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Panem et circenses. Il premier: “Mezzo miliardo a chi ha di meno”, e anche per il teatrino ci pensano sempre loro.

Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2016 (p.d.)

La frase – tenetevi forte - è questa: “Chi propone di votare No al referendum e buttar via due anni di lavoro del Parlamento non rispetta il lavoro del Parlamento”. Chi l’ha detto? Il ministro Maria Elena Boschi. Per completezza, prima aveva dichiarato: “Abbiamo scelto di rispettare in toto la procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione per modificarla, questo ha significato scegliere la strada più dura”. Che un povero cittadino si domanda: di grazia, che procedura avrebbero dovuto seguire? Una incostituzionale? Una illegittima?

Del resto, il Parlamento che ha votato la riforma, proprio legittimo non è (vista la sentenza della Consulta sul Porcellum). Bisogna dire che negli ultimi tempi il ministro ci ha abituati ad affermazioni bizzarre. Il 18 luglio aveva spiegato come, con la nuova Costituzione, saremo più forti nella lotta al terrorismo: “Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere unita al terrorismo internazionale. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa: una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità”. All’inizio di giugno disse che, a riforma attuata, davanti all’Italia si sarebbe spalancato un luminoso destino di agi e fasti: il Pil in dieci anni sarebbe aumentato del 6%. Quali fossero i modelli econometrici usati dal ministro ancora non è dato sapere.

Ma nemmeno il premier Matteo Renzi ha chiarito da quale cilindro ha tirato fuori la sua affermazione di ieri: “Se passa il Sì si eliminano costi per la politica per circa 500 milioni di euro l’anno. Pensate come sarà bello dall’anno prossimo metterli sul fondo per la povertà”. Peccato che, secondo le stime della Ragioneria dello Stato, i risparmi saranno circa di 50 milioni all’anno. Cosucce. Naturlamente in serata è arrivata la “precisazione” da parte dello staff del ministro Boschi: la frase “è stata riportata male dalle agenzie. Non si riferiva ai cittadini che legittimamente voteranno no ma solo a quelli che oggi propongono di ripartire da capo, pensando di fare un’altra riforma in sei mesi”.

La toppa è peggio del buco. Il perché ce lo spiega Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale a La Sapienza di Roma: “Il governo,da quando ha deciso di non ‘personalizzare’, auspica una ‘discussione nel merito’. Eppure tutte queste affermazioni sono solo propaganda. Non posso credere che un ministro della Repubblica abbia pensato di delegittimare lo strumento referendario, previsto dalla Costituzione! Non è vero che l’Italia non ha avuto riforme incisive anche dopo esiti referendari negativi. Ne sono una prova la modifica del Titolo V e la modifica dell’art. 81, approvata in sei mesi. Aggiungo: una delle ragioni del No è che questa riforma comprime l’autonomia del Parlamento. Che ora il governo si faccia paladino del Parlamento è davvero incredibile, visto come ha forzato tempi e modi dell’approvazione della riforma per arrivare, in combinato disposto con l’Italicum, a un assetto costituzionale sbilanciato verso l’esecutivo”.

Magistrale lezione sul razzismo che è in noi, sulle sue diverse gradazioni e sfumature (dal fastidio all'odio), sul rischio che oggi corriamo: che l'accettazione del "respingimento «non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio». Il

manifesto, 10 agosto 2016.
Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione. E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli.

Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi di manifestarsi.

Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli.

Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo.

Una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne, al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.

L’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa di noi e degli altri come persone.

Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi ha costretto a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano sulla loro strada.

Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia.

Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. E poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?

Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta.

Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.

Elegante esercitazione di stile nel racconto delle furbesche altalene dei governanti nell'ultimo venticinquennio e delle ragioni caratteriali che spingono il cittadino verso il si e verso il no.

La Repubblica, 9 agosto 2016

È un'estate di studi e di tormenti. Niente vacanze, dobbiamo prepararci per l’esame. Quello d’autunno, quando verremo interrogati sulla riforma costituzionale: 47 nuovi articoli da mandare giù a memoria, commisurarli al loro testo originario, soppesarne danni e benefici, in ultimo rispondere con una crocetta sulla scheda del referendum. Promosso o bocciato, sia lui che ciascuno di noi. Ci vuole testa, insomma, ci vuole raziocinio. O no? No, i più risponderanno con il cuore. In ogni referendum conta l’argomento, ma conta soprattutto il sentimento.

E a sua volta quest’ultimo dipende dagli amori e dagli umori della società italiana, perennemente instabili e sbilenchi. Del resto, proprio la Costituzione ne è uno specchio. Nei primi anni Novanta, durante Tangentopoli, eravamo tutti giustizialisti; sicché ne cambiammo un paio d’articoli (79 e 68), per rendere più impervia l’amnistia e per ridurre le immunità parlamentari.

Alla fine del decennio ci risvegliammo garantisti, e allora toccò a un altro articolo (111), modificato per inocularvi le garanzie del «giusto processo». Sempre in quel torno d’anni, ci ubriacammo di federalismo: da qui la riforma del Titolo V, varata nel 2001 da un governo di sinistra. Adesso, viceversa, le Regioni ci sono venute a noia; così un altro governo di sinistra ha appena battezzato una riforma centralista.

Alti e bassi, come la popolarità degli uomini politici. E indubbiamente il referendum costituzionale verrà influenzato anche da questo, dall’affetto o dal dispetto che ognuno prova nei riguardi del Premier. Però i sentimenti in gioco sono altri, hanno a che fare con un grumo di passioni e di pulsioni individuali, interrogano il senso stesso del nostro stare al mondo. Difatti le domande capitali sono tre, come le cantiche della Divina commedia.

Primo: sei contadino o marinaio? Hai le scarpe piantate sulla terra oppure navighi per mare, senza radici, senza l’ancoraggio del passato? Giacché un mutamento radicale della Costituzione reca in sé una sfida, mette alla prova la tua capacità d’immergerti nel nuovo, di partire in viaggio per l’ignoto. Sai ciò che lasci, non sai quello che trovi.

Non si tratta dell’eterno scontro fra conservatori e innovatori: dopotutto ciascuno è l’uno e l’altro, ciascuno rinnova ogni giorno la propria vicenda esistenziale, però ciascuno vorrebbe conservare la sua mamma. No, qui è in ballo un temperamento, un’attitudine. O forse anche una stagione della vita, della nostra vita intima e privata: c’è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce.

Secondo: ti senti orizzontale o verticale? La differenza tra il prima e il dopo di questa riforma è infatti la medesima che c’è fra una pianura e una montagna: questione d’altitudini, d’altezze. La pianura consiste nel paesaggio disegnato dai costituenti, con due Camere gemelle e un territorio popolato da una quantità d’istituzioni (centrali, regionali, locali), senza gerarchie precise, senza vincoli di soggezione.

La montagna svetta in solitudine dopo l’aratro dei riformatori. Via il Senato, che diventa un camerino della Camera. Via le Regioni, trasformate in megaprovince. Via le province, mentre altre riforme dimezzano i poteri intermedi (camere di commercio, soprintendenze, prefetture), non meno dei corpi intermedi (ha ancora un ruolo il sindacato?). Nel frattempo il comando s’accentra, si riunifica nel superdirettore della Rai o nei superdirigenti delle scuole. E nel Premier, ovviamente, al quale l’Italicum consegna un rapporto diretto, verticale, con il popolo. Tutto più semplice, però se soffri di vertigini magari ti viene un capogiro.

Terzo: sei ottimista o pessimista? Sta di fatto che la nuova Costituzione reclama un atto di fiducia, di speranza. Reclama, in altri termini, un mosaico di leggi d’attuazione, cui spetta completare l’intervento di chirurgia plastica, ma con il rischio di sfigurarle i connotati. È il caso, per esempio, della legge elettorale per i neosenatori (votati o cooptati?), da cui dipenderà la loro legittimazione, dunque il peso del Senato. È il caso dello statuto delle opposizioni, affidato ai regolamenti parlamentari. È il caso delle nuove tipologie di referendum: qui la riforma opera un rinvio al quadrato, prima a una legge costituzionale, poi a una legge ordinaria. Quanto tempo ci toccherà aspettare? L’altra volta trascorsero 22 anni fra la Costituzione del 1948 e la legge sui referendum del 1970; stavolta, chi lo sa. L’unico dato certo sta nella distinzione antropologica fra pessimisti ed ottimisti, scolpita in una battuta messa in circolo dalla burocrazia sovietica, ai tempi di Leonid Breznev. Un pessimista e un ottimista stanno in fila da ore dietro uno sportello. Dice il primo: «Peggio di così non potrà mai andare ». E l’ottimista: «Ma no, vedrai che andrà peggio».

«Il governo è ancora in tempo per fissare il voto a ottobre. Ma punta al dopo finanziaria. In Cassazione si salva per solo 4mila firme la richiesta del Sì. Intanto lo stato spenderà di più di ogni possibile, e assai ottimistica, previsione sui risparmi possibili con la riforma costituzionale».

Il manifesto, 9 agosto 2016


REFERENDUM, RENZI

CI METTE LE FIRME.
NON LA DATA
Giovedì scorso, 4 agosto, ventisei giudici di Cassazione dell’ufficio centrale per il referendum hanno ammesso anche l’ultima richiesta di referendum sulla riforma costituzionale, quella depositata dal comitato del Sì e accompagnata da 579mila firme di cittadini. La notizia è stata ufficializzata ieri con un comunicato stampa. Sia il comitato per il Sì che la raccolta delle firme sono un’idea di Renzi e del suo consigliere americano Jim Messina, ragione per cui ieri il presidente del Consiglio si è variamente compiaciuto: «Questa è una sfida di un popolo. Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo», ha scritto. Registro assai diverso da quello con il quale aveva lanciato la campagna, quando spiegava che «chi vota no mi odia». Il referendum ci sarebbe stato in ogni caso, perché la riforma costituzionale è stata votata in parlamento con una maggioranza ridotta e perché la richiesta era già stata presentata dai parlamentari e accolta dalla Cassazione, il 6 maggio.

Anche l’esito positivo della (veloce) verifica della Cassazione sulle firme era cosa nota, questo giornale ne aveva scritto l’indomani, venerdì 5 agosto. La lettura dell’ordinanza offre però un dettaglio importante: il numero di firme verificate come effettivamente valide dai giudici è appena sufficiente ad autorizzare la richiesta di referendum: 504.387, la soglia minima essendo fissata a 500mila. L’iniziativa di Renzi, dunque, è salva per un pelo. Il che aggiunge dubbi in quanti avevano già notato il «miracolo» delle firme per il Sì che si producevano in assenza di banchetti destinati a raccoglierle. Due cose in effetti colpiscono. La prima è la scarsissima percentuale di firme scartate dalla Cassazione. Nel caso delle ultime proposte di referendum abrogativo arrivate alla suprema corte con le firme necessarie, quelle dei radicali sulla giustizia nel 2013 e quella di Parisi, Di Pietro e Segni contro il Porcellum nel 2011, la percentuale di sottoscrizioni ritenute non valide è stata dal 25% nel primo caso e del 55% nel secondo. Nel caso delle firme «renziane» la percentuale di scarti è stata appena del 12%. Il controllo cartolare è durato venti giorni, mentre negli altri casi i giudici hanno avuto a disposizione due mesi. Sorprendenti sono anche i numeri che i segretari regionali del Pd hanno dato sulla raccolta firme, nel tentativo di mettersi in buona luce con il segretario. 50mila firme in Toscana, 25mila in Calabria, 17mila in Sardegna e nelle Marche sono numeri che possono sembrare alti ma che per chi ha pratica di raccolta firme non consentono in genere di raggiungere il quorum. Ad esempio in Toscana (come in altre regioni) il comitato per l’abrogazione dell’Italicum ha raccolto praticamente lo stesso numero di firme, pur non essendo riuscito a raggiungere nel complesso le 500mila necessarie. Per rispondere a questi dubbi, alimentanti anche dalla vicenda del rimborso che ora spetterà al comitato del Sì, potrebbe essere utile una pubblicazione delle firme depositate e certificate. Ma il 20 luglio scorso la Cassazione ha risposto di no al costituzionalista Fulco Lanchester che con i radicali ha chiesto l’accesso agli atti. No perché l’ufficio centrale per il referendum non è una «amministrazione pubblica» ma «un organo giurisdizionale».

Anche Renzi alimenta la confusione sui numeri. Nell’esultare, ieri ha scritto che il suo Sì alla riforma è sostenuto da «quasi 600mila firme, circa il triplo degli altri». Gli «altri» sono quelli del comitato del No ma in realtà lo scarto con le «loro» 316mila firme è assai minore, non è neanche del doppio. Soprattutto, Renzi continua a evitare la comunicazione più attesa, quella della data del referendum. La legge non prevede tempi di attesa, il governo da oggi ha 60 giorni di tempo per convocare il referendum (a sua volta da tenersi tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione, firmato dal capo dello stato). Se Renzi farà trascorrere invano questa settimana, il referendum costituzionale non potrà più essere fissato il 2 ottobre, come pure lui ha detto (anche in tv) di desiderare. Se farà passare tutto il mese di agosto, il referendum slitterà inevitabilmente a novembre. E se voteremo quasi a dicembre non sarà per evitare inopportuni incroci con la sessione parlamentare di bilancio. Ci sarebbe tutto il tempo per anticipare la presentazione alla camera della legge di stabilità, il punto è che Renzi non è più di questa idea. «A ottobre ci divertiremo», ripeteva ancora a fine giugno quando leggeva sondaggi diversi e assicurava di voler votare «il prima possibile». Adesso ha bisogno di un colpo d’ala per cercare di vincere, e cercherà di piazzarlo nella finanziaria.


MEZZO MILIARDO

DI RIMBORSI INUTILI

Il referendum costituzionale non prevede quorum, dunque il rimborso elettorale al comitato del Sì è garantito, e da ieri se ne conosce esattamente l’entità. Sarà di 504.307 euro, uno per ognuna delle firme verificate come valide dall’ufficio centrale della Cassazione. Lo stabilisce la vecchia (1999) legge sul finanziamento dei partiti, che è stata completamente abrogata ma non nell’articolo che si occupa dei referendum. È in qualche modo una norma di garanzia, perché consente in astratto a un comitato di cittadini che vuole provare ad abrogare una legge – o, come in questo caso, bloccare una modifica alla Costituzione – di poterci effettivamente provare anche senza l’appoggio di un certo numero di parlamentari o di consigli regionali. Non è però la situazione in cui ci troviamo.
Questa volta i sostenitori del Sì al referendum costituzionale avevano già la loro richiesta, presentata con la firma dei deputati e senatori del Pd e immediatamente accolta dalla Cassazione il 6 maggio. Una settimana più tardi – dunque con la certezza che il referendum si sarebbe tenuto già acquisita – il 13 maggio il comitato del Sì ha presentato la sua richiesta di raccolta delle firme. Comitato la cui creazione è stata promossa dal presidente del Consiglio e segretario del Pd insieme alla stragrande maggioranza dei parlamentari di quel partito, molti dei quali avevano già firmato la prima richiesta alla Cassazione. Non si tratta di un’iniziativa dei cittadini, ma di palazzo Chigi e del super pagato consigliere americano di Matteo Renzi. Dietro il comitato che riceverà mezzo miliardo di euro a carico delle casse dello stato ci sono loro.

