l collettivo si dà appuntamento a Roma il 7 gennaio. Obiettivo: farsi promotori di "una proposta politica con al centro la lotta alle disuguaglianze". Finisce l'esperienza di Sinistra Ecologia e Libertà».
La Repubblica, 18 dicembre 2016, con postilla sulla parola "sinistra"
Creare uno spazio alternativo alla destra arrabbiata e alle grandi coalizioni, contro una politica «arroccata a difesa del fortino dello status quo, impegnata in un vano tentativo di proteggere un estremo centro che non può e non deve più reggere». Ripartendo dalle disuguaglianze: «Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea». L'appello è firmato dall'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, l'intellettuale americano Noam Chomsky, il musicista Brian Eno e altri membri del collettivo Diem25. Che si danno appuntamento per il prossimo 7 gennaio a Roma.
L'obiettivo è dichiarato: «Le energie liberate dal referendum debbano essere la base su cui costruire in Italia quel terzo spazio che in altri Paesi sta già nascendo: dal popolo di Sanders negli Stati Uniti, a Podemos e i movimenti municipalisti in Spagna fino alle donne che riprendono le piazze in Polonia». Tradotto: gettare le basi per un movimento di protesta (e insieme di sinistra, a livello di contenuti) anche in Italia. Che però ambisca a "fare egemonia", cioè puntare ad un ruolo di governo ma non a traino del centrosinistra. Ma c'è uno spazio politico, nel nostro Paese, già diviso in tre grandi aree (centrodestra, Pd e Cinque Stelle)? Secondo i promotori sì: «L'affluenza molto alta del 4 dicembre ha infatti portato alle urne – e a votare No - una fetta di cittadinanza che non si identifica in nessuna proposta politica esistente. Radicalmente arrabbiata con le politiche sociali ed economiche, con il Jobs Act, con i voucher, con l'assenza di reddito e di prospettive per gli under 35, per gli intermittenti, per le piccole partite Iva. Eppure tendenzialmente astensionista».
Recuperare quindi gli astensionisti e i delusi dalla politica con una proposta radicale. Di sinistra nei fatti, ma senza nominarla. Nell'appello ("Il tempo del coraggio") infatti la parola non viene mai nominata. Nella convinzione che sia ormai un campo inflazionato e presidiato dal Pd. La stessa strategia degli spagnoli di Podemos, il braccio politico erede degli Indignados che hanno sempre rifiutato l'etichetta classica di movimento di sinistra, nonostante la successiva alleanza con i comunisti di Izquierda Unida. Il referente italiano, Lorenzo Marsili, spiega che «bisogna avere il coraggio delle proprie idee e tornare a pronunciare parole nette. Che se i LePen dicono muri noi dobbiamo dire giù le frontiere. Che se i Trump dicono Goldman Sachs noi dobbiamo dire redistribuzione della ricchezza. Che rincorrere la destra fa solo inciampare».
Chi potrebbero essere i compagni di strada del gruppo Diem25? I rapporti sono buoni con pezzi di Sinistra Italiana (la ormai ex Sel che proprio oggi si scioglie), la quale però è divisa tra due aree: una che guarda al Pd e un'altra che invece, come spiegato nell'appello di Varoufakis e co., ritiene l'esperienza di centrosinistra conclusa. Come Nichi Vendola che, non a caso, davanti ai suoi riuniti a Roma, ha sottolineato che «se il compito della sinistra è quello di fare l'ammorbidente nella lavatrice del liberismo, oggi si vede bene che la parola sinistra non ha più ragion d'essere«. Il futuro quindi è "rimettere al centro la parola 'alternativa', come forza che si pone il compito di governare il Paese».
postilla
Il punto è che la parola "sinistra" oggi non va più bene, perché rinvia alla situazione di secoli ormai tramontati. Allora, nell'era delle vecchie forme del capitalismo, lo sfruttamento era interno al mondo della produzione: sfruttati erano gli operai in fabbrica e i contadini nei campi. Oggi, nella nuova forma del capitalismo, l'area dello sfruttamento è enormemente estesa, e opera in tutte le dimensioni della vita delle persone e su tutte le sfere della loro attività, e lo stesso significato della "lotta di classe" è mutato. Infine, la minaccia non è solo rivolta agli sfruttati, ma anche la materialità del pianeta che abitano è a rischio. Se la missione di una "nuova sinistra" è ancora la difesa degli sfruttati, l'avversario è lo stesso - il sistema capitalistico - la base sociale di riferimento è radicalmente diversa, e così le formule organizzative, le strategie e le tattiche. (e.s.)
«E' stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta» Forse, restituendo la politica al popolo.
La Repubblica, 17 dicembre 2016
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
i. «Abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti». La Repubblica, 16 dicembre 2016
Il risultato del referendum del 4 dicembre ci restituisce una Costituzione forte. Forte sin dalla nascita perché frutto di un lavoro comune dei partiti rappresentati alla Costituente, che la elaborarono insieme nella Commissione dei Settantacinque e l’approvarono a larghissima maggioranza in Assemblea, con l’88% dei voti favorevoli.
Tutti, al di là delle posizioni politiche, spesso molto distanti, si riconobbero sempre in quel testo. Dal referendum del 4 dicembre la Costituzione esce addirittura rafforzata, perché gli italiani hanno chiaramente detto (con 19.420.730 di “No”), di non volere “riforme grandi” che modifichino radicalmente gli equilibri tra i poteri e, implicitamente, le stesse forme di attuazione e tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.
Naturalmente, questo non impedisce le mirate modifiche e gli interventi di manutenzione che siano ritenuti necessari da un’ampia maggioranza parlamentare.
Una Costituzione forte, anche per la sua stabilità, è in sostanza - per dirla con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (ex parte Milligan, 1866) - «una legge per il tempo di guerra e per il tempo di pace», in grado di fronteggiare cioè qualunque situazione (anche straordinaria) e di contenere il potere, chiunque lo detenga in quel determinato momento.
Stupisce, quindi, che modifiche radicali o ribaltamenti della Costituzione, volti a indebolirla, alterando l’equilibrio tra Governo e Parlamento e introducendo disposizioni complesse e talvolta oscure (rimesse fatalmente all’interpretazione della maggioranza di turno), siano (stati) sostenuti come argini nei confronti del “populismo”. Al di là delle approssimazioni sull’utilizzo di questo termine, infatti, proprio il “rischio” di un governo populista dovrebbe spingere a salvaguardare una Costituzione forte nella limitazione del potere della maggioranza. Che poi è il senso stesso della Costituzione.
Invece - e paradossalmente - abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti, sostenendo la riforma con argomenti propri della retorica dell’anti-politica, come quello di “meno politici” o di “meno poltrone”. Al di là di tutte le valutazioni che si potranno fare, possiamo dire che quello del 4 dicembre è stato un voto in effetti contro il populismo — quello più insopportabile quello del governo, come ha ben chiarito Ezio Mauro all’indomani del voto su questo giornale.
Certamente, la retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum costituzionale hanno fagocitato altri populismi. E possono ora favorire un fenomeno che deve destare preoccupazione: quello di pensare che la difesa della Costituzione sia essa stessa un partito, che il “no” a quella revisione contenga un messaggio che vada oltre l’obiettivo specifico, raggiunto il 4 dicembre. Lo scarsissimo spazio che i media hanno inteso dare durante la campagna referendaria alle posizioni politiche — e costituzionali — più ragionate e ragionevoli ha una sua responsabilità nell’aver istigato questo uso populista della battaglia per il “No”. Una responsabilità che si assomma a quella di chi, a fronte di una richiesta di rottura rispetto a modalità decisionali verticistiche e chiuse rispetto ai cittadini, non si preoccupa, oggi, di elaborare risposte convincenti, ma continui ad arroccarsi nei palazzi, offrendo risposte sbagliate o insoddisfacenti.
Tutto questo giustifica la preoccupazione circa il permanere di una pratica e di un linguaggio populisti, il persistere di populismi opposti, di una lotta politica che è giocata con le armi plebiscitarie. Sì, abbiamo una Costituzione capace di limitare il potere di chiunque sarà in maggioranza e anche le loro tendenze populiste, ma è irresponsabile sottovalutare l’erosione delle aggregazioni partitiche a tutto vantaggio dei vertici plebiscitari che questa lunga campagna ha consolidato.
Riemerge così il significato portante della Costituzione come testo condiviso da tutti e a tutti capace di “opporsi” in particolare quando siano al potere. Con il referendum questo significato è stato confermato, e anzi riconquistato (per la seconda a distanza di dieci anni). Si tratta di un significato da custodire (senza che questo comporti la rinuncia a interventi puntuali e di manutenzione costituzionale) da parte di tutti, e anche contro ogni altro tentativo di farne un programma di lotta politica, quasi che ci possa essere un “partito della Costituzione”.
La Costituzione non poteva diventare il testo di una parte che affermava la “sua” riforma così come non può essere rivendicata come “propria” dalla parte che a quella stessa riforma si è opposta. Chi si è espresso contro la riforma costituzionale per avere una Costituzione forte e capace di unire non può farne infatti un documento fondante per una parte o - peggio - per un partito. I partiti - potremmo dire riprendendo Costantino Mortati - sono “parti totali” mentre la Costituzione è “il totale” nel cui ambito si svolge il confronto tra i diversi partiti politici della Repubblica.
«La nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza,ma soprattutto ddeve diventare metodo politico di azione sociale eanche per i rapporti tra gli Stati
». Azionenonviolenta, 14 dicembre 2016
Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della pace.
Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2017. Il messaggio “La nonviolenza: stile di una politica per la pace” ci pare un testo particolarmente significativo, che va oltre l’ambito cattolico, importante per i suoi contenuti e per l’autorevolezza della fonte.
Ripensiamo ora alle parole profetiche di Aldo Capitini, che nel libro In cammino per la pace, del 1961, scrisse: “Quando tra il popolo più umile, e tanto importante, dell’Italia si arrivasse a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa tra i santi, avremmo quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento, da Gioacchino da Fiore”. Forse davvero un passo in quella direzione è stato compiuto.
Il testo non contiene novità dal punto di vista della teoria e della pratica della nonviolenza, ma il fatto che il Pontefice riconosca ad essa la supremazia e la indichi come mezzo per “guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali”, e come “stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme”, è un segno e un valore inestimabile.
Finalmente la nonviolenza viene intesa per quello che è: non semplice a-violenza, e non mera applicazione del metodo democratico, ma come forma efficace, rivoluzionaria, per rendere testimonianza alla verità. La nonviolenza è una forma avanzata di azione per risolvere i conflitti.
E’ assolutamente positiva la scelta di Francesco di sottolineare che il documento pontificio sulla nonviolenza fa riferimento alla nonviolenza specifica, attiva, gandhiana. Tra l’altro, e non è solo un’osservazione stilistica, finalmente in un documento ufficiale del Vaticano leggiamo il termine ‘nonviolenza’ scritto giustamente come una parola unica, così come voleva il fondatore del nostro movimento, Aldo Capitini, per dare il senso di una proposta costruttiva, in positivo e non solo come rinuncia alla violenza fisica.
Gandhi la chiamava ‘satyagraha’, cioè ‘forza della verità’ proprio per dare l’idea di di una forza attiva, e non di una debolezza passiva. Ed è ‘cosa buona e giusta’ che il Papa nel documento si riferisca proprio alle origini storiche della nonviolenza politica: Mohandas Gandhi, Martin Luther King, e anche Abdul Khan, il cosiddetto ‘Gandhi’ musulmano che organizzò un corpo di volontari della nonviolenza, un vero e proprio esercito per la pace costituito da diecimila e più persone.
Come ricorda Francesco, infatti, la nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza. Non a caso il Papa, nelle prime righe del messaggio, si rivolge anche ai bambini e alle bambine e ricorda che la nonviolenza nasce dal cuore dell’uomo e deve giungere fino alla politica internazionale. E’ questa la grandissima novità del documento. La nonviolenza non più intesa come una via individuale di salvezza, ma come metodo politico di azione sociale e anche per i rapporti tra gli Stati.
E questo significa rivedere tutte le politiche militari di quest’ultimo secolo che ci stanno portando drammaticamente alla Terza guerra mondiale a pezzi. E’ dunque un documento che, se preso sul serio, deve interpellare tutti perché contiene indicazioni pratiche di una novità rivoluzionaria che portano alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza e al disarmo unilaterale, allo smantellamento della difesa armata per organizzare una difesa civile nonviolenta.
Non sappiamo a quali fonti, oltre a quella originale evangelica, si sia ispirato Francesco per redarre questo documento. Certamente possiamo riconoscervi tracce del pensiero dell’antropologo Renè Girard (La matrice sociale della violenza), del filosofo francese Jean Marie Muller (Il Vangelo della nonviolenza) e del filosofo della politica Giuliano Pontara (La personalità nonviolenta; L’antibarbarie; Teoria e pratica della nonviolenza), uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale.
Il Papa è una guida spirituale. A lui spetta il compito di indicare la via, poi sta a ciascuna persona, cattolica o laica, cristiana o atea, di qualsiasi altra fede o agnostica, accettare o meno il messaggio. Dopo questo documento, che si rivolge all’intera umanità, la nonviolenza non potrà più essere ignorata all’interno della Chiesa cattolica e da chi ad essa guarda con attenzione e partecipazione. Convertirsi alla nonviolenza è ora il programma cui tanti fedeli devono ispirarsi.
«Il "nuovo" governo. Il responso referendario e il suo valore costituente. Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato».
il manifesto, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)
Lo spettacolo è francamente inguardabile, a una settimana dal voto che ha travolto Matteo Renzi e il suo governo. Intendo lo spettacolo pubblico, recitato «in alto» dall’intero establishment. Il modo con cui nasce il governo Gentiloni, le procedure del suo incarico (con le cosiddette consultazioni parallele tra il Colle e Palazzo Chigi, cose mai viste!). E poi la sua composizione (fotocopia)
Sono un insulto al voto degli italiani, al principio di realtà, alla stessa Costituzione miracolosamente salvata il 4 dicembre: al suo articolo 1 naturalmente, e al meno noto articolo 54 (che impone, per le funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore», cioè accettando i verdetti popolari e rispettando verità e parola data). Che a Palazzo Chigi sieda un «uomo di Renzi», che il governo Renzi succeda a se stesso nella maggior parte dei suoi membri, soprattutto che Matteo Renzi continui a detenerne la golden share mantenendo la segreteria del Partito e di lì accanendosi a inquinare la vita politica, dopo aver dichiarato che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato da tutto, è un danno d’immagine devastante non solo per lui e il suo partito, ma per l’intero Paese.
Sembra fatto apposta per confermare la peggiore immagine degli italiani, furbeschi e infingardi. Non un buon viatico per le nostre banche e i nostri conti. In fondo David Cameron, che pure non era un granché, è sparito dalla scena dopo la Brexit (perduta peraltro per un soffio), e con lui i suoi uomini più fedeli, altro che Lotti ministro (con delega all’editoria) e Maria Elena più che mai in sella! Diverso il quadro «in basso».
