migranti. Le migliori risorse del Pd non sono ancora state messe a frutto.

Se non abbiamo realizzato quel sogno di dieci anni fa, nessuno qui può sottrarsi alla responsabilità: né i dirigenti attuali, né quelli precedenti. Riconoscerlo sinceramente aiuterebbe a superare una dialettica interna spesso ripetitiva e propagandistica. Nessuno di noi può essere contento di come funziona questa assise. La minoranza si sente inascoltata e reitera le sue critiche, le quali servono alla maggioranza per compattarsi in un velleitario Avanti Savoia, eludendo l’onere di un’autonoma spiegazione delle cose che non vanno. Temo un congresso che aggiunga solo le percentuali a un conflitto sterile. Meglio sarebbe un compromesso generativo. Sì, proprio compromesso, la bella parola dei grandi politici, tanto vituperata dai piccoli politici. E generativo di ambizioni e di impegni condivisi.

Primo: costruire il partito come luogo della cittadinanza attiva, della cultura delle riforme e dell’educazione dei giovani. Secondo: riconquistare la fiducia popolare con nuove politiche sociali per il lavoro e l’eguaglianza. Terzo: prendere la guida della malmessa sinistra europea, non solo con le ottime iniziative nel Parlamento europeo e della diplomazia governativa, ma con una mobilitazione culturale e sociale nel continente.

Oggi il PD è la forza che può cambiare l’Italia, influire sull’indirizzo europeo e contribuire alla pace nel mondo. La responsabilità che portiamo sulle spalle è enorme. Siamo orgogliosi delle buone cose realizzate, ma consapevoli che dobbiamo cambiare noi stessi per essere all’altezza del compito. Lo dico agli amici della minoranza, non è tempo di chiudersi in una riserva. Lo chiedo alla maggioranza, non è tempo di vivere sugli allori. Tutti insieme dovremmo rivolgerci agli elettori e ai militanti che ci hanno abbandonato per comprenderne le ragioni. Il primo passo spetta a Matteo Renzi, domandando prima di tutto a se stesso che cosa non ha funzionato. I leader nascono con le proprie certezze, ma diventano grandi attraversando il dubbio dei vincitori.

il commento che ho rilasciato sul blog di Walter Tocci:

Caro Walter, ancora una volta ti declino il mio pensiero, a partire dall’incipit di Dora Markus: “non so come stremato tu resisti” in questo lago di nefandezze politiche che tu da anni analizzi con rarissima lucidità e palese sofferenza. Non so come stremato resisti a coprire, con la tua presenza, la politica di una ex sinistra ormai interamente riplasmata, in ogni sua molecola, dal morbo del neoliberismo. Non so, e perciò soffro. Con affetto e.s.


«». Il manifesto, 7 luglio 2016 (c.m.c.)

Si è concluso a Roma il convegno internazionale su Globalizzazione e diritti fondamentali, organizzato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco a 40 anni dalla Dichiarazione dei diritti dei popoli, sottoscritta ad Algeri. Giustizia ambientale, finanziarizzazione dell’economia, ruolo dei media e delle reti sociali sono stati i temi in discussione nella giornata conclusiva, moderata da Nicoletta Dentico. Problemi, convergenze, sguardi antichi e nuovi saperi condivisi per ricostruire la cittadinanza del Terzo millennio e prospettive di cammino su questioni di rilevanza globale e nazionale.

La Dichiarazione di Algeri è tutt’ora attuale anche se l’imperante retorica sui diritti umani serve a nascondere iniquità e asimmetrie, imposte anche attraverso le istituzioni internazionali che quei diritti dovrebbero tutelare. «L’imperialismo – scriveva Lelio Basso nel preambolo alla Dichiarazione di Algeri – può sopravvivere solo imponendo un regime di schiavitù a paesi che gli offrono possibilità di realizzare i profitti che gli sono essenziali per un continuo sviluppo». E perciò: «Solo combattendo il sistema, lottiamo di fatto contro la causa delle violazioni».

Parole capovolte e contraffatte nell’ingombro di informazioni interessate che producono «un basso livello di verità» e portano – ha sottolineato l’economista indiana Mary E. John – a non vedere che «l’80% dell’abbigliamento mondiale si produce nei paesi del sud, dove lo sfruttamento della manodopera è più feroce». Una situazione in cui «partiti xenofobi possono presentarsi come falsi paladini della sovranità dei popoli».

Proprio in un contesto simile, «colpisce la capacità di anticipazione della Dichiarazione di Algeri nell’aver colto il carattere dell’oppressione neocoloniale: forse persino più brutale di quella, diretta ed esplicita, coloniale», ha detto Luciana Castellina. E cioè di aver colto e denunciato «la nuova violazione contro l’autonomia dei popoli, esercitata attraverso il capitale finanziario, multinazionale, gli accordi commerciali funzionali all’imposizione di un modello sociale, economico, politico devastante sul piano ecologico, ma gradito all’Occidente».

