
«». il manifesto
, 10
gennaio 2017 (c.m.c.)
Se non mi sbaglio l’unico maschio di sinistra che ha detto qualcosa a proposito della manifestazione delle donne contro la violenza del 26 novembre scorso
è stato Guido Viale.
Non concordo con tutte le sue affermazioni, in particolare l’idea che ciò che può unire uomini e donne per «un pezzo di strada» sia una comune reazione ai «ricatti» capitalistici e patriarcali. Certo la trasformazione spesso è prodotta da un negativo a cui ci si ribella.
Ma la vera molla dei movimenti femminili e femministi mi sembra essere il desiderio di libertà. Qualcosa di smisuratamente affermativo, positivo. In fondo è stato così anche per i momenti migliori dell’universo maschile, quando è stato detto: «gli ultimi saranno i primi», oppure: «abbiamo da perdere solo le nostre catene, e un mondo da guadagnare…».
Viale però ha colto in quel gesto politico femminile qualcosa di fondamentale, molto evidente ma sistematicamente «non visto», come la lettera rubata di Poe.
Se guardiamo bene vediamo anche che dagli incontri e dalle assemblee che hanno accompagnato quel No alla violenza maschile sono scaturiti numerosi obiettivi di trasformazione politica e sociale. Un Sì per un altro mondo possibile.
Per esempio la rivendicazione di un salario minimo europeo, e di un reddito chiamato non per caso di «autodeterminazione». Vedendo tante e tanti giovani colti e appassionati alle prese con la mancanza cronica di lavoro stabile le mie vecchie opinioni trentiniane contro ogni forma di salario garantito hanno vacillato. E ho ripensato a un’idea già abbozzata in altre occasioni.
Se alcune delle «emergenze» maggiori oggi sono la condizione giovanile, l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, l’assenza di interventi pubblici seri per sostenere la coesione sociale, il degrado del territorio (urbano e no), forse si potrebbero affrontare con un unico disegno, una sorta di patto tra generazioni e tra sessi.
Lo stato assicuri un «reddito di autodeterminazione» a ragazzi e ragazze. Chieda in cambio la partecipazione a un servizio civile di cura che abbia due obiettivi fondamentali: favorire l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri che vengono qui per sopravvivere e per vivere decentemente, recuperare le aree urbane degradate (paesi disabitati, periferie dimenticate) e i territori a rischio idrogeologico. Le due cose possono essere strettamente connesse, e già avviene nelle esperienze migliori, come a Riace (ne ha parlato sul manifesto anche Alberto Ziparo). Un anno di questo impegno può essere anche finalizzato a obiettivi concreti di formazione professionale e di lavoro.
Il servizio civile di cura secondo me dovrebbe essere obbligatorio per gli uomini (come una volta il servizio di leva) e facoltativo per le donne. Sarebbe un riconoscimento simbolico importante da parte maschile, giacché all’«altra metà del cielo» continua a competere la scelta di metterci tutti al mondo, e comunque non ci sdebiteremo mai del tutto di tutto il lavoro di cura assicurato dalle donne.
Costerebbe troppo? Non lo so, ma direi che sarebbe una spesa necessaria, irrinunciabile, e in prospettiva del tutto ripagata. Queste spese – come propongono alcune economiste – dovrebbero essere considerate a tutti gli effetti «investimenti produttivi», e non pesare sui bilanci pubblici ai fini del «fiscal compact».
Mi piacerebbe sapere che ne pensa non solo Guido Viale, con altri maschi di sinistra, ma anche il ministro Marco Minniti (una volta eravamo buoni compagni di partito…).
(segue)
Che cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta apologeta - i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.
L’integrazione delle strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41: «A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.
Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc. Dove naturalmente “realtà” e “società” coincidono perfettamente col mondo delle imprese e col mercato del lavoro.
La complessità del mondo reale si riduce alle esigenze presenti del capitale. Sicché a stabilire un nesso tra la scarsa preparazione al lavoro degli studenti e la disoccupazione giovanile a livelli record diventa fin troppo facile. Facile per menti semplici. Facile per un ceto politico che da tempo ha smesso di analizzare le strutture profonde del capitale e tenta solo di rispondere agli umori dell’opinione pubblica e di seguire il corso degli interessi dominanti. Infatti, l’articolo 33 della L. sulla Buona scuola, dichiara solennemente che l’alternanza scuola-lavoro viene attuata «Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti». La scuola, tutti gli istituti superiori, devono e acquistare competenze per il lavoro. Sarà questa esperienza sul campo dei nostri ragazzi a favorire lo sviluppo dell’occupazione. Come si può capire è un modo di trasferire un gigantesco problema su un terreno di facile manipolazione ideologica
Ora vediamo partitamente gli errori gravi e ostinati cui conduce questa linea. Senza qui soffermarci sui possibili effetti di lungo periodo. Quelli, intendo della progressiva distruzione della nostra tradizione culturale e di una intera civiltà.
La disoccupazione italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, capaci, al contrario, di industriarsi anche nei più disparati lavori, e pur possedendo spesso lauree e master vari. Da noi è più grave che altrove, per ragioni legate a vari fenomeni dello sviluppo italiano, alquanto noti, ma non certo per incapacità tecnica e culturale delle nuove generazioni. Il fenomeno, del resto, investe in diversa misura tutte le società industriali e non riguarda solo i giovani.
La disoccupazione è figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo per mutare i quali occorrerebbe uno sforzo politico sovranazionale di vasta portata. Essa dipende da alcune scelte ideologiche di politica economica, (la riduzione della capacità di investimento da parte dello stato, la restrizione del welfare, la politica fiscale non progressiva, ecc) e soprattutto dal carattere predominante assunto dal capitale finanziario (il Finanzcapitalismo analizzato da Gallino). Ma un più profondo ambito strutturale oggi opera nel capitale con caratteri di labor killing. L’innovazione tecnologica va distruggendo posti di lavoro. Sul punto la letteratura è ormai vasta, preoccupa la Banca mondiale e perfino l’ONU ha lanciato un grido d’allarme. (E.Marro, Allarme ONU: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano, Il Sole 24 0re, 18.11.2016) Ed è ormai diventato un vano ritornello richiamare la “teoria” della caduta a cascata.
Le nuove tecnologie distruggono vecchi posti di lavoro ma i nuovi che creano sono proporzionalmente sempre di meno. Non si tratta solo di previsioni e non solo dei settori manifatturieri. Nel novembre del 2016, ad es. il capo del personale della Wolkswagen ha annunciato che nei prossimi 15 anni 32 mila persone andranno in pensione e non verranno sostituite. Ci penseranno i robot. Ma si tratta anche di storia già consumata e che riguarda non solo semplici lavori automatizzabili, ma nuovi settori e funzioni: dalla burocrazia alle professioni legali, dal commercio ai servizi finanziari, dalla formazione alla medicina.
Una ricerca del 2013 di due economisti del MIT, E. Brynjolfsson e A. Mac Afee ( di cui è uscito per Feltrinelli,
La nuova rivoluzione delle macchine, 2015) ha mostrato come a partire dal 2000 le linee della crescita della produttività e quella dell’occupazione si sono divaricate. Dopo un decennio, questo fenomeno appariva come «il grande paradosso della nostra epoca». É avvenuto il «
Great decupling», termine complesso che si riferisce alla crescita esponenziale della produttività e che potremmo tradurre con il “grande disaccoppiamento”: «La produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata più veloce, e tuttavia, allo stesso tempo, noi abbiamo la caduta del reddito mediano e abbiamo meno posti di lavoro» (D.Rotman,
How Technology is destroying Jobs, «MIT Technology Review», giugno 2013).
Dunque piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza. Una verità nota agli esperti già dagli anni ’60, (F. Pollock, Automazione, Einaudi 1970) ma prontamente dimenticata dagli attuali novatori. Quel che occorre è, con ogni evidenza, una formazione culturale non piegata ad alcun specialismo, aperta e complessa, una “educazione della mente” che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare che i ragazzi vivono anche di sentimenti e passioni, sono immersi in una sfera spirituale che ha bisogno di orientarsi e arricchirsi. Il pensiero unico va cerca di infilarsi anche nella scuola, ma va soppresso sul nascere.
E’ vero che i difensori più intelligenti dell’alternanza scuola lavoro la mettono sul piano più generale della formazione di attitudine all’impresa. Ha scritto di recente Alessandro Rosina, riprendendo alcune indagini recenti come quella OCSE-PIAAC, che scopo di questo nuovo indirizzo della scuola deve essere quella di fornire ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni» (La Repubblica, 3 dicembre 2016).
Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa. Le nuove competenze infatti, scrive sempre Rosina, «devono diventare parte di un solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello sviluppo del Paese». Credo, contro la stessa intenzione di Rosina, che tale posizione esprima il pensiero unico all’opera sotto forma di progettualità innovativa, di proiezione verso il “futuro”, di nuovo slancio allo sviluppo dell’Italia. Incarni, insomma, l’ utopia di creare un “uomo nuovo” seriale, omogeneo, flessibile, interamente modellato dal suo finale compito economico. Ma davvero di questo tipo di figura abbiamo oggi bisogno per l’oggi e per il futuro? Compito della scuola è quello di rendere ancora più efficiente e innovativo il mondo delle imprese?
E’ paradossale osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Vale a dire l’ambito in cui l’innovazione è già incessante e senza requie, anche con esiti di grande portata per il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma pressocché nessuno osserva la drammatica divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre società poggiano su economie del XXI secolo, ma l’esistenza delle persone si muove entro quadri organizzativi della vita quotidiana che appartengono al XX secolo e tendono a indietreggiare verso il XIX. Mentre le ristrutturazioni organizzative, la digitalizzazione, i robot, (e già ora l’intelligenza artificiale, le stampanti 3D) sostituiscono masse crescenti di lavoratori da attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato, comincia al mattino e finisce la sera, la distribuzione del reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’ è sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più efficiente produzione. Ma dov’è finita la capacità di pensare del ceto politico e dei suoi dintorni?
Naturalmente questa critica non è una difesa dello status quo della nostra scuola. Che anche gli studenti del liceo classico abbiano contatto con l’ambiente delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un arricchimento della loro formazione. E’ assai formativo che i giovani, specie se provenienti da famiglie borghesi, osservino da vicino chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica, attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del nostro Paese.
E’ utile che osservino la potenza tecnologica cui è pervenuta l’attuale industria manifatturiera, frutto dell’umano ingegno, ma che vedano anche quanto fatica costa agli operai servirla, dalla mattina alla sera, con costante e usurante attenzione. Che i giovani destinati a diventare giuslavoristi, economisti o giornalisti economici trascorrano per qualche tempo delle ore in fabbrica potrebbe essere molto importante per il loro futuro professionale e per tutti noi: eviterebbero di occuparsi di lavoro e di mercato del lavoro con meno cinismo e irresponsabilità di quanto oggi non accada. Dovremmo ricordaci che per tutta l’età contemporanea, nei due secoli e passa di storia delle società industriali, mai le innumerevoli
élites che sono diventate classi dirigenti dei rispettivi paesi hanno attraversato nel loro percorso formativo una esperienza conoscitiva della fabbrica. Due mondi necessariamente separati per rendere possibile l’architettura classista della società.
