«Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo» è quello di Bernie Sanders.
Internazionale on line, 8 novembre 2016 (m.p.r.)
L’America è cinema, e nel grande schermo americano siamo tutti abituati a rispecchiarci e proiettarci da più di un secolo. Dunque non può stupire che nel kolossal della grande corsa alla Casa Bianca ci rispecchiamo anche noi europei, vedendoci ingigantiti tutti i segni della crisi politica e sociale che accomuna le democrazie occidentali di qua e di là dall’Atlantico. Del resto, i ruoli dei protagonisti sono così ben riusciti, anche e soprattutto nelle loro contraddizioni interne, da sembrare pensati a tavolino. Da una parte Donald il populista, businessman alla conquista del potere politico, maschio bianco alla riconquista del potere patriarcale, nativo all’assalto dello straniero, outsider all’arrembaggio del proprio partito; dall’altra parte Hillary la prima donna, politica navigata ma troppo d’establishment, femminista ma troppo moglie, progressista ma troppo neoliberal.
Eppure, a un secondo sguardo, tra il vecchio e il nuovo continente le cose non sono così uguali, né seguono sempre la regola aurea del nuovo che anticipa il vecchio: con le merci, i soldi, le persone e i confini la globalizzazione rimescola anche i tempi, in un’inedita circolarità fatta tanto di sovrapposizioni e somiglianze quanto di scarti e differenze. Prendiamo il fenomeno Trump, tanto nuovo e stupefacente per gli osservatori americani quanto intriso di déjà vu per noialtri marchiati dal ventennio del Cavaliere: del quale Trump ricalca, com’è stato detto e ripetuto, tutto o moltissimo, dal tratto “alieno” del tycoon che piomba sull’arena politica (tratto che Berlusconi a sua volta ricalcava, a proposito di circolarità, da Ross Perot) alla fusione tra l’azione politica e il brand industriale, dal linguaggio rivolto alla pancia più che al cervello alla post-truth politics, dall’ostentazione della trasgressione fiscale all’uso e all’abuso della potenza sessuale come viagra del messaggio politico. Sì che quando i commentatori statunitensi si stupiscono delle identificazioni consce e inconsce che una figura fuori degli standard della moralità e della legalità come Trump riesce a suscitare, noi sappiamo purtroppo molto bene che queste identificazioni con il lato oscuro di un leader sono possibili, e possono essere molto tenaci.
Così come non ci stupisce, come ha scritto qualche giorno fa Jill Filipovic sul New York Times, che le donne statunitensi si siano paradossalmente trovate a pagare la vittoria femminista della prima candidata alla Casa Bianca con la campagna elettorale più sessista della storia. Le rivoluzioni non procedono mai linearmente e quella femminista non fa eccezione: il caso Trump negli Stati Uniti come il precedente Berlusconi in Italia dimostrano che quando gli uomini, cito ancora Filipovic, “non stanno al passo” del cambiamento femminile, la reazione maschile alla perdita di potere e identità può essere selvaggia. Tanto più se, come nel caso americano che in questo è diverso dal nostro, in questa perdita di identità le ragioni legate al mutamento di genere si mescolano a quelle di ordine demografico e razziale, e l’uomo bianco, assediato non solo dal vantaggio femminile ma dalle ex minoranze che diventano maggioranze e dai neri che si sono già presi la Casa Bianca, si sente davvero l’ultimo uomo: non più il metro di misura di tutti i subalterni, superiore per natura e vincente per definizione, ma un precario residuale e declinante. Uno spleen suprematista e razzista che non pare ancora altrettanto diffuso in Europa ma potrebbe diventarlo, come annuncia l’isteria xenofoba che fiorisce per ogni dove.
Passiamo facilmente, da qui, al principale fattore che fa la differenza tra la scena americana e quella europea. E che sta, lo si voglia o no, nell’eredità simbolica della presidenza Obama. Che essa sia in gioco a livelli ben più profondi della continuità di partito e di governo incarnata da Hillary Clinton, lo dimostra precisamente la virulenza dell’attacco di cui è stata ed è oggetto da parte di Trump e dei suoi, con i corollari della guerra ai neri e agli islamici, alla società multiculturale, al policentrismo in politica estera, al “politically correct” sul piano culturale. Il che, invece di condurre all’affrettata conclusione, molto in voga tra i commentatori di casa nostra, di un “fallimento” di Obama, dovrebbe piuttosto farci riflettere sulle modalità sotterranee e carsiche con cui sovente si forma e si esprime il conflitto nella società americana, meno incline di quella europea a dargli immediata rappresentazione politica. Se non bastasse l’esempio attuale dei gruppi di suprematisti, alt right, birtherist, cospirazionisti, antielitisti che hanno preparato l’exploit di Trump su canali extrapolitici come i siti Breitbart, si può tornare con la memoria ai network neocon e teocon che covarono a lungo sotto lo splendore progressista dell’impero clintoniano degli anni novanta, senza che in Europa nessuno ci facesse caso finché non divennero i pilastri ideologici di George W. Bush e della sua politica revanscista successiva all’11 settembre.
Il conflitto, d’altra parte, in questa lunga campagna elettorale non ha avuto solo la faccia di Donald Trump. Ha avuto anche quella di Bernie Sanders, troppo frettolosamente cancellata dalla inevitabile polarizzazione tra i due candidati degli ultimi mesi. Ma Sanders continua a contare, e non solo perché conteranno oggi, uno per uno, i voti dei suoi sostenitori, millennial soprattutto, che riuscirà o non riuscirà a dirottare su Hillary Clinton. Conterà in seguito, se proseguirà la sua battaglia per spostare a sinistra il Partito democratico e obbligherà Hillary a mantenere gli impegni programmatici presi con lui al lato della convention democratica di luglio. Conterà, soprattutto, se riuscirà a mantenere attivo il movimento che ha costruito, o meglio, cui ha saputo dare rappresentanza, non su base estemporanea ma grazie alla sedimentazione di una catena di aggregazioni e di lotte che vanno dalla mobilitazione per la prima elezione di Obama a Occupy Wall street a Black lives matter alle agitazioni nei campus universitari. Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo. E forse l’unico che può riuscire nel miracolo di dare la sveglia alla sinistra europea, prima che a dargliela spunti anche da queste parti un altro Trump.
«». La Repubblica 9 novembre 2016 (c.m.c.)
C’è un luogo comune sull’America che è rimbalzato nei media tradizionali e sui social media in queste settimane: a fronte dei colpi bassi tra i candidati e degli scandali, svelati o annunciati addirittura da agenzie pubbliche come l’Fbi, cadono i miti sull’America delle regole e della democrazia. Un luogo comune che non coglie nel segno perché non è una novità che la politica americana superi l’immaginazione quanto a spietata durezza.
La storia americana è scandita dall’uso di colpi bassi e di violenza in politica: omicidi di presidenti (a partire dal grande Lincoln fino al giovane Kennedy) e candidati (l‘ultimo Robert Kennedy), scandali che hanno fatto cadere presidenti (Nixon), campagne dal linguaggio populista violento e razzista (del democratico Wallace), infine finanziamenti miliardari alle campagne elettorali che servono addirittura a misurare il gradimento dei candidati, per cui chi è semplicemente “popolare” non ha nei fatti le stesse possibilità di vincere di chi ha dalla propria le multinazionali e le oligarchie di partito (un tema che Bernie Sanders ha più volte sollevato nelle primarie contro Hillary Clinton).
Insomma, l’America è ammirevole non per la sua purezza ma per l’esplicita confessione delle impurità della politica e per quella straordinaria forza delle istituzioni e dell’opinione che resistono a scandali e a violenze. Cinismo verso la politica e convinzione della rettitudine delle persone ordinarie: su questo dualismo si è costruito il mito del populismo americano “buono”, che mai ha tracimato dal regime costituzionale. L’immaginario di un eccezionalismo americano nella valutazione del populismo è durato almeno fino a Donald Trump.
La novità immessa nella politica americana — forse la maggiore novità — sta qui: nel fatto che gli americani, ultimi tra tutti i paesi democratici, abbiano scoperto che il populismo “cattivo” è possibile. Il “popolo” può essere personificato da un pessimo leader e identificato con un linguaggio fortemente negativo e negazionista: negativo, come in altri momenti del passato (pensiamo appunto a Wallace) e anche negazionista, come mai prima d’ora. Negazionismo: Trump ha dichiarato da settimane di poter negare il risultato di queste elezioni (se perdesse), perché esito di una campagna condotta in maniera fraudolenta sia da parte della candidata Hillary che da parte dei media liberal, e delle élites acculturate dei college Ivy.
Sugli “errori” di Hillary sappiamo: errori per aver usato, quando era segretario di Stato, telefoni pubblici e privati indifferentemente, senza fare distinzione tra le questioni personali e quelle politiche. Un errore di valutazione e il segno di un’abitudine al potere (che Hillary frequenta a vario titolo, privato e pubblico, da alcuni decenni), che non sembra aver tuttavia messo a repentaglio gli interessi nazionali. Ma a Trump importa poco il fatto materiale.
Il fatto nuovo di questa campagna è, come si diceva, un altro: Trump ha accusato ripetutamente i media “liberal” di aver fatto una campagna tendenziosa, di aver premeditato la disinformazione (lo ha ripetuto anche la moglie Melania in due interviste televisive) per farlo perdere. Il
New York Times è stato la sua bestia nera (effettivamente impegnato in una campagna schieratissima e senza alcuno sforzo di oggettività), ma anche la Cnn, benché meno tendenziosa.
Perché questa reazione al modo in cui è stata condotta la campagna elettorale? Per preparare l’azione anti-Casa Bianca nel caso egli dovesse perdere le elezioni. È questa anticipazione di accusa di illegittimità insieme al turpiloquio linguistico usato quotidianamente il fatto nuovo di questa campagna presidenziale. I timori restano sia in caso di vittoria di Trump (per il carattere e lo stile della sua politica) sia nell’ipotesi di una sua sconfitta (per le conseguenze destabilizzanti che sono state minacciate). Questa è la novità di queste presidenziali: la sistematica campagna denigratoria non solo verso la candidata (questo sarebbe nella norma) ma anche verso le istituzioni.
La virulenza verbale di Trump ha sdoganato il politically incorrect con conseguenze future che possono essere spiacevoli, come l’escalation dell’intolleranza e la discriminazione delle minoranze — gli immigrati (latino- americani soprattutto), i musulmani (stranieri e americani), le donne acculturate che perseguono carriere nelle professioni. Insomma, il cielo del Nuovo Mondo sembra essere gravido di nuvoloni neri, sia che vinca o che perda Trump, una figura di non-politico la cui campagna ha marcato un’escalation notevole nel processo di delegittimazione in un’America che soffre ancora le conseguenze di una politica imperiale improvvida che l’ha impoverita e incattivita.
l testo integrale del primo discorso esplicitamente rivolto da papa Francesco alla politica, di tale forza dirompente da essere del tutto ignorato sia dai media italiani, che parteggiano per la politica che Bergoglio aspramente critica, sia da quelli che forse si vergognano di non aver saputo pronunciare parole simili. Ci riferiamo in particolare ai paragrafi 4 e 5 del testo.
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.
Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.
Care sorelle e cari fratelli, la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.
Il testo è tratto dal sito del Vaticano. Lo abbiamo ripreso dal sito di Anna Maria Bianchi Missaglia, che ringraziamo di avercelo indicato. Il titolo dell'articolo e i sottotitoli 4 e 5 sono nostri. Potete trovare una sintesi del discorso in eddyburg qui
Finalmente dal mondo del lavoro emerge una organizzazione che si pone al livello della controparte, ed è capace di superare i confini nazionali. Lo testimonia il documento finale del meeting della "Transnational Social Strike Platform" che si è tenuto a Parigi dal 21 al 23 ottobre scorsi. connessioniprecarie,
Centocinquanta persone, lavoratori e attivisti provenienti da Francia, Italia, Regno Unito, Portogallo, Slovenia, Bulgaria, Polonia, Scozia, Svezia, Germania e Belgio hanno partecipato alle tre giornate organizzate dal 21 al 23 ottobre scorsi a Parigi dalla Transnational Social Strike Platform.
Un anno fa a Poznan abbiamo affermato che l’opposizione allo stato presente dell’Europa non può che partire dal rifiuto dello sfruttamento e delle sue condizioni politiche. Quest’anno a Parigi la scommessa è stata quella di fare un passo avanti nel consolidamento della nostra comune infrastruttura transnazionale.
Riconosciamo un movimento dello sciopero che attraversa l’Europa e stiamo lavorando alla creazione delle condizioni per uno sciopero sociale e transnazionale. Per noi lo sciopero è il movimento reale che può sovvertire l’attuale equilibrio dei poteri dentro e fuori i posti di lavoro. Vogliamo consolidare un’infrastruttura politica che consenta di fare di ogni sciopero il momento in cui si intensifica l’insubordinazione del lavoro e in cui lavoratori e lavoratrici possono riconoscersi come parte della stessa lotta attraverso le categorie, le condizioni giuridiche e i confini. Per farlo, dobbiamo costruire connessioni più solide intensificando lo scambio di informazioni, la condivisione dei momenti di conflitto e la definizione di direzioni comuni.
Quattro assi sono stati riconosciuti come centrali e sono stati l’oggetto dei quattro workshop i cui report circoleranno nei prossimi giorni: il controllo logistico sul tempo, applicato nei magazzini così come nel lavoro di cura, nelle piattaforme telematiche e nelle fabbriche; la precarizzazione del lavoro, sostenuta dalle politiche europee attuate in ciascun paese; la gestione del welfare come strumento per imporre ai cittadini e ai migranti l’obbedienza e come spazio di un lavoro di cura precario; le politiche migratorie che mostrano come la questione dell’integrazione abbia a che fare con il lavoro a basso costo e lo sfruttamento, a sua volta intensificato dal ricatto del permesso di soggiorno e dal governo della mobilità.
