«Qualsiasi siano i limiti del bicameralismo perfetto (e ci sono), il processo legislativo in Italia non è rallentato principalmente dalla necessità del doppio passaggio, ma da leggi scritte male Da quanti anni lo ripeteva il nostro amico Gigi Scano!
La Repubblica, 29 agosto 2016 (c.m.c.)
La tragedia di questi giorni, con il suo corredo di ricerca delle responsabilità, non per il terremoto, ma per le sue conseguenze evitabili in termini di distruzione e di morte, ci mette di fronte alle troppe semplificazioni con cui si è affrontata e si affronta tuttora, in vista del referendum, la riforma costituzionale, da parte sia di chi è a favore sia di chi è contro. Una delle “ragioni forti” avanzate dai sostenitori della riforma è che, superando il bicameralismo perfetto, si sveltirebbe il processo legislativo, rendendo più efficienti ed efficaci i processi decisionali.
Purtroppo le cose non stanno così. Qualsiasi siano i limiti del bicameralismo perfetto (e ci sono), il processo legislativo in Italia non è rallentato principalmente dalla necessità del doppio passaggio, ma da leggi scritte male, che richiedono “interpretazioni autentiche”, o che individuano male (per superficialità del legislatore, scarsa conoscenza dei fenomeni, cattivo uso delle informazioni) i propri obiettivi e perciò, inevitabilmente, li mancano. Si potrebbero fare diversi esempi in molti settori.
Il caso degli incentivi per l’adeguamento antisismico nelle zone a rischio è, ahimè, esemplare. Da un lato, ci si è affidati alla capacità e volontà dei comuni di informare e incoraggiare i propri abitanti circa questa possibilità, come se la sicurezza fosse un optional affidato esclusivamente all’iniziativa e predilezione privata, non parte di un bene comune di cui tutti siamo responsabili nelle nostre azioni.
Mentre un comune può decidere, in nome del decoro urbano, sul colore delle facciate e delle persiane e se e dove si può appendere il bucato, o anche di mettere le valvole per misurare il calore erogato, non può imporre a un cittadino, a un condominio, di mettere a norma antisismica la sua abitazione, tantomeno controllare se lo ha fatto.
Abbiamo visto come in uno dei comuni distrutti pochissimi avessero fatto richiesta dell’incentivo (e quei pochi sono stati beffati dall’incompetenza di un impiegato). Dall’altro lato, la legge che destina gli incentivi a chi abita nelle zone antisismiche esclude la detrazione del 65 per cento del costo di adeguamento antisismico per le seconde case. Ma nei piccoli centri spesso le seconde case sono la grande maggioranza (il 70 per cento secondo alcune stime), anche se sono divenute tali nel passaggio generazionale.
Lo abbiamo visto e sentito in questi giorni, apprendendo come molti dei paesi distrutti triplicassero ogni estate i propri abitanti, con chi tornava per le vacanze nella casa che era stata dei genitori o dei nonni, quando non si trattava di nipoti in visita dai nonni in attesa che ricomincino le scuole. Il ridotto numero di richieste per gli incentivi può essere in parte dovuto a questa esclusione, che di fatto ha considerato le seconde case un “non rischio” non solo per i loro proprietari, ma anche per i loro vicini.
Un altro esempio, sempre di drammatica attualità dato che riguarda come e da chi sono fatti i lavori, è la riforma degli appalti, cruciale per evitare costruzioni ex novo, o ristrutturazioni, fatte male per negligenza o delinquenza, come sembra sia avvenuto anche in edifici pubblici dei paesi coinvolti. Come si è ricordato su questo giornale, il decreto legislativo 50 è stato sì pubblicato il 19 aprile 2016 sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, nonostante si tratti già di un testo molto ponderoso, rimane un testo di fatto “vuoto”, perché mancano del tutto gli innumerevoli decreti di attuazione. È un fenomeno purtroppo ben noto nel processo legislativo italiano, dove molte leggi rimangono inapplicate non per dolo, ma per mancanza dei regolamenti necessari.
Più che ai guai del bicameralismo siamo di fronte ad un modo di legiferare bizantino, che rimanda sempre ad un altro passaggio, mentre nei vuoti si incuneano la negligenza, l’arroccamento difensivo della burocrazia (meglio non fare per non incorrere in sanzioni), quando non il malaffare. Sono questioni che non riguardano, ovviamente, la Costituzione e la riforma costituzionale. Anche se i “danni collaterali”, le distruzioni e le morti evitabili con una maggiore cura dell’ambiente e delle infrastrutture, con una più diffusa e capillare assunzione di responsabilità, hanno leso i principi costituzionali del diritto alla vita e alla sicurezza. Sono questioni che riguardano, appunto, il processo legislativo.
Mettere tutta l’attenzione sulla riforma costituzionale, come se lì si annidassero tutti i problemi o tutte le soluzioni, rischia di eludere quello che, a mio modesto parere, è il problema centrale del processo legislativo italiano, che andrebbe profondamente ripensato.
C'è un giudice a Parigi: «un grave attentato, manifestamente illegale, alle libertà fondamentali che sono la libertà di spostarsi, la libertà di coscienza e la libertà personale».
Il manifesto, 27 agosto 2016
Dopo le polemiche dei giorni scorso il Consiglio di stato francese si è pronunciato ieri contro il provvedimento anti-burkini di Villeneuve-Loubet, uno dei circa 30 comuni francesi che avevano vietato di indossare sulle spiagge il costume integrale islamico.
La decisione è stata presa dai tre giudici del collegio esaminante e dispone l’annullamento dell’ordinanza del Tar di Nizza che convalidava quella del comune della Costa azzurra. A Villeneuve-Loubet, indossare abiti religiosi in spiaggia è di nuovo autorizzato a partire da ieri. Tutto questo dopo l’irruzione dei poliziotti che avevano intimato a una donna di togliersi il burkini; un’immagine che nei giorni scorsi aveva fatto il giro del mondo.
Negli altri comuni che hanno adottato la stessa decisione - una trentina - i divieti restano in vigore fin quando non saranno contestati davanti alla giustizia. La presa di posizione di ieri potrebbe portare all’annullamento di tutti gli altri divieti ancora esistenti.
Come sottolineato dal sito di Le Monde, quella del Consiglio di Stato è una decisione di principio che non mancherà di essere estesa a tutti gli altri casi in cui verrà fatto ricorso. Il collegio di tre giudici ha infatti sottolineato che l’ordinanza contro tenute da bagno «islamiche» rappresenta «un grave attentato, manifestamente illegale, alle libertà fondamentali che sono la libertà di spostarsi, la libertà di coscienza e la libertà personale».
«Rischia di essere letto in modo frammentario perdendo di vista il significato del viaggio: dagli abissi più terribili alle difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico».
La Repubblica, 27 agosto 2016
È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, Il viaggio di Dante (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto. È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante — non è un mistero per nessuno che la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria — episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito…).
Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante…). Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, — e anche nel senso più letterale del termine — la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale. Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè… Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?). Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani.
Se uno rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione, non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue forme.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, — come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, — infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, — Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice — trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno. Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare. Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, — di tutto il mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, — quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, — senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre tutti, — non solo i pretesi o presunti specialisti, — un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.
«Emergency è un luogo in cui cura e attenzione alle persone si legano alla «bellitudine», anche in zone di guerra».
Il manifesto, 27 agosto 2016 (p.d.)
Progettare in zone di crisi secondo l’esperienza che ho maturato con l’organizzazione umanitaria
Emergency significa saper coniugare, anche in contesti difficili, etica ed estetica; dare risposte pratiche all’emergenza ma anche porre la questione di cosa l’edificio rappresenti in quei luoghi, quindi si deve parlare di bellezza o meglio di quello che preferiamo definire: «bellitudine» (una parola nata per caso da un errore diventato poi per noi un programma).
La «bellitudine» è qualcosa di diverso dalla bellezza, è una parola «sporca», imperfetta, che accoglie le asperità della vita, non ha l’eterea distanza della bellezza. La «bellitudine» sintetizza quello che per noi significa coniugare etica ed estetica.
Ci si stupisce sempre quando si parla di bellezza in progetti d’emergenza come quelli realizzati da Emergency, in realtà ci si dovrebbe stupire del contrario, del perché un ospedale in Africa, in un luogo di guerra, o in una tendopoli post terremoto non dovrebbe essere bello? Non vi è alcun motivo razionale alcuna giustificazione pratica. È semplicemente una questione di cultura e attenzione.
Per questo ci piace parlare di «bellitudine» perché la parola bellezza è troppo «scivolosa», chi decide cos’è bello o meno, in base a quale criterio?
«Bellitudine», invece, si toglie da questa secolare disquisizione, è qualcosa d’altro, più sottotono, modesto: è semplicemente cura delle cose, dei dettagli, delle proporzioni, amore delle persone, in sintesi rispetto. Dal rispetto non può che nascere qualcosa di bello, non può essere altrimenti.
Si è discusso per secoli di bellezza. Alla fine se ne è parlato talmente tanto che ci siamo dimenticati di cosa sia veramente la bellezza. Allora, inventare una nuova parola ci toglie d’impaccio e ci permette di tornare a parlare di bello senza tanti patemi.
In questa prospettiva i progetti «belli» partono da un principio di giustizia. Partono dal presupposto che stare in un luogo, pulito, curato armonioso, anche creativo sia una sorta di diritto.
Non è una questione di costi ma di cultura. La progettazione in zone di crisi ha a che fare con il futuro e non si può che immaginarlo migliore del presente, non avrebbe senso pensarlo altrimenti.
Il futuro ha il respiro ampio dell’utopia non ha nulla a che fare con l’emergenza, deve superarla e basta.
Sono utopie molto concrete: tre alberi in un campo profughi in mezzo al deserto, una parete colorata nel mezzo del grigio di una periferia, un edificio pulito nel mezzo del degrado che sia il post terremoto o il campo profughi, aiuterà le persone ad uscire dalla crisi, dalla disperazione, l’architettura aiuta ad immaginare un futuro (possibilmente migliore).
La «bellitudine» diventa così pratica concreta nei progetti di Emergency, parte dal rispetto delle persone, dei loro diritti di vivere in un luogo accogliente che sia nell’ultima delle periferie, in un campo profughi, o in mezzo alla nuova povertà.

« La Repubblica, 26 agosto 2016 (c.m.c.)
Oggi, a metà agosto 2016, leggo che sono già 2500 i migranti annegati nel Mediterraneo tra gennaio e maggio, un terzo in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E leggo anche che da gennaio in Francia sono morte 68 donne, uccise dai loro compagni o dai loro ex senza che la notizia finisse mai in prima pagina, giusto un caso di cronaca come tanti. Queste statistiche, che sembrano avere in comune soltanto la morte di esseri umani e l’indifferenza, l’accettazione fatalista che essa provoca, mi sono tuttavia parse, in maniera intuitiva, meritevoli di una riflessione.
In quanto donna che sa quanto sia stato lungo il cammino fatto per ottenere l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, che si è rallegrata di vederla figurare tra i “principi fondamentali” dell’Unione Europea, mi sento spesso preda di turbamenti, e scoraggiata. Ci si dice, dati alla mano, che le ragazze hanno un tasso di successo scolastico superiore a quello dei ragazzi, che svolgono ogni professione, che sono “presenti” dappertutto, come se ancora non si trattasse di qualcosa di scontato.
Ma presenti quanto, come? Queste giovani donne con più titoli di studio dei loro colleghi scompaiono per incanto prima di varcare la soglia degli uffici dirigenziali, nelle imprese, in politica, nei consigli di facoltà, nelle giurie letterarie. La lista è lunga. Quanto a quelle che, in maniera comparabile agli uomini, sono riuscite a realizzarsi come ministre, artiste, scrittrici, registe, umoriste, imprenditrici, arriva sempre un momento in cui tutte, chi più chi meno, provano l’impressione confusa di non essere considerate nei rispettivi ambiti “legittime” o “credibili” quanto i loro omologhi maschili, spesso a causa dei modi accondiscendenti, dell’eccessiva confidenza, nonché talvolta della violenza verbale cui sono esposte. Una violenza verbale che risulterebbe scandalosa se a farne le spese fosse un uomo, una violenza che riduce le donne ai loro corpi, le essenzializza.
Edith Cresson, la sola donna che finora abbia ricoperto l’incarico di primo ministro in Francia, constatava: «Se un uomo urla davanti all’Assemblea nazionale si dice: che oratore! Se a farlo è una donna si dice: guarda che isterica!». Non sopportando di essere vittimizzate, il più delle volte queste donne, e ne faccio parte anch’io, oppongono alle aggressioni la loro calma e la loro forza. Ma non fraintendiamoci: ciò che davvero sottintendono questi attacchi è la “normalità” implicitamente riconosciuta del potere maschile, nella sfera pubblica ma anche in quella privata.
Una normalità che autorizza l’accondiscendenza e le frasi umilianti, ma anche — derivanti da un’identica sensazione, dalla convinzione di poterlo fare — i palpeggiamenti, gli stupri e le violenze coniugali. Una normalità che comporta il silenzio di chi la subisce, e l’indifferenza dei media. Per fare i conti con questa realtà abbiamo avuto bisogno che, 13 anni fa tra qualche giorno, morisse un’attrice celebre, Marie Trintignant, per le percosse del suo altrettanto celebre compagno, il cantante Bertrand Cantat: non c’è donna che sia al riparo dalla violenza fisica maschile, fino a morirne.
Qual è il legame tra quanto di peggio possa capitare a una donna — questa espressione estrema di un’egemonia maschile manifesta e condivisa — e i naufragi di migranti nel Mediterraneo? Cercando di vederci più chiaro su quanto mi è venuto da collegare intuitivamente, direi che in gioco c’è il posto delle donne all’interno di un’Europa che si sta via via trasformando in una fortezza. A nessuno sfugge il ripiegamento dei Paesi europei sulle proprie identità nazionali, né il fatto che i migranti vengano percepiti nel migliore dei casi come un “problema”, nel peggiore come un “pericolo”.
Ora, nella Storia il nazionalismo è sempre stato accompagnato da valori virili, in primo luogo quello dell’autorità. Il richiamarsi a un ordine “naturale” e il ritorno alla tradizione, qualunque essa sia, sono sempre andati a svantaggio delle donne, in un modo o nell’altro. Alcune conquiste sono fragili: lo è il diritto alla contraccezione, lo è il diritto all’aborto. E aggiungerei anche il matrimonio omosessuale, a sua volta accusato da chi gli si oppone di essere contro-natura.
Assisto all’avanzata di questa ideologia conservatrice e intollerante giorno dopo giorno. Anche la cronaca francese di questi giorni me ne offre un esempio, insidioso e ingannevole: il divieto di indossare il burkini, emanato e difeso da sindaci — maschi — che lo giustificano adducendo, tra i vari pretesti, anche quello del femminismo, ergendo insomma il bikini a vessillo della nostra libertà.
L’inganno sotteso è quello di avallare in nome della libertà delle donne un tipo di provvedimento che conduce all’esatto contrario, dal momento che proprio a delle donne impedisce di vestirsi come vogliono nello spazio pubblico di una spiaggia. Il provvedimento ha suscitato un dibattito nazionale, cosa che apparirebbe surreale se non fosse evidente che si tratta di un’altra zuffa per il controllo del corpo femminile: è questo il punto a cui siamo nel 2016.
Non posso terminare questo mio breve contributo alla celebrazione di quel manifesto di Ventotene che ha gettato le fondamenta dell’Unione Europea se non auspicando l’avvento di un’Europa sociale e aperta, rivolta verso il mondo, un’Europa che sia la migliore garante della libertà delle donne.
«Non è forse questo il dramma della sinistra? L’aver pensato che, una volta occupato il Palazzo, quello stesso linguaggio usato dagli avversari avrebbe assunto un significato diverso. Bastava, in una parola, prendere il potere e il mondo sarebbe cambiato».
Il manifesto, 24 agosto 2016, con postilla
L’articolo-appello di Valentino Parlato (Economia e politica, una crisi mai vista, il manifesto dell’11 agosto), è un grido di appassionata disperazione (mi si consenta il termine in una accezione non disfattista) contro la «morte della politica, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente». Un pur fugace raffronto con altri tempi (quello dei Togliatti, Nenni, La Malfa e perfino De Gasperi), appare impietoso, fuori misura – sostiene Parlato -, tanto quella attuale è un’epoca di tristi ed effimere passioni, oltre che mediocri figure.
L’articolo denuncia la crisi culturale che accompagna la morte della politica, quasi non si riuscisse più a rappresentarla con la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, i linguaggi con i quali, in passato, sono state raccontati periodi di crisi (si cita, ad esempio, Furore di Steinbeck, a proposito della Grande Crisi del Ventinove). Come ci rappresentiamo oggi? In che modo raccontiamo noi stessi e l’epoca che attraversiamo?
Solo raramente la letteratura, il cinema, l’arte in generale, riescono oggi a raccontare o rappresentare con efficacia vissuti di fragilità, storie minori di comunità accoglienti, piccoli (ma importanti) episodi di solidarietà. Queste narrazioni svolgono una funzione sociale salutare, restando però minoritarie, frammentarie, così che solo in qualche caso sono capaci di indicare, indirettamente, altre strade che la politica potrebbe percorrere, fuori dal rumore delle grandi ideologie, dei dibattiti estenuanti sulla sinistra che non c’è ma che vorremmo.
Nel frattempo, le casematte gramsciane del pensiero critico – scuola e università – venivano occupate, smantellate, convertendole alla più perversa delle ideologie liberiste: quella della valutazione di qualità, del cosiddetto merito individuale misurato a suon di indicatori partoriti da fantomatiche agenzie private.
Non furono i rappresentanti del pensiero liberista a compiere questi misfatti: l’iniziativa fu intrapresa ad opera di politici della sinistra che in un sol colpo cancellarono l’eredita di don Milani, a dimostrazione che l’avversario non veniva da lontano; nasceva e cresceva nel solco della stessa cultura di sinistra.
Fare politica in modo nuovo significa allora rifiutare innanzitutto di assumere le stesse modalità di ciò che si vuole combattere, dice Michela Murgia nel suo ultimo libro dal titolo polemico Futuro interiore. Rifiutare quella logica stringente e perversa del fare, altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi nei luoghi in cui si deve decidere facendolo nell’unico linguaggio che sarà rimasto per farlo e che è quello stesso da cui ci si voleva liberare.
