«La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla».
Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 28 novembre 2016 (c.m.c.)
L’abbiamo capito. Tutti. Anche chi fa finta di non capire, per interessi personali di vario genere. Questa riforma della Costituzione è voluta dalla finanza (JP Morgan), dagli Usa, dalla Ue e dai mercati. Questi ultimi “guardano con preoccupazione” (sic) all’Italia, temendo che a vincere sia il No. E poi vi è ancora qualcuno che ci ripete che siamo in democrazia: la democrazia sarebbe scelta sovrana del popolo sulle questioni politiche ed economiche. Oggi non siamo in democrazia esattamente per via del ricatto e della dittatura dei mercati e di enti che nessuno ha mai eletto e che decidono in luogo del popolo.
La democrazia – occorre averne contezza – non si risolve nel voto, né nella libertà di espressione, che pure contribuiscono a definirla. La democrazia è anche e soprattutto potere del popolo di determinare sovranamente la vita economica e politica della comunità. La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla.
Come ci ha insegnato la Grecia del referendum del 2015, la democrazia oggi è tollerata fintantoché le scelte del demos ampiamente manipolato coincidono con quelle altrove prese dall’élite finanziaria dominante. In caso di dissidio – ce l’ha insegnato sempre la Grecia col referendum del 2015 – devono essere le scelte dell’élite a prevalere. Stiamo pronti, dunque: l’élite e i mercati hanno scelto chi deve vincere.
E se vincerà invece il No essi saranno pronti a reagire, di modo che il loro dominio non subisca interferenze né limitazioni. L’assolutizzazione del mercato e l’economicizzazione integrale del mondo della vita (Marx) hanno come loro condizione necessaria di realizzazione la neutralizzazione, la spoliticizzazione e la desovranizzazione (Schmitt).
Referendum. Il "Financial Times» profetizza il fallimento di otto banche in caso di sconfitta del Sì. "The Daily Telegraph" insiste sul pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona "The Sunday Times Business". "Figaro Economie" racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari».
il manifesto, 29 novembre 2016
Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».
Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.
Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. Figaro racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.
In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.
Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.
La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi di dollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.
E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.
L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.
Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».
Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.
Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.
«E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”».
Contropiano, da Haramlik, il blog di Lia, 27 novembre 2016 (c.m.c.)
Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare.
L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre.
Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi.
L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.
E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba.
Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.
L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: «E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti». In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come «intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.» La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: «Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.» I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto.
E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più.
Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra.
E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno.
Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri.
E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. «Io mi sono laureato a Cuba, gratis!» «Mio padre è stato salvato da un medico cubano!» Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.
E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: «E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.»
Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia.
Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: «Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli».
Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: «La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano».
E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici.
E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA.
E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: «Fu più che altro un naufragio»), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: «Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.» E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia.
Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.
Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.
– http://www.ilcircolo.net/
Un corteo immenso, di molte generazioni affiancate. È stata una bella giornata di amore, forza e vita , contro violenza e morte, come non si vedeva dagli anni 70 il manifesto
, 27 novembre 2016 (c.m.c.)
«Sì, lo sai, la forza che hai. Sì, lo so, la forza che ho». Dalla testa del corteo della straordinaria manifestazione organizzata ieri a Roma dalla rete Non Una Di Meno era questo lo slogan ripetuto, per dire che – come recitava un altro striscione – «guerriere sempre, vittime mai». O forse non si trattava di uno slogan, bensì erano le voci, le tante voci di numerose generazioni che ieri si sono mostrate, fianco a fianco per dire no alla violenza maschile contro le donne.
E proprio quella forza, inaddomesticata e assertiva, si respirava tra le migliaia di presenze che ieri hanno cominciato a invadere pacificamente piazza Esedra e che hanno sfilato fino a piazza San Giovanni. Non erano lì per rivendicare, ma per dire che – dalle giovani alle meno giovani – sanno di sé. In effetti non è da ieri che lo sanno, sanno quale è il proprio desiderio, quale è il proprio bene senza tutele da parte di uno Stato che decide di proporre un piano antiviolenza senza neppure consultarle e che invece è proprio con quella piazza colma di appassionata radicalità che dovrebbe parlare.
Sanno della loro forza insomma grazie alla fatica, spesso trascurata o ignorata da finanziamenti risicati senza progetti istituzionali lungimiranti, e al lavoro che da anni molte di loro svolgono nei Centri antiviolenza, nei collettivi, nelle associazioni, nei movimenti.
Le parole più utilizzate, presenti nei cartelli, nei visi, negli ombrelli e nelle tele enormi, sorrette da chi si è dato appuntamento a Roma da tutte le parti d’Italia, raccontavano diverse cose. Intanto che il lessico di una grande, potente mobilitazione passa per una reinvenzione del linguaggio.
In parte – si potrà obiettare – una fenomenologia già conosciuta negli slogan più noti come «Io sono mia» – ripetuto più volte e in diversi punti del corteo – oppure «Le strade libere le fanno le donne che le attraversano». D’altro canto invece si è assistito a una presa d’atto che deve molto al femminismo e a ciò che di esso è circolato anche tra le giovani – e giovanissime – generazioni. Non è un fatto anagrafico ma di generazione anche politica che racconta una materialità e un presente davanti a cui porsi in ascolto.
Tra gli striscioni ci sono stati i confronti di questi mesi, e di questi anni, la consapevolezza di una libertà femminile che sa misurarsi con i molti (non moltissimi) uomini presenti ieri in piazza. Anche loro giovani e meno giovani, insieme a bambine e bambini. Sì, perché nel corteo che ha accolto duecentomila anime, per lopiù donne, quelli che brillavano erano almeno due segnali, importanti e ineludibili: il mutamento dell’immaginario a proposito della narrazione della violenza maschile contro le donne di cui farsi carico insieme e le tante generazioni, trasversali, anche negli anni e nelle pratiche.
La grammatica politica che emerge da Non Una Di Meno e nella presenza dei corpi, dei tantissimi colorati e festosi corpi a raccontare che «la libertà delle donne è la libertà di tutti» o che «migliora la vita di tutti». Questo «sommovimento» dei corpi che svettano sulla retorica, capaci di spiazzare per la leggerezza con cui si presentano, l’ha insegnata il movimento degli anni Settanta, lo insegnano quelle che negli anni Settanta e Ottanta ci sono nate e sanno di essere dentro a una storia precisa. Lo sanno sui loro corpi, e dicono «no» a un tentativo di istituzionalizzazione e di stravolgimento della narrazione su quegli stessi corpi.
UDI, La rete DI.RE e Io Decido, le tre realtà che si sono per prime costituite in rete e che hanno dato il via al progetto di Non Una di Meno, hanno chiarito da subito che si sarebbe trattato di un movimento dal basso e così è stato. Un movimento senza sigle di partito, senza patrocini, in cui a sfilare ci sono state almeno quattro generazioni diverse di donne, dalle ragazze che portavano dentro alle fasce i propri bambini piccoli a intere famiglie, arcobaleno e no. Non è decisivo quando alle forme nucleari si preferiscono le comunità politiche.
Attraversando via Cavour, due signore anziane e minute affacciate alla finestra guardano la marea sotto di loro e fanno con le mani il gesto femminista. Prima una, poi anche l’altra prende coraggio. Il «fiume» sotto se ne accorge e cominciano gli applausi. Ma quelle due signore, di cui la foto ora rimbalza sui social, ridevano felici non certo per essere applaudite. Perché sapevano quel che facevano e quel che stava accadendo davanti ai loro occhi. Sapevano forse che le più divertite erano, come recitava un altro piccolo cartello, quelle «nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare».
Ora qualcuno scriverà che si tratta di una rinascita del femminismo, o che finalmente le donne si fanno sentire, che sono tornate. Chissà da dove poi. In realtà la manifestazione di Non Una Di Meno è il frutto maturo di un percorso lunghissimo, che non finirà presto e che domani comincerà la sua seconda fase di discussione attraverso i tavoli. Non finirà, bisogna farsene una ragione.
Il motivo per cui si dovrebbe «tremare» non è allora il «ritorno» delle donne, come delle streghe, ma la consapevolezza, chiara, gioiosa, a tratti commossa che le donne ci sono sempre state. Tremate dunque, tremate. È giusto. Perché le donne non se ne sono mai andate.
«La campagna per il Sì ha virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile».
Huffington Post online, 27 novembre 2016 (m.c.g.)
Sono convinto da mesi che il No al referendum trionferà il 4 dicembre (Renzi è finito, fatevene una ragione). Non certo sulla base dei sondaggi, ai quali non credo e che mesi fa davano il No senza speranze, ma piuttosto osservando dati e fatti reali sotto gli occhi di tutti. Michael Moore sperava tanto d'essere smentito, io No.
1. Se i sondaggi non sono attendibili, esistono tuttavia i dati concreti dei voti espressi quest'anno. Al referendum sulle trivelle del 17 aprile scorso 13 milioni 300 mila italiani si sono presi il disturbo di andare a votare contro il governo per una consultazione poco più che simbolica.
È probabile che tutti costoro tornino a votare il 4 dicembre per una questione assai più importante e altri se ne aggiungano, visto che la percentuale di votanti sarà ben più ampia. Questo significa che la base concreta del No si aggira intorno ai 15 milioni di voti. Renzi deve dunque portare al voto oltre 15 milioni di Sì, impresa matematicamente improbabile.
2. Il coro dei media. La netta prevalenza delle ragioni del Sì sui media, l'endorsement implicito o esplicito di tutti i grandi giornali, la scandalosa faziosità governativa della Rai e quella meno sfacciata di Mediaset, tutto questo coro avrebbe costituito in altri tempi un enorme vantaggio. Ma non in questi, nei quali la credibilità dei media e il loro potere d'influenzare l'opinione pubblica sono prossimi allo zero. Il dilagare su giornali e tv del monologo auto elogiativo di Matteo Renzi produce ormai l'effetto d'ingrossare ogni settimana le fila del No.
3. Il tardo trasformismo di Renzi. La narrazione renziana è rapidamente invecchiata, come ha capito ormai anche il narratore, provando a cambiarla in corsa, ma tardi e male. Quando fu concepita la tenaglia fra riforma costituzionale e Italicum, che avrebbe consegnato al premier un potere immenso, Renzi veniva dal 41 per cento alle Europee ed era sicuro di ottenere un plebiscito, quindi ha personalizzato oltre misura la sfida. Con la progressiva delusione per gli scarsi risultati economici del suo governo, le minacce di dimissioni hanno smesso di essere tali, ma Renzi avrebbe dovuto comunque insistere sulla linea guascona.
Al contrario ha cercato di correggersi tornando democristiano, sorvola sulle dimissioni dal governo e non parla più di ritirarsi dalla politica. Per giunta ha ceduto sulla modifica dell'Italicum, «la legge elettorale più bella del mondo», quella che «tutti ci copieranno in Europa». In questo modo il Rottamatore ha perso il suo fascino principale, per rivelarsi il solito trasformista disposto a cambiare idea su tutto pur di rimanere attaccato alla poltrona. Per dirla con Marx (Groucho): «Questi sono i miei principi, signora. Se non vi piacciono, ne ho degli altri».
4. La paura non funziona più. Il fronte del Sì era partito bene, prospettando una serie di vantaggi in positivo agli elettori. Ma i più seducenti, il risparmio sui costi della politica e la maggior velocità decisionale, si sono persi per strada. L'abile mossa dei 5 Stelle di proporre durante la campagna robusti (e sacrosanti) tagli agli stipendi dei parlamentari, respinta dalla maggioranza, avrebbe procurato risparmi ben maggiori rispetto ai miseri 50 milioni l'anno del nuovo Senato calcolati dalla Ragioneria. Quanto alla rapidità, più veloci per fare che cosa?
La campagna per il Sì ha dunque virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma, come testimoniato dalla Brexit e dalle presidenziali Usa, la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile.
5. Gli italiani votano con saggezza. Detto modestamente da uno che ha quasi sempre votato per i perdenti. I referendum però li ho quasi tutti vinti. Nel voto referendario gli italiani votano con saggezza, con più libertà e ragione. Ed è sicuro che di fronte a una riforma pasticciata e pericolosa, che stravolge un terzo della Costituzione "più bella del mondo" in cambio di una manciatina di risparmi, la ragione, la libertà e la saggezza impongano di dire No.
Poi si potrebbe discutere anche sulla saggezza degli italiani alle politiche, visto che per mezzo secolo i comunisti non avrebbe in nessun caso potuto guidare un paese dell'Occidente e il ventennio berlusconiano è stato in gran parte frutto degli errori del centrosinistra. Nelle due uniche occasioni in cui la sinistra ha trovato un progetto unitario e un leader consistente, Romano Prodi, il berlusconismo è stato sconfitto. Ma questo è un altro discorso.
«il manifesto, 26 novembre 2016 (c.m.c.)
Al di là di quello che realmente farà il nuovo presidente statunitense, è indubbio che gli slogan della sua campagna elettorale hanno trovato ascolto anche fuori dai confini del nord America, in particolare la sua battaglia per difendere i prodotti made in Usa. Ritorna in auge la politica protezionistica, e non è una novità. Sappiamo bene che nel corso della storia il capitalismo ha fatto registrare ondate di globalizzazione dei mercati a cui sono seguite delle contromisure, con innalzamento delle barriere doganali e contingentamento delle importazioni. Anche sul piano teorico, la scienza economica ha visto imporsi, agli inizi del XIX secolo, la teoria dei «vantaggi comparati» di David Ricardo.
Una teoria su cui tutt’ora si basa la vulgata dei vantaggi del “libero scambio” a livello internazionale, a cui trent’anni dopo si è opposta la strategia protezionistica teorizzata da Friedrich List, il promotore di una via tedesca allo sviluppo basata su una articolata barriera doganale che proteggesse i primi germogli dell’industria tedesca nella seconda metà dell’Ottocento.
Come ha messo in evidenza Gianni Toniolo in un acuto editoriale (sul Sole 24 ore), l’ondata di globalizzazione della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei Parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Ancora più dura e drastica fu la risposta politica alla globalizzazione negli anni Trenta, creando le basi dell’intervento forte e deciso dello Stato nell’economia, sia nella versione dell’autarchia fascista e del nazionalsocialismo in Germania , sia del New Deal nordamericano.
Il fallimento delle ondate di globalizzazione dei mercati dimostrano che il mercato “autoregolato” non può durare a lungo senza distruggere la società, come è stato ampiamente documentato da Karl Polanyi. Purtroppo, la risposta sociale e politica agli effetti perversi della globalizzazione ha avuto ed ha ancora oggi una matrice prevalente di Destra. Come molti analisti hanno evidenziato in questi giorni, la vittoria di Trump, ma anche il successo crescente delle destre in Europa, si basa in gran parte su ricette “protezionistiche” che rifiutano il cosiddetto ”libero mercato internazionale” del lavoro e delle merci.
