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Corriere della sera

Non c’è persona civile, in Italia e nel mondo, che possa non plaudire con entusiasmo a questa sentenza della Corte costituzionale. Il principio di uguaglianza di tutti dinnanzi alla legge è acquisito dal mondo in ogni Statuto democratico, sebbene non sia quasi mai integrato dal principio dell’uguaglianza economica. Ma alla nuova barbarie degli Zaia esso rimane ignorato, rivelando così che nel mondo foggiato dal capitalismo le ragioni del suprematismo di popolo, etnia, tribù trovano ancora consistenti e “autorevoli” sostegni. Ce lo ricordano ahimè, al di là e addirittura al di sotto degli Zaia gli avvenimenti quotidiani dell’attuale politica italiana: basta pensare alle fortune del fascista e razzista Matteo Salvini, ministro dell’Interno di un governo che il presidente della nostra Repubblica ritiene coerente con la Carta di cui dovrebbe essere il supremo tutore. Ma nessuno chiederà l’empeachment di Sergio Mattarella. È l'Italia, baby! (e.s.)

Veneto,asili nido: bocciata la legge del “prima noi”.
«È incostituzionale»
di Elena Tebano
«La decisione della Consulta sulla norma voluta dal governatore Zaia che dava la precedenza ai figli di coloro che risiedono in Veneto da almeno 15 anni»
Viola la Costituzione dare la precedenza ai figli dei residenti in Veneto da almeno 15 anni nell’iscrizione all’asilo nido. Lo ha stabilito la Consulta con la sentenza 107/2018 depositata oggi. A febbraio di due anni fa la Regione Veneto aveva varato la norma voluta dal governatore Luca Zaia, in una declinazione locale di quel «prima gli italiani» che è stato lo slogan della Lega anche nell’ultima campagna elettorale. Secondo la Corte, presieduta da Giorgio Lattanzi (giudice estensore Daria De Pretis), la legge con il criterio dei 15 anni di residenza o lavoro viola il principio di uguaglianza sancito nell’articolo 3 della Costituzione e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia» garantito dall’articolo 31.

La decisione dei magistrati

«Primai veneti resta un principio forte e non scalfibile» aveva detto Zaia quando lanorma era stata rinviata alla Corte costituzionale. I giudici della Consulta,però, non sono d’accordo: «La configurazione della residenza (odell’occupazione) protratta come titolo di precedenza per l’accesso agli asilinido, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone in frontalecontrasto con la vocazione sociale di tali asili, scrivono nella sentenza ;asili che rispondono «direttamente alla finalità di uguaglianza sostanzialefissata dall’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, in quanto consenteai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi economici disvolgere un’attività lavorativa». Stesso argomento vale — affermano imagistrati — anche per «la funzione educativa degli asili nido»: qui«l’estraneità ad essa del “radicamento territoriale” risulta ugualmenteevidente» essendo «ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitoriradicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggioredegli altri». Secondo la Consulta, inoltre, la legge veneta viola anchel’articolo 31 della Costituzione in quanto «distorce la funzione» degli asilinido e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché creale condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizioeducativo dell’asilo nido».


Gli effetti della bocciatura

La norma originaria, del 1990, riconosceva «titolo di precedenza all’ammissione» ai «bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale». Ma due anni fa era stata modificata dando «precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione». Ora la modifica è stata annullata e il criterio della residenza prolungata non viene più applicato: basterà essere residenti, anche solo da un giorno, nella Regione.

Articolotratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto

Non c'è dubbio: la politica italiana è ridotta a un livello così basso di uguaglianza e democrazia, ed è così ricca di lesione continua dei principi essenziali di buongoverno e di attenzione agli interessi del popolo, che solo dal mondo cattolico si possono ascoltare voci autorevoli di critica. Gli esclusi e gli oppressi sono ancora incapaci di esprimersi nelle forme della protesta sociale e politica. La tacita intesa tra destra, centro ed ex sinistra è così forte da rendere quello attuale il primo parlamento senza opposizione della storia d'Italia (e.s.)
o, 25 maggio 2018
Governo. Vescovi all'attacco su flat tax, Europa, migranti
di Marina Della Croce

No alla flat tax e massima attenzione sia all’Europa che a come il governo che sta per nascere si comporterà con i migranti. «Ci sono principi irrinunciabili», mandano a dire i vescovi italiani al premier incaricato Giuseppe Conte, la cui vicinanza agli ambienti vaticani è ovviamente apprezzata ma non certo sufficiente ad allontanare i tanti dubbi che circondano la maggioranza che lo sostiene.

Dopo le perplessità sollevate dall’Unione europea e dopo la bocciatura del Contratto da parte di Confindustria, pesanti interrogativi sul nascente esecutivo giallo verde arrivano questa volta dalla Conferenza episcopale italiana. «Vigileremo» su quanto verrà fatto nel prossimo futuro, avverte il presidente della Cei, il cardinale Giuseppe Bassetti. «Saremo la coscienza critica» del governo.

E’ esteso l’elenco dei punti del Contratto che preoccupa i vescovi, delusi anche dai tempi lunghi che hanno portato alla formazione dell’esecutivo. «Una lunga vacanza», la definiscono, che altro non ha fatto che aggravare i problemi già esistenti. L’attenzione per la persona, ma anche la Costituzione, «la scelta chiara per la democrazia, l’Europa e i migranti», avverte Bassetti, sono tutti paletti ai quali la Chiesa non intende rinunciare. Ma i vescovi fanno di più, ed entrano nel merito di alcune delle decisioni già annunciate. A partire da quelle economiche, con una critica precis

a alla flat tax: «Non ci possono essere tagli per tutti genericamente ma solo per le fasce per le quali è necessario – spiega Bassetti -. Ci sia una maggiore tassazione sulle attività speculative».

I migranti sono un altro di quegli argomenti che sollevano maggiore allarme tra i vescovi. In questi settimane hanno sentito parlare di rimpatri di massa, dell’intenzione di costruire nuovi centri di identificazione ed espulsione insieme agli attacchi alle politiche seguite fino a oggi da Bruxelles Ancora ieri, commentando i dati forniti dal Viminale relativi alla forte flessione registrata negli sbarchi (-79% rispetto al 2017) e alle 7.000 espulsioni effettuate, il leader della Lega Matteo Salvini ha chiesto un aumento dei rimpatri. E promesso: «Presto la musica cambierà». Certo, si tratta di parole buone per scaldare gli animi durante un comizio a Pontida, anche perché certe promesse sono difficili da mantenere, ma che comunque, almeno in parte, domani potrebbero realizzarsi. E per questo allarmano la Cei la cui posizione in merito non a caso è stata ricordata solo qualche giorno fa dal suo segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, quando si è detto preoccupato da chi fa delle politiche del rifiuto la sua bandiera.

Bassetti ha infine rivolto un appello per un impegno dei cattolici in politica. Un partito unico come nel passato modello Democrazia Cristiana? «Non sta alla Chiesa dare soluzioni», risponde, ma allo stesso tempo fa notare come la stagione dei cattolici divisi in partiti diversi «non abbia dato grandi frutti» e sia comunque «superata». «Per la società oggi – dice ilpresidente della Cei – è necessario il pensiero dei cattolici, ma se non lo esprimono insieme rischia di essere inefficace». Per questo «occorre investire di più in formazione politica». Un progetto che potrebbe addirittura ripartire dalle parrocchie, come suggerito negli ultimi tempi da analisti del mondo cattolico.
Il presidente Cei parla anche della legge 194, a quarant’anni dalla sua emanazione: «Come Chiesa ne abbiamo visti sempre i limiti ma non era una legge a favore dell’aborto, e comunque bisogna apprezzare certi punti rispetto al relativismo totale sull’embrione e sulla vita. Lì ci sono comunque indicati dei paletti».


Il protagonista di uno dei pochi tentativi positivi, ahimè fallito, di rovesciare il tavolo delle poliquepoliticienne italiana spiega ai molti cacciatori di farfalle che non basta dire che Verde o Giallo è meglio di Matteo Renzi per sostenere che va bene. Vi sono almeno tre ragioni di merito per opporsi. Ricorda poi, giustamente. Ricorda poi molto opportunamente che La Lega non è nè Verde nè Gialla, ma è profondamente Nera e quindi allearsi con Salvini è un grave errore politico per chi dichiara di voler difendere la Costituzione (e.s.)

Huffington Post, 24 maggio 2018Il Movimento 5 Stelle e la critica del poteredi Tomaso Montanari

In un passo memorabile dell'Amleto, il principe chiede al suo Polonio di alloggiare i commedianti appena arrivati a corte. "Signore, li tratterò secondo il loro merito", risponde quello. E Amleto, bonariamente rimproverandolo: "Meglio, amico, meglio. Se trattate ognuno secondo il proprio merito, chi si sottrarrà alle busse? Trattateli secondo il vostro onore e la vostra dignità."

Ecco, mi piacerebbe che un Amleto fosse capace di dire oggi la stessa cosa ai vertici e agli attivisti del Movimento 5 stelle. È infatti un grave errore respingere con sdegno aggressivo ogni critica (anche quelle amichevoli o comunque fondate) invocando sempre un solo argomento: che il Pd ha fatto peggio. Come se il metro del giudizio e delle scelte fosse appunto da cercarsi nel merito degli "altri" e non nella propria dignità.

Facciamo tre esempi, assai diversi per peso e importanza, ma egualmente eloquenti.
Il primo è la scelta di governare con la Lega. Non ripeterò quanto ho detto altrove: ritengo del tutto improprio parlare di alleanza giallo-verde. Perché il colore della Lega di Salvini è il nero di un partito lepenista, razzista, con elementi concreti di neofascismo, cresciuto attraverso una retorica violenta e squadrista. Personalmente credo che la visione dell'Italia della Lega sia radicalmente incompatibile con quella del Movimento. Ma so benissimo che solo alcuni milioni di elettori del Movimento condividono questa opinione: certamente non la maggioranza. E questo è un conto che quegli elettori risolveranno nelle prossime urne. Il punto qui è un altro, e riguarda una pietra angolare dell'identità storica dei Cinque stelle: la trasparenza, e la relativa coerenza. Ebbene, l'aver assicurato in ogni modo, in pubblico e in privato, che mai ci sarebbe stata un'alleanza con la Lega e poi l'aver ribaltato questa posizione all'indomani del voto non è una mossa che si possa archiviare nella cartella del realismo, vedi cinismo, politico.

Sì, è vero: Renzi ha governato con Berlusconi. Ed è vero: Minniti ha fatto politiche razziste e xenofobe. Ma se i Cinque stelle vogliono essere diversi, se vogliono essere davvero "onesti": il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, ma la loro propria dignità. (E noto, fra parentesi, che le ragioni, comprensibili, per cui il Movimento dice di voler imporre, sbagliando gravissimamente, il vincolo di mandato dei parlamentari, cozzano con la nascita di questo governo: se la Lega fosse stata vincolata agli impegni presi con gli elettori, cioè stare nella coalizione del centrodestra, nulla sarebbe nato. Perché questo è un governo nato sullo "svincolo di mandato").
Il secondo è l'accettazione della flat tax. Si discute molto della sua sostenibilità: quasi per nulla della sua equità. Ebbene, è una misura così grave da scardinare l'intero progetto della Costituzione, e non solo da ribaltare il suo articolo 53. I 5 Stelle hanno detto più volte che il loro programma coincideva con la Costituzione, che hanno valorosamente difeso nel 2016. Cedere alla Lega sulla flat tax significa tradire se stessi in una misura non sanabile: equivale a ciò che Renzi ha fatto con il Jobs act, per dire. E anche qui, è vero: il Pd ha enormi responsabilità nella cancellazione della progressività fiscale: ma, di nuovo, il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, deve essere invece la propria dignità.

Il terzo caso, assai meno rilevante ma molto rivelatore, è il curriculum del professor Giuseppe Conte. Il quale non ha tecnicamente scritto il falso. Ma ha fatto comunque qualcosa di assai disdicevole, per l'etica della professione cui appartiene (che è anche la mia). Se io, professore ordinario, scrivo che ho perfezionato i miei studi presso la New York University (o in tutte le altre istituzioni accademiche estere menzionate in quel ridondante curriculum) si può intendere solo che l'ho fatto essendo accolto in veste ufficiale (e dunque con rilevanza pubblica e documentabile) da quella istituzione. Se sono andato a studiare nelle biblioteche di quelle università, a trovare la fidanzata che ci lavorava o a imparare una lingua, ebbene allora non lo scriverò nel curriculum: perché scrivere che un professore va in biblioteca o studia è come scrivere che uno respira.

Il sapore che se ne trae è molto amaro: perché è quello di una furbizia spicciola. E a nulla serve dire che nessuna affermazione può essere smentita: non può esserlo perché sono affermazioni scritte in modo furbesco, avvocatesco, volutamente vago e suggestivo, per far credere ciò che non è e poter poi, però, far marcia indietro. Non se ne ricava un'immagine seria e affidabile.

E, per la terza volta, il Pd ha fatto peggio? Ma certo: il caso Fedeli e soprattutto il caso Madia sono stratosfericamente più gravi, avrebbero dovuto condurre a immediate dimissioni: ed è stato vergognoso il silenzio di molti media. Ma chi grida "onestà, onestà" non può assumere come metro il demerito degli avversari, deve misurarsi con la propria dignità. Affidare un governo dirompentemente politico a una figura tecnica così esile è il vero problema, naturalmente: ma quando poi si legge quel curriculum l'effetto è drammatico. Perché non se ne può che dedurre che siamo nell'eterno paese dei furbi, dove l'antropologia del potere e del suo sottobosco non cambia mai. Non basta non dire il falso: le parole scelte da Shakespeare sono, guarda caso, le stesse che la Costituzione impone a chi ricopre cariche pubbliche: dignità e onore. Che invano si cercano in quel curriculum.

So che dire queste cose mi attirerà un profluvio di insulti, e magari l'accusa di tradimento da parte di chi (a ragione) mi considerava aperto e anche amico del Movimento.