Non è forse questo il dramma della sinistra? L’aver pensato furbescamente, ad esempio, di condizionare i “miracoli” dell’economia finanziaria usandola a proprio vantaggio o l’aver pensato che, una volta occupato il Palazzo, quello stesso linguaggio usato dagli avversari avrebbe assunto un significato diverso. Bastava, in una parola, prendere il potere e il mondo sarebbe cambiato.
Non è ancora questo che si pensa delle Olimpiadi? A sinistra si dice che sono quasi sempre gestite male, ma che se a farlo fosse la sinistra diventerebbero un’opportunità eccezionale; ecco il miracolo! Di più, basta assistere a una qualche discussione politica di qualche nuova sinistra nascente in occasione di elezioni politiche, per capire subito quanto il linguaggio, i metodi e le astuzie usate appartengono al passato respingendo chi si avvicinasse con curiosità e magari speranza.
Questo delirio di onnipotenza e di supponenza ha avuto come esito lo sradicamento totale dell’idea stessa di un’altra possibile via; vale per la l’idea di crescita, di sviluppo, per la globalizzazione e perfino per l’idea di progresso. Miti e riti che rimbalzano da sinistra a destra e viceversa, con gli stessi contenuti, come se a cambiare loro il segno spettasse al Conduttore.
E così la vulgata machiavellica del fine che giustifica i mezzi ha scatenato la ricerca del compromesso ad ogni costo fino alla perversione della sinistra stritolata dalla sua stessa misera furbizia.
Un delitto perfetto dal momento che omicida e vittima sono la stessa persona. Così oggi scopriamo che tanti compagni non nutrono simpatie per i migranti, che condividono l’idea di supremazia dell’Occidente, che hanno una cultura sessista, che sono fiancheggiatori del Mercato, del Privato, che ci hanno concesso la libertà assoluta di avere tutto ciò che desideriamo, che, ancora, tanti compagni mandano i figli a studiare alla Bocconi, mentre con l’altra mano firmano petizioni a favore dell’università pubblica.
E’ mancata una rivoluzione culturale all’altezza della crisi né se ne intravedono segnali. Tanto più allora è da prendere in considerazione la proposta di Parlato quando, dalle pagine di questo giornale, sollecita «una discussione che mobiliti e apra una battaglia culturale e politica». Quali che siano state le colpe e gli errori del passato e quali che siano le difficoltà del presente, esse non ci possono esimere dal prenderci le responsabilità di sognare un futuro diverso.
Ma, per farlo, sforziamoci di utilizzare un linguaggio nuovo, nuovi modi di dialogare tra noi; utilizziamo il linguaggio della tolleranza e della pazienza, considerato che all’orizzonte non si intravedono nuovi profeti che ci salvino dal naufragio in corso.
postilla
L'errore di puntare al potere per il potere è cominciato con D'Alema ed è giunto al punto terminale con Renzi; più giù c'è solo il fascismo. Per costruire una realtà politica e sociale che svolga nel XXI secolo un ruolo simile a ciò che fu la sinistra dei secoli sorsi (cioè una forza antagonista al sistema dominante) occorre saper affrontare problemi nuovi (dall'equilibrio tra uomo e ambiente all'esodo dai Sud ai Nord del mondo) e occorre insieme individuare (e saper mobilitare) una nuova base sociale di riferimento. Il mondo degli sfruttati è oggi diverso da quello dei secoli passati. Hic Rhodus, hic salta .
Articoli di T. Colluto e L. Musolino, T. Rodano e A.Segre
. Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2016 (p.d.)
L’ESTATE ETERNA
DEI NOSTRI SCHIAVI
di Tiziana Colluto e Lucio Musolino
Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tra le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.
Lecce: “Poco pomodoro, uguale poco lavoro”
Abdul va e viene tra le baracche, con un bicchiere in mano: “Una moneta, mi serve per tornare a casa”. Casa è la tendopoli di Rosarno, da cui il ghetto di Nardò, nel leccese, sembra lontano una distanza infinita quando si è senza un soldo: quest’anno, per molti, l’impiego tra i filari non c’è neanche a pagarlo ai caporali. Poco pomodoro, poco lavoro. Ahmed spunta da dietro un ulivo: “Io dormo qui da nove giorni e non mi hanno chiamato una volta. Il ‘capo nero’ è arrabbiato con me, perché gli ho detto che con questi prezzi solo lui mangia”.
I costi sono quelli fissi: 5 euro al giorno per il trasporto; 3 euro per il panino; 1,50 euro la cresta su ogni cassone che al lavoratore frutta appena 3,50 euro. Ma non c’è posto qui per la ribellione. Tra gli schiavi della terra, nulla è cambiato in Puglia. Solo il sole meno severo non ha reso anche questo l’anno di Mohamed, Zaccaria e Paola, i tre braccianti schiantati dal caldo e dalla fatica la scorsa estate.
L’ordinanza che impedisce di restare sui campi dalle 12 alle 16, voluta dal sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha un limite intrinseco: si applica solo al territorio neretino. Un metro più in là, a Copertino come nel resto della regione, è ancora far west. È mutato solo ciò che non si vede. Le prime file della catena di comando si sono inabissate: i caporali lasciano il lavoro sporco ai capisquadra, che si confondono con i braccianti, vivono nel ghetto con loro, li reclutano tramite Whatsapp, insieme raggiungono in auto le campagne. All ’apparenza, quasi un’autogestione. Nella realtà, è l’organizzazione ad essersi fatta sofisticata, liquida. Perché la controffensiva della magistratura qui è stata, paradossalmente, una lezione al contrario: dopo l’operazione Sabr, che quattro anni fa ha portato in carcere 16 persone tra imprenditori e intermediari, il cartello del caporalato ha imparato in fretta a non esporsi. E ora rischia anche di farla franca: troppo complicato far reggere in giudizio le accuse di riduzione in schiavitù e tratta di persone. “Se dovesse andare male il processo nato da quell’inchiesta – ammette il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta – si dovrà ricominciare da capo”. Il ddl sul caporalato approvato in Senato tre settimane fa a chi è in trincea fa storcere il naso: “Per me, è una schifezza, – dice Motta – quella norma ha un errore di impostazione. Parte dalla necessità di punire l’intermediario e solo in casi particolari il datore di lavoro. Invece, la legge avrebbe dovuto colpire in primis chi utilizza i braccianti in condizioni di grave sfruttamento e poi, per concorso, gli altri”.
Trecento chilometri più a nord, nel foggiano, c’è lo stesso scenario. Una città di baracche di plastica e cartone. Un inferno esasperato: sono quasi 2mila i migranti nel “Gran ghetto di Rignano”, sotto sequestro dopo l’incendio che lo ha devastato, il 23 marzo. Lo smantellamento del campo, promesso a più riprese dal governatore Emiliano, tiene tutti in ansia: “Per me va bene – dice Amadou – perché qui siamo senza acqua né luce e le persone vengono sfruttate, ma devono darci un’alternativa vera”. Hanno proposto una tendopoli a San Severo, è lontana 30 chilometri. “Lo sgombero ora è impensabile. Avverrà in inverno, quando gli stanziali sono meno di 200”, assicura Stefano Fumarulo, dirigente della Sezione Politiche per le migrazioni della Regione Puglia. I progetti di ospitalità in un campo container adeguato sono destinati, anche quest’anno, ad essere rimandati al prossimo. Forse: i 4 milioni di euro che si attendevano dal governo, dopo la firma del protocollo di lotta al caporalato di fine maggio, non sono arrivati. Fermi anche i 500mila euro stanziati da Bari per incentivi all’ospitalità e gli altrettanti per il trasporto: le aziende non si sono fatte avanti. E degli 800mila euro impegnati tre anni fa per rafforzare i controlli, ne sono stati spesi appena 48mila. Nella lotta al caporalato, neanche i soldi, quelli pubblici, fanno la loro parte. “Il tema vero è l’avviamento al lavoro e qui va sempre peggio – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia. A Lecce, a fronte di 200 iscritti nelle liste di prenotazione da cui le imprese possono attingere, lo scorso anno ci sono state 80 assunzioni, quest’anno appena 40. A Foggia, su 800 iscrizioni, zero contratti ”. Meglio pescare gli schiavi nell’economia illegale.
Le stalle di Cosenza e le tende di Gioia Tauro
San Ferdinando, Calabria. Siamo nell’area industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. “Non ho visto nessun cambiamento rispetto a quando è morto il fratello Sekine Traore. Nessuno ci ha dato una mano”. Sono passati due mesi dal giorno in cui un colpo di pistola, sparato da un carabiniere intervenuto a sedare una rissa, ha ucciso un ragazzo del Mali all’interno della baraccopoli dei braccianti. I “fantasmi neri” non hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa ma non vuole dire il suo nome. È un ragazzo del Ghana. Vive col figlio nell’indegna tendopoli di Rosarno. “Presto – anche lei – dovrà essere smantellata. Lì, di fronte, costruiranno quella nuova”.
Decisione della prefettura. La Regione ha stanziato 300mila euro per acquistare le tende e far vivere maniera dignitosa i migranti stagionali che in Calabria raccolgono le arance. All’epoca, il governatore Mario Oliverio aveva parlato di “ghetto”. Sono trascorsi oltre sei mesi ma quel ghetto è sempre lì.
In questi giorni la Protezione civile sta gestendo l’appalto per l’acquisto di 44 nuove tende che ospiteranno 440 migranti. Pochi: d’inverno la tendopoli di San Ferdinando esplode con oltre mille stagionali, protagonisti già nel gennaio 2010 di una violenta rivolta. I progetti di accoglienza diffusa previsti nel protocollo tra prefettura e Regione non sono mai partiti, i migranti che non troveranno posto nella tendopoli saranno costretti a costruire nuove baracche.
“Adesso siamo solo 200, – spiega uno di loro – molti sono andati a Foggia e in Campania per la raccolta dei pomodori, ma torneranno”. Il Comune di San Ferdinando è sciolto per mafia. Un funzionario riconosce: “Nella nuova tendopoli i posti sono troppo pochi”. E come si fa? “Me lo domando pure io. – risponde. Succederà la rivoluzione. Con quale criterio assegneranno le tende? E gli altri migranti che faranno? La baraccopoli bis?”.
Altrove la situazione è ancora più tragica. Nella piana di Sibari, un’inchiesta della guardia di finanza (che ha denunciato 49 persone) ha svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta e un caporale pachistano, che in un anno è riuscito a guadagnare circa 250mila euro, in parte finiti nelle casse della cosca locale. Era il dominus a cui si rivolgevano gli imprenditori agricoli per recuperare manodopera illegale. Sequestrava i documenti dei lavoratori e li costringeva a vivere in condizioni oltre il limite: le loro “case”erano stalle e porcili. Dormitori sommersi dalla paglia e dall’immondizia. Esseri umani trattati letteralmente come bestie.
In Basilicata la storia non è diversa. La linea di chi amministra è una sola: smantellare le baracche. Per il resto, nessuno ha chiaro come contrastare il caporalato. A Boreano, una frazione di Venosa, in provincia di Potenza, l’accampamento dei braccianti è stato distrutto e i migranti trasferiti nei centri di accoglienza gestiti dalla Croce Rossa. “I lavoratori non vogliono andare lì perché sono zone molto scomode e senza alcun servizio. – spiega Giulia Bari, responsabile di Medu (Medici per i diritti umani). Non hanno i letti, dormono sulle brandine da campeggio e per mangiare hanno dei fornetti elettrici appoggiati sui tavoli di plastica. Non essendoci una rete di trasporto che colleghi i centri ai campi, saranno sempre i caporali a organizzare le squadre per andare a lavorare”. E poi ci sono le “liste di prenotazione”. I migranti che vogliono accedere al centro di accoglienza devono iscriversi: “La scelta di chi lavora è tutta nelle mani del caporale. È lui che comunica i nomi dei prescelti al datore di lavoro. Il caporale, insomma, fa le squadre”.
Il vecchio campo è smantellato, avanti il prossimo. “Vedrai – spiega Vincenzo Esposito, della Flai-Cgil – da qui a 20 giorni costruiscono una nuova baraccopoli altrove. Bisogna sottrarre questi lavoratori ai caporali, il resto serve a poco”.
“UNA BATTAGLIA DI
LAVORO E DIRITTI MA
LA SINISTRA NON C'E'”
di Tommaso Rodano e Andrea Segre
“Le condizioni pesantissime dei braccianti sono il punto di convergenza di due grandi assenze di diritti nella nostra società: quelli di chi lavora e quelli dei migranti economici”. Andrea Segre ha dedicato agli uni e agli altri – lavoratori e migranti – buona parte del suo impegno nella sua precoce e brillante carriera di regista. “Lo Stato”, aggiunge, “ha dimostrato di essere totalmente incapace di intervenire nel mercato del lavoro”.
Lei ha girato il documentario “Il sangue verde” a Rosarno nel 2010. Sei anni dopo non è cambiato nulla.
È tutto immobile, non solo a Rosarno. Sono stato a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove c’è uno dei più grandi mercati agricoli d’Europa di piccoli pomodori, i datterini. Un’enorme spianata disseminata di serre, dove lavorano tra i 3 e i 6 mila braccianti. Molte donne, soprattutto tunisine e romene. D’inverno vivono, lavorano e dormono dentro le serre. Sono stato accompagnato dagli operatori della Caritas, pensavano fossimo della parrocchia. È l’unico modo per frequentare questi posti: se uno parla di diritti fa una brutta fine.
Nessun controllo?
Nulla. Nessuno dei sindacati, né delle amministrazioni pubbliche ha la legittimità di entrare lì dentro. In un luogo che produce ortaggi per un mercato enorme, che genera contrattazioni milionarie e coinvolge la grande distribuzione. Un’economia gigantesca che non ha bisogno di diritti: tra il mercato e i braccianti non c’è nessun filtro, nessuna mediazione.
Il Senato ha approvato un ddl contro lo sfruttamento agricolo. Secondo il procuratore di Lecce è una legge che punisce solo i caporali e non le aziende agricole. È d’accordo con il suo giudizio?
Sì. Quella norma è un controsenso. I caporali, come gli scafisti, ovviamente non sono dei santi. Ma colpire gli “utilizzatori finali” della catena di sfruttamento non è sufficiente per risolvere questi fenomeni. È un paradosso, un’ipocrisia: lo Stato fa una legge per fermare chi sfrutta un’assenza dello Stato stesso.
Come si possono portare queste persone fuori dalla schiavitù?
I diritti nell’agricoltura italiana sono stati ottenuti nel momento in cui i braccianti si sono auto organizzati. I lavoratori stranieri ancora non riescono a farlo, o gli viene impedito. E i sindacati italiani sono molto indietro nella loro tutela. A tentare di rappresentarli restano le associazioni sul territorio, a Nardò, come a Rosarno e in Campania. A Caserta il 20 giugno sono scesi in piazza 6 mila braccianti africani. Un numero enorme, ma chi lo sa? Sembra non se ne sia accorto nessuno.
Una rimozione collettiva.
A vigilare su Vittoria, per migliaia di braccianti, ci sono solo tre ispettori del lavoro. Tre. Lo Stato dia un segno di vita. Lo dico come provocazione: assuma 2mila ispettori del lavoro africani.
Si parla di diritti, lavoro, civiltà. Dov’è la sinistra italiana?
La risposta è semplice: il bracciante non porta voti. Una volta un senatore del Pd mi ha detto: “Noi non siamo una ong”. Lo considerano un argomento umanitario, invece è una questione di diritti civili e sociali. Soltanto il diritto di voto può resituire a queste persone la possibilità di essere rappresentate.
«Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro.
». Internazionale online, 21 agosto 2016 (c.m.c.)
L’Italia è, tra i paesi ricchi, uno di quelli in cui l’ingiustizia sociale trova meno argini al suo dilagare. E, in assoluto, quello che nell’ultimo decennio ha lavorato meglio per distruggere il futuro dei giovani. Tenendo conto che nel 2005 eravamo la sesta economia mondiale, al centro di un continente che ha fatto e in certi casi riesce ancora a fare del welfare uno strumento d’equità, ci voleva molta impreparazione, molto impegno, molto cinismo, molta cialtronaggine per diventare la pecora nera dell’ultimo rapporto McKinsey sull’impoverimento delle nuove generazioni.
Del rapporto, intitolato Poorer than their parents? A new perspective of income inequality (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sulla disuguaglianza dei redditi), si sta molto parlando sui giornali, e sorprende come – per la gravità dei suoi contenuti – l’agenda politica non dia segno di risentirne in modo drastico.
Secondo lo studio della multinazionale, che ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta, oggi il 97 per cento delle famiglie italiane sta peggio di come stava nel 2005. Alta la percentuale degli Stati Uniti (81 per cento), preoccupante quella di Regno Unito e Paesi Bassi (70 per cento in entrambi i casi), poco incoraggiante quella della Francia (63 per cento). Isola felice la Svezia, dove welfare e politiche keynesiane hanno fatto sì che solo il 20 della popolazione oggi stia peggio di dieci anni fa.
Fallimento certificato
A fare le spese in una simile situazione sono soprattutto i giovani, condannati a essere più poveri dei loro genitori. A parte una breve battuta d’arresto durante gli anni settanta, fa notare lo studio McKinsey, non era mai successo a partire dal dopoguerra che le nuove generazioni si affacciassero sul mondo del lavoro con meno prospettive rispetto alle precedenti.
Se si tiene conto che in Nordamerica e in Europa occidentale i profitti delle imprese negli ultimi tre decenni “sono stati eccezionali” (sempre lo studio McKinsey nella sua versione più estesa), e che il 2015 è anche il primo anno in cui il famoso 1 per cento della popolazione più ricca è arrivato a possedere oltre la metà della ricchezza mondiale (qui è il rapporto Oxfam a dirci a quale livello è giunta la disuguaglianza, con 62 super miliardari la cui ricchezza è pari a quella dei 3,6 miliardi di esseri umani più poveri), il fallimento delle politiche economiche adottate nella maggior parte dei paesi occidentali a partire dagli anni della reaganomics non è più un’opinione, ma un fatto, certificato spietatamente dai numeri.