Mezzo miliardo per sostenere una richiesta di referendum che è due volte inutile. È inutile perché il referendum ci sarebbe comunque stato, come abbiamo visto. Ma inutile anche perché l’iniziativa in questo caso è di chi è a favore della riforma, cioè di chi non avrebbe avuto bisogno di fare nulla: trascorsi tre mesi senza nessuna richiesta la riforma costituzionale sarebbe stata automaticamente promulgata. Questa non indifferente spesa pubblica può dunque essere legittimamente contestata anche da chi non si oppone in linea di principio al finanziamento pubblico alla politica.
Anche perché il presidente del Consiglio che è all’origine di questa iniziativa, ha più volte presentato la riforma costituzionale come una novità in grado di far risparmiare molti soldi pubblici. Anzi moltissimi: ha annunciato un miliardo di risparmi. Per la verità, quando alla ministra delle riforme è stato chiesto di fare bene i conti in parlamento, questi risparmi si sono notevolmente ristretti. In maniera comunque generosa, la ministra Boschi ha conteggiato 170mila euro di minori spesa per il senato laddove la ragioneria dello stato si è limitata a 70mila. Però Boschi ha aggiunto al calcolo la stima di ben 320mila euro che risparmieremmo per l’abolizione delle province. Pure questi assai aleatori, come l’esperienza racconta, visto che la riforma costituzionale dà solo l’ultimo tratto di penna su un’abolizione già decisa dal 2014 con legge ordinaria. Ma in ogni caso, anche a dar retta alle previsioni ottimistiche della ministra, la riforma della Costituzione voluta dal governo permetterà di ridurre la spesa pubblica di 490mila euro. Adesso sappiamo che il comitato del Sì voluto inutilmente da Renzi costerà 14mila euro in più.

A partire dall'analisi dissacrante di un evento contemporaneo (l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil") una riflessione profonda sul rapporto tra antico e contemporaneo, tra storia e mercato, tra arte e moda nella società di oggi.

La Repubblica, 7 agosto 2016

È la moda del momento: da Pompei a Roma l’arte contemporanea si insedia tra le rovine antiche con mostre, eventi, proiezioni. Come mai? La nostra cultura artistica si sente forse così fragile da aver bisogno di un ritorno alle radici, o così forte da volersi misurare sul metro della classicità?

Domande legittime. Ma, come ha scritto Aby Warburg, «ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita»: e oggi il rapporto tra l’arte viva e i resti dell’antichità non sembra passare attraverso la profondità di un dialogo formale. No, ora le rovine sono semmai usate come una cornice legittimante in cui inserire qualcosa di completamente irrelato. Una magnifica scenografia per un presente narcisistico.

È l’estrema evoluzione del crossover antico-moderno all’interno dei musei, o nei centri storici: una moda che già nel 1962 Giovanni Urbani bollava come “estetica del catenaccio” (descrivendo così – un poco rudemente – l’inserzione di novanta sculture contemporanee tra le pietre antiche di Spoleto).

Ad essere ottimisti si potrebbe pensare che il movente culturale di questo nuovo matrimonio tra arte e rovine sia la natura di frammento che segna ogni opera dell’arte d’oggi: frammenti moderni tra i frammenti del passato, dunque. Ma è impossibile non vedere come in realtà si tratti di una sottospecie di un fenomeno più generale: che è l’uso dei grandi complessi archeologici come location per eventi di ogni tipo. Pompei è oggi il set di continui concerti (popolari per tipo di musica, ma esclusivi per i biglietti a tre cifre), mentre il Colosseo, con la sua ricostruenda arena, viene reimmaginato letteralmente come “cornice” di spettacoli e i Fori romani vengono manomessi per allestirvi – nel modo più invasivo, improprio, imprudente – concerti di beneficenza mediatica.

È questo il contesto in cui si colloca l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil" («nulla è degno di confrontarsi con te, o Roma»): lo schiacciante titolo cita l’entusiasmo di un visitatore altomedioevale): trentasei opere di artisti di oggi tra le rovine monumentali del Palatino (fino al 18 settembre). Scopo dell’esposizione è tradurre in pratica la linea culturale racchiusa in una sentenza che i curatori hanno posto ad epigrafe del catalogo: «Una delle vocazioni italiane è favorire la creazione contemporanea e metterla in relazione con il nostro patrimonio». Come dissentire? La sfida, tuttavia, è racchiusa nella parola che dovrebbe dare il senso ad ogni mostra: “relazione”. E dunque la domanda è: P riesce davvero a costruire una relazione tra il Palatino e le opere che vi espone?

A mio avviso, non ci riesce. E le lunghe didascalie che cercano di mettere in parallelo la lettura della singola opera e un’apertura sul mondo antico rischiano troppo spesso di evocare l’ironica constatazione di Umberto Eco per cui «tutto ha misteriose analogie con tutto». Che senso ha collegare le porte cinesi moderne replicate in gomma uretanica da Loris Cecchini con qualche cenno sui rapporti tra l’Impero romano e la Cina? O come leggere la presenza della cancellata sottratta ad una chiesa napoletana, e coronata di lattine vuote, da Giulio Delvè? O, ancora, è davvero utile collegare il bel filmato di Marinella Senatore su un gruppo di ex minatori analfabeti con una riflessione sull’uso del dialetto in Italia? E i due video digitali con un’alba e un tramonto mandati in loop su due iphone 5 da David Horvitz traggono forse un qualche profitto dall’accostamento con una pagina sul culto del sol invictus in età imperiale? E si potrebbe continuare molto a lungo: per concludere che no, questo sistema di relazioni non è affatto convincente, ed anzi appare del tutto posticcio.

Questo esito problematico è frutto della singolare situazione dichiarata dal catalogo: «Le opere esposte provengono dalla collezione della Nomas Foundation», vale a dire dalla fondazione di cui la curatrice della mostra, Raffaella Frascarelli, è presidente. Nutro personalmente molti dubbi sull’opportunità che un luogo come il Palatino divenga la straordinaria location dell’esposizione (e dunque, inevitabilmente, della promozione) di una collezione privata. Ma qui vorrei soprattutto sottolineare che l’assenza della relazione tra i luoghi e le opere dipende proprio dal fatto che nessuna di queste ultime è stata pensata e creata per l’occasione. Non mancano, naturalmente, esiti felici: come nel caso dell’intervento di Kounellis (che potrebbe passare per site specific, tanto bene si adatta al passaggio in cui è stato collocato), in quello di Le voeu, lo struggente video dei Masbedo che allegorizza con rara finezza il nostro rapporto con la tradizione classica, o ancora nel caso dell’illuminante filmato di Elisabetta Benassi sulla fruizione della Gioconda.

Ma si tratta di corrispondenze che appaiono quasi fortuite, dato che si contano sulle dita di una mano. Non per caso l’unica opera davvero site specific, cioè le bandiere di Daniel Buren, è anche l’unica che davvero funzioni: sposandosi poeticamente con le rovine, il cielo e lo spazio.

Morale: se le rovine sono un testo vivo da interpretare i frutti possono essere vitali, ma se invece diventano un set quei frutti rischiano di essere avvelenati. La morale di Par tibi Roma nihil sembra, dunque, suo malgrado racchiusa nella prima opera che accoglie il visitatore. Si tratta di una grande iscrizione rossa – realizzata, in legno e plastica, dall’artista serbo Marko Lulic’ nel 2009 – in cui si legge: «Death of the monument». E come muoiono i monumenti? Per incuria e abbandono, o per riforme sbagliate: e in Italia accade ovunque, appena fuori dalla luce degli eventi. Ma muoiono anche per banalizzazione, per riduzione a musica di sottofondo. I monumenti muoiono quando non parlano più: e non possiamo illuderci che ridurli a quinte mute e irrelate di una rappresentazione che celebra solo il nostro presente sia farli vivere. Perché abbiamo bisogno di relazioni: non di locazioni.
«Psiche e jihad. Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico e sociale. E’ prima una gabbia culturale, è il rifiuto dell’incertezza, della precarietà. E la persona diventa rigida, intollerante e violenta».

Il manifesto, 5 agosto 2016

Sui possibili fattori che concorrono a determinare il fenomeno stragista di questi anni, in particolare degli ultimi giorni, occorre in primis capire, ascoltare, interrogarsi. Il volto sempre più giovane degli attentatori, spesso figli della stessa civiltà che vorrebbero abbattere, ci obbliga a una riflessione non tanto sulla loro fragilità o immaturità, quanto sul loro percorso formativo per divenire adulti responsabili, sul modello di società che stiamo costruendo con il dominio della tecnologia e la perdita di valori etici e di diritti umani.

In questa era del postmoderno, dove persistono radici arcaiche e avanzano elementi innovanti, non bisogna smettere di conoscere. L’arcaismo che ci continua ad accompagnare nella nostra evoluzione, conserva tratti di primitivismo che possono riesplodere in condizioni di chiusura di quella vitale necessità di una prospettiva di buona emancipazione. Il postmoderno, a sua volta, spinge a innovare con una rapidità che muta strutturalmente le condizioni di vita, creando disagi esistenziali oltre che materiali. Disagi che ammassano le persone in aree di marginalità o esclusione sociale che possono divenire sacche esplosive.

Arcaismo e postmodernità sono fortemente interconnessi e nella loro unità generano fenomeni che vanno analizzati a fondo per poterli superare o debellare. Il capire è possibile se si supera una visione scolastica e ci si apre a un approccio multidisciplinare. La singola chiave di lettura del radicalismo politico, del fondamentalismo religioso, della psicopatologia o della devianza sociale non aiutano a cogliere il tragico fenomeno in tutta la sua portata invasiva e carica distruttiva.

Il contributo che possono dare le diverse discipline nello studio dello stesso fenomeno, è l’unica via lungo la quale possiamo arrivare a chiarire alcuni aspetti della violenza stragista. Uno dei fattori, forse non il più importante, che vorrei sottolineare è quello del fanatismo, in quanto cieco e totalizzante attaccamento a un’idea, una causa, una missione. Purtroppo su questo fenomeno l’approccio interdisciplinare (dall’antropologia alle neuroscienze) non ha prodotto molte conoscenze, in particolare sul fanatismo giovanile. Nonostante questo limite, qualcosa si può dire visto che è urgente aprire un dibattito a più voci.

Prendo come iniziale riferimento la dichiarazione rilasciata in una recente intervista da Liliana Segre, instancabile e illuminante testimone della Shoah. Dice a proposito della crudeltà umana: «E’ il fanatismo che ha portato il popolo tedesco a fare ciò che ha fatto. Non si può parlare di pazzia, Hitler non era pazzo. E’ come se ci fosse una vena di violenza, di fanatismo negli uomini che a volte riaffiora. Io ho molta paura di questa deriva di violenza fanatica che ritorna». La sua paura è anche la nostra e la sua lucidità di analisi dovrebbe divenire anche una nostra apertura mentale. Siamo ancora portati a dare veloci risposte tranquillizzanti e ad allontanare interrogativi responsabilizzanti. Perché la violenza riappare in tutta la sua barbarie? Perché da vena sotterranea non si prosciuga ma riemerge? Perché le azioni terroristiche dell’Isis e dei suoi militanti o adepti sono così efferate e disumane?

Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico, sociale, culturale e ambientale. E’ l’esito di un serie di vicende personali, di rapporti sociali, di ingiustizie e di diseguaglianze tra le persone. In questo contesto il processo educativo e formativo diventa decisivo per evitare la caduta dei ragazzi nell’odio verso chi è diverso, estraneo o fortunato. Il fanatismo è prima di tutto una gabbia culturale, chi rifiuta l’incertezza e la precarietà può divenire inconsapevolmente soggetto intollerante, rigido, inflessibile, violento. E’ facile che arrivi a perdere qualsiasi valore per la vita propria e altrui. E’ facile che si attacchi dogmaticamente alla missione di giustiziere o di angelo vendicatore. E’ sempre successo nella storia, facciamo in modo che oggi non si ripeta la brutalità del passato, prendendo atto che intanto esiste una emergenza educativa.

C

C'è chi sa guardare nelle cose d'oggi e comprendere che cosa c'è dietro, e comunicarlo con semplicità. Un commento di Marco Belpoliti e le limpide risposte di Zygmunt Bauman alle domande di Giulio Azzolini.

La Repubblica, 5 agosto 2016

L'ETÀ DELLA PAURA LIQUIDA
di Marco Belpoliti


«Dieci anni fa, il saggio del sociologo dava il nome a quello stato di costante minaccia in cui il mondo vive a causa del terrorismo globale»

La paura è tornata. Sembrava domata, resa inoffensiva dalla nostra capacità tecnico-scientifica di dominare il mondo, di prevedere tutto, o quasi. E invece eccola di nuovo. Zygmunt Bauman ci aveva avvisati dieci anni fa in Paura liquida (Laterza): questo è il nome che ha oggi la nostra incertezza, la precarietà, la mancanza di futuro. Nessuno sembra indicare cosa fare. La leadership mondiale oscilla pericolosamente sull’orlo di un cratere. Il mondo è in

subbuglio e viviamo in uno stato di paura. Meglio: di ansietà. L’ha ricordato anche Sergio Mattarella in un discorso, resuscitando la formula usata da un poeta W. H. Auden in una sua opera: L’età dell’ansia. Egloga barocca scritta nel 1947 subito dopo le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Nel 1966 i Rolling Stones in Mother’s Little Helper descrivono le casalinghe britanniche che ricorrono al Valium, un ansiolitico. Lo psicoanalista Henry P. Laughlin definisce l’ansia «tensione apprensiva, irrequietezza che nasce dal sentire un pericolo imminente ma vago di origine sconosciuta».

Come possiamo definire quello che proviamo quando entrando in stazione passiamo un checkpoint con militari in tuta mimetica, o quando ci sottoponiamo alle perquisizioni delle borse all’ingresso della mostra, o quando scorgiamo una borsa sospetta sul metrò? Cosa temiamo? Un attacco terroristico, un commando suicida? Tutto questo, ma anche altro. L’ansia non ha un contenuto definito. Se la paura si focalizza su una specifica minaccia esterna, un evento presente o imminente, come scrive il neuroscienziato Joseph LeDoux in Ansia (Raffaello Cortina), l’ansia implica una minaccia non definita, meno identificabile, «qualcosa di più interno», un’aspettativa mentale che potrebbe anche essere qualcosa di solo immaginato con scarse possibilità di verificarsi.

La parola “ansia” viene dal latino anxietas, che deriva dal greco angh, radice che veniva usata per significare “oppresso” o “turbato”, ovvero “angosciato”; il suo significato iniziale si riferisce a sensazioni fisiche come tensione, costrizione, disagio. La stessa parola “angina”, che riguarda malattie cardiache con dolori al petto, viene da angh (LeDoux). Le emozioni che proviamo sono un magma, ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna in

Le figure dell’ansia (Feltrinelli), perché si mescolano insieme cose diverse: stati d’animo, sentimenti, esperienze vissute. L’ansia, alla pari di altre emozioni, non è qualcosa di omogeneo o di distinto, ma di stratificato, che può essere intesa e sondata solo con molto cuore, scrive Borgna. Per quanto l’ansia sia un’emozione individuale, soggettiva, alla pari della paura si comunica.

Di sicuro l’11 settembre, evento cui ha assistito in diretta tutto il mondo davanti alla tv, ha creato un’onda di panico che con il passare dei giorni e dei mesi si è tramutata in ansia. Si tratta del disturbo da stress postraumatico tipico di chi ha sperimentato un’esperienza sconvolgente; in questo caso però non ha riguardato solo chi si trovava sotto le Twin Tower, ma anche chi, lontano da New York, ha vissuto l’accaduto come se si fosse stato davvero lì.

Oggi i social network e i telefoni cellulari moltiplicano questo effetto su scala planetaria. Gli storici hanno mostrato come nel passato la paura fosse prima di tutto un sentimento collettivo. Jean Delumeau nel suo studio sulla paura tra il XIV e il XVIII secolo ( La paura in Occidente,secoli XIV- XVIII) esamina il timore del buio, di Satana, delle streghe, della magia, delle eresie, della peste. Prima che la Riforma trasformasse il rapporto con la religione da fenomeno generale in evento vissuto individualmente, i comportamenti collettivi definivano l’atteggiamento verso la paura, lo normavano. Ora sta accadendo qualcosa di simile? L’ansia diventa un fenomeno comune e non più solo una singola esperienza emozionale?

Nel suo poema Auden sembra suggerire qualcosa del genere. Si viveva, alla fine degli anni Quaranta, sotto il timore della bomba atomica, nell’incubo dell’esplosione fine-del-mondo descritta poi da Stanley Kubrick nel suo Il dottor Stranamore.