Quando Luigi Di Maio mi ha chiesto di stare, prima del voto, nella lista dei ministri ho declinato, spiegando lealmente il mio dissenso incomponibile sul punto del vincolo di mandato. E gli dissi che se mai si fosse arrivati a una riforma costituzionale in quel senso, avrei promosso il No allo sperabile referendum. Questo non ha turbato i miei rapporti personali con Di Maio: Cosa vuol dire essere amico? Compiacere o dire la verità?

Gli esponenti del Pd che in questi anni ho duramente criticato, rispondevano strumentalmente che le mie critiche erano di parte, e di parte "grillina". Sbagliavano, era esattamente il contrario: la mia apertura al Movimento era determinata dal tradimento radicale e dalla degenerazione del Pd. E non è certo che ora io lo rivaluti, se critico il Movimento.
Il punto è un altro: chi fa il mio mestiere ha il dovere di "Non lasciare il monopolio della verità a chi ha il monopolio della forza" (Norberto Bobbio). Nel momento il cui il Movimento va al potere, la critica deve essere senza sconti, e deve essere fatta secondo il metro e i principi del Movimento, non secondo i demeriti del Pd.

Ed è particolarmente importante che questa critica venga da voci libere, e non schierate con una qualche opposizione: tanto più importante quanto più il potere ottunderà la critica (esemplare, di nuovo, il caso del curriculum: scioltosi come neve al sole appena arrivato l'incarico, e cioè con la promozione ad 'intoccabile'). Il più grave problema dei 5 Stelle è l'assenza di democrazia interna e l'incapacità di accettare il dissenso. Nella stagione che si apre ora, il Movimento dovrà dimostrare di saper accettare, metabolizzare e magari mettere a frutto le critiche: cioè di fare tutto quello che l'isterico Pd renziano non ha saputo fare.

Renzi imprecava contro gufi e rosiconi. Spero che il Movimento sappia essere davvero diverso: a partire dal modo di porsi nei confronti della critica. Un punto, in democrazia, davvero vitale.

Il Fatto quotidiano, 19 maggio 2018. Un asciutto resoconto di un'ammirevole manifestazione di uomini e donne dalla pelle nera che si è svolta a Napoli per rivendicare i diritti della democrazia. Con commento (e.s.)

La prima cosa che colpisce nei resoconti sulla manifestazione che si è svolta a Napoli è la compostezza dei partecipanti, mille miglia distanti dallo sguaiato vocìo che si sollevava dalle torbide platee (dai bar alle piazze) e dai prosceni del teatrino della “politica” italiana. Poi ci ha colpito il contrasto Bianco/Nero che contrassegna, nel linguaggio corrente come su quello “formativo” dei media, il conflitto in essere. Il conflitto non è tra persone dalla pelle chiara e persone dalla pelle scura, ma tra sfruttatori e sfruttati, tra il mondo che ha soffocato la sua umanità nel benessere (i “satolli e disperati” diceva il cardinal Lercaro), e quello che patisce e muore nei luoghi dove è stato confinato e condannato alla miseria e alla morte dalla rapacità degli altri: dai padroni e dai beneficiari del capitalismo. Tuttavia, è significativo che il conflitto si manifesti alla fine nel contrasto tra quei due colori, dove il “nero” si riferisce sempre all’uomo da cui fuggire, oppure da bruciare o impiccare. Alla fine gli stereotipi che prevalgono sono quelli del razzismo. Segue l'articolo di Stefano Feltri (e.s.)

i, 19 maggio 2018
La piazza nera che sfida i giallo verdi
di Stefano Feltri

Per capire i dilemmi anche morali che dovrà affrontare il nuovo governo Lega-Cinque Stelle bisognava essere in piazza Plebiscito a Napoli ieri mattina: migliaia di persone – pare 10.000 – sedute in silenzio sulle scalinate ad ascoltare chi parla dal microfono al centro, un po’ in italiano, un po’ in inglese, un po’ in francese. Tutti neri, tutti immigrati, quasi tutti senza permesso di soggiorno. Una manifestazione di rara compostezza, inedita per dimensione e per la quasi totale assenza di italiani, con tre richieste: tempi più rapidi per concedere i permessi di soggiorno, regolarizzazione di chi è in Italia da anni, lavora e non ha alcun Paese dove tornare o in cui essere rimpatriato a forza, e l’estensione del reddito di inclusione anche ai migranti.

Una folla muta di persone arrivate da tutta Italia, dagli inferni di Castel Volturno, dalle campagne di Caserta (dove oggi si replica), da Roma, dai campi di pomodori di Foggia. Coraggiosi fantasmi senza documenti che sfilano in corteo in mezzo a quei poliziotti che – stando alla legge – dovrebbero fermarli e contestare loro di essere arrivati su un barcone, di lavorare in nero, di non avere diritto a rimanere in Italia. I pochi che prendono il microfono per parlare chiedono di poter contribuire a una società che sentono la loro: finché restano nell’ombra dell’irregolarità sono costretti a usare i loro miseri compensi per remunerare qualche caporale o a pagare affitti in nero.

Le associazioni come il centro sociale “ex Canapificio” di Caserta che hanno promosso l’evento di ieri e l’appello “Reddito e diritti per tutte e tutti – Nessuno escluso” hanno un obiettivo molto concreto: permettere agli immigrati di accedere al reddito di inclusione (Rei), il sussidio anti-povertà introdotto dal governo Gentiloni che è quasi identico al reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle, anche se di importo più basso. Queste associazioni hanno scoperto che la legge è abbastanza ambigua da lasciar intravedere anche ai migranti in Italia per ragioni umanitarie da almeno due anni la possibilità di accedere al Rei (che oggi arriva quasi a 900.000 persone per un importo medio di 297 euro al mese) e le Regioni hanno alcuni margini di flessibilità per aggiungere risorse a quelle nazionali ed estendere la platea dei beneficiari. Stanno quindi trattando con la Campania di Vincenzo De Luca e pare ci sia qualche spiraglio, visto che la Regione già ha sperimentato il coinvolgimento di migranti in lavori di pubblica utilità. Secondo l’Istat, l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie del Mezzogiorno di soli italiani era nel 2016 il 7,5 per cento, tra quelle di soli stranieri del 29,7 per cento.

La piazza napoletana di africani di ieri dimostra che molti degli argomenti avanzati dai Cinque Stelle sono fondati: soltanto un sussidio universale e non più legato alle categorie di appartenenza può garantire davvero di uscire dalla trappola dell’indigenza e di avere abbastanza libertà da opporsi al reclutamento dei caporali e partecipare da cittadini alla vita democratica. Peccato che, proprio ieri, mentre quei ragazzi africani attraversavano Napoli, i Cinque Stelle firmassero un contratto di governo con la Lega che si è impegnata a rimpatriare quasi tutti i presenti al corteo. E se non riuscirà a rimpatriarli, complicherà loro la vita in ogni modo possibile (si prevede l’espulsione per i richiedenti asilo che commettono reati, a prescindere dal loro diritto a rimanere) per compiacere le richieste securitarie di un elettorato spaventato più dai talk show che dal contatto diretto con i migranti.

Non sarà facile tenere insieme la maggioranza gialloverde che sarà presto attraversata da dilemmi laceranti. I manifestanti di Napoli farebbero bene a non farsi troppe illusioni.

la Repubblica


«Si sta configurando ungoverno a composizione predeterminata e il capo dello Stato rischia di trovarsicon le spalle al muro. Sulla sicurezza emerge dal programma uno Stato dalvolto spietato verso i deboli e i diversi, non compatibile con i dirittiumani. Incostituzionale il Comitato di conciliazione se facesse derivareobblighi di comportamento per premier e ministri»
Sono trascorsi due mesi e mezzo dal voto e ancora non abbiamo il nuovo governo.Lei, professor Zagrebelsky, che ne dice?
«Dal 4 marzo qualcosa dinuovo cerca di nascere. Che ci riesca, sia vitale, sia davvero qualcosa dinuovo e, alla fine, sia bene o male, è presto per dirlo. Ma non stupisce illungo travaglio. Il voto ha detto una cosa semplice e una difficile. Quellasemplice è un desiderio di rottura; quella difficile è il compitoricostruttivo. Si immagina il presidente della Repubblica che, per tagliarcorto, soffoca la novità con un governo tecnico?».

Dunque, nessun problema?
«No! Ce n’è uno grande.Sembra si stia configurando un governo a composizione e contenutipredeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al presidente dellaRepubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle al muro per effetto diun “contratto” firmato davanti al notaio. Eppure, la nomina del governo spettaa lui. Lui non è un notaio che asseconda muto. È piuttosto un partner che può edeve intervenire per far valere ciò che gli spetta come dovere istituzionale.Non si tratta di astratti scrupoli di giuristi formalisti, ma diimportantissimi compiti di sostanza».

Lei pensa ad aspettidella procedura seguita che impedirebbero al capo dello Stato di intervenirecome dovrebbe poter fare?
«Teoricamente, ilpresidente della Repubblica potrebbe respingere le proposte fattegli. Ma, se lo immagina ilcaos che ne deriverebbe? La prassi maturata in tanti anni di governorepubblicano è questa.
«Prima, le consultazioni con i gruppi parlamentari; poi,in base a queste indicazioni, l’incarico a una persona capace di unire unamaggioranza; infine, se l’incaricato “scioglie positivamente la riserva”, lanomina a presidente del Consiglio e, su sua proposta, la nomina dei ministri.
“La formazione del governo è un atto complesso e, nei diversi passaggi che hodetto, il presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate)per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola chiusaciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il poterediretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidentedella Repubblica, una partitocrazia finora mai vista».

E quali passi, secondolei, occorrerebbe fare per evitare questo esito?
«Il presidente,ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende farvalere le sue prerogative. Potrebbe procedere anuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato da condizioniche spetta a lui dettare, come rappresentante dell’unità nazionale e primogarante della Costituzione. Per inciso, finora, non esiste alcun “incaricato” ei due firmatari dell’atto notarile, dal punto di vista costituzionale, sonosoggetti privi di mandato.Tutto potrebbe avvenire,se non sorgono problemi tra i partiti, in pochissimo tempo».

Lei parla di attocomplesso e di condizioni poste dal presidente. Quali potrebbero essere?
«Ci sono cosecostituzionalmente “non negoziabili”. Innanzitutto, per ciò che riguarda lepersone chiamate al governo che devono portare la loro carica con “dignità eonore”. Nelle scelte politiche, invece, il presidente della Repubblica non puòintervenire se non per rammentare che ve ne sono, accanto alle libere, altreche libere non sono. La Costituzione è un repertorio di scelte non“negoziabili”».

Vuole farequalche esempio?
«Mi limito ad alcunipunti. Innanzitutto, i vincoligenerali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che implicano spese oriduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse l’articolo 81 della Costituzioneche impone il principio di equilibrio nei conti dello Stato e limiti rigorosiall’indebitamento. Ciò non deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, maprima di tutto da un vincolo costituzionale interno che non riguarda singoliprovvedimenti controllabili uno per uno, ma politiche complessive».

Sull’equilibrio deiconti finora molto si è detto, ma lei ha individuato altre “stranezze”?
«Sono colpito dallasuperficialità con la quale si trattano i problemi della sicurezza.Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i deboli e “i diversi”:l’autodifesa “sempre legittima”; la “chiusura”, non si sa come, dei campi Rom;la restrizione delle misure alternative alla pena detentiva; perfino l’uso delTaser, la pistola a onde elettriche che l’Onu considera strumento di tortura;le misure contro l’immigrazione clandestina con specifiche figure di reatoriservate ai migranti clandestini; il trasferimento di fondi dall’assistenzadei profughi ai rimpatri coattivi. Come ciò sia compatibile con i dirittiumani, con la ragionevolezza e l’uguaglianza, con il rispetto della dignità edel principio di recupero sociale dei condannati, con esplicite e puntualipronunce della Corte costituzionale, non si saprebbe dire. La “libertà diculto” è trattata come questione di pubblica sicurezza, con riguardo allareligione islamica (controllo dei fondi, registro dei ministri del culto,ecc.).
«Nelle 57 pagine del contratto ci sono anche cose che possonoconsiderarsi positive. Non ne parlo, in quanto attengono a scelte discrezionalisu cui il presidente della Repubblica non avrebbe motivo di intervenire. Ma su quelle anzidettecertamente sì, nella sua veste di garante della Costituzione contro involuzioniche travolgono traguardi di civiltà faticosamente raggiunti».

Come mai non ha parlatofinora delle riforme istituzionali?
«Innanzitutto, noto chenon c’è parola circa la legge elettorale e l’esecrato (a parole) Rosatellum. Èpoi caduta l’ipotesi di una nuova riforma di sistema, per esempio in vista diqualche tipo di presidenzialismo. L’esperienza ha forse reso cauti.Invece, si ragiona di interventi puntuali. È prevista la riduzione del numerodei parlamentari, cosa da gran tempo auspicata (a parole). Circa la democraziadiretta, si prospetta l’introduzione del referendum propositivo accanto aquello abrogativo, con l’abolizione della condizione della partecipazione dellamaggioranza degli elettori: riforma molto democratica, a prima vista, ma forsesolo a prima vista. E poi c’è la questione del vincolo di mandato».

Per l’appunto: mimeravigliavo che non arrivasse qui.
«La discussione inproposito è legittima e la questione delicatissima. Ma non possiamo soltantodeplorare il trasformismo di deputati e senatori che passano dalla maggioranzaall’opposizione o, più spesso, dall’opposizione alla maggioranza cedendo apromesse e corruzione. Questo è uno dei non minori mali del nostro sistemaparlamentare. Il “contratto”, in proposito, è generico, ma insiste su un puntoche a me pare rilevante: l’esigenza che, con “cambio di casacca”, non sidetermini per interesse privato il tradimento delle aspettative degli elettoririspetto al governo. Se la coscienza del parlamentare lo fa stare stretto doveè stato eletto, lasci il suo posto in Parlamento.
La libertà di coscienza,che il divieto di mandato vincolante vuole proteggere, dovrebbe invece esserefermamente garantita in tutti gli altri casi, in particolare nel procedimentolegislativo. Piuttosto, a meno di errore, non trovo nel contratto nulla aproposito della questione di fiducia che tante volte il governo ha usato, perl’appunto, per coartare la libertà di coscienza dei parlamentari».