La Dichiarazione di Algeri – ha ricordato Gianni Tognoni – rifiutava di accettare l’«espulsione» dei soggetti portatori di diritti inalienabili (popoli e individui) dal loro ruolo di protagonisti, «e la loro trasformazione in spettatori-vittime di nuove forme di dittatura, che rivendicavano una impunità completa in nome dell’autonoma normatività dei trattati economici».

Fra le ragioni dei massacri e delle tensioni che scuotono diverse regioni del mondo, vi è anche la creazione di «false nazioni e stati, imposti dalle grandi potenze», ha detto ancora Castellina, portando il discorso sul «popolo più grande e più oppresso, quello nomade dei migranti. Non parlo solo dei disperati che affogano nei barconi – ha aggiunto – parlo del fatto che migrare è diventato un fenomeno generalizato che richiede un nuovo tipo di cittadinanza universale e chiama in causa l’umanità intera».

«Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi».

Senzatregua.it, 3 luglio 2016

L’attentato terroristico in Bangladesh, con la morte di nove italiani merita una condanna senza appello. Quella del terrorismo islamico finanziato e sostenuto per anni dai settori imperialisti per la destabilizzazione di interi paesi, che uccide persone innocenti, che vuole far piombare l’umanità in un medioevo senza precedenti. Un terrorismo che colpisce alla rinfusa, che non ha nulla a che fare con rivendicazioni progressiste e neanche lontanamente sostenibili o giustificabili, che è riflesso dell’imperialismo e non certo lotta per l’emancipazione, la liberazione dei popoli.

Ma che ci facevano tanti italiani imprenditori, o lavoratori del settore tessile in Bangladesh? L’orribile attentato di pochi giorni fa - orribile al pari di tutti gli altri attentati dell’Isis di questi mesi, in qualsiasi parte del mondo, e quale sia la nazionalità delle vittime - ha colpito diversi cittadini italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile. Non un caso isolato, ma una frequentazione sempre maggiore quella del sud est asiatico per le imprese tessili della penisola, che getta ormai un’ombra sul made in Italy, divenuto a tutti gli effetti marchio di sfruttamento planetario.

Nell’imbarazzo dei media e della stampa, che si sono tenuti ben lontani dall’approfondire questa questione, viene fuori ancora una volta quel legame tra le peggiori condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti e un settore che è insieme all’agroalimentare il fiore all’occhiello della produzione nazionale, che vanta una forte tradizione imprenditoriale, di qualità e riconoscimento mondiale. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali abbia comportato una crisi del settore e delle piccole aziende italiane delle filiere dei grandi marchi, che oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. Il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.

«Nel periodo gennaio-febbraio 2016 - ha scritto un dispaccio dell’AdnKronos - ammontava a 274 mln il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 mln di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, rappresentando circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»

Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento.

Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno, nonostante le grandi rivendicazioni delle organizzazioni sindacali e operaie di quei paesi, sempre più coscienti della condizione di sfruttamento.

Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.

La particolarità del tessile si evince da un dato che lo differenzia da altri settori industriali. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc, producono principalmente per il mercato locale , «in molti comparti del Made in Italy, invece – scrive l’Istat nel suo rapporto annuale nel 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…» Tradotto si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy” ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia, per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole falliscono, o si convertono in una sorta di agenti intermedi che fanno anche loro questo tipo di lavoro, per conto di grandi gruppi, che così mascherano le loro responsabilità adducendo rapporti di terzi intermediari e la loro non diretta responsabilità.

Sappiamo cosa accade, sappiamo quanto gravi siano le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy in tutto questo. Quando apriremo una riflessione collettiva? In Bangladesh oggi ci sono migliaia di operai sottopagati che lavorano in condizioni misere. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile. E le imprese italiane lo sanno. E non sono lì a fare filantropia.

«Sono 1800 le donne uccise , in famiglia o all'interno della coppia, dal 2005 ad oggi. La criminologa: “Gli assassini bruciano le loro vittime perché è come se ammazzassero due volte”

». La Repubblica, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Ancora una donna data alle fiamme, cosparsa di alcol, incendiata come carta straccia da buttare. Punita col fuoco davanti ai bambini di uno e tre anni in lacrime perché osava protestare per i continui maltrattamenti. Ma anche una donna che, portata in ospedale, ha cercato di negare le violenze, di difendere l’uomo che diceva di amarla e l’aveva ridotta in prognosi riservata, col corpo straziato, coperto di ustioni. È accaduto sabato sera a Tuglie, in provincia di Lecce, dove il compagno, che all’ultimo aveva dato l’allarme, è stato poi arrestato.