L’ansia, come altre emozioni, è contagiosa. Viviamo tutti in un atteggiamento d’attesa, d’anticipazione. Mentre nella paura l’anticipazione riguarda, «se e come una minaccia attuale causerà danni», scrive Le-Doux; nell’ansia «l’anticipazione coinvolge l’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che è presente e che può non verificarsi ». Questo è lo stato d’animo collettivo in cui ci troviamo oggi: ci preoccupiamo di minacce future che possono nuocerci come collettività e come singoli, ma non sappiamo bene quali, e se poi ci riguarderanno davvero. Riformulando un’espressione di Kierkegaard, Louis Menand ha affermato che «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana».

«ATTENTI AIPOLITICI
CHE FANNO DEI NOSTRI SENTIMENTI
UNO STRUMENTO DI POTERE»
Intervista di Giulio Azzolini a Zygmunt Bauman

«Succede che i legami si frantumano che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto di dialogo e cooperazione -I leader: Non vedevano l’ora di trasformare le calamità in vantaggi. Le guerre distolgono dalle disuguaglianze- Il Papa: Ascoltiamo troppo poco Francesco ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica vera soluzione»
Professor Bauman, sono passati dieci anni da quando scrisse Paura liquida (Laterza). Che cos’è cambiato da allora?
«La paura è ancora il sentimento prevalente del nostro tempo. Ma bisogna innanzitutto intendersi su quale tipo di paura sia. Molto simile all’ansia, a un’incessante e pervasiva sensazione di allarme, è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza. È una paura difficile da afferrare e perciò difficile da combattere, che può scalfire anche i momenti più insignificanti della vita quotidiana e intacca quasi ogni strato della convivenza».

Per il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra è l’epoca delle “passioni tristi”. Che cosa succede quando la paura abbraccia la sfiducia?
«Succede che i legami umani si frantumano, che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale. Si instaura un’atmosfera cupa, in cui ciascuno nutre sospetti su chi gli sta accanto ed è a sua volta vittima dei sospetti altrui. In questo clima di esasperata diffidenza basta poco perché l’altro sia percepito come un potenziale nemico: sarà ritenuto colpevole fino a prova contraria».

Eppure l’Europa ha già conosciuto e sconfitto l’ostilità e il terrore: quello politico delle Br in Italia e della Raf in Germania, quello etnico-nazionalistico dell’Eta in Spagna e dell’Ira in Irlanda. Il nostro passato può insegnarci ancora qualcosa o il pericolo di oggi è incomparabile?
«I precedenti sicuramente esistono, tuttavia pochi ma decisivi aspetti rendono le attuali forme di terrorismo assai differenti dai casi che lei ricordava. Questi ultimi erano prossimi ad una rivoluzione (mirando, come le Br o la Raf, ad una sovversione del regime politico) o ad una guerra civile (puntando, come l’Eta o l’Ira, all’autonomia etnica o alla liberazione nazionale), ma si trattava pur sempre di fenomeni essenzialmente domestici. Ebbene, gli atti terroristici odierni non appartengono a nessuna delle due fattispecie: la loro matrice, infatti, è completamente diversa».

Qual è la peculiarità del terrorismo attuale?
«La sua forza deriva dalla capacità di corrispondere alle nuove tendenze della società contemporanea: la globalizzazione, da un lato, e l’individualizzazione, dall’altro. Per un verso, le strutture che promuovono il terrorismo si globalizzano ben al di là delle facoltà di controllo degli Stati territoriali. Per altro verso, il commercio delle armi e il principio di emulazione alimentato dai media globali fanno sì che ad intraprendere azioni di natura terroristica siano anche individui isolati, mossi magari da vendette personali o disperati per un destino infausto. La situazione che scaturisce dalla combinazione di questi due fattori rende quasi del tutto invincibile la guerra contro il terrorismo. Ed è assai improbabile che esso abdichi a dinamiche ormai autopropulsive. Insomma, si ripropone, sotto nuove forme, il mitico problema del nodo gordiano, quello che nessuno sa sciogliere: e sono molti i sedicenti eredi di Alessandro Magno che, ingannando, giurano che le loro spade riuscirebbero a reciderlo».

Per molti politici e molti commentatori, le radici del terrorismo vanno rintracciate nell’aumento incontrollato dei flussi migratori. Quali sono, a suo giudizio, le principali ragioni della violenza contemporanea?
«Com’è evidente, i profitti elettorali che si ottengono stabilendo un nesso di causa-effetto tra immigrazione e terrorismo sono troppo allettanti perché i concorrenti al gioco del potere vi rinuncino. Per chi decide è facile e conveniente partecipare ad un’asta sul mezzo più efficace per abolire la piaga della precarietà esistenziale, proponendo soluzioni fasulle come fortificare i confini, fermare le ondate migratorie, essere inflessibili con i richiedenti asilo… E per i media è altrettanto facile dare visibilità alla polizia che assalta i campi profughi oppure diffondere le immagini fisse e dettagliate di uno o due kamikaze in azione. La verità è che è maledettamente complicato toccare con mano le radici autentiche di una violenza che cresce in tutto il mondo, per volume e per intensità. E giorno dopo giorno diventa ancora più arduo, se non proprio impossibile, dimostrare che i governi abbiano individuato quelle radici e stiano lavorando davvero per sradicarle».

Vuole dire che anche i politici occidentali utilizzano la paura come strumento politico?
«Esattamente. Come le leggi del marketing impongono ai commercianti di proclamare senza sosta che il loro scopo è il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, pur essendo loro pienamente consapevoli che è al contrario l’insoddisfazione il vero motore dell’economia consumistica, così gli imprenditori politici dei nostri giorni dichiarano sì che il loro obiettivo è garantire la sicurezza della popolazione, ma al contempo fanno tutto il possibile, e anche di più, per fomentare il senso di pericolo imminente. Il nucleo dell’attuale strategia di dominio, dunque, consiste nell’accendere e tenere viva la miccia dell’insicurezza…».

E quale sarebbe lo scopo di questa strategia?
«Se c’è qualcosa che tanti leader politici non vedevano l’ora di apprendere, è lo stratagemma di trasformare le calamità in vantaggi: rinfocolare la fiamma della guerra è una ricetta infallibile per spostare l’attenzione dai problemi sociali, come la disuguaglianza, l’ingiustizia, il degrado e l’esclusione, e rinsaldare il patto di comando-obbedienza tra i governanti e la loro nazione. La nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia, permette alle autorità stabilite di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale. Ci si dovrà accontentare di una sicurezza privata, personale, fisica».

Crede che in tal modo le istituzioni rischino di smarrire il carattere democratico?
«Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanza, nonché sui compiti ad essa legati, che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione».

Papa Francesco appare l’unico leader intenzionato a sfatare quello che lei altrove ha chiamato “il demone della paura”.
«Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un’atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate».

Sempre più grande il groviglio, sempre più lontana la capacità dei partiti e di questo parlamento illegittimo di dare alla Repubblica fondata sugli interessi particolari una legge elettorale decente. La

Repubblica, 5 agosto 2016

CHI ha detto che la storia è maestra di vita? Chi ha aggiunto che nessuna pagina di storia si ripete mai due volte? Non è vero, non alle nostre latitudini. Ne è prova il film proiettato nelle sale cinematografiche italiane in questi pomeriggi estivi: Porcellum 2, la vendetta. Perché il dibattito sulla riforma della legge elettorale sembra un film già visto, un déjà- vu.

Cadeva il 2011, cadeva il IV gabinetto Berlusconi. E i partiti dichiararono l’urgenza di sbarazzarsi del Porcellum, spronati — allora come oggi — dai moniti di Napolitano. Questione impellente, dirimente, conturbante. Tant’è che a un certo punto il nuovo presidente del Consiglio (Mario Monti) carezzò l’idea d’intervenire sulla legge elettorale per decreto. Ma il decreto no, non si può fare, dissero i soloni del diritto. Mentre nel frattempo i soloni dei partiti s’arrovellavano su soglie di sbarramento, premi di maggioranza, collegi uninominali o plurinominali, apparentamenti, ballottaggi. Trascorse così il 2012, poi il 2013. Quando i leader di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, trovarono un soprassalto d’unità timbrando una tacita intesa: fermi tutti, tanto c’è pur sempre la Consulta a toglierci le castagne dal fuoco. Che infatti emise il suo verdetto attraverso la sentenza n. 1 del 2014: e nacque il Consultellum.

In seguito l’Italicum ne ha preso le veci, salutato da grandi squilli di fanfara. Dopo le amministrative di primavera, tuttavia, e in vista del referendum costituzionale d’autunno, la politica si è accorta (meglio tardi che mai) che l’Italicum può ben essere una trappola per la maggioranza di governo, e soprattutto per la democrazia italiana. Da qui un concerto di proposte, da qui un coro d’appelli a riformare la riforma elettorale. La sinistra Pd presenta il Bersanellum. I Giovani turchi puntano sul sistema greco. I Cinque Stelle insistono sul loro Democratellum. Alfano, e con lui Franceschini, chiede di spostare il premio: dalla lista alla coalizione. Concorda Sala, neosindaco di Milano. Concorda il centro- destra, o ciò che ne rimane. Accelerano due ministri (Orlando e Martina): facciamo presto, prima del referendum. Il vicesegretario del Pd (Guerini) apre ai cambiamenti. Il segretario (Renzi) apre all’apertura.

Domanda: e allora perché non è successo nulla? Perché manca ancora un testo condiviso, o almeno una bozza, un protocollo, una lettera d’intenti? Risposta: per le stesse ragioni che a suo tempo bloccarono la riforma del Porcellum: veti incrociati, opposte convenienze. Sicché, oggi come ieri, va in scena l’antica strategia dello scaricabarile. La sua prima rappresentazione si trova nella Bibbia ( Genesi, 3, 9-13). Il Padreterno domandò ad Adamo: perché hai mangiato il frutto proibito? E lui: me l’ha dato Eva. Allora il Padreterno ne chiese conto a Eva, e lei: fu il serpente ad ingannarmi. In questo caso l’inganno parrebbe un po’ meno funesto per le sorti dell’umanità, però la sequenza è sempre uguale. E infatti il governo dichiara che la correzione della legge elettorale tocca al Parlamento, il Parlamento traccheggia aspettando la Consulta. Che deciderà il 4 ottobre, mettendosi in groppa il peso del barile.

Ma su chi si scarica lo scaricabarile? Sulla Corte costituzionale, certo, già tirata per la giacca dalla riforma Boschi, con quella competenza non richiesta (e non gradita) che le assegna un giudizio preventivo sulle nuove leggi elettorali. Ma il danno ricade altresì sul sistema politico, perché la Consulta non ha ago e filo per cucire, ha solo un paio di forbici. Può tagliare qualche lembo dell’Italicum, non può confezionare un abito di sartoria. Non a caso, due anni fa, il Consultellum lasciò tutti insoddisfatti. Infine il barile si rovescia addosso ai cittadini, ed è questo il danno principale. Giacché lo scaricabarile innesca una catena di supplenze che nocciono alla certezza del diritto, come succede quando la politica — per impotenza o negligenza — nega una legge sui diritti civili. Per esempio quella sul fine vita, e allora il mestiere del supplente tocca al sindaco (170 registri dei testamenti biologici adottati in altrettanti Comuni). Oppure la

stepchild adoption, e allora diventa supplente il magistrato (con l’avallo della stessa Cassazione: sentenza n. 12962 del 2016).

Eccolo, infatti, il prezzo dello scaricabarile: la fuga dalle regole, il disordine istituzionale. E il disordine conviene solo ai furbi, non a chi cerca riparo sotto l’ombrello del diritto. Sicché, quanto alla riforma dell’Italicum, non resta che una prece da rivolgere ai Signori della Legge: questi lavori in corso, fateli di corsa.

«Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa». Il manifesto, 4 agosto 2016

E siamo a settantasei. 76 donne uccise, finora in Italia, nelle forme più varie ed efferate, dagli uomini che avevano scelto. Per una breve storia, un incontro, o anche per tutta la vita. L’ultimo episodio è successo in provincia di Caserta, dove Nicola Piscicelli ha assassinato con 12 coltellate alla schiena la moglie Rosaria Lentini. Nel frattempo è morta Vania Vannucchi, 46 anni, a cui ha dato fuoco un collega, infermiere come lei, che non rassegnava a essere mollato.

Anche se nega, ha moglie e figli, ma non sa giustificare l’ustione al braccio. Colpisce il fuoco, un sistema facile per togliere la vita, basta un liquido altamente infiammabile e un accendino. «È stato un raptus» ha detto Piscicelli, nel consegnarsi alla polizia. «Spero che non si usino più, raccontando queste storie, termini ambigui e giustificatori come raptus, gelosia, disagio, rifiuto. Sono solo squallidi criminali e schifosi assassini» ha scritto il presidente del Senato Piero Grasso nella sua pagina fb. Parole forti di un uomo, che si rende conto di quanto la cultura maschile, anche quando non vuole, attenua e occulta la gravità e il senso dei gesti compiuti.

Parole ancora più forti le ha dette papa Francesco, qualche giorno fa, sull’aereo di ritorno da Cracovia. «A me non piace», ha detto, «parlare di violenza islamica, perché tutti i giorni quando sfoglio i giornali vedo violenze, quello che uccide la fidanzata, un altro la suocera, questi cattolici battezzati sono violenti cattolici e se parlo di violenza islamica devo parlare di violenza cattolica». I violenti cattolici, i violenti occidentali sono quelli che uccidono le loro donne.

Se con queste parole Bergoglio mette fine alla millenaria complicità del cattolicesimo con il potere maschile sulle donne, nella famiglia, l’equivalenza da lui enunciata tuttora non appare limpida a tutti, e tutte. Chi sgozza un prete sull’altare sembra più violento di chi colpisce la moglie 12 volte con il coltello. Sembrerebbe che l’amore, la passione, la gelosia rendano tutto più comprensibile, perfino irrilevante a leggere tante cronache in cui delitti efferati scivolano via come se nulla fosse. Eh no, dice il Papa, con un intervento che avrà un gran peso, è la stessa violenza di chi uccide in nome di Dio.

Cito il Papa non per particolare venerazione, ma perché incide nel cuore di quella visione che regge il sistema che attribuiva ai maschi un potere sulle donne. Anche i più miserabili, quelli agli ultimi gradini della scala sociale, spettava almeno una donna. Nessuno avrebbe sindacato su come la trattava. La benevolenza dipendeva solo da lui. Mostrano a tutti, le parole di Francesco, che quel sistema è destabilizzato fin dalla radice. «Non c’è più religione», è una battuta fin troppo facile che coglie una sostanziale verità, dice il sommovimento che ha investito gli uomini, che non capiscono più il mondo in cui vivono. Da padroni che erano si trovano privi di tutto, compreso il premio promesso.

Gli omicidi di questi anni non hanno più nulla a che fare con l’antico delitto d’onore, pratica inserita con piena legittimità nell’ordine riconosciuto del patriarcato.

Ora chi uccide difende un sé maschile smarrito in un mondo incomprensibile, in cui non c’è più un posto predeterminato dalla nascita, perché ti capita di essere maschio. Per questo è importante quello che dicono gli uomini, o non dicono, il lavoro iniziato da alcuni per dipanare la fitta trama delle complicità e delle omissioni. Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa.

Quanto alle donne, la loro autonomia è un fatto reale, di popolo. Riguarda tutte, non poche signore delle élite, questa massa indica la forza del cambiamento. E per quanto riguarda i pericoli reali, ci sono tutti gli strumenti. Le leggi, che non bastano se non c’è l’educazione, la prevenzione. Ci sono i centri anti-violenza.

Perché si tagliano i fondi? La ministra Maria Elena Boschi ha convocato un summit per l’8 settembre. Ma non ci vuole un summit speciale, per ri-finanziare i centri. O è solo propaganda?

«Il manifesto, 4 agosto 2016

L’infornata di nomine alla Rai dice, nel metodo e nel merito, che nulla è cambiato, che a vincere la medaglia è sempre il più classico malcostume lottizzatorio. Impressione confermata da quel «progetto informativo» esposto in Cda dal nuovo direttore Verdelli, che al settimo piano di Viale Mazzini ieri volava sulle onde del digitale per non sprofondare nelle acque limacciose del repulisti politico. Semmai il brutto spettacolo conferma che lo stile rottamatorio del segretario-presidente è impastato della più vecchia farina democristiana combinata con l’arrembaggio del parvenu.