C’è una coerenza e una estrema chiarezza nella proposta politica della destra occidentale: difendere i propri prodotti dalla concorrenza sleale cinese, impedire alle multinazionali con base nei paesi occidentali di andare a produrre all’estero a costi decisamente più bassi per poi rivendere in patria ai prezzi correnti.
Allo stesso modo, bloccare i flussi migratori in quanto il cosiddetto “libero mercato internazionale” del lavoro comporta, soprattutto in una fase di stagnazione, una concorrenza crescente con la forza lavoro locale. Anche negli Usa o in Germania dove la crescita economica negli ultimi dieci anni si è accompagnata alla dequalificazione del lavoro ed una riduzione del salario medio.
In sintesi, la proposta della destra, che si può definire come Neoprotezionismo, perché è un misto di protezionismo verso l’esterno e liberazione/privatizzazione dello Stato all’interno, è molto chiara e popolare e il Neoliberismo “tal quale” finisce per essere sostenuto dalle forze politiche un tempo appartenenti alla sinistra storica (Hollande, Renzi, Obama, e C.).
Paradossalmente la nuova sinistra, o la sola sinistra che è rimasta a criticare il turbocapitalismo neoliberista non è riuscita ad andare oltre quello che i movimenti sociali hanno espresso nei primi meeting internazionali di Porto Alegre.
Il movimento No Global (poi ribattezzato New Global) contestava e denunciava i danni sociali ed ambientali di questa forma di globalizzazione capitalistica, e ne proponeva un’altra, ma in termini generici e volontaristici. In altri termini, né dai movimenti di contestazione né dalle forze politiche della sinistra radicale è scaturita una proposta chiara e comprensibile all’operaio, al lavoratore precario, al disoccupato, che si sentono minacciati, dalle merci e dalla forza lavoro che vengono da lontano. La critica anche aspra del capitalismo se non accompagnata da contromisure credibili, non rappresenta una proposta politica. Né è stato sufficiente il mutamento culturale che ha portato negli ultimi decenni ad una rivalutazione del “prodotto locale”, del consumo a km zero, dei Gruppi di Acquisto Solidale, ecc. Un risposta alla globalizzazione capitalistica dal basso, certamente importante, che però non riesce ad intaccare i grandi numeri dell’economia.
Da molti anni la sinistra italiana, quella rimasta tale, ha proposto un reddito minimo di cittadinanza come misura di protezione sociale, proposta oggi fatta propria dal M5S. Ma, sul piano della concorrenza sleale che per esempio il governo cinese attua da oltre un ventennio, manipolando il tasso di cambio dello yuan, non c’è mai stata una chiara presa di posizione. Come è ormai noto, c’è un accordo tacito tra imprese multinazionali e governo cinese, vietnamita, ecc. di mantenere un tasso di cambio «politicamente» manovrato che conviene ad entrambi i soggetti.
Per spiegarci meglio: un operaio cinese che guadagna 250 euro al mese ha un potere d’acquisto pari a circa 1200 euro in Italia, l’impresa multinazionale che lo ha assunto ha un risparmio sul costo del lavoro per unità prodotta nella Ue di circa il 70%, il governo cinese ha creato in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro ed ha fatto entrare nel paese valuta pregiata con cui oggi compra imprese in Occidente e terre in Africa, e non solo.
Tutti questi attori ci guadagnano, sia pure in misura diversa, ma il resto del mondo? Come si rompe questo meccanismo ? Non certo come propone Trump con i dazi sui prodotti cinesi al 45% , perché oggi la Cina è in grado di colpire al cuore il sistema finanziario statunitense (a partire dai titoli del debito pubblico), ma anche perché queste misure abbasserebbero il tenore di vita della maggioranza dei lavoratori nordamericani. Se non c’è stata più inflazione a due cifre in Europa e negli Usa, dagli anni ’90, è proprio grazie ai bassi prezzi dei prodotti provenienti dall’industria asiatica.
Ma, se non vogliamo consegnare alla destra il futuro della Ue dobbiamo rispondere al neoliberismo con proposte credibili e praticabili, dobbiamo trovare necessariamente un’altra via che non sia quella biecamente neoprotezionistica e nazionalsocialista. E’ sul piano internazionale, delle contraddizioni del nostro tempo, che dobbiamo costruire una proposta chiara e praticabile.
«Il procuratore generale di Palermo spiega quali sono le vere ragioni per cui la Costituzione viene stravolta».
Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo stralci dell'intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, al seminario sulla Riforma della Costituzione al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre scorso.
Questa riforma costituzionale non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente (...). Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione. Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’art. 58 che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (…) Questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali (…).
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori? (…) Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza? (...) Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma la disattivazione del ruolo delle minoranze, condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa. E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel Paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo. (...)
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido controbilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti (...).
Se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare. Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e necessaria e urgente per risolvere i problemi del Paese. La Ragioneria dello Stato ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione e della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia. (…) Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera e il Senato, quando una delle due Camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra. In questa legislatura sono state sino a oggi approvate 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. (...)
Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella Seconda Repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso? La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un Paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. (…) Il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute a Commissione europea, Bce (e per certi versi al Fondo monetario internazionale) privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario (...).
Una esemplificazione concreta e recente (...) è lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il presidente della Bce inviò al presidente del Consiglio italiano,dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo e il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare. (…) Tutte le leggi indicate dalla Bce sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare: la Salva-Italia di Monti e Fornero in appena 16 giorni; la legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in 5 mesi (con 4 votazioni Camera-Senato-Camera-Senato) (…).
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”. (...) In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati. (...) I riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico (...). Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue.
Parole semplici per spiegare in modo comprensibile a tutti perche votare NO, nonostante la nuvola di menzogne sollevata da chi comanda.
LiguriTutti, 23 novembre 2016 (c.m.c.)
Non ho nessuna pretesa di dare lezioni. Di scrivere un breviario per il referendum. Ecco semplicemente alcune delle ragioni per cui voterò “no”.
Con una premessa: non si dovrebbe votare “sì” oppure “no” pensando alla sorte di Renzi (è stato il premier, bisogna ricordarlo, a cercare di personalizzare il voto). Qui è in gioco soltanto la Costituzione che è molto più del destino politico di Renzi, della sorte di un partito o di una coalizione.
La Costituzione è il destino di tutti noi cittadini.
Le premesse
Non voterò mai “sì” a una Riforma dove sta scritto nero su bianco che i cittadini non sono tutti uguali. Anzi, che io valgo meno di un altoatesino o un valdostano (che magari non si sentono nemmeno italiani).
Nel nuovo senato infatti la Val d’Aosta che ha 150mila abitanti avrà due senatori. Esattamente come Liguria, Marche, Umbria, regioni che di abitanti ne hanno anche un milione e mezzo. E’ pura matematica: i valdostani hanno un senatore ogni 75mila abitanti. Liguri, marchigiani ecc hanno un senatore ogni 750mila abitanti.
Cioè per la Costituzione un ligure vale un decimo di un valdostano. Basterebbe questo per farmi votare “no”.
Ma c’è molto altro.
Il metodo
Il Governo che rappresenta il potere Esecutivo, non dovrebbe occuparsi della Costituzione (massimo atto del potere Legislativo). Quando nacque la nostra Costituzione del 1948 l’allora premier Alcide De Gasperi partecipò soltanto una volta ai lavori della Costituente. L’attuale Riforma invece nasce addirittura per iniziativa del Governo.
La Costituzione del 1948 rappresentava l’unità del Paese. Quella di oggi la divisione.
La Riforma è stata portata avanti da un Parlamento e un Governo eletti con una legge bocciata dalla Corte Costituzionale. Non solo: si tratta di un Governo guidato da un premier non eletto. E soprattutto di una maggioranza opposta a quella votata dagli italiani nel 2013.
L’approvazione del testo della Riforma è frutto di forzature che di fatto hanno messo a tacere l’opposizione. Alcuni articoli sono stati “liquidati” in un paio d’ore. Un regolamento condominiale richiede più tempo.
I padri costituenti del 1948 – vedi il tanto citato Calamandrei – sono stati sostituiti da figure come Denis Verdini.
Non è vero che “ce lo chiede l’Europa” (e comunque la Costituzione è nostra, e non dell’Europa, degli Stati Uniti o di Jp Morgan). L’Europa vorrebbe piuttosto che l’Italia sconfiggesse la corruzione con norme più severe, che estirpasse la piaga delle mafie o quella dell’evasione fiscale.
Il contenuto
La Riforma cancella il bicameralismo perfetto, ma non il Senato. Proprio come le Province che continuano a esistere.
Il Senato non sarà più elettivo. Siamo sempre meno cittadini. Prima ci hanno tolto il voto per i consiglieri provinciali, adesso anche per i senatori.
In Senato siederanno sindaci e consiglieri regionali che hanno già compiti di grande impegno e responsabilità. Impossibile svolgere contemporaneamente in modo adeguato le due funzioni.
Grazie alla Riforma sindaci e consiglieri regionali – ricordiamo i tanti scandali che hanno toccato le nostre regioni? – godranno di immunità.
Non è vero che la Riforma semplifica, è vero anzi il contrario. Il nuovo articolo 70 (oltre 400 parole invece di 9) prevede fino a tredici iter diversi per l’approvazione delle leggi.
Non è vero che il bicameralismo perfetto paralizza il Parlamento: ogni anno in Italia si approvano più leggi che negli altri paesi europei.
Non è vero che le leggi restano bloccate tra Camera e Senato: su 240 leggi approvate in un anno ben 180 sono passato in prima lettura. Cioè dopo un solo passaggio.
E’ un bene che alcune leggi particolarmente delicate abbiano due letture.
Già adesso ci sono leggi che – purtroppo – sono state approvate con la massima velocità: vedi la legge Fornero (16 giorni). Se i partiti lo vogliono, le leggi procedono spedite.
La “vecchia” Costituzione non è la causa della scarsa governabilità italiana. Soltanto sette governi nella storia repubblicana sono caduti per un voto contrario in Parlamento. Gli altri hanno dovuto soccombere a causa della crisi dei rapporti tra i partiti che li sostenevano.
La Riforma, dice Renzi, taglierà i costi della politica di 500 milioni. Secondo la Ragioneria dello Stato, invece, non arriviamo a 60. Il solo referendum ne costa 300, cinque volte tanto. E comunque sarebbe bastata una legge per ottenere gli stessi risparmi. Non serviva modificare la Costituzione.
E’ giusto tagliare i costi della politica, diverso – e sbagliato – è ridurre i costi della democrazia. Che garantiscono a tutti noi di essere rappresentati e tutelati. Di avere voce e non essere dimenticati.
La Riforma non solo depotenzia il Senato. Ma rende in parte la Camera suddita del Governo che potrà indicare quali provvedimenti dell’Esecutivo dovranno essere oggetto di lettura con tempi certi. In pratica il Governo potrà dettare l’agenda alla Camera dicendo di cosa occuparsi (e di cosa, conseguentemente, non occuparsi) «Adesso o mai più», dice il ministro Boschi. Niente di più falso. Referendum costituzionali ne abbiamo già fatti altri due negli ultimi quindici anni. Di riforme costituzionali ne abbiamo fatto decine. Nulla vieta di proporne altre – i testi sono già pronti – appena dopo il referendum.
Considerazioni politiche
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Questa riforma è stata sostenuta da un’alleanza improponibile che va da Angelino Alfano a Denis Verdini.
Chi occupa posizioni di potere in Italia, come nelle nostre città, vota spesso “sì”.
Dagli industriali, agli attori che sperano in contratti Rai, passando per tutto quel “sottobosco” che vive di nomine e incarichi pubblici. Viene quindi un dubbio: le riforme dovrebbero garantire rinnovamento e alternanza, dare voce a chi ne ha meno, ma qui paiono tanto care a chi il potere lo ha già. E cerca di conservarlo. Ecco il grande paradosso di questa sedicente riforma che invece conserva.
Insomma, chi vuole cambiare farebbe meglio a votare “no” e a difendere la ‘vecchia’ Costituzione.
Cittadini o prostitute? Sia detto con il massimo rispetto per chi fa una vita tanto difficile e dolorosa. Ma viene un dubbio: sabato Matteo Renzi tornerà per l’ennesima volta a Genova con il paniere carico di promesse e denari. Speriamo che non si illuda di comprare il nostro consenso al referendum con i soldi. La Costituzione e il voto libero non si vendono per quattro denari…
Post scriptum
La vecchia cara Costituzione è stata alla base di grandi conquiste che tanti paesi ci invidiano. Dalla riforma sanitaria al diritto di famiglia. Per non dire della rinascita del Dopoguerra che ha portato l’Italia tra le potenze economiche mondiali.
La Costituzione ha permesso tutto questo. Forse prima di cambiarla bisognerebbe conoscerla e applicarla. E magari cambiare un poco noi stessi.
Se volete votare come persone e non come buoi leggete l'intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli.
Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016 (p.d.)
Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [c
he è già in vigore - n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai
instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.
Nella stessa direzione vanno alcuni aspetti della proposta di riforma costituzionale. Essa è assai complessa, riguardando ben 47 articoli sui 139 della Costituzione (un terzo), e perciò la sua stessa estensione (3000 parole) è di per sé una scelta poco democratica, perché rende difficilissimo al cittadino studiarne ogni aspetto, e praticamente impossibile pronunciarsi consapevolmente con un ‘sì’ o un ‘no ’ (...). Esso assume in tal modo un carattere fiduciario e plebiscitario, che espropria i cittadini della propria individuale ragion critica, e chiede loro di pronunciarsi a favore sulla base degli slogan martellati dal governo.
Una volta assicurata alla Camera dei deputati una maggioranza forte al partito di governo (con la legge elettorale), il Senato viene neutralizzato abolendone l’elettività e trasformandolo in un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali che ne saranno membri part-time. Poco importa che gli Statuti di alcune Regioni vietino espressamente ai loro consiglieri regionali di ricoprire qualsiasi altro incarico pubblico; (...) che il nuovo Senato sia a composizione variabile (i suoi membri scadono uno per uno, via via che decadono dal loro incarico regionale o comunale); che l’intricatissimo art. 70, combinato con altri (art. 55) preveda una moltitudine di interazioni Camera-Senato che, a parere di 11 ex presidenti della Corte costituzionale, porteranno a una paralisi del processo legislativo.
Le complicazioni procedurali (presentate come “semplificazioni”), la moltiplicazione dei percorsi di approvazione delle leggi,i potenziali conflitti di competenza avranno per effetto di rendere arduo e lento il funzionamento del Parlamento, con ciò favorendo di fatto la supremazia del governo e il suo potere.