Non meno utile alla formazione dei ragazzi può essere la frequentazione delle aziende agricole. Ma anche qui non per trasformare lo studente in un apprendista lavoratore. E’ significativo del basso orizzonte dell’attuale ceto politico che si occupa di istruzione quanto ebbe ad affermare il sottosegretario all’istruzione del passato governo, Gabriele Toccafondi: «I ragazzi imparano a fare ma anche a vendere: lo studente che esce da un agrario deve saper fare un formaggio, ma anche saperlo vendere» (Corriere della Sera, 20.11.2014).
Personalmente annetto un valore formativo al “saper fare”, perché nell’uso delle mani si possono talora trasmettere antichi saperi e abilità. Ma purché questo si inserisca in una formazione culturalmente più alta e complessa e che non rimanga nel ristretto orizzonte di un vecchio mestiere. In un azienda agricola si possono apprendere cose ben più importanti per una moderna formazione culturale che non imparare a vendere il formaggio. Con l’aiuto di un bravo agroecologo i ragazzi possono sperimentare un approccio rivoluzionario alle scienze naturali, oggi così neglette e sciattamente insegnate. E’ sufficiente partire da un pugno di terra, una manciata di suolo agricolo, per spiegare l’evoluzione geologica del suolo terrestre, per passare poi alla sua composizione chimica, alla biologia dei microrganismi che contiene, ai meccanismi che presiedono al nutrimento delle piante, alla loro fisiologia, patologie, rapporto con gli insetti, comportamento e dipendenza dai fenomeni climatici.
Insomma dentro un’azienda agricola i ragazzi possono apprendere i fenomeni vitali che si svolgono all’interno di un habitat che è un frammento della nostra biosfera. Per questa via le varie discipline, in cui è stato frammentato il sapere scientifico contemporaneo, rivelano il loro carattere parziale e convenzionale e si ricompongono in una visione unitaria del mondo in cui viviamo. E’ di questo sapere che oggi abbiamo bisogno: necessità di una visione più complessa del mondo reale, per avviare un rapporto di cura con la natura, dopo secoli di dissennato saccheggio. E naturalmente, questo tipo di insegnamento deve avvenire rompendo lo schema ottocentesco della classe, dominata dalla figura dell’insegnante demiurgo e dei discenti da indottrinare, disciplinare e punire (si veda l’utile G.Stella,
Tutta un’altra scuola, Giunti 2016). E’ qui l’altra rivoluzione da compiere, insieme alla valorizzazione, economica e formativa di chi tiene in piedi la scuola: gli insegnanti.
L'articolo è inviato contemporaneamente a officinadeisaperi.it

la Repubblica, "Robinson", 8 gennaio 2017 (c.m.c.)
Quante parole servono per esprimere una regola? E quante regole servono per disciplinare l’universo? A giudicare dall’esperienza che andiamo maturando noi italiani, parole e regole non sono mai abbastanza. E il 2016 che abbiamo ormai alle spalle è stato forse l’anno più prolifico della nostra storia nazionale. Come d’altronde mostra la sua creatura maggiore, benché abortita poi dagli elettori: la riforma costituzionale.
Dove campeggiava, a mo’ di gonfalone, il nuovo articolo 70: 430 vocaboli, al posto delle nove smilze parolette dettate dai costituenti. Con un labirinto di rinvii, di citazioni, di riferimenti ad altre norme della Costituzione. Sicché, ove quella riforma fosse entrata in vigore, il Senato avrebbe conservato la potestà legislativa «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Più che una norma, una rubrica telefonica.
Questo stile parossistico, questa stessa incontinenza semantica e verbale tracima da tutta la legislazione che ci ha inondato l’anno scorso. Noi, per lo più, non ci facciamo caso, non avviciniamo il nostro sguardo alla lingua del diritto. Sappiamo di questa o quella legge perché ne parlano i giornali o la tv, perché ci ronzano in testa le polemiche fra maggioranza e opposizione, non per averne letto il testo inforcando un paio d’occhiali.
Dovremmo farlo, invece, almeno qualche volta. Dopotutto, nessuno s’azzarderebbe a esprimere giudizi su un quadro o su un romanzo soltanto per sentito dire. E dopotutto le leggi non riguardano unicamente gli addetti ai lavori, così come l’arte non appartiene ai critici d’arte. Entrambe sono destinate al pubblico, e siamo noi, il pubblico.
A immergere lo sguardo nell’oceano delle Gazzette ufficiali, scopriremmo così che la legge sulle unioni civili — forse la più lieta novella del 2016 — s’articola in un solo articolo di 69 commi, è insomma disarticolata, o meglio inarticolata, un po’ come nella trilogia di Samuel Beckett, dove ogni frase corre per pagine intere. Verremmo a sapere che il decreto sulla semplificazione degli enti di ricerca (n. 218 del 2016) semplifica aggiungendo al comma 515 sancito chissà dove un comma 515 bis, rivolto alle « amministrazioni pubbliche di cui al comma 510 » .
Finiremmo poi per inciampare nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) dove s’addensano 181 errori nei suoi 220 articoli, come ha denunziato Gianantonio Stella. Infine sbatteremmo il muso contro la legge sui disabili ( n. 112 del 2016), ornata d’un periodo che infila sette genitivi sulle gengive del lettore: «nelle more del completamento del procedimento di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 13 del decreto…».
Se si dovessero studiare tutte le leggi, non rimarrebbe il tempo di trasgredirle, diceva Goethe. Anche volendo, però, è ormai diventato impossibile studiarle, giacché è impossibile capirle. Le prove? Basta rileggerne insieme qualche brano, pescando fra le novità legislative più celebrate del 2016. Per esempio, l’abolizione di Equitalia (articolo 1 del decreto legge n. 193 del 2016): « Dalla data di cui al comma 1, l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione nazionale, di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto- legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è attribuito all’Agenzia delle entrate di cui all’articolo 62 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, ed è svolto dall’ente strumentale di cui al comma 3».
Oppure la riforma delle partecipate ( articolo 24 del decreto legislativo n. 175 del 2016): « Le partecipazioni detenute, direttamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del presente decreto in società non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, ovvero che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, o che ricadono in una delle ipotesi di cui all’articolo 20, comma 2, sono alienate o sono oggetto delle misure di cui all’articolo 20, commi 1 e 2».
O infine la riduzione delle camere di commercio ( articolo 4 del decreto legislativo n. 219 del 2016): « Al fine di contemperare l’esigenza di garantire la sostenibilità finanziaria anche con riguardo ai progetti in corso per la promozione dell’attività economica all’estero e il mantenimento dei livelli occupazionali con l’esigenza di riduzione degli oneri per diritto annuale di cui all’articolo 28, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, le variazioni del diritto annuale conseguenti alla rideterminazione annuale del fabbisogno di cui all’articolo 18, commi 4 e 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, valutate in termini medi ponderati, devono comunque garantire la riduzione dei relativi importi del 40 per cento per il 2016 e del 50 per cento a decorrere dal 2017 rispetto a quelli vigenti nel 2014».
Questo demone nomenclatore non rende le nostre leggi più precise; semmai le rende incomprensibili, dunque sommamente imprecise. La precisione, in una norma, risiede nella sua chiarezza espositiva. E la chiarezza del diritto può anche sfiorare, perché no?, l’eleganza letteraria. Non a caso Stendhal diceva d’ispirarsi al code Napoléon, per trarne ritmo ed eleganza narrativa. E non a caso Terracini, nel 1947, chiese a tre letterati d’alleggerire la Costituzione, di renderla più sobria, più aggraziata, prima che l’Assemblea costituente l’approvasse.
D’altronde diritto e letteratura sono ufficialmente uniti in matrimonio dal 1973, da quando la pubblicazione di The Legal Imagination di J.B. White battezzò il Law and Literature Movement. E non si contano gli illustri personaggi che furono insieme giuristi e letterati, da Cicerone a Francis Bacon, che arrivò a trasformare un suo scritto giuridico in un saggio letterario ( Dell’usura, 1625). Senza dire di Giambattista Vico, che nella Scienza nuova ( 1725) introdusse il concetto di «giurisprudenza poetica», riconoscendo nella poesia un connotato dell’antica giurisprudenza.
No, non dipende dal diritto, dai suoi vocabolari, il timbro delirante di queste ultime leggi. La loro oscurità deriva piuttosto da una crisi morale, che nel 2016 ha continuato ad aggravarsi. Perché la corruzione s’estende poi al linguaggio, perché attraverso le parole risuonano le cose. L’estetica comprende in se stessa l’etica, lo dice per l’appunto la parola. E noi rischiamo di perdere entrambe le parole, entrambe le cose. ?
Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2017 (p.d.)
LA SINISTRA EUROPEISTA
CI RIPROVA
di Marco Maroni
Oggi a Roma, in una sala nei pressi di Campo de’Fiori, si riuniscono gli iscritti italiani di Diem25, nuovo movimento politico paneuropeo, che si pone come alternativa sia alle destre nazionaliste e post fasciste, sia alle sinistre socialdemocratiche blairiane.
L’assemblea, a porte chiuse, serve a delineare l'organizzazione territoriale italiana: sedi, comitati, dirigenti e via dicendo. Ispiratore del movimento è Yanis Varoufakis, economista ed ex ministro delle Finanze della Grecia nel primo governo Tsipras, la cui linea intransigente nella crisi finanziaria dell'estate 2015 si scontrò, perdendo, con quella altrettanto intransigente della Troika, obbligandolo a lasciare l'incarico. Varoufakis sarà presente domani all'assemblea romana.
A prima vista l'iniziativa sembra l'ennesimo tentativo di trovare un perché, un per come e una nuova credibilità della sinistra italiana. Peraltro, avere come riferimento politico una star della sinistra ellenica non è un precedente felice. A molti può venire in mente l'ingloriosa parabola della lista Tsipras, che aveva acceso qualche speranza nei progressisti in crisi nel 2014, tanto da riuscire a superare lo sbarramento del 4% alle Europee, per poi estinguere la sua spinta innovatrice tra litigi sui seggi, abbandoni, irrilevanza politica.
Non contribuisce alla chiarezza, inoltre, l'ermetismo del nome (significa Democracy in Europe movement 2025, dove 2025 sarebbe l'orizzonte di dieci anni, il termine che si è dato il movimento per democratizzare l'Europa). Gli organizzatori italiani assicurano però che in futuro gli sarà aggiunto un nome italiano.
L'obiettivo è contrastare l’Europa arroccata nella difesa dei grandi interessi. “Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea”, ha detto Varoufakis in primavera alla presentazione del movimento. “Vogliamo un’Europa giusta, democratica e inclusiva”, dice al Fatto Lorenzo Marsili, fondatore dell'organizzazione di attivisti European alternatives, e ora responsabile italiano di Diem25. I temi sono quelli decisamente progressisti delle sinistre radicali europeiste. Ma le parole “partito” e “sinistra”, sono estranee al lessico del movimento.