Il voto – quel NO urlato nelle urne – comunica un messaggio politico potentissimo. Parla alla politica con il linguaggio duro dei cataclismi naturali.
E lo fa anche, e soprattutto, perché ha, alla sua radice, un fortissimo, durissimo, connotato sociale. Lo dicono tutte le analisi dei flussi: la mappa del NO ricalca, fedelmente, la mappa del disagio. Anzi, dei disagi: sociale, generazionale, di genere, territoriale. Il No cresce, esponenzialmente, col diminuire del reddito disponibile, coll’aumentare della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, con il passaggio dai centri alle periferie delle grandi città, e naturalmente con l’esplosione del Sud.
Si potrebbe dire che il populismo dall’alto renziano – la sua baricchesca narrazione – si è schiantato contro un popolo impastato di realtà. E di sofferenza, materiale ed esistenziale. È stato, quel voto che in tanti vorrebbero mettere in soffitta, una gigantesca porta sbattuta in faccia a tutti gli establishment, nazionali ed esteri.
Si potrebbe dire che non è cosa nuova. Che già il voto inglese, e in parte quello americano, avevano alla radice quello stesso reticolo di rabbia sociale, malessere, impoverimento e risentimento dei fargotten contro le rispettive élites. Ma per l’Italia vale un dato diverso, e originale. Qui è avvenuto il «miracolo» per cui quella rabbia e quel disagio hanno trovato, come punto di convergenza e comun denominatore, la Costituzione.
La Costituzione democratica, egualitaria e antifascista intorno a cui hanno dovuto raggrupparsi tutti, anche quelli che, per appartenenza politica, starebbero da un’altra parte. Non è poco. Anzi, direi che è (quasi) tutto. Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come «loro»: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. Per questo credo si possa dire che, per le dimensioni della partecipazione e per il segno inequivoco del responso, il Referendum costituzionale del 4 dicembre assume carattere «costituente».
Costituente all’interno, nei confronti della politica italiana, perché dice forte e chiaro che nessuno deve più azzardarsi a tentare di manomettere la nostra Costituzione e di deformarne forma di governo e sistemi di garanzie istituzionali. E costituente verso l’esterno, verso l’Europa in primis, perché dice che non sono più ammissibili intromissioni volte a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, a ledere i diritti costituzionalmente garantiti e a limitare o deformare il principio di rappresentanza. Non si tratta di adeguare la Costituzione italiana ai trattati internazionali, ma di riconoscere solo quei trattati che ne rispettano le linee guida.
Costituente, in fondo, anche, nel nostro piccolo, per noi. «Abbiamo difeso la Costituzione, adesso imponiamo di attuarla!». Questo potrebbe essere il programma comune di quella ampia, variegata, creativa area che su un versante radicalmente democratico si è battuta per il NO. La premessa per trasformarla nell’embrione di una proposta di rappresentanza elettorale.
Ma non nascondiamocelo: è un’impresa impegnativa. Che richiederà molti passi indietro e ancor più passi avanti. Perché non è cosa da frammenti di vecchie identità infrante. Richiederà soprattutto la necessità di assumere una logica da «anno zero». Nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove forme di ascolto di un sociale diventato indecifrabile per le consuete culture politiche: un esodo dalle macerie avendo però, come ragione, finalmente una vittoria.
Tutto, ma davvero tutto, si è consumato, compresa quell’ombra lunga di centro sinistra cui ancora molti superstiti sembrano guardare (e che con l’estremo endorsement di Prodi si è definitivamente inabissato); compresa la patetica nostalgia di Giuliano Pisapia per un Pd che non c’è più come se lì, dopo il bagno renziano, non si fosse consumata una vera mutazione antropologica… Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato.
Due ipotesi di "Sinistra da fare subito molto diverse tra loro: l'una, raccontata da Paolo Favilli, accetta l'ideologia del renzismo, l'altra, nella cronaca di Roberto Ciccarelli, per fortuna sembra di no. Ma è sufficiente anche per domani?
Il manifesto, 13 dicembre 2016
L’INSERVIBILE «REALPOLITIK»
DEI POLITICI «PACIFICATI»
di Paolo Favilli
«Alleanze. Invocare il realismo di un "renzismo senza Renzi" (o viceversa), come fanno - tra gli altri - Pisapia e Asor Rosa è solo il segno della falsa coscienza di questi tempi».
Nella grande confusione sotto il cielo evocata da Alberto Asor Rosa su questo giornale (vedi il manifesto del 10 dicembre) si sprecano le esortazioni a tenere ben fermi i piedi per terra, a dare prova di «realismo», cioè della virtù politica per eccellenza. La «grande confusione», però, esprime diverse forme di realismo.Ac cennerò a due che, al momento, stanno interessando alcuni aspetti della discussione «a sinistra».
1. La prima è quella espressa da coloro che possono essere chiamati i «pacificati» con l’ordine naturale delle cose.
I «pacificati» più indicativi, nel senso che producono scritti che ci permettono di cogliere con chiarezza i meccanismi della «pacificazione», sono in genere giornalisti e autori televisivi con incursioni letterarie. Oppure la stessa cosa ma con partenze diverse: non dal giornalismo, ma dalla letteratura. Si tratta, per lo più, di produzione letteraria «media», oscillante tra i diversi livelli della medietas.
La letteratura più adatta, insomma, a dare conto dei percorsi che portano alla convinzione che la realtà delle cose presente è, nei suoi fondamenti, immodificabile e dunque è necessario fare la pace con chi è stato l’interprete più conseguente, giustamente perciò vittorioso, delle ferree leggi dell’economia e della trasformazione sociale.
Lo sguardo della "grande letteratura" letteratura, invece, esplora sempre i recessi delle tensioni irriducibili, indipendentemente dalle concezioni politico-ideologiche degli autori. Quando nel 1924 esce La montagna magica, il Thomas Mann ideologico è ancora quello di Considerazioni di un impolitico, un «neoconservatore», come, con molta imprecisione, è stato definito. Ha prodotto forse un’opera di tensioni pacificate?
«Chi non è socialista a vent’anni è senza cuore, chi è ancora socialista a quaranta è senza cervello», ecco, il percorso dei nostri «pacificati» è tutto interno alla logica di questo senso comune minimo. Una logica che, pur nella inevitabile vittoria del cervello, permette di scrivere sui tormenti del cuore.
Da questo punto di vista, la proposta Pisapia di una «sinistra» distinta ma unita a Renzi è perfettamente «realistica». Permette di conciliare la vittoria del cervello con gli spasimi del cuore. I pacificati stanno con Renzi, ma hanno una diversa «sensibilità». E «sensibilità» è la parola chiave di una «sinistra» dai sentimenti delicati.
2. La seconda declinazione di realismo ha una logica del tutto diversa, estranea a qualsivoglia volontà pacificatoria. Il realismo riguarda piuttosto la dimensione del che fare qui ed ora in un contesto politico passibile di sbocchi assai pericolosi. E che la possibilità di sbocchi del genere sia tutt’altro che impensabile è, purtroppo, un evidente dato di realtà. Per fare fronte a tali esiti, realismo vorrebbe che, una volta liberatisi di Renzi, si ritornasse a una coalizione di centro sinistra sul modello di quella del 2013: Italia bene comune.
Mi pare, realisticamente, che la condizione preliminare per il percorso indicato, il Pd che si libera di Renzi, sia piuttosto improbabile. Più probabile che Renzi si liberi di gran parte dei suoi oppositori interni, i quali, del resto, non hanno mai dimostrato particolare combattività. La storia degli ultimi tre anni di «opposizione» è sufficientemente indicativa a proposito.
Inoltre non è possibile prescindere dall’analisi della dinamica strutturale che ha contraddistinto iscritti, gruppi dirigenti locali, sfere d’influenza ecc. del Pd; dinamica che ne determina la fisionomia attuale. Tratti di quest’analisi sono del resto già noti e pubblicati in studi specifici.
3. Renzi e i suoi sono potuti germogliare e diventare forti alberi fronzuti perché le loro radici hanno affondato in un humus particolarmente fertile. È il caso di ricordare che nel 2012 il segretario del Pd Bersani fu uno dei protagonisti della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, cioè della costituzionalizzazione della teoria economica chiave nelle forme attuali dell’accumulazione del capitale.
Una vera e propria scelta di campo su un aspetto teoricamente, e politicamente, dirimente. Non risulta che nella cosiddetta «sinistra» del Pd sia in corso una riflessione vera sul senso profondo di quella scelta.I n condizioni siffatte, anche un centro-sinistra derenzizzato l’unica attenzione che potrebbe concedere alle ragioni fondanti della sinistra, quelle legate alla «questione sociale», sarebbe appunto uno sguardo da fuori e da lontano.
E comunque, perché lo sguardo del partito di centro-sinistra possa rappresentare qualcosa di più rispetto a una ricognizione di superficie, occorre in primo luogo che la sinistra che si misura con le radici degli accadimenti sia davvero una forza reale.
Nella costruzione questa forza sta tutto il senso del nostro «noi». Intanto un elemento forte di definizione di questo «noi» si è concretizzato in quella parte dell’elettorato del No che ha correttamente letto nel tentativo di manomettere la Costituzione un aspetto della questione sociale. Una forma di lotta di classe, in ultima istanza. Una precisa scelta di campo, opposta a quella che ha determinato la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.
Non è, ovviamente, una dimensione che possa riguardare la cultura dei «pacificati». E infatti noi continuiamo a cercare elementi di riflessione nei grandi libri, di Karl Marx, di Thomas Mann…… I libri della medietas pacificata ci servono solo come fonti per lo studio della falsa coscienza di questi nostri tempi.
LA SINISTRA CHE VUOLE RIPARTIRE
DALLA COSTITUZIONE
di Roberto Ciccarelli
«Dopo il "No" sociale. La proposta: un polo di sinistra che ha come programma ideale l'applicazione della Costituzione»
Un polo di sinistra che ha come programma ideale l’applicazione della Costituzione. Dopo il successo del «No» al referendum del 4 dicembre, la sinistra delle liste civiche, dell’associazionismo, in dialogo con Rifondazione, Altra Europa e una parte della costituenda Sinistra Italiana, rilancia l’allargamento del campo politico a realtà sociali e locali in una chiara opposizione al Pd e alle politiche neo-liberiste. Prossime tappe: domenica prossima un’assemblea a Bologna; entro gennaio, un’assemblea sul «metodo» per provare a unire un mondo plurale e litigioso. In primavera, se non ci saranno elezioni politiche, chiedere l’indizione dei referendum per abrogare i voucher, i licenziamenti illegittimi e per tutelare i lavoratori degli appalti indetti dalla Cgil che ha raccolto milioni di firme.
Applicazione della costituzione e creazione di comitati per il «Sì» all’abrogazione del Jobs Act: queste sono le coordinate emerse da «ricominciamo da (no)i», un’assemblea che si è tenuta domenica scorsa a Roma, indetta dal raggruppamento delle liste civiche di sinistra «Le città in comune», «la politica di tutti», promossa da un appello sottoscritto tra gli altri da Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Stefano Fassina, Adriano Labbucci, Giulio Marcon, Sandro Medici. Un’alternativa alla proposta di Giuliano Pisapia (un’alleanza con il Pd di Renzi senza Verdini e Alfano) o al «centro-sinistra» con un Pd «derenzizzato».
Si parla di una «sinistra sociale», un’idea presente anche in soggetti diversi da quelli che si sono auto-convocati a Roma (e a Bologna). Fino a oggi non si è manifestata in un’opzione politica concreta. «Vige una schizofrenia tra la volontà di costruire dal basso un “soggetto politico di sinistra” e la coazione a ripetere degli accordi tra le nomenklature dei partiti» (Paolo Ferrero, Rifondazione). In questo risiko va aggiunta un’altra tessera: il sindaco di Napoli De Magistris. Il sindaco ha inviato un messaggio all’assemblea. Un altro lo invierà all’assemblea di Bologna. Nel mezzo del percorso ci saranno i congressi dei partiti della sinistra. «C’è bisogno di una nuova soggettività politica» sostiene Nicola Fratoianni. Per Stefano Fassina «la Costituzione è inconciliabile con i trattati Ue. L’euro svaluta il lavoro».
Prospettive, forse, diverse che si muovono in un mosaico di altri percorsi in atto nei movimenti e nei sindacati di base che hanno lanciato il «No sociale» negli scioperi e manifestazioni del 21 e 22 ottobre. «Vogliamo costruire uno spazio aperto e inclusivo – afferma Sandro Medici – C’è la spinta delle realtà locali e civiche che hanno vinto il referendum. Esiste una tensione sincera verso l’unità. Molte persone pensano alla sinistra come qualcosa che gli dà forza. Non vogliamo restare subalterni».
».
ilmanifesto, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)
Abbiamo evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai sovrani di turno.
I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla fosse accaduto.
C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.
Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.
Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti.
Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i fautori della riforma intendevano «cambiare».
È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.
Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata.
Se questo è il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili? Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.
La riforma sepolta voleva ridurre ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica e quella delle persone concrete. Se veramente vogliamo invertire la rotta non rimane che mettere in pratica le misure necessarie:
una legge elettorale che permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);
il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire);
nuove regole di discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza, dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti);
la limitazione dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire – sempre per via regolamentare – la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per limitare la decretazione d’urgenza);
la ridefinizione dei ruoli costituzionali del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase di attuazione della normativa da affidare ai governi);
la razionalizzazione dei rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato regionalismo solidale).
Questo è un primo incompleto elenco delle possibili innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa. Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore. Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso.
Il rilancio della cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni. Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra. Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie responsabilità. Soprattutto a sinistra.
La Repubblica, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)
Per prima cosa devo riconoscere l’assurdità della mia posizione. Probabilmente accettare un premio letterario è sempre un po’ assurdo, ma in tempi come questi non solo chi lo riceve, ma anche chi lo assegna sente inevitabilmente un certo imbarazzo per tutta la faccenda. Eppure eccoci qua. A occidente sorge il presidente Trump, sull’altro lato dell’oceano l’Europa unita tramonta oltre l’orizzonte: eppure eccoci qua, ad assegnare un premio letterario e a riceverlo.
Gli eventi dell’ 8 novembre hanno reso assurde così tante cose più importanti che esito a includere i miei scritti nell’elenco, e li cito solo perché la domanda che mi sento porre più frequentemente in questi giorni a proposito del mio lavoro mi sembra avere una certa attinenza con la situazione.
La domanda è: «Nei tuoi primi romanzi suonavi molto ottimista, ma ora i tuoi libri sono pervasi di sconforto. È effettivamente così? » . Normalmente viene fatta con un tono di smaniosità furbetta: è un tono che può riconoscere facilmente chiunque abbia sentito un bambino chiedere il permesso di fare qualcosa che in realtà ha già fatto.