Non è stato dunque abolito il Senato, ma i suoi elettori (cioè i cittadini).Lo stesso è accaduto a livello territoriale con la cosiddetta abolizione delle Province, che di fatto sopravvivono come circoscrizioni amministrative, quanto meno con la figura del Prefetto, funzionario del governo che continua ad avere in ogni capoluogo di provincia funzioni importanti, anzi accresciute dalla legge Madia (al punto di potersi anche sostituire al parere tecnico dei Soprintendenti in materie delicate come gli illeciti paesaggistici). Anche in questo caso, non è la provincia che è stata abolita, bensì i cittadini della provincia. (...).
Con questi e altri artifizi, la nuova proposta di riforma costituzionale accresce i poteri del governo allontanando gli elettori dalla politica, diminuendo le istanze in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi, riducendo l’autorevolezza del capo dello Stato. Temi, questi, che non risultano in alcun modo dalla scheda approntata per il quesito referendario, che riproduce il titolo, abile perché manipolatorio, della legge di riforma.
Per questo il referendum del 4 dicembre sarà un test importante e rivelatore. Ci mostrerà se sta prevalendo in Italia un’idea di politica come meccanismo chiuso e privilegiato che garantisca la governabilità limitando lo spazio della democrazia;ovvero un’idea di democrazia partecipata, dove moltiplicare e non ridurre le istanze di partecipazione attiva dei cittadini, di espressione del voto, di scelta dei candidati, incrementando e non demolendo la forma-partito con la sua democrazia interna, diffondendo informazioni corrette e non manipolate, puntando sulla coscienza critica dei cittadini e non sulla loro obbedienza.
Un'analisi dei possibili scenari post-referendum attraverso considerazioni pragmatiche e soprattutto meno drammatiche che tendono ad alleggerire la tensione delle ultime battute provenienti dai due fronti .
La Repubblica, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
E se invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci attendono. Sono quattro, come le stagioni.
Ma il loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da trent’anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne incroceremo un altro. Quindi l’alternativa è fra rivoluzione e stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5.
Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate, eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l’introduzione del pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile il referendum.
E adesso? Comunque vada, s’apre una stagione di microriforme. Se vince il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando spazio solo a qualche aggiustamento; d’altronde anche il presidente Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta talune imperfezioni da correggere.
Se vince il No, lo stesso. Ne trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni. Se non altro, eviteremo d’inciampare.
Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il «foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l’accordo siglato all’interno del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre l’esigenza d’approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche l’-I-talicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l’esito del voto popolare, non mutano gli effetti.
Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un’eventuale bocciatura: è un esecutivo, non un’Assemblea costituente. E ha davanti un referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato d’elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale. Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo; altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l’azionista di maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c’è Renzi, oppure un renziano.
Quarto: le elezioni. Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera.
Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.

L'associazione della quale sono presidente uscente, "Altra Europa - laboratorio Venezia" ha organizzato a Venezia (Ateneo Veneto, 12 novembre 2012) una presentazione del libro Costituzione! Perchè attuarla è meglio che cambiarla
. Dopo la magistrale illustrazione che ne ha fatto l'autore, che ne ha raccontato la storia come se fosse un trascinante libro giallo, ho spiegato perché AE-laboratorio Venezia ha deciso di mutare focus e formato. Ecco perché crediamo oggi più che mai, che la Politica, con la maiuscola, è necessaria
Per una«libera scuola di libera politica
Come ho dettoall’inizio di questo incontro il nostro Laboratorio è nato, un paio d’anni fa,con l’intenzione di proseguire l’esperienza iniziata con la lista L’altraEuropa con Tsipras, ai cui principi ispiratori siamo fedeli. A conclusione diquesto primo periodo di attività stiamo ripensando al focus e al formato nostroimpegno.
1. La politica
Crediamo di aver individuato il focus della nostra attività nel tema – anzi, nella dimensione - della politica, e la forma della nostra attività nella scuola: una scuola in cui tutti siano al tempo stesso discenti e docenti “Libera scuola di libera politica” potrebbe essere il nostro motto, o il nuovo nome della nostra associazione
Vogliamo parlare e ragionare di politica. Bisognerebbe avere una concezione molto ristretta della politica per pensare che essa abbia a che fare solo con i "partiti", e per di più quelli di oggi, e per di più quelli della "sinistra” di oggi. Per noi la Politica è una dimensione della vita e dell'attività della persona umana che viva nella sua realtà sociale.
Ricordando ciò che ha scritto Lorenzo Milani si può affermare che l'esigenza della nasce in ciascuno di noi quando scopre che il suo problema è quello di molti, e che solo mettendosi insieme si può sperare di affrontarlo.
Il contrario della "politica", secondo lo stesso autore, è l'avarizia: il rinchiudersi nella difesa dei propri individuali interessi: che è ciò che stanno producendo l'ideologia del neoliberalismo - avviato Von Hajek e Milton Friedman, Von Mises, e Walter Lippman -e le sue conseguenze politiche,
2. Politicanti e diffidenti
Non molti condividono la nostra visione della politica.
Alcuni, una parte consistente, lo fanno perché hanno una visione della politica diversa dalla nostra: diversa, e anzi opposta. Vedono la politica come mera tecnica di gestione del potere in vista dell’affermazione e del rafforzamento dell’interesse e del potere proprio o del gruppo, sociale o di classe, cui si appartiene
Altri, e sono forse la maggioranza, lo fanno perché non immaginano, scottati dall’esperienza degli ultimo decenni, che sia possibile praticare un’altra poliica
I primi, i “politici politicanti”, sono i nostri avversari. I secondi, i diffidenti, saranno i nostri alleati, se riusciremo a convincerli che un’altra politica, una buona politica, è possibile.
3. Due eventi: Trump e Bergoglio
Due eventi sono accaduti nelle ultime settimane, che danno entrambe conferme alle nostre scelte. Due eventi di segno diverso: le elezioni negli USA; il discorso di papa Bergoglio sulla politica..
Le elezioni in USA
Ciò che è successo nelle elezioni negli USA ci incalza a muoverci in fretta e conferma la nostra direzione di marcia. Il potenziale di rabbia e di disagio sociale che è nato perfino nelle aree del benessere è tale che, se non trova altri canali, dà peso politico alle forze che esprimono quanto c’è di più reazionario, xenofobo, razzista, maschilista nella società di oggi.
Condividiamo le preoccupazioni che la vittoria di Donand Trump ha provocato. Ma non condividiamo affatto l’opinione di chi vede nell’establishment rappresentato da Hillary Clinton e Barack Obama un efficace contrasto ai Trump del mondo.
Chi ha seguito un po’ la geopolitica degli ultimi decenni ha imparato che sia l’ex segreteria di stato sia l’ex presidente degli USA sono stati, nei fatti se non nelle parole, i prosecutori di una vecchia politica della globalizzazione capitalistica. Non hanno abbandonato l’impiego della guerra come strumento per l’accrescimento del potere, né lo sfruttamento delle risorse altrui, né il saccheggio di quelle del pianeta, e neppure gli strumenti dell’imperialismo culturale.
Credo che si possa dire che, al di là delle parole, Obama è stato di fatto il continuatore della dottrina Truman: “il modello del capitalismo occidentale è l’unico valido, abbiamo il dovere e il diritto di esportarlo e imporlo a tutti i popoli, a tutte le civiltà”.
Come si può pensare che persone e aree politiche cha hanno prodotto i danni e le paure che alimentano la demagogia dei Trump siano idonei a combatterle? Lo ha scritto Barbara Spinelli oggi sul Fatto Quotidiano: «La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali»
Il discorso di papa Bergoglio
Spero che abbiate letto il discorso di papa Bergoglio sulla politica. Un papa che ha proclamato a le parole che la sinistra storica non sa più dire, e la pseudosinistra renziana reprime. Vi consiglio di leggerlo nella versione integrale, su eddyburg, dove lo trovate se digitate :”Popolo, Democrazia e Politica”. Ne riporto alcuni passaggi:
«Non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola ha detto Bergoglio alle “organizzazioni degli esclusi. «Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle.»
Nel sollecitare il popolo a entrare nella politica con la maiuscola ha messo in guardia contro due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.
«Finché vi mantenete nella casella delle ‘politiche sociali’ – ha osservato -, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema.
«Invece quando si osa «mettere in discussione le ‘macrorelazioni’, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste».
4. Da dove partire
Partire dal popolo, partire dai movimenti nei quali si esprime in forma collettiva il rifiuto del disagio nel quale la stragrande maggioranza delle persone vive.
Ha completamente ragione chi individua la possibile matrice di una nuova politica nel fiorire ed espandersi della miriade di luoghi, di aree e di problemi che provoca il nascere di organizzazioni e movimenti piccoli o grandi, che si dissolvono in pochi anni o che durano con una tenacia e una continuità maggiore di tanti governi (voglio ricordare la Val di Susa), che vivono nell’isolamento o che sono capaci di aggregarsi in ampie reti (voglio ricordare quella che unisce il pezzo d’ Italia che va da Mestre a Orte)
Ciò che questo vasto e mutevole mondo esprime non è ancora "politica” in senso pieno, ma rappresenta certamente la base di una possibile alternativa al sistema economico-sociale dominante: diciamolo chiaramente: una alternativa al capitalismo le cui velenose radici si esprimono oggi nella figura del neoliberalismo.
5. Historia magistra
Poiché Historia magistra, ci proponiamo anzitutto di riflettere su qual era la forza antagonista a quel sistema nei secoli passati, e su quale era la radice ideale e sociale della sua forza.
Non per crogiolarci in un’atmosfera nostalgica, ma per comprendere, da ciò che stato, come si può pensare e agire in una direzione che sia giusta e possibile .
Io partirei domandami chi erano gli sfruttati ieri e chi sono gli sfruttati oggi. Altri percorsi sono possibili, ma io credo che è dalla storia che occorre partire, facendo in sostanza l’operazione opposta a quella che fece Margaret Thatcher quando, per sostenere che
There Is No Alternatives, cancellò la storia, cioè il vivente deposito delle alternative possibili.
Ci proponiamo, ovviamente, una riflessione che non si limiti a esplorare ciò che esiste nei recinti del cosiddetto Primo mondo (Recinti che oggi gli Usa di Trump e l'Europa della UE vogliano munire di più temibili muraglie), ma si estenda alla vastissima area dove moltitudini di persone sono sfrattate dalle loro terre e cacciate verso sponde lontane.
Penso oggi soprattutto al dramma di quelli, più fortunati di moltissimi altri, che arrivano da noi come “migranti” e da noi vengono respinti con odio e paura.
6. Lo spazio pubblico e Venezia
Perché la riflessione sia possibile, occorre che ci sia lo spazio pubblico nel quale essa possa svolgersi liberamente. “Libera scuola di libera politica”, ha bisogno dello spazio pubblico della democrazia: e di una democrazia più sostanziale di quella che abbiamo conosciuto. Una democrazia simile a quella che hanno immaginato i Padri della nostra costituzione del 1949, che i loro successori non hanno saputo completare. Anche per questo il tema della difesa e del completamento della nostra Costituzione ci sembra oggi essenziale, e anche per questo abbiamo chiesto a Salvatore Settis di parlarcene, a partire dal suo ultimo libro.
Ma noi – e tutto il mondo dei movimenti, delle associazioni, delle persone che vogliono lavorare insieme per contribuire a cambiare il mondo) abbiamo bisogno anche di spazi fisici. A Venezia questo è sempre più difficile
Venezia, e soprattutto la città antica, è diventata una città nella quale ogni aspetto dello spazio è sottratto agli usi di tutti (alla contemplazione e all’incontro, alla cultura praticata all’uso alle attrezzature del welfare) a causa delle due facce della peste del 21° secolo: il turismo sregolato di massa e il turismo di lusso, che occludono da una parte e privatizzano all’altra spazi che per secoli sono stati comuni, entrambi tenacemente agevolati da chi ci governa.
Tant’è che oggi, per trovare una sala in cui riunirci abbiamo dovuto affidarci alla cortesia dell’ Ateneo Veneto, e pagarne le spese, in solido con gli amici di “Campo aperto” e di “Scelgo no”, con i quali abbiamo organizzato questo incontro e che ringraziamo molto anche per questo.
Venezia, 12 novembre 2016
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il manifesto, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
Contrordine. La vittoria del No non fa più paura. L’Economist, anzi, si schiera apertamente e non ci va leggero: «Gli italiani dovrebbero votare No. Renzi ha sprecato quasi due ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna a occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa. Il nuovo Senato sarebbe un magnete per la peggiore classe politica.
Ogni eventuale beneficio della riforma è secondario rispetto ai rischi, in cima ai quali c’è quello di un uomo solo eletto al comando. Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico come ha fatto tante volte». De profundis. Che arriva dal prestigioso settimanale britannico dell’Economist Group controllato dalla Exor – la holding degli Agnelli – proprio nel giorno in cui Renzi andava a Cassino a raccogliere l’endorsement di Sergio Marchionne.
La Bce è molto più felpata e tuttavia getta a sua volta acqua sul fuoco. «Non si possono prevedere le conseguenze di una vittoria del No e i rendimenti dei titoli di Stato hanno subito movimenti al rialzo perché i mercati iniziano a valutare il rischio referendum», esordisce il vicepresidente Vitor Constancio. Poi però rassicura: «La Bce è pronta a esercitare un ruolo di stabilizzazione come ha sempre fatto». La rete di protezione è pronta.
La strategia della sdrammatizzazione trova pronto riscontro in Italia, anche all’interno del Fronte del Sì e nel Pd. Aveva iniziato Dario Franceschini, mercoledì scorso, ripetendo che anche se la riforma fosse sconfitta Renzi non dovrebbe affatto dimettersi. Rilancia oggi il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Renzi può continuare a governare sostenuto dal partito. Credo che questa, qualunque sia l’esito del referendum, sia l’ipotesi migliore per il Paese e per la sinistra».
Il pompiere numero uno, però, è Silvio Berlusconi. Ripete che non sarà comunque Forza Italia a chiedere la testa del premier: «Ha la maggioranza, quindi sarà una sua decisione». Il leader azzurro sta facendo quel che aveva da tempo annunciato ai suoi. Dopo aver atteso l’ultimo scorcio di campagna è entrato in campo con la massima determinazione occupando quanti più spazi mediatici possibile e sgombrando il campo da ogni voce su un suo sostegno segreto alla riforma: «E’ pericolosa, apre la strada a una possibile deriva autoritaria». Aggiunge di suo la battuta forse più cattiva di cui sia mai stato fatto oggetto Matteo Renzi: «Ha sbagliato lavoro: come presentatore televisivo io lo avrei preso subito».