Lei, nel corso di questocolloquio, ha sempre messo il “contratto” tra virgolette.
Perché?
«I contratti sono semprespecifici. Così è, ad esempio, il Regierungsvertag (contratto di governo)tedesco, al quale impropriamente si è accostato il nostro che parla invecedell’universo mondo. Accanto a cose precise (tasse e reddito di cittadinanza,ad esempio) abbondano espressioni come: occorrerà, è necessario, si dovrà, èimprescindibile... Questo non è un contratto ma un accordo per andare insiemeal governo».

Insomma, un patto dipotere, sia pure per fare cose insieme.
«Niente di male. Machiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea di un vincologiuridico che non può esistere. In politica, come nell’amore, non si stainsieme per forza, ma solo per comunanza di sentimenti o d’interessi».

Ma è previstoaddirittura un organismo che dovrebbe garantire il rispetto del patto, il“Comitato di conciliazione”.
«È una figurafantasmatica, solo abbozzata. Quando tra due parti nasce un contrasto, è benecercare di appianarlo (cabine di regia, consigli di gabinetto, caminetti). Maqui si immagina qualcosa di più, qualcosa di formale pensato in terminiprivatistici. In coda ai contratti si indica il “foro competente” in caso dilite. Qui c’è il “comitato di conciliazione”. Cosa piuttosto innocua se rimanenella dinamica dei rapporti politici tra i “contraenti”. Cosa pericolosissima,anzi anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero farderivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del presidente delConsiglio, dei ministri, dei parlamentari».

il manifesto sardo,

1_La Sardegna tra gli scenari dello scontro tra aggressioni e difese di terre e paesaggi preziosi. Pure la sinistra sarda ha sottovalutato a lungo la questione, nonostante tutto, ad esempio l’art. 9 della Costituzione. Questo memorandum incompleto può servire ad orientarsi nella storia di un ritardo di cui si dovrebbe fare ammenda.

2_ Nel Pci sardo scarsa l’attenzione alla questione ambientale: in linea con quella di Botteghe Oscure. Prima di tutto il lavoro nel solco sviluppista, anche se qualcuno interpretava il messaggio sull’austerità di Berlinguer pure contro gli sprechi del suolo. Nelle Regioni rosse non mancavano esperienze di buona urbanistica. E tra i comunisti c’erano intellettuali in grado di orientare il confronto sull’argomento. Mai ascoltati con attenzione. Lo dice la condiscendenza verso l’abusivismo edilizio (più o meno) “di necessità” nel Mezzogiorno.

Luigi Cogodi

3_ La sinistra ha acquisito tardi l’idea del territorio bene da custodire per le generazioni future. In Sardegna una spinta in questa direzione grazie a Luigi Cogodi. Negli anni Ottanta le sue posizioni avevano determinato più di un cortocircuito nel Pci. Cogodi un contrattempo. Aveva suscitato aspettative di molti schierati contro le speculazioni nei litorali; e il suo dinamismo – da Assessore all’Urbanistica nel primo governo Melis – aveva contrariato il suo partito e gli alleati. Così il trasferimento all’Assessorato al Lavoro nella terza giunta Melis. Un messaggio agli estremisti nel percorso verso la legge urbanistica? Di sicuro una ferita mai risarcita.

4_ La fine del Pci non rafforzerà la minoritaria parte ambientalista del nuovo partito. Nonostante la svolta, dopo il 1989, lo facesse immaginare. Nel programma, la “riconversione ecologica dell’economia”, slogan solenne quanto aleatorio. Mentre in Europa soffiava il vento che in Germania aveva portato alla popolarità dei Verdi. L’idea di solidarietà ecologica e generazionale non era facile da acquisire. Nonostante le autorevoli dissertazioni di fine anni Ottanta, come l’enciclica di Giovanni Paolo II, le tesi di G.Harlem Brundtland, o le osservazioni sullo stato del pianeta di Lester Brown. Per i più distratti Chernobyl.

5_ Nel PDS non mancavano i bei discorsi sul pianeta da salvare. Ma l’impegno programmatico del partito era evasivo, specie nel Sud dove di rado si assumevano posizioni contro l’assalto a luoghi pregiati o si sollevavano dubbi su fabbriche inquinanti. Una sorpresa per la politica sarda che nei giornali nazionali si scrivesse sui rischi delle coste sarde. Un piccolo aiuto perché dopo un dibattito controverso, si approvasse, nel 1989, la prima legge urbanistica RAS.

Nello sfondo le previsioni dei comuni litoranei, 60-70 milioni di mc in riva al mare di cui aveva scritto Antonio Cederna su La Nuova Sardegna. Ma si tergiversava sull’istituzione del vincolo di inedificabilità nella fascia da 150m. a 300m. dal mare, accolta infine nella L. 23/1993 assieme alla disposizione nei PTP per dimezzare le volumetrie. Un passo avanti dopo anni di inascoltate sollecitazioni.

6_ La transizione PDS- DS, aveva comportato in Sardegna l’ingresso nel nuovo partito dell’intero gruppo dirigente exPsi. Pochi prevedevano che questa componente sarebbe stata decisiva nelle scelte di DS – PD specie sui temi dell’urbanistica.

Le idee dei nuovi aderenti molto lontane da quelle di chi aveva condiviso le battaglie di Cogodi. Indimenticabile il dissenso ai tempi del “governissimo” guidato da Cabras: quando, nel 1993, si concludeva, in modo controverso, l’iter della L.45/89. Nei Piani paesistici, cassati (grazie a Grig) per tradimento dei valori del paesaggio, tra regole accomodanti, vincoli ma con l’eccezione incorporata, deroghe col mirino. Gli “accordi di programma” incorporati nelle previsioni dei PTP. Il via al masterplan della Costa Smeralda, fortunatamente impedito per l’impegno di molti (essenziale, tra il 1994-99, l’opposizione di una pattuglia di consiglieri regionali di sinistra: tra i più resistenti G. Diana, P. Fois, GC Ghirra, PS Scano sostenuti dai più sensibili dirigenti di PDS-DS).

Renato Soru

7_ La comparsa di Soru, dopo alcuni anni di deplorevole inerzia dalla bocciatura dei PTP. Deciso a dotare la Sardegna del Ppr prima della approvazione del Codice BBCC. Detto fatto, nonostante le resistenze della coalizione, di chi avrebbe preferito l’immobilismo al Ppr “impiccio alla crescita dell’isola”. Altri hanno creduto al modello di sviluppo coerente con con la fragilità sei paesaggi sardi. Condiviso lo stop alle trasformazioni in una fascia più ampia dei 300 metri dal mare che ha reso il Ppr insopportabile ai palazzinari superattivi nel Tar ma senza successo. Memorabile il flop del referendum promosso da Pili nel 2008 per abrogare la Legge Salvacoste.

8_ Soru il contrattempo della politica sarda dopo la fine del Pci-PDS. Prevedibile che l’insofferenza verso Cogodi si sarebbe ripresentata nei confronti di qualunque leadership controcorrente su quel tema. Soru accolto controvoglia nella coalizione, con il retropensiero di arginarne le intemperanze. Lo scontro nel 2008: le dimissioni da presidente quando si decideva sull’estensione alle zone interne del Ppr e il suo rafforzamento con legge. Era nato il PD: poco propenso ad analizzare quella crisi. Nè Soru aveva sollecitato il chiarimento. Una tacita intesa, all’origine della confusione nella politica futura del centrosinistra destinata a somigliare a quella della destra. Penso alle titubanze dell’opposizione al piano-casa 2009 copyright Berlusconi. All’azzardo di Cappellacci per sostituire il Ppr con il Pps. Penso al piano-casa di Pigliaru nel clima del renzismo-SbloccaItalia molto distante dai valori della sinistra.

9_Pigliaru presidente: un compromesso dal contenuto incerto tra le varie anime del PD. Il ddl Erriu esito dell’ambiguità sulle cose da fare tra cui quelle impedite a Soru. Facile che nel disorientamento possa prevalere nel PD chi è più in grado di influenzare decisioni volta per volta. Che s’impongano le visioni di leader di lungo corso: tipo la pianificazione che ammette eccezioni decise dalla politica, come nel 1993/ come nel 2009. Mentre la smarrita base dem aspetta di vedere le mosse di Soru, il cui cauto disaccordo sembra troppo poco rispetto a quanto il ddl è nemico del Ppr.

10_ Contro il ddl la cangiante sinistra radicale si è espressa (con Rosso Mori e Possibile). E LeU? Si sa poco della posizione del M5S, salvo le dichiarazioni di qualche candidato in campagna elettorale contrario alle idee di Erriu -Pigliaru. M5S non destra-non sinistra ma votato da ex elettori del PD. Sconsigliabile non tenerne conto; dopo il 4 marzo la maggioranza al governo della Regione potrebbe essere minoranza nell’isola. Sarebbe un azzardo l’ approvazione di una legge tanto contrastata e forse incostituzionale. Squilibrante, tanto più nella condizione segnata dallo spopolamento, spia di una sofferenza territoriale che richiede un altro disegno.

Articolotratto dalla pagina qui raggiungibile



Notizie agghiaccianti sulle previsioni del nuovo governo (qui il link al Contratto in corso di ratifica). Dominanti dell'accordo e dei suoi contenuti sono i perniciosi vizi del razzismo, della xenofobia, del dominio di classe, del suprematismo nazionale, della rozzezza culturale, e la totale scomparsa delle virtù dell'accoglienza e della multicultoralità.
Le cause sono nella a miscela infernale delle ideologie espresse e confermate dai leader vincitori, Di Maio e Salvini, e dall'inevitabile scomparsa, per reiterato suicidio, di ciò che restava del Pci, a sua volta aggravato dal caparbio egocentrismo del fondatore e rottamatore del PD.

A seguire riportiamo dagli odierni quotidiani un articolo di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo da La Stampa e una riflessione di Michele Prospero da il manifesto (e.s.)

la Stampa
Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio

di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo

«Salvini all’Interno, Giorgetti in pole per i Servizi. Due esterni per Economia ed Esteri, Massolo verso la Farnesina. Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio»

Una cosa sembra ormai certa: il premier andrà al M5S. È il compromesso ottenuto dopo venti giorni di trattative tra 5 Stelle e Lega: in cambio il Carroccio strappa il ministero dell’Interno e con molta probabilità il sottosegretariato a Palazzo Chigi con delega ai servizi. Di fatto, il cuore della sicurezza dell’intero Paese.

Tutti gli indizi lasciano pensare che, per esclusione, alla fine, il nome di chi guiderà il governo giallo-verde sia quello di partenza: Luigi Di Maio. Dai vertici del M5S tengono le bocche cucite per la paura di anticipare troppo l’ufficialità e di bruciarlo. Ma qualcuno si lascia sfuggire che quanto sta accadendo ripropone quello che era successo con la candidatura di Roberto Fico a Montecitorio. Dopo la fuga di notizie che sarebbe stato il deputato napoletano a vincere la presidenza della Camera, i 5 Stelle si operarono per depistare la stampa, facendo filtrare le ipotesi alternative di Emilio Carelli e Riccardo Fraccaro. Alla fine la spuntò comunque Fico.

Ecco cosa sta avvenendo ora per la premiership: il M5S ha fatto circolare una rosa di quattro nomi proposti ai leghisti: i deputati Alfonso Bonafede, Fraccaro (già eletto questore alla Camera) e i senatori Vito Crimi e Danilo Toninelli (capogruppo). Sono tutti parlamentari di provata fedeltà a Di Maio ma figure troppo deboli per Salvini. La Lega ha controproposto, come alternativa ma sempre grillina, Emilio Carelli, ex direttore di Sky Tg24 e responsabile delle relazioni istituzionali del ramo italiano del network di Rupert Murdoch. Acquisto recente della famiglia grillina, Carelli che si è formato a Mediaset e ha ottimi rapporti con Gianni Letta, sarebbe l’opzione meno sgradita a Silvio Berlusconi.

In realtà, a sentire i vertici del M5S è quasi impossibile vedere Carelli a Palazzo Chigi. Per lo stesso motivo per il quale sarebbe improbabile che la scelta ricadesse su Vincenzo Spadafora: il gruppo storico del Movimento si spaccherebbe. Lo dimostra l’agitazione che si percepiva ieri e quello che sussurrano diversi deputati: «Sono entrati nel M5S l’altro ieri, dai...».

Tra i grillini si punta segretamente su Di Maio, con la speranza che alla fine la Lega ceda davvero, anche se qualche resistenza c’è ancora. Ieri l’ultimo summit segreto tra i due leader è durato oltre tre ore. Hanno parlato di premier e di ministri. Matteo Salvini esulta perché sente che il suo nome non è più un problema per il ministero dell’Interno. Conferma che «un leghista al Viminale sarebbe una garanzia per rimpatri ed espulsioni». Sta attento, però, a non esporre se stesso, prudente fino all’ultimo. Anche perché in gioco ci sono altre poltrone importanti per la Lega: Agricoltura, Trasporti e Sviluppo economico. Vorrebbero anche l’Economia, ma il Quirinale ha chiesto di condividere la scelta del Tesoro, della Difesa e degli Esteri.

Sembra perciò in bilico la candidatura naturale del leghista Giancarlo Giorgetti al ministero di Via XX Settembre. Potrà comunque consolarsi con la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, una posizione di primissimo piano. Per l’Economia, il Colle vorrebbe un nome esterno ai due partiti, una figura tecnica e competente, come da tradizione negli ultimi anni, anche per rassicurare i partner europei e i mercati. Stesso discorso per la Farnesina, dove torna in pista Giampiero Massolo, l’ex ambasciatore sondato nei giorni scorsi anche per Palazzo Chigi.

La scelta dei ministri sarà condizionata da alcuni vincoli fissati nero su bianco sul contratto: non potrà esserlo chi ha rapporti con la massoneria, chi è stato condannato o indagato per reati gravi. Oggi Salvini e Di Maio metteranno la loro firma sulla versione finale del programma. Nel fine settimane verrà sottoposto al giudizio dei gazebo di M5S e Lega. I grillini, infine, daranno l’ultima parola agli iscritti della piattaforma Rousseau.