I ventenni di oggi lo sanno subito che per loro sarà dura
Secondo i sostenitori del neoliberismo l’aumento della ricchezza complessiva all’interno di un sistema economico dovrebbe beneficiare la maggior parte degli individui che ne fanno parte, sia pure al costo di un allargamento della forbice tra più e meno fortunati. Nelle economie più evolute non è andata così. È accaduto l’opposto. Le cose sono andate benissimo per pochi e decisamente peggio per la maggior parte di noi. Questo vale sia per i paesi che ancora stentano a uscire dalla recessione (l’Italia) sia per le economie ben più dinamiche della nostra, come quella degli Stati Uniti, dove il pil ha ripreso a crescere già da qualche anno ma l’ascensore sociale resta fermo e la redistribuzione della ricchezza (nonché la moltiplicazione delle opportunità) è abbastanza critica da generare fenomeni come Donald Trump.
Tornando in Italia, se volete misurare con più precisione lo svantaggio dei nati tra il 1970 e il 1974 rispetto ai nati tra il 1965 e il 1969, e dei nati tra il 1975 e il 1979 rispetto a tutti gli altri, allora date un’occhiata a questo studio, dal quale si evince tra l’altro come “siano soprattutto i laureati ad aver subìto una forte riduzione dei livelli retributivi rispetto alle generazioni precedenti”.
A rendere più infame la situazione italiana c’è l’ultimo Rapporto Unicef su povertà e disuguaglianza tra i bambini, secondo il quale siamo trentaduesimi su trentacinque paesi di Unione europea/Ocse presi in esame. In questo caso i parametri usati sono il divario nel reddito, nei risultati scolastici, nelle condizioni di salute. Compromettiamo in modo quasi irreversibile il futuro dei giovani, e come se non bastasse rendiamo molto complicato il presente dei bambini.
Fino qui, l’evidenza dei dati. Ciò che desta altrettanta preoccupazione è assai meno misurabile. Si tratta delle ripercussioni sociali, civili, esistenziali, spirituali che un simile tradimento del futuro potrà avere e in parte sta già avendo e ha già avuto su di noi, sul modo in cui ci consideriamo parte di una comunità e sul rapporto che intratteniamo con noi stessi giorno dopo giorno, dai quali discendono in buona misura autostima, equilibrio, serenità e riconoscimento di senso (o di non senso) rispetto al fatto di appartenere a un determinato momento storico, in un altrettanto ben determinato contesto. Come Amleto, i più fantasiosi possono credersi re dello spazio infinito perfino chiusi in un guscio di noce. Il problema è che fuori c’è Elsinore, ed è impossibile non farci i conti.
I quarantenni. I trentenni. I ventenni. In Italia, nessuno che appartenga a queste fasce anagrafiche aveva bisogno del rapporto McKinsey per sapere come stavano le cose. I ventenni più dei trentenni. I trentenni più dei quarantenni. Chi sperimenta un certo tipo di male sulla sua pelle si trova nell’ingrata condizione di sapere prima degli altri che cosa sta accadendo e al tempo stesso rischia di non essere creduto, almeno fino a quando il proprio travaglio personale non avrà il tempo per diventare una statistica.
Odioso scetticismo
Ho 43 anni, faccio parte della prima generazione che in Italia si è trovata a muoversi in un contesto meno favorevole rispetto a quello che ha accolto chi c’era in precedenza. Il cambio di paradigma ha avuto su quelli come me un effetto di spiazzamento che i ventenni di oggi – più consapevoli e più svantaggiati rispetto a quanto ero io alla loro età – non sperimentano. Lo sanno subito, che per loro sarà dura.
Noi eravamo quelli a cui avevano detto “andate, laureatevi, e il mondo sarà vostro”. Laureati quanto era bastato ai nostri genitori per mettere su famiglia, freschi di master quanto era stato sufficiente ai nostri fratelli maggiori per diventare benestanti, ci siamo ben presto resi conto quanto la porta d’accesso al futuro si fosse ristretta. Il problema è che un ventenne non ha quasi mai una voce in grado di farsi sentire pubblicamente. Così, all’epoca, il nostro grido d’allarme suscitò non di rado un certo fastidio tra i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni di allora.
Ricordo l’incredulità stizzita di certi miei parenti più adulti quando gli raccontavo come funzionavano le cose per chi cominciava a lavorare alla fine degli anni novanta. Trovavo odioso il loro scetticismo – “se non riuscite a guadagnare quanto facevamo noi alla vostra età, se non avete trovato un modo decente per mettere su casa e famiglia, la colpa è vostra” –, mentre oggi mi appare umanamente comprensibile.
Sul piano emotivo, deve essere complicato ammettere di aver lasciato ai propri figli un mondo per molti versi peggiore rispetto a quello ereditato dai propri padri. Quando poi la marea si è alzata, e una grave difficoltà economica ha cominciato a lambire fasce anagrafiche che fino a quel momento ne erano state risparmiate, un istintivo senso di solidarietà nella disavventura ormai comune ha portato a ricredersi la maggior parte di coloro che negavano ciò che oggi risulta impossibile anche solo mettere in dubbio.
Ciò che continuo a trovare ancora odioso è l’atteggiamento della nostra classe politica davanti a questo dramma. Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti, Enrico Letta. Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tommaso Padoa Schioppa, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni. Roberto Maroni, Cesare Damiano, Maurizio Sacconi, Elsa Fornero, Enrico Giovannini.
Assoluto sfruttamento
Con l’esclusione dell’ultimo governo, insediato troppo di recente per partecipare degli esiti del rapporto McKinsey, vale la pena ricordare chi sono stati i presidenti del consiglio, i ministri dell’economia e delle finanze, i ministri del lavoro degli ultimi dieci anni. Essendo i responsabili politici di una rottura del patto generazionale così drammatica e al tempo stesso così eclatante e incontestabile, un sommesso mea culpa sarebbe un obbligo dovuto al ruolo istituzionale, e delle scuse sentite il minimo da pretendere sul piano umano. Invece è stata l’arroganza a dominare.
Tommaso Padoa Schioppa – cioè il figlio dell’amministratore delegato delle assicurazioni Generali – definì “bamboccioni” i giovani costretti a vivere con i genitori per la mancanza di un lavoro decente. Giulio Tremonti assicurava in diretta nazionale che la crisi in Italia non sarebbe mai arrivata o ne sarebbe uscita presto, e tutt’oggi è talmente sicuro del fatto suo che se qualcuno lo chiama “Tiresia” non coglie l’ironia.
Elsa Fornero inventò prima le lacrime di coccodrillo preventive (manifestò pubblicamente il cordoglio per la riforma delle pensioni che il governo di cui faceva parte stava per attuare, e forse il pentimento per la riforma del lavoro che non aveva ancora attuato, alla luce dei risultati una delle più inefficaci degli ultimi anni) e poi riuscì a insultare quegli stessi giovani che aveva contribuito a gettare sul lastrico definendoli choosy, troppo schizzinosi, perché qualcuno le aveva riferito che i neolaureati rifiutavano lavori al di sotto del proprio livello formativo.
In realtà si trattava quasi sempre di decidere se accettare o meno le condizioni di assoluto sfruttamento che gli venivano proposte – se le spese per raggiungere il posto di lavoro e per mangiare durante la pausa pranzo rischiano di pareggiare lo stipendio, qualcosa non va.
Come scrivevo, l’attuale governo è in carica da troppo poco tempo perché si possa onestamente considerare corresponsabile del disastroso decennio fotografato dal rapporto McKinsey.
Altrettanto onestamente, però, osservando il modo in cui anche Matteo Renzi indora l’inefficacia delle proprie politiche, da cittadino ho imparato a diffidarne. Mi è bastato assistere al trionfalismo con cui il presidente del consiglio ha accolto il ritorno del segno più davanti al prodotto interno lordo italiano nel 2015 per concludere che i suoi freni inibitori non gli impediscono di mentire su cose molto importanti.
Se nel 2015 il pil italiano ha segnato un + 0,8 per cento (molto più verosimilmente un +0,6 per cento) contro il +1,7 della Germania, il +1,2 della Francia, il + 3,2 della Spagna, il +7,8 dell’Irlanda, il +1,5 del Portogallo, questo significa solo che siamo stati meno bravi degli altri a sfruttare quel po’ di ripresa che ha attraversato il vecchio continente. Imbellettare un insuccesso fino a venderlo come il suo opposto significa mentire. Bill Clinton rischiò il posto perché lo fece sulla sua vita erotica.
A differenza di certi puritani, non credo che chi mente sulle proprie vicende private sia più bendisposto a tradire il suo paese. A un presidente del consiglio chiedo molto meno. Se all’indomani della pubblicazione dei dati sul pil Matteo Renzi si fosse presentato agli italiani illustrando in modo sobrio e virile la difficoltà della situazione, e la modestia dei risultati, ne avrei avuto stima. Per risolvere certi problemi ci vuole realismo nel leggere il presente e una certa visionarietà per costruire il futuro. Ho l’impressione che Renzi sia affetto al tempo stesso da sguardo corto e visionarietà: interpreta i numeri con molta fantasia e scambia le Cassandre per gufi.
Più della sorte di Renzi, mi interessa ovviamente quella dei suoi coetanei (i primi a essere colpiti dalla crisi) e di chi appartiene alle generazioni successive, per le quali le difficoltà sono addirittura maggiori.
Studenti partecipano allo sciopero nazionale indetto contro la riforma della scuola del governo Renzi, il 5 maggio 2015. (Giuseppe Ciccia, Pacific Press/LightRocket via Getty Images)
I pericoli della pazienza eccessiva
Mi sembrò tremendamente ingiusto Mario Monti quando parlò degli attuali trenta e quarantenni come di una generazione perduta. A me al contrario quella sembrava una generazione che aveva contribuito a salvare il paese. Se molti giovani non avessero accettato di lavorare a condizioni che per i loro genitori sarebbero state intollerabili, come avrebbero fatto a reggere in Italia – solo per fare pochi esempi – il mondo della scuola, dell’università, della sanità, della cultura, della comunicazione?
Se tuttavia una non comune capacità di resistenza e di pazienza delle ultime generazioni è innegabile – e anziché essere dileggiato dalle istituzioni, il loro sacrificio avrebbe dovuto essere pubblicamente riconosciuto – il prolungarsi della crisi oltre le peggiori previsioni le espone a pericoli di cui si vedono le prime avvisaglie.
Innanzitutto, una generazione economicamente molto debole, la cui capacità di autodeterminazione è stata ridotta al lumicino, subisce al tempo stesso con più efficacia i ricatti di determinati poteri (quando ti chiedono obbedienza in cambio di sopravvivenza) e i deliri di altri (a stomaco vuoto si ragiona male, e parlare allo stomaco dei bisognosi è da sempre la facile strategia dei demagoghi).
Dall’altro, subire per molto tempo un’ingiustizia erode con una certa facilità gli strumenti di autocritica. Essere costretti nel ruolo della vittima sociale è assai insidioso, perché ti fa sentire nella parte del giusto anche quando non lo sei. Esiste anche un’arroganza dei perdenti, che danneggia soprattutto chi è nella condizione di farsene contagiare.
All’arroganza si aggiungono il sarcasmo e il cinismo. Fino a quindici anni fa, quando le difficoltà di una e poi di due generazioni sembravano temporanee, era l’autoironia l’arma con cui si tentava maldestramente di esorcizzarle: rido dei miei problemi pur di non rappresentarli come tali davanti a un mondo in cui “vincere” è determinante.
Oggi, abbassata l’asticella, in un mondo in cui determinante è “sopravvivere”, e inizia a essere chiaro che i problemi di almeno tre generazioni sono strutturali, non potendo più nascondere una situazione palesemente drammatica, l’espediente retorico più a buon mercato per darsi un’importanza altrimenti inattingibile è passare dal fioretto usato raffinatamente su se stessi al randello con cui colpire all’impazzata tutt’intorno.
In un mondo in cui è sempre più difficile essere protagonisti della propria vita, non rimane infine che diventare tifosi. Trovo molto deludente, specie tra la classe intellettuale delle ultime generazioni, il fanatismo con cui alcuni supportano per esempio ogni mossa, persino la più indifendibile, del Movimento 5 stelle; o la santimoniosa benevolenza ai limiti del servilismo con cui altri contemplano il cerchio magico di Renzi o altri panorami della sinistra. Tanti anni di studi e di letture per abbracciare la filosofia della curva nord contro la curva sud?
Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro. Due delle tre generazioni che i più sfacciati considerano “perdute”, cominciano a propria volta ad avere figli, ai quali i neogenitori non potranno spesso garantire il benessere economico e il livello di istruzione di cui hanno beneficiato loro quando erano ragazzi.
Bisogna aggiungere che se non fosse stato per la generazione di chi a propria volta sta diventando nonno, molti di questi trentenni e quarantenni verserebbero in una condizione di povertà assoluta. In mancanza di un serio welfare, è stata come sappiamo la famiglia il vero ammortizzatore sociale del nostro paese, il che da una parte ci ha salvati dal disastro, mentre dall’altra non ha sempre giovato alla serenità dei rapporti tra genitori e figli, e alla capacità di interpretare in modo degno, e bello, entrambi i ruoli.
Un’avventura da compiere insieme
Nessuna generazione è mai davvero perduta. Ognuno di noi può rivendicare legittimamente un ruolo attivo nel mondo in cui vive. In Italia, la crisi economica è stata troppo lunga e gestita in modo troppo irresponsabile per non essersi trasformata in un male molto più profondo.
L’attuale compagine politica è composta da uomini la cui mediocrità impedisce di sapere anche solo dove mettere le mani, figuriamoci come. Se le cose andranno bene, e ce lo auguriamo, ridurranno di un punto percentuale la disoccupazione, ma non riformeranno l’animo malato del paese.
Per guarire, è necessario un patto intergenerazionale più serio e maturo di quello che ha funzionato a intermittenza – e con troppi fraintendimenti – negli ultimi anni. Forse la vera sfida oggi è avere la forza, nonché trovare i modi, per reincludersi socialmente laddove l’economia ha messo tanti fuori dei giochi. Non è un’avventura che si può cominciare a intraprendere da soli. Se qualcosa di buono nascerà sarà la parte sana della società a produrlo, vale a dire il senso di responsabilità, il coraggio, il cuore, la capacità di stare con gli altri, la voglia di spendersi di ogni singolo individuo. Sentirsi esclusi anche da questa sfida è condannarsi a non esistere.
Precisazioni del presidente del Comitato per il No al referendum costituzionale «Noi di centrosinistra non siamo sostenitori del mero status quo».
La Repubblica, 21 agosto 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, in una lettera pubblicata il 18 agosto Luigi Berlinguer ha dichiarato che voterà per il Sì al referendum costituzionale in quanto questo riguarderebbe «soprattutto il superamento dell’obsoleto e ormai ingombrante bicameralismo paritario di casa nostra, oltre all’abolizione delle Province e (finalmente) del Cnel»; che il voto per il No gli parrebbe «dettato da un’insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi, di levarselo di torno»; infine che la «parola d’ordine» dei sostenitori del No sarebbe che la «Costituzione non si tocca».
Le ragioni del No del Comitato di centrosinistra, che ho l‘onore di presiedere, non risiedono né nella difesa del bicameralismo paritario, ormai condiviso da pochi; né nella rilevanza costituzionale delle Province, la cui abolizione è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale; né infine nella sopravvivenza del Cnel, da gran tempo divenuto uno “zombi”.
Le ragioni sono ben altre. La grave violazione del principio sancito dall’articolo 1 della nostra Costituzione, secondo il quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale), laddove, con la riforma Boschi, la conseguenza sarebbe che tutte le leggi, ivi comprese quelle costituzionali, non verrebbero più approvate da rappresentanti eletti dal popolo.
La mistificante enunciazione del Senato «rappresentante delle autonomie territoriali», che non solo continuerebbe ad essere organo dello Stato centrale, ma non gli verrebbe concesso, nonostante quell’enunciato, di legiferare su materie di interesse regionale, con la conseguenza che le Regioni verrebbero discutibilmente degradate a livello «prevalentemente amministrativo».
La composizione irrazionale del Senato, i cui componenti dovrebbero nel contempo svolgere la funzione di consigliere regionale o di sindaco, cosa che non consentirebbe loro di adempiere puntualmente le funzioni connesse ad entrambe le cariche, con la conseguenza di rendere oltre tutto difficile il rispetto dei brevi termini previsti per il Senato nei procedimenti legislativi diversi da quello bicamerale.
L’irrazionalità del compito del Senato di eleggere due dei cinque giudici costituzionali, col rischio di creare una logica corporativa all’interno della Corte costituzionale.
L’irrazionalità di conferire al presidente della Repubblica il potere di nominare cinque senatori a vita per la stessa durata della carica presidenziale: un numero tutt’altro che irrilevante in un Senato composto da soli 100 componenti.
L’irrazionalità di riconoscere ai senatori, ancorché part-time, l’immunità penale per tutti i reati comuni da loro commessi.
La complicazione (e non la semplificazione) del procedimento legislativo, che passerebbe dagli attuali tre procedimenti (procedimento legislativo normale, procedimento di conversione dei decreti legge, leggi costituzionali) ad almeno otto procedimenti formalmente differenziati, col rischio di illegittimità costituzionale delle leggi per vizi procedurali.
Infine, l’inesistenza di seri contropoteri politici nei confronti del governo sostenuto dal gruppo parlamentare più votato, che grazie all’Italicum otterrebbe, col solo 25 per cento dei voti, ben 340 seggi alla Camera dei deputati e il cui leader godrebbe di un’investitura democratica quasi-diretta.
Ancorché ci sarebbe assai altro da aggiungere, passo al secondo punto.
L’”insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi” certamente caratterizza una parte ragguardevole dei sostenitori del Comitato per il No di centrodestra. Non già il Comitato per il No di centrosinistra, che ha da subito avvertito il rischio della personalizzazione del referendum, esplicitamente voluta e manifestata da Matteo Renzi nella conferenza di fine anno del 29 dicembre 2015. La personalizzazione del referendum costituzionale, voluta da Renzi — prima disvoluta e poi rivoluta — è servita spregiudicatamente a terrorizzare sia i mercati finanziari sia i «ben pensanti». Ma non solo. Consente, nel contempo, di porre in secondo piano sia l’inconsistenza delle ragioni favorevoli al Sì, sia le gravi ragioni di merito, sopra elencate, che razionalmente dovrebbero indurre i cittadini a votare No.