E la memoria corre a Sara Di Pietrantonio, la ventiduenne romana strangolata e bruciata, abbandonata in un cespuglio a fine maggio come una bambola vecchia dall’ex fidanzato che non accettava di essere stato lasciato. Sara e le altre. Perché si ripetono in questi mesi i casi in cui è il fuoco l’arma scelta per punire la donna che ha osato ribellarsi o deciso di andarsene: Lecce, Roma, Caserta, Pozzuoli, Caorle. Giovani e pensionati, italiani e stranieri, borghesi e senza tetto hanno usato benzina, alcol, liquido infiammabile generico.

Così recitano i rapporti di polizia degli ospedali. «Come se volessero cancellare le loro donne senza neppure sporcarsi le mani con il loro sangue», sottolinea Anna Costanza Baldry, criminologa, docente di psicologia alla seconda università di Napoli che da anni lavora contro la violenza alle donne.

Sara e le altre, vittime di mariti, fidanzati che non si vogliono arrendere alla fine di una storia. Sono 63 le donne morte dall’inizio dell’anno uccise da chi sosteneva di amarle. Centinaia quelle aggredite, ferite, vittime di stalking. Questo raccontano i dati ufficiali del 2016, in lieve calo, cifre che non fotografano però la realtà per intero, vista la quantità di vittime che non denuncia e che anche in ospedale, come a Tuglie, nega nel timore di nuove violenze.

Troppa la paura di non avere un luogo sicuro dove rifugiarsi prima che il colpevole venga condannato. Perché siamo in un Paese dove da un lato il ministero promuove camper che gireranno per le città per convincere le vittime a denunciare, mentre dall’altro si tagliano i fondi ai centri antiviolenza che le accolgono, le ospitano una volta in fuga dalle case e dai compagni che le abusano.

«Sono molte le donne vittime di stalking che mi hanno raccontato di essere state minacciate, di essersi sentite urlare: io ti do fuoco» spiega Baldry. «Per l’uomo è come dire: io decido di eliminarti, di annullarti, eri cenere e cenere ritornerai. Mi prendo il ruolo di dio, è un’estrema assunzione di potere. E di vendetta: perché chi lo fa sa di procurare una morte lenta, dolorissima. Perché è una decisione presa due volte, quando si appicca il fuoco e quando si sceglie di non intervenire, di non buttare una coperta addosso alla moglie, alla fidanzata in fiamme. Una doppia crudeltà, un gesto primordiale, come primordiale è il fuoco, la sua paura, la sua fascinazione, anche se non è detto che chi compie questo gesto abbia fatto tutti questi pensieri, ma semplicemente ha agito di istinto, con l’arma più a portata di mano».

E davanti a questa violenza, secondo l’esperta psicologa, non ci sono leggi più severe capaci di far desistere chi diventa assassino perché incapace di accettare il libero arbitruo altrui. E sono ancora tanti in Italia, anche se i dati del ministero dell’Interno parlano di un 20 per cento in meno di femminicidi, 63 a 80, rispetto ai primi sei mesi del 2015.

I dati dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (Eures) parlano invece di quasi 1800 donne uccise dal 2005, il 71 per cento in famiglia, e di queste il 67per cento all’interno della coppia. Una su quattro da un ex marito o compagni. I femminicidi hanno avuto nel 40,9% dei casi un movente passionale, e nel 21,6% sono stati originati da liti.

Le armi più utilizzate sono state quelle da taglio (32,5%) o pistole (30,1%) mentre il 12,2% dei killer ha fatto uso di “armi improprie” (in questa percentuale rientra l’uso del fuoco), il 9% ha strangolato la vittima e il 5,6% l’ha soffocata. Nel 16,7% dei casi, il femminicidio è stato preceduto da “violenze note” ma solo l’8,7% è stato denunciato. Come dire, una volta su due botte e maltrattamenti sono rimasti segreti. Chiusi dentro alle mura di casa. Fino a quando non è stato troppo tardi.

Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)

Nessun tempo della storia umana, prima del XX secolo, ha avuto il privilegio di registrare tante dichiarazioni e normative in materia di diritti umani. Salvo poche e brevi eccezioni, mai prima della Dichiarazione universale del 1948 l’umanità era riuscita a distillare e fissare una lingua dei diritti in grado di sostituire tutte le altre parole etiche.

Giustamente l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali, aprendo a Vienna il summit sui diritti umani nel 1993, affermò che essi sono «il linguaggio comune di tutta l’umanità» e persino oggi, sfaldate tutte le grandi ideologie, la narrazione dei diritti è la sola ideologia che resiste.