L’impressione che si respirava ieri a Montecitorio era di avercela quasi fatta. Bastava osservare la faccia distesa di Di Maio. Anche se i protagonisti di questa storia si compattano in un’ossessiva sensazione di assedio. Il crollo della Borsa, i moniti dell’Ue, lo spread che schizza scatenano Salvini e il redivivo Alessandro Di Battista, che ancora non ha preso il volo per San Francisco: «A quanto pare i fantomatici mercati sono tornati a farsi sentire. Mi rivolgo ai parlamentari del M5S e della Lega. Siate patrioti! Non emissari del capitalismo finanziario».

il manifesto,
Ibarbari contro le sentinelle del sistema

di Michele Prospero

Nelle trattative per definire il contratto di governo, con la volontà di costituzionalizzare la figura dei “capi partito”, la sensazione di un grado zero della politica si fa più forte. A cominciare dalla metamorfosi di non-partiti che dall’intransigenza assoluta (niente compromessi, e negoziati) virano verso la ricerca di accordi con chiunque dia una mano a entrare nel Palazzo.

E viene istituito un parallelo “comitato per la conciliazione”, svelando così la consistenza culturale reale degli attori della nuova politica.

Ma se delle nullità politiche oggi giocano il ruolo di attori dominanti nel dramma italiano, questo è accaduto perché quelli che avrebbero dovuto fornire delle più credibili alternative sono crollati, rivelandosi personaggi mediocri di una commedia senza lieto fine. La povertà della politica ufficiale è ancor più disarmante delle pacchiane esibizioni istituzionali dei capi della coalizione verde-giallo nella stesura del contratto per dichiarare guerra agli “eurocrati” per la remissione dei debiti.

Un esponente del Pd, che ha dato il nome alla vigente legge elettorale, svela come proprio la follia dei politici normali sia la principale ragione del successo dei politici irregolari. «Alleanza M5s-Lega? Noi del Pd abbiamo una grandissima opportunità: prendere i voti che sono stati dati ai 5 Stelle. Dobbiamo provare a convincere gli elettori M5s che siamo molto più coerenti dei 5 Stelle che avevano come unico obiettivo quello di sedersi a Palazzo Chigi».

Proprio mentre le cancellerie tremano dinanzi alla velleità di abbandonare l’euro e gli organi della finanza internazionale sono in allarme per i moderni barbari, lo stato maggiore del Pd gongola perché il governo peggiore rappresenta “una grandissima opportunità”. Dove è il pericolo allora, negli ideologi della ruspa e del rosario che con le loro alchimie sfasceranno lo Stato o nelle sentinelle del sistema che giocano tutte le carte nell’aspettare il fallimento dei barbari?

Molti osservatori si interrogano sulla decadenza di una grande democrazia d’occidente che affida il governo all’inesperienza. Ma c’è in questo timore dell’annichilimento una omissione. Sono stati i “normali” ad aver varato “governi dei senza retroterra” con personalità alle prime armi collocate nei dicasteri chiave. Se per fare il presidente del consiglio “normale” basta avere come ideologia la rottamazione e alle spalle qualche seduta del consiglio comunale a Palazzo Vecchio, come si può arginare l’ascesa al comando degli oscuri ministri e “premier esecutori” reclutati nelle reti occulte dei non-partiti?

Da Veltroni che nominò sul campo Madia e Picierno, in nome proprio della loro rivendicata e assolta inesperienza, a Renzi che ha portato al governo Lotti, Boschi e la ristretta compagnia gigliata, tutto è stato allestito per la mistica del marketing politico che richiede comparse, non dirigenti. Oggi che la dissoluzione del senso della politica come cosa complessa è da ritenersi completa perché “uno vale uno”, andrebbe meditato un pensiero di Hans Kelsen.

Il giurista di Praga scriveva che «la supposizione demagogica che tutti i cittadini siano ugualmente atti ad esercitare qualsiasi funzione politica finisce col ridursi alla semplice possibilità per i cittadini di essere resi atti ad esercitare ogni funzione politica. L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa». La demagogia, che è già in Aristotele la forma di degenerazione della democrazia, recita che non c’è bisogno di politici ma di portavoce, che non servono statisti ma “cittadini punto e basta”.

Questa ideologia, che i cinque stelle hanno solo raccolto e portato a compimento, ha distrutto, con i partiti quali luoghi di formazione della classe dirigente mossa da idealità, la democrazia italiana, la capacità di governare la grande crisi.

Ad uccidere la politica, è stata anzitutto la grande borghesia che, nella sua stampa, ha inventato ed esportato nel mondo la parola “casta”, raccolta da tutti i movimenti populistici che raffigurano la politica come autocrazia, chiusura in una sfera repressiva di privilegio.

Il trionfo della borghesia antipartito, che ora mostra segni di nervosismo per il disastro da essa stessa procurato, non ci sarebbe però stato se, da Occhetto ai suoi successori, non fosse stato decostruito alla radice il grande partito di massa e quindi abbandonata la cultura politica che, soprattutto nei momenti critici, trattiene, orienta, dirige.

Il sociologo De Masi, come l’economista Sapelli vengono dal Pci e sono la trasparente prova di quante schegge siano schizzate fuori dalla distruzione della cultura politica comunista.

Huffington Post,

C'è l'oggi anche in ciò che è successo ieri: «Il Movimento cinque stelle è figlio legittimo di Giorgio Napolitano, il quale, imponendo il governo Monti, e costringendo il Partito democratico di Bersani ad allearsi con Forza Italia, ha creato le premesse per un moto protestatario". Luciano Canfora aveva sedici anni quando suo padre, insegnante di storia e filosofia, gli mise in mano il libro di Albert Mathiez, La rivoluzione francese: "Venticinque anni di storia in cui sono contenuti, in nuce, i due secoli successivi, inclusi gli anni nei quali ci troviamo".

Storico del mondo antico e filologo, Canfora è uno degli autori italiani più letti e tradotti nel mondo. Scorrendo l'elenco delle sue opere si trovano saggi sui filosofi antichi e libri su pensatori di qualche decennio fa. C'è Platone e c'è Gramsci, Tucidide e Giovanni Gentile, Tacito e Karl Marx. E poi il capo di un'impero come Giulio Cesare e il segretario di un partito comunista occidentale come Palmiro Togliatti: «Sono un cultore delle analogie storiche. Credo sia utile mettere in relazione il presente e il passato. Però, bisogna saperlo fare. E considerare, accanto a ciò che è simile, anche ciò che è diverso, comprendendo la differenza».

Lo stallo politico di oggi cosa le fa venire in mente?
«La quarta repubblica francese, che ebbe una vita parlamentare molto tormentata. Ma pure in Italia ci sono state occasioni in cui in parlamento non c'era una maggioranza precostituita e la discussione parlamentare ne ha prodotta una».

Sono i famosi corsi e ricorsi storici?
«No, perché l'idea di Giambattista Vico rientra in una concezione ciclica della storia, secondo cui tutto torna sempre al punto di partenza».

Come si muove, invece, la storia?
«La figura geometrica che meglio rappresenta il suo moto è la spirale».

Ovvero?
«Nell'antichità, c'era l'idea che la storia si muovesse lungo un cerchio, seguendo sempre lo stesso ciclo e tornando continuamente al punto di partenza».

Poi, cos'è successo?
«Con la modernità, il moto della storia è stato raffigurato come una linea retta, come se tutto andasse verso una progressione continua".

Invece?
"Le cose tornano, ma tornano sempre in maniera diversa: per questo, nell'ambito delle figure geometriche, quella che mi sembra più adeguata è la spirale".

Può fare un esempio per aiutarmi a capire?
«Prenda la schiavitù: si crede sia finita da molti secoli. E, in effetti, se si pensa alla schiavitù del mondo antico, non si può dire che ci sia qualcuno, oggi, che pensa - come Aristotele - che gli schiavi siano macchine che parlano. Eppure, nonostante già Seneca criticasse l'istituto della schiavitù, negli Stati Uniti d'America a metà dell'ottocento si è combattuta una guerra civile per la sua abolizione. E, in Russia, la servitù della gleba è stata rimossa nel 1861. Eppure, non è finita per sempre. Nel nostro secolo, iniziato da nemmeno venti anni, la schiavitù è tornata in altre forme e fa parte del sistema con cui il capitalismo produce profitto".

A cosa si riferisce?
«Alle delocalizzazioni nell'Oriente meno sviluppato, oppure ai sistemi con cui si produce in alcune zone meno sviluppate del nostro paese: sono le forme della nuova schiavitù. Eppure - ecco perché parlo di spirale - noi oggi siamo più pronti ad affrontare e criticare questi meccanismi dello sfruttamento".

Si sente ancora comunista?
«Insieme a molti altri, considero questa parola una parola nobilissima. Peraltro, più antica della Lega di Marx ed Engels".

Cos'ha di nobile?
«L'idea che - come è stato scritto nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - gli uomini nascono e rimangono uguali. E sottolineo: "Rimangono." Un verbo impegnativo, piuttosto difficile da attuare».

Qualcuno, in Italia, lo sta facendo?
«Il Movimento cinque stelle è nato pronunciando una frase vecchia almeno quanto il movimento fascista: 'Non siamo né di destra né di sinistra'. L'ha potuto fare perché c'è stato davvero un abbraccio tra la destra e la sinistra, prima in sostegno del governo Monti, e poi, in parte, anche dopo, con il patto del Nazareno. Matteo Renzi ha fatto di tutto per dimostrare che il Pd era una partito come tutti gli altri. Si è creato così lo spazio per un movimento di protesta poco colto, se non del tutto incolto, la cui nascita è però da imputare a chi ha creato le condizioni perché ciò accadesse».

Che cosa ha pensato quando ha sentito Di Maio rivolgersi sia a destra sia a sinistra per formare un governo?
«Che non siamo di fronte al classico fenomeno di trasformismo del nostro paese, in cui - da De Petris in poi - si passa serenamente da destra a sinistra, poiché il trasformismo implica l'esistenza di una destra e di una sinistra. Invece, quella del Partito democratico è una ex sinistra. E questo agevola la possibilità del Movimento cinque stelle di dire che gli uni o gli altri sono equivalenti».

La sinistra rischia di scomparire?
"La disgregazione mentale del Pd ha creato un grande vuoto. Per fortuna, ci sono dei ceti sociali, dei conflitti e delle organizzazioni - penso ai sindacati - che difendono gli interessi concreti di chi lavora. E questo assicura che la sinistra non si estingua».

Se i Cinque stelle si alleassero con Salvini cosa succederebbe?
«Il Movimento perderebbe pezzi del suo elettorato, pezzi cospicui. Né li aiuterebbe la cultura politica: ne hanno poca, e questa sarà la causa del loro probabile declino».

Se però trovassero un accordo?
"Sarebbe un'alleanza mostruosa, da tutti i punti di vista».

Mostruosa?
«Sì, è una parola della lingua italiana che viene dal latino monstrum e indica qualcosa che stupisce e fa spavento».

Perché dovremmo avere paura?
"In campagna elettorale, Salvini ha promesso una riduzione delle tasse indiscriminata. Il Movimento Cinque stelle, invece, ha sventolato la bandiera del reddito di cittadinanza. Le due cose non possono essere messe insieme. Per questo, sarà un governo disastroso. Sempre che riescano a formarlo».

Vede un'altra soluzione?
"Se l'avessi, avrei già telefonato al capo dello stato. Che, ne sono sicuro, non desidera altro che ascoltare il mio parere».

Si è occupato anche di utopie: sogna una società ideale?
«Sognare è un'attività sterile, preferisco lottare per una società più giusta, con le armi del ragionamento, della cultura, della lettura, della discussione».

Per cosa combatte?
«Per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, come dice l'articolo 3 della nostra Costituzione».

Non è un intento po' retorico?
«Questo lo pensavano coloro che non volevano scrivere quell'articolo nella Costituzione».

Scriverlo cosa ha significato?
«Delineare la possibilità di cambiare radicalmente la società».

Perché, settant'anni dopo che è stato scritto, si sente ancora la stessa necessità?
«Perché indica la via da seguire per avvicinarsi il più possibile al risultato».

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il Fatto Quotidiano,

Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): «Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve». Che pensa che «il fascismo ha fatto tante cose buone»(gennaio 2018). Che vuole «un cittadino su due armato» (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.

D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.

È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).

Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.

Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.

Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.

Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.

È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.

Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere «democratici sempre in allarme»». E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?

La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega

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Il Fatto Quotidiano

Nella rissa tra i semi-vincitori delle elezioni del 4 marzo è veramente difficile schierarsi per l’uno o per l’altro. Rappresentano tutti differenti sfaccettature di un’Italia che non ci piace affatto. Così come, del resto, non ci piace il clamoroso sconfitto, il renzista Matteo Renzi, ex leader d’un partito che si è fatto suicidare. Vogliamo comunque sottolineare un elemento che, nel pattume generale, ci sembra positivo: c’è ancora qualche resistenza contro operazioni che sono certamente nefaste per il territorio e i suoi abitanti. Ne riferisce l’articolo di Carlo Di Foggia, che riprendiamo da il Fatto quotidiano del 15 maggio 2015 (e.s.)


Governo M5s-Lega, il vero scontro è su
vincoli Ue, grandi opere e futuro di Ilva
di Carlo Di Foggia

«Programma - Il M5S vorrebbe rinviare al futuro le discussioni sul deficit. Ma la Lega: senza addio al Fiscal compact quel contratto è “un libro dei sogni” E tra poco l’Ue vuole 5 miliardi»
L’unica certezza è che nel week end il “contatto di governo” verrà sottoposto a referendum nei gazebo allestiti dalla Lega e forse prima al voto degli iscritti sulla piattaforma Russeau del Movimento 5 Stelle. Per il resto le distanze restano tante e “la quadra” non c’è. Non c’è sulla infrastrutture, non c’è sui migranti e nemmeno sulla giustizia ma, soprattutto, non c’è sui vincoli di bilancio europei. Gli sherpa (guidati da Laura Castelli per M5S e Claudio Borghi Aquilini per la Lega) affideranno la lista dei punti su cui non c’è accordo a Matteo Salvini e Luigi Di Maio: toccherà a loro sciogliere i nodi. O non si parte.