Ma se fino al referendum l’ex Cavaliere gioca la stessa partita degli altri sostenitori del No, le cose cambieranno un minuto dopo. Soprattutto, ma non esclusivamente, se la riforma verrà sconfitta. I suoi alleati Salvini e Meloni hanno fretta. Vorrebbero capitalizzare l’eventuale successo subito dopo la modifica della legge elettorale e forse persino prima, anche a costo di votare con un sistema diverso per Camera e Senato.
Il dinamico ottantenne è deciso a federarsi con loro, sostiene di avere già un progetto preciso. Ma sui tempi non se ne parla. Con o senza Renzi premier Berlusconi vuole prendere tempo, modificare la legge elettorale, iniziare a discutere di una riforma costituzionale condivisa. E’ certo di avere nella manica l’asso del Quirinale: «Non credo che il presidente potrebbe mai consentire elezioni con l’Italicum. Ci sarebbe il rischio di ritrovarci Grillo al governo».
L’argomento non è precisamente istituzionale e tanto meno corretto, ma ha il suo peso. Non è l’unico però. Il punto essenziale è che il No alla riforma suonerebbe automaticamente come bocciatura anche della legge elettorale. Per Renzi, che ne ha già promesso la modifica, difenderla sarà impossibile. Sulla carta ci sarebbe il tempo per varare una legge nuova e votare in primavera. Nei fatti è quasi impraticabile e una volta superata l’estate sciogliere le Camere con pochi mesi di anticipo non avrebbe senso. Come l’Economist ha indicato, se vincerà il No è quasi certo che la legislatura arriverà alla sua scadenza naturale.
«Questo testo è l’intervento inviato all’Anpi di Perugia. Ai più giovani ricordiamo che Aldo Tortorella è stato uno dei dirigenti del PCI più vicini a Enrico Berlinguer. Una breve scheda biografica del partigiano Aldo Tortorella la trovate sul sito dell’ANPI».
Rifondazione,online 24 novembre 2016 (c.m.c.)
Care compagne e cari compagni, un malanno invernale, complice l’età, mi impedisce di essere oggi con voi come avrei desiderato per dirvi innanzitutto tutta la mia indignazione per il modo con cui si viene svolgendo questa campagna referendaria da parte di coloro che oggi hanno il governo del Paese.
Trovo scandaloso che i pubblici poteri siano impegnati ad alimentare con ogni mezzo compresi quelli meno leciti una campagna di disinformazione e di falsità. La televisione in ogni ora del giorno e della notte è occupata da questo presidente del consiglio il quale con tutti i problemi che ci sono non ha altro da fare che saltare da un programma all’altro o da un palco all’altro palco a far la sua propaganda e a propagandare se stesso. Più che un uomo di governo abbiamo un attore televisivo, oltre che uno studente bocciato dal suo professore di diritto costituzionale.
Dire che il maggiore problema della repubblica è la presunta lentezza legislativa dovuta al bicameralismo è una favola. In Italia si fanno anche troppe leggi e il guaio è che spesso sono leggi sbagliate. E molte leggi sbagliate sono state e vengono approvate anche troppo rapidamente come è accaduto e accade alle leggi governative definite decreti d’urgenza. Il primato spetta alla sciagurata legge Fornero sulle pensioni approvata in 16 giorni. Tutti i decreti-legge di questo governo sono passati in meno di 44 giorni. Il presidente del consiglio dunque mente sapendo di mentire quando dice che vuole questo stravolgimento della Costituzione per fare presto. Ha fatto anche troppo presto con molte misure dannose per i lavoratori e per il paese.
Sono le leggi di iniziativa parlamentare ad andare lentamente ma il motivo sta non nel bicameralismo ma nelle liti interne alle maggioranze. Un esempio: la legge anticorruzione d’iniziativa parlamentare ha impiegato 798 giorni per essere approvata e cioè due anni e due mesi e si capisce perché: non andava mai abbastanza bene a questo o a quel gruppo di maggioranza. Due anni e due mesi per annacquarla e sciacquarla fino a renderla la più innocua possibile.
La verità è che si vuole una Camera che conti eletta con sistema ultramaggioritario per dare più potere al governo di imporre la propria volontà sopra e contro la rappresentanza popolare. Questa contro riforma della Costituzione stabilisce che il governo ha la priorità su tutte le leggi del suo programma e non più solo sui decreti d’urgenza e ha il potere di fissare il tempo massimo di discussione, 70 giorni. Con questo sistema inaudito in qualsiasi regime liberal-democratico il governo diventerebbe il padrone della rappresentanza parlamentare a sua volta truccata. Già oggi la Camera è eletta con un sistema maggioritario, quello del porcellum, che ha dato la maggioranza assoluta alla coalizione di centro sinistra arrivata di poco avanti alla destra. E la nuova legge elettorale già in vigore è ancora peggio, anche se ora si sono accorti che può essere disastrosa.
Dopo avere giurato sulla sua bontà e averla imposta con tre voti di fiducia ora dicono di volerla cambiare, ma senza toccare il maggioritario. Per difendere la loro controriforma , dicono anche il Pci alla costituente era per una sola camera. Certo, ma con il parlamento “specchio del Paese” e cioè con la legge elettorale proporzionale. E poi il Pci accettò il bicameralismo perché intese che era una garanzia in più nel duro periodo che si veniva aprendo con la rottura dell’unità antifascista e con la guerra fredda iniziata proprio nel 1947, mentre si lavorava alla Costituzione. E comunque, secondo il Pci, il Senato doveva essere eletto dal popolo.
Dunque il presidente del consiglio imbroglia sapendo di imbrogliare quando dice che non ha toccato i poteri del presidente del consiglio. Non li ha toccati perché ha toccato e esaltato il potere del governo e dunque del capo partito che lo guiderà. Già oggi lui governa come espressione di una minoranza del 29 per cento dei voti contro le opposizione che rappresentano il doppio. E con la sua controriforma, domani, un capo partito che può essere un qualsiasi seguace nostrano di Trump o di Le Pen o qualche altro avventuriero può ancor più di lui spadroneggiare l’Italia.
Con le mani di un partito formalmente di centro sinistra si prepara la via al peggio, come successe negli anni 20 del ‘900 al Parlamento della Repubblica democratica di Weimar nata dal crollo dell’impero tedesco seguìto alla prima guerra mondiale. Essendoci molti disordini di piazza, il Parlamento democratico tedesco stabilì che in caso di stato d’eccezione le garanzie costituzionali potevano essere sospese. La coalizione nazista vinse le elezioni, decretò lo stato d’eccezione e iniziò la propria criminale avventura. Diceva un proverbio antico che Dio fa impazzire coloro che vuol perdere. In questo caso, però, la colpa non è di Dio, ma di chi dà ascolto a questi scriteriati saltimbanchi del potere per il potere o a quelli che usano i soldi per il potere e il potere per i soldi.
E non è meno scandaloso dire che si sopprime il Senato, quando non lo si sopprime affatto ma lo si ridicolizza trasformandolo in una Camera di consiglieri regionali e sindaci a tempo perso, in più gravandolo di compiti cosi confusi che i costituzionalisti prevedono forieri di guai. Si dice che così si vuole dar voce ai territori: ma nello stesso tempo si stabilisce che lo stato di guerra adesso sarà deciso dall’unica Camera , cioè da un partito minoritario e dal suo capo. Si vede che in caso di guerra i territori non devono aver niente da dire.
Si sparano cifre assurde di risparmi inesistenti, smentiti dalla ragioneria generale dello stato. Si conduce una campagna qualunquista contro quelli che non vogliono perdere le poltrone, ma io che vi scrivo adesso non ho alcuna poltrona da perdere o da conquistare. Ho solo avuto da conquistare qualche malanno aggirandomi per l’Italia a testimoniare contro questa bruttura, perché penso a chi la Costituzione l’ha conquistata e ci ha lasciato la vita o a chi ha speso tutta l’esistenza a difenderla e ora non può più farlo.
I guai dell’Italia non dipendono dalla Costituzione. Con questa Costituzione abbiamo ricostruito l’Italia garantendone, nel bene e nel male, lo sviluppo, abbiamo conquistato diritti sociali e civili. I guai dell’Italia dipendono piuttosto dal fatto che il programma costituzionale è stato sempre combattuto e in larga misura è rimasto inapplicato. Per cinquant’anni l’Italia è stata una democrazia dimezzata dalla convenzione imposta dall’estero per escludere il più forte partito d’opposizione dal governo, anche quando nessun governo si poteva fare senza i suoi voti. Ma l’obiettivo vero era un altro, era proprio quella Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro e va oltre la eguaglianza formale, pur indispensabile, impegnando lo Stato a rimuovere “gli ostacoli economici e sociali” che limitano di fatto libertà ed eguaglianza, e così statuendo il principio dell’uguaglianza sostanziale.
Di qui viene l’affermazione del lavoro non più come una merce, ma come un diritto da garantire, viene il criterio della retribuzione da adeguare in ogni caso ad una vita libera e dignitosa, viene la indicazione del compito sociale, cioè non egoistico, della stessa proprietà privata. Ecco lo scandalo: questa Costituzione esalta il lavoro e non il capitale. E ciò avvenne perché i costituenti, pur divisi da differenti visioni politiche, venivano in grande maggioranza dalla lotta antifascista e sapevano che il fascismo era stato una creatura incoraggiata, promossa e sostenuta innanzitutto dal capitale finanziario, industriale e agrario.
Fin dai primi anni questa Costituzione fu definita “una trappola” da parte delle forze più conservatrici. E la storia dei primi cinquant’anni di vita repubblicana è segnata, come in nessun altro paese occidentale, da una ininterrotta scia di eversione e di sangue per spiantare questa possibile nuova democrazia: dallo stragismo nero al terrorismo detto rosso che con l’assassinio di Moro compì il capolavoro di portare a compimento il proposito della destra con le mani di supposti rivoluzionari di sinistra. Con quel delitto cadeva il tentativo estremo di Berlinguer e di Moro di dare compiutezza alla democrazia italiana e iniziava il declino.
Ci raccontarono un quarto di secolo fa che il sistema elettorale maggioritario avrebbe dato stabilità, risolto problemi annosi, eliminato i piccoli partiti. Ma i fatti sono stati un ventennio di berlusconismo e l’aggravamento di tutti i problemi, dal debito alla disoccupazione. E mai ci sono stati tanti partiti in Parlamento e così pochi militanti fuori, mai c’è stato un tale trasformismo tra deputati e senatori. Ora c’è l’attacco finale alla Costituzione perché, dicono, offre troppe garanzie. E dicono che si smantella la seconda parte della costituzione ma si salvano i principi della prima parte. Ma questo è un discorso per allocchi.
La seconda parte della Costituzione è l’applicazione della prima. La sovranità popolare si restringe ancora di più con l’accentramento del potere, i principi sociali già calpestati diventano sempre più carta straccia. Ma ci dicono che anche la destra dice di votare no. Certo. E noi facemmo la lotta di liberazione antinazista e antifascista anche con i monarchici. La Costituzione è di tutti, non proprietà di partito. E si dovrebbe essere lieti che proprio quelli della destra che hanno sempre attaccato la Costituzione oggi sono costretti a difenderla perché ne riconoscono finalmente il valore anche per loro, ora che si sentono in minoranza. E c’è piuttosto da temere che dicano di votare no, ma pensino e facciano il contrario, seguendo i Verdini e gli Alfano.
All’origine della stretta autoritaria, voluta non solo in Italia dai ceti più retrivi, sta il fatto che non si riesce a uscire dalla crisi: dalla lunga crisi iniziata dopo gli anni settanta e da quella che rischiava di essere catastrofica iniziata nel 2007. La vittoria globale del capitalismo non ha portato a spegnere i suoi problemi, ma a complicarli.
La globalizzazione crea nuovi squilibri e nuovamente torna la tendenza, come dopo la crisi del 29, alle chiusure nazionaliste, allo sciovinismo, alle guerre. Allora fu la Germania a imboccare la via della razza eletta, adesso il razzismo, per ora a fini interni, ha vinto negli Usa. Alle porte dell’Italia, oltre il mare, c’è la guerra generata dalla ripresa di velleità egemoniche dei paesi nostri alleati nelle terre del petrolio. Centinaia di migliaia di morti, milioni di disperati e di profughi. Ecco il motivo della stretta istituzionale, ecco il pericolo.
Il mio cammino personale è al termine, e dunque non ho nulla da temere ma temo per questi giovani di oggi. Altro che lavoro come diritto, salario dignitoso, istruzione elevata. E il rischio, in tanta frustrazione, è la possibilità che vengano cacciati in nuove avventure. Ho negli occhi le manifestazioni giovanili per la guerra in Germania e in Italia nel 39 e nel 40, pagate poi con la catastrofe loro e di tutti. Le organizzavano i fascisti, ma trascinavano i molti. E non credo eccessivo l’allarme quando al fanatismo della setta dell’ISIS si risponde con il fanatismo antimusulmano nelle manifestazioni con Trump. O con il fanatismo antiimmigrati di certi ceffi nostrani o di quel paesino di una terra che fu rossa.
Sono solo i sintomi piccoli e grandi di una malattia che si aggrava. Mai come oggi è necessario il massimo di garanzie. Salvare la Costituzione è indispensabile, anche se non basta. Si dice che chi difende la Costituzione è un passatista. E lo dicono questi nuovisti che hanno combinato solo guai. L’attacco alla Costituzione è in realtà una volontà di ritorno al passato, quando chi comandava era sicuro di non essere disturbato. Oggi dire di no è il migliore modo di dire di sì all’avvenire, è l’unico modo di tenere aperta le porte alla speranza.
«La legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili, ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO con palese violazione sia della sovranità popolare e sia della libertà di voto ».
coordinamento democraziacostituzionale,online 22 novembre 2016 (c.m.c.)
I sottoscritti avvocati del Foro di Pisa, con riferimento alla riforma della Carta costituzionale approvata dal Parlamento, al di là dei loro diversi orientamenti culturali e politici, ritengono loro dovere civico spiegare ai cittadini i motivi per i quali intendono votare NO al referendum indetto per il 4 dicembre 2016, nella comune consapevolezza della funzione pubblica e sociale della professione forense.
In primo luogo ritengono che la cosiddetta “Riforma Boschi” approvata a stretta maggioranza ed utilizzando tutti i possibili ed immaginabili espedienti regolamentari è stata decisa da un Parlamento sul quale gravano pesanti dubbi di legittimazione, a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014 con cui è stata cassata la legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) in base alla quale era stato eletto.
In secondo luogo perché la legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili., ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO a prescindere dalle diverse materie trattate, con palese violazione sia della sovranità popolare (art. 1 Cost.) e sia della libertà di voto (art. 48 Cost.).