A volte viene posta in modo molto più esplicito, per esempio: «Eri una paladina del multiculturalismo: non vuoi ammettere che ormai ha fallito?». Quando sento queste domande mi torna in mente che per certe persone essere cresciuti in una cultura omogenea in un angolo della provincia inglese (per esempio), o francese, o polacca, durante gli anni Settanta, Ottanta o Novanta, significa semplicemente essere stati vivi nel mondo, mentre essere cresciuti a Londra nello stesso periodo con (per esempio) dei musulmani pachistani nell’appartamento accanto, degli induisti indiani al piano di sotto e degli ebrei lettoni nella casa di fronte, è visto, da altri, come la prova di un esperimento sociale storico ben preciso, ormai screditato.
Naturalmente da bambina non mi rendevo conto che la vita che vivevo fosse considerata in qualche modo provvisoria o sperimentale da altri: pensavo che fosse semplicemente vita. E quando scrivevo un romanzo sulla Londra in cui ero cresciuta, non mi rendevo conto che descrivendo un ambiente in cui persone provenienti da posti diversi vivono in modo relativamente pacifico una accanto all’altra, mi stessi facendo “paladina” di una situazione che in realtà era sub judice e le cui condizioni da un momento all’altro potevano essere revocate.
Tutto questo per dire che ero molto innocente, all’età di ventun anni. Pensavo che le forze storiche che avevano portato la parte nera della mia famiglia dalla costa dell’Africa occidentale ai Caraibi attraverso la tratta degli schiavi, e poi in Gran Bretagna attraverso il colonialismo e il postcolonialismo, fossero solide e reali quanto le forze storiche che (per esempio) avevano epurato un paesino italiano di tutti i suoi ebrei, e in virtù della sua distanza fisica da Milano lo avevano mantenuto in larga parte bianco e cattolico negli stessi anni in cui il mio piccolo angolo di Inghilterra diventava razzialmente pluralista e multireligioso.
Pensavo che la mia vita fosse contingente quanto le vite vissute in un paesino di campagna italiano, e che in entrambi i casi il tempo storico si stesse muovendo nell’unica direzione in cui può muoversi: avanti. Non mi rendevo conto che mi facevo “paladina” del multiculturalismo semplicemente raffigurandolo, o descrivendolo altro che come una tragedia incombente.
Allo stesso tempo, non penso di essere mai stata così ingenua da credere, nemmeno a ventun anni, che le società razzialmente omogenee fossero necessariamente più felici o pacifiche della nostra semplicemente in virtù della loro omogeneità.
D’altronde perfino un ragazzino con la metà dei miei anni sapeva quello che si facevano tra loro gli antichi greci, e i romani, e gli inglesi del XVII secolo, e gli americani del XIX. Il mio migliore amico di quando ero giovane — ora mio marito — è originario dell’Irlanda del Nord, un posto dove persone che hanno lo stesso identico aspetto, consumano gli stessi cibi, pregano lo stesso Dio, leggono lo stesso libro sacro, indossano gli stessi vestiti e celebrano le stesse festività, hanno passato quattro secoli a farsi la guerra per una differenza dottrinale relativamente marginale che hanno lasciato trasformarsi in una diatriba a tutto campo su terra, sistema di governo e identità nazionale. L’omogeneità razziale non è in alcun modo garanzia di pace, così come l’eterogeneità razziale non è immancabilmente destinata a fallire.
In questi giorni mi sembra che una forma nostalgica di viaggio nel tempo sia diventata un tema politico persistente, sia a destra che a sinistra. Il 10 novembre il New York Times ha scritto che quasi sette elettori repubblicani su dieci preferiscono l’America com’era negli anni Cinquanta: una nostalgia che ovviamente una persona come me non può provare, visto che in quel periodo non avrei potuto votare, sposare mio marito, avere i miei figli, lavorare nell’università in cui lavoro o vivere nel quartiere in cui vivo. Il viaggio nel tempo è un’arte discrezionale: per qualcuno è un viaggio di piacere, per altri un racconto dell’orrore.
Allo stesso tempo, anche a sinistra c’è gente che coltiva fantasie di viaggi temporali, immaginando che gli stessi rigidi principi ideologici che un tempo venivano applicati a tematiche come i diritti dei lavoratori, il welfare e i commerci possano essere applicati senza variazioni a un mondo globalizzato di capitali fluidi.
Tuttavia, la domanda sul progetto fallito, applicata al minuscolo mondo irreale della mia narrativa, non è del tutto sbagliata. È abbastanza vero che i miei romanzi un tempo erano luoghi più solari, e che ora il cielo si è rannuvolato sopra i miei libri. Lo addebito in parte, semplicemente, all’esperienza della mezza età: Denti bianchi lo scrissi da bambina e ci sono cresciuta insieme. L’arte della mezza età è sempre indubbiamente più cupa dell’arte della giovinezza, e la vita stessa diventa più ombrosa. Ma sarei insincera se pretendessi che non c’è altro. Sono una cittadina, oltre che un’anima individuale, e una delle cose che la cittadinanza ci insegna, sul lungo periodo, è che non c’è nessuna perfettibilità nelle faccende umane. Questo fatto, ancora ignoto per una ventunenne, è un po’ più evidente agli occhi di una quarantunenne.
Come il mio caro, ben presto ex presidente, capiva bene, in questo mondo ci sono solo progressi incrementali. Solo persone ostinatamente cieche possono ignorare che la storia dell’esistenza umana è simultaneamente la storia della sofferenza: della brutalità, degli omicidi, delle estinzioni di massa, di venalità di ogni sorta e di orrori ciclici. Nessuna terra ne è esente, nessuna persona è priva di questa macchia di sangue, nessuna tribù è interamente innocente. Ma c’è sempre questa faccenda liberatoria dei progressi incrementali. Può sembrare piccola cosa a chi ha visioni apocalittiche, ma per una che fino a non molto tempo fa non avrebbe potuto votare, o bere dalla stessa fontanella dei suoi concittadini, o sposare la persona che voleva, o vivere in un certo quartiere, questi cambiamenti incrementali sembrano qualcosa di enorme.
E contestualmente il sogno di viaggiare nel tempo — per i nuovi presidenti, per i giornalisti letterari, per gli scrittori — è solo questo: un sogno. E un sogno che ha senso soltanto se i diritti e i privilegi che ti sono accordati in questo momento ti venissero accordati anche allora. Che alcuni uomini bianchi abbiano una visione più sentimentale della storia di chiunque altro, in questo momento, non è una gran sorpresa: i loro diritti e privilegi risalgono molto indietro nel tempo.
Per una donna nera l’estensione della storia vivibile è enormemente più breve. Che cosa sarei stata e che cosa avrei fatto — o più esattamente che cosa mi avrebbero fatto — nel 1360, nel 1760, nel 1860, nel 1960? Non dico questo per rivendicare il proscenio della vittima perfetta o dell’innocenza storica. So benissimo che i miei antenati dell’Africa occidentale vendevano e schiavizzavano i loro cugini e vicini tribali. Non credo in una qualunque identità politica o personale di pura innocenza e assoluta rettitudine.
Ma non credo nemmeno nei viaggi nel tempo. Credo nei limiti umani, non per un qualche sentimento di fatalismo, ma per una prudenza appresa, racimolata nella storia vicina e lontana. Non saremo mai perfetti: questo è il nostro limite. Ma possiamo avere, e abbiamo avuto, momenti di cui andare realmente orgogliosi. Io andavo orgogliosa del mio quartiere, della mia infanzia, nel lontano 1999. Non era perfetta, ma era ricca di possibilità. Se le nubi si sono addensate sulla mia narrativa non è perché quello che era perfetto si è rivelato vuoto, ma perché quello che stava diventando possibile — e milioni di persone vivono ancora come tale — ora viene negato come se non fosse mai esistito e non potesse mai esistere.
Mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essermi un po’ allontanata dalla felicità che dovrebbe giustamente accompagnare l’accettazione di un premio letterario. Sono molto felice di accettare questo grande onore, vi prego di non fraintendere la mia disposizione d’animo. Sono più che felice, sono stupefatta.
Quando cominciai a scrivere non avrei mai immaginato che qualcuno al di fuori del mio quartiere avrebbe letto questi libri, tantomeno fuori dall’Inghilterra, tanto meno “ sul continente”, come lo chiamava mio padre. Ricordo che ero sbalordita quando mi imbarcai nel mio primissimo tour europeo per la presentazione di un libro, in Germania, con mio padre che ci era stato per l’ultima volta nel 1945, come giovane soldato durante la ricostruzione. Per lui fu un viaggio colmo di nostalgia: aveva amato una ragazza tedesca nel lontano 1945 e uno dei suoi grandi rimpianti, ammise con me durante quel viaggio, era di non aver sposato lei ed essere invece tornato a casa, in Inghilterra, e aver sposato prima una donna e poi un’altra, mia madre.
Sicuramente sembravamo una strana coppia in quel tour: una giovane ragazza nera e il suo anziano padre bianco, che giravano con le guide strette in mano a cercare quei punti di Berlino che mio padre aveva visitato quasi cinquant’anni prima. È da lui che ho ereditato sia l’ottimismo che la disperazione, perché aveva partecipato alla liberazione del lager di Bergen-Belsen, e quindi aveva visto il peggio che il mondo ha da offrire: ma da lì in poi aveva saputo andare avanti, con un cuore e una mente sufficientemente aperti, lasciandosi dietro un matrimonio fallito e poi un altro, e sposandosi tutte e due le volte senza tenere conto delle varie barriere di classe, colore e temperamento, eppure continuava a trovare nella vita ragioni per essere allegro, perfino ragioni per essere felice.
Mi rendo conto adesso che era una delle persone meno ideologiche che abbia mai conosciuto: tutto quello che gli succedeva lo prendeva come un caso specifico, non era capace o non voleva ricavarne una generalizzazione. Perse il lavoro che gli dava da vivere, ma non perse la fede nel suo Paese. Il sistema scolastico lo aveva respinto, ma continuava a venerarlo e riponeva in esso tutte le sue speranze per i figli. Le sue relazioni con le donne sono state quasi sempre un disastro, ma non odiava le donne. Nella sua mente non aveva sposato una ragazza nera, aveva sposato “ Yvonne”; e non aveva un insieme sperimentale di bambini di razza mista, aveva me, mio fratello Ben e mio fratello Luke.
Quanto sono rare persone del genere! Non sono così ingenua da credere, neanche adesso, che in ogni periodo storico ce ne siano a sufficienza da formare una società decente e tollerante. Ma nemmeno voglio negare che esistano, o che non possano esserci vite come la sua. Era un membro della classe operaia bianca, un uomo spesso afflitto dalla disperazione, ma che riusciva comunque a conservare un ottimismo di fondo. Forse in un’epoca diversa, sottoposto a influenze culturali diverse, in una società diversa, sarebbe diventato uno di quegli uomini bianchi rabbiosi di cui la sinistra odierna è tanto impaurita. Ma così come stavano le cose, lui, nato nel 1925 e morto nel 2006, ha visto i suoi figli beneficiare delle tutele di civiltà del dopoguerra, l’istruzione e le cure mediche gratuite, e riteneva di avere molte ragioni per essere grato.
Questo è il mondo che ho conosciuto.
Le cose sono cambiate, ma il cambiamento non cancella la storia, e gli esempi del passato offrono comunque nuove possibilità per tutti noi, opportunità per ricostruire, a beneficio di una nuova generazione, le condizioni di cui abbiamo goduto noi. Né i miei lettori né io siamo più sulle alture relativamente soleggiate che descrivevo in Denti bianchi. Ma la lezione che ricavo da tutto questo non è che le vite di quel romanzo erano illusorie, semmai che il progresso non è mai permanente, che sarà sempre minacciato, che va raddoppiato, riaffermato e rimmaginato se si vuole che sopravviva. Non dico che sia facile. Non ho le risposte.
Per natura non sono portata alla politica, e questo politicamente è il periodo più oscuro che abbia conosciuto. Il mio mestiere, così com’è, concerne le vite intime delle persone. Quelli che mi interrogano sul “ fallimento del multiculturalismo” vogliono insinuare che non solo è fallita un’ideologia politica, ma gli esseri umani stessi sono cambiati e ora sono fondamentalmente incapaci di vivere insieme pacificamente a dispetto delle loro tante differenze.
In questa tesi è lo scrittore che fa la figura del bambino ingenuo, ma io sostengo che sono proprio le persone che credono in cambiamenti fondamentali e irreversibili della natura umana a essere antistoriche e ingenue. Se c’è una cosa che i romanzieri sanno è che i singoli cittadini sono plurali internamente: contengono in loro l’intera gamma delle possibilità comportamentali. Sono come spartiti musicali complessi, da cui è possibile estrarre certe melodie e ignorarne o sopprimerne altre, a seconda, almeno in parte, di chi è il direttore d’orchestra. In questo momento, in tutto il mondo — e più recentemente in America — i direttori di questa orchestra umana hanno in mente solo le melodie più grette e banali.
Qui in Germania probabilmente vi ricordate di questi canti marziali: non sono una memoria tanto remota. Ma non c’è posto sulla Terra in cui non siano stati suonati, in un momento o nell’altro. Quelli di noi che ricordano anche una musica più bella ora devono cercare di suonarla, e incoraggiare gli altri, se ci riusciamo, a cantare insieme a noi.
( traduzione di Fabio Galimberti)
«La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che sia venuto il momento di riparare i guasti del mondo e non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi».
La Repubblica, 10 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il cuore dell’analisi di Michele Serra sulla Sinistra del no, no, no è questo: «Il No referendario a sinistra prescindeva largamente dal motivo del contendere: quel passaggio elettorale serviva effettivamente come una sentenza senza appello contro il governo Renzi. Tanto è vero che il Sì di Pisapia gli viene rinfacciato come una colpa che lo rende improponibile come potenziale leader di una sinistra non renziana: perché la sinistra o è contro Renzi, oppure non sussiste».
Per molti italiani di sinistra, tra cui chi scrive, le cose non stanno così. Abbiamo votato sul merito della riforma, e abbiamo votato No perché essa proponeva (sono parole di un pacato costituzionalista, tutt’altro che antirenziano, come Ugo De Siervo) «una riduzione della democrazia». Matteo Renzi (primo firmatario della legge di riforma) ha proposto uno scambio tra diminuzione della rappresentanza e della partecipazione e (presunto) aumento della possibilità di decidere: ha risposto Sì chi sentiva di poter rinunciare ad essere rappresentato perché già sufficientemente garantito sul piano economico e sociale.
Ha detto No chi non ha altra difesa che il voto. Basterebbe questo a suggerire che il No abbia qualcosa a che fare con l’orizzonte della Sinistra. Ma c’è una ragione più profonda. La Brexit, la vittoria di Trump e ora quella del No in Italia hanno indotto molti osservatori e protagonisti (tra questi Giorgio Napolitano) ad additare i rischi del suffragio universale: la democrazia comincia ad essere avvertita come un pericolo, perché la maggioranza può votare per sovvertire il sistema.
Perché siamo arrivati a questo? Perché la diseguaglianza interna agli stati occidentali ha raggiunto un tale livello che la maggioranza dei cittadini è disposta a tutto pur di cambiare lo stato delle cose. È qua la radice della riforma: oltre un certo limite la diseguaglianza è incompatibile con la democrazia. E allora o si riduce la prima, o si riduce la seconda. E questa riforma ha scelto la seconda opzione: che a me pare il contrario di ciò che dovrebbe fare una qualunque Sinistra.