Da ieri è noto che il contratto a cui mancavano “solo le virgole” difetta invece “su qualche punto importante” (Salvini dixit). Ma c’è un punto più importante degli altri, da cui tutto discende: che posizione avere con l’Europa. “Io devo sbloccare la possibilità di spendere soldi bloccati da vincoli e regole esterne. O riesco a dar vita a un governo che ridiscute i vincoli Ue oppure è un libro dei sogni”, ha spiegato ieri Salvini.

Finora Lega e 5Stelle hanno discusso sull’impegno formale a ridiscutere i trattati europei (serve l’unanimità dei governi) e i vincoli fiscali. Per farlo occorre tempo, e sul punto ci sarebbe l’accordo dell’intero arco parlamentare che nella scorsa legislatura ha votato per superare il Fiscal compact con mozioni presentate da tutti i partiti. La realtà è che servono subito margini di manovra di bilancio per mantenere le promesse fissate nel contratto, dalla “flat tax” al reddito di cittadinanza.

Come noto, il governo Gentiloni ha messo nel Documento di economia e finanza (Def) una correzione da 30 miliardi in due anni, portando il deficit pubblico al pareggio di bilancio nel 2020. La stretta fiscale sconta gli aumenti automatici dell’Iva per 15 miliardi quest’anno e 19 quello dopo, per portare il deficit dal 2,3% all’1,6% del Pil quest’anno e azzerarlo fra due anni. Il contratto prevede il superamento della legge Fornero, la partenza del reddito di cittadinanza e di una riforma fiscale che riduca le aliquote (impropriamente chiamata flat tax).

La Lega vuole che il contratto fissi subito il punto che il deficit non scenderà e punta a discutere in autunno, nella legge di Bilancio, una manovra da 40 miliardi, portando il deficit al 2,8%, poco sotto il tetto di Maastricht. I 5Stelle sono molto più cauti, non vogliono neanche menzionare il superamento del pareggio di bilancio del Fiscal compact (inserito pure nella Carta). La strategia è questa: impegno formale a rispettare il deficit fissato dal Def di Gentiloni per poi ridiscutere i margini in autunno. “Io non prendo in giro gli italiani”, è sbottato ieri Salvini. Anche perché il primo banco di prova potrebbe arrivare con la manovra correttiva da 5 miliardi che Bruxelles è pronta a chiedere all’Italia a maggio.

Su infrastrutture e grandi opere la distanza è più esplicita. I 5Stelle vogliono chiudere quelle che considerano inutili come il Tav Torino-Lione e il Tap, il gasdotto che dall’Azerbaigian dovrebbe portare il gas sulle coste pugliesi. La Lega no. Va peggio sull’Ilva, dove lo scontro dura da giorni. I 5Stelle restano sulla posizione della chiusura del siderurgico, ma l’intesa si può trovare sull’impegno formale a una “riconversione ecologica”. Tradotto: niente spegnimento.

Le distanze restano anche sui migranti. “Nel rispetto dei diritti umani, vogliamo mano libera per smantellare il business sulla pelle di queste persone”, ha spiegato Salvini. Il Carroccio vorrebbe una linea ancora più dura di quella scelta da Marco Minniti, con salvataggi dei migranti in mare ma riaccompagnamento immediato dalle coste di provenienza, mentre il M5S è favorevole al rimpatrio degli irregolari, ma solo dopo l’approdo nel più vicino porto sicuro.

Resta poi il nodo della Giustizia. Il tema, manco a dirlo, è la prescrizione: il Movimento vuole che si fermi all’inizio del processo, ma su questo punto Salvini brucerebbe il rapporto “benevolo” promessogli da Silvio Berlusconi.

La discussione andrà avanti. Molti sono ancora i temi da definire. Tra i punti concordati ci sarà una legge sul conflitto d’interessi, una stretta sull’evasione fiscale con “il carcere per chi evade” e una nuova sanatoria sulle cartelle di Equitalia. I 5 Stelle puntano poi a inserire una legge per l’uso dell’“agente provocatore” per combattere la corruzione nella Pubblica amministrazione e una per tutelare la gestione pubblica dell’acqua in linea con quanto sancito dal referendum del 2011. Restano fuori la revisione della riforma delle carceri e la riforma dei tetti pubblicitari alle tv (avrebbe fatto infuriare Silvio…).

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Sbilanciamoci.info

«Chi è il popolo, cosa vuole, come si rappresenta. Inchiesta di un gruppo di ricercatori nelle periferie di quattro grandi città, battute tra novembre e marzo attraverso focus group e interviste in profondità. Risultati a tratti sorprendenti con una richiesta forte di intervento allo Stato ma non alla politica».

Nell’Italia degli anni post-crisi, le questioni del lavoro (mancanza o peggioramento delle condizioni), della sanità (assenza di servizi o sempre più costosi) e della casa (degrado infrastrutturale o affitti non più sostenibili) sembrano ancora rappresentare i problemi centrali vissuti quotidianamente dai settori popolari della società. Questo è ciò che emerge da una ricerca realizzata da una rete di ricercatori e attivisti (“Il Cantiere delle Idee”), che tra novembre e marzo hanno letteralmente girato l’Italia e visitato le periferie di quattro città (Milano, Firenze, Roma e Cosenza) incontrando e intervistando circa 50 persone (tramite focus group e interviste in profondità) per approfondire le condizioni sociali e il rapporto con la politica di un ampio settore, quello con maggiori difficoltà economiche, della popolazione italiana.

Sabato 19 maggio dalle 10 alle 17 a Firenze (Palazzo Bastogi – Regione Toscana, Sala delle Feste, Via Cavour 18), i/le ricercatori/ricercatrici e gli/le attivisti/e del Cantiere presenteranno pubblicamente i risultati della ricerca in un evento significativamente titolato Popolo? Chi? Al lavoro per nuove idee, partendo da un’indagine sulle classi popolari.

Il quadro che emerge dalle interviste è per molti aspetti inedito e sorprendente, e merita una seria e approfondita riflessione da parte della classe politica, in particolare di quelle forze politiche che hanno storicamente avuto nella funzione di rappresentanza del popolo e dei settori socialmente più svantaggiati, la loro ragione di esistere.

Il lavoro – dicevamo – o meglio, la sua mancanza e/o la sua precarizzazione, sembra essere la questione dirimente nel vissuto della larga maggioranza degli intervistati. Dal Nord al Sud, dalle periferie della metropoli a quelle della città di provincia, non c’è nessuno che non abbia sottolineato le difficoltà incontrate al lavoro (dall’intervistato/a medesimo/o e/o riferite ai suoi cari, vedi alla voce figli, amici e genitori) come il problema principale delle loro vita. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Dieci anni di crisi economica e, soprattutto, di soluzioni politiche inadeguate alla risoluzione di questi problemi non potevano che generare e perpetrare questa generalizzata situazione di “povertà” lavorativa e sociale.

Il dato però sorprendente che emerge dalle interviste è la completa assenza della speranza di migliorare le proprie condizioni di lavoro e sociali tramite il coinvolgimento in prima persona in organizzazioni, sociali, sindacali o politiche, capaci, se non di rovesciare, almeno di modificare in meglio lo stato di cose presente.

In altre parole, ciò che emerge dalla ricerca è la tendenza alla “privatizzazione” e alla “individualizzazione” dei rapporti sociali e di lavoro e, soprattutto, dei problemi ad essi connessi. Sembra che non ci sia più una diffusa consapevolezza tra le classi popolari che i problemi connessi alla propria condizione lavorativa siano problemi sociali e, quindi in senso lato, politici, cioè capaci di essere contrastati e risolti dal coinvolgimento personale in mobilitazioni collettive (intervistato Cosenza: “uno fa così tanta fatica ad arrivare a fine mese che i pensieri te li porti nella tua sfera privata ed è difficile che ti metti a pensare anche se sono cose che ti riguardano, però hai il pensiero di arrivare a fine mese, che alla fine la sfera esterna te la senti scivolare addosso…”).

Adottando le categorie tradizionali della sociologia politica si potrebbe quasi dire che il quadro descritto evidenzi un declino, se non proprio una vera assenza, di progetti e identità collettive con cui identificarsi, a partire dalla materialità delle proprie condizioni di lavoro e di vita, per sovvertire i rapporti sociali esistenti. Come ben sintetizzato da un intervistato romano: “L’aspetto più brutto, più triste, è che non ci sono, o almeno non si avvertono, non si sentono progetti politici, di prospettiva, anche su base ideologica”.

Questo quadro ci sembra quindi suggerire la fine delle identità sociali organizzate sul e dalla condizione lavorativa, tratto caratterizzante della politica del Novecento, (il “non più”), e l’incapacità di prefigurare cosa ci aspetterà nei prossimi anni (il “non ancora”).

La stessa tendenza individualizzante sottolineata parlando di mondo del lavoro, è stata riscontrata anche rispetto alla dimensione politica. La disaffezione nei confronti della classe politica attuale, il tramonto delle ideologie novecentesche e la scomparsa della frattura destra/sinistra sono elementi oramai consolidati nel sentire comune e nel discorso pubblico, e sono stati confermati dalle interviste condotte.

Quello che invece colpisce di più (pur non rappresentando nemmeno in questo caso un elemento del tutto inatteso) è la mancanza di una traduzione collettiva e “dal basso” di questo sentimento. L’ormai nota e dibattuta retorica popolo/élite è stata confermata in tutta la sua attualità. In modo più specifico, i politici vengono individuati come subordinati al potere economico-finanziario, e percepiti come privilegiati più che come potenti: il loro ruolo resta ancillare rispetto a chi veramente tesse le fila del presente e del futuro, ossia banchieri, grandi corporations, interessi privati ed eventualmente le istituzioni transnazionali (la disaffezione nei confronti dell’Euro e la nostalgia per la lira è stata sottolineata da diversi fra gli intervistati).

Tuttavia questa percezione non si traduce nello sviluppo di forme di resistenza collettiva dal basso e di proposte di modelli alternativi. Anzi: la richiesta di politica è raramente stata forte come oggi, e va di pari passo al rifiuto e alla nausea per l’attuale classe dirigente dei partiti.

Tradotto: il “popolo” vuole più politica, vuole una guida precisa e soluzioni concrete, specie in riferimento ad aspetti collegati alla vita quotidiana, ma anche quando il discorso si sposti su un piano più esteso. Che i movimenti sociali vivano un periodo di magra è risaputo, e i dati raccolti lo confermano: la voglia di partecipare e costruire percorsi non interessa più le classi popolari come succedeva soltanto qualche anno fa, e anzi la politica è vista come un’attività passiva, come un servizio di cui usufruire e da cui ottenere qualcosa, e non invece come uno spazio di partecipazione. Si è persa quasi del tutto la dimensione di attivazione diretta e dal basso.

Se la stagione delle mobilitazioni collettive guardava a un passo indietro delle istituzioni, oggi siamo invece in uno scenario completamente diverso: la richiesta è quella di più Stato e più servizi pubblici. La fiducia nel sistema democratico e nel sistema di delega resta un perno e ancor più un orizzonte difficilmente valicabile. La richiesta è magari di “nuovi” partiti, nuove figure che possano riempire di credibilità uno schema che comunque non viene messo in discussione nelle sue radici ultime.

Si vota perché si deve, ma senza una reale speranza di miglioramento: queste figure alternative ancora non esistono, e nemmeno si pensa che le sorti siano future e progressive, per lo meno nel domani più prossimo. La speranza, dunque, resta l’ultima a morire, ma al momento non assume nessun contenuto specifico, nessuna forma concreta, nessun volto reale: non più certo, ma non ancora. Detto brutalmente, siamo all’anno zero della politica dal basso.

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Nigrizia,

Qui al rione Sanità uno dei problemi più gravi che la gente deve affrontare è quello della mancanza di lavoro. Vedo tanta gente che non sa come sbarcare il lunario. Capita che bussino alla porta, si siedano e chiedano semplicemente un lavoro. E non si tratta di ragazzi. Spesso sono persone oltre i 40, che hanno perso il lavoro e che magari non hanno una grande istruzione né formazione professionale. Ma non pretendono nulla, cercano un lavoro qualsiasi. Talvolta mi fermano per strada delle madri e dei padri e l’argomento è quasi sempre quello: la possibilità per il figlio o la figlia di trovare da lavorare.

E le cose vanno peggiorando, come sottolinea una indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Dice che in Italia in generale, ma il particolare al sud, sta crescendo il numero degli individui e delle famiglie a rischio povertà. Ancora più preoccupante il rapporto dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno: afferma che dal 2001 al 2016 se ne sono andati dal sud in cerca di lavoro circa 500mila persone di cui 200mila laureati, il che si traduce in un ulteriore impoverimento del sud.

La cosa grave è che la politica non dà nessuna risposta. E la rabbia si è riversata nel voto del 4 marzo. Peggio di così non poteva andare per i partiti che hanno dominato la scena negli ultimi anni. Al sud in molti hanno deciso di votare per il Movimento 5 Stelle. Non credo che siano stati semplicemente attratti dal reddito di cittadinanza, ma che abbiamo manifestato la voglia di cambiamento. Sono stanchi di parole e di una politica che non c’è (sia il governo centrale sia gli amministratori locali) e vogliono qualcuno che risponda concretamente ai bisogni della gente.

La politica, se è politica, deve partire dagli ultimi, da chi non ce la fa più, da chi è senza lavoro.

Qui a Napoli ci sarebbe la possibilità di creare anche del lavoro socialmente utile. Penso all’enorme questione dei rifiuti, che non è gestita a dovere non solo nel capoluogo ma in tutta la Campania. Le infiltrazioni della camorra sono sotto gli occhi di tutti…

Che cosa ci vuole a creare piccole cooperative per la raccolta differenziata porta a porta? Non c’è altra maniera nei vicoli di Napoli, se davvero si vogliono raccogliere accuratamente i rifiuti. Invece di spendere tanti soldi, come avviene ora, l’amministrazione ci guadagnerebbe dalla gestione oculata di questo servizio.