La sottrazione dei lavoratori della cura svedesi al controllo delle app che misurano il loro tempo di lavoro è legato al rifiuto di quello stesso controllo da parte dei lavoratori dei magazzini di Amazon; la lotta contro la loi travail è un segmento di quella organizzata, in diversi paesi, contro le leggi sul lavoro che seguono le linee guide dell’Agenda 2020 dettata dall’Europa; lo sciopero delle infermiere, delle insegnanti e dei medici specializzandi è parte dell’opposizione ai tagli al welfare portata avanti dagli utenti; l’attraversamento dei confini da parte dei migranti lungo la rotta balcanica è connesso alla lotta contro il razzismo istituzionale che pone i migranti interni e quelli extraeuropei in una condizione di ricatto.
La nostra infrastruttura logistica rende queste connessioni visibili e riconoscibili. In questo senso, essa non è solo un modo di mettersi in contatto attraverso i confini, ma anche di superare i limiti delle iniziative locali attraverso lo sviluppo di un terreno comune. Possiamo vedere tutti i giorni, a livello locale, che anche le lotte vicine nello spazio sono di fatto isolate, perché ciascuna è basata su specifiche rivendicazioni o riguarda specifiche categorie del lavoro ormai desuete. Ma il movimento dello sciopero va al di là dei suoi confini istituzionali.
Per rafforzare la nostra infrastruttura, abbiamo bisogno di costruire il nostro spazio e di prenderci il nostro tempo. Vogliamo trasformare lo spazio europeo, con le sue differenze interne, nel nostro spazio di lotta, sapendo che si tratta di un processo lungo. Ciò significa anche costruire un nuovo linguaggio, un nuovo immaginario e la capacità di intervenire in modo tale da rendere le differenze di cui facciamo esperienza dei punti di forza.
». il manifesto, 6 novembre 2016 (c.m.c.)
Era un Matteo Renzi che nella sua second life vuole essere Carlo Conti, e l’accoppiata Boschi-Nardella che gioca a chi le spara più grosse con risultati spassosi, gli unici momenti effervescenti della seconda giornata della Leopolda si vivono in piazza San Marco. Qui, a chilometri dalla vecchia stazione, il migliaio di movimentisti che hanno raccolto l’appello “Firenze dice No” cerca di avviare comunque un corteo, vietato dalla Questura che per l’occasione ha fatto le cose in grande: 800 agenti presidiano la kermesse renziana, altre centinaia in assetto antisommossa bloccano ogni pertugio che da San Marco porti anche lontanamente in direzione della Leopolda.
La missione impossibile di andare perlomeno in direzione del Duomo si risolve in cinque, dieci minuti di tensione. Da una parte i manifestanti, a volto scoperto per il 99%, che gettano arance, mandarini, ortaggi e qualche sasso verso le forze dell’ordine, con fumogeni e petardi a fare da contorno. Dall’altra parte si risponde con due, tre robustissime cariche a suon di sfollagente, e un bel po’ di lacrimogeni che fanno tanto atmosfera. Risultato: tre agenti contusi, altrettanto ammaccati una ventina di giovani manganellati, un singolo fermato. «Scontri drammatici», titolano i telegiornali a reti unificate. «Prove generali della nuova democrazia dopo la riforma costituzionale?», annota Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.
Ecco la manifestazione vista con gli occhi del sindaco Nardella: «Manifestare il dissenso è un diritto, sfasciare una città è ignobile e inaccettabile«. Lo «sfascio della città» non esiste: il corteo si incammina poi verso piazza Santissima Annunziata – unico luogo permesso dalla Questura per manifestare – e da lì si dirige verso l’Arno passando per piazza d’Azeglio, Sant’Ambrogio e Borgo la Croce. Vie dello shopping, illuminate e con tutti i negozi aperti. E intatti. La manifestazione si chiude di fatto in piazza Beccaria, quando comincia a piovere troppo forte e il caotico traffico del sabato, a stento bloccato per qualche minuto dai vigili, esonda come l’Arno del 4 novembre 1966.
Di fronte al giochino pomeridiano della Leopolda – le “Bufale del No” – condotto dal duo Boschi-Richetti e con i quattro prof del Sì (Ceccanti Minelli Vassallo Clementi) a far la parte del notaio Peregrini, non c’è da stupirsi che fra il pubblico sia tutto una smanettare di smartphone, per vedere in streaming cosa sta succedendo fuori. Nondimeno l’ineffabile ministra Boschi offre autentici pezzi di bravura: «Meglio cinque minuti in più per leggere il nuovo articolo 70 della Costituzione, e cinque anni in meno per approvare una legge». I bastonati dal jobs act, dalla legge Fornero e dalle altre leggine approvate anche dal Pd a tambur battente, dal fiscal compact al pareggio di bilancio in Costituzione, si sentiranno presi per i fondelli. Ma tant’è.
Ancora Maria Elena Boschi superstar, in risposta alla molto presunta “bufala” secondo cui la riforma sarebbe stata scritta sotto la spinta delle banche d’affari: «Il referendum è decisivo. La riforma la scriviamo noi, cittadini e cittadine, non gli speculatori e i banchieri». Evidentemente, per Boschi, l’ormai celebre report di Jp Morgan sulle costituzioni troppo “socialiste” dei paesi del Mediterraneo è solo un fake, messo in giro da chi non ama il governo. Gran finale sulla legge elettorale: «Dopo che non si faceva da dieci anni, noi ci siamo riusciti».
L’allieva Boschi non riesce comunque a superare il maestro Renzi, che doveva parlare solo la domenica ma si è subito accorto che la kermesse stentava. Di qui la decisione di salire sul palco già nella serata di venerdì, per accontentare una platea di umore ben diverso rispetto agli anni dell’assalto al cielo di Palazzo Chigi. Il bis in apertura della sessione “costituzionale”, con l’immancabile attacco alla minoranza Pd: «Sono tanti quelli che l’hanno votata, e poi hanno cambiato idea…». Come lui con la tramvia (nemmeno mezzo metro in cinque anni da sindaco…), quando accusa la sindaca romana Raggi «di bloccare le metropolitane, le tramvie, di bloccare il paese».
Prigioniero della sua immagine allo specchio, l’inquilino di Palazzo Chigi batte e ribatte sullo stesso tasto: «Per ripartire bisogna cambiare la Costituzione». E via con gli interventi di “imprenditori, professionisti, studenti” che magnificano l’opera riformatrice del governo e innalzano il mantra: «Cambiamento, cambiamento, cambiamento». Del resto, se fino ad oggi ha funzionato, perché non continuare?
La ragione che già di per sé sola dovrebbe indurre gli elettori a votare No nel prossimo referendum costituzionale, è che il Parlamento eletto per la XVII legislatura è stato dichiarato radicalmente illegittimo dalla Consulta, avendo l’abnorme premio di maggioranza previsto dal Porcellum determinato un’«eccessiva sovra- rappresentazione della lista di maggioranza relativa», in violazione della rappresentanza elettorale, della parità del voto dei cittadini e della stessa sovranità popolare (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014).
Infatti, per limitarci agli esempi più rilevanti, grazie al Porcellum, il Pd anziché 165 seggi ottenne 292 seggi, mentre il PdL anziché 148 seggi ne ottenne 97, la lista Monti anziché 57 ne ottenne 37 e il M5S anziché 166 ne ottenne 108. In forza degli ovvii fondamentali principi delle democrazie parlamentari, avrebbe quindi dovuto disporsi l’immediato scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica e la convocazione dei comizi elettorali per un nuovo Parlamento.
Tuttavia la Corte costituzionale - alla luce dell’altrettanto ovvio principio secondo il quale le leggi elettorali sono «”costituzionalmente necessarie”, in quanto “indispensabili” per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» - opportunamente avvertì che lo scioglimento delle Camere non avrebbe potuto avvenire se non dopo l’approvazione di nuove leggi elettorali, rispettose della rappresentanza elettorale e della parità del voto.
Pertanto, le leggi che fossero state successivamente approvate nella XVII legislatura - ancorché viziata - , avrebbero dovuto essere considerate legittime grazie al «principio fondamentale della continuità dello Stato» e dei suoi organi costituzionali (così, ancora, la Corte): un principio che però - si badi bene - non si pone, né si può porre, come “alternativo” al principio democratico: irrispettoso del voto popolare come fonte di legittimazione dell’operato delle Camere. Il che è tanto vero che nelle ultimissime battute della sentenza n. 1 del 2014, la Corte, nel richiamare gli articoli 61 e 77 della Costituzione, fa chiaramente comprendere che il principio della continuità avrebbe potuto valere tutt’al più per pochi mesi.
Ciò nondimeno, appena quattro mesi dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta e due mesi dopo la costituzione del suo governo, il premier Renzi dava irresponsabilmente inizio ad un percorso di riforma costituzionale, che le opposizioni immediatamente e ripetutamente criticarono, in via preliminare, sia al Senato (e poi anche alla Camera), perché il disegno di legge Boschi si poneva in plateale contrasto con la sentenza della Corte costituzionale. Notevole e assai importante, in tal senso, è il documento contenente la questione pregiudiziale posta dai senatori Crimi, Endrizzi, Magili, Morra e altri (M5S), presentato il 4 luglio 2014, ovviamente respinto dalla maggioranza.
È bensì vero che, in quei primi mesi del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco e quindi in quel momento era sconsigliabile. Tuttavia altro è continuare, nell’ordinaria funzione legislativa e di controllo, con un Parlamento delegittimato, ma per un periodo limitato del tempo, altro è l’azzardo istituzionale di dare inizio ad una mega riforma costituzionale con un Parlamento viziato dall’«eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa», con parlamentari “nominati” insicuri di essere rieletti e perciò esposti alla mercé del migliore offerente (le migrazioni da un gruppo all’altro sono state ben oltre 300!).
Non sto qui a ricordare le palesi violazioni procedurali che hanno costellato il procedimento di riforma costituzionale (irrituali sostituzioni di componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato, privazione delle opposizione del diritto di avere un relatore di minoranza, applicazione del metodo del “super canguro” per porre fuori gioco gli emendamenti delle opposizioni, e così via) che hanno abbassato il disegno di legge Boschi a livello di una qualsiasi legge ordinaria, né sto a lamentare ancora una volta le plateali violazioni costituzionali poste in essere dalla riforma Boschi da me ripetutamente evidenziate in questo giornale.
È infatti sufficiente ricordare che questa riforma - pasticciata e incostituzionale perché viola l’elettività diretta del Senato, il principio di eguaglianza e di razionalità nella composizione del Senato, la rilevanza costituzionale delle autonomie regionali e così via - è stata criticata da ben dieci ex presidenti e da dieci ex presidenti della Corte costituzionale. Il che non era mai accaduto finora.
Piuttosto è doveroso sottolineare che, nonostante la sua gravità, la violazione della sentenza della Corte e l’illegittimità della XVII legislatura sembrano esser state “rimosse” dalla memoria dei sostenitori del Sì (penso all’intervista di Giorgio Napolitano del 10 settembre su questo giornale) o, quanto meno, “dimenticate” dai sostenitori del No (alludo a Massimo D’Alema, che ritiene che la XVII legislatura andrebbe sciolta alla sua scadenza del 2018!).
La gravità dell’accaduto è invece tale da configurare - qualora l’esito del referendum fosse positivo - un “fatto eversivo” della vigente Costituzione, che pertanto inciderebbe, con la forza del “potere costituente”, sui rapporti Stato-Regioni (e quindi sulla forma di Stato), sulla forma di governo nonché sulla stessa Parte prima della nostra Costituzione.
Cioè sulle forme di esercizio della sovranità popolare, sul principio di eguaglianza, sulla libertà di voto e sugli stessi diritti sociali. Il che avverrebbe grazie ad un Parlamento privo di contro- poteri, con un Senato ridotto ai minimi termini e incapace di funzionare e con i diritti delle opposizioni rimesse ai regolamenti parlamentari alla mercé della maggioranza.
«Chiusi i locali dell'organizzazione per la difesa dei diritti umani. L'autorità si giustifica citando mancati pagamenti. L'organizzazione si difende: "Siamo in regola". Sulla situazione lo spettro della legge contro le ong non gradite alla Russia di Putin».
Il Fatto Quotidiano online, 3 novembre 2016 (p.d.)
Gli uffici di Amnesty International a Mosca sono stati sigillati la notte scorsa dalle autorità. Questa mattina, i dipendenti di Amnesty hanno trovato serratura e sistema d’allarme disinnescati, l’elettricità tagliata e l’ingresso dell’ufficio sigillato. Motivo? Ufficialmente, per le autorità, la ong non ha pagato l’affitto della sede. Sulla porta è stato apposto un foglio della “Città di Mosca” in cui si comunica che i locali “sono di proprietà di una città della Federazione russa“, intimando il divieto di accesso se non accompagnati da un funzionario del Comune. Gli impiegati hanno chiamato il numero di telefono indicato sul foglio ma senza ricevere risposta.
I locali sono stati concessi in affitto ad Amnesty dal dipartimento delle proprietà pubbliche, ovvero il Comune, con un contratto di 20 anni. Serghiei Nikitin, responsabile del ramo russo dell’associazione per la difesa dei diritti umani, ha fatto sapere che Amnesty International paga regolarmente l’affitto. Aggiungendo inoltre di “non avere idea” del perché la sede sia stata chiusa e augurandosi che quanto avvenuto non sia da ricollegare all’attività dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani.
“Non sappiamo cosa abbia portato le autorità russe a impedire al nostro staff di entrare negli uffici: una brutta sorpresa di cui non avevamo ricevuto alcun avvertimento”, ha commentato in una nota pubblicata sul sito dell’organizzazione John Dalhuisen, direttore di Amnesty per l’Europa e per l’Asia centrale. “Considerato il clima in cui attualmente lavora la società civile in Russia – ha aggiunto Dalhuisen – ci sono diverse spiegazioni plausibili, ma è troppo presto per trarre qualsiasi conclusione. Stiamo cercando di risolvere la situazione il più velocemente possibile”.
Al momento sono 147 le organizzazioni non governative russe considerate come ‘agente straniero’, secondo la legge varata nel 2012. Amnesty è stata una delle prime organizzazioni proposte come “indesiderabili“, in attuazione alla legge contro le strutture accusate di minacciare la “sicurezza dello stato”. Ma, ad oggi, non compare nell’elenco di cui invece fanno parte altre sette organizzazioni.
Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)
La mafia è una società di servizi alla quale le aziende del nord fanno fatica a rinunciare, specie in tempo di crisi. Le aziende sporche entrano in contatto con realtà imprenditoriali apparentemente pulite per far quadrare il fatturato, con emissioni di fatture false e fondi neri, eventuale recupero crediti e, per abbattere i costi, specializzandosi in attività altrimenti particolarmente onerose, come lo smaltimento dei rifiuti pericolosi (ricavi per 19,6 miliardi di euro). È un abbraccio cercato e voluto, che si conclude quasi sempre nel consegnare l’azienda nelle mani delle associazioni criminali.
A Reggio Emilia, dove si tiene uno dei più grossi processi di mafia del Nord, addirittura gli imprenditori indebitati con le cosche negano l’evidenza di alcune intercettazioni telefoniche, dalle quali emergono esplicite minacce di morte subìte. “Toni amichevoli”, precisa l’imputato , un po’ come Silvio Berlusconi dopo l’attentato mafioso alla sede Fininvest del 28 novembre 1986. Ipotizza sia stato il suo “stalliere”, Vittorio Mangano, ma con l’amico Dell’Utri sottolinea: “una cosa fatta con molto rispetto, quasi con affetto”. Si trattava di una bomba.
Se il traffico degli affari “leciti” tracciabili della sola 'ndrangheta è sopra i 53 miliardi di euro l'anno, significa che sotto ce ne sono almeno il doppio in nero. Un volume che tira su il Pil nazionale di 3,5 punti percentuale. Un'azienda capace di trattare armi, droga, frutta, verdura, fiori, movimento terra, sfruttamento della manodopera clandestina e ogni altro business appetibile per la 'ndrangheta Spa.
Da vocabolario il termine “infiltrazione”, rimanda a un “passaggio lento e continuo, consentito dalla permeabilità o dalla scarsa capacità di tenuta” delle condutture, in caso di liquidi. In questo caso la scarsa capacità di tenuta è della società che ha permesso e accettato di fare affari con la criminalità organizzata. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato da Lilli Gruber: “Nell'arco di 5 anni si potrebbero abbattere le mafie del 70%, ma non ci sono i numeri in Parlamento per risolvere il problema, perché il potere non vuole essere controllato”.
Ecco perché parlare di “infiltrazioni” è un’ipocrisia. Dovremmo chiamarle scelte, opportunità, presenze radicate, per restituire all’opinione pubblica, e alla politica, una rappresentazione della realtà più fedele possibile. Mentre le mafie negli anni sono cresciute, il Paese continua a fronteggiarle con gli stessi metodi dei tempi di coppole e lupare. Abbiamo bisogno di strumenti normativi adeguati, di polizie specializzate, che possano mettere sotto la lente le amministrazioni pubbliche e private e anche di una magistratura più esperta. Un lessico onesto renderebbe il dibattito più costruttivo. Per dirla con Thomas Reid, “non esiste più grande impedimento per l’avanzare della conoscenza che l’ambiguità delle parole”.
Molte verità nella riflessione sul "cadavere della democrazia" presentata sotto la maschera di un'intervista di Stefano Benni a se stesso. Il potere in un mondo non abitato più da cittadini, ma da clienti, connessi, degenti, spettatori, fanatici e fuggiaschi. Il
Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2016
Il tono paradossale delle risposte del Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria.
Potrebbe farci qualche esempio?
«La tecnocrazia, la plutocrazia finanziaria più o meno mafiosa, la teocrazia, persino la farmacocrazia e le ludocrazie-onagrocrazie culturali. Agiscono tutte con progetti, scopi e morali proprie. Preferiscono a volte operare in una finzione di democrazia, o allinearsi a una dittatura, ma la loro ideologia è quanto di più lontano ci possa essere dal rispetto del volere popolare. Il consumatore, il cliente, il connesso, il degente, lo spettatore, il fanatico sono i loro sudditi, non il cittadino. Li chiamano talvolta poteri forti ma sono piuttosto poteri folli, che disprezzano la vecchia ratio del bene comune. Anche se talvolta scelgono un volto per apparire, preferiscono essere invisibili. Ascoltano solo voci selezionate da loro: la banca dati, l’audience, il sondaggio, il call center hanno sostituito la piazza. Recentemente ho sentito il termine social-democrazia, col trattino, per celebrare il web. Invenzione dolce e consolatoria. Il web è un’oligarchia, anzi ha creato gli ultimi monarchi. Steve Jobs è l’ultimo dei semi-dei prometeici».
Uno dei suoi concetti più dibattuti è quello di Stato-schermo. Quindi lo Stato esiste ancora?
«Anche un anarchico non può fare a meno di una bandiera, diceva De Selby. Lo Stato è uno schermo sul quale le pluricrazie proiettano la loro immagine in modo rassicurante. Ma lo Stato non ha più nessun contenuto, è fatto di trame scritte altrove, di recite dove ruotano i cast di maggioranza e opposizione, di attori brillanti o tragici. Se mi chiedessero a cosa somigliano Trump e Hillary, direi Gambadilegno e la fata di Cenerentola. Ogni vera decisione è presa dal SOP, che la trasferisce allo Stato-schermo perché la trasmetta ai cittadini. Le pluricrazie sanno bene che cose come il voto, la legge, l’esercito, i confini, la bandiera e la Nazionale di calcio sono rassicuranti. Essere in balia dell’informe spaventerebbe. Si accetta che la squadra del cuore venga comprata da un miliardario russo o da uno sceicco, ma guai a cambiare i colori della maglia. Bisogna avere uno schermo su cui proiettare lamenti e rabbia, nell’illusione di essere considerati. L’ultima forma della democrazia è la frenocrazia, la possibilità per ognuno di lagnarsi e dare la colpa a qualcuno della propria infelicità. Ma è un Paraclausithyron, un lamento a una porta chiusa».
Lei è totalmente pessimista. Ma è possibile il progresso o la pace con le pluricrazie?
«Il progresso di tutti non esiste più, esiste soltanto il progressivo rafforzamento delle pluricrazie. In quanto alla pace la guerra moderna non è più tra Stati, basta vedere la frammentazione del conflitto mediorientale per rendersene conto. È un continuo scontro tra avidità contrapposte, ammantato di motivazioni religiose, storiche o etniche, più complesso e imprevedibile delle guerre del passato. Uno Stato potrebbe volere la pace, ma lo spingeranno in guerra i suoi petrolieri o i produttori di armi, i suoi servizi segreti deviati o un gruppo religioso bramoso di anime e di territorio, un impero mafioso, o un’azienda che ha bisogno di materie prime e nuovi mercati. È più facile immaginare una guerra nucleare tra Google e Microsoft, o tra AT&T e Verizon, o tra Hollywood e Bollywood, che tra Usa e Russia».
Quindi lei non ha soluzioni?
«No, e se le avessi me le avrebbero già prese con la forza. Le pluricrazie hanno vinto. Non so se troveranno una forma di convivenza o distruggeranno il pianeta nella battaglia per la supremazia. Quello che è certo è che non lasceranno più spazio a nessuna forma democratica che non sia secondaria e sottomessa. Il parassita ha divorato l’ospite. Solo la nascita di una nuova coscienza della libertà, una totale disconnessione della nostra vita dal sistema pluricratico potrebbe salvarci, ma io non spero più. Singoli gruppi possono inserirsi negli spazi vuoti dell’invasione del SOP, ma questi spazi sono sempre più stretti e stritolanti»
Si dice che lei sia consigliere di Bill Gates e di Putin. Ma che consigli potrebbero avere da lei?
«Sono calunnie. Io riesco a malapena a consigliare qualche libro ai miei alunni. Sono un pensatore, e come tutte le forme di intelligenza autonoma, sono destinato a scomparire. Ho deciso di lasciare qualcosa di scritto perché per un attimo potrebbe intralciare le pluricrazie e costringerle a uno sforzo per disinnescare il mio discorso. Ma entro pochi mesi, il mio pensiero sarà ingoiato dal loro magma, oppure in nome delle mie parole nascerà una pluricrazia perversa».
Un’ultima domanda : il dramma dei migranti?
«Non si “emigra” più, si fugge e basta, Al SOP di tutto questo non frega nulla, le pluricrazie non hanno né patria né confini né ricordi. A loro non interessa la sofferenza degli individui, ma quella dei bilanci. Le pluricrazie rendono invivibili i Paesi con sfruttamento e guerre costringendo la gente a fuggire, poi costringono gli Stati-schermo e i volonterosi a occuparsene. Sono agenzie turistiche sataniche.
Una parola di speranza?
«La chieda alle pluricrazie, ne hanno di diverse e molto seducenti»
«La stella rossa sovrastava una stazione ferroviaria della ex Jugoslavia è trasportata a Palazzo Madama, a Roma, dove è stata oggetto di un’esposizione insieme ad altre testimonianze della Storia dell’ultimo secolo».
La Repubblica 28 ottobre 2016 (c.m.c.)
«È finita la benzina, non ne abbiamo più per continuare il viaggio». Il militante socialista francese, al quartier generale, parla così della presidenza di Hollande e del suo partito davanti ai cronisti. E descrive le riunioni come un «funerale di famiglia». Ma questa cupa atmosfera tra i socialisti riguarda solo la Francia? A Parigi piangono, ma anche a Madrid, Londra e Berlino hanno poco da festeggiare. I momenti della sinistra “gloom and doom” — come li chiamava Eric Hobsbawm, avvilimento e senso di fosco destino — non sono nuovi, ma stavolta la speranza non trova varchi.
Nella capitale francese i sondaggi confermano il militante scoraggiato. Alle prossime presidenziali il leader socialista in carica non arriverebbe al ballottaggio, dietro a Le Pen e Juppé (o Sarkozy?) e forse persino a Mélenchon. Il suo indice di gradimento ha raggiunto il minimo depressionario del 4%. Altrove in Europa le percentuali sono più alte, ma nessuno appare in corsa per la vittoria, come accadeva non tanto tempo fa.
Pedro Sánchez si è dimesso dopo 9 mesi di tormentosa resistenza all’idea di appoggiare il governo Rajoy; ora il Psoe ne consentirà, con l’astensione, la nascita. Che sia o no una vera coalizione, sarà Podemos a trarne beneficio. E la sinistra aggraverà le sue divisioni.
La Spd di Sigmar Gabriel naviga anche lei con le vele ammosciate intorno al 20 per cento; il suo elettorato è saccheggiato dalla Linke e dai populisti, gli iscritti sono scesi da un milione a 400mila, ed è al governo, ma solo perché sta sulla scia della Merkel.
Il Labour di Jeremy Corbyn appare sempre più lontano dal governo. Il leader dell’opposizione britannica ha vinto il congresso nonostante lo scontro con il gruppo parlamentare e il gabinetto ombra. Ha potuto proclamare il suo come «il più grande partito socialista dell’Europa occidentale». Detto da lui sembra una buona notizia, che esalta il nucleo dei suoi sostenitori, ma quelle parole segnano anche un cambiamento radicale, la fine del New Labour inteso come grande partito di centrosinistra, capace di tenere i conservatori all’opposizione per tre mandati. Socialismo per Corbyn significa nazionalizzazioni e dunque rappresenta un’inversione di marcia che sta portando il gruppo dirigente fino al rischio di una scissione.
Questi quattro grandi partiti sono presi nella morsa degli interrogativi sulla propria identità: forze con un passato di governo, con un seguito e un’organizzazione imponente, e oggi assediate dal voto populista e ristrette in dimensioni e ruoli minori. Non hanno retto al cambio di paradigma dell’economia e della politica. La perdita di chiari connotati sociali o ideologici, la frammentazione sociale e comunicativa, l’aggregarsi del consenso in forme volatili intorno a leadership con poche, o senza, mediazioni organizzate, tutto questo scatena reazioni nostalgiche. E la sinistra italiana?
Se il Labour aveva fatto il salto nella nuova dimensione nel ‘98, il Partito democratico italiano l’ha cominciato 9 anni dopo, nel 2007, assumendo con Veltroni la forma attuale, disegnata per conquistare la maggioranza senza coalizione, e completandola con Renzi che ha allargato i consensi nel bacino elettorale del centro. Ma i laburisti hanno ora praticamente revocato l’innovazione e nei sondaggi stanno a distanze abissali dal governo.
Quanto al PD, invece, la difende ancora, anche se l’erosione populista e la minaccia permanente di una guerra civile interna ad opera della minoranza tendono a riportarlo al passato. Per aprire, nel 2013, con la vittoria di Renzi, la prospettiva di un partito piglia-tutto, sono state decisive le primarie aperte potenzialmente a tutto l’elettorato e non solo agli affiliati (come invece per il Labour). Non è un caso che siano proprio le primarie il punto di attacco della vecchia guardia, che vorrebbe ricondurre la scelta del segretario ai soli iscritti, per rimettere le cose “al loro posto” e ritornare nel vecchio alveo degli elettori d’antan (nel frattempo fisiologicamente diminuiti). Un ritorno alla “normalità’”, insomma, che viene implacabilmente desiderato, da alcuni, come un destino di ridimensionamento.
Per quanto strano, la struggente ambizione di evitare il governo può fiorire anche a sinistra, non solo tra i populisti dell’antipolitica (il sindaco di Roma ne sa qualcosa). E quando si perdono consensi ci si ritrova, come accade ora ai socialisti francesi, a desiderare di influire sulle primarie degli altri, cioè della destra, per poter votare Juppé, in modo da evitare di ritrovarsi al ballottaggio Sarkozy come unica alternativa a Marine Le Pen (e forse più facilmente con lei soccombente).
Anche l’economista Thomas Piketty, giunti a questo punto, come ha confessato al Nouvel Observateur, è pronto a firmare la carta dei valori della destra (condizione per partecipare alle primarie) pur di assicurarsi il meno peggio, per tutti.