D’altra parte questa scelta è stata coerente con la linea del governo Renzi: cosa c’è di sinistra nei voucher, e nel Jobs Act che riduce i lavoratori a merce, introducendo il principio che pagando si può licenziare? Cosa c’è di sinistra nel procedere per bonus una tantum che non provano nemmeno a cambiare le diseguaglianze strutturali, ma le leniscono con qualcosa che ricorda una compassionevole beneficenza di Stato?
Cosa c’è di sinistra nel “battere i pugni sul tavolo” con l’Unione Europea, invece di costruire un asse capace di chiedere la ricontrattazione dei trattati (a partire da Maastricht) imperniati sulle regole di bilancio e sulla libera circolazione delle merci, e non sul lavoro e i diritti dei cittadini? Cosa c’è di sinistra nel puntare tutto su una nuova stagione di cementificazione, attraverso lo smontaggio delle regole (lo Sblocca Italia)?
Cosa c’è di sinistra in una Buona Scuola orientata a «formare persone altamente qualificate come il mercato richiede, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica» (così la ministra Giannini)? Cosa c’è di Sinistra nello smantellare la tutela pubblica del patrimonio storico e artistico, condannando a morte archivi e biblioteche, e mercificando in modo parossistico i grandi musei, detti ormai “grandi attrattori” di investimenti?
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di mercato. E mentre la prima ripete Tina (there is no alternative), la seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle cose.
Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di Renzi è stato paradigmatico.
Allora la questione è: ha senso costruire - come propone Pisapia - una nuova forza di sinistra che nasca con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in rovina » ( Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi.
«Questo è il domani che ci aspetta. Con la vittoria del no abbiamo vinto la battaglia. Ma la guerra continua e i signori dell’èlite plutocratica mondialista stanno riorganizzando il conflitto». Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 8 dicembre 2016 (c.m.c.)
State pronti: il gruppo finanziario JP Morgan, l’Ue e gli Usa non hanno ottenuto il risultato sperato, giacché in Italia ha vinto il No al referendum costituzionale.
Non è passata la loro linea, supportata dal nostro partito governativo atlantista ed euroservo, atta a destrutturare lo Stato nazionale, a desovranizzare e a spoliticizzare la politica, di modo che il fanatismo economico finanziario possa svilupparsi senza residui ostacoli e senza i lacci e i lacciuoli degli Stati.
Il piano dei signori globalisti neofeudali e neo-oligarchici è fallito. Ora stanno lavorando per ottenere per altra via il loro obiettivo, cioè distruggere la sovranità nazionale, la Costituzione e i diritti sociali: stanno lavorando per imporre un “governo tecnico” (si legga: colpo di Stato finanziario ) all’Italia, con tanto di troika in casa.
Questo è il domani che ci aspetta. Con la vittoria del no abbiamo vinto la battaglia. Ma la guerra continua e i signori dell’èlite plutocratica mondialista stanno riorganizzando il conflitto.
È notizia di oggi, prontamente negata e smentita: come nei tradimenti amorosi, i colpevoli agiscono negando fino alla fine. Padoan chiederà un prestito miliardario al fondo salva stati: l’Italia come la Grecia entra nel girone dell’indebitamento, con annesso ingresso della troika nel Paese e distruzione in un colpo solo della Costituzione e della sovranità nazionale.
Ciò che non sono riusciti a fare – la riforma costituzionale – lo faranno ora con una giunta militare di tipo economico, con una dittatura finanziaria il cui compito sarà la distruzione finale della sovranità nazionale con annesse “riforme” di adeguamento dell’Italia alla linea europea: distruzione dello stato sociale, tagli salariali, ulteriori aggressioni al mondo del lavoro e dei diritti sociali. I signori del mondialismo continuano nella loro lotta di classe ai danni delle masse precarizzate che subiscono in silenzio.
«Nessun dibattito in direzione, solo applausi per Renzi e urla contro l'unico (Tocci) che si alza a chiedere di discutere la posizione con la quale andare da Mattarella. Ma il segretario aveva già deciso, e comunicata le sue mosse agli "amici della enews". E a Giorgio Napolitano».
Il manifesto, 8 dicembre 2016 (m.p.r.)
«Adesso basta con le direzioni in cui Renzi parla da solo e agli interventi vengono lasciati appena pochi minuti», aveva detto più di un dirigente del Pd, dandosi un po’ di coraggio dopo la sconfitta del segretario al referendum. E così ieri ha parlato solo Renzi, e poi basta. Riunione finita, malgrado il tentativo di Walter Tocci – uno che ha votato No e per questo è stato accolto dalle grida «vergognati» – di far presente che la linea del partito con la quale andare al Quirinale andava almeno discussa. Non c’è tempo, Renzi deve salire al Quirinale . «Discuteremo quando la crisi si sarà risolta», ha detto il presidente del partito Orfini. Inutile far notare che la direzione è cominciata tre ore più tardi della prima convocazione, il tempo ci sarebbe stato. Invece niente, nessun intervento, nessuna discussione, E poi Renzi la linea l’aveva già comunicata, prima ancora della direzione, agli «amici della enews» dal suo sito personale. «Governo di responsabilità nazionale sostenuto anche dagli altri partiti», oppure «al voto subito dopo la sentenza della Consulta».
Questa è la posizione del Pd cioè di Renzi, le due cose ancora coincidono. Nella sconfitta il presidente del Consiglio dimissionario non è molto cambiato, ha rimandato la resa dei conti interna ma ha già annunciato che sarà «dura». E ha dato un anticipo: «So che tra noi qualcuno ha festeggiato in modo non elegantissimo, lo stile è come il coraggio non ce lo si può dare». Un attacco ai rappresentanti della minoranza – già fischiati all’ingresso della direzione da truppe renziane – accusati di tradimento e anche di vigliaccheria. Nell’attesa dell’analisi del voto (ma quella delle sconfitte non c’è mai stata), il segretario, saldo nel ruolo, comincia anche a dare le carte, e può ringraziare il tempestivo assist di Pisapia: «Dobbiamo pensare cosa significa un partito a vocazione maggioritaria nel nuovo quadro».
Significa alleanze, ovviamente, a sinistra con la formazione che l’ex sindaco di Milano ha immaginato ieri, mentre a destra c’è sempre Alfano. Ci sarebbe anche la minoranza Pd, ma ancora per poco nei piani renziani. Non per niente in nessuno dei suoi scenari viene nominato il congresso, che pure allo stato potrebbe vincere facile. Il segretario prevede di risolvere la pratica cancellando ogni traccia bersaniana dalle liste elettorali.
Il piano A, quello del governo istituzionale – in ipotesi, Grasso – è quello che sembra piacere meno a Renzi, visto che già vede il rischio di «pagare il prezzo della solitudine della responsabilità»; un coinvolgimento pieno di Forza Italia è incerto mentre è certamente escluso quello di leghisti e grillini. Ma anche il piano B, elezioni subito, è diverso da quello presentato: tanto subito non potrà essere. Mettendo in fila l’udienza della Corte costituzionale sull’Italicum (24 gennaio), il tempo anche minimo per la scrittura delle motivazioni, il tempo necessario al parlamento per adeguare i sistemi elettorali residui alle decisioni della Corte e i 45 giorni almeno che devono trascorrere tra lo scioglimento delle camere e le nuove elezioni, si arriva al più presto a fine aprile. Quasi a ridosso del vertice G7 di Taormina al quale Renzi tiene molto. Ma non è solo per questo che il presidente del Consiglio uscente immagina di poter essere ancora lui a guidare l’esecutivo «elettorale», pensa cioè di poter riavere l’incarico.
In fondo ha appena incassato la fiducia del senato, il ramo più problematico del parlamento, e con un margine persino maggiore rispetto all’esordio, nel 2014. Per evitare imbarazzi (accadde a Bersani), Renzi non farà parte della delegazione per le consultazioni, basteranno i fidati Guerini, Rosato, Zanda e Orfini. La baldanza (e il consueto ritardo di 45 minuti) con la quale si è presentato alla direzione che avrebbe dovuto «processarlo» per la sconfitta, è indicativa. Come i dettagli: poco prima di recarsi al Quirinale per (in teoria) ricevere istruzioni dal presidente della Repubblica, ci ha tenuto a far sapere di aver «parlato al telefono con Giorgio Napolitano» per «ringraziarlo». Quando l’ex capo dello stato è, con lui, il principale responsabile del disastro. A cominciare dal contrasto tra sistema elettorale e sistema istituzionale che impedisce di votare subito.
Il testo del discorso che Walter Tocci aveva scritto per il suo intervento alla Direzione nazionale del Pd e che non ha potuto pronunciare. Lì ha parlato solo il Duce. Gli altri possono solo dire di si, altrimenti tacere.
C'est l'Italie d'aujourd'huiIl manifesto, 8 dicembre 2012 con postilla
Ripubblichiamo qui il testo del discorso che Walter Tocci aveva scritto per il suo intervento alla Direzione nazionale del PD.
«Intervento che non ha potuto svolgere per quelle che ha definito “dubbie ragioni di orario. La direzione era stata convocata per oggi alle 15, ed è poi stata spostata alle 17.30 a causa degli impegni del Senato. Il voto di fiducia al Senato, però, è terminato alle 14.30. Ci sarebbe stato ampiamente tempo per qualche ora di dibattito sulle cause, gli esiti e le responsabilità nel post-referendum tra la fine del voto e la salita al Quirinale del Presidente Renzi. Invece si è evitata qualsiasi discussione politica. Lascio quindi che sia il testo a parlare per me».
l testo è stato pubblicato nel sito di Walter Tocci il 7 dicembre 2016 poco dopo le 20.
Non è più tempo di scagliare le pietre; è tempo di raccogliere le pietre per consolidare ciò che è duraturo. Nell’Italia spaesata e divisa si erge la Costituzione come unica certezza. Dovremmo curarne la condivisione nel cuore e nelle menti degli italiani.
Anche compiendo gesti semplici, prendendo l’abitudine magari di aprire qualsiasi nostra assemblea leggendo un articolo della Carta. Nei dibattiti leggevo l’articolo 36, secondo il quale la retribuzione del lavoratore dovrebbe essere “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Cento milioni di voucher sono in contrasto con la Costituzione! I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma un’eredità vivente e una promessa per l’avvenire. Così l’avvertono i ceti popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti non riescono più a comprenderlo, perché hanno smarrito la “competenza della vita”, come la chiamava Martinazzoli.
Anche i giovani hanno votato per conservare la Carta, al di là del merito della revisione. Nelle burrasche del mare globalizzato cercano un’àncora nel capolavoro italiano del Novecento. Seguono l’esempio dei nonni per sopperire alla penuria educativa dei padri, come i millennials di Sanders.
Ci sono queste correnti profonde nel risultato referendario. Sbaglieremmo a vedere solo le correnti superficiali degli schieramenti partitici. C’è un’astuzia della Costituzione – come l’astuzia della Ragione hegeliana – che per resistere ai ripetuti assalti, di volta in volta si serve delle diverse forze che trova sul campo, della sinistra nel 2006 e della destra e ancora una parte della sinistra dieci anni dopo.
Per noi del PD sarebbe meglio valorizzare le correnti profonde piuttosto che quelle superficiali. Le seconde ci hanno diviso, mentre le prime uniscono il Si e il No nel comune impegno: attuare la Costituzione, la prima e la seconda parte.
Potrei dimostrare che si possono realizzare molti obiettivi del SI con il testo vigente. Si possono dimezzare da subito il numero e la lunghezza delle leggi, delegando e controllando la pubblica amministrazione negli adempimenti, e ottenendo un bicameralismo più rapido, efficace e trasparente.
Le limitazioni ai decreti legge e le leggi a data certa sono in parte già in vigore e debbono essere solo rispettate. I poteri governativi di surroga contro la malasanità sono già previsti nel vecchio Titolo V e non sono mai stati applicati dal ministero. La riduzione delle poltrone è stato un argomento miserabile che non poteva fondare un patto costituente, ma la riduzione dei costi della politica è da fare subito con legge ordinaria; si convochi un’assemblea straordinaria dei gruppi parlamentari e regionali del Pd per assumere precisi impegni nelle rispettive assemblee.
A mio avviso, questa legislatura doveva terminare nel 2014, approvando una buona legge elettorale, e senza avventurarsi nella revisione costituzionale. Si proseguì promettendo faville. Oggi non si può sentire “dopo di me non c’è nessuno”. I conservatori inglesi, dopo la Brexit, hanno sostituito Cameron con la signora May e hanno ripreso a governare. Anche noi possiamo esprimere un premier autorevole tra gli attuali ministri.
Non abbiamo bisogno di governi tecnici, che già hanno combinato guai in passato. Ci vuole un esecutivo a guida Pd per risolvere i problemi urgenti dell’economia, per proseguire le cose buone e la politica europea sui migranti, ma anche per correggere gli errori compiuti – ad esempio su lavoro e scuola – con uno stile di governo non rissoso, e che anzi riporti serenità in un Paese già troppo lacerato.
Nel frattempo, il Parlamento può approvare la legge elettorale senza intromissioni del governo. Andare subito alle elezioni significa dichiarare che il leader sconfitto è insostituibile.
È lo stesso autolesionismo che ha portato a un plebiscito personale sul cambiamento costituzionale.
Senza quel cupio dissolvi oggi ci sarebbe ancora il governo Renzi, e forse avremmo visto approvata anche la legge Boschi. Il demone della disfatta referendaria è ancora al lavoro per la sconfitta alle elezioni anticipate. Chi può fermarlo si faccia sentire in questa sala, prima che sia troppo tardi.
Invece delle elezioni bisogna anticipare il congresso in primavera. Mentre governa, il PD deve curare sé stesso. Per dieci anni abbiamo pensato solo al leader e non ci siamo mai occupati del resto: un’idea del Paese, una cultura politica per il nuovo secolo, un’organizzazione innovativa, una selezione dei dirigenti. Il PD che non abbiamo ancora conosciuto è il compito del congresso.
Il primo passo è riconciliare il PD con l’Ulivo, inteso come vasto campo di cultura, etica, cittadinanza attiva e forze sociali. Per non ripetere i riti del passato la minoranza deve uscire dal guscio e la maggioranza deve riconoscere onestamente i suoi insuccessi.