Inoltre la riforma è frutto di un’ iniziativa governativa e non parlamentare come avrebbe dovuto essere nello spirito del nostro sistema costituzionale (non dimentichiamo che Calamandrei disse che quando si approva la Costituzione i banchi del governo avrebbero dovuto essere vuoti) giacchè la Costituzione rappresenta la legge fondamentale della Repubblica che non può ridursi ad un atto di parte, atto tra l’ altro non previsto dal programma con il quale coloro che lo hanno votato si erano presentati alle elezioni.
Siffatta tecnica legislativa ha di fatto svilito la approvazione della riforma della Costituzione al livello dell’iter di una legge ordinaria, dove sono prevalsi interessi di parte ed un indegno mercato finalizzato ad ottenere risicate maggioranze, con la conseguente esistenza di strafalcioni letterali e giuridici che ne rendono il testo di difficile e controversa lettura anche per i tecnici del diritto.
La riforma, nel merito, viola il diritto all’ elettorato attivo come forma dell’ esercizio della sovranità popolare (art. 1 comma 2 Cost.) giacchè il Senato non è espressione di elezione diretta, ma frutto di un’ elezione di secondo grado e/o indiretta (e neppure per tutti i suoi componenti).
L’ iter di approvazione delle leggi, contrariamente a quanto viene ripetuto, non comporta alcuna semplificazione dei procedimenti legislativi, che passano dai tre attuali ad un numero imprecisato, con evidente rischio non già di accelerare, come vorrebbero far credere i sostenitori del SI, ma di complicare la tempistica dei provvedimenti.
Altri punti che fanno sì che la riforma appaia peggiorativa della carta costituzionale sono, sinteti- camente, i seguenti:
1. Inspiegabile allargamento ai senatori-sindaci e/o consiglieri regionali della immunità parlamentare, che si estenderebbe anche alla loro prevalente funzione di amministratori locali.
2. La violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza a fronte della sproporzione tra il numero dei deputati (630) e quella dei senatori (95).
3. La confusionaria attribuzione di competenze legislative dalle regioni ordinarie allo Stato per una cinquantina di materie con rischio perenne di conflitto di attribuzioni e con la cer- tezza che verrà sottratto alle popolazioni interessate ogni possibilità di giudizio su scelte determinanti la qualità dell’ ambiente in cui vivono.
4. L’ aumentata disparità tra le regioni ordinarie, le cui attribuzioni vengono ridotte, e le regio- ni a statuto speciale che mantengono le attuali funzioni.
5. L’ inspiegabile ed illogico riparto del numero dei senatori in riferimento alle singole regioni.
6. L’ aumento da 50.000 a 150.000 firme per l’ iniziativa legislativa popolare e la contraddittoria presenza di due forme di referendum abrogativo in base al numero delle firme raccolte con la trasparente mira di seppellire definitivamente ogni forma di partecipazione attiva dei cittadini al processo legislativo.
Infine il potenziale effetto esplosivo tra la riforma costituzionale così come è proposta e l’ attuale legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che potrebbe portare una forza politica ampiamente minoritaria nel paese ad ottenere una schiacciante maggioranza in parlamento, parlamento che sarebbe composto prevalentemente da nominati dal capo partito della forza politica che vince il ballottaggio a prescindere dall’ entità del suo reale consenso elettorale.
Su queste questioni e quindi sul rischio che comporterebbe per le nostre istituzioni l’approvazi one della “riforma Boschi-Verdini” si sono già espressi i maggiori costituzionalisti italiani, l’ ANPI e la CGIL.
Tutti coloro che hanno esaminato con attenzione la legge costituzionale ed insieme ad essa la legge elettorale, strettamente collegata alla prima, hanno convenuto che essa porterebbe ad un restringimento dei meccanismi di democrazia, se non addirittura ad una decisa svolta autoritaria.
I sottoscritti rivolgono quindi ai colleghi un caloroso appello perché prevalga lo spirito della Costituzione vigente senza cedere alle lusinghe di chi millanta pretesi stimoli di modernità e governabilità, senza preoccuparsi dei danni che la riforma potrebbe provocare al nostro ordinamento democratico, patrimonio di tutti noi e che tutti noi abbiamo il dovere di difendere.
Claudio Bolelli
Stefania Mezzetti
Roberto Vallesi
Christian Piras
Daniela Parrini
Giulio Giraudo
Sandro Pardossi
Tiziano Checcoli
Michela Simoncini
Gina Russo Amabile
Chiarini Massimo
Mosca Alessandro Zarrae
Guido Bolelli
Ezio Menzione
Francesco Guardavaccaro
Michele Teti
Michele Cioni
Ornella Aglioti
Clara Fanelli
Sergio Coco
Andrea Callaioli
Anna Russo
Valentina De Giorgi Cristina Piolimeno Lionello Mazzoni
Luca Canapicchi
Chiara Persichetti
Ecco alcuni degli strumenti che una volpe con denti di lupo sta adoperando per consolidare il potere carpito. Ma si dovrebbe parlare anche delle intimidazioni, dei ricatti, e dei silenzi omertosi. Nonché del capo dello Stato.
il manifesto, 24 novembre 2016
Davvero vincesse il no, la prova referendaria avrebbe del clamoroso: la sconfitta dell’uomo solo al (tele) comando. Un popolo che non si lascia incantare dai simboli del potere smentirebbe taluni assiomi sugli effetti narcotizzanti dei media. La testa delle persone rimane pur sempre la cosa più inespugnabile per le agenzie del potere che dispongono di media, denaro, indirizzi privati.
Lo schieramento dei media, messo in campo dal governo per orientare l’esito del referendum, è impressionante. Le distorsioni cognitive ricercate dai canali dell’informazione sono palesi ed evocano consuetudini manipolatorie d’altri tempi.
La confezione dei telegiornali obbedisce ad una precisa strategia di persuasione per la determinazione delle preferenze di voto. Nelle reti pubbliche si raggiunge un livello pervasivo di propaganda a favore del capo di governo (l’unico che è ripreso mentre parla ad un pubblico che plaude) e di annebbiamento delle altre posizioni in campo (quasi mai associate a manifestazioni con gente in carne ed ossa). L’uso manipolatorio dei media rientra nel clima di un plebiscito che accarezza la maggioranza silenziosa disponibile all’acclamazione.
Nelle reti pubbliche senza alcuna garanzia di contraddittorio, Renzi monopolizza qualsiasi spazio dell’informazione per cercare una estrema resistenza al potere.
I servizi dei telegiornali riprendono il capo solitario che parla, gesticola, imita, insulta. E per un tempo illimitato è lui solo che recita e occupa la scena di qualche teatro tramutato in un non-luogo che ovunque mostra le stesse scatole. All’esibizione del leader, riprodotta in video per interminabili secondi, segue un minestrone, con un infinito collage di citazioni spesso banali dei nemici. Lo schema è ben collaudato: la prima notizia è sempre il capo che, nella sua ubiquità, si propone come simbolo di vivente energia, contro tutti gli altri, richiamati solo in un secondo tempo con l’assemblaggio pigro di anonime veline.
Non è casuale questo impianto scenografico che si ripete ossessivamente grazie alle telecamere amiche che seguono ogni spostamento del premier e possono farlo solo mescolando con astuzia funzione politica e carica di governo. L’accozzaglia, di cui parla Renzi, non è più un concetto astratto, un mero simbolo polemico. Diventa una immagine tangibile e viene mostrata nella sua concretezza dal servizio della Rai che obbedisce a una logica. Solo il capo parla con la sua voce, gestisce i tempi del suo intervento, gli altri che si oppongono sono rumori di fondo riprodotti in un minestrone, spesso insignificanti.
Renzi monopolizza l’intero tempo del si, mentre il minutaggio del no è distribuito in una miriade di voci che vengono ad arte moltiplicate perché così suscitano confusione, eccentricità. E spesso nel calderone delle altre posizioni compare anche Alfano, con il suo sì che inopinatamente si trova ospitato nel calderone dedicato al no. Dietro questa scelta confusionaria risiede una strategia ponderata.
Il capo, con la voce autonoma che si esibisce ovunque, e il coro di voci anonime che fanno da contorno: questo è lo schema. Se a vincere la contesa sarà proprio l’anonimo no, con il coro degli insignificanti attori non protagonisti, a dicembre si realizzerà un miracolo politico. Cioè si avrà una di quelle inattese prove di resistenza popolare al conformismo del potere destinata a fare epoca negli studi di comunicazione. Gli osservatori internazionali non dovrebbero perdere l’occasione di sorvegliare in presa diretta come in una democrazia squilibrata si prova la costruzione di un regime personale.
Così no”di Tomaso Montanari, eBook liberamente scaricabile dal sito di Libertà e Giustizia». Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2016 (p.d.)
L’articolo 117 riscritto dalla ‘riforma’ Napolitano-Renzi-Boschi riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale”.
Una recente sentenza del Tribunale permanente per i Diritti dei Popoli (una gloriosa istituzione fondata da Lelio Basso, uno dei più insigni Padri costituenti) ha stabilito che in Val di Susa i governi italiani si sono comportati come una potenza di occupazione, militarizzando un territorio cui si voleva (e si vuole) imporre una grande opera strategica di interesse nazionale (proprio come quelle che il nuovo articolo 117 riserva allo Stato). Ebbene, quella sentenza “raccomanda al governo italiano di rivedere la legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio”. Mail governo italiano, con questa riforma costituzionale, va in direzione diametralmente opposta, costituzionalizzando, di fatto, proprio lo Sblocca Italia: se vincesse il Sì le amministrazioni locali non potrebbero più mettere bocca nelle trasformazioni del loro stesso territorio, in una sorta di colonialismo centralista che contraddice tutta la storia delle autonomie locali, che è la spina dorsale della storia culturale e politica italiana. (...).
Uno dei pochi osservatori dotati di sguardo globale e profetico – papa Francesco – ha scritto (nell’enciclica Laudato si’, maggio 2015): “Bisogna abbandonare l’idea di ‘interventi’ sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante”.
Si potrà obiettare che il nuovo Titolo V riserva alla competenza esclusiva dello Stato solo le opere ritenute strategiche: è vero, ma il problema è che sarà il governo a stabilire unilateralmente, e senza possibilità di appello, cosa lo sia. Per esempio: questo governo ha dichiarato di interesse strategico nazionale la realizzazione del nuovo porto turistico di Otranto, nel quale bisognava far entrare le barche di lusso più lunghe di 70 metri care a Flavio Briatore. Siamo, di fatto, alla costituzionalizzazione del cemento (...). Roberto Saviano ha scritto in Gomorra:“La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori.Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana”.Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. In cui per “fare”era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili,e non obiettivi da raggiungere.
Per andare davvero avanti (...) ci vuole una politica che non abbia paura di costruire il consenso dei territori sui quali ritiene di dover intervenire: avocare tutto al centro significa, invece, ridurre, ancora una volta, gli spazi di democrazia e condannarsi a procedere militarizzando il Paese, sul modello della Val di Susa e del suo Tav.
E poi: dove sta davvero l’interesse strategico nazionale? L’Unica grande Opera utile per questo Paese sarebbe la cura del territorio, la sua messa in sicurezza sismica e idrogeologica: una enorme opera che potrebbe creare finalmente lavoro, oltre a proteggere le nostre vite e a far risparmiare le somme da capogiro che dobbiamo destinare alle ricostruzioni. Ebbene, se i padri ricostituenti avessero scritto nel Titolo V che è l’Unica Grande Opera a rappresentare l’interesse strategico della nazione, se ne sarebbe potuto discutere: ma è davvero intollerabile che siano ancora, sempre e solo i porti, le autostrade e gli inceneritori ad avere la precedenza sulla vera qualità della nostra vita. Il 4 dicembre dovremo ricordarci che su quella scheda, di fatto, c’è scritto: ‘Volete voi che le decisioni cruciali per la salute e la sopravvivenza stessa dei vostri corpi siano prese in un luogo remotissimo da quei corpi? Volete voi la ‘Costituzione del cemento’?’.
«Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza»
. La Repubblica, 24 novembre 2016 (c.m.c.)
Non è facile essere, e restare nel tempo, avversari civili nelle competizioni democratiche. E i leader politici, che occupano lo spazio pubblico, contribuiscono a rendere i toni del discorso incandescenti, soprattutto alla fine delle campagne elettorali o referendarie.
In qualche modo, la retorica populista appartiene a tutti i competitori, che usano il linguaggio della contrapposizione per muovere le emozioni dei votanti e conquistare il consenso degli incerti. Se la maggioranza silenziosa è quella che decide le competizioni, ai politici questa sembra una tattica efficace per destare attenzione e muovere le decisioni. E i mass media sono naturali fagocitatori del metodo dei colpi bassi, sempre alla ricerca di audience.
L’escalation dello scontro è quel che sta avvenendo in questi ultimi giorni di propaganda referendaria. Dopo l’accusa di Renzi agli elettori del No di essere una «accozzaglia» (della quale si è scusato, dopo) tocca a Grillo rovesciare addosso ai cittadini intenzionati a votare Sì l’accusa volgare di essere rappresentati da una «scrofa ferita».
L’uso delle espressioni forti serve, non da oggi, a innervosire l’avversario, a indurlo nel vortice del turpiloquio. Cicerone raccontava di campagne elettorali al vetriolo e di comizi urlati con audience inferocite nel foro della repubblica. Nonostante non ci sia nulla di nuovo quando la politica si regge sulla ricerca libera del consenso dei voti, ogni volta che ci troviamo nel mezzo di una campagna elettorale o referendaria non possiamo fare a meno di sentire il disagio e il disgusto per la decadenza del discorso politico in turpiloquio.
E resistiamo, attoniti, al tentativo dei leader di deragliare il treno della competizione fuori dai limiti della decenza. A Grillo dobbiamo dire che il linguaggio che usa non fa un buon servizio a quella che dice essere la sua causa — al contrario, fa un servizio opposto. Perché come chi vota No non è «un’accozzaglia», chi vota Sì non si alimenta nel trogolo di un porcile.
Che cosa hanno a che fare i cittadini con queste non-ragioni per votare così o cosà? Nulla, proprio nulla. Le parole di Grillo offendono l’impegno civico quotidiano dei cittadini che si sono impegnati in questi mesi nelle piazze, ai banchetti, con il volantinaggio e i dibattiti; offendono non solo chi è per le ragioni del Sì ma anche chi è per le ragioni del No.
Sono anzi oltraggiose proprio per questi ultimi, e per una ragione che non è difficile da capire. Infatti, i cittadini che sono schierati per il No contrariamente agli altri non hanno un leader rappresentativo unico. La loro parte è composta da una pluralità di appartenenze politiche e di non appartenenze politiche; in comune hanno l’opposizione a un progetto di riforma. Le ragioni che li muovono non sono necessariamente le stesse. Questo pluralismo rende ancora più insopportabile l’uso del linguaggio di Grillo.