Passo infine al terzo punto. Per quanto io abbia potuto constatare nei dibattiti interni al direttivo del nostro Comitato per il No, la “Costituzione non si tocca” non costituisce la «parola d’ordine» dei sostenitori del No di centrosinistra tranne rarissime eccezioni. Tanto meno costituisce la “parola d’ordine” dei sostenitori del No di centrodestra (si pensi alla riforma Berlusconi del 2006!).
Beninteso, anch’io ho sempre sostenuto che la modifica della seconda parte della Costituzione (articoli 55-139) implicherebbe delle conseguenze sulla tenuta della prima parte (articoli 1-54). Ebbene, a parte il fatto che la riforma Boschi, eliminando l’elettività diretta del Senato, viola addirittura uno dei principi supremi della Costituzione posto nell’articolo 1, ritenuto immodificabile dalla Corte costituzionale… A parte ciò, c’è modifica e modifica della seconda parte della Costituzione.
Esprimendomi solo a titolo personale, ritengo infatti ammissibile ed anzi opportuno il superamento del bicameralismo paritario, il conferimento alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col governo, l’equilibrata diminuzione dei parlamentari sia nell’una che nell’altra Camera, la trasformazione del Senato in maniera tale che le istituzioni regionali possano effettivamente esprimersi. È infatti importante che gli elettori sappiano che non siamo i sostenitori del mero status quo.
«Un operaio secondo l’accusa, apparterrebbe a una categoria servile che non può permettersi satira, dissenso, sberleffo, critica, ironia, insomma una parola contraria a causa del contratto di lavoro». Il manifesto, 21 agosto 2016 (c.m.c.)
Cinque operai della Fiat di Pomigliano D’Arco hanno rappresentato, fuori dalla fabbrica e dall’orario di lavoro, la pantomima del suicidio dell’amministratore delegato dell’azienda, tale Marchionne, nome che di per sé suona parodia di quello dei tre re Magi del presepe: Gasparre, Melchiorre, Baldassarre e appunto Marchionne. La pantomima aveva un argomento serio: il suicidio di tre operai della fabbrica. La direzione li ha licenziati. Il Tribunale di Nola ha confermato il provvedimento.
Il 20 settembre la Corte di Appello di Napoli pronuncerà sentenza definitiva. La pretesa dell’accusa è che gli operai sono legati da obbligo di fedeltà all’azienda. Da scrittore mi considero in obbligo di fedeltà al vocabolario italiano. Da cittadino mi considero in obbligo di fedeltà alla Costituzione del mio paese.
Un operaio, invece, secondo l’accusa, apparterrebbe a una categoria servile che non può permettersi satira, dissenso, sberleffo, critica, ironia, insomma una parola contraria a causa del contratto di lavoro. La pantomima del suicidio del quarto re Magio si configura dunque come atto di lesa maestà.
Si tratta di una causa civile. L’azienda non ha avanzato alcuna azione penale. Non è stato commesso, neanche per ipotesi, un qualunque reato. Contro i cinque operai esiste solo il presunto obbligo di fedeltà. «Usi a obbedir tacendo e tacendo morir»: diceva il motto dei carabinieri. Ma i cinque operai non appartengono all’Arma, non si sono arruolati.
Vendono per contratto la loro forza lavoro in cambio di salario. Allora serve una sentenza che smilitarizzi la prestazione di lavoro e restituisca ai cinque, e a tutti gli operai, il rango di liberi cittadini della Repubblica italiana.
Morte della politica e crisi dei partiti. Da dove partire per ricominciare a sperare? un utile intervento nel dibattito in corso. Un inizio di risposta alla domanda: quale parte della società di oggi può costituire la base sociale per una politica alternativa?.
Il manifesto, 20 agosto 2016
L’
articolo di Valentino Parlato pubblicato su questo giornale giovedì 11 agosto solleva alcune questioni sostanziali riguardo alle categorie con cui proviamo a leggere il nostro tempo, caratterizzato dalla crisi dei partiti e da fenomeni molto preoccupanti di disaffezione democratica. A differenza del passato, sottolinea Parlato, la crisi non produce quella «straordinaria vivacità culturale che nasceva dalla crisi e ne approfondiva le cause». Come non essere d’accordo?
Chiedersi come oltrepassare la “morte della politica” (l’espressione, di Alberto Burgio, è stata evocata sempre su questo giornale il 4 agosto) e ripensare la politica quale spazio di speranza per il miglioramento della vita di milioni di persone significa in primo luogo sottrarla al provincialismo del tempo presente che spesso troviamo in molte narrazioni dominanti.
E’ necessario far emergere le connessioni fra gli l’attualità e la continuità di filoni culturali che riteniamo tutt’altro che esauriti. Ad esempio, se condividiamo la diagnosi relativa alla crisi dei partiti, chiediamoci quali rapporti essi oggi abbiano con i soggetti sociali che dovrebbero rappresentare. Sappiamo che la storia del movimento operaio è connotata dalla dialettica a volte difficile, ma feconda, fra partiti e altre espressioni di soggettività politica, quali i movimenti e gruppi di pressione. Forse oggi la percezione della crisi dei partiti origina anche dalla convinzione diffusa che essi siano o debbano essere i monopolisti della soggettività politica. Noi siamo di diverso avviso.
Prendiamo ad esempio le insorgenze di movimenti critici nei confronti della globalizzazione neo-liberista. Se rimaniamo sul piano delle ‘narrazioni’ dominanti, questi fenomeni meritano una citazione solo se e quando infrangono palesemente le regole dell’ordine costituito e sono presentati quali insorgenze sporadiche e improvvise senza storia e, pertanto, senza futuro. In realtà, tali movimenti non sono affatto sporadici, bensì si innestano in filoni di cultura politica molto rilevanti nella storia delle democrazie occidentali, avendo le proprie radici nei processi di emancipazione e di ampliamento della cittadinanza che hanno caratterizzato i decenni passati.
A loro volta, i movimenti degli anni Sessanta e Settanta non nascevano dal nulla, bensì affondavano le proprie radici in fermenti, pacifisti, ambientalisti e femministi, presenti già negli anni Quaranta del Novecento, sviluppati sovente nel grembo degli stessi partiti della sinistra o, comunque, non in opposizione ad essi (si veda Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti, Carocci, 2015). Osservando la realtà dei nostri giorni, sembra che dopo il grande ciclo delle mobilitazioni ‘altermondialiste’ che connotarono il cambio di secolo, la ribalta politica sia stata sostanzialmente desertificata dalle politiche repressive dei governi. Eppure, la realtà sociale è connotata anche dalla presenza di molte persone che danno vita ad un agire sociale politicamente orientato di cui i media danno pochissimo conto.
Possiamo scegliere, quale esempio fra i diversi possibili, il fenomeno del ‘consumerismo politico’ attraverso il quale gruppi di cittadini hanno deciso di spostare la lotta politica dalle strade ai negozi, puntando a fare politica attraverso strategie di boicottaggio e acquisti mirati. Sono fenomeni dotati di un proprio spessore storico e politico: la repressione dei movimenti di inizio millennio (che, come è noto, ha visto a Genova nel 2001 una gravissima violazione dei diritti) non ha comportato solo ripiego nel privato.
Fra le possibili risposte adattive dei cittadini attivi c’è stato anche l’incremento di pratiche sociali diffuse, come, ad esempio, quelle incentrate su scelte di consumo, mosse dall’assunto secondo cui “ogni volta che si acquista qualcosa, si vota”. I Gruppi di acquisto solidale (GAS), che negli anni Novanta erano una decina, oggi sono un migliaio in tutta Italia, solo per rimanere a quelli censiti formalmente, creano solidarietà fra i membri dei gruppi di acquisto che condividono criteri etici, sociali ed ambientali legati alla produzione e al consumo di beni (si veda Paolo Graziano e Francesca Forno, Il consumo critico, Il Mulino, 2016). Questi gruppi agiscono sulla base di una cultura politica e, in un’epoca di rimozione del conflitto e di narrazione del mercato quale spazio naturale, hanno l’indubbio merito di identificare il mercato stesso come luogo di lotta politica, oltre che di scambio sociale. Sono gruppi che fanno politica, quotidianamente.
Molti altri sono gli ambiti in cui oggi si articolano preziose iniziative di cittadinanza attiva (per una panoramica, vedi Giovanni Moro, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Carocci, 2013): si tratta di preziosi “mondi vitali” senza i quali la nostra società sarebbe più povera, vulnerabile e insicura. In altri paesi, Grecia e Spagna, ad esempio, tali iniziative hanno trovato alcuni canali di azione politica significativa anche dal punto di vista elettorale, dando linfa a nuove formazioni partitiche.
In Italia, a parte alcune liste civiche e l’attenzione del Movimento Cinque Stelle, non è (ancora) successo. Eppure, come dare rappresentanza politica nazionale a questo capitale sociale – ed espanderlo ulteriormente – dovrebbe essere il nostro rovello quotidiano. Anche, o forse soprattutto, da qui si deve partire per ispirare un cambiamento radicale alle politiche neoliberiste e far rinascere la politica.
Un'analisi magistrale della drammatica regressione del lavoro che caratterizza la fase attuale del sistema capitalistico. E' forse questa trasformazione del lavoro uno degli elementi che ostacolano l'emergere di un'alternativa di "sinistra".
Il manifesto, 19 agosto 2016
Ciclicamente l’Istat ci aggiorna dei progressi o regressi registrati nel campo dell’occupazione e si scatena la solita bagarre tra i sostenitori e detrattori del governo Renzi e della sua creatura più famosa: il jobs act. Ma, quello che i dati quantitativi non ci dicono è come sia cambiata e sta cambiando la qualità dei lavori con cui devono confrontarsi le nuove generazioni. Soprattutto non ci dicono come sono cambiate le relazioni tra imprenditori e i lavoratori, ovvero come sono cambiate le relazioni nel mondo del lavoro (i rapporti sociali di produzione per dirla con Marx).
Percorrendo, a volo d’uccello (rapace) la tradizionale visione “progressista” della storia umana, si può dire che il lavoro sia passato da una condizione di schiavitù”- età romana e grandi imperi- ad una condizione di servitù” – durante il Medio Evo – a quella dell’operaio moderno della catena di montaggio, per finire oggi in una condizione sociale in cui predominano i “lavoretti” nel settore dei servizi.
La storia invece ci dimostra che sopravvivono formazioni sociali del passato che convivono, come sosteneva Nicos Poulantzas, il geniale filosofo marxista precocemente scomparso, con altre formazioni sociali che appartengono alla modernità.
In altri termini: la storia non cammina lungo una linea retta, verso una progressiva liberazione dell’uomo, come voleva l’ottimismo messianico dell’800, ma avanza ed arretra, si sposta di lato come le correnti dello Stretto di Messina, potenti ed imprevedibili. Un buon esempio è costituito dalle dinamiche che hanno interessato il “lavoro servile” negli ultimi due secoli.
Per la verità il “lavoro servile” non è mai scomparso dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della borghesia al potere, ma è convissuto con l’instaurarsi, soprattutto nel settore manifatturiero, di rapporti di lavoro di matrice capitalistica.
Come scriveva un grande osservatore ed analista del mercato del lavoro negli Usa: «Nei primi tempi del capitalismo, la moltitudine dei servitori personali era sia un’eredità dei rapporti feudali e semifeudali sotto forma di una vasta occupazione offerta dall’aristocrazia terriera, sia un riflesso delle ricchezze create dalla rivoluzione industriale nella forma di analoga occupazione…. Negli Stati uniti, secondo il primo censimento sulle occupazioni svoltosi nel 1820, l’occupazione nei servizi domestici e personali rappresentava i tre quarti di quella complessiva esistente nell’ industria manifatturiera, mineraria, della pesca e del legname; ancora nel 1870 tali occupazioni non erano di molto inferiori alla metà di quelle che si registravano in questi settori non agricoli» (Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital, N. Y. 1974)
Questa incredibile presenza quantitativa di domestici, sguatteri, servi a vario titolo era stata notata e criticata prima da Smith, come lavoro improduttivo e spreco di forza-lavoro, e poi da Marx che ne sottolineò il carattere complementare rispetto ai bisogni della borghesia: «Secondo l’ultima relazione sulle fabbriche (1861) il numero complessivo delle persone impiegate nelle fabbriche vere e proprie del Regno Unito (compreso il personale direttivo), ammontava a sole 775.534 unità, mentre il numero delle domestiche, nella sola Inghilterra, ammontava a 1 milione.
Quante è bella questa organizzazione , che fa sudare per dodici ore un’operaia nella fabbrica, affinché il padrone della fabbrica, con una parte del lavoro non pagato di questa ragazza, possa assumere al proprio servizio personale sua sorella come serva, suo fratello come cameriere, e suo cugino come soldato, o come poliziotto. (K. Marx, Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, p. 334).
Marx nel Capitale fa una disamina articolata della composizione dell’occupazione nell’Inghilterra e Galles nel 1861, pari a circa 8 milioni di unità su circa 20 milioni di abitanti. Val la pena di rivedere questi dati: gli operai nelle manifatture del tessile abbigliamento, calzature erano 642mila, nelle miniere erano 565mila, nella industria metallurgica erano 396mila e quella che Marx chiama «Classe dei servitori» era composta da 1.208.648 unità.
A circa ottant’anni dall’inizio della rivoluzione industriale nel Regno Unito, il numero dei “servi” , vale a dire dei domestici che lavorano nelle case dei “signori” era superiore a quello degli addetti dell’industria manifatturiera. Se poi aggiungiamo i “servi-pastori” o serve presso le fattorie, si arriva intorno ad 1,7 milioni di addetti, superiore a tutti i lavoratori dell’industria manifatturiera ed estrattiva.
Va precisato subito che per “lavoro servile” non si intende un particolare tipo di lavoro, ma la relazione che si crea tra datore di lavoro e lavoratore. Così, ad esempio, i servizi domestici di pulizia possono essere svolti in una relazione personalizzata tra padrone di casa e cameriere/a in cui conta molto la qualità del rapporto che si instaura,la capacità del “servo” di ingraziarsi il padrone, oppure da una ditta di pulizie che manda delle persone a svolgere questa mansione senza che tra essi ed il padrone di casa ci sia una relazione.
Ora, come sappiamo, nello sviluppo del capitalismo l’occupazione nel settore industriale cresce fino ad un certo punto, che varia da paese e paese, e poi comincia a declinare a favore dell’occupazione nei servizi, secondo la nota legge di Colin Clark. Ma, questo non significa che nei servizi non si instaurino rapporti di tipo capitalistico. Anzi.
L’enorme espansione della Grande Distribuzione ha ridotto fortemente il ruolo del piccolo commercio dove persistevano rapporti tradizionali “servo-padrone”, così come la nascita di grandi agenzie nel settore della sicurezza e della pulizia ha eliminato una parte di lavoratori in proprio o di rapporti di servitù che esistevano precedentemente.
Di contro, la dissoluzione dei legami familiari, dei legami di comunità, ha fatto nascere nuovi bisogni che spesso vengono soddisfatti ricorrendo a rapporti di lavoro semi-servile se non del tutto “servile”. Ci riferiamo al lavoro di badante, baby sitter, dog sitter, accompagnatore, ecc…..
In altri termini, mentre da una parte il modo di produzione capitalistico distruggendo la piccola impresa artigianale o commerciale elimina i rapporti semifeudali che persistevano, dall’altra parte i nuovi bisogni sociali legati alla dissoluzione dei legami sociali fa riemergere rapporti di lavoro di tipo servile.
In Italia abbiamo circa 1,2 milioni di badanti, 500 mila tra baby sytter e figure assimilabili, poco meno di 1 milione di domestici e circa 450mila camerieri “registrati” e 102 mila baristi, ed altrettanti in “nero”. E qui ci fermiamo. Quello che conta è la relazione tra datore di lavoro e dipendente. Così ci sono camerieri di grandi catene alberghiere che godono di un contratto di lavoro nazionale, che hanno un classico rapporto di lavoro capitalistico, e ci sono camerieri che lavorano in piccoli bar di periferia, in nero, con un rapporto “servile” col proprio padroncino.
Quello che può sembrare incredibile è che anche in un settore moderno come i call center, che hanno tutte le caratteristiche della fabbrica fordista- per ritmi e divisione del lavoro, alienazione, ecc – si vanno instaurando rapporti di lavoro “servile” tra i giovani lavoratori e il team-leader, che diventa una figura sociale simile ad un “caporale” nel mondo bracciantile.
E’ quanto emerge da una ricerca sul campo su alcuni call center in Calabria e Sicilia, regioni dove lavorano nei call center circa il 20% degli 80.000 addetti in Italia. Ed è a nostro avviso una tendenza di fondo delle politiche del lavoro in Italia come nel resto d’Europa: ritornare a rapporti di lavoro individuali, personalizzati, che servono non solo a dividere e mettere in concorrenza i lavoratori fra di loro (nei call center, per esempio è spietata la concorrenza tra questi lavoratori precari e super sfruttati), ma a creare quello che Adam Smith riteneva un rapporto iniquo, perché asimmetrico in termini di rapporti di forza : «I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale. (…) entrano poi spesso in coalizioni particolari volte ad abbassare ulteriormente il livello dei salari». (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, ISEDI, p. 67) .
Il riemergere alla grande del rapporto di lavoro “servile”, non di rado anche semischiavistico (come ad es. nella piana di Gioia Tauro-Rosarno), taglie le gambe ai sindacati ed alle altre forme di aggregazione dei lavoratori e si traduce nella sfera politica nella ricerca di un padronage che possa migliorare la propria condizione, a livello locale, o di un salvatore della patria, a livello nazionale. Pertanto, non facciamoci impressionare solo dai dati quantitativi della disoccupazione/inoccupazione, è alla qualità del lavoro ed ai rapporti di lavoro, ai diritti dei lavoratori che dobbiamo guardare con più attenzione ed agire di conseguenza.