Per creare un clima più sereno si dovrebbe affidare la guida del partito fino alla primavera a una personalità autorevole e stimata. Sarebbe utile per tutti un passo indietro del segretario, e aiuterebbe anche lui a prepararsi meglio al congresso. L’ordine del giorno dell’assise è l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
L’Italia ha bisogno di moderni partiti popolari che governino con ampio consenso, non solo con il premio di maggioranza. Riformare il PD è la principale riforma istituzionale che possiamo realizzare. Non dipende dalle leggi e dai referendum, ma vive nella passione e nell’intelligenza di milioni di militanti e di elettori. Se guadagneremo la loro stima, molti torneranno a dare una mano per la vittoria.
postilla
Ho commentato sul suo sito il testo dell'amatissimo Walter Tocci come segue: Il partito al quale continui a restare iscritto è diventato un partito che si regge sulla corruzione, l'intimidazione e il ricatto, esercitati soprattutto in due tipi di ambienti, spesso sovrapposti: (1) dove storicamente il PCI era riuscito a costruire rapporti stretti con un mondo imprenditoriale che è diventato in questi anni una componente del sistema finanziario/immobiliare globale; (2) dove l'intreccio tra partito, istituzioni comunale e regionali e governo sono più stretti.
n alcune aree di lavoro come la pubblica amministrazione e la scuola sono frequenti i casi di intimidazione che giungono alle mio orecchie. Soprattutto dalle province nelle quali il SI al referendum è stato maggioritario, e dove quei due tipi di dominio si sovrappongono. Sarebbe interessante un'indagine quale quella che il Fabrizio Barca d'antan svolse sul PD romano...
Dopo il referendum dovranno mutare molte cose, che le iniziative del sindacato dei lavoratori già hanno messo sul tappeto. «Non si può perseguire una artificiosa separazione tra l’insieme del sistema e le sue diverse componenti, isolando e privilegiando solo, o quasi esclusivamente, quelle in cui si esprime direttamente la funzione di governo».
La Repubblica, 8 dicembre 2016
UN TERREMOTO ha colpito domenica il sistema politico italiano. Ne ha sbriciolato il vertice, come dimostrano le immediate e inevitabili dimissioni del Presidente del Consiglio, e la conseguente crisi di governo. Ha bloccato il tentativo di impadronirsi della dimensione costituzionale facendola diventare affare di parte. Non ha certificato la sconfitta di una persona, ma il fallimento di un progetto politico. Questo progetto manifestava una forzatura evidente, e pericolosa, perché negava sostanzialmente la dimensione costituzionale come terreno comune di confronto, non riducibile alle esigenze della mera attualità politica. La risposta popolare, affidata a un No che ha assunto dimensioni inattese, impone ora di considerare il modo in cui si intrecciano democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Una nuova legge elettorale, di conseguenza, non dovrebbe soltanto assicurare la governabilità sulla quale tanto si insiste, ma garantire anche quella rappresentatività che la Corte costituzionale, nel giudicare illegittimo il Porcellum, ha individuato come necessario principio di riferimento.
Intanto, dal mondo sindacale, con particolare convinzione, arrivano indicazioni importanti, affidate a scelte impegnative e, in più di un caso, innovative. È stata imboccata con determinazione la strada dell’intervento diretto dei cittadini. La Cgil ha raccolto più di tre milioni di firme su temi di particolare rilievo, che già occupano un posto importante nella discussione pubblica. Si tratta della cancellazione di norme del cosiddetto Jobs Act – quelle riguardanti i voucher, divenuti sempre più strumento del precariato; la disciplina delle forme di reintegro nei casi di licenziamenti illegittimi, dopo l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori; e le norme sulla responsabilità solidale nei contratti di appalto. L’anno prossimo ci porterà dunque una stagione in cui la voce dei cittadini si farà sentire con particolare intensità.
Questa novità deve essere seriamente considerata perché conferisce una ulteriore, forte legittimazione all’istituto del referendum, divenuto ormai sempre più centrale nell’intero processo istituzionale. Una dinamica, questa, che esige certamente una continua riflessione critica, ma che tuttavia non può poi tradursi in una diffidenza che spinga a non dare il giusto rilievo a quelli che sono sempre più spesso rilevanti dati di realtà. E non può divenire l’occasione o il pretesto per non misurarsi fino in fondo con le trasformazioni che già il nostro sistema ha conosciuto proprio per effetto del moltiplicarsi delle occasioni in cui la decisione finale contempla un diretto protagonismo dei cittadini. Il fatto che il più grande sindacato italiano abbia deciso di affidarsi al referendum per dar seguito concreto a sue iniziative assai impegnative rappresenta una innovazione significativa per il processo istituzionale nel suo complesso.
La stessa eventuale sottolineatura di possibili rischi o effetti negativi è parte di una corretta analisi realistica, che tuttavia non può giustificare disinteresse o addirittura rifiuto di una novità così rilevante. Si deve piuttosto considerare il fatto che la prossima stagione politica sarà accompagnata da strategie nuove dei diversi soggetti sociali e, quindi, dalla messa a punto di forme politiche coerenti con questi cambiamenti. Il sindacato si sta muovendo con modalità che inducono a ritenere che intende riprendere quel ruolo in largo senso istituzionale che gli era stato lungamente congeniale e che si era venuto indebolendo, o addirittura perdendo, in una stagione che ha visto la dichiarata ostilità del governo verso i corpi intermedi fino a escludere la legittimità stessa della loro consultazione. Si sta operando una continua e progressiva modifica delle condizioni che rendono possibile le stesse forme dell’azione collettiva e le loro modalità. Una eventuale disattenzione sindacale per questi mutamenti avrebbe come effetto una perdita di peso e di evidenza del sindacato stesso.
Diventa in questo modo chiaro che non si può perseguire una artificiosa separazione tra l’insieme del sistema e le sue diverse componenti, isolando e privilegiando solo, o quasi esclusivamente, quelle in cui si esprime direttamente la funzione di governo. La presenza sindacale, in particolare, contribuisce a riportare l’attenzione sul merito delle questioni e a liberare almeno in parte la fondamentale materia costituzionale dall’impronta personalistica che ne ha finora marcato persino eccessivamente la discussione. Nessuna politica sociale può assumere consistenza in un contesto in cui unico, o comunque principale, riferimento rimanga il solo governo.

« La Repubblica, 7 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il dato più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%. Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse.
Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte. Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare. Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare.
L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale ».
L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi- Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate.
Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti. Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
«Il giornalismo ufficiale ha smesso di leggere e raccontare la realtà per farsi parte e difensore dell'establishment e come tale è percepito dall'opinione pubblica. Le sue opinioni, non "separate dai fatti" ma semplicemente contro i fatti, non influenzano più nessuno».
Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2016 (m.p.r.)
Ero sicuro del trionfo del No al referendum costituzionale fin dalla scorsa estate e gli evidenti errori di Matteo Renzi nella campagna referendaria hanno infine confermato le mie certezze.
Questo non perché io sia dotato di particolari virtù profetiche - perdo regolarmente le scommesse sul calcio - ma perché da molti anni faccio un bellissimo e privilegiato mestiere, il giornalista, che comporta l'abitudine a leggere la realtà così com'è e non come la vorremmo o come la interpretano le ideologie o i sondaggi. Attraversando la vita reale nei luoghi di lavoro, al supermercato, sugli autobus o al bar, era solare che Renzi stesse viaggiando a tutta velocità contro un muro.
La questione allora è: perché nessuno l'ha capito? Non parlo tanto di Matteo Renzi e della sua mediocre corte. Il governo che ci lasciamo alle spalle è stato fra i più dilettanteschi della storia della Repubblica. Verrebbe da dire: infantili. Capita a tutti di sbagliare, naturalmente, ma almeno da professionisti, come direbbe Paolo Conte, in un mondo adulto. Renzi ha sbagliato da dilettante, scommettendo tutto su una partita persa in partenza. Matematicamente persa in partenza, come scrivevo già a giugno.
Al vizio d'origine - un calcolo insensato - il premier ha aggiunto una strategia fallimentare, puntando come elemento di forza sull'estrema personalizzazione lideristica del quesito e fidandosi del sostegno di un coro di media che comprendeva la Rai più governativa di sempre, le reti Mediaset e molti grandi giornali. Senza capire che oggi l'endorsement o comunque la simpatia dei grandi media d'informazione non costituisce un vantaggio, ma piuttosto un handicap.
Il giornalismo ufficiale ha smesso di leggere e raccontare la realtà per farsi parte e difensore dell'establishment e come tale è percepito dall'opinione pubblica. Le sue opinioni, non "separate dai fatti" ma semplicemente contro i fatti, non influenzano più nessuno. E il ricorrente tentativo di terrorizzare il pubblico come si fa con i bambini, minacciando l'arrivo dell'uomo nero se non faranno i buoni, suona ormai patetico come la visione di uno spaventapasseri di stracci in un campo di grano.
Non per caso Grillo e Farage, Trump e Podemos, sia pure con le enormi differenze fra loro, hanno fatto dell'attacco sistematico ai grandi media un mantra di successo. Queste forze avanzano nel consenso non "nonostante" le scomuniche di giornali e tv perbene che li etichettano come populisti, ma in buona parte grazie a quelle.
Con la stessa superficialità e ignoranza del paese reale esibite lungo la stagione narcisistica del renzismo, ora i media perbene scoprono di colpo tutte le critiche al capo mai espresse in tre anni e grondano di consigli al piccolo principe per evitare la sconfitta di ieri, e dunque oggi utilissimi. Si può affrontare la questione in vari modi. Alimentando una polemica fra giornalisti, di cui poco importa.
Oppure facendo del moralismo, altrettanto irrilevante, per segnalare la propria diversità di liberi pensatori controcorrente rispetto agli allineati guardiani del potere. Ma la faccenda è altra e ben più seria. Riguarda la totale separatezza delle classi dirigenti dalla vita quotidiana dei cittadini. Tutte le oligarchie tendono a trasfigurare la realtà e piegarla ai propri interessi.
Ma per due secoli la funzione dell'informazione è stata appunto quella di mediare fra classi dirigenti e cittadini, riportando la discussione pubblica dentro confini reali e razionali. Oggi i media appaiono ancora più lontani dal reale di quanto non lo siano le oligarchie e il potere si abbevera a fonti d'informazione che confermano ogni giorno una visione distorta della società, scambiando le narrazioni di chi comanda per fatti concreti. Nel rimproverare i nuovi media di diffondere una "post verità" i vecchi media non si rendono conto di essere loro stessi ormai dei falsari.
Per tornare al referendum, non c'era davvero bisogno di aspettare il voto del 4 dicembre per capire che gli esclusi e i dimenticati, i giovani disoccupati e precari, le periferie del Nord, le regioni del Sud, tutti coloro insomma che non contano nulla per questa economia malata, il giorno in cui avrebbero potuto contare si sarebbero precipitati a votare contro il sistema.
La speranza è che almeno la lezione sia servita. Lo vedremo nelle prossime difficili settimane. Perso il referendum, Renzi è passato al piano B, che prevede elezioni subito. Aveva giurato che avrebbe abbandonato la politica e dovrebbe ritirarsi su una panchina con un cartoccio di fish and chips come David Cameron, che in fondo ha perso di poco e non contro una marea di No.
Chiederà invece il voto anticipato perché è l'unico modo di conservare la poltrona di segretario del Pd, avendo dovuto per la forza dei fatti (e non per coerenza, non siamo ridicoli) rinunciare a quella di premier. Ed è anche l'unico modo per completare il suo inconsapevole mandato storico, che sembra quello di demolire il sistema politico italiano ed europeo.
Checché ne dicano i suoi sciocchi consiglieri, gli stessi che avevano festeggiato con un "ciaone" l'inizio della fine con il referendum sulle trivelle, il Pd di Renzi non riuscirà mai a trasformare in consensi diretti il 40 per cento di Sì alla riforma. Anzi, se sarà confermato l'Italicum, il Pd in questa condizione rischia di non arrivare neppure al ballottaggio.
Alla fine sarebbe il trionfo dei 5 Stelle, persone che vivono nella realtà e non nel palazzo e per questo sono destinati a crescere nel consenso. Purtroppo non sono ancora attrezzati per governare. L'italia rischia così un cortocircuito che getterebbe nel buio l'intera Europa.
«Si moltiplicano gli interrogativi, ma dopo che è caduto il velo che copriva l’estrema fragilità di un leader cui sembrava non ci fossero alternative, dovremmo essere tutti assai felici di avere una Costituzione senza amputazioni, trappole e confusioni».
La Repubblica, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)
Nonostante la cortina fumogena politicista, gli italiani hanno capito che si votava sulla Costituzione: cioè sulle regole, sulle garanzie di tutti. E il sentimento prevalente, e alla fine risolutivo, è stato il rigetto verso chi le voleva svuotare chiedendo una delega in bianco. Paradossalmente il merito è in buona parte del presidente del Consiglio, che è stato (suo malgrado) un ottimo didatta.
Quando ha chiesto agli italiani: «volete dare più potere e meno controllo a questo governo?», egli ha reso comprensibile a tutti una questione teorica attraverso un esempio terribilmente concreto. E l’impopolarità di chi ormai appare legato a poteri assai remoti dagli interessi generali ha fatto il resto.
Di fatto, gli italiani hanno votato a favore di una rappresentanza parlamentare piena e diretta, del potere delle regioni e dei diritti delle minoranze politiche: tutte cose assai remote da una cultura politica di destra.
Solo il cortissimo respiro del gioco politico italiano spiega perché Forza Italia abbia votato No ad una riforma che aveva contribuito decisivamente a scrivere: ed è per questo che, su un piano valoriale, non può rivendicare praticamente niente di questa vittoria.
A maggior ragione non può farlo la Lega, che il mito dell’uomo forte lo ospita nel proprio più intimo dna. Questo fortissimo No, infatti, ferma ogni possibile deriva costituzionale in senso presidenzialista, rafforza l’equilibrio dei poteri e il ruolo del Parlamento, riattiva gli anticorpi del sistema contro il cesarismo populista carissimo alla Destra.
Anche il Movimento 5 Stelle si trova ora di fronte ad una prova del fuoco: perché se esso cedesse alla tentazione, già forte ed esplicita, di trarre beneficio dai trucchi dell’Italicum, tradirebbe radicalmente lo spirito del 4 dicembre. Ed è evidente che gli italiani non sono disposti ad approvare scorciatoie, furbizie e giochi di palazzo. Da parte di nessuno.
Mentre esiste la concreta possibilità di costruire qualcosa di radicalmente nuovo a sinistra del Partito Democratico, è proprio quest’ultimo a costituire la vera incognita. Rimarrà il Partito di Renzi (Diamanti), e dunque un fortino assediato e in declino, o saprà ritrovarsi, proiettandosi in un futuro tutto da costruire?
Si moltiplicano gli interrogativi, ma dopo che è caduto il velo che copriva l’estrema fragilità di un leader cui sembrava non ci fossero alternative, dovremmo essere tutti assai felici di avere una Costituzione senza amputazioni, trappole e confusioni. È la nostra rete di salvataggio, e ora davvero nessuno può permettersi di sabotarla.

il manifesto, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)
«Mi hanno davvero irritata i commenti che fin dai primi exit poll disegnavano il voto come frutto del populismo. Il No ha dietro sicuramente tante ragioni, diverse tra loro e variegate, ma non dimentichiamo chi si è espresso sul merito della riforma costituzionale. E soprattutto, non permettiamo ai partiti populisti di intestarsi la vittoria». La sociologa Chiara Saraceno ci aiuta ad analizzare il referendum di domenica: dalla delusione dei giovani nei confronti del «rottamatore» Matteo Renzi fino alle accuse di «trumpismo» indirizzate a chi ha bocciato la proposta targata Pd.