Un esempio. Come realtà di base, un paio d’anni fa avevamo avviato una cooperativa per raccolta del cartone. Sostenuta dalla cooperativa Arcobaleno di Torino, l’iniziativa ha creato 5 posti di lavoro e raccoglieva 2,5 tonnellate di cartone al giorno e facendo molto meglio della altre imprese scelte dal comune. Dopo un anno, la cooperativa è dovuta andare a gara d’appalto e l’ha persa. Mi sono arrabbiato e ho scritto a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il quale ha verificato che qualcosa non andava. Oggi c’è una sanzione interdittiva a carico della ditta che ha vinto l’appalto, ma intanto la cooperativa è ferma.

Ricordiamo le parole di papa Francesco: «La mancanza di lavoro è molto di più del venir meno di una sorgente di reddito, è assenza di dignità».

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Sbilanciamoci,

Un “bilancio di un’Europa che protegge, dà forza e difende”, scegliendo come priorità strategiche, coerentemente con quanto già anticipato nel Libro bianco sul futuro dell’Europa presentato nel marzo 2017, ricerca, migrazione, controllo delle frontiere e difesa: è la proposta di QFP (Quadro finanziario pluriennale) dell’Unione Europea per il periodo 2021-2027, presentata ieri dal presidente della Commissione europea Junker all’Europarlamento. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dal Consiglio nei prossimi mesi.

1.135 miliardi di euro in impegni (espressi in prezzi del 2018) per il periodo 2021-2027, pari all’1,11 % del reddito nazionale lordo dell’UE-27 che si traducono in 1.105 miliardi di euro (l’1,08% del reddito nazionale lordo) in termini di pagamenti (a prezzi 2018): queste le dimensioni di una proposta condizionata dalla Brexit e dal mantenimento di un approccio che opta ancora una volta per “fare di più con meno” , mantenendo la barra dritta sulle politiche di austerità. Tutto il contrario di quanto chiedono da tempo molte organizzazioni della società civile, suggerendo, ad esempio, di portare le dimensioni del bilancio europeo almeno al 4% del Pil europeo.

In termini assoluti, la proposta licenziata dalla Commissione mantiene dimensioni analoghe a quelle del bilancio pluriennale 2014-2020, nonostante la Brexit, grazie ad alcuni tagli proposti per i finanziamenti della politica agricola comune e delle politiche di coesione, alla diversificazione delle fonti di entrata (che dovrebbe prevedere l’introduzione di nuove risorse proprie), alla riduzione e riorganizzazione dei programmi di finanziamento (gli attuali 58 dovrebbero ridursi a 37) e all’inclusione nel Quadro finanziario pluriennale del Fondo europeo di sviluppo.

Questo Fondo, che finanzia la cooperazione allo sviluppo con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, è finora stato solo un accordo intergovernativo: nel nuovo budget Ue, varrebbe circa 9,2 miliardi, un po’ meno dei 13 che mancheranno a seguito della Brexit.

Tra le novità positive: il raddoppiamento delle risorse destinate al programma Erasmus+ (30 miliardi di euro) e l’aumento dei fondi per ricerca, agenda digitale e investimenti strategici (187,4 miliardi).

La Commissione propone anche di aumentare le risorse destinate alle migrazioni e al controllo delle frontiere esterne portandole a 34,9 milioni di euro e stanziamenti per la difesa pari a 27,5 miliardi di euro. Occorrerà attendere il dettaglio dei diversi programmi di spesa per capire quanto l’attenzione dedicata alle politiche migratorie e sull’asilo si tradurrà in politiche di accoglienza e inclusione o, invece, in un ulteriore barricamento della Fortezza Europa, come sembra trapelare da alcune notizie di stampa.

Ad esempio, il budget destinato all’agenzia Frontex, cui spetta il controllo dei mari e delle frontiere esterne, dovrebbe aumentare ulteriormente e consentire di portare l’organico dell’agenzia fino a 10mila agenti. D’altra parte, il passato recente insegna che molti progetti europei finanziati con i fondi destinati alla ricerca hanno avuto l’obiettivo di sviluppare nuovi sistemi tecnologici di sorveglianza proprio al fine di intercettare (e fermare) i flussi migratori.

Per ora i dati pubblicati dalla Commissione evidenziano, oltre alle risorse sopra indicate, la costituzione di una “Riserva dell’Unione” di 4,7 miliardi di euro per affrontare meglio gli imprevisti e le situazioni di emergenza connessi alle migrazioni e alla sicurezza. Sembrerebbe ad oggi esclusa l’opzione di penalizzare gli Stati membri (come quelli del gruppo di Visegrad) che non sono disponibili ad accogliere i migranti, mentre sarebbe al vaglio l’ipotesi di premiare quelli maggiormente esposti ai fenomeni migratori (come l’Italia e la Grecia).

Intanto, il prossimo Consiglio europeo degli Affari interni, che si occuperà di migrazioni e gestione delle frontiere, è convocato per il 12 giugno e avrà il compito di specificare le priorità politiche dell’Unione sulle migrazioni e sull’asilo dei prossimi anni.

Certo è che quel “vincolo di solidarietà” evocato ieri dal presidente della Commissione, come principio cardine dell’Unione del futuro, stenta a divenire realtà in questo ambito: il piano di ricollocazioni concordato nel 2015 è ancora ampiamente disatteso e il progetto di riforma del Regolamento Dublino III rischia di essere bloccato a causa delle resistenze dei paesi del gruppo di Visegrad, ostili alla previsione di quote obbligatorie e automatiche di redistribuzione dei migranti tra i Paesi membri.

Avvenire,


Elena Molinari, inviata a Newhaven (Connecticut) domenica 6 maggio 2018»

I giovani tornano a marciare. E contestano le scelte del governo. Tra i promotori c'è Lane Murdock, 16 anni, che si racconta: «Siamo ancora qui, e non ce ne andremo finché le nostre voci non saranno ascoltate ». Due mesi e mezzo dopo la strage di Parkland e la nascita di un movimento nazionale di adolescenti che esigono un maggiore controllo delle armi negli Stati Uniti, la persistenza di questi giovanissimi sulla scena nazionale ha dell’incredibile.

Al gruppo originale del liceo in Florida, dove 17 persone sono morte sotto i colpi dell’onnipresente AR 15, si sono uniti altri ragazzi. Come Lane Murdock, una sedicenne del Connecticut che due settimane fa ha lanciato, con un successo insperato, uno sciopero di una giornata di tutte le scuole superiori del Paese per ricordare a politici, ai media e alla lobby delle armi, la Nra, che la mobilitazione è tutt’altro che finita.
Lane è comparsa in televisione, con la stessa espressione calma ma appassionata alla quale ci hanno abituati gli studenti di Parkland, spiegando che quando aveva dieci anni un malato di mente crivellò decine di bambini a Sandy Hook, una scuola elementare vicina alla sua, e che da allora tre volte all’anno partecipa in classe a simulazioni da «presenza di attaccante armato». Si è talmente abituata a questa routine, ripete ad , che la notizia della strage in Florida all’inizio non la sconvolse. «Lì per lì mi sono detta: ah, un’altra sparatoria – dice –. Poi mi sono resa conto quanto fosse assurdo e ho scritto la petizione per lo sciopero del 20 aprile». Nel giro di una settimana, 2.500 istituti avevano aderito.

Lane ha scelto l’anniversario del massacro di Columbine, in Colorado, un evento che gli attivisti che si battono per il controllo delle armi considerano uno spartiacque. Diciannove anni fa, infatti, per la prima volta l’opinione pubblica americana domandò alle amministrazioni locali e federali di fare qualcosa affinché una carneficina simile non si ripetesse «mai più». Da allora la maggior parte scuole americane si sono trasformate in fortezze. Hanno installato metal detector e telecamere di sicurezza, vietato gli zaini, richiesto agli studenti di portare documenti di identità e schierato polizia nei corridoi.

Ma questo non ha impedito che 33 persone venissero falciate sul campus di Virginia Tech o 26, appunto, a Sandy Hook. Ogni tragedia ha risvegliato lo stesso orrore, nessuna ha generato svolte reali, e al Congresso americano non sono mai stati eletti abbastanza deputati e senatori disposti ad approvare misure che li mettessero in rotta di collisione con la National Rifle Association (Nra), che rappresenta i produttori e distributori di armi in America e i cui iscritti sono aumentati negli anni, toccando ira i sei milioni. Col tempo, allora, il «mai più» di 19 anni fa si è trasformato in «no, non ancora».

Fino a oggi. Nel corso degli ultimi mesi – qualcuno dice dalla campagna presidenziale del 2016 – migliaia di adolescenti hanno dimostrato di non voler accettare lo status quo. E non solo per il controllo delle armi. I liceali hanno marciato con le donne dopo l’elezione di Trump e tenuto in vita il movimento #MeToo contro gli abusi sessuali. Hanno affiancato le rivendicazioni anti-razzismo di Black Lives Matter. Hanno protestato contro i divieti dell’Amministrazione repubblicana all’ingresso di musulmani negli Usa. Per il clima.

Se le armi sono diventate il loro biglietto da visita, consapevoli della loro abilità di creare ponti sui social media, questi ragazzi hanno trovato forza nell’unione di cause limitrofe. I Peace Warriors, associazione anti-violenza di Chicago, si sono già recati in Florida per coordinare i loro sforzi con i coetanei di Parkland. E un gruppo in Oregon, che ha fatto causa all’Amministrazione Trump per la sua estrazione di combustibili fossili, ha fatto lega con un’associazione di giovanissimi in Colorado impegnata in una simile battaglia legale. Intanto 13 coalizioni di adolescenti si sono unite in una rete che difende il diritto di molte «città santuario» di dare rifugio agli immigrati senza documenti, nonostante le minacce del governo di tagliare loro i fondi federali.

Non sono cause nuove, e per molti aspetti i ragazzi che le hanno impugnate non sono diversi dagli adolescenti idealisti che prima di loro hanno cercato di cambiare il mondo, per poi scoprire che non è facile. Sono già riusciti a mantenere viva l’attenzione nazionale sulle loro cause più a lungo del brevissimo ciclo delle notizie via ma è legittimo porsi la domanda: quanto dureranno?

Nelle prossime settimane, Avvenire cercherà di scoprirlo con un viaggio nell’attivismo della Generazione Z. Che ha già dimostrato un’impressionante abilità nell’usare Internet per rivolgersi a un pubblico ampio e nell’attaccare i suoi avversari senza esclusione di colpi.

Ieri ad esempio, pochi minuti dopo che Donald Trump, parlando alla convention della Nra, aveva deriso la proposta di vietare i fucili semiautomatici, chiedendosi se non si debba anche vietare «i furgoni, i camion e smettere di vendere auto», i giovanissimi del movimento Never Again hanno inondato Twitter con commenti che mettevano in ridicolo il presidente degli Stati Uniti. «L’energia giovanile c’è sempre stata, gli strumenti che abbiamo sono nuovi – conclude Lane Murdock –. Per questo siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci».

1.Continua

la Repubblica,

Tra le cose giuste che ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella c’è indubbiamente la nomina di Liliana Segre a senatrice a vita. Poche persone hanno titoli così preziosi per essere membri del Senato. Liliana, di famiglia ebraica, fu vittima dell’odio razzista fin dall’età di 13 anni, quando fu rinchiusa dai nazisti nel campo di sterminio di Auschwitz, dopo l’assassinio dei suoi genitori e nonni. Porta ancora inciso sull’avambraccio il numero di matricola 75190. Sopravvisse allo sterminio e fu liberata dall’Armata rossa il 1° maggio 1945. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, Liliana fu tra i venticinque sopravvissuti. Dalla Liberazione ha studiato, lavorato e insegnato costantemente, anche a livello universitario, per mantener viva nei giovani la memoria dei crimini compiuti dall’odio razzista. Tra le sue recenti proposte, quella di istituire una “Commissione contro il razzismo, che di seguito è illustrata dalle sue stesse parole pronunciate a un incontro con i giovani (e.s.)

Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.

Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.

Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.

Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.

Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro. La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare. Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe.

È questo il momento giusto!

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il manifesto
«Intervista alla "capa politica" di Potere al Popolo. Siamo pronti a tornare al voto ma il fine è il mutualismo non il palazzo. Da Lega e 5stelle solo chiacchiere, cancellino la Fornero. I ceti popolari non si accorgono di non avere un governo: ormai l’Europa ci guida con il pilota automatico»

«Diciamolo: siamo nel pantano. A due mesi dal voto, la matassa si aggroviglia sempre di più. Nessuno ha i voti per governare da solo, né 5 Stelle né centrodestra. Tutti sostengono di fare l’interesse del paese, di mettere al centro delle trattative i temi. Bene. Sarebbe salutare. Ma sono parole. Con buona pace delle classi popolari, vere vittime di questo chiacchiericcio quotidiano». Non che Viola Carofalo, ’capa politica’ di Potere al popolo sia una fan dei ’tavoli’.

Tifavate per un’alleanza di governo? Pd e M5S?«No, tutte le opzioni non ci piacevano. Ci fa solo piacere che questo stallo ha svelato la bugia del voto utile»

Le ’classi popolari’ si accorgono che non c’è un governo?
«Direi di no. Perché ormai nell’Unione Europea si viaggia col pilota automatico. La verità è che stentiamo ad accorgerci finanche dei cambi di governo visto che, tranne rare eccezioni, portano avanti le stesse politiche».

Salvini sale nei sondaggi. Il prossimo voto sarà lo spareggio tra Lega e 5 Stelle?
«Il consenso non è più stabile, basta poco a sgonfiare fenomeni che sembrano inarrestabili. E non dimentichiamoci che il Pd di Renzi è in stato disastroso ma non si è estinto. Renzi potrebbe tentare la mossa alla Macron per raccogliere l’eredità di Forza Italia».