Così come a distanza, e qui viene l’altra parte interessante, ci si vuole tenere per ora dall’arena politica e partitica italiana. Diem25 punta a raccogliere consensi in quell’ampio fronte che ha detto no al referendum di dicembre, ma tenendosi fuori dai giochi e dai protagonisti della politica nazionale, che è già in sella per cavalcare in quelle praterie. “Per ora non andiamo a metterci nel ginepraio politico nazionale”, assicura Marsili.
IL MINOTAURO GLOBALE
DIETRO LA CRISI
DI GRECIA E ITALIA
di Yanis Varoufakis
La metafora del Minotauro Globale si era insinuata in me nel 2002 dopo conversazioni infinite con l’amico, collega e co-autore Joseph Halevi. Le nostre discussioni su cosa avesse mosso il mondo dopo le crisi economiche degli anni Settanta produssero una visione del sistema economico globale nella quale i deficit dell’America, Wall Street e il valore reale costantemente in declino dei salari americani avevano un ruolo determinante e, paradossalmente, egemonico. Le nostre argomentazioni erano incentrate sulla caratteristica determinante dell’era post 1971, che ha rappresentato un momento di inversione del commercio e dei surplus di capitale tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. L’egemone, per la prima volta nella storia del mondo, rafforzava la sua egemonia aumentando volontariamente i suoi deficit. Il trucco era capire come l’America ci fosse riuscita e il modo tragico in cui il suo successo aveva fatto sorgere la finanziarizzazione che, rafforzando la dominazione statunitense, piantò i semi della sua potenziale caduta.
Quando, cinque anni dopo, nel 2008 il sistema finanziario implose, Danae Stratou, la mia compagna in tutto, mi incitò a scrivere un libro proprio grazie alla forza comunicativa della metafora principale, il minotauro globale. Iniziai a scrivere nella nostra casa di Atene, in un periodo in cui le nuvole nel cielo del nostro Paese non erano ancora minacciose e la maggior parte dei nostri amici e familiari non credeva che la Grecia fosse in caduta libera. In un contesto in cui ci si rifiutava di vedere i presagi funesti, cominciai a ottenere un certo grado di notorietà in Grecia e sui media internazionali, nella veste di Cassandra che credeva che la bancarotta della Grecia non solo fosse inevitabile, ma che allo stesso tempo fosse annunciatrice del disfacimento dell’eurozona. Solo allora mi resi conto dell’ironia implicita nell’usare una metafora greca (quella del Minotauro minoico) per raccontare una catastrofe internazionale della quale la Grecia sarebbe stata la vittima maggiore.
Immerso nella scrittura, tuttavia, mi rifiutai di dare alla Grecia un ruolo troppo prominente: da una parte passavo ore e ore negli studi tv o alla radio a discutere del costante deterioramento della Grecia, dall’altra ero determinato più che mai a lasciare la Grecia fuori dalle pagine del libro. Se la mia diagnosi sulle sventure della Grecia fosse risultata giusta (non esiste una crisi greca, piuttosto la Grecia è il sintomo di uno smottamento più ampio), era gioco forza che il mio libro riflettesse questa diagnosi. Quindi, gli Stati Uniti rimanevano il punto focale dell’analisi. L’essermi occupato intensamente del quadro più ampio della crisi dell’euro mi ha dato l’opportunità di testare la capacità del Minotauro Globale di gettare una luce utile sulle circostanze post 2008 e di sollecitare proposte sulla linea politica da adottare.
Come sempre accade con metafore potenti, il pericolo che le mie analisi potessero essere influenzate dal potere allegorico del Minotauro Globale, era in agguato. Ma nei mesi tra l’ultima revisione delle bozze e il momento in cui ho avuto in mano la copia pubblicata, il mondo pareva non avere compiuto niente che non fosse in linea con la metafora del libro.
La nuova edizione è stata completata negli Stati Uniti, dove viviamo Danae e io. È da qui che, con un certo senso di colpa, scandaglio il deserto del mio Paese, dando di tanto in tanto un’intervista ai vari network che mi pongono continuamente la stessa domanda: cosa dovrebbe fare la Grecia per districarsi dalla sua Grande Depressione? Come dovrebbero rispondere la Spagna o l’Italia a delle richieste che, ci dice la logica, peggioreranno ulteriormente la situazione? La risposta che do con sempre maggiore monotonia è che non c’è altro che i nostri orgogliosi Paesi possano fare, se non dire di no a politiche insensate il cui obiettivo reale è quello di aumentare la depressione per motivi apocrifi che solo uno studio attento dell’eredità del Minotauro Globale può rivelare.
«Referendum contro il Jobs Act. A pochi giorni dal verdetto della Corte costituzionale, il parere dell’avvocatura dello stato. La replica della Cgil».
il manifesto, 6 gennaio 2016
In un paese dove l’allusivo quesito presentato da Matteo Renzi al referendum costituzionale del 4 dicembre è stato considerato legittimo, ieri l’avvocatura dello Stato (in rappresentanza del governo Gentiloni) ha definito «propositivo, manipolativo e inammissibile» il quesito referendario presentato dalla Cgil per abrogare le modifiche apportate dal Jobs Act all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. È l’inizio della guerra contro un altro pilastro del renzismo. Mercoledì 11 gennaio ci sarà una battaglia campale davanti alla Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità anche dei quesiti su voucher e appalti.
LA TESI È STATA ANTICIPATA da una campagna stampa trasversale iniziata poche ore dopo lo tsunami del «No» che ha spinto Renzi alle dimissioni da Palazzo Chigi. È continuata con i retroscena, simulati direttamente dalla camera di consiglio, secondo i quali alcuni giudici della Consulta giudicherebbero «propositivi» i quesiti che intendono abrogare la norma che ha inciso sull’articolo 18. Stessa musica si ascolta nella memoria dell’avvocatura dello Stato: il quesito ha «carattere surrettiziamente propositivo e manipolativo» e per questo «si palesa inammissibile – sostiene l’avvocatura dello Stato – Proponendosi di abrogare parzialmente la normativa in materia di licenziamento illegittimo, di fatto la sostituisce con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento; disciplina che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo, né direttamente costruire».
LA CGIL PUNTEREBBE a estendere i vincoli al licenziamento a tutte le aziende con più di 5 dipendenti. «L’intento dei promotori del referendum – continua l’Avvocatura – è quello di produrre la tutela reale per tutti i datori di lavoro con più di 5 dipendenti che chiaramente estrae il limite dei 5 dipendenti, previsto per le sole imprese agricole, per applicarlo a tutti i datori di lavoro, a prescindere dal tipo di attività svolta». Ma «secondo costante giurisprudenza costituzionale in tema di referendum abrogativo, non sono ammesse tecniche di ritaglio dei quesiti che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole cui attingere per costruire nuove disposizioni».
L’AVVOCATURA HA DATO PARERE negativo sul quesito che intende abrogare i contestatissimi voucher. «Rischia di produrre un vuoto normativo in quelle prestazioni che – per la loro limitata estensione quantitativa o temporale – non risultino riconducibili al lavoro a termine o di altre figure giuridiche contemplate dall’ordinamento vigente». L’abrogazione delle norme sugli appalti – il terzo quesito proposto dalla Cgil – condurrebbe a un’«incertezza normativa». Inoltre «una eventuale modifica della disciplina nel senso del quesito referendario, avrebbe, come ulteriore effetto, quello di incidere sulla regolamentazione delle vicende negoziali in essere al momento della modifica normativa». Letto lo spartito è prevedibile che ci sarà un fuoco di fila contro Corso Italia per bloccare o screditare un referendum che, sia pure con modalità diverse da quello del 4 dicembre, rischia di minare uno dei dogmi del liberismo giuslavorista.
LA RISPOSTA ALLA MEMORIA dell’avvocatura dello Stato è arrivata ieri pomeriggio a stretto giro. «L’ammissibilità la stabilisce la Corte costituzionale, che è autonoma e competente. Per quanto riguarda il quesito, non manipola alcunché. Non è propositivo, né manipolativo, è un quesito abrogativo: la risultante è una norma esistente» sostengono fonti della Cgil. Una risposta tecnicamente più argomentata è arrivata dall’ufficio giuridico del sindacato secondo il quale «l’ammissibilità è manifesta sul piano dello stretto diritto costituzionale. «Nessuno dei tre referendum riguarda materie che, per l’articolo 75 della Costituzione, siano esplicitamente precluse all’iniziativa referendaria» sostengono i giuristi. Questo articolo esclude la consultazione sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. L’oggetto del referendum riguarda le decisioni di un governo: «i licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto, l’uso del lavoro accessorio tramite voucher sono materie rimesse alla decisione politica». Renzi ha infatti, deliberatamente, scelto di abrogare l’articolo 18. La politica è la materia del referendum.
PER QUESTE RAGIONI il sindacato ha proposto un’abrogazione non «totale» ma solo «parziale» della legislazione in materia di licenziamenti illegittimi «per non cagionare vuoti legislativi i quali impediscano lo svolgimento, per sé necessario, di principi e regole costituzionali». Nel merito delle illazioni sul «ritaglio» effettuato dal quesito abrogativo – che finirebbe così per diventare «propositivo» – i giuristi di Corso Italia rispondono: «Il “sì” al quesito referendario, lungi dal rendere meno limpide e nitide le disposizioni di legge sui “licenziamenti illegittimi” che ne sono l’oggetto, ne ricomporrebbe il significato unitario, restituendo la certezza del diritto».
VINTO IL REFERENDUM sul campo resterebbe una disciplina legislativa «precisa e rigorosamente unitaria» e varrebbe in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupa più di cinque lavoratori. Il quesito abroga parzialmente il comma 8 del testo attuale dell’articolo 18 dello Statuto e allarga questa soglia anche ai lavoratori e alle imprese che operano in settori diversi da quello dell’agricoltura. Osservazioni che valgono per il quesito sugli appalti che risulta più elaborato «a causa degli sviluppi tumultuosi e contraddittori della legislazione», e anche per quello sui voucher. La loro abrogazione lascerà sul campo le norme esistenti sul lavoro a tempo determinato e stagionale e mira a eliminare l’abuso che ha reso possibile il boom incontrollato dei buoni lavoro.
FAVOREVOLE, per ragioni storiche, all’impostazione dell’Avvocatura è il presidente della commissione lavoro al Senato Maurizio Sacconi: «Il contenuto dei quesiti non è univoco e il loro esito favorevole sarebbe creativo di una disciplina del tutto nuova». Parere opposto è quello del presidente della commissione lavoro alla Camera Cesare Damiano: «Il contenuto è univoco, è già successo nel ’93 sull’elezione del Senato. Sui voucher il governo Gentiloni dovrebbe sostenere la proposta di legge firmata da 45 parlamentari Pd. Anche se non ci fossero i referendum, tutti questi problemi andrebbero affrontati perché realmente esistenti».
».
il manifesto, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)
La povertà non è un fatto di natura ma il prodotto di società ingiuste perché inegualitarie e predatrici . In piedi, umanità contro il furto della vita.
L’impoverimento
La povertà è il risultato dei processi di esclusione umana, sociale, economica e politica fra gli esseri umani (e tra le comunità umane) tipici delle società ingiuste fondate sull’ineguaglianza e l’appropriazione predatrice della vita.