Del resto la stoffa di questa imbarazzante classe dirigente l’ha efficacemente esibita la responsabile dell’informazione del Pd, Alessia Rotta, quando ha rampognato il Tg3 di Bianca Berlinguer per non aver trasmesso il taglio del nastro dell’ennesimo cantiere della Salerno-Reggio Calabria, proprio nel giorno in cui l’abate di Rouen veniva sgozzato dai terroristi. E di questa classe dirigente Renzi è il campione nazionale.

Le nuove nomine, con annessi contratti d’oro di dirigenti e consulenti, effettivamente superano, dobbiamo riconoscerlo, gli insegnamenti del vecchio maestro di Arcore e assistere alle scene di leso pluralismo dei berlusconiani di ogni ordine e grado aggrava soltanto l’effetto-farsa. Se i vecchi e nuovi alfieri del centrodestra dovrebbero avere la decenza di tacere sulla devastazione culturale del ventennio, con i conflitti di interesse, l’overdose di nani e ballerine, gli editti bulgari, tuttavia chi sostiene che con Renzi è peggio dice la pura verità. Il perché è semplice.

Negli anni dell’impero di Arcore, resistevano una rete e un tg non allineati contro i quali si infrangevano i tentativi per emendare dal virus «comunista» anche le residue, ultime enclave di opinioni non omologate. E, a quei tempi, spesso da chi praticava lo sport del «cerchiobottismo» o da chi, a sinistra, non aveva mai studiato l’alfabeto mediatico, l’abbuffata televisiva di Berlusconi veniva confusa con il peccato di ingordigia.

In realtà il padre-padrone della televisione italiana sapeva, meglio di tutti, che per rendere efficace il nuovo verbo politico, nessuna voce dissonante doveva «sporcare», il messaggio del grande imbonitore. Una rete affilata come era Raitre o un tg che si fregiava del blasone di Telekabul, erano la classica goccia che scavava nell’opinione pubblica insinuando nel telecittadino il tarlo del dubbio, l’anomalia del pensiero critico che oggi si gioca nello scontro del referendum costituzionale. Con l’allineamento dei tre telegiornali del servizio pubblico al Renzi-pensiero, anche quella crepa si chiude.

«». Internazionale online, 1 agosto 2016 (c.m.c.)

Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione.

Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare.

Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla).

Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può: «La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti».

Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento.

Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate.

Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio: «Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un ‘intervento d’emergenza e primario per le vittime’ ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità».

Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto).

Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma: «L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: ‘È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato’».

L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: «Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’».

È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti?

Daltra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente.

«Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato.

Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica.

L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica».

È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili.

Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così: «Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner».

Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me.

Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle.

Agire sul piano personale e collettivo

Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: «Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche»), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo.

«La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale», scrive Valcarenghi.

E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti.

Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.

Riferimenti
Vedi in proposito l'appello "C'è una questione maschile" proposto da Enzo Scandurra e lanciato da eddyburg

».

Il manifesto, 3 agosto 2016 (c.m.c.)

È probabilmente in gioco un’idea di democrazia. Democrazia non è tanto e solo garantire a tutti libero accesso all’istruzione quanto dare a tutti delle buone ragioni per istruirsi. Così è democrazia non tanto e non solo garantire a tutti la libertà di voto quanto dare a tutti delle buone ragioni per andare a votare. Proviamo a vedere come.

Il Sì a Brexit è espressione di follia o di saggezza della folla? La maggior parte dei commentatori italiani propende per la prima spiegazione, i leader dei partiti cosiddetti populisti per la seconda. Come stanno veramente le cose? Su Repubblica, Walter Veltroni conclude una intervista di commento affermando: «Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell’Europa…».

Sempre su Repubblica, il direttore Calabresi mette sullo stesso piano democrazia diretta e sondaggi in tempo reale per dire che «la febbre di oggi è la semplificazione», che pretende di risolvere magicamente i problemi” e che non ha «bisogno di esperti e competenze»; sul suo profilo Facebook, Saviano dice di non essere tanto sicuro che con Brexit abbia vinto il popolo, perché ricorda che il Popolo, nel 1938, acclamava «Hitler e Mussolini a Roma affacciati insieme al balcone di Piazza Venezia». (Questo tipo di argomentazioni fa venire in mente il libro La pazzia delle folle, 1841, che racconta le illusioni collettive che sono alla base di gravi crisi finanziarie).

Veltroni è comunque coerente con quanto da lui proposto negli ultimi dieci anni: semplificando grossolanamente: alle folle si può dare il compito di incoronare i candidati premier, i candidati sindaci e i segretari di partito attraverso le primarie (regolate per legge), ma la sinistra deve avere il coraggio di dare ai politici che governano maggiore capacità di decisione sulle altre scelte importanti. Secondo l’ex segretario del Pd, c’è bisogno di questa «soluzione governante non democratica» in quanto società, economia e comunicazione sono iperveloci, mentre la capacità di decisione della macchina democratica è iperlenta.

L’architettura decisionale progettata da Veltroni non tiene però conto di diversi fattori, messi in rilievo dalla esperienza quotidiana e dalla letteratura scientifica, e cioè: 1) quando le decisioni politiche sono condivise dalla cittadinanza, esse trovano più veloce concreta attuazione di quando esse vengono prese dall’alto; 2) per decidere bene i politici devono avere una buona capacità di previsione, ma lo studio ventennale dello psicologo Philip Tetlock sulla capacità previsionale degli esperti mostra che quest’ultima è molto bassa e suggerisce ai leader di dotarsi di umiltà intellettuale; 3) in determinate condizioni le decisioni collettive sono più sagge di quelle dei cosiddetti esperti (La saggezza della folla, Surowiecki, 2005).

Ritornando a Brexit e non volendo entrare nel merito della decisione presa dagli elettori del Regno Unito, qui si vuole sottolineare che è superficiale l’analisi secondo cui il risultato del referendum si spiega con l’ignoranza e l’età dei votanti (leggasi: la democrazia diretta banalizza i problemi complessi, molto meglio la democrazia delle élite). Il problema non è se sia giusto o meno tenere referendum su tematiche importanti; ma come si organizzano i dibattiti che precedono il voto di questi referendum. Nei referendum popolari il dibattito avviene principalmente sui media.

Molto diversa da un punto di vista democratico sarebbe una situazione in cui, al posto dei referendum popolari, si organizzino consultazioni all’interno dei partiti politici: i dibattiti avverrebbero dentro i circoli locali dei partiti disseminati nel territorio nazionale, e potrebbero assumere la forma di discussioni deliberative ben strutturate e regolate: lavoro in piccoli gruppi, possibilità di ascoltare i pro e i contro delle diverse opzioni in campo, di fare domande agli esperti in plenaria, di approfondire attraverso materiale informativo bilanciato cartaceo/digitale, di interloquire e scambiare pareri con chi la pensa diversamente. A regolare il tutto sarebbero deputati i comitati rappresentativi delle opzioni in campo (nel caso di Brexit, un comitato per il sì e uno per il no), che avrebbero il compito di coordinarsi e di assicurare equilibrio nei dibattiti e correttezza nell’informazione.

Idealmente, in una democrazia del genere, i partiti avrebbero il compito di riacquistare il ruolo perso, di ascolto, analisi e sintesi dei bisogni di una parte della società, servendosi di tutti gli strumenti della democrazia deliberativa (Fishkin& Calabretta, 2012); i politici assumerebbero il ruolo di leader partecipativi, che in talune scelte conducono e in altre favoriscono la partecipazione; gli esperti metterebbero da parte un po’ di supponenza, aprendosi alle informazioni che non sono coerenti con le loro teorie; gli intellettuali avrebbero il compito di sottoporre le previsioni degli esperti a un processo di verifica; i cittadini sarebbero motivati ad assumersi le proprie responsabilità, a “studiare” le questioni complesse e a non scaricare tutte le colpe sui politici di turno; i giornalisti avrebbero il compito di svelare prima del voto le informazioni false al fine di propaganda…

Sono ovviamente tutti bei propositi, ma come innescare un meccanismo virtuoso che ci aiuti a realizzarli? Al fine di riacquistare la legittimità perduta (vedi Ignazi, 2014), lo dovrebbero innescare gli stessi partiti, consultando i propri iscritti/elettori sui temi più controversi, importanti e dibattuti. Non si tratterebbe di democrazia diretta, ma di democrazia rappresentativa che in alcuni casi si fa partecipativa e deliberativa (Doparie, dopo le primarie, Calabretta, 2010; , Petrucciani, 2014).

La realtà è molto diversa: più che alla rinnovata adesione a un grande progetto di democrazia, pace e prosperità, i ragionamenti di chi invitava a votare «remain» hanno richiamato alla mente il celebre invito a votare Dc col naso turato di Indro Montanelli (leggi Zizek su Internazionale e Parks sul NYTimes).

In questi anni di crisi economica e di globalizzazione sfrenata, il grave deficit di democrazia a livello nazionale e soprattutto europeo non ha offerto alternative all’elettore comune per poter esprimere il suo disappunto se non con l’astensionismo (di cui i politici continuano a non curarsi) o con la rabbia.

Solo ascoltando e facendosi influenzare deliberatamente dalla folla (divisa in tanti piccole folle nei dibattiti partitici locali), le élite riusciranno a riprendere il contatto con la gente comune e il senso comune (che secondo la interpretazione di La Capria non è l’opinione corrente, ma implica una ragionevolezza critica); solo sentendosi ascoltata e considerata, e non solo contata, la gente comune penserà di avere almeno un qualche controllo sulla propria vita e potrà essere un po’ felice.

«»La Repubblica,

Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione.

Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico compiuto in un contesto religioso?

La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto eccezionale e con le medesime finalità sociopolitiche.
Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo rivolgersi insieme all’unico Dio?

La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede?

Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non possono essere detti figli di Dio.

Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la valenza antropologica della preghiera.

Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi. È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera.

La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza) genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung: «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco lo strisciante malessere del nostro tempo.

Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti.
Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare è pensare al senso della vita».

Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su cui camminare nella fatica dei giorni. Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale.

E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.

«Costituzione. Aveva detto: "Fosse per me lo farei il prima possibile". Adesso invece vuole spostarlo quasi a Natale. Ma non è per ragioni tecniche o perché il voto rischia di incrociare la sessione di bilancio».

Il manifesto, 2 agosto 2016

«Spero che il referendum si faccia il 2 ottobre», ha detto Matteo Renzi all’inizio di giugno in tv (Rai2). «Fosse per me lo farei subito», ha chiarito un mese dopo, sempre in diretta (Sky). Al contrario, il presidente del Consiglio sta cercando di spostare «la madre di tutte le battaglie» (definizione ancora sua) il più tardi possibile. Che è molto tardi, in teoria si può arrivare fino al 18 dicembre. Per non aprire le urne proprio sotto l’albero di Natale, al presidente del Consiglio andrebbe bene, adesso, l’ultima domenica di novembre, il 27. Quasi due mesi dopo i precedenti annunci. Cerca però di presentare questo rinvio come conseguenza naturale dei tempi tecnici e dell’incrocio con la legge di stabilità. Non si può votare durante la sessione di bilancio, spiegano Renzi e i suoi.

«A ottobre ci divertiremo», diceva il presidente del Consiglio quando ancora immaginava che il Sì potesse vincere facilmente il referendum costituzionale. Ora, non prevedendo più risate, sta cercando di azzerare la campagna elettorale per farla ripartire su basi completamente diverse dopo l’estate e soprattutto dopo una legge di stabilità che dovrebbe concedere nuove mance elettorali. Ora sostiene di non aver mai voluto personalizzare il voto sulla Costituzione, eppure è stato sempre lui a dire che «può votare no solo chi mi odia»

Se davvero le sue preoccupazioni fossero di ordine istituzionale, per evitare l’incrocio tra il referendum e la sessione di bilancio ci sarebbe tutto il tempo di votare prima che il parlamento cominci ad esaminare i conti. È vero, la legge impone al governo di presentare la stabilità alle camere (quest’anno si comincerà da Montecitorio) entro il 15 ottobre (e prima ancora i documenti andranno inviati a Bruxelles). Ma il governo Renzi l’anno scorso ha fatto arrivare la legge di stabilità in senato solo il 25 ottobre. Fino ad allora nemmeno le commissioni hanno visto un cifra. A ottobre 2016 ci sono dunque ben tre domeniche in cui si potrebbe andare a votare per il referendum prima che la manovra, con le sue annunciate elargizioni, impegni il parlamento: il 9, il 16 e il 23 di quel mese.

La legge concede al governo la possibilità di rimandare il consiglio dei ministri (che convoca il referendum) fino a 60 giorni dopo la comunicazione della Cassazione che le richieste di referendum sono regolari. La possibilità, non l’obbligo. Quanto alla comunicazione della Cassazione, questa sarebbe già arrivata non fosse per le firme che il Pd ha presentato in extremis. I giudici stanno discutendo se è il caso di sottoporle a immediata verifica o se si può soprassedere. Ne parleranno ancora dopodomani, giovedì. Se decidessero di procedere con la verifica delle firme, potrebbero ufficializzare il loro via libera al più tardi il 14 agosto. Anche allora se Renzi volesse essere di parola – «fosse per me voterei subito» – potrebbe convocare il consiglio dei ministri in tempi brevi, entro la fine di agosto, per votare prima della sessione di bilancio.

Ma giovedì i giudici della Cassazione potrebbero anche chiudere la questione, decidendo che non ha senso aspettare il conteggio delle firme dal momento che le richieste di referendum presentate dai parlamentari sono state già accolte. E così, convenienze governative a parte, il referendum potrebbe essere indetto per ottobre (dal presidente della Repubblica, che firma un decreto del governo) già la prossima settimana. Non c’è nulla di tecnico dietro la decisione di Renzi di allungare la campagna elettorale.

La presenza corale dei musulmani alle chiese cattoliche «mette a nudo una asimmetria. I cattolici non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad»La Repubblica, 1° agosto 2016

“TI È duro resistere al pungolo”: in uno dei racconti della conversione di Paolo (At 21) il Risorto apostrofa così l’apostolo: perché la conversione è una colluttazione, in cui Dio usa i colpi proibiti.

Ieri la chiesa cattolica europea ha sentito la fitta di quello sperone conficcarsi nella sua carne viva. La presenza alla eucarestia dei musulmani, per il martirio di padre Hamal, è stata infatti un “pungolo” che chiama la chiesa alla conversione. È stato favorito dalla tempestività con cui papa Francesco, fedele al protocollo vaticano in vigore dall’11 settembre, non ha concesso il riconoscimento politico di guerra “dell’islam” al terrorismo: dalla chiarezza con cui alla Gmg ha ripetuto il no all’odio che, come osservava ieri Eugenio Scalfari, è un no al potere, anche religioso.

Eppure la presenza islamica nelle chiese è stata un gesto spiazzante dal quale non pochi cattolici hanno cercato di “difendersi”. C’è chi paternalisticamente l’ha ridotto, ad un “buon inizio” e ha lodato i musulmani “moderati” (a proposito: quando smetteremo di regalare il nobile titolo di “radicali” ai tagliagole e chiameremo “musulmano” ogni musulmano che prega, e “sanguinario islamista” ogni musulmano che uccide?). C’è chi s’è premurato di precisare che non si trattava di una “preghiera comune”, se mai evocando la distinzione di età ratzingeriana fra “pregare insieme” e “pregare simultaneamente”. Si è provato a sottovalutare la difficoltà di uno “sforzo ascetico” (quello che nel Corano è definito il “jihad”, con un’altra parola che l’inverno della nostra ignoranza usa al femminile perché lo traduce “guerra”) e si sono dimenticate molte presenze locali in passato.

Tutti tentativi per diminuire la forza di una presenza che mette a nudo una asimmetria. I cattolici — anche se alcuni pure vescovi e chierici, l’hanno fatto a titolo individuale — non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad. Non hanno versato lacrime per la sanguinosa profanazione della fine del ramadan avvenuta a Medina e in altri luoghi. Non hanno fatto lutto per le vittime musulmane, e c’è voluto un Papa argentino e un Patriarca turco per lasciare sul mare un fiore per loro.