« Il problema allora non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane». Articoli di Bia Sarasini e Michela Marzano,
il manifesto e la Repubblica, 19 maggio 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
LAICITà CHE ASSOMIGLIA AL FONDAMENTALISMO
di Bia Sarasini
È il corpo delle donne il nervo scoperto toccato dal divieto del burkini sulle spiagge francesi. Nudo o coperto, chi ha l’autorità di decidere? Ho letto incredula la dichiarazione del primo ministro francese Manuel Valls: «Non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». Perché non si tratta di una moda, ha detto, bensì dell’affermazione di un progetto basato sull’asservimento della donna. Trovo sorprendente che sia così difficile soffermarsi a pensare che una decisione presa da chi rappresenta la Repubblica, non sia molto diversa da quella di chi impone per legge il velo, la copertura totale.
Si tratta di un potere che decide come deve essere, come si deve presentare il corpo di una donna. E se Paolo Flores è coerente con le proprie posizioni, nello scrivere, che «la proibizione del burkini è una giusta protezione dei principi di laicità», mi stupisce che chi si dichiara femminista, come Lorella Zanardo, consideri opportuno e necessario, e proprio per le donne, il divieto.
Nessuno ha diritto di dire a una donna come si deve vestire, o svestire, non è questo abbiamo sempre detto, noi femministe? I codici vestimentari, i codici del corpo, tutti, sono delle trappole che imprigionano le donne. Non lo aveva ben spiegato la grande scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi, che in “L’harem e l’occidente (Giunti Astrea) ci aveva svelato la tortura della taglia 42 (peraltro ora ulteriormente diminuita)? : «Fu in un grande magazzino americano”scrive, “nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”. Un’affermazione forte e provocatoria, a mio parere l’unico quadro concettuale che permetta di ragionare a mente aperta e lucida sul nodo intricato che il burkini e le donne che lo portano ci costringono a guardare.
Perché si tratta di carne viva, non è un gioco di parole, provoca sussulti e reazioni. Quali? Che cosa è esattamente in gioco? La libertà di chi? Se si tratta della libertà delle donne musulmane, come i sostenitori del divieto affermano, a mia volta non ho dubbi. Meglio che entrino in acqua, che nuotino, che facciano sport, come vediamo alle Olimpiadi in corso, con una tenuta che risulti compatibile ai loro principi, al loro mondo, piuttosto che stiano ferme, chiuse, prigioniere. Muoversi è acquisire forza, determinazione, provare piaceri e soddisfazioni. La libertà delle donne è una costruzione, una trasformazione. Meglio che vadano a scuola, piuttosto che tenute in casa, perché la legge proibisce il velo che la famiglia e la religione impongono, come è in vigore Francia.
Sembrerebbe questa la molla che ha ispirato l’australiana di origine libanese Aheda Zanetti, che nel 2003 voleva qualcosa che permettesse a sua nipote di giocare a netball, a ideare il burkini, il nome è suo. Costume messo in commercio nel 2007, e che finora circa 700.000 pezzi nel mondo in varie versioni, da quella più aderente a quella più larga, a prezzi che in questo momento sul sito della stilista variano dai 35 ai 143 euro. Compromesso, minor danno? A me sembra una strada praticabile, di fatto il proibizionismo impedisce ad alcune donne di godere del diritto-libertà di stare sulla spiaggia e fare il bagno.
E se la libertà fosse quella degli uomini di avere a disposizione sulle spiagge corpi semi-nudi di cui bearsi senza ostacoli, come del resto capita negli sport, con telecamere che indugiano del tutto inutilmente, rispetto all’azione atletica, su cosce, culi, pube? O ancora, è in gioco la libertà delle donne di mostrarsi o no allo sguardo maschile? E che ne è della libertà delle donne di essere come desiderano essere, oltre quello sguardo, quei custodi che si arrogano il diritto di parlare a loro nome? Qual è il codice libero da quello sguardo dominante? Arduo rintracciarlo, nel libero-liberista mondo dell’unico mercato. E quanto alla laicità, che laicità è se si trasforma in fondamentalismo?
Non si tratta di confondere libertà e sottomissione. Conosciamo i codici, le leggi, i modelli culturali che costringono le donne a vite senza respiro e senza luce. Li combattiamo. Il primo passo è ascoltare le donne, quelle che scelgono di abbigliarsi in quel modo che tanto ci infastidisce e ci turba. Nulla mi sembra più liberatorio che guardarsi da vicino, le une e le altre, gli altri forse, senza schermi, su una spiaggia. Ti guardo, mi guardi. Ci guardiamo. Sono i divieti che creano distanze, barriere, abissi. Perché impedire che lo sguardo reciproco conduca al libero pensiero, alle libere scelte?
La Repubblica
BIKINI, BURKINI E SENSO DEL PUDORE
di Michela Marzano
Una bomba atomica sociale. Fu questo l’effetto che, nel luglio del 1946, provocò il primo bikini moderno indossato a Parigi, e così chiamato dall’inventore in onore dell’atollo del Pacifico in cui pochi giorni prima era stato fatto esplodere, appunto, un ordigno nucleare. Una bomba atomica sociale, dicevo. Anche quando, negli anni Sessanta, il bikini trovò infine la propria consacrazione sulle spiagge della Costa Azzurra. E cominciarono a essere sempre più numerose le donne felici di seguire l’esempio di Brigitte Bardot. A chi appartiene d’altronde il corpo delle donne se non a loro stesse? Non è forse loro, e solo loro, la scelta di mostrarsi o di coprirsi?
La storia della progressiva conquista della libertà e dell’autonomia femminili è nota a chiunque. Esattamente come sono note le periodiche polemiche sulla linea sottile che separa la libertà individuale dal conformismo sociale, l’autonomia personale dalla sottomissione alla moda. C’è sempre chi si erge a difensore della possibilità, per ogni donna, di gestire come vuole il proprio corpo e la propria immagine e chi, sottolineando l’impatto che le norme sociali hanno sulle attitudini e i comportamenti individuali, sottolinea invece la nuova forma di “servitù volontaria” cui si sottoporrebbero da anni le donne per corrispondere agli stereotipi di femminilità e di seduzione. Ma si può applicare questa griglia di analisi anche alle recenti polemiche scoppiate in Francia sul burkini, e alla conseguente decisione presa da alcuni sindaci di vietarne l’utilizzo in spiaggia? Siamo di fronte a una nuova bomba atomica sociale oppure la categoria della libertà, questa volta, è insufficiente a capire quello che sta accadendo?
Non è facile per chi vive in Francia da anni - e ha assistito dapprima in maniera distratta, poi in modo sempre più interrogativo, alla trasformazione progressiva di un certo numero di usi e costumi - schierarsi con chi è favorevole al divieto di andare in spiaggia con un burkini in nome dell’uguaglianza uomo-donna (perché sono sempre e solo le donne a doversi coprire?) oppure con chi è contrario al divieto in nome della libertà femminile (non spetta forse alle donne decidere se mettersi un bikini o un burkini?). E questo non solo perché non c’è vera libertà senza uguaglianza e viceversa - come sa bene chiunque si interessi alle condizioni che permettono alla libertà di esprimersi - , ma anche perché sia la libertà sia l’uguaglianza sono valori che, una volta contestualizzati, riflettono inevitabilmente le contraddizioni della società in cui si vive.
Quella Francia in cui, fino a qualche anno fa, era impensabile ascoltare il racconto di una ragazza musulmana che, una sera di Ramadan, viene apostrofata da un gruppo di ragazzi perché porta il rossetto: “Sorella! Non sai che non ci si mette il rossetto quando è Ramadan?” Quella Parigi in cui, fino a pochi mesi fa, era inconcepibile immaginare che in Università alcuni studenti spiegassero che è giusto che un ragazzo non stringa la mano di una ragazza (per pudore? per rispetto?) e che ogni donna degna di questo nome non giri da sola per strada e si copra integralmente - “un fratello non può accettare che la sorella non sia velata senza perdere l’onore!”.
L’editore egiziano Aalam Wassef ha recentemente chiesto agli Occidentali di non essere naïfs quando si tratta di discutere del significato del burkini e di non dimenticare che l’Islam non può ridursi alla visione integralista dei Salafiti. Portare il burkini, per Wassef, non sarebbe una prova di libertà, esattamente come vietarne l’uso non sarebbe una forma di islamofobia. Anche semplicemente perché ci sono tante donne musulmane che vorrebbero avere la possibilità di indossare un bikini, e sarebbe quindi estremamente difficile aiutarle a esercitare questo tipo di libertà se, arrivando in spiaggia, incontrassero gruppi salafiti pronti ad apostrofarle: “Sorella! Non sai che anche in spiaggia una donna si deve coprire?”.
Ogni essere umano, spiegava il padre del liberalismo John Stuart Mill, ha come vocazione quella di essere libero. E sarebbe un crimine contro l’umanità non rispettarne l’autodeterminazione. Anche la libertà, però, ha i suoi vincoli. E finisce laddove, in suo nome, la si cancella, visto che non può essere in nome della libertà che ci si ritrova poi in una situazione di servitù o sottomissione. Il problema allora, nel caso del burkini, non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane. Cosa le spinge o meno a coprirsi? La paura del giudizio o delle sanzioni da parte dei familiari? I precetti religiosi? Il desiderio di opporsi ai valori occidentali? Il pudore? Certo, la libertà individuale è sempre sacra. Ma non ha ragione anche Lacordaire quando, nel XIX secolo, ci ricorda che “tra il forte e il debole è la libertà che opprime e la legge che affranca”?
Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2016 (p.d.)
Ringraziamo sinceramente per la gentile e disinteressata premura, cari mercanti internazionali, ma dei vostri ammonimenti non ce importa un fico secco. Siete pregati di farvi gli affari vostri anziché ficcare il naso in una questione che non vi compete,quale la Costituzione di uno Stato sovrano, e di cui non capite una mazza. Siete abituati a trattare con investitori, azionisti, dipendenti e fare i conti con i profitti e coi vostri interessi. Vi sfugge il particolare che esistono anche dei cittadini di libere repubbliche che pensano in termini di bene comune, che non intendono prendere ordini da chicchessia e vogliono decidere con la loro testa sotto quale Costituzione vivere.
Se Renzi fosse un vero capo di governo, e se il Presidente Mattarella intendesse come intendo io il dovere di rappresentare l’unità nazionale, avrebbero risposto più o meno in questi termini al concerto di pressioni dei non meglio identificati mercati internazionali di cui abbiamo letto in questi giorni. Ma il primo, immagino, si starà sfregando le mani soddisfatto per l’aiuto alla sua campagna referendaria; il secondo, che io sappia, tace. Qui non si tratta del diritto delle istituzioni finanziarie internazionali di operare secondo le regole del mercato, ma della loro arrogante pretesa di influenzare con aperte minacce il voto del referendum.
Non sta scritto da alcuna parte che i capi dei governi di paesi democratici a economia di mercato non possano e non debbano sottrarsi ai loro comandi. Nel 1936, in piena campagna elettorale, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse di essere consapevole che i monopoli della finanza lo odiavano, e aggiunse: “I welcome their hatred” (“ben venga il loro odio”) e tirò dritto con le sue politiche del New Deal che permisero agli Stati Uniti di uscire dalla tremenda crisi economica del 1929. Da queste parti di leader politici del calibro di Roosevelt non se ne vedono. E francamente dispiace leggere che un uomo e un politico della tempra di Romano Prodi, che potrebbe fare la differenza, è orientato a votare no ma non intende dichiararlo pubblicamente per una sorta di “spirito nazionale” e di timore delle speculazioni finanziarie. Ma proprio lo spirito nazionale bene inteso impone di prendere posizione netta e operare con tutte le proprie forze per il no, se si crede in coscienza che la vittoria del sì devasti la Costituzione. C’è forse un bene comune più alto della Costituzione? Se i capi non sanno tenere la schiena dritta davanti alle oligarchie finanziarie possiamo farlo noi cittadini, con un bel no che nasce dalla volontà di dire a lorsignori che non prendiamo ordini da nessuno. Se la maggioranza degli italiani voterà sì perché impaurita dalle minacce dei mercanti vorrà dire che è felice di essere serva. Che differenza c’è fra obbedire a un padrone domestico e obbedire ai padroni della finanza internazionale? Ma allora tanto vale andare fino in fondo e chiedere a JP Morgan o a Bloomberg di scrivere loro la nostra Costituzione e toglierci l’inutile fardello della libertà.
Affermare il diritto e dovere dei popoli di scegliere la propria Carta contro i potenti stranieri non è nazionalismo, ma quel sano amor di patria di cittadini che pretendono rispetto e non tollerano di essere trattati come bambini da potenti che traggono la loro potenza dal denaro. E lasciamo stare la fandonia che la vittoria del no danneggerebbe l’Europa. Sono i politici da barzelletta sempre pronti a fare quello che vogliono i mercati che stanno distruggendo l’ideale europeo. Quell’ideale, vale la pena ricordarlo, era di un’Europa di popoli. Ma veri popoli sono soltanto quelli che vogliono e sanno essere arbitri del loro destino. Nella nostra storia, noi italiani raramente siamo stati in grado di affermare la nostra dignità di popolo e di riscattarci dai padroni stranieri. Ma qualche volta ci siamo riusciti. Proviamo, almeno proviamo.
Leo Lancari, Valentina Brinis, Nadia Bouzekri: tre voci sul dibattito su ciò che indossano le donne musulmane quando vanno al mare Hanno diritto o no di vestirsi come meglio credono?
Il manifesto, 18 agosto 2016
BURKINI,VALLS CON I SINDACI:
«GIUSTO VIETARLO IN SPIAGGIA
di Leo Lalcari
«Francia. Il premier: "È contro i nostri valori". Salvini: "Facciamo come la Francia"»
Alla fine nel dibattito sulla legittimità o meno per una donna musulmana di recarsi in spiaggia indossando un burkini è intervenuto anche Manuel Valls. E, un po’ a sorpresa, il premier francese si è schierato con i sindaci – almeno uno dei quali, quello di Cannes, appartenente ai Republicaines di Nicolas Sarkozy – che hanno vietato l’utilizzo sulle loro spiagge del capo incriminato che lascia scoperti solo viso, mani e piedi di chi lo indossa. «E’ incompatibile con i valori della Francia», ha spiegato Valls in un intervista al quotidiano La Provence. «Le spiagge, come ogni spazio pubblico, devono essere difese dalle rivendicazioni religiose. Il burkini non è un nuovo tipo di costume da bagno o una moda. È la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna», ha detto il primo ministro.
Anziché sgonfiarsi (come sarebbe stato augurabile), il dibattito sembra quindi destinato a prendere sempre più piede. Nel frattempo fioccano le prime multe. A Cannes, primo comune francese ad aver introdotto il divieto, tre donne di 29, 32 e 57 anni si sono viste affibbiare una sanzione di 38 euro per aver fatto il bagno con il burkini. Altre sei sono state invece solo richiamate dalla polizia municipale e hanno lasciato la spiaggia. Come a Cannes il divieto è in vigore anche nei comuni corsi di Sisco e Villeneuve-Loubet. Pur appoggiando le restrizioni, Valls ha comunque negato di voler presentare una legge che vieti in tutta la Francia l’uso del burkini spiegando di non ritenere che «la regolamentazione generale delle prescrizioni di abbigliamento sia una soluzione».
L’ultima decisione resta dunque in mano ai sindaci, ma le parole del premier francese si sono trasformate in un caso politico. D’accordo con lui si è infatti detto il centrodestra, mentre la gauche è rimasta a dir poco perplessa dalle sue affermazioni. «L’ordine pubblico è un buon argomento» per imporre il divieto, ha subito commentato l’ex consigliere di Sarkozy Henri Guaino, convinto che «nella situazione attuale è il momento di mettere fine a certi comportamenti». Gli ha fatto eco Thierry Solére, altro parlamentare dei Republicaines: «In Arabia Saudita una donna non fa il bagno in topless o tanga. In Francia non si fa il bagno in burqa». Motivazione di alto livello, come si vede, dove tra l’altro si fa confusione tra burqa e burkini. Anche per questo la sinistra francese storce la bocca, con un esponente come l’ex ministro Benoit Hamon, candidato alle presidenziali del prossimo anno, che ieri ha definito «assolutamente incredibili» le affermazioni di Valls.

In Italia, neanche a dirlo, è subito montata la polemica, con Lega e Forza Italia scatenate. «Chiedo ai sindaci che amministrano città di mare in tutta Italia di copiare l’esempio dei francesi» è l’appello subito lanciato da Matteo Salvini, mentre per settembre sono già annunciati una mozione in Regione Lombardia per vietare il burkini in spiagge e piscine e addirittura un progetto di legge a firma del senatore Roberto Calderoli. «Sono da mettere fuorilegge sia il burqa che il burkini e per farlo serve una legge statale», ha detto Calderoli.
Nel mirino del Carroccio e Forza Italia anche il ministro degli Interni Angelino Alfano per essersi detto contrario all’introduzione di nuovi divieti. «Sarebbe una provocazione» che come reazione potrebbe provocare degli attentati, ha spiegato il titolare del Viminale. Una spiegazione definita «preoccupante» dal senatore di Fi Lucio Malan. «Dobbiamo decidere se vietare o meno il burkini in base a ciò che riteniamo giusto e coerente con la nostra civiltà. Guai a far capire che basta la minaccia sottintesa di attentati per farci cambiare leggi e abitudini». Per il presidente della Comunità del mondo arabo in Italia Foad Aodi, invece, «il burkini in Italia è un falso problema. Sono pochissime le donne musulmane che lo portano. Data la situazione internazionale noi sconsigliamo di usarlo, ma vietarlo sarebbe un errore»
BURKINI, UN DIVIETO SUL CORPO DELLE DONNE
di Valentina Brinis
«Il provvedimento non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati»
Come si comporteranno i Comuni francesi che hanno vietato il burkini sulla spiaggia, con chi indossa la muta da sub? O con le donne che per varie ragioni non possono esporsi interamente al sole e si presentano al mare con un abito che le copre interamente, testa inclusa? È vero che quelle ordinanze – adottate proprio dove qualche decennio fa era stato inventato il bikini – parlano chiaro, e si riferiscono al burkini come simbolo religioso più che all’abito in quanto tale. Ma è immaginando l’applicazione di un simile dispositivo che emergono le contraddizioni, oltre che la difficoltà di distinguere tra chi indossa un abbigliamento coprente per motivi religiosi e chi lo fa per altre ragioni.