Prima di essere economica, politica o sociale, la povertà è «culturale», cioè è parte dei processi che operano nell’immaginario collettivo concreto, evolutivo delle persone, dei gruppi sociali e dei popoli. È parte della maniera di «vedere l’altro». Gli impoveriti crescono nelle nostre teste.
L’impoverimento non casca dal cielo. Non si nasce poveri, come si nasce donna o uomo, alti o bassi, bianchi o neri, ma si diventa impoveriti.
L’immaginario, la visione non sono sufficienti per fabbricare l’esclusione. Su questa incidono le scelte, i valori, le istituzioni e le pratiche collettive che fanno di una comunità umana un possibile luogo e spazio sociale generatore o no, chi più e chi meno, di esclusione.
Un furto, di che cosa?
Il furto della vita. Quando in passato la legge stabiliva che solo le persone aventi un reddito superiore a una certa somma potevano votare ed essere eletti a «governare il paese» o, come in Svizzera fino al 1972, le donne erano escluse dal diritto di voto, la legge legalizzava la privazione per tante persone del potere di essere cittadino attivo, di partecipare alla vita politica. Erano impoverite sul piano civile e politico. Il furto aveva luogo ancor prima della loro nascita.
La forma più avanzata di furto della vita, alla nostra epoca, è stata legalizzata nel 1980 allorché la Corte suprema degli Stati Uniti ha autorizzato la brevettabilità del vivente a scopo di lucro, seguita nel 1998 dall’Unione europea. La brevettabilità del vivente significa che è possibile per una persona o un’impresa diventare proprietario esclusivo di un microbo, di una molecola, di una specie vegetale, animale e persino di un gene umano per un periodo da 18 a 25 anni (rinnovabile) e farne l’uso che vuole in nome della conoscenza e della potenza tecnologica. La brevettabilità si traduce in una mercificazione del vivente secondo processi di appropriazione fondati sulla rivalità e l’esclusione.
Così, per esempio, nel campo dei semi, un gruppo sempre più ristretto d’imprese private mondiali si è impadronito del potere di decisione, controllo e uso del capitale biotico del pianeta privando la stragrande maggioranza dei suoi abitanti della garanzia universale pubblica del diritto alla vita (all’alimentazione, alla salute e alla conoscenza….).
Peraltro milioni di contadini sono stati espropriati ed espulsi dalle loro terre in Asia, in Africa ed in America latina e costituiscono il grosso del «popolo mondiale degli impoveriti» e degli affamati. I brevetti sui semi obbligano a pagare un prezzo di mercato per avere accesso a quei beni e servizi essenziali per la vita , quindi, strumentali al diritto alla vita. E ciò costituisce un furto.
A non altro si pensa quando si parla di furto legalizzato nel caso della mercificazione dell’acqua potabile e della privatizzazione dei servizi idrici, compreso il trattamento delle acque reflue.
E che dire delle legislazioni introdotte negli ultimi anni anche nei paesi ricchi detti «sviluppati» in materia del lavoro che hanno stravolto, il mondo del lavoro e la condizione umana e sociale dei lavoratori? Tutti abbiamo sempre riconosciuto il legame fondamentale tra lavoro, reddito,benessere, dignità, da un lato, e diritti sociali, civili e politici, dall’altro. E sappiamo che, nel contesto attuale, il licenziamento è l’anticamera dell’entrata nei processi di impoverimento e di esclusione sociale.
Perché allora, come è successo in queste ultime settimane la Corte europea di giustizia e la Corte di cassazione italiana hanno sentenziato che il licenziamento per soli motivi di redditività (per fare più profitti) è legittimo? Con le loro sentenze, contrarie alla lotta centenaria per la difesa della dignità umana, le due Corti si sono iscritte tra i soggetti produttori d’impoverimento e, quindi, partecipanti al furto della vita.
Che fare?
Analisi dettagliate specifiche e rigorose consentono di identificare nei vari campi i soggetti, i processi ed i meccanismi dell’impoverimento in quanto furto della vita. Lo stesso dicasi delle tendenze emerse in favore della concezione ed entrata in funzione di nuove forme di investigazione, valutazione e condanna del furto come atto criminale rispetto alle regole scritte o vissute del diritto internazionale.
Caso particolarmente rilevante e prezioso l’operato di Tribunali internazionali sui crimini dell’umanità o in materia ambientale. Il che significa che il furto può essere combattuto e condannato ed anche eliminato. In Europa, nel campo dell’acqua, sono oggi i tribunali locali – la magistratura di base, autonoma, libera – che dichiarando illegittima la cessazione dell’erogazione dell’acqua o dell’elettricità per insolvenza o morosità, consentono di arrestare il furto, indipendentemente dall’azione dei cittadini stessi.
La giurisprudenza, però, per quanto importante, non è sufficiente. Il furto della vita, rappresentato dall’ineguaglianze e l’esclusione fatte sistema, è l’atto più grave che gli esseri umani abbiano operato e possono fare all’umanità.
Altrettanto forte e sistematica deve essere la lotta contro di esso. Cinque secoli fa, l’uguaglianza rispetto al diritto alla vita fu all’origine di Utopia, l’opera di Tommaso Moro cui, in Occidente, si continua a fare riferimento per valorizzare la costruzione di un altro mondo. Personalmente preferisco ricordare che l’uguaglianza fu alla base della rivoluzione francese e della dichiarazione universale dei diritti umani più di duecento anni fa e della rivoluzione bolscevica contro lo zarismo proprio cent’anni fa.
L’uguaglianza ha ispirato le lotte per il diritto alla vita negli ultimi cinquant’anni in America latina e in Africa e, recentemente, la «primavera araba». Non bisogna mai arrendersi, per la memoria e nel rispetto dei milioni di vittime che sono morte nel passato per difendere la dignità umana , la liberta per tutti, la giustizia e la fraternità.
Oggi, proprio quando il mondo sembra ulteriormente sprofondato nelle barbarie in nome del denaro, non è ammissibile la dispersione degli sforzi. Il fattore più critico alla base di quel che sta succedendo strutturalmente è il sistema finanziario creatosi nel corso degli ultimi quarant’anni.
L’obiettivo principale, integrante tutto il resto, deve essere la demolizione di detto sistema. Tutto vi si rapporta: il tempo, lo spazio, la conoscenza, la tecnologia, i desideri, le cupidigie, la violenza, il potere, la negazione dei diritti, lo sgretolamento delle comunità umane, l’asservimento dell’umanità.
Anche se sembra irrealizzabile, è essenziale promuovere una coscienza ed una volontà coordinate di azioni contro i derivati, la finanza algoritmica al millesimo di secondo, la speculazione e i paradisi fiscali, il segreto bancario, l’incompetenza e la furfanteria delle banche, le grandi concentrazioni bancarie e la banca totale, l’esistenza e il potere delle agenzia di rating, gli inciuci tra soggetti finanziari e organismi dediti al governo delle attività e servizi pubblici quali gli ospedali, l’educazione, l’università, la ricerca scientifica, contro la finanziarizzazione criminale dell’economia, per la ricostruzione delle casse di risparmio pubbliche locali e la separazione tra attività di risparmio e attività di reddito e la loro regolazione funzionale, contro l’indipendenza politica della Bce e delle altre banche centrali, per una nuova generazione di finanza cooperativa e mutualistica, per le monete locali e la demonetizzazione dei beni e servizi pubblici essenziali per la vita, per il primato del potere politico eletto e partecipato sul dominio oligarchico di soggetti finanziari privati mondiali.
Le politiche cosiddette di riduzione e di eliminazione della povertà condotte da quasi mezzo secolo dai gruppi dominanti a livello nazionale e internazionale sono fallite e restano una beffa malvagia nei confronti degli impoveriti.
Una beffa ancor più malvagia se si pensa che l’arricchimento sempre più scandalosamente elevato dei supermiliardari rispetto ai 3,6 miliardi di persone appartenenti alla metà della popolazione mondiale la più povera, legittimato dalle politiche dei dominanti, induce quest’ultimi ad esaltare i miliardari filantropi come i benefattori dell’umanità(Warren Buffet, Bill Gates, i fratelli WalMart…)!
Nessuna delle misure sopra menzionate a proposito della messa fuorilegge del sistema finanziario attuale figura nelle proclamazioni dell’Onu sulla povertà (vedi l’agenda post-2015 sui Sustainable Development Goals -SDG) o nei programmi «antipovertà» dell’Unione europea. Esse/i sono la prova, se necessario, dell’allineamento e sottomissione totale degli Stati agli interessi e priorità dei gruppi oligarchici mondiali.
In piedi, esseri umani. La povertà è un furto, a opera di un sistema mondiale ingiusto.
In piedi, umanità, insieme. Questo è l’augurio, «Un manifesto 2017 per la dignità universale».
«La democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono».
la Repubblica, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)
La democrazia può morire anche di verità, non solo di menzogne. Uno slogan, ma non del tutto. La politica della verità quando si applica alle opinioni — delle quali si nutre il forum dei paesi a regime costituzionale democratico — è una ghigliottina pronta a tagliare idee e simbolicamente teste.
Il diritto che tutela la libertà di opinione esiste proprio per coloro che cantano fuori del coro o che esprimono preferenze che ad altri non piacciono e magari bollano come false. Ma che cosa sia una “falsa” preferenza o opinione nessuno può dirlo. E nessun tribunale può deciderlo, nemmeno quello di giudici competenti e indipendenti: abitando le opinioni la zona grigia del né vero né falso ma dell’opinabile e del variabile, non si sa di quale competenza si parli; e poi, essendo quella dei magistrati una mente che, fuori delle procedure e delle norme scritte, si riempie di idee altrettanto partigiane e parziali di quelle di ogni altro cittadino, non è chiaro di quale indipendenza si parli.
La giuridificazione delle opinioni è una proposta preoccupante e potenzialmente tremenda nelle conseguenze. Ovviamente si parla di opinioni, non di informazioni scientifiche o commerciali – le etichette dei medicinali o dei prodotti alimentari non portano “opinioni” ma informazioni testate, e in questi casi la menzogna è truffa, anche pericolosa, perseguibile per legge.
I sostenitori della giuridificazione usano l’argomento causale per difendere la loro proposta: fanno, per esempio, riferimento ad alcune news false che hanno circolato sul web durante la campagna elettorale americana. Possono provare che c’è stato un rapporto lineare di causa-effetto tra quelle news false e l’esito elettorale, che ogni voto repubblicano sia stato generato da quelle news? Non lo possono, ovviamente, e quindi non possono accampare alcuna “prova” che suffraghi il bisogno di un’authority che vagli le opinioni – come se chi compone questo tribunale sia un santo senza emozioni e opinioni!
Il mito platonico del filosofo (o giudice) è da scartare perchè la democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono. Questa non è una malattia da curare, ma il gioco stesso della politica democratica che si preserva con il pluralismo (e un giornalismo che prediliga le inchieste ai sondaggi).