Anche i cattolici hanno subito pigramente la vera offensiva del Regista dell’Isis (perché c’è un Regista): che vuol abituarci a distinguere attentato da attentato, a sentire diversamente gli uccisi nostri e loro, attraverso gli attacchi ai luoghi della vita comune, come fu alla Stazione di Bologna.

Pigrizia spirituale: perché in teoria lo sanno tutti. La fraternità non nasce quando si pongono condizioni alla relazione, ma quando nella prova qualcuno dice “sono qui con te”. Lo sanno le comunità ebraiche, che, ogni volta che il terrorismo ne ha colpito una, hanno sentito più “spiegazioni” giustificatorie e antisemite che fraternità vere. Ora lo sanno i cristiani, che hanno visto sparire intere comunità e chiese, mentre il conservatorismo pantofolaio domandava la crociata e la chiusura delle frontiere. Lo sanno i musulmani che da quasi quarant’anni vedono la guerra dell’ex impero Ottomano cambiar nome, ma permanere.

Finora non era accaduto che una comunità venisse a dire a un’altra comunità, più vasta e riconosciuta, “sono qui con te”: per abitare la stessa libertà e chiedere nella preghiera la stessa cosa che chiedi l’altro. Che l’iniziativa sia stata presa da musulmani promette bene per l’Europa (e male per il Regista): dimostra che la libertà religiosa che questo continente ha conquistato superando le guerre di religione, le guerre di irreligione, le guerre mondiali — questa libertà fa bene a chi la vive ed è più sicura degli screening discriminatori. Non rende i credenti non meno credenti, ma credenti migliori.

Che dunque si possono misurare con la sfida teologica, che Francesco ha posto anche in questi giorni. I cristiani delle diverse chiese, un tempo nemici e carnefici gli uni degli altri, riconoscono ora che c’è un “ecumenismo del sangue”, in cui l’unità nasce dalla persecuzione ed è stata compresa grazie ad un difficile lavoro storico-teologico. Al terrorismo che sparge il sangue di credenti e non credenti bisogna dare la stessa risposta: forse creando un gesto liturgico comune più impegnativo dello “spirito di Assisi”.

C’è una “fraternità nelle vittime”, una alleanza in Abele, che nasce non se si dice “tutti i morti sono eguali”, ma quando i credenti comprendono il martirio dell’altro. In una campagna terroristica a cui neghiamo il titolo di “guerra di religione”, non ci servono religioni che sappiano “fare pace”: pace fra le culture, mettendo in gioco la fede nel Dio unico, interrogandolo, sentendone il pungolo.

«». Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2016, con postilla (c.m.c.)

Una società frammentata che viene gestita senza progetti unitari e chiari. Che ha urgente bisogno di definire quali devono essere i rapporti fra il Parlamento e il governo, per ritrovare la capacità di individuare obiettivi definiti e specifici al di là delle esigenze del momento.

Nei giorni scorsi da Giuseppe De Rita è arrivata una provocazione. Si è domandato,con un artificio retorico, «se abbiamo oggi una politica della ricerca scientifica, una politica industriale, una politica dello sviluppo universitario, una politica della cultura, che siano espressione di progettazione e volontà politica» (Corriere della Sera, 22 luglio 2016). Per concludere che abbiamo, piuttosto, un avvicendarsi cumulativo di emendamenti particolari che lasciano spazio a una continua frammentazione delle scelte. La parola emendamento viene usata più volte da De Rita e significa la coazione di poteri particolari, settoriali senza impostazione politica.

Del resto, e lo sappiamo bene, le leggi finanziarie sono “omnibus” pieni di emendamenti, strumenti di tutela di interessi particolari. Viviamo in una società del frammento con il primato dell’emendamento. Gli strumenti di questa tendenza sono le leggi finanziarie, che sono l’area di rincorsa di pressioni burocratiche e corporative in vari settori del mondo politico.

Le leggi finanziarie avrebbero lo scopo di adeguare le entrate e le uscite del bilancio dello Stato, delle aziende autonome e degli enti pubblici che si ricollegano alla finanza statale, agli obiettivi di politica economica; attraverso le leggi finanziarie vengono operate modifiche a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio.

Prescindendo dalla funzione della legge di bilancio va sottolineato il risvolto politico istituzionale della stessa legge che rappresenta la verifica puntuale del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Essa compone una serie di provvedimenti concreti e spesso singolari. La legge mette in evidenza l’integrazione politica di due organi ed esalta la crisi perenne del loro incerto rapporto.

La prassi politica che non ha saputo rinunciare ai benefici immediati della causalità e frammentarietà non in funzione dei bisogni di una programmata gestione della cosa pubblica, ma di tendenze e richieste momentanee corporative messe in evidenza proprio dall'andamento disordinato e approssimativo dell’azione di governo.

«Governare con provvedimenti finanziari non è propriamente governare ma andare dietro alle cose per tenere in rotta in qualche modo la barca con un timoniere continuamente all’erta e un equipaggio inquieto sulla propria sorte». Così scriveva nel 1986 Giorgio Berti, il quale aggiungeva che «si afferma una concezione del caso e dell’emergenza».

Il sistema fiscale segue alla perfezione la politica degli emendamenti . «Quando sotto falso nome si impongono veri e propri tributi al di fuori della regola costituzionale della capacità contributiva. Il sistema viene impostato al di fuori della regola della solidarietà, perché la tecnica legislativa è funzionale alla politica degli emendamenti e ne segue la casualità».

Vengono moltiplicati, così, i casi di tassabilità (bis, ter, quater, quinquies, così vengono gonfiati i commi delle leggi fiscali); vengono modificate le leggi di applicazione vanificando i termini, il sacrosanto principio della decadenza e quindi dell’affidamento del contribuente; viene fatto ricorso alle leggi interpretative con effetto retroattivo.

E resta da vedere se la riforma appena varata della legge di bilancio saprà superare questi difetti.Sono tante, infatti, le leggi che nell’introdurre nuove forme di tassazione si fregiano del pomposo titolo di «semplificazione» e «certezza del diritto». Ma l’ordinamento tributario alla ricerca, comunque, di un aumento scriteriato di gettito produce l’aumento dell’evasione, perché si inasprisce la tassazione esistente e non si colpiscono i veri evasori.

Le norme non sono individuabili e non sono leggibili, quando sono fatte di articoli dove domina il rinvio e la ricostruzione della legge emendata. Non sono scritte come prescrive lo Statuto del contribuente «riportando il testo continuamente modificato» (articolo 2, comma 4 della legge 212/2000), ma hanno una scrittura che sembra affatto opposta per non essere compresa da giudici e funzionari. Ci pensano, poi, i privati con sedicenti codici tributari che non vincolano i giudici a cercare di ricostruire un quadro comprensibile.

Ma come si esce dalla politica degli emendamenti? Si potrebbe dire con una cultura politica diversa. Ma se il problema è quello dei rapporti fra Governo e Parlamento: bisogna stabilire i confini tra i due poteri. Dobbiamo ancora decidere se siamo una repubblica parlamentare. Dove il Parlamento traccia le linee di programma di governo e non cogestisce con la politica degli emendamenti. Questa è la vera riforma costituzionale alla quale si deve ancora pensare.


Veramente singolare che il commentatore del giornale del padronato italiano non si sia accorto che la "riforma" per la quale Renzi e i suoi supporter continuano a dare spallate straordinarie sia l'esatto contrario di quello auspicato dal prof. De Mita: né Governo né Parlamento, tutto il potere al Capo.

Oh com'è sbiadito il rosso dell'Emilia-RomagnaOrmai anche in questa regione, come in tutt'Italia (e in Europa) il colore dominante della "sinistra" vira dal rosso al rosa, dal rosa al bianco e, per finire, al grigio sporco dell'altra sponda.

La Repubblica, 31 luglio 2016

I sindaci Pd dell’Emilia-Romagna alzano la voce contro il governo Renzi sul fronte accoglienza. «I migranti in arrivo sono in crescita, i posti ormai esauriti e la situazione rischia di diventare ingestibile» dicono in coro i primi cittadini, da Modena a Reggio Emilia a Ravenna.

Il fronte dei democratici è compatto e per la prima volta esprime il malessere degli amministratori in una regione, l’Emilia-Romagna “rossa”, da mesi in prima fila nel gestire gli arrivi dei richiedenti asilo ma ormai a corto di mezzi e posti davanti all’ennesima emergenza estiva. I sindaci rivendicano di aver fatto più dei loro colleghi del Nord e ora si ribellano. Il modenese Gian Carlo Muzzarelli è il capofila. Ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Occorre garantire un equilibrio a livello nazionale e regionale delle quote di assegnazione che tenga conto delle realtà, come la nostra, che hanno già fatto ampiamente la propria parte e che sono arrivate al limite delle capacità di accoglienza». Non si tratta di uno stop («non intendiamo sottrarci alle nostre responsabilità » premettono i sindaci dem), ma il messaggio che parte dalla roccaforte emiliana è chiaro: «L’assegnazione di profughi nelle diverse realtà non sembra gestita con criteri distributivi all’insegna dell’equilibrio». Nel Modenese, ad esempio, sono quasi 1.100 i profughi ospitati in questo momento. E Muzzarelli denuncia «difficoltà crescenti in termini di gestione e tenuta del tessuto sociale».

A sentire i sindaci, c’è chi non fa fino in fondo il proprio dovere per coprire le quote assegnate dalle prefetture. I conflitti, ora sotterranei ma pronti a esplodere, sono tra gli stessi enti locali: «Sui posti siamo ormai vicini al limite, serve una più equa distribuzione dei flussi» incalza il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, che mette nel mirino gli amministratori delle altre Regioni: «L’Emilia-Romagna ha dato più di quanto richiesto. Non so se tutti abbiano fatto lo stesso. Noi non possiamo accogliere all’infinito».

Anche a Bologna, dove c’è il centro d’accoglienza regionale che smista i profughi nelle diverse province, la giunta è sulle spine: «Si devono introdurre dei limiti per garantire una buona accoglienza, altrimenti il sistema delle città non regge». In questi due anni, da quando è scoppiata l’emergenza, la struttura bolognese ha accolto oltre 16mila migranti. I primi cittadini tirano in ballo prefetture, governatori e, soprattutto, Palazzo Chigi. È il caso del nuovo sindaco di Ravenna, Michele De Pascale: «Da parte del governo Renzi ci aspettiamo una soluzione forte, perché non sappiamo se riusciremo a gestire l’accoglienza con la stessa efficacia avuta fino a oggi ».

La vicepresidente dell’Emilia Romagna, la renziana Elisabetta Gualmini, dice di «comprendere il dolore dei sindaci» ma chiede di evitare conflitti nei confronti del governo: «La contrapposizione con Roma — avverte — non porta da nessuna parte. Dobbiamo però risolvere il ruolo ambiguo delle Regioni, perché noi non abbiamo competenze nell’assegnazione delle richieste di asilo che sono in mano alle prefetture. Questo ci lega le mani e, quando ci sono i picchi, la situazione è ingestibile».

Sintetico elenco delle gravi distorsioni e delle paralizzanti contraddizioni della de-forma costituzionale Renzi-Boschi. Ma il veleno è innanzitutto nell'Italicum.

La Repubblica, 31 luglio 2016

SECONDO la suggestiva proposta della costituzionalista Lorenza Carlassare, l’Italicum costituisce il “perno” della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il suo scopo sarebbe infatti quello di «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi ». Tesi che è confermata, da un lato, dai tempi di approvazione delle due leggi (prima l’Italicum e poi la riforma costituzionale) e, dall’altro, dalla ritrosia di Matteo Renzi ad accettare il suggerimento di giornalisti, imprenditori e banchieri, di assegnare l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista più votata. Se infatti l’Italicum è stato davvero pensato come il perno della riforma costituzionale, assegnare il premio alla coalizione anziché alla lista impedirebbe quella personalizzazione del potere, che costituisce l’obiettivo di Renzi.

È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.

La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.

Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.

Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.

Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.

Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.

« La Repubblica,

L'appello che lancia Francesco Ronchi nella sua lettera a Repubblica non può non colpire. Viaggiando per l’Emilia oppressa dalla calura estiva, Ronchi ha avvertito una cappa di disagio sociale e politico nei paesi dove la crisi della sinistra è ormai un declino cronico.

Una crisi che si manifesta con l’altissimo astensionismo elettorale, una crescita innegabile di consenso alla Lega, una visibile insofferenza per la politica dell’accoglienza nei confronti degli immigrati. Non comprendere l’urgenza di intervenire con un nuovo piano di politiche sociali, di mettere in moto nuove strategie di redistribuzione e di farlo con competenza e umiltà sarebbe davvero improvvido, altrettanto quanto pensare che la strada giusta sia quella della deregolamentazione o della managerializzazione dei servizi, un vizio economicista di cui la sinistra sembra oggi andare fiera. A perdere non sarebbe solo e tanto la sinistra, ma il tenore del nostro tessuto sociale nelle città e nei paesi dove viviamo, laddove si è sedimentata la nostra pratica di vita democratica.

Ronchi mette a nudo una delle ragioni macroscopiche di questo disagio delle democrazie sociali mature: il legame conflittuale tra bisogno e confini; la tensione tra universalismo dei valori e la loro applicazione tra persone che hanno bisogno di riconoscersi come eguali; la difficile relazione tra le politiche redistributive e la composizione socio-culturale della popolazione.

Il bisogno è naturalmente il punto di partenza dei criteri di giustizia ai quali si è ispirata la sinistra democratica del dopoguerra. Il bisogno lo si può giudicare e misurare secondo due grandi parametri, che non collimano tra loro necessariamente: quelli che si basano su dati misurabili e quelli che si basano su valutazioni di merito e di contesto. Il reddito per nucleo famigliare nel primo caso; e un resoconto su che cosa, con quel reddito, una persona può fare nella città o nel paese in cui vive nel secondo caso. Universalismo lineare in un caso; distribuzione di servizi attenta alle capacità che le persone hanno e a quelle che servono loro nel determinato contesto di vita nel quale devono svolgere le loro funzioni.

Come si intuisce, il primo criterio è adatto a un contesto di sufficiente omogeneità sociale — ha funzionato fino a quando lo Stato-nazione è stato il collettivo di riferimento. Come dice Ronchi, la sinistra è nata mettendo confini tra chi era parte della nazione e chi non lo era (anche i ricchi cosmopoliti). Il criterio di cittadinanza nazionale ha determinato le politiche di solidarietà sociale e ha nel suo tempo funzionato.

Certo, le ingiustizie c’erano e associazioni e partiti si incaricavano di denunciarle e correggerle. Ma quale che fosse stato il dissenso, il metro di giudizio era condiviso: il cittadino era sinolo di diritti e doveri, e quindi di servizi che mettessero una barriera alle diseguaglianze di condizione. Questo modello ha consentito di distribuire servizi all’infanzia, assegnare alloggi, accedere ai servizi pubblici in generale. Ha avuto largo successo in Emilia, integrando i meno abbienti e facendone cittadini responsabili e partecipi. La socialdemocrazia è stata tutto questo.

Come osserva Ronchi, oggi questo modello è in crisi proprio nell’Emilia. Ed è in crisi insieme alla sinistra democratica un po’ in tutta Europa, come Brexit ha dimostrato in maniera dirompente. Pensare che la fedeltà di partito o di bandiera o di leadership possa mettere a tacere questa grande insoddisfazione è semplicemente sbagliato. Il voto per fede si scontra con un disagio che è più grande e più vero — semmai, se deve essere ancora voto per fede sarà dato a una nuova religione: quella del nazionalismo identitario e xenofobo.

È evidente che il bisogno di giustizia c’è: ad essere in crisi è il modo di affrontarlo. L’immigrazione è, scrive Ronchi, il fattore al quale rivolgersi per capire perché il modello classico di redistribuzione non funziona più. E lo si vede proprio sul campo: con gli esistenti criteri distributivi i concittadini perdono rispetto agli immigrati — i quali hanno comunque redditi più bassi e soprattutto famiglie più numerose e possono accedere con più facilità ai servizi.