Questa campagna referendaria può essere identificata come quella del nonostante, una delle preposizioni più usate e trasversali: votare Sì “nonostante” Renzi o nonostante una proposta pasticciata; votare No “nonostante” la volgarità antipolitica di Grillo o la xenofobia di Salvini. C’è una ragione in questo uso del “nonostante”, una ragione che è centrale e qualifica la consultazione del prossimo 4 dicembre: il voto riguarda il referendum costituzionale, non è un voto politico nel senso che premia o atterra una maggioranza di governo.
Non è un voto su o contro Renzi e, quindi, non è un voto su o contro Grillo o Salvini. Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza.
Il referendum non si propone di “mandare a casa” il governo, anche se i leader delle forze politiche in campo possono pensare di usarlo a questo scopo. Mai come ora è importante che i cittadini non si facciano derubare della loro funzione primaria — poiché nonostante i leader politici cerchino di farne un plebiscito pro o contro, questo è un referendum costituzionale, una decisione sovrana sull’ordine istituzionale che vogliamo e che, quando i voti saranno contati, si imporrà su tutti noi.

».ytali online, 22 novembre 2016 (c.m.c.)
«Che ne pensi del nuovo sindaco?» chiedo al giovane autista che mi conduce attraverso una Valparaíso ancora prigioniera della garúa, la nebbiolina che avvolge le città che si affacciano sul Pacifico. Conferendo un aspetto un po’ spettrale e freddo perfino alla miriade di murales che trasformano il centro cittadino in un museo d’arte a cielo aperto, in attesa di assistere di lì a poco al trionfo del sol matador che infonde calore alle storie multicolori che i muri raccontano.
«Es muy joven y esperamos que lo haga bien». Non ha votato Antonio, che guidando scende con sicurezza dal Cerro Artillería e mi porta al Puro Café in Plaza Victoria, il luogo dove Jorge Sharp Fajardo, sindaco eletto con quasi il 54 per cento dei voti, ma ancora non entrato in carica, ha deciso di incontrarmi. Antonio fa parte di quella maggioranza di cileni che il 23 ottobre non è andata a votare, un 65 per cento che urla la lontananza del paese dalla politica, e che di converso ha permesso l’inaspettata vittoria di Sharp. Il quale, in condizioni di minor astensionismo, forse mai e poi mai avrebbe potuto fare il miracolo.
E portare al governo del secondo centro urbano cileno, la città sede della Marina che per prima mosse contro Allende nell’alba drammatica dell’11 settembre del 1973, una coalizione arcobaleno. Suona e canta le canzoni degli Inti Illimani, il trentunenne Sharp, che si è laureato in diritto nella Pontificia Universidad Católica di Valparaiso. Ma ancor più si è formato nelle lotte studentesche che hanno percorso il paese dal 2006 in poi, di cui è stato un leader indiscusso.
Signor nessuno prima della vittoria alle elezioni municipali, ora se lo contendono giornali e televisioni nazionali. Le sue uscite riempiono i notiziari, e già appare nelle vignette satiriche pubblicate dai giornali cileni. Ha letteralmente seminato il panico tra i suoi concittadini quando ha affermato in televisione che taglierà i fuochi d’artificio di Capodanno. Quegli stessi che Pablo Neruda non mancava mai di seguire da La Sebastiana, la casa che il poeta possedeva in città nel Cerro Bellavista.
Originario di Magallanes, la regione antartica, ha fondato Izquierda Autónoma che ha mandato al parlamento Gabriel Boric e Giorgio Jackson, per poi lasciarla e fondare il Movimiento Autonomista. Proiettando Valparaíso sulla scena nazionale e facendo parlare la stampa del nuovo Pablo Iglesias cileno che è riuscito a mettere assieme il popolo arcobaleno della città ma anche spezzoni di elettorato moderato schifato dai due schieramenti tradizionali.
Eletto sindaco con il contundente compito di provocare una scossa sismica capace di cancellare i dodici anni di Jorge Castro, suo predecessore di destra. Ma anche le ricette di un centro-sinistra sempre più prigioniero delle teorie neo-liberali. Per la sua giovane età, per la sua parlantina fluente, per il suo essere un perfetto animale mediatico, e finalmente per la novità di cui rappresenta la punta di un iceberg che si suppone dormiente nel paese, farà di tutto per rottamare i vecchi canoni della politica ormai estranei al sentire della gente.
Partendo da una città con mille problemi, in primo luogo quello della pulizia urbana, e con in ballo decisioni sull’area portuale che determineranno i prossimi decenni di vita di Valparaíso. E con la concreta possibilità, se saprà risvegliare il gusto della partecipazione nei suoi concittadini, di essere chiamato a giocare un ruolo futuro ben al di là dei confini della città che lo ha eletto.
Simpatico e diretto, arriva all’appuntamento al Puro Café con un quarto d’ora di ritardo accompagnato da Javier, collega del movimento, e quando già sto lentamente rassegnandomi a dover rinunciare all’intervista. Entra, informale e rapido, e senza indugio si dirige sorridendo al mio tavolo apostrofandomi con un “Hola compañero” e mi abbraccia. Quel che segue è la sintesi di quanto ci siamo detti nell’accogliente penombra di un caffè del centro di Valparaíso in una mattina di novembre.
Dalle lotte studentesche alla carica di sindaco della seconda città cilena. Jorge, come te lo spieghi?
Penso sia dovuto a un processo di maturazione che si è vissuto in questi anni a Valparaíso e nel paese e che dimostra come siamo stati capaci di passare dalla mobilitazione e dalla protesta a rappresentare alternativa politica. In questo processo hanno agito differenti movimenti sociali con un ruolo chiave, dal movimento studentesco al quale ho appartenuto come dirigente della federazione, al movimento ambientalista, e in ultimo al più esteso movimento No más AFP (Administradora de fondos de pensiones) che si batte contro il modo in cui il governo paga le pensioni. C’è stata una domanda trasversale per mettere fine alla situazione per cui il sistema pensionistico cileno è in mano al privato, per arrivare a una ripartizione maggiormente solidale. Tutti questi movimenti sociali esprimono un ciclo di mobilitazione di dieci anni nel paese. Io faccio parte di questo processo.
Ma nel successo che ha premiato te e il movimento che ti sostiene, visto che nel resto del Cile la destra ha vinto le amministrative del 23 ottobre, quello di Valparaíso non potrebbe essere un caso isolato?
Hai ragione, la destra ha avuto un successo elettorale ma da almeno dieci anni la sua egemonia è messa in discussione. La capacità di mobilitazione che ha avuto la stampa di destra in questi ultimi anni si è ridotta. Per quanto riguarda la Nueva Mayoría (la coalizione di centro sinistra che ha eletto presidente Michelle Bachelet, ndr) il risultato negativo che ha ottenuto in queste elezioni si spiega con il divorzio e la sua distanza da tutti questi movimenti sociali che hanno proposto un’agenda di cambiamenti. In pratica Nueva Mayoría ha voluto prescindere da tutte queste istanze, e tutte le riforme fatte da Bachelet non hanno voluto coinvolgere i movimenti che le hanno richieste.
All’indomani della tua vittoria, hai affermato che il duopolio tra UDI e Nueva Mayoría è finito. Intendevi dire che è terminato qui in Valparaíso o che tale situazione riguarda l’intero paese? E inoltre, esiste un processo di unificazione a livello di paese che riguardi le forze della sinistra alternativa che possa in qualche modo far intravedere una loro partecipazione alle elezioni presidenziali del prossimo anno?
Effettivamente per quanto riguarda la carica di sindaco in Valparaíso il duopolio è finito. Eravamo abituati da venticinque anni che moros o cristianos, rossi o verdi si alternassero in municipio. Ora invece irrompe una nuova forza politica e sociale che si fa carico della gestione del comune. È interessante analizzare quello che qui è successo nelle alleanze che siamo riusciti a fare, con il risultato che ne è uscito uno schieramento che è ben più ampio e travalica l’area della sinistra. E con adesioni anche da settori socialisti, socialdemocratici e perfino liberali.
Questo è stato il frente amplio che ha permesso il risultato a Valparaíso. È evidente che all’interno di questo schieramento la sinistra mantiene un proprio ruolo, con una visione più critica della trasformazione democratica. In tal modo io credo che questa formula possa essere proposta su scala nazionale anche in previsione del 2017 proponendo un’alleanza che sia davvero ampia. Ma condividendo l’idea matrice di questa alleanza, che è il suo essere differente e distante dai partiti tradizionali.
E credi che questo frente amplio di cui parli possa colloquiare con le parti meno compromesse di Nueva Mayoría?
Io credo che abbiamo bisogno di costruire un nuovo campo politico. Diverso dalla Nueva Mayoría. Penso che oggi come oggi la possibilità di qualche intesa sia assolutamente preclusa. Questo non significa che settori di base di Nueva Mayoría e suoi dirigenti intermedi non possano collaborare. Che è poi quello che è successo a Valparaíso, dove molta gente che votava Nueva Mayoría ha votato per noi. Insomma quello di cui abbiamo bisogno in Cile è un nuova realtà che consegni un nuovo luogo politico dove si possano spingere e realizzare le riforme che ancora non sono state fatte.
Di te la stampa ha parlato come del nuovo Pablo Iglesias cileno. Quanto pesa nella vostra esperienza l’esempio della spagnola Podemos, e come gioca nella vostra pratica politica il pensiero di Antonio Gramsci?
[Scoppia in una risata] Io non mi sento nessun Pablo Iglesias cileno. Credo che quello che dobbiamo fare qui è la via cilena, come la chiamiamo a Valparaíso, la via porteña. Come ha detto José Carlos Mariátegui che già ha postulato una via peruviana al socialismo con caratteristiche proprie, e tenuto conto delle debite differenze, noi dobbiamo costruire questa forma per affrontare il problema politico che abbiamo. Che è quello di costruire una forza politica che proponga un modello di società che non sia neo liberale.
Ci serve guardare alla Spagna? Sì! Ci è utile guardare agli esempi latinoamericani? Sì! Ai cambiamenti in corso nel laburismo inglese? Sì! Ma alla fine della giornata, quello che dobbiamo fare in Cile deve esprimere naturalmente la realtà cilena. L’influenza di Gramsci in Cile è fortissima perché egli ci ha permesso di avvicinarci a una lettura della realtà del paese con molti più strumenti di quello che ci può essere fornito da letture di autori più ortodossi. Io credo che Gramsci abbia una visione inedita, e non a caso ci siamo formati nella lettura dei Quaderni dal carcere, ed è uno strumento molto interessante per sapere come affrontare la nostra realtà.
Parliamo un attimo di Valparaíso. Suppongo che tu sia ben conscio dei problemi che presenta.
Si assolutamente. Partendo da un problema strutturale che è la disuguaglianza. Ci sono donne che non lavorano e non studiano, vecchi abbandonati, giovani che non trovano lavoro, gli stipendi sono bassi, e gli imprenditori sono pieni di code di gente che cerca un impiego. Valparaíso è una città profondamente diseguale che ha una concezione del progresso circoscritta in due o tre mani. Il turista che sbarca dalle crociere o dall’aereo non si rende conto di questo quando visita il Cerro Concepción o il Cerro Alegre. La realtà cittadina è molto diversa da questi due posti. Che hanno comunque i loro problemi.
C’è molta disoccupazione?
Siamo tra i dieci comuni con la più alta percentuale di disoccupazione. È chiaro che la municipalità ha dei poteri molto specifici, ma possiamo lavorare assieme al governo centrale, alla società organizzata e all’università per favorire un modello di città che si faccia carico di questo problema attraverso uno sviluppo che sia rispettoso del patrimonio urbano e dell’ambiente. E che dia impulso alla partecipazione democratica affinché porteños e porteñas siano gli attori protagonisti della forma che deve avere la loro città. È in corso un processo di trasformazione che la via cilena ha imposto e che riguarda le aree portuali. E questo processo si è costruito alle spalle della gente. E sono decisioni di una importanza tale che interesseranno le prossime cinque generazioni di cittadini. Quello che fondamentalmente dobbiamo fare è rendere protagonista la gente.
Valparaíso mi sembra una città sporca.
Valparaíso è una città sporca e con problemi di sicurezza, con poco verde pubblico, mancano medici, gli ambulatori hanno liste di attesa, ai professori non vengono pagati i contributi pensionistici, negli edifici scolastici piove dentro. Ci sono anche funzionari comunali che lavorano in pessime condizioni. Insomma i problemi non mancano.
Tocchiamo un tema più leggero. Ti ho visto eseguire con un discreto successo le canzoni degli Inti Illimani. Continuerai a cantare?
Completamente. Il canto è una parte di me stesso, appartiene a quello che sono. Mi piacciono molto gli Inti Illimani, mi piace molto il tango, Frank Sinatra, i Beatles.
Ti senti un uomo solo al comando o sei in buona compagnia?
Mi sento parte di uno progetto collettivo. Credo che la politica non sia una attività da Don Chisciotte. Non possiamo fare nulla se la gente non sarà protagonista di tutti i processi di cambiamento. Ma lasciami tornare per un attimo alla sfida che abbiamo davanti per quanto riguarda il frente amplio. La sinistra deve avere la capacità di tenere almeno tre cose in considerazione per approfittare di questa finestra di opportunità che esiste in Cile. Generata dal ciclo di mobilitazione che dura da almeno dieci anni che ha messo in discussione l’impianto neo liberale. E dalla delegittimazione della classe politica. In primo luogo deve saper sviluppare un programma di trasformazione democratica.
La sfida che abbiamo davanti è quella di costruire un campo politico che si faccia carico di proporre un modello differente da quello neo liberale. In secondo luogo è molto importante la strategia di alleanze con altri che non la pensano come noi. La sinistra è abituata ad essere d’accordo con se stessa. E in questo può essere utile l’esempio di Valparaíso dove la nostra alleanza va dalla sinistra a settori liberali. Ma con il minimo comune denominatore di essere alternativi al duopolio. Ci sono delle differenze, ma è come fosse una partitura con tonalità differenti.
Terzo?
Terzo ed ultimo punto, non basta semplicemente presentarsi alle elezioni. Dobbiamo essere capaci di costruire una forza sociale organizzata. Dobbiamo essere capaci di passare dal malessere o dalla indignazione alla costituzione di una forza sociale organizzata.
State già parlando a livello nazionale di un progetto politico comune?
Sono in corso delle riunioni, stiamo dialogando con molte forze extra duopolio. Posso dire che in questo momento c’è molto dialogo.

«»: per piegarci o per ribellarci?.MicroMega online,
Per quanto formalmente il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci su un quesito che attiene alla riforma di parti importanti della nostra Costituzione, nella sostanza andremo a pronunciarci su un tema di massima rilevanza che attiene alla ridefinizione dei rapporti Stato-mercato in Italia.