L’accusa mossa ai sostenitori del No, a parte l’ormai celebre «accozzaglia» populista, è quella di un Paese che non sa innovarsi, che conserva e si rinchiude nelle sue paure. Da sociologa ci vede almeno un fondo di verità?
Come ho detto mi hanno molto irritato i commentatori che riducono tutto a «populismo». Il fronte del No è molto composito, hanno pesato motivazioni diverse, ma è sbagliato secondo me metterle tutte sotto il cappello del populismo e ancor di più del conservatorismo, di quelli che non vogliono cambiare niente. Ricordiamo anche i tanti che, indipendentemente dall’essere o meno a favore del governo, non apprezzavano questa riforma della Costituzione.
C’è anche chi ha votato «di pancia», come ad esempio Grillo ha invitato a fare.
Certamente, quasi tutte le opposizioni presenti in Parlamento, dai Cinquestelle alla Lega, fino a Forza Italia, per quanto con motivazioni diverse tra loro, hanno comunque espresso un voto contro Renzi. Però, ecco, da qui a dire che hanno vinto i «trumpisti» all’italiana ce ne corre: anche perché, ripeto, tanti hanno votato nel merito. E anche dietro a quel dissenso che si può essere manifestato in un voto contro il governo è sbagliato vedere solo «populismo»: ci possono essere ragioni di disagio, di malcontento, che abbiamo il dovere di individuare e analizzare, a maggior ragione per non lasciarle interpretare solo dai populisti.
A che tipo di disagio si riferisce?
Prendiamo l’Italicum: ad alcuni ha dato fastidio che una legge elettorale fosse imposta, senza contare che poi – nelle ultime settimane – si era addirittura disposti a cambiarla. Ma allora perché avete fatto quella forzatura? E poi ci sono ad esempio le periferie: tanti abitanti delle nostre città sono stanchi di essere tirati fuori solo per la politica della paura, vogliono partecipare. Interpretiamo questo voto anche come un desiderio di partecipazione per chi ha poca voce.
E i ragazzi e le ragazze? Hanno votato in massa contro il premier più giovane che l’Italia abbia mai avuto. Non è strano che Renzi non sia riuscito a intercettarli?
La retorica degli ultimi due anni è stata tutta all’insegna della «modernizzazione» e della «rottamazione», ma evidentemente qualcosa non ha funzionato. Va detto innanzitutto che i giovani sono eterogenei: alcuni in passato hanno votato perfino contro riforme delle pensioni che andavano a loro vantaggio. Diciamo in generale che non è che siano per forza più bravi o intelligenti rispetto ad altre fasce d’età: però, certo, la loro condizione non è migliorata granché con questo governo. Sono forse quelli più delusi da Renzi: probabilmente perché il premier aveva promesso tanto, direi troppo rispetto a quello che poteva realmente dare. E l’ultima finanziaria non mi pare pensi troppo a loro: pensioni, quattordicesime per chi ha già un reddito, bene che si aiutino gli anziani in difficoltà, ma per gli under 30 cosa si è fatto?
Per il futuro dell’Italia alcuni vedono una chiusura in sé stessa, una virata antieuropeista. Lei è d’accordo?
Assolutamente no, e anzi direi che per alcuni versi l’Italia mi sembrava più chiusa e rancorosa prima del voto di domenica. Certo, ora tantissimo dipenderà da chi riuscirà a intestarsi la vittoria, e importante sarà riuscire a interloquire con i tanti cittadini che hanno votato sul merito, per difendere la Costituzione. E, insieme, riuscire a sottrarre linfa ai partiti populisti, interpretando e rispondendo al disagio di chi ha votato «di pancia» o per mandare a casa il governo Renzi.
Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2016 (p.d.)
Venerdì, Stefano Rodotà si è alzato per intervenire alla festa del No organizzata dal
Fatto a chiusura della campagna elettorale: è stato accolto da un interminabile applauso del pubblico che lo ha acclamato “Presidente”. Archiviato il risultato, gli abbiamo chiesto una lettura del voto, non solo per la nettissima prevalenza del No ma anche per l’alta affluenza.
Professore, il risultato è stato solo una sconfitta politica di Renzi o anche una risposta al minaccioso sottotesto, “o me o la Costituzione”?
Che questa sia una sconfitta di Renzi è del tutto evidente: lo confermano le parole del presidente del Consiglio di domenica notte. La mia impressione è che l’oggetto del conflitto, alla fine, fosse impadronirsi della Costituzione sottraendola alla possibilità di continuare a essere luogo di principi e di confronto. E facendola diventare uno dei tanti strumenti di un’azione politica tutta rivolta alla chiusura. La Costituzione invece è diventata la strada per uscire da questa
impasse: il che dimostra una diffusa consapevolezza culturale. Si sono confrontate diverse visioni: una certa cultura costituzionale contro una visione dei rapporti politici e istituzionali che alla Carta negava di essere ciò che invece è. Ovvero il patto che lega i cittadini e li rende una comunità.
L'affluenza non ha permesso tentennamenti, anche per il risultato nettissimo.
Perché ai cittadini interessava e molto! Il modo di presentare il Sì e il No è stato indicativo. Il no non è stato soltanto un rifiuto, ma anche un’indicazione di recupero della cultura costituzionale di cui parlavo poco fa.
Negli ultimi anni lei si è occupato prevalentemente di diritti, in un momento di compressione dei diritti fondamentali (lavoro, tutele del lavoro, saluto, rappresentanza, sovranità): possiamo leggere il voto anche sotto questa lente?
Certamente. Segnalo che l’anno prossimo avremo di nuovo prove su questo terreno perché la Cgil ha promosso tre referendum, tra cui quello contro l’abolizione dell’articolo 18. Oggi non finisce un percorso, tutt’altro. Bisogna fare di questo risultato un’analisi che possa guidare le azioni dei prossimi mesi. Torneremo al protagonismo dei cittadini che hanno dimostrato di voler esercitare le loro prerogative in proprio. Ponendo quindi il problema della delega e della rappresentanza: a queste domande bisognerà dare risposta. Non sarà semplice, ma questi problemi non sono più eludibili.
La legge elettorale non era oggetto del referendum, ma ora bisognerà ripensarla tenendo presente il tema della rappresentanza.
Qui dobbiamo sottolineare due cose: è stato imperdonabile fare una legge elettorale – su cui è stata messa la fiducia e che è entrata in vigore dopo più di un anno dalla sua approvazione – che valeva solo per la Camera, dando per scontato che i cittadini approvassero la riforma del Senato. Una classe dirigente deve avere visione e responsabilità: l’arroganza che sottende a questa mossa è inammissibile. Senza dire che, dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, il compito primo del Parlamento era fare una legge elettorale almeno non incostituzionale. Il cuore di quella sentenza era proprio il tema della rappresentanza. Ora ci troviamo con una legge elettorale che vale per una sola Camera e sui cui c’è più di un sospetto di legittimità costituzionale. Questo sarà il passaggio cruciale: i cittadini hanno chiarito di non essere disposti a rinunciare alle loro prerogative e ai loro diritti.
Lei ha parlato di una pericolosa tendenza alla democrazia di ratifica: il Parlamento tornerà al suo ruolo di rappresentante del popolo e di legislatore?
Dovrà essere così. Ma è dirimente il modo con cui sarà eletto il nuovo Parlamento. Quale sarà la via attraverso cui i cittadini potranno selezionare i loro rappresentati? Bisogna che sia chiaro che non c’è più posto per trucchi da funamboli. I cittadini devono potersi fidare perché altrimenti questo rinnovato interesse per le decisioni comuni scemerà o prenderà altre direzioni se non altre derive. Negli ultimi anni – anzi: lustri – il Parlamento ha subìto il ricatto della fiducia su quasi tutti i provvedimenti dei governi, che hanno abusato della decretazione. Se pensiamo che il disegno della riforma era un rafforzamento del potere esecutivo a scapito del Parlamento, allora diciamo che la direzione indicata dagli elettori - non dai professori o professoroni - è un ritorno alla centralità del Parlamento. Un risultato per nulla ovvio: da tempo si dava per scontato il disinteresse dei cittadini verso la politica. Beh non è così.
I cittadini non hanno creduto al terrorismo e alle profezie nefaste. E nemmeno al fatto che non ci fosse la famosa alternativa...
I cittadini hanno creduto nella democrazia, questa è la verità. Tutte le affermazioni riconducibili all’après moi le déluge erano una negazione della democrazia. Che invece è per sua natura una vicenda aperta.
«Se non vogliamo che domenica sia stata una vittoria di Pirro, il vero impegno per la sinistra comincia adesso. Il governo è importante, ma superato lo slogan "se andremo al governo faremo...". Dobbiamo fare subito, laddove siamo»,
il manifesto, 6 dicembre 2016
Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla Costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No.
La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria.
Contrariamente a quanto è stato detto – «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. – quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione.
In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo.
Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede, non solo in Italia, ormai da decenni. E che il nostro No non basterà di per sè, purtroppo, ad arrestare.
Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa,su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini.
E’ da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione.
Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo.
Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti.
Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica – il liberismo, l’austerity – e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica.
Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi “leggeri”, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni.
Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare.
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali – ma anche politici – in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo.
Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione.
La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perchè solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque.
Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi).
Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni ’70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perchè avevamo un ministricolo in qualche governo?
Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo “Libertà è partecipazione”. Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).
Giorgio Gaber, Libertà

"». il manifesto, 5 dicembre 2016 (c.m.c.)
Lorenza Carlassare risponde al telefono da Padova, è a casa di amici, festeggiano.
È una bella sorpresa, professoressa?
Una bellissima notizia ma, adesso posso dirlo, per me non è una sorpresa. Me l’aspettavo, anzi ne ero sicura, scurissima. Lo sono sempre stata. Perché so che gli italiani quando arriva il momento della verità capiscono bene cosa è giusto fare. Lo posso dire perché nella mia vita ho già vissuto molte situazioni del genere, situazioni in cui le aspettative sembravano preoccupanti e invece alla fine il risultato è stato positivo.
Lei ha girato molto per il comitato del No, traeva questa convinzione dai suoi incontri?
Anche da quelli, sì. Effettivamente ho partecipato a tantissime assemblee per spiegare le ragioni del No, per mettere in evidenza tutti i difetti di questa riforma costituzionale. E specialmente in quest’ultimo periodo, anche qualche mese fa ma specialmente nelle ultime settimane, ho percepito il fastidio per l’atteggiamento del presidente del Consiglio. Renzi è stato in televisione praticamente ogni ora, ogni minuto. E negli ultimi tempi ha alzato i toni in maniera aggressiva verso gli esponenti del No, anzi verso tutti gli elettori intenzionati a votare No.
Secondo lei ha perso per questo?
Devo dire la verità, l’arroganza di Renzi mi è sembrata il quadro di quello che ci sarebbe potuto succedere se avesse vinto il Sì. Avremmo avuto ancora di più l’arroganza al potere. Anche per questo ero certissima che il No avrebbe vinto, perché gli italiani sono insofferenti verso questo tipo di atteggiamento. E capiscono quando c’è qualcuno che vuole prenderli per il naso.
È stato un no in difesa della Costituzione?
Sicuramente. Ma anche le sofferenze quotidiane della gente hanno pesato. Le persone conoscono bene le loro condizioni di vita, aveva un bel dire Renzi che tutto va bene e il bilancio è positivo, che l’Italia sta crescendo. Non è così, purtroppo, e la gente lo sa bene. Gli italiano non potevano credergli.
Le sembra opportuno che si sia dimesso?
Inevitabile, per come aveva impostato le cose. Ma a me interesserebbero di più le dimissioni da segretario del Pd. Mi farebbe piacere se quel partito, povero partito, riuscisse a trovare una strada diversa. O almeno che ci provasse, non so se può riuscirci.
Secondo lei è indispensabile fare una nuova legge elettorale prima di sciogliere le camere?
Se in parlamento si riuscisse a trovare un accordo per fare una nuova legge elettorale, una buona legge elettorale, sarebbe certo un fatto positivo. Ma questa non può diventare ancora una volta una scusa per tenere in vita un parlamento pesantemente delegittimato dalla Corte costituzionale.
E quindi con quale legge si dovrebbe votare?
La Corte costituzionale con la sentenza 1 del 2014 con la quale ha cancellato parti importanti del «Porcellum» ha lasciato in piedi un sistema – il cosiddetto Consultellum – con le parti residue della vecchia legge elettorale. È un sistema funzionante, può essere utilizzato
Una specie di proporzionale.
Una specie, sì, perché ci sono ancora soglie parecchio alte, ma è di certo assai meglio dell’Italicum.
L’Italicum a questo punto è inservibile?
Senza questa riforma costituzionale, l’Italicum che è un sistema applicabile alla sola camera elettiva non esiste. Oltre tutto è sotto il giudizio della Consulta e non si può certo utilizzare. È una legge incostituzionale che riprodurrebbe un parlamento incostituzionale.
Come quello che ha fatto questa riforma.
Renzi senza i seggi dichiarati illegittimi non avrebbe mai potuto farla. È stata una riforma nata male, meno male che è finita così. Tutta la conduzione della vicenda è stata anti democratica, ci siamo liberati da uno spettro, che meraviglia.
«La Costituzione, grazie a una provvidenza laica che si serve anche di alleati insospettabili e persino impresentabili, si è salvata un'altra volta. E ha salvato tutti noi. Anche chi voleva rottamarla». Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2016 (p.d.)
Nel nuovo referendum Monarchia-Repubblica, 70 anni dopo quello del 1946, ha rivinto la Repubblica. E con un distacco abissale, plebiscitario. Dopo una campagna elettorale che ci ha visti in prima linea in difesa della Costituzione (speriamo per l'ultima volta), è difficile silenziare le voci di dentro: le emozioni, le tensioni, le paure, i ricordi lontani e recenti.
Il primo è il giorno della nostra nascita, sette anni fa, quando con un pugno di colleghi fondammo il Fatto per dire ciò che gli altri non possono o non vogliono dire. E Antonio Padellaro illustrò nell'editoriale la nostra linea politica: la Costituzione. Che nel 2009 era minacciata da un uomo solo al comando, Silvio Berlusconi. Mai avremmo immaginato che nel 2016 quella scena horror si sarebbe ripetuta a opera di un altro aspirante caudillo, stavolta di sinistra (si fa per dire): Matteo Renzi, con dietro Giorgio Napolitano e i soliti poteri forti e marci, italiani e non.