L’accoglienza finisce per penalizzare i cittadini e ciò non tarda a generare sentimenti di rabbia razziale, di intolleranza — trasformando le ragioni dell’insoddisfazione per come le regole di giustizia sociale funzionano in ragioni identitarie. Incolpando gli immigrati e quindi le politiche delle frontiere porose, ovvero la cultura dell’accoglienza e l’etica cosmopolitica che le forze liberali e democratiche hanno in questi anni coltivato, e che ha costruito l’Unione Europea, a partire dal Trattato di Roma.

Chiede Ronchi: «come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di “accogliere tutta la miseria del mondo”?». È evidente che nessuno è così onnipotente da poter “accogliere tutta la miseria del mondo”. Però possiamo fare uno sforzo di elaborazione e di ricerca per rivedere criteri e politiche sociali affinché siano in grado di dare giustizia in questa nuova condizione; affinché siano attente ai contesti e alle reali capacità delle persone.

Lo scopo è difendere la vita democratica in una realtà che è comunque multietnica. E si dovrà prestare attenzione non solo all’accoglienza, ma soprattutto all’integrazione civica. Integrare gli immigrati nel tessuto socio-politico significa istruirli non solo nella lingua, ma educarli ai diritti civili, alle regole di giustizia, al dettato della nostra Costituzione. Oggi c’è più, non meno, bisogno di politiche pubbliche; ce n’è tanto bisogno quanto ce n’era negli anni della ricostruzione postbellica — perché di ricostruzione si tratta comunque: della fiducia nelle istituzioni politiche, della stabilità sociale e della tranquillità civile.

Nel dopoguerra, il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza capì che per ricostruire dalle macerie della guerra nazi-fascista occorreva ricostruire la società civile e la democrazia: mise insieme conoscenze e competenze per definire piani di progettazione del futuro, non per vincere una campagna elettorale: politiche sulla casa e la scuola di ogni ordine e grado, l’assistenza sanitaria e sociale, i servizi al lavoro e all’imprenditoria; e, a tenere tutto insieme, i luoghi e i servizi di cittadinanza partecipata, nei quartieri e con le associazioni della società civile.

Il socialismo alla Prampolini, ovvero l’attenzione alla vita quotiana delle persone dove esse vivono per costruire una società giusta: questa era la logica seguita nell’Emilia del dopoguerra. E forse ancora dal riformismo bisogna ripartire, adattato ovviamente a questo tempo, poiché il disagio sociale così grande e pervasivo lo si vive nel concreto della vita locale, non è un’astratta categoria a uso di esperti della comunicazione politica.

«». Waltertocci.blogspot.it,

Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.

La soluzione senza il problema

C’è pieno accordo tra noi sull’esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
Si è fatto credere che il problema sia la velocità delle leggi, quando è evidente che sono troppe e vengono modificate vorticosamente. L’alluvione normativa soffoca le energie vitali del Paese. Si è drammatizzata la lungaggine della doppia navetta, ma riguarda solo il 3% dei provvedimenti. I più veloci sono anche i peggiori: il decreto Fornero convertito in quindici giorni viene revisionato ogni anno; le norme ad personam di Berlusconi furono come lampi in Parlamento, il Porcellum fu approvato in due mesi circa, ecc.. I tempi sono rapidi quando c’è la volontà politica, soprattutto se negativa.

Si, per fare buone leggi valeva la pena di riformare il bicameralismo. Era meglio eliminare il Senato, imponendo alla Camera maggioranze qualificate sulle leggi di garanzia costituzionale; oppure si poteva specializzare il Senato come camera di Alta legislazione, priva di fiducia, ma dedita alla produzione di Codici al fine di assicurare l'organicità, la sobrietà e la chiarezza delle norme. Erano soluzioni forse troppo semplici. Si è preferito invece un assetto tanto arzigogolato da pregiudicare perfino l’obiettivo della velocità.

Potestas sine auctoritas in Senato

È un bicameralismo abbondante, frammentario e conflittuale. Il Senato mantiene, seppure in modo contorto e controverso, molti poteri, ma perde l’autorevolezza, diventando il dopolavoro del ceto politico regionale, senza l’indirizzo politico né il simbolo di un'antica istituzione. Bisogna riconoscere che il primo testo del governo mostrava una certa coerenza cambiando anche il nome in Assemblea delle autonomie.

Poi è stato reinserito il nome Senato più per la nostalgia che per il rango. All'opposto del suo riferimento storico, infatti, è un'Assemblea dotata di potestas ma povera di auctoritas. In tali dosi la prima tende a superare i limiti e la seconda non basta a irrobustire la responsabilità. Il risultato sarà una conflittualità sulle attribuzioni delle leggi, affidata ai Presidenti delle Camere senza soluzione in caso di disaccordo.

Il contenzioso verrà alimentato da una pessima scrittura del testo. In certe parti assomiglia a un regolamento di condominio, è come uno scarabocchio sullo stile sobrio della Carta. Ora perfino gli autori dicono che si poteva fare meglio. Quale demone ha impedito di scrivere un testo in buon italiano?

Crisi politica, non costituzionale

L'ossessione nel cambiare la Costituzione è una malattia solo italiana, non ha paragoni in nessun paese occidentale. Eppure tutti i sistemi istituzionali sono prodotti storici e quindi naturalmente difettosi. La Costituzione americana non prevede neppure il decreto legge, ma consente di gestire un impero e alimenta da oltre due secoli una religione civile, nessuno si sognerebbe di modificarne decine di articoli.

Sono i governanti che devono compensare con la politica i difetti dell’ordinamento, quando non sanno farlo invocano le riforme istituzionali. Che intanto sono servite a cancellare il tema dell’attuazione della Costituzione. Basta rileggere l’articolo 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Sono principi negati per milioni di italiani, di giovani e di migranti, senza che il rispetto della Carta diventi mai una priorità politica.

Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male comunque avevano governato il Paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione. Da allora il ceto politico non è stato capace o non ha voluto rigenerare strutture politiche adeguate ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Si è trasformata una crisi politica in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano.

Che il Paese non si possa governare a causa del bicameralismo è la più grande panzana raccontata al popolo italiano nel secondo Novecento. Senza temere il ridicolo, l’establishment promette che il nuovo articolo 70 aumenterà il PIL; ora si promette anche la lotta al terrorismo e altro ancora! È un sacco vuoto che può essere riempito di ogni cosa.

Servire, non servirsi della Carta

All'inizio c'era almeno un'intenzione costruttiva, che le riforme servissero a stimolare il rinnovamento dei partiti. Anche io ho creduto in tale opera pia, ma era come il tentativo del barone di Münchausen di sollevarsi da terra tirandosi per il codino. Non era possibile che i partiti in caduta verticale di idee e di consensi avessero miracolosamente la capacità di riscrivere la Carta. Con il risultato che la crisi politica non curata è degenerata nel discredito dei partiti e le riforme istituzionali sono sempre fallite.

Sono state numerose - basta con la storiella delle occasioni mancate! – ma hanno fallito perché motivate solo da interessi politici contingenti, non da progetti costituzionali: il Titolo V della sinistra per rincorrere la Lega; la riforma del 2005 per frenare la crisi di Berlusconi; lo jus sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini; il pareggio di bilancio per celebrare Monti. Oggi si ripete l’errore con maggiore impeto: si riscrive la Carta per legittimare un governo privo di un programma presentato agli elettori e per prolungare il Parlamento addirittura come Assemblea Costituente, pur essendo costituito con legge elettorale illegittima.

Che vinca il Si o il No, comunque è una revisione costituzionale senza futuro. Non può durare nel tempo perché è scritta solo dal governo attuale, non è frutto di un’intesa, anzi alimenta la discordia nazionale. Lo so bene che alcuni si sono sfilati per misere ragioni, ma dalla nostra parte non si è cercato sempre uno spirito costituzionale. Anzi, è prevalsa l’illusione che “spianare gli avversari” – come si dice oggi con lessico desolante – potesse rafforzare la leadership del PD.

Provo un senso di pena per chiunque motivi la revisione della Carta con la lotta alla Casta del Parlamento. La riduzione dei costi degli eletti c’è già stata e si può fare di più con le leggi ordinarie. Se invece si scomoda la Costituzione è solo per impressionare l’opinione pubblica. Il populismo di governo è tanto sguaiato quanto inefficace, perché non batte neppure l’originale grillino, come si è visto alle elezioni.

E racconta mezze verità. La riduzione del numero dei parlamentari c'è solo nel Senato che perde rango, ma non nella Camera che aumenta il potere. Eppure è proprio il numero dei deputati, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti in Europa. I “rottamatori” non hanno avuto il coraggio di deliberare per una Camera più piccola, come invece seppero fare la destra nel 2005 e la sinistra nel 2007.

L'illusione della decisione imperativa

Con la scusa di riformare il bicameralismo, e con l’aggiunta dell’Italicum, in realtà si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. È il “premierato assoluto” tanto temuto da Leopoldo Elia: un leader in partenza minoritario può vincere il ballottaggio e conquistare il banco, non solo per governare il paese, ma per modificare a suo piacimento le regole e le istituzioni di tutti. Ormai se ne è accorto anche il presidente Napolitano del pericolo di “lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”.

La concentrazione del potere investe tutti gli aspetti dell’ordinamento: l'esecutivo domina il legislativo, la Camera prevale sul Senato, il premio di maggioranza non è compensato dai diritti della minoranza, i capilista si allontanano dal controllo degli elettori, i voti di chi vince valgono il doppio di quelli di chi perde, il capo di governo o comanda sulla Camera o ne chiede lo scioglimento, facendo pesare la legittimazione ottenuta nel ballottaggio. Infine, lo Stato ha la "supremazia" sulle Regioni.

Dopo l'ubriacatura del federalismo si "cambia verso", tornando indietro al centralismo statale di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all'altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. A tal fine, la decisione più importante sarebbe la riduzione del numero delle Regioni, ma viene rinviata sine die. Quando la partita è difficile i riformatori muscolari gettano la palla in tribuna.

Da che cosa viene questa voglia smodata di concentrare il potere? Nei momenti di crisi è più facile cadere nelle illusioni. La più grande di tutte è che la complessità italiana possa essere risolta dalla decisione imperativa. Eppure essa è innaturale per il carattere nazionale, è antistorica per la Repubblica costituzionale, ed è anche inefficace per un'Amministrazione debole come la nostra.

L'ossessione di affidarsi a uno solo sembra una terapia e invece è la malattia. La fortuna del Paese è quando molti si danno la mano. Dal centralismo sono venute solo dissipazioni di risorse e ritardi storici. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola, ma aiuta la generatività sociale, ha fiducia nel Paese e ne viene ricambiata. I frutti migliori dello spirito italiano sono sempre venuti dalla molteplicità.

Il piccolo mondo antico di Aldo Bozzi

Vorrei che i giovani politici ci chiamassero a realizzare nuove ambizioni. Mi rattrista vederli cincischiare con il piccolo mondo antico Aldo Bozzi, un vero signore, dall'aspetto ottocentesco, che calcava la scena quando molti di loro non erano ancora nati. Dopo il fallimento della sua prima Bicamerale, molti ci rimasero male, ma li tranquillizzò Norberto Bobbio: le riforme istituzionali - disse - sono fanfaluche che servono solo a eludere i veri problemi della democrazia italiana.

Eppure, il programma di allora è proseguito fino a oggi, sempre la stesso, con piccole varianti. A forza di raccontarlo come il nuovo è invecchiato prima di essere attuato, perché erano sbagliati i problemi da cui partiva. Per trent'anni i politici hanno ripetuto che la governabilità era più importante della rappresentanza. Quasi la metà del popolo li ha presi in parola disertando le urne.

Le consunte ricette della politologia sono state bruciate dagli eventi. Siamo corsi dietro il modello Westminster, ma il bipolarismo non esiste più neppure in quel paese. Invece di convincere gli elettori astensionisti, si è tentato di sostituirli con i premi di maggioranza. Invece di confrontarsi sui programmi di governo, i partiti si distinguono sulle leggi elettorali.

Ha dominato da noi un imperativo quasi inesistente in Europa: la sera delle elezioni al telegiornale si deve sapere chi governa. Però nella Seconda Repubblica nessun governo è stato confermato alle elezioni, nonostante la prosopopea della stabilità. È paradossale lo scarto: mentre aumentavano i poteri degli esecutivi diminuivano i consensi dei cittadini.

Forse quell’imperativo è sbagliato, perché orienta la politica solo alla sera delle elezioni, non alla duratura guida del Paese. Spinge i partiti a diventare mere macchine elettorali, senza progetto culturale e senza radicamento sociale, e quindi senza strumenti adatti a governare i processi di cambiamento. Seleziona politici che sanno solo scrivere leggi e ne approvano tantissime. Ma la bulimia legislativa è un segno di impotenza del governo.

Occupiamoci del futuro e lasciamo agli storici la spiegazione di come mai la politica si è presa una lunga vacanza dalla realtà giocando con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali. Il bicameralismo è certamente un difetto da correggere, non lo nego, ma in una graduatoria di importanza sarà forse il centesimo; con la vittoria del NO la classe politica dovrà occuparsi dei 99 problemi più importanti dell'Italia.

Cambiare il PD è una riforma costituzionale

Nel paese del melodramma si mettono in scena le tragedie anche su problemi inesistenti. Se il NO vince non è l’apocalisse. Chi ha alimentato il panico saprà anche sgonfiarlo. Ammiro gli inglesi almeno per la forma, certo non per il contenuto della sciagurata Brexit, quella si una scelta davvero dirimente per il Paese. Il partito conservatore ha bruciato il suo leader e i due probabili successori, ma in poche settimane ha trovato un quarto leader, una donna, e ha ripreso il cammino del governo. Ecco a cosa servono i partiti, a risolvere le crisi, da noi invece si utilizzano le crisi per annichilire i partiti.

Si dirà che il Pd non è solido come i Tories e non reggerebbe una smentita al referendum. Forse perché a differenza dei partiti europei dipende esclusivamente dalla persona che lo rappresenta. Non solo oggi, da quando lo abbiamo fondato - sono ormai dieci anni - il Pd si è occupato solo della leadership, tutto il resto è andato in secondo piano: il progetto Paese, la cultura, l'organizzazione, la selezione dei dirigenti. Ma è proprio di queste carenze che poi rimangono vittime i leader. Dopo lo slancio iniziale smarriscono le promesse perché non hanno lo strumento per realizzarle. È successo con Veltroni e con Bersani, e rischia di ripetersi con Renzi.

La Costituzione è difettosa soprattutto nell'articolo 49, poiché oggi mancano i partiti per "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Non basta la nuova legge sui partiti se non si riforma la sostanza della politica. Cominciamo almeno dalla nostra parte. Cambiare il PD è già una riforma costituzionale.

Postilla

Care democratiche e cari democratici, voterò NO al referendum utilizzando la libertà di voto che il nostro Statuto consente in materia costituzionale. Il dissenso è una bevanda amara da prendere in piccole dosi, quindi cerco di esprimerlo nelle forme strettamente necessarie. Non ho aderito al comitato per il NO, pur condividendone il compito e stimando tanti cari maestri che lo rappresentano. Qui ho espresso le mie personali motivazioni, ma credo ci siano nel PD tanti militanti ed elettori che con argomentazioni diverse condividono la scelta per il NO.

Sarebbe utile ritrovarsi in una dichiarazione comune e promuovere momenti di confronto e di approfondimento; ancora lo Statuto consente di esprimere in forma collettiva una scelta diversa da quella della maggioranza. Potremmo contribuire al dibattito referendario con una motivazione critica, ma rispettosa della posizione ufficiale. Sarebbe un altro buon esempio di democrazia del PD, e aiuterebbe a superare le personalizzazioni e le drammatizzazioni che si sono rivelate inutili e dannose. I democratici per il No possono contribuire a una discussione di merito sul significato del referendum.