In tal senso, al di là della contingenza del dibattito politico, il referendum assume una forte valenza ideologica. Dovrebbe essere ormai chiaro che la riforma Boschi-Renzi non fa altro che accentuare il processo di messa al bando dell’intervento pubblico in economia, già in buona parte realizzato con la revisione dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. È vero che nel quesito che ci verrà sottoposto non leggeremo nulla di tutto questo, ma è sufficiente leggere i rapporti delle Istituzioni finanziarie internazionali che vogliono la riforma e i testi preparatori della riforma stessa per convincersi che l’oggetto del contendere è esattamente questo. Vediamo.
1) J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, scrive che la crisi dell’Unione Monetaria Europea è anche imputabile al fatto che le costituzioni dei Paesi del Sud d’Europa (e il riferimento è soprattutto alla costituzione italiana) sono fondate su “concezioni socialiste … inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”, prevedendo “governi deboli nei confronti dei parlamenti” e “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”.
Il fatto che la riforma costituzionale sia eterodiretta, suggerita, se si vuol dire così, dalla finanza internazionale non dovrebbe poi destare così tanto stupore, se si ricorda che il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti fu, di fatto, la conseguenza di una lettera di ‘ammonizione’ inviata dalla BCE al Presidente del Consiglio italiano il 5 agosto del 2011. Non è qui in discussione una tesi complottistica: si tratta semplicemente di prendere atto, realisticamente, che la nostra sovranità politica non è piena, ed è sempre più limitata da ingerenze di Istituzioni estere che hanno – o possono avere – interessi economici in Italia. In sostanza, ciò che J.P. Morgan chiede è maggiore ‘governabilità’.
2) E il tema della maggiore ‘governabilità’ lo si ritrova nei documenti preparatori delle riforma, laddove si legge che “la stabilità dell’azione di governo” e l’”efficienza dei processi decisionali” sono le “premesse indispensabili” per far fronte alle “sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie” e, di conseguenza, “per agire con successo nel contesto della competizione globale”. Si tratta, con ogni evidenza, di una riforma della costituzione che è configurabile come un provvedimento di politica economica, e di un provvedimento di segno neoliberista.
Del resto, se si associa la già avvenuta revisione dell’art.81, l’impostazione ‘competitiva’ ed efficientistica del nuovo testo costituzionale all’abolizione del CNEL, il quadro dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Si badi che è vero che oggi il CNEL può essere considerato un ente inutile, ma è altrettanto vero che non lo sarebbe affatto nel caso in cui lo Stato italiano svolgesse compiti di programmazione economica, così come peraltro previsti dal testo costituzionale attualmente vigente[1].
A ciò occorre aggiungere una considerazione di carattere più generale. Se, come scritto nei documenti preparatori della riforma, una costituzione deve adattarsi ai cambiamenti economici, da ciò segue che una carta costituzionale deve avere il massimo grado di flessibilità, potendo quindi essere riscritta laddove le trasformazioni indotte da un’economia globalizzata lo richiedono.
Questo sembra essere un discrimine essenziale fra chi ritiene che le costituzioni siano atti fondativi che stabiliscono principi inderogabili di carattere generale sui quali si determina la convivenza civile e chi ritiene che la ‘modernità’ impone fondamentalmente di trattare le costituzioni come leggi ordinarie. Le recenti esternazioni del Ministro Boschi sulla possibilità di intervenire successivamente sul testo rendono chiara la visione dei nuovi costituenti.
Assunto che la riforma riflette un preciso orientamento di teoria e di politica economica, occorre chiedersi: cosa significa, o cosa potrà significare, intervenire sul testo vigente per “agire con successo nel contesto della competizione globale”? La risposta la si ritrova nella propaganda che l’attuale governo sta conducendo per l’attrazione di investimenti, laddove si esplicita che è conveniente per le imprese estere investire in Italia perché nel nostro Paese i salari sono “competitivi” (leggi: bassi).
E la si ritrova anche nella Legge di Bilancio in discussione in Parlamento, i cui principali contenuti riguardano ulteriori misure di smantellamento dello stato sociale (riduzione dei finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, riduzione degli stanziamenti per il sistema pensionistico), ulteriori misure di moderazione salariale e di compressione dei diritti di lavoratori, ulteriori sgravi fiscali alle imprese[2]. E dunque: la sola reale ragione per votare SI sta nella speranza che queste misure incentivino l’attrazione di investimenti in Italia.
Si tratta di una speranza dal momento che nessun provvedimento recente che si è mosso in questa direzione (in primis, l’abolizione dell’art.18) ha conseguito il risultato desiderato. Anzi: come ha messo in evidenza, di recente, il Governatore della Banca d’Italia, a partire da settembre l’Italia ha sperimentato un notevole deflusso di capitali finanziari (con un saldo netto negativo nell’ordine dei 354 miliardi negli ultimi due mesi) e, per effetto della produzione politica di incertezza, derivante dal fatto che questo Governo ha bloccato e spaccato il Paese sul quesito referendario per quasi un anno, lo spread sui titoli di Stato tedeschi, nel corso del mese di novembre, ha raggiunto quota 172: la soglia più alta dal luglio 2015.
Si osservi che l’aumento dello spread è del tutto indipendente dalla stabilità politica, se solo si considera il fatto che la Spagna ha visto ridursi i differenziali dei tassi sui suoi titoli pubblici rispetto ai bond tedeschi pur essendo molto faticosamente arrivata alla costituzione di un nuovo Governo dopo mesi di vuoto politico.
Che si cerchi di fuoriuscire dalla lunga recessione riscrivendo 47 articoli della Carta Costituzionale, peraltro in modo estremamente confuso, è l’ennesimo triste segnale dell’inettitudine di questo Governo e del fatto che l’Italia, ad oggi, è il vero malato d’Europa.
NOTE
[1] Sulle funzioni del CNEL, e sugli irrisori risparmi che deriverebbero dalla sua soppressione (dal momento che i suoi dipendenti non verrebbero licenziati in caso di vittoria del SI), si rinvia, fra gli altri, a Forexinfo, CNEL: cos’è e quanto ci costa, 3 novembre 2016. Si può anche osservare che l’argomento del risparmio dei costi della politica, ammesso che una Costituzione vada riformata per questo obiettivo e ammesso che il risparmio sia rilevante, è parte integrante di una visione delle funzioni dello Stato per la quale l’azione pubblica è sempre e necessariamente fonte di spreco. Il che è smentito dal dato di fatto per il quale, anche seguendo questa logica, con la Costituzione vigente (e contro l’argomento per il quale la ‘clausola di supremazia’ comporterebbe risparmi derivanti dai minori contenziosi Stato – Regioni) i maggiori risparmi – da quando sono state avviate le prime operazioni di spending review - sono stati conseguiti dagli Enti locali (circa il 30%, a fronte di circa il 12% dello Stato centrale nelle sue amministrazioni).
[2] Si veda http://www.flcgil.it/attualita/legge-di-bilancio-2017-misure-dal-sapore-elettorale-il-nostro-commento.flc
«La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale».
connessioniprecarie, 21 novembre 2016 (c.m.c.)
È in corso una sollevazione globale delle donne. Per lo più al di fuori dei circuiti organizzati e riconosciuti, con l’impeto improvviso della loro rabbia e delle loro aspirazioni, con una costante presenza di massa, in luoghi del mondo e in momenti distanti e diversi, le donne alzano la testa e la voce.
Il 26 dicembre 2012 in India, in seguito all’ennesimo stupro di una studentessa, centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza per far sentire il proprio urlo di protesta. A febbraio del 2014 in Spagna le donne sono insorte contro il progetto del governo di restringere drasticamente il diritto di aborto, suscitando una mobilitazione transnazionale al loro fianco. Il 3 ottobre 2016 la Polonia è stata scossa dal primo sciopero delle donne contro le politiche antiabortiste di un patriarcato neoliberale che pretende di imporre un comando assoluto sui loro corpi.
Solo due settimane dopo in Argentina e in molti paesi dell’America del sud centinaia di migliaia di donne hanno imbracciato l’arma dello sciopero e si sono riversate nelle strade per far valere la loro presenza e la loro forza collettiva in seguito all’ennesimo, brutale stupro e omicidio di una ragazza che si è vista strappare il futuro da un gruppo di uomini. Proprio in queste ore in Turchia sta montando la protesta contro la proposta di legge volta a legalizzare lo stupro delle bambine attraverso il ‘matrimonio riparatore’.
La violenza sessuale è l’ultima risorsa di cui dispone il patriarcato per conservare con ogni mezzo necessario l’ordine produttivo e riproduttivo della società. In modi diversi e in ogni luogo del mondo, però, le donne si stanno ribellando contro la «cultura dello stupro» che vorrebbe fare dei loro corpi e delle loro vite oggetti pienamente disponibili. Le donne stanno obbligando gli uomini a una presa di posizione chiara, mostrando che la battaglia contro il patriarcato non è una «questione femminile», ma investe l’ordine globale della società.
In questo contesto globale, la manifestazione organizzata in Italia il 26 novembre è un’opportunità che va ben oltre la semplice partecipazione alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È l’opportunità di produrre uno schieramento a partire dalla rabbia delle donne, dalle loro aspirazioni, dal rifiuto incondizionato della violenza sessuale come espressione più estrema, eppure per niente eccezionale, del dominio patriarcale.
In questo contesto, invocare una manifestazione separatista per proteggere le donne dai maschi violenti o di alcuni che si presume siano pronti a innescare lo scontro di piazza ‒ come alcune hanno fatto in nome di un femminismo di origine controllata ‒ significa rinunciare all’ambizione di obbligare anche gli uomini a una presa di posizione contro l’ordine di cui sono i principali beneficiari, agenti e rappresentanti.
Il problema non è verificare il significato storico e attuale del separatismo, ma di riconoscere la sfida globale raccolta dalle donne che il 26 novembre saranno in piazza. Eppure, mentre alcune pretendono la certificazione del femminismo d’ufficio, altre invocano la protezione delle istituzioni facendone l’unico luogo nel quale si può esprimere la piena cittadinanza delle donne. Il culto delle istituzioni e la paura dell’eventuale antagonismo della piazza ‒ che per loro a quanto pare è più rilevante dell’insubordinazione quotidiana e globale delle donne ‒ hanno così portato alcune donne ad annunciare la loro assenza dalla manifestazione del 26 novembre.
Probabilmente chi ha fatto questa scelta coltiva rapporti con istituzioni diverse da quelle che hanno azzerato i fondi destinati ai centri antiviolenza e ne hanno sgomberati alcuni con la forza, istituzioni molto migliori di quelle che vogliono legalizzare lo stupro in Turchia, istituzioni più democratiche di quelle che hanno risposto coi manganelli alle migliaia di donne scese in piazza in Argentina, istituzioni più giuste di quelle che tutti i giorni, in ogni parte del mondo, mettono sul banco degli imputati le donne che denunciano una violenza subita. La rivendicazione di un’assoluta differenza e la preventiva neutralizzazione istituzionale del 26 novembre non colgono cosa è evidentemente in gioco nella lotta globale che stanno portando avanti le donne.
Quella del 26 novembre non sarà una piazza ‘pura’, priva di contraddizioni, unita da un afflato femminile alla cura, alla relazione e alla non-violenza, ma sarà nondimeno una piazza che punta a coinvolgere in massa le donne per rendere visibile la guerra sessuale che viene quotidianamente combattuta contro di loro.
L’ispirata ricerca dell’autenticità femminile lascia poco spazio a conflitti e contraddizioni, quasi che avere un corpo di donna sia di per sé sufficiente a far valere una differenza politica. Le molte donne che negli Stati Uniti hanno votato Trump nonostante la sua aperta professione di fede maschilista dovrebbero però metterci in guardia contro queste illusioni naturalistiche. Noi sappiamo che non è un’impresa facile creare uno spazio di parola e visibilità per le donne che ogni giorno nelle case, per le strade, sui posti di lavoro fanno esperienza della violenza maschile o della sua costante minaccia, dello sfruttamento e dell’oppressione cui le costringe il regime transnazionale di divisione sessuale del lavoro, dell’ingiunzione al silenzio che impone sulle loro ambizioni l’ordine neoliberale con la sua pretesa di mettere a profitto i loro corpi fertili.
Il risultato del percorso di organizzazione che porterà al 26 novembre non è scritto, ma quel percorso esprime l’urgenza di offrire a tutte queste donne l’occasione di una presa di parola non come vittime, non come cittadine, non come genuine portatrici di valori alternativi ricamati in qualche salotto filosofico, ma come parte attiva di una battaglia per il potere che si combatte sui loro corpi. Queste stesse donne, però, rischiano costantemente di essere messe a tacere anche da chi tratta la violenza maschile come una delle molteplici forme di violenza di genere cui ogni individuo sarebbe costantemente sottoposto per il solo fatto di avere un corpo.
Benché i più avvertiti registrino la differenza tra uno stupro e la «violenza epistemica» subita da chi non si riconosce nei ruoli imposti dall’ordine eterosessuale, la definizione «violenza maschile contro le donne» non è il frutto di un arrendevole cedimento alla «matrice binaria» che regola il rapporto tra i sessi. Essa indica la continua pratica di potere che pretende di ridurre le donne a oggetti pienamente disponibili, a prescindere dal loro orientamento sessuale.
Non si tratta di negare l’esistenza di molteplici forme di discriminazione, né di stabilire un’equazione naturalistica tra il maschio e lo stupratore, ma di riconoscere che ogni volta che una donna è stata picchiata, stuprata e uccisa è stato un uomo a farle violenza. E questa violenza diventa una reazione tanto più feroce quanto più le donne in ogni parte del mondo, nelle più diverse condizioni, individualmente oppure in massa dimostrano di non essere disponibili a subirla docilmente. La violenza sessuale maschile non è la manifestazione contingente di un’astratta norma eterosessuale che agisce indifferentemente su tutti gli individui e che produce le loro differenze. La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale.
Se il 26 novembre ci offre l’opportunità di far sentire la nostra voce contro questo sistema di dominio, unendoci alla presa di parola di milioni di donne nel mondo, lo scontro che anima siti e social network italiani attorno al suo ‘vero’ significato rischia di oscurare e magari di vanificare quest’opportunità. Non c’è alcuna disponibilità alla discussione e alla contestazione, ma solo fazioni irreggimentate lungo confini tra generazioni e pratiche politiche che poco o niente dicono e permettono di dire alle donne che ostinatamente cercano di dare al proprio corpo e alla propria vita un ruolo e un significato diverso da quelli ai quali le obbliga il patriarcato neoliberale.