È giusto utilizzare quel tantum di stupidità che c'è in ciascuno di noi sudditi (e quindi aumentarlo) per raggiungere un po' più efficacemente obiettivi politici virtuosi? Qualcuno, giustamente, dice di no, e ricorda il meccanismo che portò alla Shoa.
il manifesto, 28 ottobre 2016
Il succo è presto detto: le teorie comportamentiste si basano sulla premessa che il comportamento umano non solo non è razionale, ma neppure molto intelligente. Le persone sono preda di pregiudizi, sono condizionate dal comportamento altrui, si sopravvalutano e tendono a fare tante altre cose sciocche, come ingigantire la minuscola probabilità di successo legata all’estrazione di una lotteria; le politiche pubbliche possono sfruttare questi difetti della ‘natura umana’ per migliorare la propria efficienza in termini di raggiungimento dello scopo e prevedibilità del rapporto spese-risultati. Detto altrimenti, e per quanto paradossale sia, le politiche pubbliche basate sul comportamentismo sono politiche (che si reputano) ‘intelligenti’ in quanto sfruttano l’idiozia della gente comune, che danno per scontata. Non solo: esse considerano la povertà intellettuale delle persone, postulata come dato di natura, non come un problema da affrontare – per esempio con l’educazione, no? – ma come una risorsa da mantenere e anzi da accrescere il più possibile, dal momento che può essere facilmente sfruttata per raggiungere risultati. Il presupposto del comportamentismo applicato alle politiche pubbliche è che sopra stanno i policy makers, intelligenti e consapevoli, sotto la gente, sciocca e condizionabile: il padrone premia il cane mentre lo addestra (salvo smettere di premiarlo quando avrà imparato bene) e la ‘natura umana’ si scinde in due. Una, quella vera e propria, razionale e libera, chi governa la riconosce a se stesso (o meglio, agli apparati in cui si spersonalizza, apparati che, come oggi si dice, ’riflettono’, dunque sono animati da intelligenza); l’altra, di tipo animale, spetta al resto dell’umanità, ammasso di bestioline, che siccome non sanno concepire il bene e il giusto, vanno addestrate sfruttando le loro ingenue, animalesche fantasie, come quella di arricchirsi a buon mercato che per loro, si sa, vale come uno zuccherino. Sotto il volto furbetto e ‘smart’ di queste politiche lavora più dura che mai l’istanza di disciplinamento compagna di ogni tentazione autoritaria, agisce la rinuncia deliberata a un progetto di convivenza civile.
Combattere l’evasione fiscale, onde aumentarne il gettito, o perseguire qualunque altro fine, pur di per sé condivisibile, adottando politiche basate sul comportamentismo è scelta che dovrebbe essere circondata da un ampio dibattito, perché investe questioni più decisive di qualche punto percentuale nel saldo di bilancio.
E’ problematica la compatibilità di questi metodi con le premesse di democrazie che affermano la pari dignità di tutti i cittadini (e di essi rispetto a chi li governa), tutelano il libero sviluppo della personalità, si propongono pari opportunità per tutti (l’opportunità di sviluppare la propria intelligenza, per esempio) e pertanto vietano la strumentalizzazione degli individui ai fini propri degli apparati governanti.
Sono democrazie, le nostre, nate dalla ‘catastrofe’: orrificate dal campo di sterminio, esse ci avvertono che ogni concezione concentrazionaria inizia con la riduzione dell’individuo a elemento statistico. Invece, riceviamo queste politiche come prodotto finito di una elaborazione che tiene la società ai margini perché la colloca al di sotto di sé, e avviene in modo autoreferenziale (c’è anche l’apposito gruppo di esperti in-house incaricato di sancire la ‘compatibilità etica’ di queste scelte).
Una risata vi sommergerà? Oggi è il potere che ride di noi, ma se ride di noi, come potrà rispettarci? Non è mai troppo tardi per chiederselo.
«Nessuno è in grado di spiegare quali siano le differenze tra la "valorizzazione" (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la "promozione" (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso».
La Repubblica 28 ottobre 2016 (c.m.c.)
Con il referendum d’autunno saremo chiamati a decidere anche del futuro dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Non molti lo sanno, perché il dibattito sulla riforma costituzionale non ha finora lasciato spazio all’analisi dell’impatto che essa avrà su quest’ambito cruciale. Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze rilevanti.
Come è ben noto, l’assetto attuale di quell’articolo è frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega. Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali ».
Una mediazione che ha funzionato solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica. Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del patrimonio culturale.
Una riforma di quella riforma era dunque auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno dividendo le competenze con chiarezza.
Non è questo, purtroppo, l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una parte l’articolo 117 ricompone l’unità naturale assegnando (condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici », dall’altra lo stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici».
Esattamente come nel caso, ben più noto, dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso commerciale nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso.
Ma cosa ha in mente il riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di promozione? Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che, d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti ufficiali del Mibact arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del 2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo».
Se, dunque, la promozione è questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario, l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.
La grave approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle competenze — strettamente collegate — in materia di governo del territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei piani paesaggistici.
L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Tutte materie, queste, che l’articolo 116 esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua, invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il paesaggio.
La ratio di queste norme era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle.
E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria. Insomma: se si tratta di decidere come consumare il suolo, le Regioni vengono escluse. Ma vengono invece riammesse al banchetto della mercificazione del patrimonio culturale. C’è evidentemente del metodo in questa, pur confusa, revisione costituzionale: ma è un metodo che rafforza le ragioni di chi si appresta a votare no.
Disperante rendersi conto di quanto siano antiquati i residui della sinistra novecentesca, se ancora il discrimine è se allearsi o meno (e semmai quanto) con il capitalismo neoliberista rappresentato da Matteo Renzi...
il manifesto, 28 ottobre 2016
Oggetto del confronto, che a sinistra finisce sempre per essere un eufemismo, è il modo con cui sarà sciolta Sel, «superata» o «liquidata» a seconda di chi parla. La liturgia dovrebbe essere breve, c’è chi sostiene anche troppo sbrigativa: una riunione di presidenza il 4 novembre, poi un’assemblea nazionale il 6 con la proposta da parte di Vendola di un documento di scioglimento che a stretto giro sarà sottoposto alla consultazione degli ex iscritti nelle assemblee provinciali.
Ma la road map ha raccolto dissensi prima in segreteria e poi anche fra i parlamentari. È pacifico lo scioglimento di un partito di fatto già inesistente (un po’ ovunque, ma non dappertutto, i militanti sono passati sotto le nuove insegne di Sinistra italiana). Non è pacifica invece la modalità del travaso o della «trasformazione» in Sinistra italiana, dove l’eredità di Sel – quella ideale ma anche quella materiale – dovrebbe riversarsi, in teoria, in un contenitore più ampio. Ma c’è chi si preoccupa delle defezioni di peso: dall’ex sindaco Pisapia a quasi tutto il partito sardo, Massimo Zedda in testa, fino alla presidente della camera Laura Boldrini, fredda forse non solo per motivi istituzionali. Uomini e donne della nouvelle vague vendoliana, quella dei tempi del movimento arancione e della coalizione Italia bene comune. Chi resta, chi va e perché: temi delicati da affrontare – altra critica avanzata – nel pieno della «battaglia della vita» e cioè la campagna referendaria il cui esito cambierà comunque tutto il quadro politico italiano. Differenze, «articolazioni», le chiama Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel e front man di Si, rimandando tutto all’assemblea, e poi al congresso fondazione del nuovo soggetto, a febbraio.
Perché il vero busillis resta questo: se il nuovo partito debba essere uno dei soggetti della sinistra, magari per stringere poi un cartello elettorale con i compagni di questa strada (Prc, Possibile, Altra europa con Tsipras); o se debba invece tentare il «big bang», vecchio cavallo di battaglia vendoliano, con i militanti e gli elettori in fuga dal renzismo ma fin qui non attratti dalla nuova bandiera. Le due ipotesi vengono vissute in alternativa; non è detto che lo siano. Molto dipenderà dall’esito referendario e da quello che succede nell’adiacente campo del Pd.
Dove intanto qualcosa stavolta pare si muova davvero. Massimo D’Alema ormai parla esplicitamente di «nuovo soggetto di sinistra» e sarà ospite del battesimo a Roma dell’associazione Alternative, che nascerà il secondo week end di novembre dall’interno di Sel per «uscire fuori dal recinto». Il governatore Enrico Rossi, che vota sì «turandosi il naso», cerca sponde a sinistra oltre la Toscana, e infatti oggi a Roma presenterà il suo libro Rivoluzione socialista con Massimiliano Smeriglio (Sel-Si). E poi c’è Pisapia che tenta di «ricostruire un centro-sinistra, o magari una sinistra-centro». Con la benedizione del Pd, renziano e non, per una nuova formazione di sinistra ’alleabile’.
Un confronto tra Raniero La Valle e Michele Serra su un argomento rilevante del dibattito politico di queste settimane; nonché sul futuro di noi tutti.
La Repubblica, 26 ottobre 2016, con postilla
LA DOMANDA
di Raniero La Valle
CARO Serra, su “L’amaca” di domenica scorsa, lei si è mostrato d’accordo — e la ringrazio — con la mia “spiegazione” (citata da Micromega), secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lei definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lei stesso si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto. Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione per votare “Sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.
È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata su Repubblica. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica. Ma nel passaggio dello scettro dal popolo ai signori del Mercato non c’è solo la sconfitta della sinistra, c’è la sconfitta di tutto il costituzionalismo moderno e dello stesso Stato di diritto: il popolo sovrano è il cardine stesso della democrazia e della Costituzione. Mettere super partes la nuova realtà per cui esso è tolto dal trono, sottrarre questo mutamento alla lotta politica, accettarlo come un fatto compiuto e finale, non è solo un efficientismo da quarantenni, è una scelta. E se a farlo è la sinistra, non è solo una sconfitta, è una caduta nella “sindrome di Stoccolma”, è un suicidio, ma col giubbotto esplosivo addosso, che distrugge insieme alla sinistra la politica, la democrazia e la libertà.
LA RISPOSTA
di Michele Serra
CARO La Valle, io credo che la riforma Boschi- Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la “sovranità dei mercati”) già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.
Credo anche che di quei mutamenti strutturali della società occidentale, in specie della fine della centralità operaia e del lavoro salariato a tempo determinato, Renzi non sia certo il fautore, né, per dirla con una battuta, l’utilizzatore finale. Al massimo gli si può imputare di esserne il gestore a cose fatte, ma al pari di TUTTA la politica corrente, che appare succube degli assetti economici e con un margine di intervento minimo. Veda un poco, come vicenda amaramente esemplare, il pochissimo che è riuscito a fare il governo di sinistra-sinistra insediatosi in Grecia con la speranza, evidentemente eccessiva, di un cambiamento paradigmatico rispetto alle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.
Infine, per utilizzare il suo stesso metro di valutazione, le dirò che la “sovranità del popolo” non mi pare sia stata efficacemente rappresentata e tutelata dai precedenti assetti normativo-funzionali delle nostre istituzioni, a meno che i 62 governi (in neanche settant’anni) che hanno preceduto questo siano da considerarsi il sintomo di una estrema vivacità politica del popolo italiano.
postilla
Una risposta davvero deludente quella di Michele Serra. Ecco un altro che crede nella “fatalità” di una politica che si accoda agli eventi invece di cercar di guidarli, magari contrastandoli. Ecco un altro che crede nel primato della difesa dell’economia data (l’ultima incarnazione del capitalismo) su ogni ricerca di possibili alternativa. Ed ecco un altro che parla della riforma Renzi-Boschi senza averla studiata, se scrive, come scrive, di leggervi una semplificazione degli iter legislativi; e che comunque non la legge nel contesto in cui viene imposta, se scrive di un “blando rafforzamento” dell’esecutivo, e non del consolidamento di un processo avviato da Renzi fin dal giorno del suo impadronirsi del PD.
Deludente infine quando poi misura la “sovranità popolare” nel numero di governi succedutisi in 70 anni, anziché nel suggello che la Costituzione del 1948 seppe dare al lavoro iniziato dai tempi della rivoluzione borghese (come ricorda La Valle), ripreso e sviluppato con la Resistenza e condotto a un primo traguardo nella comprensione del valore della democrazia come strumento per la costruzione di una società pluralista.
Noterelle sulle lacerazioni tra i diversi "socialismi" (se così si può dire) europei.
L'Espresso, blog "Piovono rane", 25 ottobre 2016
Se guardate altri partiti socialisti europei (e non solo), vedete che la dinamica è spesso simile. Il Labour - quello che vent'anni fa ha aperto la strada alla "sinistra che fa cose di destra" - si è spaccato due volte sull'elezione di Corbyn, osteggiatissima dal suo gruppo parlamentare ma fortemente voluta dalla maggioranza dei suoi iscritti (61.8%). In Francia, François Hollande ha conquistato la leadership e l'Eliseo con un programma fortemente di sinistra, poi ha fatto tutto il contrario e oggi è in caduta libera nei sondaggi; alle primarie del Ps sarà sfidato dall'ex ministro dell'Economia Arnaud Montebourg, alfiere della lotta al capitalismo mondializzato e fatto fuori da Hollande proprio perché - secondo lui - troppo di sinistra. Negli Stati Uniti i socialisti come partito non esistono ma la dinamica delle primarie democratiche non è stata così lontana da quella europea: grossolanamente, con un candidato anti-establishment (Sanders) versus un candidato più centrista (Hillary). In Portogallo i socialisti di António Costa hanno scelto di governare con i due partiti della sinistra più radicale: un esecutivo che cammina in bilico tra gli obblighi imposti dalla Troika e il rispetto degli ideali ridistribuitivi della sinistra.
Sull'Italia non voglio dilungarmi troppo per non generare inutili flame su Renzi, cioè il Blair nostrano: basti ricordare che l'elettorato di sinistra è ormai diasporizzato tra l'astensione, il M5s, l'abbrivo affettivo al Pd e i cascami sparsi della cosiddetta sinistra radicale. E va aggiunto che anche dentro al Pd convivono anime blairiane e corbyniane, per capirci.
Più in generale, la situazione dei socialisti nel mondo è nota da tempo: la globalizzazione ne ha ridotto drasticamente i margini di azione, quindi il senso stesso, la ragione sociale. «Partigiani inflessibili del compromesso tra il capitale e il lavoro, i socialdemocratici non possono ritrovare la forza che avevano nel dopoguerra perché oggi i dipendenti non hanno più la possibilità di imporre concessioni sociali al capitale. Questo perché una nuova rivoluzione industriale ha smantellato le grandi fortezze operaie e perché la riduzione delle distanze permette al capitale di sfuggire alle leggi nazionali andando a cercare altrove terreno fertile per i suoi investimenti. L’unico modo che avrebbero i dipendenti e la socialdemocrazia per modificare questa situazione sarebbe quello di favorire l’emergere di una potenza pubblica europea, le cui dimensioni continentali potrebbero piegare anche le più grandi aziende» (Bernard Guetta).