Due momenti della stessa storia. Protagonisti: pomodori, rifugiati e altri sfruttati, padroni e padroncini. Luogo: la ridente Puglia, Articoli di Chiara Spagnoli)

la Repubblica online) e Alessandra Magnaro (Comune.info), 27 luglio 2016

Repubblica online
CAPORALATO,
NEL GHETTO SALENTINO DI NARDÒ
di Chiara Spagnoli

«Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane»

LECCE - Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto.

La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica 'disponibilità al lavoro' acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone.

Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro.

Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti.

A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.


Comune.info
POMODORI SFRUTTA ZERO
di Alessandra Magnaro

«Una storia di ribellione imprevista che nelle campagne pugliesi ha messo insieme migranti e non per raccogliere, trasformare e distribuire salse rompendo con le logiche di sfruttamento dei caporali e della Grande Distribuzione»

Questa è la storia di un pomodoro, ma potrebbe essere anche un’anguria di quelle belle rosse, come pure si trovano da queste parti, magari ‘baby’ senza semi che sono di gran moda. Un pomodoro piccolo, rotondo, che in Puglia e in tutto il meridione è un oro rosso che arriva in tavola o viene lavorato, messo in scatole di latta o vasi di vetro, a pezzi o passato, buono per tutte le stagioni.

Il pomodoro di cui vogliamo raccontare la storia non è come gli altri, è sfuggito al ‘cartello’, si proprio come quelli famigerati della coca colombiana, dei non più di 7-8 latifondisti che nelle terre ricche di queste parti coltivano piantagioni che non vedi l’orizzonte per quanto sono immense e fanno il bello e il cattivo tempo con la complicità di molti anche nell’anno 2016 proprio come secoli fa. È un pomodoro buono e etico, chi l’ha staccato dalla sua piantina ha avuto il dovuto, il sugo che ci si fa, è chiaro sarà suggestione, sembra persino più buono. È un pomodoro senza sopraffazioni, è una salsa Sfrutta Zero.

Fa caldo da queste parti, quando ti vengono a prendere sul camion è mattina presto e già quasi non si respira. Piegati sul campo, su quelle piantine verdi con i frutti rossi così belle da vedere, ore e ore fino a sera che si riparte. 3 euro e mezzo per ogni cassone da 3 quintali, alla fine delle dodici ore, a volte anche sedici, una trentina di euro per la giornata si riescono a tirare su, tolto il pranzo, l’alloggio e altri ‘pedaggi’, se va bene sono 25 euro, neppure due euro l’ora, ma il conto preciso nessuno lo vuole fare mai.

Il caporale non fa quasi differenza, se non per tipi di coltivazione chissà perché poi, preferisce gli stranieri certo ma a trattare da animali pure gli italiani non si tira indietro basta che lavorino a testa bassa, pazienza se non respirano pure loro, come la povera Paola Clemente, anni 49, italiana, bracciante agricola morta di afa sotto il sole a picco il 13 luglio 2015 mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria. Un anno dopo leggere quella storia ci fa piangere ancora forse perché ci illudiamo che lo sfruttamento – contributi e fatture per un certo numero di giorni, nella realtà molti di più – questo così bestiale sotto il sole di 42 gradi che non lascia scampo, a noi italiani non ci riguardi più.

Ci riguarda eccome ma a sera gli italiani tornano nelle loro case, nei loro paesi bianchi di calce. Gli stranieri invece diventano invisibili, inghiottiti dai ghetti, senza servizi igienici, senza acqua, in baracche costruite con pezzi di legno e di discarica, riciclo più che creativo di sopravvivenza. Oppure dormono buttati a terra con la chioma dell’ulivo a separarli dal cielo.

Angelo, uno dei ragazzi dell’associazione Diritti a Sud che ci accompagna in questo viaggio tra angurie e pomodori, ci racconta che nel 2012 ben 750 migranti dormivano sotto gli ulivi prima che proprio di fronte alla contrada Arene Serrazze, ai margini di Nardò, Salento, venisse su quello che tutti in paese chiamano ‘il ghetto’. Prima andavano alla masseria Boncuri, c’era un presidio medico e qualche servizio, ne poteva contenere una cinquantina, erano arrivati a superare i 500, troppi, specie se poi si mettono in testa di scioperare come accadde nel 2011, un caso storico in Italia, protesta dei migranti contro i caporali. La masseria infatti l’anno dopo, sarà per il sovraffollamento o altro, chiude i battenti e i migranti dormono a terra.

Adesso hanno una zona, baracche in fila, divise per etnie, autogerarchizzate pure quelle. Entriamo dentro, con i ragazzi dell’associazione che li salutano uno ad uno, le prostitute che aspettano, il ragazzo che gestisce il ‘bar’ degli africani, il tunisino che si è fatto male al campo, i sudanesi che giocano a carte, gli altri sono a lavoro, non è ancora sera. Bisogna stare attenti, sono stufi di vedere curiosi guardarli come animali allo zoo, vorrebbero che arrivasse l’acqua piuttosto, promessa dal nuovo sindaco ma intanto, è il 13 luglio, con una bottiglia di minerale presa al market si deve far tutto.

I suv sfrecciano qui fuori, sono persone legate ai latifondisti, con il rombo del motore avvertono e ricordano che qui i padroni sono loro, meglio non dare troppa confidenza a questi pazzi di italiani che si sono messi in testa di cambiare un minimo le cose magari approfittando che i 6-7 del cartello sono sotto processo per sfruttamento, riduzione in schiavitù, violenza privata dal 2012, il Sabr, ancora senza sentenza nonostante il coraggio di denuncia degli schiavi e le intimidazioni e che la moglie di uno di loro è imputata in quanto titolare nel processo per la morte del sudanese Mohamed, schiattato di caldo pure lui a luglio 2015, stesso destino della Clemente. Aveva 47 anni, era il suo primo raccolto, era arrivato con un barcone qualche giorno prima in Sicilia, con la moglie e la figlia neonata. Non ha retto al sole e forse neppure al suo nuovo infame destino.

Il sindaco di Nardò Pippi Mellone (formazione An) ha 31 anni, è stato eletto da poche settimane e sul caporalato vorrebbe dare una svolta. È il 16 luglio quando ad Arene Serrazze, proprio accanto al ghetto, arrivano i camion, questa volta non per prendere i braccianti ma per montare le tende, far arrivare l’acqua e persino il presidio medico sanitario.

Quest’anno i migranti, almeno 160 di loro, faranno le docce. I fondi sono stati raccolti dalla Coldiretti e dalla Focsiv e così il ‘villaggio solidale’ di Nardò ha 6 docce e 12 moduli igienici. Il tentativo di contrastare il caporalato comincia dalla dignità di un bagno. Il 2016 sarà l’ultimo anno dell’emergenza, dice convinto il neo sindaco che nel frattempo con un’ordinanza ha inibito il lavoro nei campi in ore particolarmente proibitive e già a settembre «daremo vita ad un tavolo tecnico che dovrà definire, punto per punto, diritti e doveri di tutti del caporalato con un regolare contratto di lavoro per la raccolta stagionale».

I ragazzi di Diritti a Sud, studenti, precari, lavoratori, migranti stessi, una quindicina in tutto, non si lasciano intimidire. È ora del raccolto, il secondo in quel pezzo di terra avuto in affitto per dieci anni. Passano al ghetto, danno appuntamento per il giorno dopo, saranno in 17: si prendono i pomodorini, la paga è giusta, mani bianche e mani nere li coglieranno, obiettivo 60 quintali, «lavoriamo per una nuova comunità dei diritti, la passata sfrutta zero è il simbolo del nostro progetto, una testimonianza concreta del nostro lavoro, anche se piccola, potremmo fare ben di più».

A fine luglio sarà in distribuzione, i Gas (gruppi di acquisto solidale) in tutta Italia che conoscono il loro lavoro, cosi come quello di Solidaria Bari e di Omb in Basilicata, associazioni ‘gemelle’, l’hanno prenotata e anche quelli di Emergency che sono diventati buoni amici e hanno dato pure il patrocinio la compreranno. Non arriveranno lontano, nella grande distribuzione ad esempio, ma la società civile impegnata nel consumo critico a praticare il buycottaggio, a comprare cioè dando valore politico all’acquisto, sapendo che è una forma di lotta in sostegno dei lavoratori che si ribellano alla legge antica del caporalato, è con loro.

Sacrosanta denuncia del tradimento di quei numerosi intellettuali che, abbandonando lo spirito critico, hanno inneggiato a quelle "esportazioni della democrazia" che hanno generato guerre e stermini ovunque, dall'Afghanistan all'Iraq alla Siria, all'Africa subsahariana, alla Libia.

Il manifesto, 27 luglio 2016

Il mondo sembra non avere più senso, e nella confusione delle nostre menti, nell’angoscia dei nostri cuori, nell’ansia che ci accompagna ormai in ogni situazione pubblica (da un treno a un ristorante affollato), ci abbandoniamo alla deprecazione, all’invocazione a qualche entità superiore, minacciamo di ritirarci nel cenobio, piangiamo le vittime di tutti i giorni di questo terrore cieco. Tutto ciò è legittimo e comprensibile. Persino giusto, almeno in quanto serve a scaricare le nostre paure. Eppure dobbiamo conservare accanto all’occhio caldo dei sentimenti, quello freddo della razionalità.

Non dobbiamo smettere di ricordare, a noi stessi e agli altri, che l’Afghanistan è stato demolito dagli Stati uniti foraggiando i Taliban, facendo prosperare Al Qaeda, salvo poi punire un intero Paese per catturare Osama bin Laden, fino a poco prima amico dei Bush & Co. In Iraq sappiamo come è andata: si cercavano anche là gli amici di Osama, poi le «armi di distruzione di massa», e in mancanza degli uni e delle altre, a Washington si decise di procedere comunque contro «Saddam, minaccia per il mondo» e perché «gli iracheni meritano la democrazia».

Sulla base del successo per l’eliminazione di Saddam, con una impiccagione coram populo si decise che si poteva bissare con Gheddafi. In questo caso furono le potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ad intervenire, trascinandosi dietro gli alleati, timorosi che Londra e Parigi potessero collocare le loro imprese estrattive in posizioni di vantaggio sulla concorrenza, e Gheddafi risultava un osso duro per tutti gli occidentali. La sua uccisione è un capitolo della barbarie dell’Occidente. Infine, sullo stesso modello Saddam-Gheddafi si era puntato l’obiettivo su Assad, un altro dittatore da eliminare per restituire la democrazia al suo popolo.

E l’Isis che colpisce a destra e manca, e dove non colpisce comunque lucra del terrore, da chi è stato sostenuto negli scorsi anni, fino a non troppo tempo fa? Dagli occidentali, Usa in testa, fino almeno alla Turchia di Erdogan, che ora si dedica amorevolmente a custodire il suo popolo, sgominando il “nemico interno”, vero o immaginario, sulla base di un disegno politico preciso, semplicemente di tipo dittatoriale.

Rispetto ai tanti progetti Usa-Nato, sappiamo come è andata. La vita non assomiglia più a niente, scriveva Tahar Ben Jalloun dopo una visita a Baghdad, qualche anno fa; una frase che vale per Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, Aleppo, e l’elenco può continuare, in una lista collana di morte disperazione dolore. Insensatezza. Le armi che vengono impiegate in quei luoghi sono quasi sempre nostre. I mercenari inviati a combattere per la democrazia sono perlopiù sul libro paga di agenzie occidentali. La grande regia è a Washington, a cui si accoda senza fiatare Londra (Tony Blair che chiede scusa ammettendo di aver sbagliato nel 2003 è un po’ penoso).

Seguono, gli altri, praticamente tutti gli altri, nel coacervo criminale della Nato, partecipano alla mattanza, ora frenando, ora accelerando, a seconda degli interessi nazionali; che sono poi gli interessi di gruppi dominanti, legati al mercato delle armi, a interessi finanziari e imprenditoriali.

Ma naturalmente i morti non sono tutti uguali, come uguali non sono i vivi. E lo sdegno per la Francia, per la Germania, e così via non si riproduce per le notizie che giungono dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, a cominciare dallo stillicidio di nefandezze portate avanti dai governanti israeliani a danno dei Palestinesi. E la nostra pietas di occidentali viene opportunamente distribuita, in base a convenienze, dei media, dei governanti, dei potenti. Ma anche in base alla nostra capacità di attenzione critica, che lo stesso susseguirsi di eventi tragici finisce per abbassare, fino al suo obnubilamento. E sta proprio qui il problema. La perdita dell’attenzione critica.

Certo, noi comuni cittadini non siamo in grado di fare alcunché contro i governanti stranieri. Ma possiamo almeno tenere sotto osservazione e sotto pressione i nostri. E possiamo, anzi dobbiamo, puntualmente sbugiardare i giornalisti, commentatori, intellettuali che, per stupidità, ignoranza, disonestà intellettuale, si sono resi complici di menzogne e inganni in tutti questi anni, sostenendo la favola velenosa della esportazione della democrazia, credendo o fingendo di credere a Bush, a Blair, a Sarkozy, e compagnia cialtrona. «Io so», diceva Pasolini, «so i nomi, ma non ho le prove», in riferimento alle colpe della Dc.

Noi abbiamo le prove. Basta sfogliare i giornali dei 20/25 anni alle nostre spalle, e oggi con la Rete tutto è assai agevole. Andiamo a rileggere i commenti, le analisi, e le pseudo-verità di questo esercito degli «armiamoci e partite», le grottesche macchiette di «eroi in pantofole», che hanno incitato l’Occidente a «difendere i suoi valori», a suon di bombe. Andrebbero invitati quanto meno a usare il loro intelletto in modo meno disonesto, e a fare una robusta autocritica, pur nella convinzione che non la faranno, ma almeno ricordargli cosa hanno scritto e detto li inchioda alle loro responsabilità. Costoro, a furia di predicare vento, hanno raccolto tempesta. Purtroppo questa tempesta, non solo colpisce e travolge tutti, indiscriminatamente, colpevoli e, soprattutto, innocenti; ma suscita mostruosi giochi dell’orrore, imitazioni sadiche, e un nichilistico desiderio di morte, che prende a oggetto gli altri e sé stessi.

E mentre orrore e terrore si propagano, a noi che rimane? Rimane il dovere della denuncia, il compito della documentazione, l’impegno della militanza dalla parte degli innocenti. A cominciare da quei bambini siriani che, facendoci versare più di una lacrima, hanno issato cartelli con le immagini dei maledetti Pokemon, e un amaro invito: «Venite a cercare anche noi».

«Riportare al centro del dibattito la Casa comunale. Abbiamo un gran bisogno di luoghi per radunarci e ritrovare in noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità

». Arcipelagomilano online, 27 luglio2016 (c.m.c.)

Dov’è Milano mentre Dacca, Nizza, Monaco, aggiungono lutti sconvolgenti a quelli già tremendi di Parigi e Bruxelles? Dov’è la voce delle istituzioni locali, mentre aerei russi e Assad bombardano gli ospedali di Aleppo, Bagdad è un rosario di carneficine prodotte da kamikaze sunniti contro sciti e reciproche vendette, Erdogan calpesta gli elementari diritti civili, le strade di Kabul tornano a essere terra di attacchi suicidi contro le minoranze?

La retorica delle condanne e le rassicurazioni governative si susseguono mettendo a nudo la debolezza della politica. Davanti all’escalation di orrori avvertiamo impotenza in raccomandazioni tipo: non lasciamoci prendere dalle paure, perché sarebbe darla vinta ai terroristi. O, ancora: le istituzioni faranno quanto possono per garantire incolumità e tranquillità (ci mancherebbe!), ma è impossibile prevedere tutto.

Si può non darla vinta agli uomini in nero e al contagio che la loro violenza ha su menti fragili; occorre però un salto di qualità nell’esprimere il senso collettivo di appartenenza alla civiltà della vita contrapposta a quella della morte. Al diffuso vissuto di frustrazione ci si può opporre proprio da Milano, per quello che la città è nel suo dna: stile ambrosiano, inventiva, sperimentazione, creatività politica e sociale; politicamente: capitale del riformismo.