Le parti in causa si compiacciono di costituire piccole comunità di eletti a cui è dato decifrare il gergo delle ideologie mainstream (e ormai mainstream indica solamente chi la pensa diversamente da quella o quello che parla o che scrive), identificandosi attraverso un like. Intanto, per fortuna, ci sono moltissime donne che al grido «Non una di meno» stanno creando le condizioni perché il 26 novembre siano protagoniste anche coloro che da quelle comunità sono ben distanti, che non agiscono secondo i canoni certificati della «differenza» o del «genere», ma più ambiziosamente potrebbero infine riconoscersi politicamente a partire dal rifiuto della loro oppressione.
Questo rifiuto, probabilmente, non sarà in grado di esprimere e generare un nuovo ordine simbolico femminile, finalmente pacificato da ogni scomodo antagonismo, e neppure un nuovo universalismo nel quale, in un tripudio pluralistico, molteplici identità equivalenti potranno infine coalizzarsi. Eppure, esso può indicare la strada di una pratica femminista che è tale perché cerca di produrre per tutte le donne la possibilità di far valere politicamente, in un gesto di sovversione, la differenza specifica di cui ogni giorno fanno esperienza a partire dal proprio corpo.
La posta in gioco di questo femminismo possibile senza ipoteche e senza tutele è questa: essere parte di una sollevazione globale delle donne contro la violenza, per una presa di potere e di parola tale da obbligare ciascuno a schierarsi dalla parte delle donne.
. il manifesto, 23 novembre 2016 (c.m.c.)
La festa è finita, adesso pensiamo alle cose serie. Soldi e potere, non necessariamente in quest’ordine. Donald Trump è andato in televisione per delineare il suo programma di governo, interessante soprattutto per le cose che non ha detto. Non ha parlato del muro al confine con il Messico. Non ha parlato del divieto per i musulmani di entrare negli Stati uniti. Né di deportazioni di massa. Per queste tre promesse elettorali ci sarà tempo. Ciò di cui ha parlato sono le cose che non richiedono un voto da parte del Congresso.
Nell’elenco: ritiro dai negoziati del trattato di libero scambio Tpp, cancellazione delle restrizioni alla produzione di petrolio e carbone, deregolamentazione (che interessa soprattutto le banche, non a caso le grandi beneficiarie dell’ottimismo di Wall Street dopo le elezioni). Quello che Trump prepara per i suoi quattro anni di mandato è un sequel della presidenza Reagan 1981-1985: tagli delle tasse per i milionari, spesa per le infrastrutture, atteggiamento aggressivo verso i partner commerciali (ora ce lo siamo dimenticato, ma Reagan introdusse sanzioni e manipolò il valore del dollaro contro il Giappone, l’amico/nemico di allora).
I repubblicani in Congresso, dopo aver fatto ostruzionismo per otto anni contro i progetti di Obama di riparare strade, ponti e ferrovie, ora sembrano pronti a dimenticare tutti i discorsi sui terribili pericoli del deficit di bilancio e a spendere per creare buoni posti di lavoro.
Quello di Reagan era un «keynesismo militare», quello di Trump potrebbe essere un «keynesismo edilizio», basato sulle consuete ricette dei palazzinari: abolizione o aggiramento dei vincoli ambientali e urbanistici, via libera alla finanza creativa, incentivi fiscali a pioggia per le imprese. «Una truffa» lo ha prontamente definito Bernie Sanders, che pure continua a sottolineare la disponibilità dei democratici in Senato ad appoggiare un piano di ricostruzione delle obsolete infrastrutture americane, trascurate da decenni.
Si parla di investimenti per 1.000 miliardi di dollari ma è difficile che il Congresso a maggioranza repubblicana sia in grado di varare un piano così vasto in tempi brevi, anche perché Camera e Senato avranno il loro da fare per mantenere le promesse di cancellare ogni singolo provvedimento dell’era Obama. Per esempio, l’odiatissima razionalizzazione del sistema sanitario, l’Affordable Care Act, non può essere cancellato con un tratto di penna senza privare di cure 20 milioni di americani e provocare un terremoto di Borsa (la spesa sanitaria corrisponde a circa il 16% del Pil degli Stati Uniti).
Ci vorranno quindi un paio d’anni per trovare una soluzione che non sia immediatamente percepita come una catastrofe per i lavoratori a reddito medio-basso, tanto più che nel novembre 2018 si vota per Camera e Senato e le elezioni di metà mandato sono sempre difficili per il partito del presidente.
Oltre alla sanità, l’amministrazione Trump dovrà occuparsi di nominare un giudice per il posto vacante alla Corte Suprema e questo potrebbe essere più difficile del previsto se in Senato i democratici ricorreranno all’ostruzionismo, com’è prevedibile. La maggioranza repubblicana, 52 a 48, potrebbe non essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo di ricreare una solida maggioranza conservatrice nella Corte, che è stato un tema fortemente mobilitante per gli elettori repubblicani, terorizzati dall’idea di un potere giudiziario nelle mani dei democratici per un’intera generazione se Hillary Clinton fosse stata eletta.
Le promesse elettorali sono facili, le soluzioni legislative difficili, e in materia di immigrazione tutto è ancora più complicato. Trump ha fatto degli immigrati, in particolare dal Messico, il capro espiatorio ma non è chiaro come la nuova amministrazione intenda concretamente affrontare il problema.
Spettacolarizzare le espulsioni di chi ha commesso reati non costa nulla, rimandare in America Latina centinaia di migliaia di bambini e ragazzi che hanno seguito i genitori alla ricerca del Sogno americano potrebbe essere un boomerang.
Senza contare che immigrati ci sono perché fanno dei lavori umilianti per pochi dollari al giorno: se li si caccia le lobby dell’agricoltura si faranno sentire ancora più rapidamente delle organizzazioni di difesa dei diritti civili.

bilanciamoci online, 21 novembre 2016 (c.m.c.)
Perchè questa quasi-guerra fratricida? Qual’è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito democratico e del Governo ad imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perchè decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.
Fatti e Miti
Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perchè la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che - ce lo siamo dimenticato? - è la società liberale e democratica stessa a generarla.
Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.
Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perchè?
E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisione, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perchè andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perchè, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretto a una costituzione democratica com’è la nostra.
Semplificare può voler dire molte cose e nulla insieme. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snelline le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perchè la democrazia significa perdere tempo, ma perchè, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo, un argomento di cui «sono lastricate le strade verso la tirannia».
Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perchè ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.
Resa meno democratica, ovvero, meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro “l’assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.
Distanza dei cittadini e poteri accentrati
La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.
Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani.
Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patriomalismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perchè la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.
Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perchè le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perchè queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.
Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.
Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?
Una campagna velenosa
Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto che si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al PD, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.
Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per ‘renziano’ confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».
Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. E’ questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’”accozzaglia” degli sgradevoli.
Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettaccolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota Nò è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota Nò sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi con la promessa verbale a Gianni Cuperlo, di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.
Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento ma il quaranta per cento. E’ legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. E’ legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?
La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca».
il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)
La recente vittoria di Trump è anche un caso di studio per tanti aspetti illuminante. Pur nelle sue ambiguità e contraddizioni, il successo di questo personaggio eterodosso ci parla innanzi tutto di noi, delle nostre modeste capacità di lettura della società americana e del capitalismo dei nostri anni. Non si tratta dell’incapacità previsionale del risultato elettorale, che ha riguardato quasi tutti gli istituti demoscopici, ma del conformismo politico, della cecità moderata con cui non solo i gruppi di centrodestra, ma anche la sinistra tradizionale ha guardato agli Usa negli ultimi anni.
La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca. Come aveva denunciato, tra tanti altri, il giornalista britannico Will Hutton, nel brillante quadro comparativo Europa vs USA.
Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società è più equa (Fazi 2003), da tempo il Partito democratico e quello repubblicano conducono la stessa politica di centro. Considerati i costi altissimi delle campagne elettorali americane, Hutton mostrava come la raccolta dei fondi da parte dei candidati dei due partiti finisse col legare il loro successo ai finanziamenti da parte del potere economico. Annacquando le pretese riformatrici del Partito democratico e integrando nell’establishment politico-economico-finanziario-militare che da decenni costituisce un unico blocco alla guida degli Usa.
Al posto della competizione si è creato un monopolio politico. Un monopolio che neppure Obama ha scalfito più di tanto. E milioni di cittadini americani lo hanno da tempo certificato disertando le urne.
Per questo quando Walter Veltroni e i suoi compagni fondarono il Partito democratico si ispiravano a una esperienza storica ormai esaurita. Hanno inseguito e raggiunto un treno finito in un binario morto. Un abbaglio non casuale, anzi rivelatore dell’incapacità di quella sinistra di afferrare ciò che stava accadendo nel corpo profondo del capitalismo contemporaneo. Così Veltroni dichiarava di non essere stato mai comunista prendendo le distanze da un rapporto privilegiato con la classe operaia. Rapporto fondativo del Pci e condizione imprescindibile per la comprensione dei fenomeni sociali.
Infatti se ci si nega l’analisi di ciò che accade al lavoro non si comprende nulla delle trasformazioni in atto nelle società. Come tanti osservatori non solo italiani, i novatori del nostro sistema politico non capirono quel che stava accadendo ai lavoratori americani. Non soltanto i jobs, anche i più qualificati, sono diventati precari, permanently temporary, permanentemente temporanei, secondo uno splendido ossimoro.
Ma una massa considerevole di operai sopra i 55 anni fu espulsa da fabbriche e servizi con le ristrutturazioni degli anni’90. La giornata del lavoro si è pesantemente allungata: «Neppure la maggioranza degli schiavi nel mondo antico – denunciò lo storico B.Hunnicutt – e i servi durante il medioevo lavoravano così duramente, cosi’ regolarmente, e così a lungo come noi» (Take back your time, 2003).
Ai primi del nuovo millennio i lavoratori americani lavoravano in media 200 ore in più all’anno rispetto ai due-tre decenni precedenti. Tutto questo ben prima della grande crisi del 2008. In realtà da tempo, chi aveva occhi per guardare, poteva scorgere l’ attacco che non solo negli Usa, ma su scala mondiale, veniva mosso al lavoro umano in tutte le sue molteplici espressioni sociali.
L’incapacità di comprendere ciò che accadeva e accade alla classe operaia americana, componente fondamentale della middle class, è diventata cronica anche negli anni di «uscita» dalla crisi. I rassicuranti bollettini riportati dalla grande stampa sul Pil che «torna a crescere» e sulla «disoccupazione ai minimi», nasconde la stagnazione dei redditi popolari, l’indebitamento crescente delle famiglie, la precarietà del lavoro e il suo sfruttamento intensivo, le disuguaglianze vertiginose, la fine della mobilità sociale. Non poteva durare la struttura del sistema politico a fronte della distruzione del blocco sociale che lo aveva fin qui sostenuto.
La vittoria di Trump è la paradossale rottura di un sistema che doveva avvenire per mano di Bernie Sanders. È evidente che i Democratici americani e quelli del Pd, sono, a vario titolo, agenti essi stessi della crisi della democrazia rappresentativa del nostro tempo. Puntare sulle cosiddette riforme, cioè sulla trasformazione del sistema politico, è un surrogato rispetto alla necessità di sanare le disuguaglianze, ridare centralità al mondo del lavoro. Il resto lo fa la sinistra radicale, capace di leggere i fenomeni, ma dispersa e divisa e perciò impotente.

«». La Repubblica,
Le pesanti minacce rivolte da De Luca a Bindi rappresentano in modo esemplare il concentrato potenzialmente esplosivo di utilizzo del linguaggio dell’odio e del sessismo. Un concentrato che si ritrova spesso sui social media, ove all’insulto pesante contro le donne, o una donna in particolare, si accompagnano minacce, inviti alla violenza altrui (il più comune è lo stupro, possibilmente di gruppo) e/o all’autoviolenza, al suicidio.
È un tipo di violenza cui sono esposte tutte le donne, a prescindere dal loro ruolo pubblico, come testimoniano anche gli ultimi drammatici fatti di cronaca, ma cui sono particolarmente esposte le donne in politica, a motivo non solo della loro maggiore visibilità, ma del loro trovarsi in un luogo e con funzioni che ancora troppi considerano non di loro pertinenza.
Lo documenta anche una ricerca dell’Unione interparlamentare (che raccoglie rappresentanti di 171 paesi), che segnala come non si tratti solo di minacce e umiliazioni verbali e sotto condizione di anonimato, ma spesso anche di veri e propri attacchi fisici. Fa specie che questa combinazione si trovi in un politico dal ruolo non marginale, visto che governa una regione, che quindi non solo dovrebbe essere capace di un linguaggio più sorvegliato di chi utilizza i social network per dare sfogo alle proprie frustrazioni e di un atteggiamento culturale e morale un po’ più civilizzato rispetto a chi sfoga il proprio livore sui social network.
Eppure, non dovremmo stupirci più di tanto. Non abbiamo dovuto aspettare l’ultima campagna presidenziale americana e Trump per vedere irrompere nel linguaggio politico questo concentrato di odio e sessismo, spesso in combinazione con il razzismo e l’omofobia.
De Luca e le sue esternazioni fuori controllo sono solo la variante “pittoresca” di un fenomeno molto più diffuso, in cui la lunga storia del sessismo in politica e tra i politici (si veda il libro di Filippo Battaglia, Sta zitta e va in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo) trova oggi nuovi sbocchi e legittimazione espressiva nello sdoganamento del linguaggio dell’odio anche in sedi insospettabili, persino nelle stesse aule parlamentari, in primis contro gli avversari politici.
Due politologhe torinesi, Marinella Belluati e Silvia Genetti, analizzando alcuni dibattiti parlamentari dell’ultimo anno, hanno trovato che nel 12,45% degli interventi in aula sono presenti vere e proprie espressioni di disprezzo, insulto, dileggio, squalificazione come esseri umani nei confronti di qualcuno, nella maggior parte avversari politici (negli altri casi nei confronti degli immigrati e degli omosessuali).
E quando l’oppositore attaccato/insultato è una donna, non mancano le venature anche pesantemente sessiste. Lo sanno bene Boldrini e Boschi, oltre a Bindi stessa, che il collega parlamentare D’Anna, di Ala, ha pensato bene di rassicurare dopo le minacce di De Luca con le parole «L’unico nemico dell’onorevole Bindi è madre natura», riecheggiando il non dimenticato insulto di Berlusconi.
Sessismo, razzismo e omofobia non sono automaticamente equiparabili alla violenza. Ma il sessismo, il razzismo, l’omofobia e tutte le forme di squalificazione in nome di una particolare caratteristica, costituiscono l’anticamera dell’odio e della violenza.
Quando si considera qualcuno inferiore, o non legittimato ad essere dove è, il passo verso l’aggressione è breve. Per questo si tratta di un atteggiamento inaccettabile e da fermare sempre, tanto più da parte dei politici in quanto responsabili della costruzione del discorso pubblico.