Quindi, se un’opinione politica (non-scientifica) balzana attraversa il web e raccoglie proseliti strada facendo, la soluzione migliore è che siano i cittadini a contestarla. La caccia alle balle sarebbe una bella forma di cittadinanza attiva nell’era della democrazia del web, che ha l’ambizione di produrre informazione fai-da-te. Se si va oltre il giornalismo di professione e la sua deonotologia, la responsabilità di sorvegliare si estende a tutti, facendo della produzione della notizia un “bene della comunità” intera.
Alla proposta del “tribunale governativo”, Beppe Grillo ha opposto «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie dei media». Una proposta che fa raggelare il sangue, non perché realizzabile ma proprio perché irrealizzabile. Immaginiamolo questo tribunale buono (del popolo): dovrebbe stare in seduta permanente, notte e giorno perché la produzione di opinioni non si ferma mai; dovrebbe identificare il nome e il cognome della persona che ha generato una opinione, cosa impossibile perché le opinioni sono una composizione di varie altre idee e non hanno padri e madri indiscussi; dovrebbe leggere milioni di parole e ordinarle per capitoli, argomenti, generi. Alla fine, questo tribunale del popolo o è un’altra App o è una bufala esso stesso, perché nessun cittadino “scelto a sorte” potrebbe svolgere una tale funzione. Ma proprio perché irrealizzabile, esso rischierebbe di essere un terribile e totalmente arbitrario tribunale dell’inquisizione.
La democrazia il tribunale ce l’ha naturalmente, ed è quello dell’opinione pubblica, che Jeremy Bentham definì l’organo che tutto giudica e che però genera anche l’oggetto del giudizio. L’opinione “fa” e “giudica” se stessa, dunque. Non la fanno i giudici che con la lente della verità epistemica credono di poter setacciare l’agorà. Ma non la fa neppure un tribunale popolare, una idea priva di senso e che, nel peggiore dei casi, può solo essere un comitato popolare di salute pubblica, sulla falsariga di quelli che vennero sperimentati dal Terrore giacobino e da quelli stalinista e fascista.
«Nessuna censura, la Rete deve essere credibile» tuona Grillo. Ha ragione. Ma se così è, risponda con confutazioni a chi propone la giuridificazione, non proponendo il peggio. Rilanciare sul peggio è una politica sconsiderata che porta acqua proprio al mulino della censura perché crea partiti: quello della giuridificazione contro quello della giuria di popolo. E quale che sia il vincitore, l’esito sarebbe un male per tutti. Le opinioni si combattono con le opinioni, e quindi con la libertà di cambiare opinione (e di denunciare le bufale).
Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2017 (p.d.)
Professore, l’anno che si è appena chiuso ha visto gli effetti del Jobs act. Bilancio?
Pessimo, ma facciamo una premessa: la questione del lavoro è centrale non solo perché rappresenta il cuore della crisi attuale, ma perché è il principale indicatore della mutazione genetica che ha subito la sinistra. O, se si vuole, dell’estinzione della sinistra novecentesca. E questo è evidente analizzando le politiche del lavoro dei governi di centrosinistra degli ultimi 15 anni. Per non parlare di un ministro del Lavoro come Poletti che non potrebbe figurare dignitosamente nemmeno in un governo di destra, vista la riforma che ha fatto e le sue vergognose affermazioni sui giovani: un’intera generazione è stata cancellata dall’orizzonte sociale e viene pure disprezzata. Una catastrofe antropologica è avvenuta a sinistra.
Si parla molto dei voucher.
Il tormentone ora è che non bisogna criminalizzarli. Ma i buoni lavoro sono la certificazione per legge della precarietà come stato permanente del lavoratore. Assistiamo al rovesciamento di quell’orizzonte che un tempo si chiamava riformista, cioè teso a migliorare le condizioni del lavoro. Il fatto che si possano comperare le braccia in tabaccheria per pochi euro come fossero un oggetto di consumo minimo la dice lunga. Poi ci sono settori e professioni in cui un certo grado di frammentarietà è strutturale, ma i buoni sono entrati nell’intero sistema-lavoro.
La sinistra ha smesso di occuparsi del lavoro?
Peggio: i mini-job in Germania li hanno introdotti i socialdemocratici, non la Cdu. Quando Berlusconi provò ad abolire l’articolo 18 si è trovato 3 milioni di lavoratori al Circo Massimo: ma ci è riuscito Renzi. La sinistra tardo-novecentesca, che non ha capito nulla delle mutazioni in corso e della globalizzazione, si è accomodata all’interno delle categorie neoliberiste come se fossero una condizione di natura. Non criticabile: anzi, ogni critica era segno di arretratezza. Ma questo è il prodotto di un’assoluta ignoranza di quali siano caratteristiche e contraddizioni della modernità. Ciò che continuiamo a chiamare sinistra è in realtà una destra tecnocratica venata di populismo. Parola che detesto ma che la caratterizza: la demagogia renziana è populista, ed è la peggiore perché è populismo di governo. L’ottusità e la prepotenza che circolano tra i nostri governanti si riassumono benissimo nella proposta del professor Pitruzzella sull’Agenzia di controllo del web. Tanto più che il primo da bandire sarebbe l’ex premier: fino a qualche mese fa invitava a investire nella “solida”Mps.
Lo smantellamento delle tutele, conquistate tra gli anni 60 e 70, è la cifra degli ultimi anni. È pensabile fare dei passi indietro, ora? E può bastare?
Il primo passaggio di una politica del lavoro che volesse essere coerente con le idee della sinistra sarebbe certamente la cancellazione di quanto fatto negli ultimi 4 anni. Lo Statuto dei lavoratori ha rappresentato l’ingresso nelle fabbriche della Costituzione: non sono riusciti a smantellare la Carta con la riforma Boschi, ma l’hanno cacciata dai luoghi di lavoro, e spero davvero che si possa votare presto sui referendum proposti dalla Cgil per ripristinare quei diritti. A proposito di Costituzione: bisognerebbe sì procedere a una revisione, di un solo articolo, l’81. Nel 2012 è stato introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio senza un minuto di dibattito. Questo è l’ostacolo a qualsiasi politica di tutela e garanzia del lavoro e di altri diritti, come la salute.
E poi?
Lo dico col cuore sanguinante – è un tema strappato alla sinistra dalla destra, perché fa parte del programma di Trump – ma sono favorevole alla tassazione delle imprese che delocalizzano la produzione e all’imposizione di dazi sui prodotti di imprese nazionali che vanno a produrre all’estero e vengono a vendere in Italia.
Difficile pensare ai dazi in un mondo senza frontiere... Senza dire che una delle principali industrie del Paese ha trasferito la sede fiscale a Londra e legale in Olanda salutata con applausi e abbracci dall'ex premier.
La Fiat produce in giro per il mondo e vende in Italia senza pagare il minimo pegno: tutto ciò la dice lunga sulla nostra classe dirigente.
Peraltro: Marchionne a chi pensa di vendere la Panda?
Le poche auto che produce a Torino sono le Maserati, pensate per la sottilissima fascia di mercato dei ricchissimi.
Il Bloomberg Billionaires Index ha tracciato il patrimonio dei paperoni del mondo: continua ad allargarsi la forbice tra i pochi che hanno moltissimo e i moltissimi che hanno poco o niente.
La crescita delle disuguaglianze è un enorme danno all’economia e nello stesso tempo è un prodotto strutturale della forma che l’economia ha assunto negli ultimi anni. Una terribile contraddizione che spiega, tra l’altro, la rabbia e la disperazione che serpeggiano nelle società occidentali. Noi siamo un Paese che non cresce, in cui però la ricchezza del 10% più abbiente continua ad aumentare: il meccanismo di redistribuzione funziona alla rovescia. Anche nei Paesi che crescono, il reddito della working class è rimasto al palo. Il risultato sono i lavoratori poveri, cioè coloro che col loro impiego non riescono a vivere dignitosamente, cosa che oltretutto danneggia i consumi. È la forma del terzo capitalismo: si è rotto il compromesso tra capitale e lavoro, il capitale ha acquistato un’enorme capacità di movimento e il lavoro si è paurosamente impoverito.
Il governo ha annunciato “un piano per la povertà”. I sussidi sono una risposta?
Leggo che lo stanziamento dovrebbe essere un miliardo: è insufficiente per qualsiasi cosa. Se si volesse affrontare anche solo il tema della povertà assoluta – cioè di coloro che non possono mangiare, vestirsi, curarsi e così via – bisogna pensare a un reddito di cittadinanza che arrivi a 2 milioni di famiglie. Ma poi questa non è una politica del lavoro! C’è il problema dei redditi da lavoro e della loro assoluta insufficienza: se non si risponde a questo, non si ritorna nel novero dei Paesi civili. Altro passo sarebbe la ristrutturazione del debito: senza non si esce da questa situazione. Continueremo a buttare il nostro surplus per pagare interessi a banche e istituzioni finanziarie.
Questo ci porta all’euro.
Così com’è non sta in piedi. L’euro, con livelli di produttività così differenziati, funziona come una macchina che scarica sul fondo della piramide i costi e che costringe, per competere, a comprimere il costo del lavoro ben al di sotto dei limiti fisiologici. Se non si affronta la questione monetaria – con un durissimo scontro nell’Europa (e non fuori di essa) – non si affronta nemmeno la questione del lavoro.
il manifesto, 3 gennaio 2017 (c.m.c.)
Quindici anni di euro, non è l’ora di fare un tagliando alla moneta unica?
Il bilancio va fatto ed è sicuramente critico – risponde Mario Pianta, professore di politica economica a Urbino e tra i fondatori di Sbilanciamoci! – partendo dalle due stelle polari che hanno guidato tutto il percorso di integrazione, da Maastricht nel ’92 fino all’unione monetaria. Il primo di questi due punti di riferimento è il neoliberismo come orizzonte della politica economica, cioè una politica che dà la priorità ai mercati e rinuncia a un intervento pubblico di rilievo nel guidare i processi, con un’ondata di privatizzazioni massiccia che anche nel nostro paese è stata il biglietto d’ingresso per entrare nel club. La seconda stella di questa traettoria è la finanza che a partire dagli anni ’90 su scala planetaria e anche europea, attraverso una totale liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha pesantemente condizionato i contesti politici e economici a livello nazionale.
La quantità di governatori delle banche centrali e di ministri che vengono o vanno in grandi banche internazionali come Goldman Sachs – ultimi esempi macroscopici l’ex presidente della Commissione Barroso appena assunto e Trump che mette al dipartimento del Tesoro un loro banchiere – dà il segno di questa egemonia della finanza internazionale. Il risultato di questo imprinting è che l’euro non ha trainato alcuno sviluppo dell’economia reale, ma è vissuto di bolle finanziarie poi sfociate nella crisi del 2008 mentre si è verificato un aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi e un aumento della polarizzazione e della divergenza tra paesi del centro e della periferia nell’Unione.
L’euro si è quindi rivelato una forza centrifuga?