Gli addetti al controllo delle spiagge avranno probabilmente delle linee guida e sarebbe interessante sapere se si limitano all’identificazione dei trasgressori attraverso le caratteristiche fisiche, o se è prevista un’intervista (due domande, due) in grado di mettere in evidenza se le ragioni di tale abbigliamento siano o meno religiose. Se quest’ultima parte verrà trascurata, quale atteggiamento assumeranno con i fedeli di altri culti che prevedono un costume simile? Possibile che sia solo il burkini a creare problemi di ordine pubblico, e non per esempio i borsoni da spiaggia, le già citate mute da sub o i copri costume extra-large?
Il burkini, poi, rende chi lo indossa immediatamente riconoscibile, smontando in questo modo il fulcro di un dibattito di qualche anno fa sul tema del velo come minaccia alla sicurezza pubblica.
Pare però che la battaglia contro alcune manifestazioni di radicalismo religioso si stia giocando esclusivamente sull’esibizione dei simboli di appartenenza tipicamente femminili e, più esattamente, sul corpo delle donne. Un atteggiamento, quello francese, che appare del tutto sfasato rispetto a quanto sta accadendo alle Olimpiadi di Rio dove il burkini viene utilizzato dalle atlete senza che divenga il bersaglio di accese polemiche. La schermitrice americana che ha gareggiato con il velo lo ha fatto per rivendicare la propria identità e non perché costretta da un compagno estremista. E lo stesso ha pensato la giocatrice di beach-volley egiziana quando lo ha indossato nel match contro la Germania.
Ecco perché è stato prudente il ministro dell’Interno Angelino Alfano a discostarsi dai provvedimenti francesi, assicurando che non saranno mai adottati in Italia. E ciò deve essere fatto non solo per paura di subire ritorsioni da parte di chi quei simboli li considera il tratto fondamentale della propria identità, fino a dichiarare guerra a chi non li rispetta, ma anche perché la loro negazione nello spazio pubblico non si è dimostrata efficace. Inoltre, un divieto come quello imposto dalla Francia, non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Dove, l’integrazione, è da intendersi come un processo a doppio senso (e non a senso unico), composto da diversi elementi, e capace di incidere sia sulla società ospitante che sugli stranieri. E in Europa, un simile sistema non è più ignorabile.
LA LAICITÀ NON DOVREBBE LIMITARE
I DIRITTI MADIFENDERLI
intervista di Carlo Lania a Nadia Bouzekri
«Per favore non mi si venga a dire che un divieto come quello di indossare il burkini in spiaggia è stato pensare per difendere i miei diritti o la laicità dello stato francese. Il burkini non è un indumento previsto dalla religione, è un costume. Chi vuole lo indossa, chi non vuole no. Direi che il problema è a monte: indipendentemente dalla religione sembra che il mondo sia concentrato su quello che le donne possono o non possono indossare».
Nadia Bouzekri è la prima donna a essere stata nominata presidente dei Giovani musulmani d’Italia, un’associazione che con i suoi 1.200 iscritti è la più grande del paese. 24 anni, vive con i genitori marocchini a Sesto San Giovanni. «In quanto donna, musulmana e cittadina italiana – spiega – sapere che ci sia una legge che mi discrimina vietandomi di andare in spiaggia con un determinato abbigliamento mi fa sentire meno libera. Se si pensa che la libertà della donna sia vincolata a quanti centimetri di pelle debba scoprire vuol dire che i parametri che stiamo utilizzando sono sbagliati. Il burkini è stato ideato da un’artista australiana proprio per rispondere alle esigenze delle donne musulmane che volevano andare in spiaggia. Così come una muta è stata pensata per andare sott’acqua. Se indosso una muta che succede, arriva un vigile e me lo vieta perché sono musulmana? Alla fine il burkini è simile a una muta da sub. Penso alle atlete che sono alle Olimpiadi: non dovrebbero gareggiare perché lo indossano?
Però il messaggio che trasmette un burkini è diverso da quello di una muta da sub. Il premier francese Valls si è detto d’accordo con il divieto perché, ha spiegato, il burkini contrasta con un importante valore della Francia come la laicità.
La laicità deve tutelare i diritti dei cittadini o deve limitarli? Lo chiedo perché mi sembra che questo divieto sia stata posto esclusivamente per cittadini di una determinata fede. Una persona può essere atea e voler indossare il burkini perché è comodo.
La ministra francese Rossignol lo equipara al burqa.
E’ sbagliato. Il burqa è un indumento legato a una tradizione culturale in cui c’è un problema di diritti delle donne, ma è anche legato a un’area geografica ben precisa. E poi con il burkini, chiamato così con un chiaro riferimento al bikini, viso, mani e piedi sono scoperti, cosa invece impossibile con il burqa.
Però il resto del corpo è coperto. Non è comunque una violenza per la donna che lo indossa?
Sarebbe un atto di violenza se fossi obbligata ad indossarlo. Così come è un atto di violenza obbligarmi a scoprirmi, a dover per forza indossare un bikini piuttosto che un costume intero. Questa estate con alcune amiche siamo andate al mare: qualcuna indossava un burkini, altre un costume e ci siamo divertite tranquillamente. Non vedo dove sia il problema.
Lei cosa indossava?
Un burkini.
E ha avuto qualche reazione da parte degli altri bagnanti?
E’ normale che all’inizio vi sia uno sguardo un po’ destabilizzato. Però poi quando le persone vedono che nuoto tranquillamente, che rido e scherzo senza nessun problema, lo stupore passa velocemente insieme alla diffidenza. Indipendentemente dalla religione sembra che tutto il mondo sia concentrato su cosa indossano le donne.
Quindi ne fa una questione di moda?
Per alcune musulmane può esserlo, per altre invece è solo un costume da bagno. Io lo uso quando vado al mare, quando vado a fare trekking metto le scarpe da trekking.
Il ministro Alfano dice che vietarlo sembrerebbe una provocazione.
Più che una provocazione significherebbe andare contro i diritti costituzionali. La Francia in primis, con questo divieto mascherato sotto la tutela della laicità piuttosto che della sicurezza, va contro i diritti fondamentali dell’Unione europea.
Una posizione del tutto ragionevole e condivisibile, con un solo errore, ricorrente in questo e in altri dibattiti: ritenere che il PS di Renzi abbia alcunché di "sinistra". L'ideologia del partito renziano è, in modo un po' pasticciato, quella nel più classico neoliberismo.
La Repubblica, 14 agosto 2016
Caro direttore, si è aperto nelle ultime settimane sulle pagine di
Repubblica un importante dibattito sul rapporto tra sinistra e immigrazione. Lo spunto è venuto da una
lettera di Francesco Ronchi, dirigente del Pd Emiliano, pubblicata il 29 luglio scorso, in cui si sostiene che le sinistre europee stiano perdendo il sostegno del loro elettorato storico — le classi popolari — a causa di un rifiuto di affrontare il “tabù” dell’immigrazione, che avrebbe consegnato il monopolio di questo tema alle destre populiste. Ne nasce una proposta: che la sinistra abbia il “coraggio” di riconoscere la «tensione tra immigrati e nativi», e quindi di ripartire da una visione della «comunità che protegge», invece dell’«esaltazione retorica del multiculturalismo».
Quest’ultimo termine — multiculturalismo — sembra essere usato in Italia solo da chi vuole criticarlo. Vale quindi forse la pena ritornare sul suo significato, a partire dall’esperienza di un paese che invece ne ha fatto un’identità. Negli Stati Uniti essere a favore del multiculturalismo non è un insulto, ma una bandiera. Significa non solo riconoscere che la società è “multietnica di fatto”, ma anche che questa diversità è un valore, cioè una ricchezza per il paese. Il suo opposto è quindi il “monoculturalismo”, inteso come tentativo di imporre una cultura unica a una società per sua natura eterogenea.
Sarebbe un errore pensare che questo faccia parte del Dna degli Stati Uniti, in quanto paese fondato sull’immigrazione. Anche lì, si tratta di una conquista storica, identificata in particolare con una parte politica. Quando gli immigrati negli Stati Uniti eravamo principalmente noi italiani, erano in molti “nativi” a preoccuparsi che le nostre tradizioni e soprattutto la nostra religione (cattolica) non ci avrebbero consentito di integrarci nel melting pot americano. «I tedeschi, gli inglesi e gli altri» si legge ad esempio su un editoriale del New Orleans Times del 17 Ottobre 1890 «vengono in questo paese, adottano i suoi costumi, imparano la sua lingua e si identificano col suo destino… Gli italiani, mai. Rimangono isolati dalle comunità in cui vivono, non imparano la nostra lingua e non hanno alcun rispetto per le nostre leggi e la nostra forma di governo. Rimarranno per sempre stranieri». Oggi gli stranieri considerati “inassimilabili” dalla destra populista americana sono altri: i messicani, i cinesi e soprattutto i musulmani. Ma la retorica di fondo è rimasta la stessa.
Se ora vogliamo, come sinistra italiana ed europea, imparare qualcosa da un paese che vive dell’immigrazione da più di un secolo, perché ricalcare il discorso della sua destra populista? Quando la sinistra imita la destra non va mai molto lontano, in primo luogo perché l’elettorato sembra (comprensibilmente) preferire l’originale, ma anche perché vincere con le posizioni dell’avversario non è veramente vincere. Non sarebbe invece più sensato ispirarsi alla corrente più “progressista” della politica americana, cioè a quel Partito Democratico che oggi difende il multiculturalismo come “vera” identità degli Stati Uniti, contro la bolsa retorica di un’America bianca e omogenea di Donald Trump? Alla convention del Partito Democratico ha per esempio avuto enorme risonanza l’intervento di un cittadino di origine pachistana che ha perso un figlio durante la guerra in Iraq e che, sventolando una copia della costituzione americana, chiedeva a Trump cosa avesse sacrificato, lui, per il paese. Ecco una bella immagine del multiculturalismo americano. La costituzione rappresenta i valori condivisi, e nella nostra come in quella americana c’è scritto che tutti i cittadini sono uguali, indipendentemente dalle origini sociali, culturali e religiose. Il multiculturalismo quindi non nega che serva una base di valori condivisi, espressi nella costituzione e nel diritto (uguali per tutti), ma afferma che questi valori sono compatibili — e nutriti — da una molteplicità di culture diverse. Prendiamo due esempi più concreti: negli Stati Uniti è possibile per i cittadini adempire ad alcune pratiche ufficiali — come ad esempio sposarsi — nella lingua che preferiscono, attraverso l’uso di traduttori. Non si capisce perché un simile principio di multilinguismo non potrebbe essere adottato anche in Italia. Senza far torto alla nostra lingua ufficiale, ma affiancandola ad altre, si darebbe un segnale concreto di apertura e accoglienza verso chi si trasferisce nel nostro paese. D’altra parte, nel caso di conflitti evidenti con i valori fondanti del nostro sistema di governo, le autorità possono sempre intervenire per vietare pratiche specifiche, come ha fatto ad esempio il parlamento nel 2006, vietando la mutilazione genitale femminile in quanto «violazione dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne». Credere che l’elettorato storico della sinistra non possa essere ricettivo a un messaggio di questo tipo significa sottovalutarlo, perché la sinistra si è sempre identificata con i principi di uguaglianza e universalismo. Invece di un passo indietro alla rincorsa del suo avversario, converrebbe quindi che nel parlare di immigrazione la sinistra si distinguesse dalle destre conservatrici e protezioniste, coniugando i principi di uguaglianza e universalismo con una difesa del multiculturalismo.
James Fontanella- Khan è corrispondente dagli Stati Uniti per il Financial Times Carlo Invernizzi- Accetti è Assistant Professor di Scienze Politiche alla City University of New York
«Il segretario generale della Fiom-Cgil "Voterò No al referendum costituzionale in autunno. Prima ancora che su Renzi è un giudizio su una riforma sbagliata».
Il manifesto, 14 agosto 2016 (c.m.c.)
A giugno la crescita è stata azzerata. Invece dell’1,2% annunciato dal governo, nel 2016 il Pil sarà dimezzato: +0,6%. La seconda metà dell’anno rischia di essere negativa per l’economia italiana.
Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, Renzi si sta giocando sulla crisi economica l’esito del referendum costituzionale previsto in autunno?
È necessario votare No al referendum innanzitutto per il contenuto delle modifiche fatte alla Costituzione. Non sono solo un pasticcio, ma sono proprio sbagliate. Sono ispirate dalla stessa logica seguita dai governi che hanno stravolto le pensioni, hanno votato il pareggio di bilancio nella Costituzione e hanno cancellato l’articolo 18 e liberalizzato i licenziamenti. Chi ha proposto questa riforma risponde all’idea che il governo non venga più eletto dal Parlamento, non risponda più ai cittadini.
C’è l’idea di una presidenza del Consiglio che risponde ai soci di un’azienda e si comporta come un amministratore delegato. Non si può prendere in giro gli italiani: se Renzi voleva cancellare il Senato, avrebbe dovuto farlo sul serio. Se voleva ridurre i costi della politica bastava ridurre il numero dei parlamentari e il loro stipendio. Queste cose non ci sono in una riforma che riduce solo gli spazi della democrazia che è invece proprio quello che bisogna ricostruire in Italia. Una vittoria del No è la condizione per riaprire un ragionamento anche sul lavoro, i diritti e lo sviluppo. Dal mio punto di vista significa collegarlo in maniera esplicita al referendum sul Jobs Act promosso dalla Cgil per la prossima primavera contro i voucher, sugli appalti, per estendere le tutele e i diritti contro i licenziamenti.
Con una crescita dimezzata sarà difficile per Renzi mantenere tutte le promesse. I dati sulla produzione industriale e la deflazione, le analisi comparate tra l’occupazione prodotta dal Jobs Act e gli altri paesi europei mostrano tutto tranne che i successi vantati dal governo. Basterà ottenere un’altra quota di flessibilità di bilancio per nascondere tutto questo?
Anziché battersi come sembra fare il governo per ottenere qualche altra flessibilità in Europa, bisogna riscrivere tutti i trattati europei. Se l’Italia volesse fare le cose seriamente, dovrebbe eliminare il pareggio di bilancio introdotto sotto la dettatura della Commissione Europea. Questo è l’unico modo per reagire alla crisi e non cambiare la Costituzione come vuole fare Renzi. Bisogna cambiare la funzione della Bce che non può essere solo quella di contenere i prezzi o gestire l’inflazione, ma di far crescere l’occupazione, favorire investimenti pubblici e privati e far crescere l’occupazione.
Senza di questo vedo difficile la possibilità di una ripresa. O il tema della piena occupazione diventa centrale fuori dai parametri dell’austerità, oppure saranno sempre l’Fmi o la Bce a dettare le condizioni. E si continuerà ad affrontare i problemi tagliando lo stato sociale, licenziando e liberalizzando il mercato. Oggi siamo di fronte ai disastri di questa politica. Per questo credo che si debba aprire una battaglia sindacale e politica di riscrittura dei trattati e per ricostruire un’Europa vera che oggi non c’è.
Il ministro dell’Economia Padoan sostiene che i conti siano sotto controllo e addebita la responsabilità della crisi a fattori indipendenti dalla sua politica economica: Brexit, migranti, terrorismo. La convince?
No, assolutamente. I conti non tornano e le responsabilità non sono di altri. Restare dentro i meccanismi europei vigenti è un grave errore economico e politico. Il governo continua a illudersi che le bugie raccontate in questi due anni e mezzo nasconderanno la realtà sotto gli occhi di tutti: il trasferimento della ricchezza dai redditi al capitale continua come nell’ultima generazione: sono 8 o 9 punti di Pil. Il capitale non ha reinvestito questi soldi nell’industria ma in operazioni finanziarie e immobiliari.
I profitti sono andati agli azionisti, non all’innovazione e tanto meno al welfare per contrastare le disuguaglianze sociali. Non c’è bisogno dell’Istat per dimostrare che tra gli italiani è aumentata la sfiducia verso la politica. Le elezioni amministrative di giugno hanno chiarito la distanza esistente tra il governo e la maggioranza del paese. È sotto gli occhi di tutti.
Il 2016 è anche l’anno in cui la povertà è tornata a crescere in maniera sensibile. Il governo punta sul Ddl povertà e su una misura di reddito di ultima istanza per famiglie numerose povere. La ritiene una misura adeguata all’emergenza sociale in cui viviamo?
Come Fiom sosteniamo da tempo la battaglia di Libera di Don Ciotti per il reddito di dignità. Continuo a pensare che in questo paese sia venuto il momento di una riforma fiscale e lotta all’evasione fiscale necessarie per introdurre un reddito minimo che permetta alle persone di non essere ricattabili quando non hanno un lavoro o un reddito tale da non permettergli di vivere. La lotta contro la povertà riguarda anche chi lavora: i working poors. È necessario che la politica agisca su più fronti, a cominciare da quello della cancellazione delle forme obbrobriose di lavoro povero come i voucher.
Il primo punto da affermare è che chiunque lavori possiede diritti che non possono essere messi in competizione con quelli degli altri e devono essere garantiti tutti nello stesso modo. In questa politica rientra il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro. Se il governo vuole fare una cosa utile approvi una norma per detassare, non solo a livello aziendale, gli eventuali interventi che estendono forme di sostegno al reddito ai contratti di lavoro. Per questo è importante fare in modo che i contratti nazionali di lavoro abbiano validità erga omnes e impedire alle imprese di non applicarli. In Italia serve la certezza del diritto.
Sembra che la svolta negativa del Pil imporrà al governo uno stop sulle risorse che dovrebbe stanziare nella legge di stabilità su contratti e pensioni. Davanti a un blocco cosa farete?
Quando si parla di risorse bisogna ricordare alcune cose. Quanti sono i miliardi dati a pioggia alle imprese in questi anni? La riduzione dell’Irap, gli sgravi contributivi sulle assunzioni del Jobs Act senza articolo 18. Stiamo parlando di decine di miliardi. Chi dice che non ci sono soldi non dice il vero. Sono scelte sociali molto precise. Senza contare che si discute di ridurre la tassazione sui profitti.