Quello che dice Guetta (l'ultima parte qui citata, intendo) è un po' il tentativo che sta facendo Yanis Varoufakis, con Diem25, ma lo stesso Guetta ne mette in luce le difficoltà, perché oggi se dici "Europa" ai ceti popolari questi mettono mano alla pistola, pensando a Juncker e Merkel, e chi può dargli torto. Di qui comunque tutte le lacerazioni, le spaccature, le discrasie evidenti: come in Gran Bretagna. O come l'ultima, tra la decisione dei socialisti spagnoli e quella dei loro cugini francesi.
E insomma, certo, ha ragione Guetta: l'ipotesi di essere socialisti facendo i socialisti è faticosissima, irta di ostacoli immensi, a rischio di musate clamorose. E potrebbe finire male.
In alternativa c'è l'altra strada, quella assai più comoda percorsa negli ultimi vent'anni, cioè essere socialisti facendo i liberisti, con il plauso della finanza e dei mercati - e il graduale allontanamento dei cittadini. Ma in questo caso - lo insegna bene il Pasok - l'estinzione non è un rischio: è, sul lungo, quasi una certezza.
La cacciata dei migranti dalla cosiddetta «giungla di Calais» è l’ennesimo, odioso, atto di repressione di un governo dell’Unione Europea che pensa di guadagnare consensi usando le maniere forti con i deboli, i disperati, i profughi che scappano dalle guerre che noi abbiamo provocato e gestito. Purtroppo, anche i governi di centrosinistra inseguono la destra estrema sul piano della durezza della repressione verso i migranti, accettando lo slogan diventato un luogo comune: ci stanno invadendo.
Ma, chi invade chi? Quanti migranti entrano in Italia in un anno, quanti sono i rifugiati nella Ue? Non lo sa nemmeno l’1 per mille della popolazione. La stragrande maggioranza della gente non conosce i numeri dei flussi migratori, e viene bombardata ogni giorno dal telegiornale che quantifica gli sbarchi giornalieri, con un ritmo incalzante, ma non fornisce dati sul fenomeno nel suo complesso, sia a livello nazionale che nel bacino del Mediterraneo. In tal modo è stato costruito lentamente, ma costantemente, un immaginario collettivo assolutamente falso e deviante.
Pochissimi sanno, o non vogliono sapere, che su quasi sei milioni di profughi siriani l’Ue ne accoglie solo il 15%, con i suoi 400 milioni di abitanti, per lo più concentrati in Serbia e in Germania, mentre un paese come la Giordania ne accoglie 700mila su una popolazione di 7,5 milioni. E addirittura il Libano ne accoglie 1,3 milioni con una popolazione di 4,5 milioni di abitanti! In proporzione è come se in Italia fossero arrivati 18 milioni di profughi! Provate a immaginare cosa sarebbe successo…
Su questa emergenza inventata si stanno costruendo le fortune politiche di partiti e leader razzisti e carichi di odio, si sta portando tutta l’Europa verso un processo di autodistruzione, strappando la trama istituzionale e culturale che in decenni era stata lavorata. L’Europa dei diritti, del welfare per tutti, del «sogno» che dieci anni fa ci ha raccontato Jeremy Rifkin, si sta sciogliendo velocemente come la neve sull’Etna dopo una giornata di scirocco. Come ci ricorda una famosa poesia di Bertol Brecht, prima è toccato agli ebrei, ai Rom, ai «neri», ora tocca ai profughi e domani… domani toccherà a noi, ai nostri poveri, esclusi, marginalizzati.
Infatti, in tutto l’Occidente, e non solo, si alzano muri per chilometri e chilometri, barriere di filo spinato, controlli spietati alle frontiere per respingere non lo straniero, ma i poveri che scappano dalle guerre e dalla fame.
I ricchi, i trafficanti di armi e droga, di qualunque nazionalità, colore della pelle, hanno invece diritto a entrare in qualunque paese del mondo. Per loro non ci sono muri e barriere che siano siriani o afgani, palestinesi o libici: sono i dannati della terra che devono restare fuori.
È la «nuova guerra ai poveri» che è scoppiata in tutto il mondo e che ci riporta al XVII secolo, il secolo della Grande Reclusione come è stato definito dal grande Fernand Braudel : «Questa ferocia borghese si aggraverà smisuratamente verso la fine del Cinquecento, e ancor più del Seicento. Il problema consisteva nel mettere i poveri in condizione di non nuocere (…) A poco a poco, attraverso tutto l’Occidente si moltiplicano le case per i poveri e indesiderabili, in cui l’internato è condannato al lavoro forzato: le Workhouses come le Zuchthauser, o le Maison de force, sorta di prigioni riunite sotto l’amministrazione del Grande Ospedale di Parigi fondato nel 1656. Questa “grande reclusione” dei poveri, dei pazzi, dei delinquenti, e anche dei minori, è uno degli aspetti psicologici della società razionale, implacabile nella sua ragione, del secolo XVII».
«o». libertàgiustizia,
Va premesso che chi ha redatto il presente documento non è contrario ad ogni riforma costituzionale, ma ritiene che una riforma costituzionale meriti approvazione solo se non si limita a rispettare la lettera dell’art. 138 sulla “revisione della costituzione” ma sia conforme allo spirito dell’intera Carta costituzionale del 1948.
Dichiarare che questa conformità è mantenuta perché la prima parte di quella Carta, che ne definisce i principi, non è stata toccata, è una falsità, perché ovviamente la seconda parte, sull’”ordinamento della Repubblica”, discende dalla parte sui principi. La riforma costituzionale Renzi-Boschi concerne l’assetto statale complessivo, perché limita notevolmente le autonomie locali e regionali, invece di perseguire l’obbiettivo originario di un rapporto equilibrato fra queste autonomie e il potere dello Stato centrale. Anche al di là della sua connessione piuttosto stretta con la legge elettorale denominata Italicum essa sancisce in un modo forse definitivo la crisi di un sistema che voleva essere prima di tutto parlamentare.
La riforma non fa nulla per dare spazio all’iniziativa dei cittadini nel costituirsi in quei corpi intermedi come partiti e sindacati che sono anch’essi manifestamente in crisi e nel regolare la vita democratica al loro interno; non fa nulla per limitare il peso crescente che ha il potere economico e finanziario rispetto a quello politico; tanto meno si cura dell’attuazione di quei principi della carta del 1948 che continuano ad essere poco effettivi.
Infine la nostra Carta fondamentale dovrebbe essere un documento nel quale tutti possano riconoscersi, mentre è manifesto che la riforma sottoposta a referendum è divisiva: il Si o il No prevarranno di poco, e se prevarrà il Si i contrari alla riforma tenderanno a non più riconoscersi nella Carta modificata, se prevarrà il No i favorevoli alla riforma tenderanno a considerare la Carta non modificata come un documento invecchiato e pertanto non meritevole di rispetto.
La prima riserva concerne dunque il metodo: una riforma costituzionale che abbia il massimo consenso deve essere fatta coinvolgendo per quanto è possibile tutte le forze politiche (non semplicemente Berlusconi e i suoi) e tutte le associazioni (come Libertà e Giustizia) che hanno interesse ad una buona riforma, e dando ascolto ai costituzionalisti più reputati – i quali invece per la maggior parte hanno aderito ad un documento di critica della riforma costituzionale – e ad altre persone che sono intervenute con loro proposte.
Com’è stato giustamente rilevato nel documento ora citato, «la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre.»
Non solo non si è proceduto nel modo suddetto, ma è evidente (nonostante quanto sostengono certi suoi fautori come l’ex-presidente Napolitano) che la riforma non discende da un’iniziativa autonoma del Parlamento ma è di iniziativa governativa. La conseguenza di questo modo di procedere così partigiano è che il referendum ha inevitabilmente conseguenze sulla sorte del governo,
Una seconda riserva concerne la scrittura degli articoli facenti parte della riforma: alcuni di essi (come l’art. 70) sono un esempio di scrittura per lo meno laboriosa, fra l’altro con rimandi ad altri articoli e commi. Non si è compreso che la Carta costituzionale ha funzione di indirizzo, mentre i punti più o meno dettagliati di procedura effettiva vanno stabiliti con legge ordinaria. E’ in gioco anche la qualità della nostra legislazione: almeno le principali leggi della Repubblica, a cominciare ovviamente dalla Costituzione, dovrebbero essere scritte in modo da essere comprensibili a tutti i cittadini, mentre vari osservatori notano un continuo peggioramento di quella qualità.
Quanto sta avvenendo è che i parlamentari rinunciano in modo crescente alla loro funzione di legislatori, affidando questo compito al governo, il quale a sua volta si avvale di funzionari, sicché la legislazione è in mano alla burocrazia che si rivolge a se stessa e non ai cittadini. Renzi, prima di diventare premier, predicava la semplificazione, poi si è zittito sul tema. (Non è l’unico e il primo a parlare di semplificazione: memorabile fu il falò di leggi inutili di Calderoli, che, se non fosse stato una burla carnevalesca, ci avrebbe in effetti lasciato del tutto senza leggi.)
Semplificare non è … semplice: richiede idee chiare sugli intenti di una legge in rapporto anche alle altre leggi vigenti, guardando dunque alla coerenza dei testi rispetto a tali intenti. Una funzione che avrebbe potuto essere esercitata da un Senato riformato è appunto di occuparsi della revisione, non semplicemente delle leggi appena approvate dalla Camera, ma di tutte le leggi vigenti, in modo da assicurarne l’uniformità od omogeneità e la comprensibilità, ovviamente riducendo sostanzialmente il loro numero (ogni nuova legge si aggiunge alle vecchie, con una crescita mostruosa del corpus legislativo che non ha paralleli in altri paesi europei).
I conflitti piuttosto frequenti che ci sono fra Stato e Regioni dipendono in larga misura dal fatto che anche queste legiferano senza curarsi di eventuali incompatibilità con le leggi nazionali, sicché pure in questo campo si impone una revisione. Una divisione chiara delle competenze fra Stato e Regioni tramite riforma costituzionale è certamente opportuna, ma risolve solo in parte i problemi. Quanto al famoso ping-pong fra Camera dei deputati e Senato deplorato da Renzi, esso è comunque evitabile con qualche riforma molto semplice (per esempio affidando l’armonizzazione delle leggi come approvate dalle differenti camere ad una commissione mista).
Una terza riserva concerne l’impostazione complessiva della riforma: si tratta di una riforma scombinata. Il nuovo Senato viene detto essere delle autonomie territoriali per come è composto: lo è, in certa misura, sul modello tedesco, ma quella tedesca è una Repubblica federale (Deutsche Bundes-Republik), cioè il nuovo Senato dovrebbe rappresentare un passo verso il federalismo. Invece la revisione del titolo V va in senso contrario, verso un rafforzamento del centralismo, a scapito di ogni autonomia.
A peggiorare le cose viene mantenuta l’autonomia delle regioni a statuto speciale, il cui riconoscimento nell’immediato dopoguerra aveva delle ragioni storiche che, almeno in gran parte (forse con la sola eccezione dell’Alto Adige), sono venute meno, con evidente sperequazione fra le regioni che perdono di autonomia e quelle che la mantengono in pieno. Non si può dire, per fare un esempio, che la regione Sicilia sia stata così bene amministrata da meritarsi questo trattamento speciale. Sono dunque fusi insieme tre sistemi politici di orientamento contrastante: un Senato che rappresenta autonomie quasi inesistenti; centralismo a scapito delle autonomie; autonomie che sussistono per alcune regioni.
A complicare ulteriormente le cose il terzo comma, modificato, dell’art. 116 prevede che, con apposita legge (approvata da entrambe le Camere), ad una certa regione che lo richiede sia concessa una certa maggiore autonomia (rispetto alle altre), purché «sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Ma realizzare tale equilibrio non dovrebbe essere una libera facoltà per singole regioni che viene premiata concedendole maggiore autonomia ma dovrebbe essere un obbligo per tutte le regioni – un obbligo che in effetti è sancito dall’art. 119 ma che, come si sa, è poco rispettato. (Questo comma, salvo l’indicazione di tale condizione, è una sorta di retaggio della riforma del 2001.)
La rappresentatività di un Senato non ottenuto per elezione diretta è ovviamente contestabile; anche la sua composizione poco omogenea (tre categorie diverse: senatori nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti” – cosa ci stanno a fare in un senato delle autonomie? – , consiglieri regionali e sindaci) lo è, come lo è il fatto che l’attività del Senato, che pur riguarda questioni impegnative, sia ridotta ad un lavoro part-time per persone che svolgono un’altra attività.
E’ stato denunciato da vari osservatori (a cominciare dai citati costituzionalisti) che la divisione di competenze fra le due camere è mal definita, per cui presumibilmente darà luogo a dei conflitti o comunque a complicati procedimenti legislativi. Il famoso risparmio nei costi della politica, oltre a non poter costituire un fine prioritario ma un fine in rapporto alle prestazioni, sarebbe stato meglio realizzato con una riduzione di numero sia dei senatori che dei deputati (nessuno dei difensori della riforma ci ha spiegato perché è indispensabile mantenere a 630 il numero dei deputati).
A questo modo si avrebbe un sistema più equilibrato (particolarmente desiderabile quando ci sia da eleggere il presidente della Repubblica), considerato che è ben possibile attribuire al Senato delle competenze utili che la Camera non possiede. Oltre alla competenza già sopra indicata esso potrebbe avere anche la competenza di esercitare una effettiva supervisione sull’attuazione delle leggi: spesso le leggi approvate dal Parlamento, anche perché debbono essere accompagnate da decreti che tardano, rimangono lettera morta o quasi o sono attuate in modo del tutto insoddisfacente, senza che nessuno se ne preoccupi, come se l’unico compito del Parlamento fosse quello di legiferare, legiferare, legiferare … le conseguenze sono lasciate alla provvidenza o al zampino del diavolo.