Questa modalità e traettoria ha avviato meccanismi di polarizzazione per cui i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi, i paesi deboli più deboli, i paesi forti più forti. Mentre l’Unione ha dimenticato di affrontare temi grandi come la responsabilità comune del debito pubblico dei paesi dell’area euro, la regolamentazione bancaria, l’implementazione di una politica fiscale espansiva e comune in grado di far uscire l’Europa dalla stagnazione, tre questioni che sono diventate centrali nella crisi del debito del 2011 con fattori come lo spread e i fallimenti delle banche nazionali, cosa che ora sta vivendo l’Italia ma sono fattori che sono esplosi in tempi diversi nei vari paesi.
La moneta unica serve o è più un fardello dell’Europa?
Non ci sono scorciatoie. È illusorio aprire un dibattito sull’uscita dall’euro come soluzione a questa complessità. Certo che se si mantiene la totale libertà dei capitali e non si adottano drastiche misure come una cancellazione significativa del debito pubblico in euro non si può escludere la fuoriuscita delle economie più deboli come la nostra dall’area euro. Ma se in Grecia fosse tornata la dracma la situazione ora sarebbe peggiore.
Anche a sinistra c’è chi dà la colpa all’euro della svalutazione del lavoro e dei salari.
Lo spostamento di 15 punti percentuali di reddito dai salari ai profitti è un fenomeno che si è verificato in tutti i paesi occidentali, con o senza euro. Ha a che fare con i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Con la Brexit e l’euroscetticismo di destra montante l’euro può saltare?
Se non cambia niente a Berlino e a Bruxelles, dove non si capisce neanche come gestire la Brexit, l’instabilità e l’incertezza aumenteranno insieme a stagnazione e diseguaglianze. L’euro può saltare ma la transizione sarebbe gestita da governi e retoriche reazionarie per far accettare i sacrifici. L’unica via è ricostruire un blocco sociale post liberista e una egemonia culturale e politica in grado di proporre un orizzonte di cambiamento su scala nazionale all’altezza delle sfide.
Una riflessione del premio Nobel per l’economia Paul Krugman su ciò che chiamano populismo: semplice, ma quanto mai inquietante per noi Europei.
Newyorktimes.com, "The opinion page", 23 dicembre 2016. Tradotto per eddyburg da Maria Cristina Gibelli
POPULISMO, VERO E FALSO
(in calce in lingua originale)
I movimenti autoritari che esprimono un’avversione profonda nei confronti delle minoranze etniche sono in marcia in tutto il mondo occidentale. Sono al governo in Ungheria e Polonia, e prenderanno presto il potere in America. E si stanno organizzando anche oltre le frontiere: il Freedom Party austriaco, fondato da ex nazisti, ha siglato un accordo con il governo russo e condivide la scelta di Trump in merito al Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
Ma come dovremmo definire questi gruppi? Molti corrispondenti stanno usando il termine “populisti”: un termine che appare sia inadeguato che ingannevole. Penso che il razzismo possa essere considerato populista nel senso che rappresenta il punto di vista di una parte della popolazione che non appartiene alla élite. Ma le altre caratteristiche di questo movimento – la dipendenza da teorie del complotto, l’indifferenza alle norme del diritto, la propensione a punire coloro che esprimono una visione critica – possono davvero essere collocate sotto l’etichetta di “populismo”?
Tuttavia, i membri europei di queste alleanze emergenti – un asse del male? – hanno offerto alcuni benefici reali ai lavoratori. Il partito ungherese Fidesz ha ridotto i mutui e abbassato le tariffe dei servizi (energia, gas, acqua). Il Partito polacco Law and Justice ha aumentato gli assegni familiari e i salari minimi e abbassato l’età pensionabile. Il Front National francese si presenta come il difensore di un esteso welfare state – ma soltanto per le persone giuste.
Il Trumpismo è però differente. La retorica che ha accompagnato la campagna elettorale può anche aver incluso la promessa di mantenere il Medicare e la Social Security intatti e di rimpiazzare l’Obamacare con qualcosa di ‘terrific’. Ma tutto sta a indicare che assisteremo a una manna che pioverà sui miliardari accompagnata da tagli selvaggi nei programmi destinati non solo ai poveri ma anche alla classe media. E la classe lavoratrice bianca, che ha garantito a Trump il 46% dei voti, si sta configurando come la grande perdente. Non conosciamo ancora le sue ricette politiche dettagliate. Ma le scelte dei ministri già mostrano in che direzione sta spirando il vento.
Le sue scelte in merito a chi presiederà al Bilancio, e alla Salute e Servizi alla persona sono orientate a favore dello smantellamento dell’Affordable Care Act e a favore della privatizzazione del Medicare. La sua scelta del Ministro del lavoro è andata a favore di un tycoon del fast-food che è stato un oppositore vociante sia dell’Obamacare che dell’aumento dei salari minimi. E i Repubblicani hanno già presentato in Parlamento delle proposte per un taglio deciso della Social security, incluso un aumento drastico dell’età pensionabile.
Che effetto potranno avere queste politiche? L’
Obamacare ha prodotto una grande riduzione dei non assicurati nelle regioni che quest’anno hanno votato per Trump; e abrogandola, tutti questi vantaggi sarebbero annullati. L’ Urban Institute, una istituzione non partigiana, stima che l’abrogazione porterebbe alla perdita della copertura assicurativa per 30 milioni di Americani – 16 dei quali bianchi non ispanici.
E certamente non ci sarà una alternativa “terrific”: i piani dei Repubblicani porteranno a coprire soltanto una frazione delle persone che saranno escluse: saranno favoriti i più giovani, più in salute, più ricchi. Convertendo Medicare in un sistema di voucher si realizzerà un taglio severo dei benefici, in parte perché porterà a una riduzione della spesa pubblica, in parte perché una parte significativa della spesa sarà dirottata sui margini e i profitti delle compagnie di assicurazione. E aumentare l’età pensionabile necessaria per ottenere la Social Security colpirebbe soprattutto gli Americani la cui aspettativa di vita sta stagnando o si è ridotta, o quelli che sono disabili e hanno difficoltà a proseguire nel lavoro – tutti problemi che sono strettamente correlati ai voti che sono andati a Trump.
In altre parole, il movimento che sta per prendere il potere non è lo stesso che caratterizza i movimenti di estrema destra europei. Possono condividere il razzismo e il disprezzo per la democrazia; ma il populismo europeo è perlomeno in parte reale, mentre il populismo di Trump si sta rivelando del tutto falso, una truffa venduta agli elettori della classe operaia che avrà un brusco risveglio. Il nuovo regime ne pagherà il prezzo politico?
Bene, non ci conterei. Questo epico adescamento, questo tradimento dei sostenitori di Trump offre certamente ai Democratici una opportunità politica. Ma ci sarà un impegno enorme per scaricare altrove le colpe. Si affermerà che il collasso della assistenza sanitaria è responsabilità degli errori di Obama; che il fallimento di possibili alternative riformatrici è responsabilità dei Democratici recalcitranti; ci saranno infiniti tentativi di distrazione dell’attenzione della popolazione.
Aspettiamoci più acrobazie “Carrier-style” (il salvataggio di 1000 posti di lavoro nell’Indiana sbandierati nella campagna elettorale di Trump) che, naturalmente, non aiutano i lavoratori, ma che hanno dominato l’informazione partigiana. Aspettiamoci attacchi esasperati contro le minoranze. E vale la pena ricordare ciò che i regimi autoritari tradizionalmente fanno per spostare l'attenzione dalle loro politiche interne fallimentari; cioè, spostare l’attenzione su questioni estere. Magari una guerra commerciale contro la Cina, e magari qualcosa di peggio.
Occorre che l’opposizione faccia tutto quello che può per sconfiggere queste strategie di distrazione di massa. Soprattutto, non dovrebbe lasciarsi risucchiare in una collaborazione che la porterebbe a condividere almeno in parte la responsabilità delle scelte. Gli autori di questa truffa dovranno portarne l’intera responsabilità
POPULISM, REAL AND PHONY
by Paul Krugman
Authoritarians with an animus against ethnic minorities are on the march across the Western world. They control governments in Hungary and Poland, and will soon take power in America. And they’re organizing across borders: Austria’s Freedom Party, founded by former Nazis, has signed an agreent with Russia’s ruling party — and met with Donald Trump’s choice for national security adviser.
But what should we call these groups? Many reporters are using the term “populist,” which seems both inadequate and misleading. I guess racism can be considered populist in the sense that it represents the views of some non-elite people. But are the other shared features of this movement — addiction to conspiracy theories, indifference to the rule of law, a penchant for punishing critics — really captured by the “populist” label?
Still, the European members of this emerging alliance — an axis of evil? — have offered some real benefits to workers. Hungary’s Fidesz party has provided mortgage relief and pushed down utility prices. Poland’s Law and Justice party has increased child benefits, raised the minimum wage and reduced the retirement age. France’s National Front is running as a defender of that nation’s extensive welfare state — but only for the right people.
Trumpism is, however, different. The campaign rhetoric may have included promises to keep Medicare and Social Security intact and replace Obamacare with something “terrific.” But the emerging policy agenda is anything but populist.
All indications are that we’re looking at huge windfalls for billionaires combined with savage cuts in programs that serve not just the poor but also the middle class. And the white working class, which provided much of the 46 percent Trump vote share, is shaping up as the biggest loser.
True, we don’t yet have detailed policy proposals. But Mr. Trump’s cabinet choices show which way the wind is blowing.
Both his pick as budget director and his choice to head Health and Human Services want to dismantle the Affordable Care Act and privatize Medicare. His choice as labor secretary is a fast-food tycoon who has been a vociferous opponent both of Obamacare and of minimum wage hikes. And House Republicans have already submitted plans for drastic cuts in Social Security, including a sharp rise in the retirement age.
What would these policies do? Obamacare led to big declines in the number of the uninsured in regions that voted Trump this year, and repealing it would undo all those gains. The nonpartisan Urban Institute estimates that repeal would cause 30 million Americans — 16 million of them non-Hispanic whites — to lose health coverage.
And no, there won’t be a “terrific” replacement: Republican plans would cover only a fraction as many people as the law they would displace, and they’d be different people — younger, healthier and richer.
Converting Medicare into a voucher system would also amount to a severe benefit cut, partly because it would lead to lower government spending, partly because a significant fraction of spending would be diverted into the overhead and profits of private insurance companies. And raising the retirement age for Social Security would hit especially hard among Americans whose life expectancy has stagnated or declined, or who have disabilities that make it hard for them to continue working — problems that are strongly correlated with Trump votes.
In other words, the movement that’s about to take power here isn’t the same as Europe’s far-right movements. It may share their racism and contempt for democracy; but European populism is at least partly real, while Trumpist populism is turning out to be entirely fake, a scam sold to working-class voters who are in for a rude awakening. Will the new regime pay a political price?
Well, don’t count on it. This epic bait-and-switch, this betrayal of supporters, certainly offers Democrats a political opportunity. But you know that there will be huge efforts to shift the blame. These will include claims that the collapse of health care is really President Obama’s fault; claims that the failure of alternatives is somehow the fault of recalcitrant Democrats; and an endless series of attempts to distract the public.
Expect more Carrier-style stunts that don’t actually help workers but dominate a news cycle. Expect lots of fulmination against minorities. And it’s worth remembering what authoritarian regimes traditionally do to shift attention from failing policies, namely, find some foreigners to confront. Maybe it will be a trade war with China, maybe something worse.