E non potevamo neppure immaginare che stavolta ci saremmo ritrovati soli a difendere la Costituzione, per il tradimento di buona parte del mondo intellettuale, culturale e artistico. Il secondo ricordo è di fine marzo 2014, quando ci accorgemmo con un giorno di ritardo che il sito di Libertà e Giustizia aveva pubblicato un drammatico appello firmato da Zagrebelsky, Rodotà, Carlassare, Settis e altri contro la “svolta autoritaria” delle due “riforme”appena partorite da Renzi & B. in pieno Patto del Nazareno: l'Italicum e la Costituzione Boschi-Verdini. Riuscimmo comunque a pubblicarlo in esclusiva, perchè nessun altro quotidiano (a parte il manifesto) gli aveva dedicato neppure un trafiletto. Ci guardammo intorno e non vedemmo nessuno: “I matti siamo noi o tutti gli altri?”. Se si fosse votato allora, sarebbe finita col Sì al 99% e il No all'1. Poi Grillo e Casaleggio sottoscrissero l'appello, condiviso anche da Sel. La sinistra del Pd balbettava, per poi ridursi al silenzio o saltare sul carro del vincitore di lì a due mesi, quando Renzi trionfò alle Europee. Se da allora il fronte del No è cresciuto e si è moltiplicato da zero fino al 59% lo si deve, più che al voltafaccia di bottega di B. e alla scombiccherata campagna leghista, all'impegno di comitati, partigiani, magistrati, Fiom e Cgil, ma anche dei 5Stelle, presenti in ogni piazza e strada con un impegno che - comunque la si pensi – resterà il loro fiore all'occhiello.
Il Fatto è sempre stato, ogni giorno, il punto di riferimento del No. Mai per motivi partitici o personali, sempre e soltanto sul merito della controriforma, in nome dei nostri principi e ideali. Anche quando Renzi trasformò il referendum in Referenzum, cioè in una folle ordalia pro o contro la sua insignificante persona. L'abbiamo fatto nella certezza di uscire sconfitti da una battaglia persa in partenza, per poter guardare in faccia in serena coscienza noi stessi, i nostri figli e i nostri lettori. Ci siamo inventati di tutto (inserti speciali, convegni, libri, una tournèe teatrale) per bucare il muro della censura e contrastare a mani nude, senza un soldo,la spaventosa potenza di fuoco del premier, che ha violato tutte le regole, anche quelle della decenza; speso chissà quanti milioni per la campagna elettorale; usato voli ed elicotteri di Stato, buttato o promesso miliardi pubblici per comprare voti con la legge di stabilità e i rinnovi contrattuali last minute; occupato ogni angolo della Rai, tenuto in scacco Mediaset; mobilitato prefetture, ambasciate, ministri, sindaci, governatori, Poste, Confindustria, Confquesto e Confquello; seminato terrori e ricatti con allarmi infondati, complice la consueta legione straniera; usato persino il dolore dei malati di cancro; raccontato balle spaziali fin sulla scheda elettorale. Il tutto nella certezza (poi confermata) che nessun arbitro l'avrebbe fermato, sanzionato, sbugiardato. Intanto, tutt'intorno, le più occhiute vestali della legalità, della democrazia e della libera informazione attivissime nell'era Berlusconi si squagliavano come neve al sole dinanzi ai volgari abusi del satrapuccio di Rignano. Figuriamoci quanti voti in meno avrebbe avuto il Sì se le regole fossero state rispettate.
Ma oggi Renzi va anche ringraziato per alcuni meriti conquistati sul campo, ovviamente a sua insaputa, spaccando in due l'Italia - famiglie, amici, partiti, associazioni - proprio sulla Carta che ci aveva uniti per 68 anni.
1) Ci ha regalato mesi avvincenti e indimenticabili, trascorsi in giro per l'Italia a informare la gente, a discutere di principi e valori, a riscoprire e riamare una Costituzione (quella vera) che davamo ormai per scontata e invece va sempre innaffiata e alimentata col nutrimento della passione civile. Le ultime settimane le abbiamo trascorse a cercare ospiti per la Woostock del No, collezionando una serie impressionante di dinieghi, distinguo, silenzi, imbarazzi, tremiti e fughe da Guinness, anche da personaggi insospettabili: il che rende ancor più preziosa la presenza degli artisti che gratuitamente erano con noi venerdì sera al teatro Italia.
2) Ha costretto tanti democratici a targhe alterne a gettare la maschera, aiutandoci a separare il grano dal loglio: chi combatteva Craxi e B. per difendere i principi costituzionali e la democrazia liberale, e chi lo faceva per difendere il partito o la panza. Tant'è che si è prontamente sdraiato su una controriforma scritta coi piedi da una Boschi e da un Verdini.
3) Ha trascinato alle urne 32 milioni di italiani per sancire, speriamo definitivamente, che la nostra bellissima Carta non è un problema, ma una risorsa dell'Italia. Che non va stravolta, semmai aggiornata. E solo con riforme condivise, migliorative, scritte in italiano, limitate ai pochi articoli, ma soprattutto democratiche. Perchè gli italiani non vogliono (più) un padrone.
4 ) Ha seppellito, speriamo definitivamente, quell'"informazione” di regime che ieri sera esibiva le sue migliori facce sepolcrali nei talk show e, tanto per cambiare, non aveva capito nulla del Paese che dovrebbe interpretare e raccontare, invece non sa più neppure dove stia sulla carta geografica. Quell’"informazione" di penne alla bava che deridevano i giornalisti americani, incapaci di prevedere la vittoria di Trump (peraltro meno votato della Clinton), e in casa propria non notavano neppure la rabbia montante di milioni di persone.
La Costituzione, grazie a una provvidenza laica che si serve anche di alleati insospettabili e persino impresentabili, si è salvata un'altra volta. E ha salvato tutti noi. Anche chi voleva rottamarla.
Sono contento della vittoria del NO. Sono contento che la nostra Costituzione sia quella nata dall'antifascismo, dalla Resistenza, dalla democrazia conquistata per le donne e gli uomini, anziché l’insensato pastrocchio cucinato dalla signora Boschi.
Sono contento che sia stato sconfitto Matteo Renzi, perché l'arroganza al potere non mi è mai piaciuta, e perché non mi piace che in cima alla catena di comando ci siano JP Morgan e simili.
Sono particolarmente contento perché ho trovato devastante il modo in cui, giorno per giorno, Matteo Renzi si è impadronito del potere, a furia di operazioni scorrette e bugie alla Vanna Marchi.
Sono contento perché la maggioranza degli italiani ha compreso come stanno le cose e ha ricominciato a fare politica.
Sono preoccupato perché l'aspirante Capo ha dimostrato, col suo tracotante discorso di ritiro, di non aver rinunciato alla rivincita, e perché la rete di ricatti e acquisti che aveva messo in piedi è ancora intatta.
Sono preoccupato perché sono intatti i poteri che, attraverso l'ex presidente della Repubblica, hanno chiesto a Matteo Renzi di rifare la Costituzione.
Sono preoccupato perché gran parte di ciò che accadrà nei prossimi mesi è nelle mani di una istituzione che mi è apparsa troppo distratta e troppo fragile.
E sono preoccupato perché una sinistra come quella che ho conosciuto nel secolo scorso, all'altezza dei nuovi problemi dell’Italia, dell’Europa e del mondo, ancora non c'è.
Ma mi sembra che sia meglio rischiare e andare avanti insieme, distinguendo tra i vincitori del round quelli che esprimono interessi condivisibili e quelli che rappresentano interessi non migliori di quelli rappresentati da Renzi, collaborando con i primi e combattendo i secondi anziché tornare al neofascismo o al neofeudalesimo.
Venezia, 5 dicembre 2016
Articoli di Marco Galluzzo, Mariolina Sesto,Carmelo Lopapa, Marco Palombi
, Daniela Preziosi, dal Corriere della sera, il Sole 24 ore, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano online, il manifesto, 5 dicembre 2016 (c.m.c.)
Corriere della sera
IL NO BATTE RENZI
TANTI AL VOTO
«LASCIO PALAZZO CHIGI»
di Marco Galluzzo
«Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno, io sono diverso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola — perché non siamo robot —. Non sono riuscito a portarvi alla vittoria, ho fatto tutto quello che si poteva fare. Credo nella democrazia, quando uno perde non fa finta di nulla e fischietta». Pausa, subito dopo: «Adesso sta all’opposizione fare la proposta sulle regole». La vittoria del No è netta: 59,7% (quando mancano poche sezioni da scrutinare), il Sì al 40,3%.
Poco dopo mezzanotte Matteo Renzi, dopo aver parlato al telefono con Sergio Mattarella, annuncia le sue dimissioni. Parla a braccio, a tratti sembra commuoversi, ma dà l’unica risposta possibile, politicamente, al voto degli italiani: «Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta, a chi ha vinto le mie congratulazioni, a loro vanno oneri e onore per il futuro, per le proposte, a cominciare dalla legge elettorale. Un grande abbraccio a tutti coloro che hanno scommesso sul Sì. Come è evidente fin dal primo giorno l’esperienza del mio governo finisce qui, volevo cancellare altre poltrone, non ce l’ho fatta e quella che salta è la mia». Alla fine del discorso ringrazia «Agnese e i miei figli, per la fatica di questi mille giorni».
Oggi Renzi riunirà il suo ultimo Consiglio dei ministri, poi salirà al Quirinale per le dimissioni. È, per il capo del governo, indubbiamente una sconfitta che brucia, nettissima, più grande di qualsiasi previsione, con un voto che per ampiezza acquisisce subito una fortissima caratura politica. Domani verranno riuniti anche gli organi direttivi del Pd e non è da escludere che Renzi possa lasciare anche la carica di segretario.
Quasi 35 milioni di italiani sono andati a votare, un record di affluenza. La maggior parte di loro, circa sei su dieci, ha bocciato il referendum sulla Costituzione. E insieme a questo ha clamorosamente bocciato anche Renzi e il suo governo, costruendo il peggiore scenario che il presidente del Consiglio potesse aspettarsi. Con una forbice fra il No e il Sì che arriva anche sfiorare i venti punti percentuali: i sondaggi delle scorse settimane avevano previsto la vittoria del No, ma l’avevano sottostimata ampiamente.
Per alcuni mesi il premier e il suo staff hanno detto di contare su un’alta affluenza perché la riforma potesse essere approvata. L’affluenza è stata sorprendente — 68,5% — più alta delle più rosee previsioni, a livelli da elezioni politiche, e il pronostico del premier è stato bocciato. I dati sono ancora più impressionanti se confrontati con i due precedenti referendum costituzionali. A quello del 2001 sulla modifica del Titolo V andò a votare il 34,1% degli elettori, a quello del 2006 sulla devolution il 53,6% (si votava in due giorni).
Hanno vinto tutti coloro che hanno puntato sul tavolo del No: Berlusconi, la minoranza del Pd, Sinistra italiana, la Lega di Salvini, il movimento di Beppe Grillo. Poco dopo le 23, sull’onda dei primi exit poll, la notizia della sconfitta di Renzi è una breaking news in tutti i notiziari del mondo. Stessa cosa per l’annuncio delle sue dimissioni. Le cancellerie internazionali, insieme ai mercati finanziari, auspicavano una vittoria della riforma, nel segno della stabilità politica. Quello che sem-brava uno dei Paesi più stabili della Ue da oggi, dopo la Brexit, con elezioni politiche in Francia e Germania il prossimo anno, aggiunge incertezza al tavolo dell’Unione.
il Sole 24 ore
VINCE IL NO CON IL 60%,
AFFLUENZA RECORD
di Mariolina Sesto
«Partecipazione al voto al 68,48% - In alcune città del Mezzogiorno i voti contrari arrivano fino al 70%»
Una vittoria netta del No, che sfiora il 60% dei voti. E una partecipazione numerosissima degli elettori (intorno al 70%) alla consultazione referendaria. Sta in questi due dati la fotografia del voto di ieri che ha bocciato la riforma costituzionale Renzi-Boschi approvata lo scorso aprile dal Parlamento senza maggioranza assoluta.
I dati dello spoglio, iniziato subito dopo l’apertura dei seggi, non lasciano margini di dubbio. A scrutinio quasi completato (61.523 sezioni su 61.551 per l’Italia e 789 sezioni su 1.618 per l’estero), i voti contrari alla riforma si attestano al 59,56%, confermando i precedenti exit poll e proiezioni.
Ampio lo scarto con il Sì pari a circa 18 punti percentuali. I voti pro riforma, sempre secondo i dati non ancora definitivi del Viminale, si sono attestati al 40,3 per cento.
Notevolissima l’affluenza alle urne, che assume anch’essa un significato politico di prima grandezza: si è attestata al 68,48%, oltre ogni previsione. Una partecipazione definita da «elezioni politiche». Non regge infatti il confronto con la partecipazione agli altri referendum costituzionali: nel 2006, sulla cosiddetta «devolution» votò il 53,6% degli aventi diritto, nel 2001, sulla riforma del Titolo V, il 34,1 per cento.
Buona l’affluenza anche all’estero: 30,89 per cento (hanno votato 1.251.728 elettori). In questo caso però la differenza rispetto al referendum costituzionale di 10 anni fa non è poi così marcata: allora andò a votare il 27,7% dei residenti all’estero. Lo scarto è quindi solo di poco più di tre punti percentuali. L’affluenza più alta si è registrata in Europa dove è stata pari al 33,81%; in America Meridionale è stata del 25,57%; in America Settentrionale e Centrale del 31,60%; in Africa-Asia-Oceania del 32,12 per cento.
Il No si è affermato su tutto il territorio nazionale sebbene non ovunque con lo stesso peso: al Nord i voti contrari alla riforma hanno fatto registrare un risultato ovunque intorno al 60 per cento.
Le regioni centrali sono state le più generose sia nei confronti di Renzi che della riforma: lo stacco tra No e Sì è stato infatti poco marcato e in alcune regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna (e al nord anche nella provincia autonoma di Bolzano) il Sì risulta leggermente in vantaggio sul No. Certa la vittoria del Sì nelle città di Firenze, Perugia, Bergamo, Mantova, Bologna e Milano. Al Sud lo scarto è invece nettissimo, con il No in molti casi (come la Sardegna e alcune città di Sicilia e Calabria) al 70 per cento. E in media sempre intorno al 67 per cento.
Quanto all’affluenza, il dato generale è stato spinto soprattutto dal Centro-nord. Meno marcato, ma sempre abbondantemente sopra il 50% al Sud.
Il boom di partecipazione rimane dunque lontanissimo dall’affluenza di qualunque consultazione referendaria, anche le più recenti come quella sull’acqua pubblica del 2011 (che registrò il 54,8%) e quella di quest’anno sulle trivelle (il 31,1%). Per trovare dati raffrontabili bisogna guardare alle ultime politiche. Nel 2013 per la Camera andò a votare il 75,1% degli aventi diritto. E il confronto non reggerebbe neppure con le europee 2014 quando la partecipazione si fermò al 57,2 per cento.
Buona l’affluenza persino nelle zone del terremoto, dove i seggi (spesso accorpati) sono stati allestiti in sedi alternative, dalle tensostrutture alle palestre. E ai residenti è stata lasciata la scelta di votare anche nelle zone in cui sono sfollati.