Come già sopra rilevato, ci si dovrebbe preoccupare anche della piena attuazione della Costituzione del 1948. (Per esempio poco viene fatto per attuare l’art. 9, secondo il quale «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. – Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»)
Un aspetto del rafforzamento del centralismo sta nell’abolizione delle province. Non è affatto ovvio che una riforma del genere, che sta venendo attuata in modo pasticciato, sia necessaria: le province sussistono per esempio nella vicina Svizzera, come unità amministrative intermedie fra i cantoni e i comuni, sotto il nome di distretti (Bezirke), senza che nessuno si sogni di abolirle. Una misura così drastica è apparsa opportuna, e incontra un largo favore, perché c’è stata una crescita eccessiva nel numero delle province e nel personale addetto, spesso scelto come si sa con criteri clientelari. Si elimina così l’effetto del male e non la sua causa. Del resto le province non sono state abolite del tutto, ma sostituite dalle cosiddette Città metropolitane (a tralasciare caritatevolmente il fatto che le Province di Trento e Bolzano continuano a sussistere) di numero assai più ridotto, con funzioni amministrative proprie, sicché non se ne contesta l’utilità.
La situazione è simile nel caso delle regioni, che anch’esse si sono espanse a dismisura nei loro poteri e nel loro personale, perfino stabilendo delle sedi di rappresentanza all’estero. (Oltre a riportare le province al loro numero originale o anche ad un numero più piccolo, si potevano accorpare alcune regioni, che in qualche caso equivalgono ad una o due province.)
Alcuni dei poteri ad esse concessi dalla non felice riforma del titolo V della Costituzione del 2001 sono eccessivi, perché è certamente desiderabile che ci sia una legislazione nazionale abbastanza uniforme: è singolare infatti che istituzioni di uno stesso Stato abbiano sistemi elettorali diversi, e non è opportuno che chi svolge attività (per esempio di trasporto) in più regioni debba sottoporsi a normative discrepanti, con perdita di tempo (come minimo) in adempimenti burocratici. Ma probabilmente sarebbe stato opportuno tornare, almeno in parte e con opportuni aggiornamenti, al testo della Costituzione del 1948, che era ben studiato nello stabilire un equilibrio fra potere centrale e poteri regionali. E’ prevalsa invece la solita volontà di nuovismo.
Deve poi essere rimarcato che, siccome gli amministratori delle Città metropolitane ex-province e i senatori del Nuovo Senato sono eletti in modo indiretto e non direttamente dai cittadini, alla crescita di centralismo si unisce una riduzione della partecipazione democratica. (Anche se non si tratta di una modifica della Costituzione, c’è da segnalare che questo ritorno al centralismo si manifesta anche nell’attribuzione di nuovi poteri ai prefetti tramite la legge Madia, fra l’altro ponendo alla loro dipendenza le Soprintendenze preposte alla tutela del paesaggio e dei beni culturali.)
Per il resto, la questione non è tanto quella di togliere poteri alle regioni e alle province, come se lo Stato centrale fosse sempre in grado di svolgere al meglio le funzioni finora ad esse affidate, ma di istituire un sistema di controlli volto a scoraggiare abusi. Un tipo di controllo desiderabile concerne le loro finanze: il governo Monti ha introdotto l’innovazione di obbligare le regioni a sottoporre i loro bilanci alla Corte dei Conti; ma questa innovazione diventa veramente significativa solo se i responsabili dei bilanci fuori controllo sono sottoposti a sanzioni, in primo luogo pecuniarie: se un Presidente di regione sa che, se sgarra, ci rimette di tasca propria, voglio vedere se non sta attento alle spese fino al centesimo! Infine non si può fare a meno di notare che, non tramite la riforma costituzionale, ma di fatto (com’è stato denunciato per esempio da Cacciari), i comuni stanno perdendo gran parte dei loro poteri a favore dello Stato centrale.
Ciò riguarda in primo luogo i loro bilanci (che ovviamente debbono essere tenuti anch’essi sotto controllo), perché, con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una fonte di finanziamento autonomo è stata eliminata. (Che le tasse sulla casa vadano ai comuni è il sistema che prevale in Europa e che ha una sua ratio, anche perché li incentiva nella lotta all’evasione fiscale. L’europeismo di facciata di Renzi non è accompagnato da atti conformi.) Il quadro dunque è chiaro: anche un federalismo molto temperato non ha più spazio.
Una riforma mancata. Renzi cita a merito della sua riforma il non avere toccato i poteri del presidente del Consiglio dei ministri, a differenza della riforma costituzionale voluta dal Governo Berlusconi e che venne bocciata al referendum del 2006. Tuttavia quella riforma, oltre a toccare altri equilibri, aumentava i poteri del premier in maniera eccessiva, fra l’altro mettendo in sua mano il potere di scioglimento della Camera che dà la fiducia al governo.
Il potere di sostituzione dei ministri, esercitato con l’accordo del Presidente della Repubblica e motivato di fronte al Parlamento, è sulla linea di quanto avviene in altri paesi pienamente democratici e trova la sua ovvia giustificazione nel garantire una ragionevole efficienza al sistema: i ministri che fanno bene vanno promossi, quelli che fanno male vanno sostituiti. (Per esempio l’art. 64 della Costituzione tedesca prevede espressamente che i ministri siano designati e destituiti [entlassen] dal Presidente della Repubblica su proposta del Cancelliere.) Il motivo reale per il quale Renzi ha rinunciato a questa riforma non è tanto quello dichiarato di voler evitare la critica di attribuire un eccessivo potere a se stesso come premier – questo potere non è eccessivo – quanto quello che essa gli è apparsa inutile. Inutile dal suo punto di vista, perché della situazione in cui si troveranno coloro che gli succederanno non si cura.
Una ragione di questa inutilità è quella sulla quale si sono appuntate le critiche di coloro che si dicono contrari a questa riforma se non viene cambiata la legge elettorale: la coincidenza della figura del premier con quella del segretario di un partito che, se vincesse le elezioni, otterrebbe la maggioranza assoluta alla Camera, ha l’effetto, dato il suo potere di scelta dei candidati alle elezioni, di renderlo dominus quasi assoluto su quella stessa maggioranza. Non si può trascurare il fatto che è in corso un processo di involuzione dei partiti che tendono sempre più a trasformarsi in comitati elettorali dell’aspirante premier. Ma c’è anche un’altra ragione, che sembra essere sfuggita al più dei critici della riforma: sta avendo luogo comunque una forte concentrazione del potere politico a Palazzo Chigi.
All’interno del Consiglio dei ministri contano solo quei ministri che vanno d’accordo col suo presidente, mentre gli altri sono tagliati fuori da decisioni importanti (si ricorderanno le lamentele della Guidi quando era ministra). Inoltre il premier ha messo insieme tutto uno staff di collaboratori che lo mettono in grado di elaborare lui l’intera politica del governo, per cui il Consiglio di ministri ha sempre più la funzione di approvare decisioni già prese altrove. Basti pensare alla politica economica del governo: è sotto gli occhi di tutti (o almeno di tutti coloro che vogliono vedere) che questa viene elaborata a Palazzo Chigi (anche i responsabili di una spending review mai attuata veramente rispondono al premier e non al ministro dell’economia) e che il povero Padoan ha il compito ingrato di fare tornare i conti e di contrattare condizioni più favorevoli con Bruxelles – oltre a trovarsi reclutato nella campagna a favore della riforma costituzionale.
C’è da domandarsi se un sistema così ad personam sia desiderabile sia in se stesso, come se bastasse un unico cervello per affrontare i problemi del paese, sia per il futuro, quando il presidente del Consiglio che verrà dopo Renzi (il quale ha comunque promesso di ritirarsi dopo due mandati) si troverà a gestire una macchina di governo poco padroneggiabile. Invece di un aumento dei poteri ottenuto in modo surrettizio è preferibile un aumento dei poteri più limitato e alla luce del sole.
Le due ragioni, messe insieme, mostrano indubbiamente che è in corso un processo di concentrazione del potere politico nelle mani del presidente del Consiglio, con uno sviluppo in senso ‘monarchico’ (‘monarchia’ nel senso prima di tutto letterale di ‘governo di uno solo’), anche nello stile di governo adottato: elargizioni o regalie concesse a suo piacimento dal sovrano ai vari gruppi di cittadini-sudditi (senza curarsi della crescita del debito pubblico), mentre non sono rispettati gli impegni dello Stato (stipendi tenuti bloccati al di là di una situazione eccezionale di emergenza, ritardi nei pagamenti dovuti per servizi resi all’amministrazione pubblica, ecc.). Il rischio per il futuro è quello di un’involuzione non tanto (come qualcuno paventa) in senso oligarchico quanto nel senso di una dittatura dolce o morbida (soft dictatorship), resa possibile da un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione (va ricordato che i principali dittatori del secolo scorso disponevano quasi solo della radio per fare pervenire i loro messaggi ad un pubblico vasto).
Altra riforma mancata: credo che i costituenti abbiano commesso un serio errore nell’affidare il sistema elettorale da adottare a legislazione ordinaria, senza richiedere una maggioranza qualificata ed una procedura più complessa, alla stregua di una legge costituzionale. Il cambiamento di legge elettorale incide sulla vita politica non meno che certe modifiche della costituzione. Così, come di fatto è talvolta avvenuto, ogni maggioranza parlamentare può cambiare la legge a suo piacimento, per ottenerne un proprio vantaggio. Una nuova legge elettorale che venga discussa in Parlamento andrebbe anche sottoposta in modo automatico al vaglio della Corte costituzionale (e non con la procedura prevista dalla riforma Renzi-Boschi).
Non si può non osservare, a proposito delle due riforme mancate ora segnalate, che nel caso di vittoria del Sì il governo non avrà alcun interesse a favorire una modifica dell’attuale legge elettorale, che ha effetti così distorsivi, salvo che non venga obbligato a questo da una sentenza della Corte costituzionale.
Una terza riforma mancata: è singolare il seguente nuovo comma dell’art. 71: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione.» L’articolo della Costituzione che riguarda i referendum popolari è il 75, e sarebbe bastato modificare la sua dizione, precisando appunto che i referendum possono essere non solo abrogativi ma anche propositivi, per ottenere il risultato (l’articolo già precisa i casi in cui un referendum non è ammesso). Tale modifica sarebbe stata opportuna, perché è abbastanza chiaro che i costituenti avevano delle forti riserve verso questo istituto per l’abuso che se ne è fatto nei regimi fascisti.
Così com’è il comma citato presenta equivocamente come cosa fatta quella che è solo una riforma costituzionale promessa. La carta costituzionale così modificata credo costituirebbe un unicum al mondo: una legge che non stabilisce nulla ma promette o contempla come desiderabile una futura legge che non si sa quando, e se mai, verrà approvata. Su quello che passa per la testa di un legislatore che redige una legge del genere si può solo speculare.
Al fine così dichiarato di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche vengono incontro, ma solo in apparenza, alcuni altri provvedimenti previsti dalla riforma. Il primo riguarda le leggi di iniziativa popolare previste sempre dall’art. 71 (attuale comma 2). Una modifica in senso indubbiamente positivo è che si garantiscono tempi certi (anche se non determinati, perché stabilirli spetta ai regolamenti parlamentari): attualmente queste leggi sono lettera morta, perché non vengono quasi mai discusse, tanto meno approvate. (E’ uno scandalo che non avrebbe mai dovuto verificarsi.) Ma viene notevolmente innalzato il numero di firme richieste per la presentazione di una legge del genere: da 50.000 a 150.000, come se ci si aspettasse un’improbabile inondazione di leggi di iniziativa popolare.
Evidentemente ciò che si concede con una mano si toglie con l’altra. Il secondo provvedimento concerne il citato art. 75 che regolamenta i referendum popolari solo abrogativi: di fronte al fatto che questi referendum spesso risultano nulli perché non è stata raggiunta la maggioranza degli aventi diritto, invece di abbassare il quorum (per esempio dal 50 al 40 %), si elimina la richiesta di un quorum nel caso in cui le firme raccolte siano 800.000 invece di 500.000. Non si vede perché i referendum che soddisfano a questo requisito meritino un trattamento speciale, quando manifestamente è una questione di organizzazione e quando per partiti e associazione che non dispongano di molti mezzi è già difficile arrivare alle 500.000 firme autenticate.
Una quarta riforma mancata: l’art. 67, che nella versione non modificata suona «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», e che viene riproposto quasi identico ma cancellando “rappresenta la Nazione” (come se fra le due cose non ci fosse un rapporto), ha bisogno di essere ripensato di fronte ai talvolta anche scandalosi cambi di casacca da parte dei parlamentari. La norma citata si ispira alla molto ottimistica convinzione che i parlamentari sono tutti o quasi tutti dotati di una viva coscienza morale e che, se lasciati liberi di seguirla, opereranno al meglio nell’interesse della Nazione.
Nella realtà prevalgono gli interessi particolari (della propria circoscrizione, del proprio partito, ecc.). Una restrizione che si può proporre (non escludo che si possa proporre di meglio) è che chi abbandona il partito o gruppo (lista civica, ecc.) col quale si è presentato alle elezioni può solo aderire ad un gruppo indipendente e non ad un altro partito o ad un gruppo di diverso orientamento, e tanto meno può entrare a fare parte del governo (se non ne fa già parte).
Come si può vedere, una restrizione del genere non concerne le decisioni che il parlamentare prende di volta in volta ma il suo orientamento politico generale, che è quello in base al quale si era presentato alle elezioni: è contestabile infatti l’idea che egli non debba rispondere in alcun modo di fronte al proprio elettorato, al quale si è presentato con un certo programma (non basta che egli corra il rischio di non essere confermato a successive elezioni).
C’è anche un altro aspetto da rilevare: il frequente ricorso alla votazione di fiducia da parte di tutti i governi recenti ha un effetto ricattatorio sui componenti della maggioranza (‘se non voti la fiducia, il governo cade e c’è il rischio di andare ad elezioni anticipate’), sicché la libertà sancita dall’art. 67 viene di fatto annullata. La richiesta del voto di fiducia (salvo ovviamente alla presentazione di un governo), come la verifica del numero legale, dovrebbe essere uno strumento a tutela delle minoranze, sicché questo abuso andrebbe represso.