Opponents need to do all they can to defeat such strategies of distraction. Above all, they shouldn’t let themselves be sucked into cooperation that leaves them sharing part of the blame. The perpetrators of this scam should be forced to own it.
«Ultimo arriva il capo dell’Antitrust Pitruzzella: un’agenzia statale bonifichi il web. L’Europarlamento ha approvato una risoluzione che definisce sospetta ogni critica all’Ue».
Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2016 (p.d.)
La verità è un concetto complesso e spesso nel dibattito pubblico finisce per coincidere con l’opinione dominante. La “post-verità” invece - che è il modo in cui da qualche tempo le persone ben nate chiamano le leggende metropolitane, specie se diffuse sui
social network - rischia di diventare un concetto manganello con cui esiliare dal pubblico dibattito tutto quel che non è
mainstream: Brexit, l’elezione di Trump, il nostro referendum del 4 dicembre, tutto porta il segno della “post verità”, la quale ovviamente aiuta “i populisti”, altra parola manganello di cui non è chiaro il significato. Sembra più un fenomeno di rimozione: bisognerà pur trovare una spiegazione al fatto che gli elettori continuano a votare in maniera difforme rispetto a come gli dicono di fare il 90% dei media (su input, per così dire, dei loro referenti economici e politici). Colpa della post-verità.
E come si difende invece la “verità” che piace alla gente che piace? Un pezzo dell’establishment ha cominciato a pensare che si debba farlo in sostanza con la censura. Da ultimo, ieri, il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella. “La post-verità è uno dei motori del populismo ed è una minaccia per le nostre democrazie”, ha dichiarato nientemeno che al Financial Times: “Siamo a un bivio: dobbiamo scegliere se vogliamo lasciare Internet così com’è, un Far West, oppure se imporre regole in cui si tiene conto che la comunicazione è cambiata. Io ritengo che dobbiamo fissare queste regole e che spetti farlo al settore pubblico”.
In sostanza, Pitruzzella propone una rete di agenzie pubbliche che si occupino di bonificare il web (“pronta a intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato”) sulla base di parametri di verità stabiliti dallo Stato o, meglio, dalla maggioranza politica protempore (è appena il caso di ricordare che Pitruzzella, avvocato assai vicino a Renato Schifani, sta su quella poltrona su nomina dei presidenti di Camera e Senato). “La mia non è una proposta volta a creare forme di censura,ma a rafforzare la tutela dei diritti nella rete”, ha spiegato poi.
Il presidente dell’Antitrust, però, non è impazzito: il dibattito sulle fake news (notizie false) agita le élite intellettuali, politiche ed economiche sulle due sponde dell’Atlantico. L’Europarlamento, ad esempio, ha approvato il 23 novembre una risoluzione “per contrastare la propaganda nei confronti dell’Ue da parte di terzi”: un testo delirante che ha come centro una “guerra della bufala” (ma non la mozzarella) contro la Russia e un’altra contro la propaganda dell’Isis, ma che si presta - volendo - a usi più estensivi. Intanto nel testo si ricorda che libertà d’espressione e pluralismo dei media sono benedetti, ma “quest’ultimo può tuttavia essere in certa misura limitato”. Poi si propone una sorta di lista nera delle “fonti dei media che in passato siano state ripetutamente impegnate in strategie di disinformazione”(qualunque cosa significhi). È comunque considerato sospetto fare “propaganda ostile nei confronti dell’Ue” o “screditare le istituzioni Ue e i partenariati transatlantici” (la Nato).
Questa è la formula della dannazione: “Sebbene non tutte le critiche nei confronti dell’Ue siano necessariamente propaganda o disinformazione, i casi di manipolazione o di sostegno legati a Paesi terzi e intesi ad alimentare e a esacerbare tale critica danno adito a dubbi sull’affidabilità dei messaggi”. Tradotto: se criticate l’Ue siete tipi sospetti, probabilmente al soldo di Putin o dell’Isis. Un singolare delirio maccartista. Tornando in Italia, il tema è caldo da quando 20 milioni di italiani hanno bocciato la riforma costituzionale. Ovviamente Renzi ha usato l’argomento da par suo: “Abbiamo perso sul web. Lo abbiamo lasciato ai diffusori di falsità” (ce l’ha col M5s). Il Guardasigilli, Andrea Orlando, ha invece detto al Foglio che una soluzione per “disincentivare la post-verità” è “la trasformazione di Facebook in qualcosa di simile a un editore” (cioè rendere l’azienda responsabile per i contenuti degli utenti, idea che piace anche alla Merkel).
Come spesso capita è dall’antica saggezza democristiana - che in questo caso ha le fattezze del viceministro Antonello Giacomelli (Pd) - che arriva un richiamo al buon senso: “Attenti a non trasformare Facebook in un gigantesco alibi per coprire fenomeni più profondi e complessi o semplicemente il nuovo che avanza”.

». il manifesto, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il motivo per cui la sinistra si è estinta, risiede nel suo peccato originale. Questo peccato si chiama “Terza Via” e cioè il pensiero unico nella sua visione più aggiornata e priva di anticorpi.
Per capire bisogna tornare al crollo del muro di Berlino e alla convinzione generalizzata di fallimento del Comunismo che l’accompagna. Si parla di fine della storia e per la prima volta il capitalismo diventa un’entità incontestabile, priva di opposizione possibile. La sinistra si converte al neoliberismo, ma in una forma più radicale, che non ammette opposizione interna.
Nella sua prima formulazione (prendiamo ad esempio l’Italia) la rivoluzione liberale Berlusconiana, esalta l’intraprendenza del singolo come forma di libertà per competere con le masse, in vista del raggiungimento di obiettivi che solo il leader è in grado di concepire, in base alla sua visione utopistica del futuro. La lotta di classe non è più ammessa, ma rimane l’agonismo tra singolo e singolo e massa amorfa.
Con la "terza via" si riconosce un'unica verità, di cui è depositario il mercato. Non al leader ma al mercato vanno sacrificati quei diritti sociali che per l’illuminismo e la rivoluzione francese costituivano le basi su cui edificare la nuova società, attraverso le nuove costituzioni: libertà, eguaglianza, fraternità. I diritti sociali europei si basano su questi due ultimi concetti, fraternità ed eguaglianza, di cui il pensiero unico chiede il sacrificio in nome della libertà dei mercati. Per questo la sinistra della “Terza via”, conseguita questa sedicente verità può procedere a quella rottamazione del sociale di cui, fino al giorno prima era stata garante.
Non riconoscendo più i diritti sociali perché in contrasto col mercato, (eguaglianza e fraternità sono l’opposto del mercato) la sinistra rifonda la propria identità sui diritti umani ispirati alla libertà del singolo individuo. Incorpora cioè nel proprio codice costitutivo i diritti propugnati nei cultural studies e cioè la differenza culturale e l’autodeterminazione della propria sessualità come concetto di gender contrapposto all’identità biologica di nascita. Questi sono i valori di libertà da conseguire a scapito dei valori sociali e socialisti che piegano, secondo il pensiero unico, la libertà individuale ai valori collettivi. La sinistra diventa antisociale in nome delle libertà individuali.
Socialismo e mercato sono necessariamente in conflitto. Se la verità è il mercato, il socialismo è tirannide. Questa è proprio l’analisi in base alla quale JP Morgan chiedeva la revisione delle costituzioni socialiste dell’Europa del sud. Ma, secondo me, le garanzie sociali costituzionali sono il fronte di resistenza da cui non bisogna arretrare se ci proponiamo di riedificare un’idea di sinistra. Perché dei tanti significati che alla sinistra possono essere attribuiti quello fondante è quello di società contrapposta ad individuo. Una società di individui è un ossimoro. Qui sta la differenza tra pensiero europeo e americano e costituzioni europee e americana.
Sin dalla Grecia Antica l'Europa concepisce la democrazia sulla base di un bene sociale che trascende il singolo individuo. Le fondamenta della nostra democrazia non stanno nella libertà individuale, ma nella dimensione sociale costitutiva dell’uomo, secondo la definizione aristotelica per cui «l’uomo è un animale sociale» e, se non è sociale è un dio o è un animale. Questo primato del sociale è la base della costituzione che noi italiani abbiamo già difeso due volte votando NO al referendum. Ed è la linea di resistenza che dobbiamo difendere.
Ed arriviamo alle definizioni di sinistra e populismo. La parola populismo deriva da uno storico movimento di opposizione socialista allo zar: il Populismo Russo. Sin dalle origini la parola populismo implica un’opposizione al potere “di pancia” non appoggiata su dati scientifici. Facendo propria la vocazione marxiana di socialismo scientifico, contrapposto al socialismo utopistico precedente, l’attuale sinistra delle varie “Terze vie”, pensa di doversi opporre al populismo. E la sinistra radicale approva, in linea di massima. Ma siamo di fronte a un paradosso: il populismo, pur con le sue derive in senso nazionalistico e tradizionale (dio, patria, famiglia) rappresenta oggi, nel bene e nel male, l’unica forma di resistenza esistente al “robinsonismo” del pensiero unico. Come tale va appoggiato e non combattuto.
L’accozzaglia stigmatizzata da Renzi, non sarà stata elegante, ma ha funzionato per la vittoria del NO. E Tsipras per primo, quando pensava ancora di opporsi alla Troika, ha cercato il supporto non del centro, ma dell’estrema destra. Insomma, oggi paradossalmente, la sinistra radicale deve riconoscere che il suo nemico naturale non è il populismo, ma il pensiero unico incorporato nella sinistra tradizionale- moderata. Il pensiero unico è oggi il Pd, non l’accozzaglia. Il populismo non è il nemico, ma l’alleato strategico nella lotta al nemico comune.
Possiamo dare due opposte definizioni di sinistra. Una sulla base dei contenuti, l’altra sulla base della funzione. Cos’è che riteniamo costitutivo della sinistra? La sua opposizione al fascismo e ai suoi contenuti o la sua funzione oppositiva tout court all’unico nemico oggi esistente ?
Leggo sulla sua pagina Fb il bel saggio di Bifo che traduce in termini attuali l’analisi marxiana costruita sul capitalismo produttore di merci, a cui oggi si contrappone un capitalismo dell’immateriale. Secondo Bifo, per quanto si opponga al pensiero unico, il populismo non può costruire nulla perché manca di fatto degli strumenti di lettura della complessità in cui viviamo.
Il populismo vuol abbattere il pensiero unico per tornare al passato: frontiere, scambio ineguale, diritti nazionalistici, ma anche impossibilità di partecipare alla globalizzazione tagliandosene fuori. E’ così come per Marx esisteva una classe, il proletariato, che conoscendo dall’interno i meccanismi della produzione poteva ribaltarne il senso da macchina per il benessere di pochi a matrice del benessere sociale, esiste oggi per Bifo una classe, il cognitariato, capace di rabaltare la globalizzazione trasformandola da fabbrica di prevaricazione a benessere di tutti: redditto minimo garantito, assenza di lavoro, diritti sociali.