Giornata elettorale tesissima quella di ieri, che si è portata dietro i nervosismi di una campagna elettorale durissima. A dominare è stata la polemica sulla matite copiative. Aiutati dal tam tam sui social, alcuni dubbi sui lapis distribuiti ai seggi, ritenuti dai votanti non copiativi, cioè cancellabili, sono rimbalzati da nord a sud. E il caso è montato pian piano tenendo banco per parecchie ore della giornata. In alcuni casi le segnalazioni sono poi sfociate in vere e propie denunce ai presidenti di seggio o interventi della polizia.
Tra i primi a denunciare sospetti sulla matita per il voto il cantante Piero Pelù, che posta anche la foto di quanto messo a verbale al seggio e innesca molte reazioni sul suo profilo. Le segnalazioni si moltiplicano. Interviene il leader della Lega, Matteo Salvini, che invita a tenere «occhi aperti» e a «non farsi fregare». In Campania è Fulvio Martusciello, europarlamentare di Fi e responsabile nazionale dei “difensori del voto”, a mettere in guardia. Infine l’intervento ufficiale del Viminale per assicurare che «le matite sono indelebili» e servono solo per il voto. Svelata anche la marca: è la tedesca Faber Castell. Quest’anno, fa sapere l’Interno, ne sono state acquistate 130mila e le «Prefetture possono utilizzare anche le matite che sono rimaste in deposito dagli anni precedenti». Ma il caso non sembra chiuso. Il Codacons infatti ha annunciato che presenterà un esposto al ministero dell’Interno e in 140 procure.
La Repubblica
LE DIMISSIONI
di Carmelo Lopapa
«Boom di votanti ai seggi. Bocciata la riforma costituzionale cui il premier aveva legato la prosecuzione del mandato. Il Sì travolto al Sud, avanti solo in Toscana, Emilia e Trentino. Il capo del governo nella notte parla in tvIl No dilaga al 59%. Renzi lascia in lacrime “La sconfitta è mia, ora tocca a chi ha vinto”»
Una valanga di No travolge la riforma costituzionale, affonda il governo Renzi, impallina il segretario del Partito democratico. E il capo dell’esecutivo non attende un solo istante, le dimissioni sono immediate, nella notte, il viso segnato dalle lacrime, il nodo in gola: «Io ho perso e lo dico a voce alta. Non si può fare finta di nulla. Domani pomeriggio (oggi,ndr)riunirò il Consiglio dei ministri e salirò al Quirinale per le dimissioni. Il No vince in modo netto, ai loro leader le mie congratulazioni, a loro onori e oneri insieme alla grande responsabilità della proposta a cominciare dalle regole. Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta. Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta». La moglie Agnese lo guarda a pochi metri di distanza, commossa anche lei.
La conferenza stampa era stata convocata già in serata, quando il tam tam degli exit-poll non lasciava margini di dubbio, poi confermati alla chiusura dei seggi. A mezzanotte il dato è già inequivocabile: 59 per cento i No (Ipr marketing-Piepoli per Rai), il Sì lontano un abisso: al 41. Trascorrono pochi minuti dalla chiusura delle urne e i falchi dell’opposizione vanno subito in tv per dichiarare “morto” il governo Renzi, preannunciare le dimissioni del premier, dichiararsi i veri vincitori. Così Matteo Salvini, il primo, poi Renato Brunetta («Game over»), Giovanni Toti («Legislatura finita») infine i grillini in sequenza («Al voto subito »).
Un risultato che viaggia sull’onda di un’affluenza da record, che tocca quasi percentuali da politiche: le prime proiezioni danno qualche decimale appena sotto il 70 per cento (nel 2013 per Camera e Senato era stata al 75). Marea che tanti esperti avevano stimato avrebbe avvantaggiato il Sì. I risultati dicono il contrario. Lo si è capito già dopo le 19, quando il flusso di elettori ai seggi era lievitato a dismisura in regioni quali Veneto, Sardegna e Sicilia, autentiche roccaforti antirenziane.
La famosa «maggioranza silenziosa » sulla quale il presidente (dimissionario) Matteo Renzi aveva investito è davvero andata a votare. Ma schierandosi dalla parte opposta a quella da lui sperata. Fallito anche l’ultimo tentativo del segretario pd di “de-politicizzare” la consultazione. Il voto diventa politico, punitivo per il suo governo, oltre ogni attesa. Soprattutto al Sud. Le prime proiezioni del Viminale confermano un trend schiacciante.
Dalla Sicilia alla Puglia si viaggia in media con percentuali vicine al 65 per cento per il No, al 35 per il Sì. Col boom clamoroso della Campania del governatore (renziano) Vincenzo De Luca: quando erano scrutinate 122 sezioni, il No aveva toccato la quota del 70 per cento. A mezzanotte, solo in tre regioni, Trentino Alto-Adige, Emilia e Toscana, il Sì risulta in vantaggio.
Non è un caso del resto se sono politiche e immediate le conseguenze che Matteo Renzi trae già in nottata. Adesso entra in gioco il Quirinale. Domani la direzione del Pd.
Il Fatto Quotidiano online
LA CARTA HA VINTO COL 60%.
AL VOTO 34 MILIONI DI ITALIANI
di Marco Palombi
«Risultati - Affluenza altissima vicina al 69%. Sono circa 20 milioni i voti contro la riforma Boschi-Verdini, 5 in più dei Sì che vincono solo in Toscana, Emilia e Trentin»
Ha vinto il No. E ha vinto bene. Ha perso Matteo Renzi. E ha perso male. Questo dicono i numeri e i voti: quando lo scrutinio è oltre il 50% dei voti i No sono quasi uno su sei, un’enormità. Anche perché – sulla valanga istituzionale innescata dal referendum – pesa in primo luogo un dato numerico che è anche squisitamente politico: un’affluenza che per un referendum non si vedeva da oltre vent’anni, dalle consultazioni radicali del 1993, trainate dal referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, che portò alle urne il 77% degli elettori.
Ieri ai seggi sono andati quasi 34 milioni di italiani – il 69% circa del corpo elettorale – per votare sulla riforma costituzionale proposta dal governo di Matteo Renzi ed era già una buona notizia: per questo patrimonio di partecipazione dobbiamo paradossalmente ringraziare proprio il presidente del Consiglio, che ha trasformato la consultazione in un’ordalia sul suo esecutivo, costringendo molti italiani a schierarsi.
La seconda buona notizia – buona notizia almeno per noi del Fatto, assai meno a Palazzo Chigi – si fa chiara nella notte: gli italiani hanno respinto in massa la riforma scritta da Maria Elena Boschi, Denis Verdini e soci. L’idea di perdere il diritto di voto per il Senato e passare in buona sostanza la funzione legislativa dal Parlamento al governo non hanno fatto abbastanza proseliti, nonostante le energie e i milioni di euro spesi dal premier e dal Pd per convincerli del contrario.
Gli italiani, peraltro, non solo hanno respinto la riforma, lo hanno fatto in un numero tale che rende definitivo il fallimento politico dell’operazione di Palazzo tentata da Matteo Renzi su mandato di Giorgio Napolitano, la cui fragile eredità politica svanisce nella notte che ha condotto l’Italia al 5 dicembre. Alla fine sono oltre sei milioni in più i voti di chi ha bocciato la riforma: i Sì, circa 13 milioni e mezzo, vincono bene solo nella provincia di Bolzano (nettamente) e sembrano avanti di poco in Toscana e Emilia Romagna. Il resto è un pianto, specie al Sud.
Risultato netto, dunque, i cui contorni andranno studiati con cura. A partire dall’affluenza: alta, molto, se si pensa che al referendum costituzionale di dieci anni fa che bocciò la cosiddetta devolution di Berlusconi e Bossi – riforma non a caso assai simile a quella di Renzi – si presentò solo il 52,4% degli aventi diritto, vale a dire 25,7 milioni di italiani.
Altissima la partecipazione nel Nord Italia, ma non bassa neanche nel Mezzogiorno, dove storicamente si vota di meno. Grandi numeri in Lombardia, ma soprattutto in Veneto, dove il Pd è ridotto ormai a un partitino residuale e infatti i No volano verso il 62% col 76,6% di affluenza, la più alta. Notevole che – anche se stavolta non c’era quorum – per la prima volta da molto tempo in tutte le Regioni italiane è stato superato, e in scioltezza, il 50% degli aventi diritto.
Questi numeri dicono una cosa ulteriore. Evidentemente – al di là del merito della riforma, assai poco frequentato anche da Renzi – il voto è stato pienamente politico e i bacini elettorali dei vari partiti hanno retto. Tradotto: il premier non è riuscito a prendersi i voti degli altri, almeno non in misura sufficiente visto che la sua potente e ricca macchina elettorale ha comunque messo assieme 13 milioni e mezzo di voti. Come detto, ahilui, sei milioni abbondanti in meno delle schede che chiedevano una bocciatura della riforma su cui Renzi ha deciso di giocarsi tutto. Le prime analisi sui flussi (degli exit poll) rivela che la grande maggioranza degli elettori di Forza Italia, Lega e M5s si è mossa come chiedevano i partiti.
D’altra parte è stato lo stesso Renzi a mettere in gioco il suo governo e la sua carriera nella competizione finendo per ingolosire le opposizioni, soprattutto dopo la scoppola – mai ammessa – rimediata alle Comunali di giugno: hanno visto l’opportunità di buttarlo giù e l’hanno usata. Fortunatamente, per quella che chiamano eterogenesi dei fini, hanno finito per salvare la Costituzione dallo scempio.
Breve nota sul voto estero. Le veline di Palazzo Chigi – che propalavano una affluenza al 40% con 1,6 milioni di voti – si sono rivelate false esattamente come Il Fatto aveva scritto sabato: affluenza al 30,8% con 1,25 milioni di voti arrivati nell’hangar di Castelnuovo di Porto, vicino Roma. Tra gli italiani all’estero, come previsto, alla fine sembra aver vinto il Sì largamente. Visti i numeri dei votanti in patria, però, lo sforzo (assai costoso) per convincere gli emigrati non è servito a granché.
il manifesto
UNA VALANGA DI NO
SEPPELLISCE IL GOVERNO.
RENZI: FINISCE QUI
di Daniela Preziosi
«Il popolo sovrano. I primi dati parlano del 60 per cento. Oggi va al Quirinale Il premier: «Non ce l’abbiamo fatta, la responsabilità è mia». Il (quasi ex) premier ora alle prese con il nodo del partito. Martedì convocata la direzione»
«Ho perso, mi prendo tutta la responsabilità», «l’esperienza del mio governo finisce qui, perché non possono restare tutti incollati alle loro abitudini prima che alle loro poltrone. Non ce l’ho fatta e la poltrona che salta è la mia». Poco dopo la mezzanotte il presidente del consiglio si presenta a Palazzo Chigi alle telecamere e rassegna in diretta tv le sue dimissioni da premier. Oggi pomeriggio salirà al Colle per farlo davvero, rispettando la Costituzione che gli elettori gli hanno impedito di modificare male. Renzi si commuove quando ringrazia la moglie Agnese e i figli, quando manda «un abbraccio forte agli amici del Sì».
Finisce qui, dice lui, la storia del governo Renzi. Seppellito da una valanga di No. Mentre il manifesto chiude questa edizione poco più della metà delle schede scrutinate dicono No al 59,5 per cento e Sì al 40,5.
È una sconfitta netta, annunciata da ore. Quando manca più di un’ora alla chiusura dei seggi, gli exit poll in teoria ancora sotto embargo. Ma la notizia è clamorosa, non si trattiene, straripa sulla rete, nei canali tv che stanno per dare inizio alle loro maratone. La forbice fra No è Sì è impressionante. Quando, a urne chiuse comincia lo spoglio reale delle schede, è pure meglio. Peggio per il governo e la sua maggioranza.
La sconfitta è irreparabile, definitiva. Forse non inaspettata, ma difficile da governare date le dimensioni. Una sportellata senza precedenti. Forse, in scala, il risultato delle scorse amministrative era stata un aperitivo, un assaggio, una premonizione. Che Renzi e i suoi però non hanno voluto forse saputo vedere.
È una valanga quella che seppellisce la proposta di riforma Renzi-Boschi, e con la riforma dà uno scossone al governo, alla sua maggioranza e al Partito democratico. Al Nazareno tira un’ariaccia già alle otto di sera. I sondaggi riservati circolano fra le scrivanie e non lasciano margini di dubbio da giorni. Tetragoni alla realtà che bussa alle porte, quelli del comitato Bastaunsì non hanno smesso la propaganda. Uno degli ultimi sms distribuiti a pioggia agli elenchi dei votanti delle primarie: «Siamo in fortissimo recupero. Siamo sul filo dei voti. Gli sforzi di queste ore possono essere decisivi. Avanti tutta, basta un Sì». Alla mezzanotte di domenica questi messaggi sembrano una beffa grottesca, quella di un partito (e un governo) che ha voluto testardamente andarsi a schiantare a tutta velocità contro il muro della propria autosufficienza.
È Lorenzo Guerini, alle 23, a metterci la faccia. Il vicesegretario è terreo. Laconico. «Renzi parlerà in conferenza stampa fra circa un’ora. Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo la direzione nazionale per l’analisi dell’esito referendario». Al partito sono arrivati Deborah Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda, il ministro Dario Franceschini. Al Nazareno circola la voce che se le dimensioni della sconfitta restano queste delle prime ore della notte martedì potrebbero arrivare le dimissioni di Renzi, stavolta da segretario del Pd. Del resto le aveva promesse all’inizio della sua corsa
referendarie, cambiando poi parecchie volte opinione. Ma è difficile: «È tempo di rimettersi in cammino» dice alla fine del suo discorso di Palazzo Chigi. Mentre Guerini parla, Renzi da tempo ha dato appuntamento ai giornalisti, segnale inequivocabile di sconfitta. Gli elettori e le elettrici hanno dimostrato di non apprezzare nulla di lui: la riforma, la boria, l’insulto dell’amico e del nemico, la narrazione tossica delle proprie leggi, i mille giorni di governo, mille giorni di errori da meditare.
Dall’altra parte «l’accozzaglia» gioisce, ciascuno con il suo stile e la sua misura. Il primo a scattare è Matteo Salvini. Il primo a chiedere le dimissioni di Renzi: «Se i dati verranno confermati, gli italiani Renzi lo hanno rottamato». Dimissioni vengono chieste a gran voce da tutta la destra: Giorgia Meloni, Renato Brunetta. Ma il prossimo governo dovrà fare una legge elettorale nuova, dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sull’Italicum. A meno che non la bocci per intero.
Da sinistra i toni sono tutt’altri. L’«accozzaglia» non è un fronte politico comune, a differenza di quello che Renzi e i suoi hanno ripetuto fino allo sfinimento in campagna referendaria, a reti unificati. Senza mai convincere elettori ed elettrici. Arturo Scotto, di Sinistra italiana, chiede un intervento del Quirinale. «Renzi lascia un campo di macerie, ora ci affidiamo alla saggezza del presidente Mattarella». La sinistra bersaniana, riunita in una casa privata, frena i commenti. Non è il momento di assecondare pulsioni autodistruttive, il partito è già nel caos. «Eravamo nel giusto», dice solo Roberto Speranza.