Le norme internazionali sui diritti umani ancora non riescono ad alleviare in misura sensibile la sofferenza dell’umanità, ma su di esse poggia la legittimazione costituzionale di molti Stati, e grazie a esse i movimenti popolari e i decisori responsabili nel mondo hanno il potere di sfidare le pratiche politiche che producono sofferenza e frantumano la dignità delle persone.

Questo potenziale inestimabile non riesce ancora a umanizzare la politica mondiale, spiega lo studioso indiano Upendra Baxi, ma resta l’unica strategia a nostra disposizione per sfidare quelli che John Berger chiama i gesticolanti nuovi tiranni.

Contro questa genia di inafferrabili profittatori, i protagonisti assoluti della storia globale negli ultimi decenni del secolo scorso, il visionario socialista Lelio Basso orchestrò una straordinaria demarche internazionale con un gruppo di militanti giuristi, politici e intellettuali del nord e del sud del mondo, che il 4 luglio 1976 lanciarono ad Algeri la Dichiarazione universale per i diritti dei popoli.

Bisognava denunciare apertamente la contraddizione violenta tra gli assunti teorici di libertà e la pratica storica degli Stati Uniti, e il discorso di Lelio Basso ad Algeri non cede ad ambiguità: «L’espressione centrale della propaganda americana mondo libero equivale a quella di un modo in cui la libera impresa può agire liberamente senza l’ostacolo delle nazionalizzazioni o di qualsiasi altra restrizione un mondo al servizio di quella alleanza tra multinazionali e intervento statale nell’economia che costituisce il perno dell’attuale politica imperialista».

Riproporre la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli oggi, a quaranta anni dalla sua proclamazione, può sembrare nostalgica memoria di un’idea oramai sconfitta e datata. Viviamo i deliranti effetti di un mondo in cui il diritto retrocede – con l’eccezione del diritto alla guerra (ius ad bellum) – e il potere elitario avanza.

Le Nazioni Unite hanno definitivamente abdicato alla loro funzione, istituzionalizzando al proprio interno la presenza di un settore privato senza briglie, oggi acclamato come partner essenziale per lo sviluppo sostenibile. Gli accordi del commercio internazionale, costruiti per ispirazione di un mercato sempre più organizzato in cartelli, sono l’unica declinazione della diplomazia internazionale di paesi privi di autonomia decisionale.

Le ingerenze esterne sono esercitate su scala globale da sovrani inconoscibili alla guida della speculazione finanziaria, e questa è la sola novità rispetto a 40 anni fa. I 30 articoli della Dichiarazione di Algeri, così asciutti eppure trasudanti buonsenso di civiltà, hanno mantenuto intatta la loro rilevanza. Semmai hanno acquisito nuove pieghe di attualità nel disegnare l’orizzonte di un ordine internazionale oggi più che mai necessario, incardinato sui diritti di popoli protagonisti, e non più vittime marginalizzate dal diritto formale e dalla storia.

Non è affatto commemorativa dunque la conferenza internazionale che la Fondazione Basso e il Tribunale Permanente dei Popoliorganizzano per l’occasione il 4 e 5 luglio a Roma (http://www.fondazionebasso.it/2015/the-universal-declaration-of-peoples-rights/) con un’agenda ambiziosa e un parterre di esperti da tutto il mondo chiamati a una diagnosi severa, ma anche a proposte di ripensamento, per un diritto dal basso.

Attraverso i temi dell’immigrazione, dell’ambiente, dei popoli indigeni, dei diritti salariali delle donne, la conferenza riprenderà concetti come “democrazia”, “autodeterminazione”, “sovranità” per illuminare i limiti del diritto internazionale nel momento in cui le democrazie costituzionali non sono più in grado, ovvero non sono più autorizzate, ad affermare e garantire i diritti fondamentali dei popoli. Un nodo che noi europei abbiamo imparato a conoscere molto bene.

«». La Repubblica

BREXIT ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché non aveva beni da difendere o carriere da coltivare.

Così pensava per esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili posizioni.

Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli “ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare risposta certa.

Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire l’accesso alla decisione politica.

Le avvisaglie della rivolta delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che prende il nome di «teoria epistemica», l’idea cioè che la democrazia sia buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate — producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.

Certo, ammettono i teorici della «democrazia competente», tutti sono potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene.

Per il momento, il ragionamento sulla «democrazia competente» si interrompe qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante.

La rivolta delle élite contro la democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì «la società del narcisismo» e della conseguente disaffezione nei confronti della richiesta popolare di eguaglianza.

Le classi privilegiate, scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in forte tensione con la democrazia medesima: quella della «democrazia della competenza» contro la «democrazia dell’eguaglianza», quella di una cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.

Emanciparsi dal lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad alta voce?», si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?».

Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È Michael Pascoe sulla rivista Business Day che propone queste osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare «l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.

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