Come si può vedere, questa è una materia delicata, che concerne il modo in cui funziona il Parlamento, sicché, in occasione di una riforma costituzionale, si sarebbe dovuto dedicare ad essa una notevole riflessione, per cercare le soluzioni migliori. (C’è da aggiungere che qualche giurista ha notato che, siccome i senatori del Senato riformato non rappresentano più la Nazione, la norma in questione non dovrebbe più applicarsi ad essi.)
Come si può vedere, in questo documento, a differenza della maggior parte dei documenti di critica della riforma costituzionale, ci si sofferma anche sulle riforme mancate. Non è un procedimento scorretto, perché, una volta che si ponga mano ad una riforma del genere, si deve riflettere seriamente su ciò che ha veramente bisogno di essere cambiato, sicché le riforme mancate sono come dei peccati di omissione, che non sempre sono meno gravi degli altri.
Naturalmente sarebbe eccessivo ed ingiusto sostenere che in questa riforma costituzionale non c’è niente di buono. Questo vale per esempio per la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge e, insieme, la determinazione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico. (Tuttavia c’è anche il rischio, segnalato da alcuni costituzionalisti, di ridurre lo spazio all’iniziativa legislativa dei singoli parlamentari.) Vale anche per la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) con l’abrogazione dell’art. 99, dato che questo organo si è rivelato di quasi nulla utilità. (Ma è ridicolo dare tanto rilievo a questa soppressione, presentandola come uno dei caposaldi della riforma.) L’art. 97, comma 2 modificato, sancisce opportunamente l’obbligo di trasparenza delle amministrazioni pubbliche.
Tuttavia serve molto di più (e può essere sufficiente) una legge ordinaria che stabilisca regole precise di trasparenza, in primo luogo obbligando le amministrazioni pubbliche a rendere accessibili (almeno su rete) bilanci precisi, dettagliati e comprensibili al pubblico, che così potrebbe esercitare una funzione di controllo.
Infine, è opportuno il nuovo comma dell’art. 64 secondo il quale “i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”, ma ovviamente è da vedere in che modo questa prescrizione troverà attuazione, data anche la sua indeterminatezza. C’è dunque del buono, ma quanto di buono la riforma contiene non può compensare quanto deve suscitare delle serie riserve.
In conclusione, che la riforma costituzionale Renzi-Boschi non sia la migliore possibile viene spesso concesso anche dai suoi sostenitori che, di fronte a critiche, sono indotti a dire, con qualche imbarazzo, che essa “è perfettibile”. Per un verso si afferma che questa è l’ultima occasione per riformare la Costituzione, per un altro verso, nell’affermare che quanto proposto è perfettibile e nel redigere il citato comma dell’art. 71, si auspica una prossima nuova riforma costituzionale per rimediare a ciò che appare insoddisfacente o incompleto.
Ovviamente tutto ciò che è opera dell’uomo è perfettibile, ma i costituenti non sentivano l’esigenza di giustificarsi a questo modo, perché avevano dedicato le loro migliori energie per ottenere un buon risultato. Tale risultato non è ottenuto se per evitare il bicameralismo perfetto si riduce il Senato ad un’istituzione striminzita ed umbratile: sarebbe stato ancora meglio abolirlo del tutto e ampliare i compiti della Conferenza Stato-Regioni.
Si potrebbe ritenere che si stia dando troppa importanza ad un documento scritto come la Carta costituzionale. Tuttavia c’è da replicare che, quando attorno ad un documento del genere si crea un ‘patriottismo costituzionale’, cioè una condivisione di ideali ed obbiettivi, come avviene negli Stati Uniti (dove c’è fin troppa riluttanza ad introdurre modifiche anche piccole alla Carta), ciò fa non poca differenza per una nazione.
Si può aggiungere che la Germania è riuscita ad uscire senza troppe scosse da un regime simile a quello fascista dal quale è uscita l’Italia anche perché si è dotata di una buona Carta costituzionale, che nessuna persona seria là propone di modificare in modo radicale. (S’intende, nessuna Carta costituzionale può fare miracoli: anche quella della Repubblica di Weimar era buona, ma non ha impedito l’ascesa del nazismo; però il nazismo non ha avuto la forza e il coraggio di proporre una propria Carta costituzionale e si è limitato a sospendere l’esistente adducendo uno stato di emergenza.) E’ nel nostro paese che le forze politiche di vario colore non pretendono semplicemente di aggiornare in modo puntuale e ragionevole la nostra Carta ma ambiscono a sovvertirne l’impianto di fondo. Si va dalla Bicamerale del 1997-99 presieduta da Massimo D’Alema, passando per la riforma del titolo V (1999-2000), per arrivare alla riforma voluta dal Governo Berlusconi (2004-2006).
Fra quest’ultima e quella voluta dal Governo Renzi, che per certi aspetti è una contro-riforma del titolo V, ci sono degli evidenti punti di contatto, e solo il fatto che i poteri del presidente del Consiglio dei ministri non sono toccati (come si è visto, solo nella Carta costituzionale e non nella realtà) può creare l’impressione che sia molto diversa. Lungi dall’essere questa l’ultima occasione per riformare la Costituzione questi precedenti fanno pensare che, se questo tentativo fallisse, presto ce ne sarà uno nuovo, sulla stessa linea.
Questa pervicacia nel voler riformare (in effetti sconvolgere) la Costituzione del 1948 – riforme, riforme, riforme è la parola d’ordine di ogni governo, come se tutte le riforme fossero un bene (la scuola è ormai stata riformata un bel po’ di volte e nessuno può sostenere che è migliorata) – riflette un profondo malessere del paese, che si vuole curare non cercando di individuarne le cause ma con espedienti illusionistici.
Intervista a Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale: "Passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse".
libertàgiustizia, 22 ottobre 2016 (p.d.)
“Macché semplificazione e tagli a sprechi, le ragioni della riforma vanno indagate altrove: Renzi si è piegato alla volontà dei poteri forti, Jp Morgan ci ha dettato le modifiche costituzionali”. Dalla voce non sembra stia parlando un ottantenne. Ragiona, analizza e spiega le motivazioni per le quali sta sostenendo la campagna del NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale, è uno dei massimi esperti in materia. Lo contattiamo telefonicamente, combattivo, ha desiderio di sviscerare nel dettaglio la riforma per convincere soprattutto gli indecisi al voto.
Beh, però si pone fine alla “navetta” tra i due rami del Parlamento…
Il pensiero di molti si può riassumere col giudizio: “Dopo anni di immobilismo, siamo di fronte a una riforma pasticciata ma sempre meglio di niente”. Come replica?
Veramente, come denuncia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, siamo al rischio di una deriva oligarchica? Non le sembra di esagerare?
La legge elettorale – che prevede un rafforzamento dell’esecutivo – è uscita però dalla contesa referendaria e si ipotizza una modifica dell’Italicum.
Ma la Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?
Scusi, governo presidenziale non è ben diverso dal dire oligarchia? Pensiamo agli Usa o la Francia, sono democrazie funzionanti…
Se vince il NO la situazione rimarrà così per anni, lo sa?
La battaglia per la difesa della Costituzione si intreccia con l’Europa dell’austerity e per un ritorno alla sovranità popolare, sta dicendo questo?
Insomma, professor Maddalena, crede veramente che le Istituzioni europee, la Bce e le agenzie di rating abbiano fatto pressioni al governo Renzi per varare la riforma costituzionale?
Qual è?
Per difendere la nostra Costituzione bisogna rompere con l’Europa?
MicroMega online, 17 Ottobre 2016
«Assassinato da un commando il leader dei Campesinos. La lotta ambientalista contro il latifondo e le morti di regime».
Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016 (p.d.)
Martedì scorso Flores, 62 anni, è stato ucciso da quattro uomini incappucciati che lo hanno crivellato di colpi mentre si trovava nella sua a bitazione con altre persone. Dopo una mattinata trascorsa in una sala congressi di Tocoa a spiegare a una delegazione di osservatori internazionali per i diritti umani le minacce subite dal MUCA, il Movimento Campesino Unificado dell’Aguan (una provincia del nord) che presiedeva, Flores mi aveva accompagnata a vedere le piantagioni di palma africana che lui e i suoi compagni rivendicano da anni. Nonostante fosse da tempo nel mirino e non avesse però alcuna scorta, José Angel continuava a criticare l'elite latifondista e mineraria protetta dal presidente della Repubblica e capo del governo conservatore di questo Paese centroamericano da sempre feudo Usa.
Un paese ricco di risorse naturali, ma con soli otto milioni di abitanti, precipitato in un vortice di violenza dal golpe del 2009. Prima del colpo di stato militare che destituì il presidente Manuel Zelaya, reo di aver stretto un patto economico con l'allora presidente venezuelano comunista Hugo Chavez, l'Honduras era il secondo stato più povero dell'America Latina ma non ancora il più violento come invece è diventato in questi 7 anni, secondo i dati Oms e a giudicare dallo spaventoso numero di morti ammazzati. Rapine, sequestri, regolamenti di conti tra bande di delinquenti comuni, di narcotrafficanti ma anche come esito delle lotte degli ambientalisti e dei campesinos contro lo strapotere delle multinazionali. Gli assassini di questi attivisti vanno ricercati spesso tra le file delle forze dell'ordine e dell'esercito come dimostra l'inchiesta sull'esecuzione nel marzo scorso della leader degli indigeni Lenca, Berta Caceres, premiata nel 2015 con la massima onorificenza internazionale per la protezione dell'ambiente.
Dall'intervento dei militari che rovesciò Zelaya, la povertà, bloccatasi con le riforme del presidente deposto, è ripresa a galoppare assieme alla violenza. Ciò che impressiona di questo paese è la quantità di uomini armati che difendono ogni negozio e locale come in un far west tropicale. Assieme alle armi dei vigilantes, si aggirano, portate a tracolla dei militari americani i mitragliatori d'assalto. In Honduras c'è la più grande base militare statunitense del Centro America, ed è proprio a pochi chilometri dall'abitazione di José Angel Flores. “Con il pretesto di investire qui, gli imprenditori stranieri chiedono in cambio una vera e propria autonomia, una cessione di fatto del territorio sovrano, che dà loro la possibilità di imporre un costo del lavoro ancora più basso e di sfruttare l'ambiente secondo le loro regole”, denunciava Flores. Una denuncia che aveva mosso al governo più volte anche la Caceres e gli altri cinque ambientalisti uccisi quest'anno. Nel Comitato For the Application of Best Practices, l'organo che deve regolare queste Zone, figurano anche Michael Reagan, uno dei figli del defunto presidente degli States, Mark Skousen, ex analista economico della Cia, Mark Klugmann, autore dei discorsi di Reagan e Bush padre.
Pochi giorni fa il regista Oliver Stone ha ricordato il ruolo degli Usa dietro al colpo di stato che ha sferrato il colpo di grazia all'Honduras da dove transita l'80% della cocaina che entra negli Usa. “Ovunque siamo andati abbiamo fatto danni, come recentemente in Honduras, dove Hillary Clinton, nel 2009 segretario di Stato, ha responsabilità nella cacciata di Zelaya da parte dei militari”. Al contrario di Obama, la probabile prima donna a diventare presidente degli Usa nega ancora che si trattò di un golpe. “Non capisco perché ancora non ammette, come hanno fatto Obama, l'Onu e il resto del mondo, che quello avvenuto è stato un golpe”, ha detto al Fatto l'ex presidente Zelaya.
La realtà è che sebbene la nostra Costituzione tuteli la libertà religiosa, e quella di culto dal momento che non esiste religione senza pratica, avere a disposizione un luogo in cui pregare è un problema per i musulmani. Molti amministratori locali o fingono di non vedere o esibiscono atteggiamenti muscolari che esasperano il clima. Ciascuno si comporta come crede, a seconda dell’orientamento e del ciclo politico, trasformando un diritto indisponibile, la libertà religiosa, in mera concessione. A livello nazionale la cosa si complica per effetto della mancanza di un’intesa tra Stato e musulmani, strumento previsto per le altre confessioni, o di una legge sulla libertà religiosa che sappia rispondere alle complesse questioni poste dall’avvento delle società multiculturali.
Con l’ovvio risultato che, come recitava lo slogan della manifestazione davanti al Colosseo, «chiudere le moschee non ferma le preghiere». I musulmani, infatti, continuano a pregare. Lo fanno in sale da preghiera ricavate in scantinati o capannoni industriali. Una situazione indegna per un Paese civile e, ormai, religiosamente plurale: i musulmani in Italia sono circa un milione e 700mila. Nella sola Roma sono circa 130mila, dei quali il 10 per cento cittadini italiani.
Oltretutto questa politica, tanto poco pensata quanto spesso mirata a riprodurre lo schema della “religione del Nemico”, è del tutto controproducente rispetto alla necessità di integrare la comunità islamica presente nel nostro Paese nel tessuto civico e istituzionale e prevenire eventuali derive fondamentaliste. Certo, nemmeno la piena libertà di culto, e della sua organizzazione, come si è visto in altri Paesi europei, può impedire che singoli aderiscano all’ideologia islamista radicale ma, almeno, contiene il fenomeno. Non è casuale che tra le motivazioni che gli jihadisti europei invocano per giustificare la loro scelta vi sia anche quella della discriminazione, palese o latente, contro l’islam.
Naturalmente Stato o amministrazioni locali si trovano di fronte a un problema reale. Quello della polverizzazione della rappresentanza dell’associazionismo islamico, che in Italia vede in campo organizzazioni che si aggregano secondo appartenenze nazionali o transnazionali. E un mai sopito conflitto tra “Islam degli stati”, rappresentato da Paesi stranieri, e “Islam delle moschee”, transnazionale e diffuso nel territorio. Un conflitto emerso anche di fronte alla manifestazione romana, stigmatizzata dalla Lega Nord (che annuncia un’interrogazione parlamentare) ma anche dal portavoce della Grande moschea di Roma, simbolo dell’“islam degli stati”, come inopportuna nel luogo simbolo della cristianità e in un momento nel quale l’Isis titola la sua rivista rivolta agli occidentali “Rumyah”, Roma, e apre su Telegram un canale social in italiano. Per la Grande Moschea, la capitale ha già un luogo di culto, appunto quello alle pendici dei Parioli, ma proprio le diverse modalità di aggregazione dei musulmani fanno sì che ciascuna comunità o gruppo miri ad avere la propria moschea. E’ un pluralismo intrinseco al fatto che l’islam è una religiose senza centro, senza gerarchia: ragione per cui ciascun gruppo di fedeli può dare vita a un luogo di culto.