Ad esempio si può ripristinare il ruolo centrale delle Assemblee elettive: Consiglio Comunale in primis. È un gesto politico, di assunzione di responsabilità; è un modo di ritrovarsi, condividere preoccupazioni, dare respiro, discernere tra quel che viene dalla pancia e quanto il cuore e la mente dovrebbero suggerire.

Dal dopoguerra ai primi Anni ’90 l’aula di Palazzo Marino è stata il luogo deputato dove la città ha riflettuto sui problemi generali che a mano a mano affliggevano il mondo. Per decenni le sedute del Consiglio si aprivano con un’introduzione generale che schiudeva orizzonti di solidarietà internazionale, dando spessore ai provvedimenti amministrativi. Faceva capolino un tasso di ideologia in quei dibattiti. Ma Milano ha vissuto la propria dimensione di Città internazionale, in grado di intrattenere rapporti culturali, stabilire scambi proficui con blocchi opposti in quanto dai banchi di Palazzo Marino e dall’emiciclo del pubblico sono passati: fatti d’Ungheria, Guerra Fredda, minaccia nucleare, disastri combinati dall’Occidente in Asia (a incominciare dal Vietnam) e in Medio Oriente, stragismo, terrorismo, povertà da ristrutturazioni industriali e delocalizzazione nei Paesi emergenti e poi nell’ex blocco sovietico.

E venne Tangentopoli, con effetti dirompenti sul piano dell’etica pubblica e degli assetti istituzionali. Costretti dal buio morale calato su Milano e dalle ripercussioni in tema di tenuta democratica dell’intero Paese, i partiti decimati dagli scandali ebbero un sussulto riformatore. Non toccarono l’impianto generale, spostando possibili modifiche della Costituzione su una Commissione Bicamerale (rinvio che paghiamo ancora oggi, alle prese con gli scontri sul “sì” e sul “no”: andrebbe ricordato a qualche leader ex Pci). La lezione di Mani Pulite finì nella riforma dei poteri locali che voleva riavvicinare politica e cittadini semplificando i meccanismi decisionali.

All’apparenza sembrò un intervento limitato: veniva introdotta l’elezione diretta dei sindaci. Fu invece una svolta ambivalente sotto il profilo della democrazia reale. Venivano poste le premesse perché i consigli comunali perdessero in rappresentatività e capacità di indirizzo politico, oltre che in termini di potere decisionale. Si finì per ridurre il confronto al momento del rinnovo dei consigli, con i partiti ridotti a comitati elettorali.

Lasciamo ad altra occasione un bilancio sulla riforma degli Enti Locali. Subito va data una risposta alla richiesta pressante di comprensione che viene dalle tragedie. È tangibile lo smarrimento emotivo che mette a rischio la tenuta in termini di psicologia sociale; disorienta lo squilibrio tra grandi sfide epocali e disegni aggressivi/difensivi di chi pensa a muri o con cinismo per un voto in più cavalca le paure; è inquietante l’afonia di energie culturali e intellettuali. Incalza la questione di individuare spazi attraverso cui la polis possa ritrovarsi e come nell’antica tragedia greca dare nome alla complessità degli umori e delle scelte, prendere coscienza, puntare sul cambiamento degli individui e del collettivo.

Riportare al centro la Casa comunale, nel senso proprio della “casa di tutti” non è un Amarcord. Si vuole invece tornare alle radici dell’esistenza umana, alla socialità, al senso di solidarietà, alla convivenza buona di uomini e di donne che si incontrano, si guardano negli occhi, si parlano, si ascoltano, cercano insieme di capire, di verificare la fondatezza delle proprie visioni del mondo in confronto alle difficoltà del tempo e alle speranze da offrire ai figli propri, alle generazioni, al vicino e allo sconosciuto che verrà perché tale è la direzione della storia.

I social sono importantissimi nella comunicazione, ma da soli non bastano a far crescere consapevolezza e democrazia. La grande utilità d’un loro uso corretto s’è vista proprio in occasione degli attentati. Come tutti i mezzi, però, in sé non sono né buoni né cattivi: il giudizio dipende dall’uso che se ne fa. E l’esperienza mostra come molte volte essi siano luoghi di affermazione di tanti “Io” isolati, che però non riescono a diventare un “Noi”. Abbiamo un gran bisogno di luoghi in cui radunarci, mettere in comune riflessioni argomentate, studiare, conoscere, approfondire, trovare dentro di noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali all’istinto di annientamento dell’altro, al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità.

Il Fatto Quotidiano online, 24 luglio 2016 (p.d.)

Dopo le violenze in Turchia l’eurodeputata Barbara Spinelli ha promosso un appello internazionale per chiedere ai rappresentanti delle istituzioni europee di vigilare sulla situazione interna al Paese sconvolto dalla repressione delle opposizioni, delle minoranze e delle libertà civili innescata da Erdogan il golpe militare sventato il 15 luglio. La lettera, sottoscritta da importanti di accademici (Varoufakis, Etienne Balibar, e tanti altri) più un certo numero di parlamentari europei, è indirizzata a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e al direttore generale del Consiglio d’Europa a Thorbjørn Jagland. Ecco il testo.

Gentile Alto Rappresentante /Vice Presidente Federica Mogherini,
Gentile Segretario Generale Thorbjørn Jagland,

Venerdì 15 luglio la Turchia è stata vittima di un tentativo di colpo di stato che ha provocato più di 200 vittime, per la maggior parte civili, e più di 1400 feriti. Subito dopo, il Governo turco ha avviato un’epurazione su larga scala e del tutto sproporzionata in seno all’apparato statale. Dal giorno in cui ha avuto luogo il fallito colpo di stato, fino al 20 luglio 2016, il numero complessivo di epurazioni (sospensione dagli incarichi e arresti) nel servizio pubblico ammonta a più di 61.000 persone. Le purghe hanno colpito in particolare i seguenti settori: ministero della Giustizia (2.875 giudici e pubblici ministeri); Ufficio del Primo ministro (257 dipendenti); ministero degli Affari interni (8.777 agenti di Polizia, Gendarmeria, governatori di distretti provinciali, governatori locali e personale); ministero dell’Istruzione nazionale (21.738 dipendenti sospesi); Consiglio dell’Educazione Superiore (116 professori, compresi 4 rettori, più 1.577 presidi di facoltà cui è stato chiesto di dimettersi); ministero della Famiglia e delle Politiche sociali (393 impiegati statali); ministero delle Finanze (1.500 dipendenti); Agenzia di Intelligence nazionale (100 dipendenti); Autorità di Regolamentazione del Mercato energetico (25 dipendenti); ministero dello Sviluppo (16 dipendenti); ministero delle Foreste e delle Risorse idriche (197 dipendenti); ministero dell’Energia e delle Risorse naturali (300 dipendenti); ministero dello Sport e della Gioventù (245 dipendenti); ministero dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione (70 dipendenti); Consiglio supremo per Radio e Tv (29 dipendenti); Agenzia di Regolazione e Supervisione bancaria (86 dipendenti); ministero del Commercio e delle Dogane (176 dipendenti); Autorità garante della Concorrenza (8 dipendenti); Corte militare d’Appello (35 dipendenti); ministero della Difesa (7 dipendenti); Borsa di Istanbul (51 dipendenti).

É stata revocata la licenza di insegnamento a 21.000 docenti di scuole private.

É probabile che i prossimi saranno gli accademici. Migliaia di universitari erano già sotto inchiesta, con l’accusa di “dare sostegno” alle attività terroristiche, per aver difeso la popolazione curda nel Sud-Est della Turchia, sottoposta nel corso dell’ultimo anno a un attacco esteso e letale da parte delle forze regolari turche.

Secondo numerose fonti – tra queste il Commissario europeo per la Politica di vicinato e i Negoziati per l’allargamento Johannes Hahn – la lista delle persone da arrestare era già pronta prima che iniziasse il colpo di stato. Alcune di queste fonti asseriscono che il colpo di stato è stato messo in atto come extrema ratio contro tali liste.

Il Primo ministro turco ha sospeso le ferie di più di tre milioni di dipendenti pubblici in tutto il Paese, e ai dipendenti del settore pubblico è stato vietato di viaggiare all’estero. Inoltre, secondo un’intervista rilasciata alla CNN il 18 luglio 2016, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non ha escluso la possibilità di ripristinare la pena di morte nel Paese. Nel frattempo, il Governo ha dichiarato lo stato d’emergenza e la sospensione temporanea della Convenzione europea dei Diritti umani, come consentito dall’articolo 15 CEDU. Questo articolo non permette però di venir meno al rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla Convenzione.

Non esiste più, in conclusione, un sistema di pesi e contrappesi. Secondo alcuni resoconti, le persone messe sotto custodia non riescono a trovare avvocati difensori, perché nessuno si esporrebbe al rischio di difenderle e di entrare così a far parte della lista delle epurazioni.

La Turchia è firmataria della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e del Protocollo n. 6 della CEDU riguardante l’abolizione della pena di morte. Come Paese candidato all’adesione all’UE, la Turchia si è anche impegnata al pieno rispetto dei criteri di Copenhagen, tra cui la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze, oltre all’abolizione della pena capitale.

Noi, firmatari di questa lettera, condanniamo ogni tentativo di rovesciare l’ordinamento democratico attraverso colpi di stato militari. Al tempo stesso, tuttavia, condanniamo le purghe attuate dal Governo turco in violazione dei diritti umani e dello stato di diritto. Il principio di indipendenza e d’imparzialità del potere giudiziario – insieme alla libertà dei media – è alla base dello stato di diritto e della democrazia. L’indipendenza politica dei corpi insegnanti fa parte delle condizioni di esistenza di una società libera.

Chiediamo all’Alto Rappresentante / Vice Presidente Federica Mogherini, così come al Segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland, di seguire da vicino la situazione in Turchia per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, e chiediamo di esigere l’immediata liberazione di tutti coloro che sono stati arbitrariamente arrestati e detenuti a seguito del fallito colpo di stato militare.

Ricordiamo il recente disegno di legge adottato dal Parlamento turco che revoca l’immunità dai procedimenti giudiziari per 138 parlamentari, appartenenti per lo più al partito di opposizione HDP e alla minoranza curda. Tutto sembra suggerire che il colpo di stato offra al Governo turco l’occasione di limitare ulteriormente il ruolo delle opposizioni e la loro funzione di vigilanza democratica. Poco dopo il suo arrivo a Istanbul, la mattina del 16 luglio, Erdogan ha affermato: “Questa insurrezione è un dono di Allah, perché ci consentirà di ripulire le forze armate”.

Chiediamo quindi all’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini di esaminare la situazione, prestando particolare attenzione alla condizione della minoranza curda e delle altre minoranze nel Paese. Esortiamo allo stesso modo il Segretario Generale Thorbjørn Jagland, perché ricordi al Governo turco l’obbligo di rispettare la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e tutti i suoi Protocolli, che comprendono il diritto alla vita, al giusto processo, alla protezione da arresti arbitrari.

Sollecitiamo inoltre l’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini affinché chieda al Consiglio europeo di sospendere immediatamente l’accordo UE-Turchia firmato il 18 marzo 2016, alla luce dei recenti sviluppi e in considerazione del fatto che già al momento della firma dell’accordo la Turchia non era un “paese sicuro” per rifugiati e richiedenti asilo.

Infine chiediamo a tutti gli Stati membri dell’UE di impegnarsi con forza presso il Governo turco affinché nel Paese siano pienamente ristabiliti lo stato di diritto e i principi democratici, come condizione essenziale per futuri rapporti diplomatici e per la continuazione dei negoziati di adesione. Con i migliori saluti,

Barbara Spinelli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Albena Azmanova – Professore associato in Political and Social Thought, University of Kent, Brussels School of International Studies, UK
Étienne Balibar – Filosofo, Professore Emerito presso l’Université de Paris-Ouest, Francia, e Anniversary Chair in Modern European Philosophy, Kingston University London, UK
Seyla Benhabib – Eugene Mayer Professor in Political Science and Philosophy, Yale University, USA
Sophie Bessis – Storica, ricercatrice presso l’Institut de relations internationales et stratégiques di Parigi, Francia e Tunisia
Hamit Bozarslan – Storico e politologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Susan Buck-Morss – Filosofa politica, CUNY Graduate Center, NYC, USA
Judith Butler – Maxine Elliot Professor in Comparative Literature and Critical Theory, University of California, Berkeley, USA
Claude Calame – Storico e antropologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Joseph H. Carens – FRSC Professor in Political Science, University of Toronto, Canada
Maeve Cooke – Membro della Royal Irish Academy, MRIA School of Philosophy, University College Dublin, Irlanda
Vincent Duclert – Storico, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Didier Fassin – Professore in Social Sciences, Institute for Advanced Study, Princeton, USA
Éric Fassin – Professore in Sociologie, Université de Paris-8, Francia
Shelley Feldman – International Professor, Cornell University, USA
Michael Hardt – Professor, Duke University, USA
David Harvey – Distinguished Professor, Graduate Center of the City University of New York, USA
Marianne Hirsch – William Peterfield Trent Professor in English and Comparative Literature e Direttrice dell’Institute for Research on Women, Gender, and Sexuality, Columbia University, USA
Philip Hogh – Philosophy Department, Carl von Ossietzky University Oldenburg, Germania
Jean E. Howard – George Delacorte Professor in Humanities, Department of English and Comparative Literature, Columbia University, USA
Julia Koenig – Institute for Social Pedagogy and Adult Education, Goethe University, Frankfurt am Main
Elena Loizidou – Reader in Law and Political Theory at School of Law, Birkbeck, University of London, UK
Sandro Mezzadra – Professore di Teoria politica, Università di Bologna, Italia
Jennifer Nedelsky – Faculty of Law and Political Science, University of Toronto, Canada
Rosalind Petchesky – Distinguished Professor Emerita in Political Science, Hunter College & the Graduate Center, City University of New York, USA
Ilaria Possenti – Dipartimento di Scienze umane, Università di Verona, Italia
Mary Louise Pratt – Silver Professor, Professor Emerita of Social and Cultural Analysis, Spanish & Portuguese, Comparative Literature, New York University, USA
Lynne Segal – Anniversary Professor, Psychosocial Studies, Birkbeck College, University of London, UK
Vicky Skoumbi – Caporedattore del quotidiano αληthεια (Aletheia), Grecia
Céline Spector – Professore, Department de Philosophie Université Bordeaux Montaigne e membro onorario Institut Universitaire de France, Francia
Yanis Varoufakis – Professore in Economic Theory presso l’Università di Atene, ex-ministro delle Finanze e deputato del Parlamento greco, Grecia
Frieder Otto Wolf – Freie Universität Berlin, ex-deputato del Parlamento europeo, Germania
Vladimiro Zagrebelsky – ex Giudice della Corte Europea dei Diritti Umani
François Alfonsi – Presidente dell’European Free Alliance (EFA)
Brando Benifei – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
José Bové – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Nicola Caputo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Fabio Massimo Castaldo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Fabio De Masi – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Karima Delli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Pascal Durand – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
José Inácio Faria – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Eleonora Forenza – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
María Teresa Giménez Barbat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Ana Maria Gomes – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tania González Peñas – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Yannick Jadot – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Benedek Jávor – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Eva Joly – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Josu Juaristi Abaunz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Jude Kirton-Darling – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Stelios Kouloglou – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Merja Kyllönen – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Patrick Le Hyaric – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Paloma López Bermejo – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Lorena Lopez de Lacalle – Tesoriere della Treasurer European Free Alliance (EFA)
Marisa Matias – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Stefano Maullu – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo del Partito Popolare Europeo (PPE)
Marlene Mizzi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Ulrike Müller – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Javier Nart – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Carolina Punset – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Michèle Rivasi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Sofia Sakorafa – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Elly Schlein – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Helmut Scholz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Branislav Škripek – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR)
Jordi Sole – Segretario generale della European Free Alliance (EFA)
Bart Staes – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Dario Tamburrano – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Miguel Urbán Crespo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Pello Urizar – Segretario Generale di Eusko Alkartasuna (Basque political party)
Ernest Urtasun – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Monika Vana – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Marie-Christine Vergiat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Julie Ward – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tatjana Ždanoka – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE

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