E voi? In caso di voto PaP ci sarà?
«Senza dubbio. Vuoi che rinunciamo ora che già abbiamo fatto il rodaggio?»

Imbarcherete altri? Leu ha già perso pezzi che guardano a voi.
«Siamo un progetto aperto e siamo convinti di aver cominciato a costruire un confronto con una fetta del nostro soggetto sociale di riferimento, ma che non siamo arrivati a tutti».

L’1% in effetti sembrava un po’ poco per i vostri festeggiamenti della sera del voto.
«È stata mal interpretata la nostra allegria. Era poco, ma considerato che siamo appena nati e il contesto, eravamo contenti di poter dire ’ci siamo’».

Ci siete davvero?
«Dal 5 marzo stiamo incontrando nuove associazioni, collettivi, persone pronte a contribuire ad un progetto di riscatto sociale. Vogliamo allargarci con chi sui territori costruisce pratiche di resistenza e controffensiva. Un’Italia che c’è ma stenta ancora a conoscersi e riconoscersi. Chi invece ha il feticcio di un’unità fra gruppi dirigenti si riconsegnerà a un inevitabile fallimento».

Eppure il Prc toscano vi accusa di dirigismo e chiusura.

«Un problema c’è stato. Ma invito a non drammatizzare: è normale, siamo plurali, fra noi ci sono partiti, collettivi e gruppi. A fine mese facciamo un’assemblea anche per trovare le modalità di discussione comuni. Spero che la vicenda toscana si risolva».

E se invece la sconfitta vi avesse bloccato la spinta propulsiva?
«Non è così. Già il 18 marzo, a Roma, 1500 persone si sono riunite per fare un passo in avanti nella costruzione di Pap. Decine di interventi, entusiasmo. In tante e tanti hanno capito che non è un progetto elettorale. Le elezioni per noi sono uno strumento, il fine è costruire pratiche di mutualismo, reti di solidarietà, organizzazione».

In concreto?
«Abbiamo cominciato ad aprire “case del popolo”, dal Sud al Nord, che possano esser lo spazio fisico per incontrarsi, conoscersi, sperimentare attività di mutualismo. Dove siamo presenti, sosteniamo le battaglie per l’ambiente, per il lavoro. Stiamo predisponendo una piattaforma web per affiancare le assemblee territoriali. Il 26 e 27 maggio terremo da noi, all’ex Opg Je so’ Pazzo di Napoli, una due giorni di discussione sul tema del mutualismo, del lavoro, dell’Europa e delle forme organizzative possibili».

Alle amministrative vi presenterete?
«Solo in 15 città, quelle in cui le assemblee locali hanno scelto di farlo».

E poi ci saranno le Europee. Avete già deciso come vi presenterete?«Oggi ci concentriamo a radicare il progetto. Alle europee saremo presenti ma non vogliamo sfiancarci in discussioni infinite su alchimie e improbabili carrozzoni. Il futuro europeo non è una discussione tattica. Riprendiamo a respirare e a ragionare. Siamo d’accordo o no che i trattati UE siano un peso sul groppone di qualsivoglia tentativo di costruzione di una società in cui l’uguaglianza non sia solo una parola scritta e la lotta alla povertà una formula ipocrita? Da domande come queste discendono risposte che non sono “facciamo la lista tizio o caio”. Per questo abbiamo raccolto l’appello di Lisbona per una “rivoluzione democratica”, lanciato da Podemos, France Insoumise e Bloco de Esquerda, “per organizzare la difesa dei nostri diritti e della sovranità dei nostri popoli”. Faremo un dibattito quanto più ampio possibile per decidere come affrontare il voto europee. Porte spalancate chiunque accetti questa sfida».

la Repubblica, il PD non c'è più. Se rivotiamo con quella legge siamo fottuti.

No, non ci serve un governo. Ci serve uno psichiatra. E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello. Difatti la crisi di governo, quel ramo al quale siamo ormai impiccati da due mesi, deriva da un’allucinazione, da una falsa percezione delle cose. Anzi: le allucinazioni sono quattro, come le malattie mentali di cui soffrono i politici italiani.

Primo: la sindrome del vincitore. Malattia contagiosa, dato che in questo caso i vincitori sono almeno due. Salvini, a capo della coalizione più votata; Di Maio, a capo del partito più votato. Insomma, il campionato delle ultime elezioni ha assegnato due scudetti. Dopo di che, se vinci lo scudetto, pretendi il trofeo di palazzo Chigi. Pretesa ovvia, come no.

Ma per soddisfarla ci vorrebbe un consolato, sulla falsariga dell’antica Roma. Nella Roma moderna (vabbè, le buche sulle strade consolari hanno un che d’antico) invece non si può. Però stavolta la colpa non ricade su Virginia Raggi, bensì su Ettore Rosato, meglio noto come Rosatellum. Perché ha scritto una legge elettorale con il torcicollum: proporzionale (prima Repubblica), coalizioni (seconda Repubblica). Senza l’impianto proporzionale della legge, Salvini avrebbe già indossato una casacca da presidente del Consiglio. Senza vincolo di coalizione (eredità del maggioritario), quel trofeo sarebbe stato conquistato da Di Maio, magari in alleanza con Salvini, libero da ogni vincolo verso Berlusconi. Invece ci troviamo con due mezzi vincitori e un Paese dimezzato.

Secondo: la sindrome del perdente. Che non è +Europa (e meno Italia, a giudicare dai risultati elettorali), né Liberi e uguali (liberi forse sì, uguali agli altri partiti è un azzardo matematico). No, il perdente per antonomasia si chiama Pd. Che ha fatto della sconfitta una bandiera, dal momento che i suoi leader (plurale maiestatis) intonano un solo ritornello: «Abbiamo perso, dunque non ci resta che l’opposizione». Sillogismo illogico, e per almeno due ragioni. Uno: si sta all’opposizione rispetto a un governo, ma se il governo non c’è ancora, a chi s’oppone l’opponente? Due: dichiarare la sconfitta (o la vittoria) ha senso con un maggioritario, non con un proporzionale, qual è in sostanza il Rosatellum. In un sistema così non vince nessuno, perché la maggioranza assoluta diventa una chimera; non la raggiunse mai neppure la Dc, il cui miglior risultato fu il 48,5% dei consensi alle politiche del 1948. Insomma, con il proporzionale vai meglio o peggio rispetto all’elezione precedente, ma poi il governo è un’altra cosa. Nel 1972 il Movimento sociale raddoppiò i propri voti, restando fuori da palazzo Chigi; il Partito liberale, al contrario, ne perse la metà, tuttavia entrò nel nuovo esecutivo, dopo un’assenza durata 15 anni.

Terzo: la sindrome dell’appestato. «Vengo anch’io. No, tu no», cantava Enzo Jannacci nel 1968. Mezzo secolo più tardi, questa canzonetta è tornata di moda. Tu no, dicono i 5 Stelle a Berlusconi. Tu no, dice Salvini al Pd. Tu no, dice il Pd a se stesso. Un torneo a eliminazione, quando la democrazia parlamentare presupporrebbe l’inclusione. Però c’è forse un’esigenza sotto questa intransigenza. Magari c’è il bisogno di ritagliarsi un’identità per sottrazione, per opposizione. Perché i nostri partiti hanno fisionomie deboli, sfocate. E perché dopotutto la politica — diceva Carl Schmitt — si nutre della distinzione fra amico e nemico. Se la ragione è questa, urge cambiare qualche denominazione. Il nuovo nome della Lega, che s’oppone al Pd? “Partito antidemocratico”. E i 5 Stelle, contro Forza Italia? “Abbasso Italia”.

Quarto: la sindrome del ragioniere. Che alle nostre latitudini sragiona sempre sul medesimo argomento: la legge elettorale. Una nevrosi antica quanto lo Stato italiano, come mostra l’altalena dei congegni brevettati e cestinati. Esordimmo, durante la metà dell’Ottocento, con un maggioritario a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale. Fino alla legge fascistissima del 1923 (supermaggioritaria) e a quella democraticissima del 1946 (superproporzionale). Dopo di che abbiamo via via sperimentato altre sei leggi elettorali (nel 1948, 1953, 1993, 2005, 2016, 2017) e altrettanti referendum sulla materia (nel 1991, 1993, 1995, 1999, 2000, 2009). Insomma, una tira l’altra, come le ciliegie. Ogni legge sbagliata rende necessario lo sbaglio successivo. E infatti adesso c’è bisogno di un’altra ciliegina, per rimediare ai guai del Rosatellum. Evviva.

Comune.info-net, 2

La Corte dei Conti ha certificato che nel 2016 la spesa complessiva dello stato italiano ha totalizzato 829 miliardi coperti per l’86,5 per cento da entrate fiscali, ossia ricchezza prelevata ai cittadini, e per il restante 13,5 per cento da altre entrate come affitti, concessioni, vendite di immobili, indebitamento.

Le entrate fiscali comprendono tre grandi categorie: i contributi sociali, le imposte dirette e le imposte indirette. I contributi sociali sono prelievi sulla produzione, in parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro, e sono utilizzati per pensioni e altre provvidenze di carattere sociale. Le imposte dirette sono prelievi sugli introiti dei cittadini. Le imposte indirette sono prelievi sugli acquisti per beni e servizi. L’analisi dei dati rivela che oggi i tre settori contribuiscono al gettito fiscale in misura quasi paritaria. Più precisamente nel 2016 i contributi sociali hanno rappresentato il 31 per cento del gettito fiscale, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 34 per cento. Situazione piuttosto diversa da quella del 1982 quando i contributi sociali rappresentavano il 40 per cento di tutte le entrate fiscali, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 25 per cento.

Ma per capire come sia cambiata la politica fiscale in Italia, più che concentrarci sulla composizione del gettito fiscale, conviene focalizzarci sulla pressione fiscale, il valore che indica la porzione di prodotto nazionale assorbita dal prelievo.

Nel 2016 la quota complessiva prelevata dalla pubblica amministrazione è stata pari al 42,9 per cento del Pil, il 10,5 per cento in più di quella prelevata nel 1982 quando era al 32,4 per cento. Ma l’aumento non è stato omogeneo per i tre canali. Per la verità la pressione fiscale dei contributi sociali è rimasta pressoché stabile nel tempo al 13 per cento del Pil. Il vero balzo in avanti l’hanno fatto le imposte indirette che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1 per cento, passando dall’8,1 per cento al 14,4 per cento del Pil. Quanto alle imposte dirette, nello stesso periodo la loro pressione è aumentata solo del 3,6 per cento passando dall’11,2 al 14,8 per cento del Pil.

Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60 per cento dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18 per cento nel 1982 al 22 per cento nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano. Uno schiaffo che brucia ancora di più se consideriamo che sulle imposte dirette è stata operata una certa regressività a vantaggio dei redditi più alti.

Si prenda come esempio l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche che rappresenta il 73 per cento dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali al 72 per cento oltre 252mila euro. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65 per cento oltre 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43 per cento oltre 75mila euro. Il risultato è che se nel 1983 su un imponibile di 252mila euro, non da lavoro dipendente, si pagavano 143mila euro di IRPEF, oggi se ne pagano 104 mila, praticamente 40mila euro in meno.
Al contrario chi guadagnava 13mila euro nel 1983, 3mila euro pagava allora e 3mila euro paga oggi. Stante la situazione non deve sorprendere se l’82 per cento dell’intero gettito IRPEF è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati.

I ricchi sono stati favoriti non solo grazie all’accorpamento e all’abbattimento delle aliquote, ma anche perché non tutti i redditi concorrono al reddito complessivo su cui si calcola l’IRPEF. Un esempio è rappresentato dagli affitti su cui si può scegliere di pagare una cedolare secca del 21 per cento. Altri esempi sono gli interessi bancari o i dividendi obbligazionari, su cui si applica un prelievo secco del 26 per cento.

E se è impossibile calcolare la perdita per le casse pubbliche di questa serie di favori accordati alle classi più agiate, di sicuro si può dire che contribuiscono ad aggravare le disuguaglianze perché favoriscono l’accumulo di ricchezza nelle mani di una minoranza. Basti dire che l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 21,5 per cento del patrimonio privato, mentre il 60 per cento più povero non arriva al 15 per cento.
E poiché lo scandalo si fa sempre più grave, perfino l’OCSE invita a considerare l’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio. In particolare sostiene che «ci potrebbe essere lo spazio per una tassa patrimoniale nei Paesi in cui la tassazione sul reddito da capitale è bassa e dove non ci sono tasse di successione». Un’esortazione che sembra diretta in maniera particolare all’Italia dal momento che non sono previsti cumuli, né per i redditi da capitale né per i valori patrimoniali, mentre l’imposta di successione è quasi inesistente. Se seguissimo il consiglio dell’OCSE, renderemmo un servizio non solo all’equità, ma anche alla sostenibilità dei conti pubblici da tutti invocata in nome del debito pubblico. Finalmente dalla parte dei cittadini più deboli come prescrive la Costituzione.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire, 4 maggio 2018. Chiacchierano per fare un governo. Ma quanto tempo sarà ancora necessario per averne uno che elimini lo schiavismo dei "datori di lavoro" italiani che imperversano in ogni angolo della Penisola?

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I negrieri della porta accanto non hanno il cuore tenero. La fatica è da bestie. La paga è da fame. Chi si ribella può anche andarsene. Ma se resta tra i filari degli aranceti a reclamare un euro in più, potrebbe finirgli male. Tanto c’è sempre qualcuno più affamato di lui pronto a prenderne la misera paga.

Gli schiavi con permesso di soggiorno sono almeno 3.500: braccianti stagionali che forniscono manodopera a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi vivono in insediamenti informali, tendopoli o capannoni abbandonati. A otto anni dalla rivolta di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro è cambiato poco e niente. «I grandi ghetti di lavoratori migranti rappresentano uno scandalo italiano rimosso dalle forze politiche», denuncia Medici per i diritti Umani (Medu) che da cinque anni con una clinica mobile segue le loro condizioni di salute.