I musulmani che si trovano davanti a vincoli urbanistici e destinazioni d’uso che rendono fuori norma i luoghi di culto improvvisati, chiedono di praticare in condizioni di legalità. Quella che manca, ripetono, è la volontà politica di risolvere il problema. Una constatazione palese. Al di là della rappresentatività degli organizzatori della protesta romana, il tema vero è se l’islam ha un posto o meno in Italia; se è una componente religiosa e civica della società italiana, oppure no. La risposta a questa domanda è la chiave di tutto.
Perché se è “sì”, occorre costruire una politica religiosa nei confronti dell’islam italiano, che tocchi aspetti, anche delicati per gli stessi musulmani, come quelli derivanti dalla nazionalizzazione dell’islam.
Se è “no”, si deve sapere che le reazioni identitarie potrebbero diventare presto assai problematiche.
La Repubblica, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il concetto di libertà nasce in Grecia in ambito politico. Una delle prime testimonianze al riguardo non proviene dalla filosofia ma dalla letteratura, precisamente dal più antico dei tragici, Eschilo, nella sua opera I Persiani.
A Susa, capitale dell’impero, la regina Atossa, sposa del precedente imperatore Dario e madre del nuovo imperatore Serse, attende in preda a cattivi presagi il ritorno della spedizione militare del figlio contro la Grecia e per vincere l’attesa snervante chiede notizie sui nemici: se hanno un esercito forte, se posseggono ricchezze, se sono bravi con l’arco. Infine pone la domanda cruciale: «Chi è il loro padrone?. Le viene data la seguente risposta: «Si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno». Con queste parole di Eschilo risalenti al 472 a.C. si inaugura in Occidente il concetto di libertà.
Eschilo però nelle sue opere presenta il più delle volte una concezione del mondo opposta, cioè all’insegna della necessità: per esempio nei Persiani dice che Ate (la figlia di Zeus che personifica l’accecamento che induce all’errore) «spinge il mortale dentro la rete ben tesa»; oppure che «necessità costringe i mortali a sopportare sciagure»; oppure ancora che «chi diede inizio a tutto quel disastro fu la vendetta divina che non perdona, o un demone malvagio venuto da chissà dove»; nell’Agamennone menziona «le potenze divine che prepotenti governano il sacro timone del cosmo»; nelle Coefore scrive che «dobbiamo venerare il potere divino che il cielo governa».
Per Eschilo quindi gli esseri umani non sono liberi nel senso di indipendenti da potenze superiori, ma al contrario sottostanno a potenze più grandi a cui dover rendere conto, a un «giogo di necessità» che sempre giudica, e spesso anche determina, il loro agire.
E tuttavia egli dichiara che il suo popolo non volle sottostare alla potenza di gran lunga superiore dell’impero persiano che intendeva imporsi nel nome della cieca necessità della forza, e quanto a costituzione politica descrive i greci come uomini liberi, «sudditi di nessuno», oltre a essere consapevole del fatto che il dover sottostare a potenze più grandi non priva gli esseri umani del merito quando agiscono bene e della colpa quando agiscono male, come nei Persiani appare dalla differenza tra il saggio imperatore Dario e lo stolto figlio Serse.
Il giogo della necessità non preclude quindi la responsabilità personale, la possibilità di rispondere alle circostanze in prima persona in un modo oppure in un altro, non preclude cioè la libertà. La contraddizione rilevata in Eschilo manifesta la classica opposizione di necessità e libertà, antica quanto il pensiero e riassumibile in questa alternativa: — il mondo è un processo necessario e logico, e di conseguenza anche privo di libertà; — il mondo è un processo libero e creativo, e di conseguenza anche privo di un disegno logico e sensato. I filosofi si dividono tra chi assegna il primato alla necessità e al senso, e chi invece alla libertà e al non-senso.
Le cose peraltro si complicano ulteriormente se prendiamo in considerazione la fisica contemporanea. Qui i grandi fisici, che per natura devono essere anche un po’ filosofi, come i grandi filosofi devono essere un po’ fisici, si dividono: al campo della necessità appartiene Einstein con la teoria della relatività, al campo della libertà appartiene Bohr con la meccanica quantistica. La teoria della relatività riguarda lo spazio-tempo, l’energia e la gravitazione, le stelle e le galassie; la meccanica quantistica riguarda il comportamento degli atomi e delle particelle subatomiche. La prima regna nell’infinitamente grande, la seconda nell’infinitamente piccolo.
Fu probabilmente osservando tutto ciò che uno dei principali protagonisti della meccanica quantistica, il fisico danese Niels Bohr, giunse ad affermare con grande saggezza e lucidità: «Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità». Ci troviamo cosi di fronte non a due vie, di cui una è vera e l’altra falsa, ma a una condizione strutturale della mente nel suo rapportarsi all’essere.
E come la meccanica quantistica e la teoria della relatività, pur non essendo conciliabili tra loro, sono entrambe vere nel senso che entrambe descrivono adeguatamente la realtà, cosi, allo stesso modo, i concetti di libertà e di necessità, pur non essendo teoreticamente conciliabili tra loro, interpretano entrambi una dimensione della realtà in modo veritiero.
Emerge da qui l’esigenza di una prospettiva di pensiero che sappia cogliere tale doppia ragione, sapendo sostenere al contempo sia la sensatezza e la logicità dell’essere, perché, come affermava Einstein, «Dio non gioca a dadi con il mondo», sia la contingenza e la mancanza di un disegno lineare, perché, come affermava Eraclito, «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi».
Il Fatto Quotidiano online, 21 ottobre 2016 (p.d.)
Bene. Hashi Omar Hassan, che era stato condannato per concorso nell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, è innocente. Si è fatto oltre 17 anni di prigione per nulla e finalmente, nel processo di revisione, è stato assolto e liberato. Per lui la fine di un incubo. Ci auguriamo che chieda e ottenga un lauto risarcimento dallo Stato italiano per una condanna a cui non aveva mai creduto nessuno. Nemmeno i genitori di Ilaria Alpi. I suoi 17 anni di vita non glieli restituirà nessuno, resi ancora più amari da un iter giudiziario che andrebbe definito da farsa, se non stessimo parlando di questioni troppo serie.
Ora speriamo che le motivazioni dicano chiaramente quello che va detto: che il povero Hashi è stato un capro espiatorio, premeditatamente intrappolato per tentare di dare in pasto un colpevole alla famiglia Alpi e all’opinione pubblica che chiedeva verità e giustizia. La sua assoluzione ci dice già che giustizia non è stata fatta, ma dice anche – e soprattutto – che con messa in stato d’accusa di Hashi si è voluto depistare dalla verità. Depistare, ossia spostare l’attenzione dalle piste che stavano portando alla verità sulle ragioni dell’omicidio dei due giornalisti, e occultare quindi gli indizi e gli elementi che avrebbero fatto luce sui veri esecutori e sui mandanti del duplice assassinio di Mogadiscio.
Non va dimenticato, infatti, che le vicende che hanno condotto all’arresto dell’(allora) giovane somalo sono il punto di svolta, cruciale, del caso “Alpi-Hrovatin”. Tutto accadde nel 1997, a soli tre anni dall’omicidio, quando i fatti erano recenti e i testimoni tutti ancora in attività e raggiungibili.
In quell’anno c’era stata una grande accelerazione nelle indagini: il magistrato Giuseppe Pititto, affiancato ad Andrea De Gasperis nell’inchiesta della Procura di Roma, aveva compiuto importanti passi d’indagine, aveva effettuato interrogatori rilevanti, era arrivato a identificare quattro testimoni oculari attraverso un delicato e complesso lavoro investigativo della Digos di Udine, li stava facendo arrivare in Italia per deporre. L’inchiesta era decollata. Già, a luglio 1997 pareva che il muro di gomma si stesse squarciando. E invece…
Invece l’inchiesta fu tolta a Pititto e De Gasperis da parte del Capo della Procura di Roma Salvatore Vecchione, giusto prima che potessero sentire i testimoni oculari. Mentre nelle stesse settimane veniva alla luce il cosiddetto “Diario Aloi”, un scritto di un maresciallo dei carabinieri che aveva operato in Somalia e che faceva prendere nuovo vigore alle furiose polemiche sulle presunte torture commesse dai militari italiani in Somalia. Uno scandalo, guarda caso, scoppiato in quello stesso 1997, che si stava spegnendo nel nulla se non fosse stato, appunto, per il “diario Aloi”.
È a causa di quel sospetto testo che la commissione ministeriale istituita per indagare sulle torture decide di identificare un certo numero di testimoni somali da far venire in Italia. Nel gennaio 1998 i 12 testimoni – selezionati fra oltre 140 che, in Somalia, avevano raccontato presunti episodi di violenza – sono pronti a partire. Ai 12 viene aggiunto all’ultimo minuto Hashi Omar Hassan. Viene in Italia, parla alla Commissione, e viene arrestato. La trappola è scattata. Due testimoni lo accusano di aver fatto parte del commando che uccise Ilaria e Miran: il primo è l’autista dei giornalisti, che presenta una versione contraddittoria e imprecisa dei fatti. L’altro è un somalo, Ahmed Ali Rage detto Jelle, che presenta le sue accuse agli agenti di polizia giudiziaria di Roma e sparisce ancora prima che inizi il processo. La condanna a 26 anni di Hashi Omar Hassan, di cui 17 espiati in carcere, si basa su questo, e solo su questo: un testimone contraddittorio e un altro che non si è nemmeno presentato in aula (e le cui dichiarazioni non sono state neppure registrate dalla polizia).
La sua assoluzione, oggi, Hashi la deve al fatto che Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto, l’ha rintracciato e intervistato in Inghilterra. E lui, Jelle, nell’intervista, ha ammesso di aver accusato falsamente Hashi. Non solo. Confessa di averlo fatto perché pagato dalle istituzioni italiane. Speriamo che le motivazioni della sentenza ci dicano qualcosa su quali uomini delle istituzioni hanno “comprato” un testimone falso, e sul perché l’hanno fatto; che ci dicano come mai polizia e carabinieri che si sono succeduti in questi anni non sono mai riusciti a rintracciare Jelle (che ha sempre vissuto nella vicinissima Gran Bretagna), mentre una giornalista c’è la fatta; che ci dicano quale interesse aveva il nostro Paese a orchestrare un tale gigantesco depistaggio allo scopo di occultare le ragioni dell’assassinio di due giornalisti italiani in terra somala.
Forse è chiedere troppo alle motivazioni di questa sentenza. Ma la risposta a queste domande va data. Dal punto di vista giudiziario, infatti, si torna all’anno zero, dopo 22 anni. Indegno, per un Paese civile. Un vero scandalo, per le sue istituzioni.
L'ennesima trappola per la democrazia se vincesse il SI alla de-forma Renzi-Boschi: diventerebbe impossibile mettere in stato d'accusa il Capo dello stato.
il manifesto, 20 ottobre 2016
Tralasciamo pure per un attimo il caso limite per cui, trattandosi di votanti e non di membri dell’assemblea, il nuovo capo dello stato potrebbe venire eletto con tre voti su cinque, purché gli altri parlamentari garantiscano il numero legale. Spostiamo invece l’attenzione su un altro articolo della nostra Costituzione – che la Renzi-Boschi non tocca e quindi ha richiamato minore attenzione – ovvero il 90, che disciplina la messa in stato d’accusa del capo dello stato dal parlamento in seduta comune.
Qui emerge un’altra possibilità inquietante. Fantapolitica? Di fronte alla totale irragionevolezza della modifica costituzional-elettorale in corso, sarebbe ingenuo invocare il principio di realtà. E’ vero che l’impeachment nella storia italiana è stato più evocato che attuato. I casi sono tre. Quello di Leone che minacciato di tale provvedimento a seguito dello scandalo Lockheed (l’acquisto dell’Italia di velivoli da guerra statunitensi) si dimise prima che il Pci desse corso alla procedura. Quello che sfiorò Scalfaro, a seguito dello scandalo Sisde, cui rispose a reti unificate con il famoso: «Non ci sto». Ma soprattutto quello antecedente riguardante Cossiga, che approdò alla presentazione formale della messa di stato d’accusa sulla vicenda Gladio, da parte del Pds, della Rete e di Rifondazione comunista, richiesta poi respinta dal Parlamento nel 1991. L’anno seguente lo stesso Violante, Pannella, Orlando e Dalla Chiesa chiesero nuovamente la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione, senza però che questa approdasse al voto, perché Cossiga si dimise il 28 aprile del 1992. Come si vede qualche precedente c’è, e anche succoso.
Se vincesse il Sì il 4 dicembre e quindi l’Italicum rimanesse in vita – simul stabunt simul cadent – la maggioranza assoluta alla Camera sarebbe assicurata al partito di maggioranza relativa e il senato sarebbe composto da 100 membri. Per la eventuale messa in stato d’accusa del presidente della repubblica basterebbero altri 26 voti per raggiungere la soglia dei 366, che corrisponderebbe alla maggioranza assoluta dei membri del parlamento in seduta comune. E sarebbe davvero difficile – qui sì fantapolitico – che il partito di maggioranza relativa non disponesse di tali voti nel Senato dei dopolavoristi, anche se escludiamo dal novero per evidenti motivi i 5 senatori nominati dal capo dello stato.
La morale della favola è semplice, quanto sconcertante. Gli effetti dello sconvolgimento costituzional-istituzionale in corso rispetto alla massima carica dello Stato – comandante delle Forze Armate, presidente del Consiglio supremo di difesa, che dichiara lo stato di guerra deliberato dalla Camera, presidente del consiglio superiore della magistratura, dotato del potere di scioglimento delle camere – non sarebbero solo quelli che esso può essere eletto dal settimo scrutinio dai parlamentari di un solo partito, nel caso estremo nel numero più esiguo immaginabile, ma che potrebbe essere dismesso per volontà sempre dello stesso partito – il cui segretario coincide con la figura del Presidente del consiglio da lui indicato – e che opererebbe sotto questa spada di Damocle. Un vero e totale capovolgimento.