Se si vuole cambiare strada e ricostruire una giustizia sociale bisogna ripartire dal rapporto tra occupazione e consumi e da questo affrontare tutti gli altri problemi. Il rinnovo del contratto nazionale riguarda tutti i lavoratori italiani, non solo i diretti interessati. Le risorse vanno trovate e bisogna pensare a un sistema che tuteli veramente il potere d’acquisto. Se si vogliono rilanciare gli investimenti bisogna avere un’idea sulle politiche industriali e farle. E comunque la detassazione degli utili la farei alle imprese che investono nel nostro paese e non ricorrerei più alle politiche dei fondi a pioggia.
Sul contratto dei metalmeccanici Federmeccanica sostiene che la disponibilità a firmarlo c’è ma continua a puntare sul collegamento trra salario e produttività, welfare aziendale e formazione. Avete già manifestato contro questa impostazione. Cosa farete a settembre?
Federmeccanica è di fatto ferma alla proposta che ha avanzato un anno fa. Abbiamo già fatto 20 ore di sciopero in maniera unitaria. È necessario che cambi la posizione e si renda conto che in Italia non è possibile sostituire il contratto nazionale e sostituirlo con quello aziendale.
I due livelli sono autonomi e il contratto nazionale deve essere in grado di rappresentare i lavoratori anche sul salario. È molto importante che la loro disponibilità sia esplicitata a settembre. In caso contrario discuteremo su altre forme di mobilitazione. È utile per le imprese andare al rinnovo del contratto sperimentando anche elementi innovativi come innovazione e Welfare, ma è importante stabilire che i contratti nazionali abbiano una loro validità se approvati dalla maggioranza dei lavoratori. In questa fase difficile potrebbe essere l’occasione di superare gli accordi separati.
Con la segretaria della Cgil Susanna Camusso lei ha respinto con forza la proposta del mutuo pensionistico. L’anticipo pensionistico Ape. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini sostiene che i disoccupati o i lavoratori poveri che possono andare in prepensionamento saranno sollevati dal mutuo. A quanto pare gli altri no. Che ne pensa?
Quello che vuole fare il governo con l’Ape è comunque inaccettabile. Questa idea una persona possa andare in pensione facendo un debito è una follia. La crisi ci ha fatto pagare ampiamente le politiche dell’indebitamento. È un insulto alle persone oneste che per una vita hanno pagato i contributi. Se il governo mantiene posizioni di questa natura c’è bisogno di pensare a forme di mobilitazione. Al sindacato è imputato di non avere mosso un dito quando il governo Monti varò la riforma Fornero. Quella ferita sulle pensioni è ancora aperta.
Landini, la domanda è d’obbligo. L’onorevole Sannicandro di Sel ha sostenuto in un dibattito parlamentare sul taglio degli stipendi dei parlamentari che «i parlamentari non sono lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici». Sannicandro si è scusato. La frase ha fatto molto discutere a sinistra. Secondo lei rivela la separazione tra la sinistra e quella che era la sua classe di riferimento?
È assolutamente vero che i parlamentari non sono metalmeccanici e si vede in modo molto chiaro. Ci sarebbe bisogno di molti più metalmeccanici in parlamento e forse le cose andrebbero molto meglio. Si può proprio dire che le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare sono la maggioranza e, in questo momento, i loro bisogni e visioni non sono rappresentate adeguatamente nelle camere e nel governo. Mi sembra questo il vero problema che riguarda i giovani, i precari, i lavoratori subordinati, tutte le persone che hanno bisogno di lavorare.
Una storia europea, un controcanto alla Turchia che piace alla NATO. «Oppositore del regime, cantore dell’impegno come dei sentimenti, l’autore delle “Poesie d’amore” incarna ancora lo spirito di Istanbul». La Repubblica, 12 agosto 2016
Continuano a scandire, agitare la loro bandiere rosse. La cosa che più colpisce nella Istanbul del dopo golpe è il permanente susseguirsi di manifestazioni, slogan, canti. Yenikapi a sostegno di Erdogan sembrava Tiananmen ai tempi di Mao. A piazza Taksim non succedeva da anni che potesse riunirsi tanta gente. E di tante parti politiche diverse e contrapposte. E non si canta solo in piazza. Tra i tavoli dei ristoranti, strapieni, che si affacciano sul mare a Büyükada, la maggiore delle isole dei Principi, continuano ad intrecciarsi duelli canori: canti patriottici da una parte, cui rispondono vecchi canti della sinistra da un’altra parte. Monta irresistibile l’allegria col raki, cominciano le danze. Si mangia e ci si diverte.
Come se niente fosse successo. Anzi, no, forse proprio per reagire a quel che sta succedendo.
«Goccia a goccia... il suo sangue fino a quando non verrà in piazza il mio popolo, con le sue canzoni». Questi i versi di una delle ultime poesie di Nazim Hikmet, dedicata a uno studente diciannovenne ucciso a Istanbul nel 1960. Il poeta era in esilio a Mosca. Del golpe del 1960 si è ormai persa la memoria. Del “Morto in piazza Beyazit”, non sappiamo nulla. Nei versi di Hikmet è una sorta di “militante ignoto”, simbolo di un grande massacro che proseguì nei decenni successivi. Ma non credo che sognasse questo tipo di piazze il vecchio comunista, eternamente innamorato della rivoluzione, così come di un numero sterminato di donne (“ce n’era sempre un’altra”, ha riassunto Piraye, quella a cui aveva dedicato le sue poesie dal carcere, e che fu solo una dello sterminato catalogo). Anche se è meglio degli scontri armati. È una tradizione locale confrontarsi a slogan scanditi e canti negli stadi. Fece scandalo quando interruppero il minuto di silenzio per i morti di Parigi scandendo Allah Akbar. L’ultimo slogan portato lontano dal vento che avevo udito scandire dagli spalti del nuovissimo stadio suonava: “La Turchia è laica e laica resterà”. Ora bisognerà attendere la nuova stagione calcistica.
Di Nazim Hikmet raccontano che gli piacesse cantare, ridere, scherzare, raccontare barzellette anche nei momenti peggiori, anche in carcere, anche quando al processo a porte chiuse fu chiesta la condanna a morte per impiccagione. Anche quando aveva già scontato 14 anni e gliene restavano da scontare altri 17. L’avevano condannato per incitamento all’ammutinamento nelle forze armate. Poi per ammutinamento nella marina per conto di una potenza straniera. Questo perché lui era comunista e dei giovani ufficiali leggevano le sue poesie. Lo rinchiusero in una nave trasformata in prigione, in un locale sommerso da mezzo metro di escrementi. Spellarono a bastonate le piante dei piedi ai militari suoi “complici”. Era negli anni ’30. Un capo di Stato maggiore che spingeva perché la Turchia entrasse in guerra a fianco di Hitler voleva una punizione esemplare. Quel generale fu poi licenziato, la Turchia dichiarò invece guerra, in extremis, a metà 1945, alla Germania. In Turchia ci sono cose che non cambiano anche quando cambia tutto. Continuavano a liberarlo e incarcerarlo di nuovo. Tornò libero, per una riduzione della pena, nel ‘50. E, all’età di 50 anni, con un infarto alle spalle, lo richiamarono alle armi per mandarlo a combattere contro i comunisti in Corea. Lui fuggì avventurosamente in barca, fu raccolto nel Mar Nero da un mercantile battente bandiera romena. A Mosca fu accolto con tutti gli onori, poi Stalin decise qualcosa che neanche i turchi avevano osato: di ammazzarlo. Una sera l’autista che gli avevano assegnato irruppe ubriaco nella dacia a Predelkino e confessò singhiozzando che l’ordine di fingere un incidente gli era stato dato direttamente da Beria. Così racconta il suo collega poeta Evtushenko.
A Hikmet mi accomuna l’essere nato a Istanbul (in realtà lui era nato a Salonicco), l’essere stato comunista, essere renitenti alla leva, l’essere stato privato della nazionalità turca per decreto del consiglio dei ministri e pure (quand’ero più giovane), l’essermi innamorato più spesso del dovuto. Tra le differenze: che il turco l’ho dimenticato e che non ho mai saputo cantare e soprattutto il fatto che, almeno nei suoi versi, lui è sempre ottimista, anche nelle circostanze più disperate, mentre col passare degli anni io tendo ad essere pessimista. «Uno scrittore che non offre speranze non ha il diritto di fare lo scrittore… Ci possono essere ragioni per essere tristi, sconsolati, amareggiati, ma non ce n’è alcuna per essere senza speranza», scriveva a Orhan Kemal ( In jail with Nazim Hikmet, 2010). E in effetti l’idea del suicidio gli passò per la mente solo per pene d’amore. E probabilmente era solo per finta. Consiglio di rileggere Hikmet quest’estate, e non solo le sue (nel corso della mia vita ne ho regalate tante copie, a tante ragazze, che Mondadori dovrebbe darmi un premio). Anche Paesaggi umani, o In quest’anno 1941 dicono della sua Turchia, dell’umanità, del coraggio, e insieme della ferocia, delle viltà, dei fanatismi contrapposti, delle “stranezze” del suo popolo molto più che un’intera biblioteca sulla Turchia. Del resto non c’è autore turco contemporaneo che non abbia un debito con Hikmet, compreso l’Orhan Pamuk dell’ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa. È uscito in traduzione italiana anche il romanzo su Hikmet di Nedim Gürsel, L’angelo rosso (Ponte alle Grazie). Peccato che il titolo scimmiotti quello della traduzione francese, mentre l’originale turco è Seytan, Melek ve Komünist, “Demonio, Angelo e Comunista”, e rende assai meglio la complessità e le contraddizioni del personaggio, di un secolo, di un Paese (la Turchia) e di un continente (la nostra Europa). Mi è incomprensibile invece perché non sia ancora disponibile in italiano la straordinaria, bella e ricca biografia su Hikmet di Saime Göksu ed Eward Timms, Romantic Communist, pubblicata nel 1999.
A proposito dello scandaloso sostegno dell'UE e degli USA al sultano Erdogan. «Vi è una sola, vera legittimazione dell'azione dei governi, il riconoscimento integrale dei diritti grazie ad una parola forte come “dignità”, diritti, che in tal modo non solo si ricongiungono con la democrazia, ma ne ridefiniscono continuamente il significato».
La Repubblica, 12 agosto 2016 (c.m.c.)
Da tempo democrazia e diritti si allontanano, e gli effetti del fallito golpe in Turchia confermano in modo eloquente questa tendenza. I governi hanno dato la loro solidarietà ad Erdogan con l’argomento che istituzioni democraticamente votate non possono essere cancellate con un colpo di forza. Ma poi non reagiscono adeguatamente di fronte alla cancellazione di diritti fondamentali – libertà personale, informazione, manifestazione del pensiero -, delle garanzie giurisdizionali, e alla quotidiana mortificazione delle persone, accompagnate addirittura dalla sospensione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Torna così la concezione della democrazia come semplice procedura, di cui si ignorano le necessarie precondizioni. Si perde la trasformazione che ha potuto far parlare di una “età dei diritti”, proprio perché l’istituzione di uno “spazio dei diritti” aveva individuato un connotato essenziale dello Stato costituzionale.
L’Unione europea aveva colto questo passaggio. Nel 1999 aveva istituito una convenzione incaricata di scrivere una sua carta dei diritti fondamentali, motivando questa sua scelta con parole particolarmente impegnative: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità ».
Veniva così riconosciuta l’inadeguatezza di un sistema istituzionale nel quale l’integrazione dei mercati ed una moneta unica non erano per sé soli considerati capaci di conferire tale legittimità. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata realizzata al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si accompagnava addirittura un deficit di legittimità, che esigeva una ridefinizione complessiva del rapporto delle istituzioni europee con i cittadini, avviando una vera e propria fase costituente.
Impostazione presto abbandonata, anche se il trattato di Lisbona aveva formalmente attribuito alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati. E questo è avvenuto attraverso una vera e propria “decostituzionalizzazione”, con un ritorno al primato della dimensione economica, e quindi con un riconoscimento dei diritti solo quando essi si presentavano e si presentano come manifestazione della legge di mercato.
In questo modo il riferimento alla democrazia assume un significato di ritorno al passato, diviene una mossa conservatrice. Disconnessa dai diritti, offre come in passato la sua legittimazione ad un potere personale o accentrato che abbia avuto la possibilità o l’accortezza di fondarsi su una procedura formale.
Diversi paesi europei rivolgono ad Erdogan parole sdegnate, intimandogli di non ricattarli. Ma è proprio l’Unione europea ad aver creato questa situazione con il suo abbandono della dimensione dei diritti, accettando che alcuni suoi Stati, a cominciare dall’Ungheria, realizzassero limitazioni gravi della libertà di manifestazione del pensiero e dell’indipendenza della magistratura, di quella costituzionale in specie. Le reazioni dell’ultimo periodo sono tardive e vengono dopo una lunga fase in cui l’Unione ha esercitato un potere autoritario e solo formalmente democratico, con pesanti cancellazioni dei diritti come ormai è generalmente riconosciuto per la vicenda della Grecia.
Questo conflitto, o comunque contraddizione, è reso ancor più evidente dall’ipocrisia dei governi che oppongono all’Is una dichiarata volontà di non accettare un mutamento di valori e diritti, ma che poi, nei fatti, lo praticano con l’argomento della lotta al terrorismo. Di nuovo un distacco tra una democrazia tutta formale e una sorta di impotenza dei diritti.
Ma proprio sui diritti si sta determinando una confusione anche nella discussione pubblica. Si sostiene che non si può parlare di diritti se non accompagnandoli con una sottolineatura dei doveri. Che cosa vuol dire? Spesso parlar di doveri è un modo neppure tanto indiretto di avanzare proposte limitative dei diritti sociali. In generale, però, la tesi è anche insostenibile perché la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuiscono al dovere della solidarietà un valore fondativo.
La solidarietà tra gli Stati è stata cancellata: basta considerare la gestione dei migranti. Per le persone dovrebbe valere quanto è scritto nell’articolo 2 della Costituzione, ove al riconoscimento dei diritti si accompagna «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». Qualcuno legge ancora questa norma, o pur’essa è stata travolta dalla regressione culturale che stiamo vivendo?
Il tema dei diritti si è anch’esso globalizzato, è divenuto cosmopolitico, nessuno può sottrarsi alla sua considerazione. E si possono così registrare tentativi di trovare nuove connessioni tra democrazia e diritti, per evitare l’impotenza della prima e la mortificazione dei secondi. Se si guarda al costituzionalismo del Sud del mondo – alla linea che ancora congiunge Brasile, Sudafrica, India – si coglie nelle leggi e nelle decisioni dei giudici una attenzione concreta per i nuovi diritti fondamentali: cibo, salute istruzione. Due costituzionalismi si confrontano e la costruzione della democrazia viene appunto fatta dipendere dal grado di tutela effettiva dei diritti, che assume un carattere prioritario. I diritti si congiungono alla vita materiale, e così progressivamente reinventano la nozione di cittadinanza, vista come l’insieme dei diritti che spettano a ciascuno quale che sia il luogo del mondo in cui si trova.
Questa era la promessa dell’Unione europea, che dichiara di mettere «la persona al centro della sua azione». Promessa presto tradita, anche se ha comunque consentito alla magistratura di costruire un nuovo e impegnativo diritto fondamentale – “il diritto all’esistenza”. Dobbiamo concludere che, nel silenzio o nell’ostilità delle istituzioni europee, sono i giudici a costruire l’Europa possibile, realizzando una nuova connessione tra diritti e democrazia fondata sui bisogni effettivi delle persone? Per giungere a questo risultato, bisogna liberarsi dall’ipoteca rappresentata dalla considerazione della legge di mercato come nuova legge naturale. La connessione così cercata esige invenzioni istituzionali che restituiscano ai diritti una legittimità non dipendente dalla relazione obbligata con la logica proprietaria. Questo accade grazie all’attenzione per i beni comuni, per la conoscenza come bene pubblico globale, per un reddito di dignità. Deperisce la legittimazione assoluta della proprietà come unico fondamento legittimo dell’azione pubblica.
Ma la ricerca di una connessione nuova si coglie anche in mosse concrete della politica. Nel programma di Hillary Clinton compaiono la garanzia del salario minimo, il diritto universale di mandare i figli all’asilo, una ridefinizione delle imposte, la presa di distanza dai trattati con l’area del Pacifico e con quella europea, finora negoziati senza trasparenza e volti a trasferire al sistema delle imprese poteri di governo del mondo che darebbero scacco ai poteri democratici.
La considerazione della vita materiale delle persone si presenta così come il punto d’avvio di una rinnovata consapevolezza della necessità di muovere dai loro diritti, come via per lo stesso successo elettorale.
Forse, però, le parole più limpide sono venute da Angela Merkel, quando ha dichiarato di fondare i suoi valori sulla premessa che «la dignità delle persone è intoccabile ». Non solo viene così stabilito il nesso più forte possibile tra azione di governo e riconoscimento integrale dei diritti grazie ad una parola forte come “dignità”. Si ribadisce in un momento difficile che vi è una sola, vera legittimazione della stessa azione di governo. L’orizzonte torna ad essere occupato dai diritti, che in tal modo non solo si ricongiungono con la democrazia, ma ne ridefiniscono continuamente il significato.
L’invenzione dei diritti si presenta così come un processo con una altissima capacità di trasformare il mondo e di dare risposte alle novità proposte da scienza e tecnologia. Risposte che si sottraggono alla pura logica di mercato, perché trovano la loro legittimazione proprio nel permanente rilievo della loro connessione con la logica della democrazia.
«C’è una domanda che bisognerebbe porsi, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?».
Il manifesto, 11 agosto 2016
È sempre più insistente la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente.
Sono tante le possibili ragioni: la deprimente ripetitività delle cronache; la desolante modestia dei politicanti; l’assenza, soprattutto, di prospettive di là dalla dittatura dei mercati, dallo stillicidio degli attentati e delle stragi di migranti e, chez nous, dal dilagante malaffare, dalla cronica indigenza delle finanze pubbliche e dall’inesorabile immiserimento del mondo del lavoro. Naturalmente «morte della politica» non è che uno slogan. Eppure questa formula suggestiva contiene una verità interna sulla quale vale la pena di ragionare.
Partiamo dal dato più vistoso. Da decenni ormai nel cuore del mondo capitalistico la sinistra ha abbandonato le classi lavoratrici, spingendole alla protesta qualunquistica o tra le braccia delle destre nazionaliste e xenofobe.
Oggi questo processo è persino plateale.