Il 'ghetto' più grande è quello della zona industriale di San Ferdinandoche, in un capannone e nella vecchia fabbrica a ridosso, accoglie il 60% degli stagionali. Rovistano tra cumuli e roghi di rifiuti. Medu, che ha pubblicato il dossier dal titolo «I dannati della Terra», ha operato nella zona da dicembre ad aprile curando 484 persone: giovani lavoratori con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa subsahariana, tra cui un centinaio di donne dalla Nigeria, il 90% dei quali regolarmente soggiornanti.

«È stato un periodo funestato da incendi, uno dei quali tragico, in cui è morta una giovane donna nigeriana, Becky Moses – spiega Alberto Barbieri, di Medu –. Una dignità negata per tanti migranti ma anche per noi cittadini italiani ed europei. In una palude di mancanza di cambiamento ci sono anche esperienze che dimostrano che è possibile fare integrazione con pochi mezzi, come a Drosi, dove gli alloggi sfitti sono stati inseriti in un progetto di affitti a basso costo». Un’esperienza che Medu chiede di replicare, con programmi pluriennali di housing sociale.

Le precarie condizioni di vita, oltre che quelle di lavoro, minacciano la salute fisica e mentale: le patologie più frequenti riguardano l’apparato respiratorio e digerente, in alcuni casi i medici quest’inverno hanno riscontrato principi di congelamento degli arti.

Solo 3 persone su 10 lavorano con un contratto, le altre vengono pagate a cottimo o a giornata, tramite caporali. «In otto anni – sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – nulla è cambiato ma è cambiato il clima che c’è intorno all’immigrazione: la campagna elettorale è stata intrisa di xenofobia e di messaggi d’odio. Dopo le elezioni il tema è sparito».

Gli interventi istituzionali restano «frammentari, parziali e inefficaci – scrive Medu –. Nel mese di agosto dell’anno scorso è stata allestita un’ennesima tendopoli, la terza in ordine di tempo, che non ha tuttavia fornito una risposta adeguata (dal punto di vista numerico, logistico e dei servizi offerti) ai bisogni alloggiativi dei lavoratori migranti: con 500 posti disponibili a fronte delle oltre 3.000 persone presenti, in assenza di assistenza medica, sanitaria e socio-legale e di mediatori culturali, si tratta ancora una volta di una soluzione di carattere puramente emergenziale, che confina le persone in una zona isolata e lontana da qualsiasi possibilità di integrazione ed inserimento sociale».

La ’ndrangheta non sta a guardare. In passato non sono mancate minacce e raid contro i raccoglitori. Anche per questo molti non se la sentono di protestare. Il pagamento a cottimo è il più diffuso: 0,50 centesimi per ogni cassetta di arance, 1 euro per i mandarini. Chi viene pagato a giornata percepisce tra i 25 ed i 30 euro. Il 34% delle persone lavora 7 giorni la settimana. Perché agli schiavi non è permesso riposare.

il manifesto,

«Lavoro e tecnologie. Marc Saxer suggerisce di pensare a un’”economia umana” e di strutturarla in una sorta di “economia a due settori” intercomunicanti - simile a quella suggerita da Riccardo Lombardi in Italia alla fine degli anni ’70»
Sarebbe sbagliato negare che ci troviamo in una fase nuova, con molte trasformazioni incubate proprio nei dieci anni trascorsi dall’esplosione della crisi del 2007/2008, la cui più drammatica eredità è una disoccupazione giovanile ancora elevatissima. Ne cogliamo i segni anche nel singolare connubio che si viene realizzando tra il neoliberismo e varie forme di populismo, pregne di nazionalismo, nativismo, xenofobia.
 Rispetto alla portata di tali trasformazioni – mentre è semplicemente strabiliante la superficialità con cui esponenti politici concentrati solo sul proprio ego, e sul desiderio di uccidere “Sansone con tutti i filistei”, decretano la fine della discriminante destra/sinistra – l’urgenza maggiore, per la sinistra e le forze progressiste che vogliono continuare a vivere, risiede nella necessità di uscire da un silenzio e un’inerzia che durano ormai da troppo tempo e le condannano alla scomparsa, attivando, al contrario, un cantiere culturale alternativo di vastissima portata.


Per cogliere le odierne tendenze di cambiamento – rispetto alle quali alcuni osservatori già paventano una frenata della crescita mondiale, anche in conseguenza degli embrioni di protezionismo e dell’incessante accumulo di “bolle” finanziarie e immobiliari – rimangono una variabile cruciale gli investimenti, dei quali l’Oecd dice che «sono stati il vero supporto mancante (missing) per la crescita globale, gli scambi, la produttività, i salari reali». Il calo degli investimenti, con la crisi e dopo, si è accompagnato a un intenso processo di introduzione di innovazioni, ancora tutto da decifrare nella sua natura e nelle sue conseguenze, specie sull’occupazione.


L’estrazione di masse enormi di dati e di informazioni dagli individui – tutti tracciati e monitorati – e la loro mercificazione e trasformazione in profitti per Google, Facebook e le altre corporations rendono non più riconoscibili i confini tra soggettività individuale e condizione sociale. Con le nuove tecnologie il lavoro, almeno in alcune aree, si trasforma e si arricchisce, ma la connessione perenne e l’accessibilità estesa non significano automaticamente maggiore libertà, possono anzi generare una rarefazione della sfera pubblica a sua volta incrementante la desoggettivazione e la depoliticizzazione già in atto.

Se l’individualizzazione passa attraverso una “esposizione costante del sé” e una “gamificazione” in cui l’offerta ininterrotta di stimoli si traduce in “forme di gioco” (espresse dal clic “mi piace”) che alla fine si risolvono in esasperazione della prestazione e della competizione, vediamo all’opera da una parte la trasformazione di ogni elemento di conoscenza in informazione mercificata, dall’altra l’ambizione a modificare gli stessi comportamenti manipolando e suggerendo desideri che non si sa di avere e alimentando il delirio di onnipotenza.


Si è fatta, dunque, pressante, a sinistra, la necessità di proporre un “nuovo modello di sviluppo”, un nuovo modello di sviluppo per l’epoca digitale. Ne abbiamo bisogno per dare al capitalismo – di cui alcune delle contraddizioni strutturali sono lo squilibrio domanda/offerta e la carenza di domanda aggregata – una base di domanda meno artificiosa di quella indotta dalle “bolle” del neoliberismo e, al tempo stesso, combattere la “distopia” di un mondo senza lavoro minacciata dall’avanzare dell’automazione. Marc Saxer suggerisce di pensare a un’”economia umana” e di strutturarla in una sorta di “economia a due settori” intercomunicanti – simile a quella suggerita da Riccardo Lombardi in Italia alla fine degli anni ’70 del secolo scorso -, un settore per così dire “capitalistico” digitale «che genererà il surplus necessario a remunerare il lavoro per il bene comune», un settore destinato agli human commons (dai servizi per la salute, alla cura degli anziani, all’allevamento dei bambini, all’istruzione e educazione, alla generazione di cultura e di conoscenza, ecc.), per i quali vanno creati appositi meccanismi di remunerazione.


Questo ragionamento ha come presupposti una valutazione di insufficienza quando non di fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni e anche meri trasferimenti monetari del tipo “reddito di cittadinanza”) e, al loro posto, a) il ricorso allo Stato come employer of last resort, b) una democratizzazione della proprietà del capitale, mediante un maggiore slancio impresso alla democrazia economica, lo spostamento della tassazione dal lavoro al capitale, la costituzione di Fondi sovrani di investimento che socializzino gli alti rendimenti del capitale.


Queste problematiche non sono nuove. La retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni al presente è utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi. Ciò che ci si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni pubbliche in grado di operare in tal senso.


Abbiamo bisogno di sottoporre a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo” con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.
Quando Henningen Meyer parla di “filtri” con cui “moderare” l’evoluzione tecnologica non intende solo “rallentare”: egli parla di un filtro “etico” (in gioco, per esempio, nelle biotecnologie: non tutto ciò che è possibile, solo per questo deve essere fatto); un filtro “sociale” (che può portare a implementazioni scaglionate nel tempo o a differenti forme di regolazione); un filtro “relativo a differenti modelli di governance imprenditoriale” (privilegiando forme che danno voce a un più largo numero di portatori di interessi); un filtro “legale” (si pensi alle controversie a cui sta dando luogo il caso della self-driving car); un filtro “connesso alla produttività” (qui si verificano gli effetti di ciò che gli economisti chiamano rendimenti decrescenti: una lavatrice equipaggiata con dispositivi elettronici simili a quelli del programma spaziale Apollo, non vi porterà sulla luna, continuerà semplicemente a lavare i vostri panni sporchi).


Tutto ciò spiega perché bisogna collocare molto in alto le ambizioni riformatrici, nelle quali occorre far ricadere le problematiche della democrazia economica e di iniziative innovative sui “diritti di proprietà”. Le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, aprenti eccezionali “finestre di opportunità” che, anziché lasciate al solo capitalismo animato dalla volontà di consolidare i tradizionali rapporti di potere, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla “coprogettazione” in disegni

Comune-info,

«Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe».

Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia

Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.

Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.

Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.

Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.

La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.

D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.

Milgram

Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.

Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo – scosse elettriche di intensità crescente – ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori – che interpretano gli scienziati – sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.

I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo. L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.

Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento – piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza – il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.

Il Grande Esperimento Invalsi

Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollocui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.

Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che – sole – permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.

Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:

«Lei dovrà seguire le seguenti regole generali durante la somministrazione:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova».

Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui. Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:

«LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’».

Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva…”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché […] gli allievi non comunichino tra di loro”.

Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.

A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].

Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni […] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.

Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?

Il protocollo nascosto

Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e – in fin dei conti – etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.

Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi. Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?

Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?

Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?

Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.

Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.

Preferisco di no

Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?

Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,

Gli studenti del liceo Garibaldi di Napoli stamattina non saranno presenti al Pio Monte della Misericordia come guide. L’ente ha cancellato la loro partecipazione dopo un braccio di ferro cominciato martedì scorso. Il 24 aprile il Collettivo autonomo del Garibaldi aveva annunciato sui social l’adesione alla protesta contro l’alternanza scuola-lavoro cominciata dai colleghi del liceo Vittorio Emanuele II a marzo: anche loro si sarebbero presentati a fare le guide con un badge autoprodotto con la scritta «Alternanza scuola – sfruttamento. Questo non è formativo». La reazione è stata immediata: «La responsabile del Pio Monte ha chiamato la preside – raccontano dal collettivo – minacciando il ritiro del monte ore che fa capo al loro ente. Questo significa che i ragazzi, che sono in quarta, l’anno prossimo avrebbero dovuto accollarsi la formazione d’accapo proprio a ridosso della maturità. Naturalmente non ci sono tracce scritte delle pressioni così, se protesti perché di fatto sei ricattato, l’ente può sempre negare tutto».

Le pressioni però ci sono state e infatti gli studenti sono stati costretti scrivere una lettera in cui ribadivano il rispetto per la scuola e il Pio Monte, se pure mantenevano ferma la contrarietà all’alternanza, annunciando la sospensione della protesta: sabato scorso si sono presentati per svolgere un lavoro (dalle 9 alle 17) che viene definito volontario ma che in realtà è imposto e non retribuito. All’esterno, a manifestare per loro, c’era il collettivo del Vittorio Emanuele e un quinta del Garibaldi: «Non hanno potuto impedircelo – spiegano – perché abbiamo già terminato le nostre ore in un’altra struttura e non eravamo in orario scolastico». Con loro avevano lo striscione «Le vostre minacce non ci fermeranno». Il Pio Monte ha reagito chiudendo i cancelli, chiamando la polizia e poi cancellando l’alternanza per oggi. Ai ragazzi la responsabile ha detto che veniva data loro «una grande opportunità, la possibilità di fare un’esperienza di vita».

Se però chiedi agli studenti, ecco la risposta: «Siamo usati come venditori di prodotti e per di più rubiamo il posto ai laureati. Non c’è spazio per pensieri e azioni che provino a scardinare questo sistema: tutto è soffocato dai provvedimenti disciplinari, dalle minacce di ritorsioni se si lede l’immagine dell’azienda presso cui si svolgono i percorsi, dal decoro. Volevano persino imporci come vestire, sempre a spese nostre. Addirittura, per fare la formazione propedeutica alle guide, ci sono professori che sottraggono ore alle materie di studio». Quella al Pio Monte è la terza protesta in due mesi: il 27 marzo erano stati gli studenti del Vittorio Emanuele a inaugurare la rivolta dei badge durante le giornate del Fai, riproponendo l’iniziativa ad aprile al Museo Duca di Martina.

Lo scorso ottobre la Cgil Campania aveva aderito allo sciopero dell’Uds contro l’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla Buona scuola del governo Renzi: «La nostra preoccupazione – sottolineava il sindacato – è che possa essere vista come la possibilità di impiegare lavoratori a costo zero. È gravissimo diffondere il concetto di lavoro non retribuito: significherebbe abituare i giovani a lavorare in condizioni sempre al ribasso».

L’alternanza interferisce anche con l’ambito scolastico: «L’anno prossimo, per la prima volta, la scheda di valutazione compilata alla fine del percorso peserà sull’esito del voto di diploma. Cosa c’entra il carisma o la capacità di arringare il pubblico con la formazione e l’impegno nello studio? Perché uno studente estroverso oppure accondiscendente con l’azienda dovrebbe essere premiato?» si chiedono i ragazzi del Garibaldi.
Intanto, stamattina, la Camera popolare del lavoro dell’Ex Opg Je so’ pazzo dà appuntamento a piazza Bellini per un flash mob: vestiti da camerieri gireranno il centro storico per protestare contro il lavoro in nero e la mancanza di controlli.

Riferimenti
Si veda su eddyburg di Filippomaria Pontani La legge che rende inutile insegnare e di Piero Bevilacqua Contro l'alternanza scuola lavoro. Sulla proposta di legge popolare alternativa alle deformazioni della Moratti e della Gelmini e della "Buona scuola" di Matteo Renzi di Marina Boscaino Ecco come ribaltare il classicismo della scuola italiana. Sulla trasformazione della scuola si veda la recensione di Piero Bevilacqua Pedagogia della carezza al libro di Laura Marchetti Per una didattica della carezza

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