I democratici americani non trovano di meglio che un’indomita paladina del potere finanziario. I socialisti francesi mettono un paese a ferro e fuoco pur di cancellare i diritti del lavoro dipendente. I laburisti inglesi si industriano per sbarazzarsi del loro unico dirigente radicale e il nostro Pd, votato ormai soltanto dalla buona borghesia delle città, non fa che studiare il modo per blindare il sistema pur di regalare ricchezza e potere alle oligarchie.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Milioni di americani poveri voteranno un miliardario invasato e irresponsabile. Milioni di operai francesi si riconoscono nella Le Pen. Milioni di proletari inglesi hanno dato retta a Farage e Johnson. Milioni di italiani prendono sul serio addirittura Salvini e Di Maio.
Definire questo fenomeno diffusione dei populismi è solo un modo per tranquillizzarsi, descrivendo le destre come banche cattive zeppe di spazzatura. Ma quando si giudica senza capire, il giudizio è per forza viziato.
C’è una domanda che bisognerebbe porsi prima di precipitarsi a dare i voti, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?
Perché, soprattutto, in concomitanza dello sfondamento neoliberale che in Europa si verifica dagli anni Ottanta e che aggredisce la sovranità democratica dei corpi sociali, riduce al minimo diritti e redditi del lavoro salariato, impone politiche economiche incentrate sul dominio degli oligopoli industriali e dei potentati finanziari?
Il neoliberismo di Reagan e Thatcher era evidentemente un programma di destra: perché diviene subito – con Clinton e Blair – la stella polare della controparte, e come mai, soprattutto, lo rimane nei decenni di poi, nonostante l’evidenza dei suoi effetti rovinosi?
Sembra che porsi questi interrogativi mentre affondiamo impotenti nella miseria materiale e morale significhi rimuovere i problemi più urgenti, e invece è l’esatto contrario.
Potremo tentare di uscire da questa morta gora solo se finalmente capiremo le ragioni della mutazione che ha trasformato in radice la parte politica che nel suo complesso, con le sue molteplici articolazioni, nei trent’anni successivi alla guerra mondiale aveva fatto valere le ragioni del mondo del lavoro e difeso gli interessi delle classi subalterne.
Ottant’anni fa Gramsci si fece una domanda simile di fronte agli entusiasmi liberisti di alcuni dirigenti anarco-sindacalisti. E si rispose evocando il primitivismo ideologico («corporativo») di quanti ignorano le connessioni che legano l’economia alla politica.
Ci si può innamorare del libero mercato, a sinistra, solo se non si intende che dietro questa quinta si staglia un determinato assetto dei poteri e dei rapporti di forza tra le classi. Ma nel frattempo è successo di tutto, il fascismo è imploso, c’è stata un’altra guerra mondiale, la guerra fredda, il crollo del socialismo reale, una nuova mondializzazione: possibile che questa risposta, sempre che fosse giusta per quei tempi, valga ancora nei nostri?
Non si tratta di improvvisare soluzioni pur di mettersi l’animo in pace.
Lo ripetiamo: non muoveremo un passo fuori dalla palude (il che non ci impedirà di spedire qualche comparsa nel teatrino di Montecitorio) finché non avremo capito davvero le ragioni dell’eclissi della sinistra in tutto l’Occidente.
Si tratta quindi di lavorare, di studiare, di cercare seriamente. Qui, in linea d’ipotesi, è possibile tutt’al più segnalare una coincidenza, tautologica solo in apparenza. I partiti socialisti (e in Italia lo stesso partito comunista, maturata la decisione di dissolversi) si sono consegnati al neoliberismo quando hanno dismesso ogni intenzione critica nei confronti del sistema capitalistico, quando, ripudiata l’idea stessa di lotta di classe, hanno accettato di concepirsi come variabili interne del sistema, votate a ottimizzarne la riproduzione.
Ma si è trattato di una causa, o di una conseguenza? E, in questo caso, da dove nacque il mutamento, visto che precedette nel tempo anche il crollo dell’Unione sovietica?
Sembra comunque chiaro che è stato un gravissimo errore politico e storico e un disastro di immense proporzioni. Margini di evoluzione riformatrice del capitalismo sussistono nelle fasi espansive, mentre il neoliberismo fu ed è la risposta a una crisi strutturale di redditività del capitale industriale.
Avere rinunciato a qualsiasi azione di resistenza attiva ed essersi anzi trasformati in forze organiche al sistema in una fase storica che ne precludeva l’evoluzione «progressiva» ha comportato, inevitabilmente, il suicidio della sinistra socialista, laburista e liberal in tutta Europa e nel mondo anglosassone.
Oggi siamo alle prese, giorno per giorno, con le conseguenze di questa vicenda. Che va indagata in ogni suo passaggio e criticamente compresa, a meno di rassegnarci a quella che ci appare come la morte della politica.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso».Il manifesto,
11 agosto 2016 (c.m.c.)
Stanno tornando parole che fanno scandalo: colpo di stato, mancanza di libertà, abolizione del pluralismo, limiti alla libertà di espressione. E, dal punto di vista del pensiero unico, fa scandalo che facciano scandalo. Perché se pensiero unico è, il dissenso non è. La maggioranza ha sempre ragione. E la minoranza deve farsi maggioranza per prendere la parola. C’è poi un ulteriore paradosso. Una frattura generazionale totale per cui, se uso parole come “pluralismo” o “dissenso” esse vengono percepite come valori da chi ha la mia età.
E sempre per chi ha la mia età la loro limitazione fa scandalo. In questi giorni è emerso il paradosso per cui minoranze di destra e di sinistra si sono riconosciute nella difesa di questi valori. Mentre i millenials sembrano non percepire neanche il problema.
Per chi è nato, cresciuto, vissuto, con il pensiero unico lo scandalo è insito in quelle stesse parole, troppo estremiste e politicamente scorrette. Insomma, in Italia il pensiero unico è penetrato così a fondo da rappresentare l’imprinting delle nuove generazioni al punto che recepiscono come eccessivo un semplice dissenso verbale o parlamentare, quando, per altri paesi come Francia, Spagna, la stessa Germania, provvedimenti come il Jobs act scatenano tumulti di piazza generalizzati.
L’Italia ha rimosso da tempo ogni residuo del pensiero critico e ha normalizzato così tanto il pensiero corrente da fare del semplice pensiero oppositivo un atto di terrorismo.
Slogan come “No Tav”, “No Border”, “No riforme” fanno scandalo. Perché non previste dal mainstream. Decenni di terzismo, di unanimismo, di centrismo, di dittatura della maggioranza, hanno livellato le differenze fino a provocarne l’estinzione.
Io sto parlando adesso non da sinistra, ma prendendo come modello il pensiero liberale. Il terzismo ha affossato le libertà. Perché non si può glorificare l’individuo e, insieme, la maggioranza. E’ quanto ad esempio teorizzavano campioni del liberismo come i radicali.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. In questo contesto lo scandalo non nasce dall’infrazione del “politicamente corretto” ma, al contrario dalla limitazione della possibilità di tutelare, per tutti anche contro la maggioranza, la libertà di espressione. E’ una diretta emanazione di quei principi di razionalità e tolleranza che hanno ispirato l’Illuminismo. E che ispirano tutte le Costituzioni moderne tra cui quella Costituzione Italiana che il referendum vorrebbe stravolgere.
La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso. E può farlo perché implica una divisione di poteri potenzialmente conflittuali. La libertà deriva necessariamente da questo conflitto, ad esempio dal conflitto tra l’esecutivo e il parlamento. Una minoranza parlamentare può tenere in scacco l’esecutivo attraverso l’ostruzionismo.
L’avvento del pensiero unico e l’interpretazione in senso esclusivamente maggioritario della vita politica ha invece portato, in questi anni, a catalogare il dissenso come colpa. Oggi galleggiamo in un limbo per cui ci sono ancora regolamenti scritti che difendono la diversità e, viceversa, uno “spirito del tempo” che non le riconosce legittimità. C’è solo poco tempo per il dissenso.
Se la Costituzione verrà riscritta nel senso di una delega in bianco al premier, la diversità non sarà più una specie in via di estinzione, ma una specie estinta. Non solo sostanzialmente, ma anche formalmente.
. Il manifesto, 11 agosto 2016 (p.d.)
Vorrei raccomandare ai compagni lettori di questo testardo quotidiano di leggere quanto ha scritto Alberto Burgio in una recente riflessione sulla situazione presente (il manifesto del 4 agosto). In quell’articolo Burgio pone con forza il problema, grave e attuale, della crisi della politica, attraverso la quale, bene o male, agiscono i nostri cittadini. L’autore è molto secco: «E’ sempre più insistente – scrive – la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente». D’accordo.
E’ la realtà di questi tempi, confermata ovviamente dalla clamorosa crisi dei partiti, che non è solo italiana, ma investe gli Stati uniti, dove i cittadini voteranno per una rappresentante della finanza o per il grottesco miliardario Trump e anche l’Inghilterra, come si è potuto constatare con la Brexit, la Francia dove cresce la leader del Front National, Marine Le Pen, la Spagna, e anche l’Italia come hanno confermato le ultime elezioni amministrative, e dove crescono l’astensionismo e l’antipartito dei 5 Stelle. Il confronto con i tempi nei quali c’erano il Pci di Togliatti, il Psi di Nenni, il Pri di La Malfa e anche la Dc di De Gasperi deprime assai. Aggiungo che l’attuale crisi investe anche Tv, stampa quotidiana e pure l’editoria che in passato non poco hanno contribuito alla vitalità della politica.
Bisognerebbe concentrarsi sulle cause e la dinamica di questa “morte della politica”: chiedersi, per esempio, come è cambiato in questi ultimi tre decenni il rapporto – anche il rapporto di forze – tra politica (istituzioni, rappresentanza, democrazia) ed economia (produzione, finanza, proprietà). Dovremmo di conseguenza chiederci anche dove risiede la sovranità in un paese come l’Italia e chi effettivamente la eserciti. Se le leggi vigenti (a cominciare dalla Costituzione, che l’attuale governo intende stravolgere) garantiscono ancora che siano i cittadini ad assumere le scelte fondamentali.
Se non ci rassegniamo a subire la “morte della politica”, studiare la situazione, individuare le cause. Il comune buon senso ci dice che senza una seria diagnosi non si cura nessuna malattia. Parliamo tanto di sinistra – della sinistra che non c’è, della sinistra che vorremmo – ma poi non ci impegniamo a mettere in cantiere riflessioni collettive che per la sinistra sarebbero davvero indispensabili.
Noi del manifesto avevamo pubblicato, insieme a Massimo Loche, nel novembre del 2014, un librino dal titolo Una crisi mai vista. Suggerimenti per una sinistra cieca con interventi di Burgio, Ciocca, Ferrajoli, Indovina, Katrougalos, Lunghini, Mazzetti, Pugliese, Ridao. Quello scritto si occupava di economia. Ma ora è evidente che il cattivo andamento della produzione e dell’occupazione (e forse un’insufficiente volontà di conflitto del sindacato) hanno fortemente indebolito i lavoratori e i sindacati e, soprattutto, tolto dalla scena quel fattore che si chiama speranza che è stato sempre decisivo per i movimenti e le lotte sociali e politiche: «Il sole dell’avvenire» appartiene al futuro, ma agisce sul presente.
E’ in corso – come titola il libro di Erik Brynjofasson e Andrei McAfee La nuova rivoluzione delle macchine che si differenzia dalla nostra era industriale, come quest’ultima si differenziava dall’agricoltura e che secondo il Nobel Leontief dovrebbe ridurre il ruolo delle persone come era stato per i cavalli in agricoltura, quando entrò in campo il trattore. Forse un eccesso di pessimismo contro il quale altri accademici hanno sostenuto che nel prossimo futuro la sicura perdita di peso del lavoro vivo per unità di prodotto sarà compensata dalla crescita della produzione globale. Insomma, grandi cambiamenti in arrivo e di incerto esito, ma dei quali la nostra attuale politica non si occupa affatto.
E ancora, c’è e incombe una storica crisi economica come è largamente sostenuto e come ben ci spiega Pierluigi Ciocca (il manifesto 10 agosto) e come scrivono giornali e riviste, che dovremmo leggere con più attenzione. Aggiungo che l’attuale crisi, a differenza di quella storica del 1929, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura. Un circolo vizioso. Nel nostro passato non sono mancate crisi economiche, ma contemporaneamente quella crisi provocava una straordinaria vivacità culturale che nasceva dalla crisi e ne approfondiva le cause: impegnati saggi di analisi economica e sociale e anche quei romanzi (basta pensare a di Steinbeck) e quei film che fino a dopo la seconda guerra mondiale hanno animato la nostra giovinezza e la lotta politica. Dobbiamo renderci conto, ed è sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore. Il manifesto può offrire gli strumenti per uscire dalla attuale passività sollecitando una discussione che mobiliti e apra una battaglia culturale e politica. Proviamoci.
la conoscenza del latino : è la radice di un complesso di lingue tutte derivate da quella parlata e scritta da romani antichi, adoperate quotidianamente da 930 milioni di persone. La Repubblica, 10 agosto 2016
La lingua più parlata del mondo? È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.
Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese (terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.
Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino? Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba». La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia. E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva». Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.
L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso ( Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti). Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».
Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton. Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .
Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale ( come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo. Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.
Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea. Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?

Il Fatto Quotidiano online, 10 agosto 2016 (c.m.c.)
Nella spasmodica ricerca di argomenti che giustifichino l’approvazione referendaria delle loro riforme, brutte e di bassissimo profilo, i renziani e i loro molti cortigiani ne dicono di tutti i colori. Il «meglio che niente» è molto frequente, ma diventato logoro assai. Il «non si poteva fare diversamente» entra in concorrenza per la motivazione più banale.
Eccome si poteva fare diversamente tanto è vero che nessuno dei testi poi faticosamente approvati era entrato in Parlamento nella identica stesura con la quale ne è uscito. Per di più, è già in corso anche una surreale discussione sul cambiamento della legge elettorale in attesa della valutazione della Corte costituzionale che potrebbe servire proprio a salvare la faccia formulando qualche riformetta della riformetta. Infine, dopo mesi nei quali il capo del governo e il suo ministro per le Riforme hanno fatto ampio ricorso a tutte le strumentazioni plebiscitarie possibili (rivendico il merito di avere per primo accusato Renzi di “plebiscitarismo”), adesso è arrivato il contrordine.
«Renziani di tutte le ore non si tratta di votare pro o contro il governo, ma sul merito delle riforme». Che Renzi avesse ecceduto se n’era accorto, un po’ tardivamente, persino il Senatore Presidente Emerito Giorgio Napolitano che, sommessamente, gli ha suggerito di non personalizzare troppo la campagna elettorale. Purtroppo per Renzi, la personalizzazione è nelle sue corde. Non riuscirà a rinunciarvi e ci ricadrà quasi sicuramente quando i sondaggi annunceranno tempesta. Per di più, lo spingere il più in là possibile la data dello svolgimento del referendum moltiplicherà le occasioni di personalizzazione.
Nel frattempo, qualche renziano sta cercando di delegittimare lo schieramento del NO facendo notare quanto composito esso sia e, dunque, incapace di prospettare un’alternativa di governo, al suo governo. Anche se, sconfitto, Renzi non si dimettesse, una minaccia piuttosto che una promessa, creando una grave e non necessaria crisi di governo, ma imparasse a fare buone riforme, il problema del governo prossimo venturo neanche si porrebbe. Comunque, se c’è un giudice a Berlino (in verità, ce ne sono fortunatamente molti) possibile, caro Presidente Mattarella, che in Italia l’unico in grado di guidare un governo sia Matteo Renzi? Al momento opportuno suggerirò al Presidente 4/5 nomi nessuno dei quali professore o banchiere.
Ad ogni buon conto, chi, nei Comitati del NO, ha mai pensato alla formazione di un nuovo governo? Il bersaglio grosso è uno e uno solo: vincere il referendum e cancellare le riforme mal congegnate e malfatte. Quanto alla natura composita dello schieramento del NO, basta riflettere un attimo e si vedrà che il SI’ vince alla grande la battaglia della confusione. Non intendo demonizzare il mio ex-studente Denis Verdini, ma sembra che, addirittura, darà vita a un Comitato del SI’ dal quale, naturalmente, come annunciato da Renzi-Boschi, scaturirà la nuova (sic) classe dirigente del paese.
La Confindustria fa già parte della non proprio novissima classe dirigente, ma i suoi allarmismi numerici prodotti da chi sa quali algoritmi li ha già generosamente messi a disposizione del paese affinché voti convintamente sì.
Poi è arrivata la filosofia della krisis rappresentata da Massimo Cacciari, notorio portatore di “sensibilità repubblicana” che va spargendo in diversi talk show. In un’intervista al Corriere si è esibito per il sì anche l’ex banchiere ulivista Giovanni Bazoli. Mica poteva essere da meno degli stimati colleghi della JP Morgan, grandi conoscitori del sistema politico italiano e della sua Costituzione, anche loro in attesa di riforme epocali.
A ruota, un pensoso editoriale della rivista Civiltà Cattolica ha dato la necessaria benedizione senza attendere, qui sta la sorpresa, le articolate opinioni dei Cardinali Ruini, purtroppo per lui più bravo negli inviti all’astensione, Bagnasco e Bertone. No, di papa Bergoglio non so.
La ciliegina, però, non la prima né l’ultima poiché non dubito che ce ne saranno molte altre, già copiosamente preannunciata dalle pagine del Corriere della Sera, è arrivata da Michele Salvati. La sua tesi è cristallina. Se vincerà il NO, non sarà bocciato soltanto il governo. Non saranno bocciati soltanto i partiti e i cittadini che non hanno fatto i compiti (e se, proprio perché li hanno fatti, si fossero resi conto che le riforme sono inutili e controproducenti?). Bocciato «sarebbe tutto il Paese» (Corriere della Sera, 9 agosto 2016, p. 26).
Insomma, il plebiscitarismo buttato dalla finestra, senza che nessuno lo dicesse a Salvati, torna camuffato da nazionalismo, chiedo scusa da amor patrio, dalla porta. Chi vota no è un disfattista, secondo Salvati, un traditore della patria, un nemico del popolo italiano. Questa è, finalmente, la discussione sul merito che i renziani vogliono, impostano e, normalizzata la Rete Tre, faranno.