Ora, perché possa verificarsi questo passaggio dalla falsa alla vera coscienza della classe produttiva, dobbiamo conservare il concetto basilare di società come totalità. Il pensiero unico, ne sta chiedendo il genocidio in nome dell’individualismo. La vittoria del NO è il primo tassello su sui ricostruire perché conserva una costituzione costruita sul concetto di società.
Analogamente abbiamo vissuto il rovesciamento da parte di Trump nei confronti dei democratici come una vittoria perché se Trump, come ha detto, intende disinteressarsi dell’Europa, l’Europa avrà per la prima volta dall’avvento del pensiero unico, la possibilità di riedificare i suoi valori partendo dalla differenza fondante tra soggetto individuale e soggetto sociale. La totalità sociale, sono il presupposto fondamentale per la ricostruzione di un pensiero di sinistra. Il proletariato marxiano, hegelianamente, non doveva affrancare solo il singolo o se stesso come classe, ma tutta la società, compresi gli ex nemici borghesi. Oggi se il cognitariato vuole liberarsi e liberare la società, bisogna che il concetto di socialità dei fondamenti, su cui si basa la politica europea dello stato sociale venga ripristinato.
In quest’ottica di retroguardia, di preservazione, dell’esistente perché fondamentale per ogni progresso futuro, anche il populismo, l’unica forza di opposizione oggi presente al pensiero unico, può svolgere una funzione strumentale. E se il populismo fa leva sui valori antropologici della cultura locale (i dialetti, il presepe, la caseola) per opporsi alla penetrazione dell’individualismo americano, la sinistra deve rivalutare la cultura europea in senso alto (letteratura, arte, filosofia) ma, soprattutto sociale (welfare).
Come Marx ci ha insegnato,la rivoluzione non sarebbe pensabile se non a partire dal capitalismo e dalla sua rivoluzione produttiva. Ma come ci ha insegnato oltre a lui Lukàcs, non può esserci prassi, rivoluzione se non a partire dai concetti di soggetto collettivo, totalità, società. Niente società, niente rivoluzione. Meglio una società conservatrice da sovvertire (dio, patria, famiglia) che nessuna società da cui riprendere il cammino.
«La Repubblica, "Economia e finanza"29 dicembre 2016
Il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche e in situazioni di ristrutturazioni aziendali dettate da una congiuntura negativa, ma anche per "una migliore efficienza gestionale" e per determinare "un incremento della redditività". In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.
La Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 7 dicembre scorso (segnalata dal quotidiano ItaliaOggi), scrive una nuova pagina nel campo del diritto del lavoro. Destinata a fare giurisprudenza e quindi a essere presa come riferimento anche dai tribunali di primo e secondo grado, chiamati a decidere sulle controversie tra imprenditori e dipendenti.
La Cassazione è intervenuta sul caso di un dipendente messo alla porta dall'azienda dove lavorava, dopo due sentenze tra di loro in contrasto. Il giudice di primo grado aveva stabilito che il licenziamento era legittimo in quanto "effettivamente motivato dall'esigenza tecnica di rendere più snella la catena di comando e quindi la gestione aziendale". Giudizio ribaltato in appello , dove il giudice ha ritenuto illegittimo il provvedimento in quanto non era stato motivato dalla necessità economica e dalla presenza di eventi sfavorevoli, ma essendo stato "motivato soltanto dalla riduzione dei costi e quindi dal mero incremento del profitto".
Appellandosi anche all'articolo 41 della Costituzione che prevede la libera iniziativa economica dei privati, citando le direttive comunitarie sul tema, ma anche riferendosi a decisioni del passato, la Cassazione ha ritenuto che non sia necessario essere in presenza necessariamente di una crisi aziendale, una calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento. Il provvedimento può essere così giustificato anche per migliorare l'efficienza di impresa o per la soppressione di una posizione o anche per adeguarsi alle nuove tecnologie. In poche parole, se l'attività dei privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio. Rimane, ovviamente, potestà del giudice verificare l'effettiva ragione presentata dall'azienda per giustificare il licenziamento per riorganizzazione e il nesso di casualità tra i due eventi (così come lo è in caso di licenziamento per motivi economici).
Il passaggio destinato a fare giurisprudenza - nonché a far discutere - è il seguente: "Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo - si legge nel dispositivo - l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto.
«L’idea delle guida è che ogni impresa può svolgere al meglio la propria specifica attività se vive la dimensione sociale e politica in cui è inserita, a contatto con i problemi socio-economici in cui si trova ad operare e ben radicata nel territorio».
Comune-info online, 28 dicembre 2016 (c.m.c.)
Fare rete, mettersi in rete, condividere… Un mantra per tutti i tipi d’impresa. La missione stessa dell’economia solidale. Lo ha scritto bene tanti anni fa Euclides Mance, pioniere brasiliano dell’economia di liberazione, in La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione (Emi 2003). Ma mettere in pratica questo precetto non è facile. Ci sta provando la Mag Verona, madre di tutte le sette Mutue società per l’autogestione sorte in Italia dalla fine degli anni Settanta.
Il progetto si chiama Le reti interne… lavorare e pensare in relazione. Un po’ alla volta, nel corso degli ultimi anni, tra le imprese che hanno usufruito dei servizi e delle consulenze giuridiche e commerciali della Mag sono nate aggregazioni di soggetti imprenditoriali, di professionisti, di cooperatori, di artigiani che periodicamente si riuniscono per scambiare esperienze e socializzare saperi. Generosamente, peer to peer, con buone dinamiche di gruppo. Le riunioni sono aperte. Si sono formate così spontaneamente cinque reti tematiche: la Rete delle cooperative e delle imprese sociali di cura ed educative, Startupperisti e startupperiste di nuova generazione in rete, Gruppo delle nuove vite contadine, Comitato delle realtà artistiche (Crea) e il portate web Rete del Buon Vivere.
Solo la Crea è una associazione formalizzata in senso giuridico. Tutte le altre si muovono in una dimensione di informalità, flessibilità, autorganizzazione consensuale. In tutto, sono coinvolte, variamente, dalle centocinquanta alle duecentocinquanta persone. L’idea delle guida è che ogni impresa può svolgere al meglio la propria specifica attività se vive la dimensione sociale e politica in cui è inserita, a contatto con i problemi socio-economici in cui si trova ad operare e ben radicata nel territorio.
La Mag Verona non fa solo servizi di microcredito (sempre più messi in difficoltà dalle nuove normative bancarie), è impegnata nella reinvenzione (pratica e teorica) dell’agire economico, sulle macerie lasciate dal capitalismo industrialista, produttivista, speculativo. Ma è anche impegnata a riflettere su come le comunità possono riuscire a resistere alla dissoluzione (dismissione e burocratizzazione) dei servizi pubblici tradizionali assistenziali.
Una ricerca in corso su possibili modelli alternativi di de-istituzionalizzazione delle attività nella direzione del welfare di comunità e rigenerativo. Le reti che si occupano di imprenditorialità in agricoltura e degli “startupperisti” sono frequentate prevalentemente da giovani alla ricerca di business coerenti con le proprie motivazioni e il desiderio di un lavoro vero, pieno, utile e soddisfacente.
A Mag Verona lavorano quindici persone. Incontriamo quasi solo donne. Loredana, Gemma, Stefania. La filosofia e lo stile Mag è quello ben riassunto nel motto: “insieme possiamo”.
Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2016 (p.d.)
Memphis, Tennessee, 2 ottobre 1983. Verso le 9 del mattino alcuni uomini armati fanno irruzione in un supermercato. Durante la rapina, partono dei colpi di arma da fuoco e il proprietario, Joe Belenchia, rimane ucciso sul colpo. Testimoni raccontano di aver visto i criminali fuggire a bordo di un’auto rosso scura. Grazie a questo dettaglio, la polizia rintraccia il colpevole. Si chiama Ndume Olatushani, ha 24 anni, è afroamericano. Dice che quella mattina era a casa da sua madre in un’altra città, St. Louis, a 5 ore di macchina dal luogo della rapina. Eppure la polizia afferma di aver trovato le sue impronte digitali sul vetro posteriore. Il processo si conclude quasi due anni dopo: Ndume viene condannato alla pena di morte. Come si scoprirà negli anni, condannato da innocente. “Sono rimasto in prigione per 28 anni, nel braccio della morte per due decenni”, dice Ndume, il cui calvario giudiziario è terminato, dopo numerosi appelli e due nuovi processi, solo nel 2012. I giudici hanno riconosciuto che le prove e le testimonianze contro di lui erano state falsificate.
“Al di là della crudeltà e ingiustizia, la sola attesa del patibolo nel braccio della morte è già di per sé una pena terribile. E in attesa si può rimanere per tempi lunghissimi”, osserva Eleonora Mongelli, che prima di entrare della Lega italiana dei Diritti dell’Uomo (Lidu), ha lavorato per Ensemble contre la Peine de Morte (Ecpm). Con Nessuno Tocchi Caino e altre ong, tra cui Sant’Egidio e Amnesty. Ecpm fa parte della World Coalition against the Death Penalty, rete di associazioni che si battono per contrastare l’applicazione delle pena capitale o tenta di prevenirla.
Anche grazie agli sforzi di queste ong l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato alla vigilia di Natale una risoluzione che chiedela moratoria del patibolo in tutto il mondo. E che è stata approvata a grande maggioranza: 117 in favore, 40 contrari e 31 astenuti. Un voto non vincolante, purtroppo, che si scontra con la triste realtà. Secondo dati di Ecpm, nel solo 2015 ci sono state 1634 esecuzioni e quasi 2.000 condanne a morte in 61 Paesi: record rispetto agli ultimi 25 anni, spesso giustificato da governi autoritari con motivazioni antiterroristiche.
L’ultimo rapporto di Nessuno tocchi Caino – storicamente legato al Partito Radicale Transnazionale – stima come in Cina sono state eseguite almeno 1200 condanne, 657 in Iran, 174 in Pakistan e 102 in Arabia Saudita. Eppure, la tendenza generale è quella verso l’abolizione della pena di morte: sono oltre 100 Paesi che hanno deciso di eliminare, di diritto o di fatto, il patibolo. Poche settimane fa Antonio Stango, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, ha guidato una delicata missione in Kenya Zambia Malawi e Swaziland. Tappe importanti per la battaglia abolizionista: da anni questi Paesi africani osservano una moratoria, anche se per ragioni di consenso nell’opinione pubblica si erano astenuti dal voto contro la pena di morte in sede Onu, mentre ora hanno votato a favore della moratoria.
“Come ha insegnato Cesare Beccaria, la certezza del diritto e non la pena capitale è un efficace deterrente contro il crimine”, osserva Stango. “Solo l’abolizione riduce il tasso complessivo di violenza e facilita il passaggio dalla vendetta alla giustizia. Un elemento fondamentale per definire una civiltà giuridica moderna”.
«Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento».
connessioniprecarie online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Già si vedono i primi fallimenti dell’antitrumpismo, versione riveduta e corretta dell’italico antiberlusconismo di una quindicina di anni fa. Il riconteggio dei voti, richiesto dalla candidata verde Jill Stein per presunti brogli in Wisconsin, dove Trump ha prevalso su Clinton per soli 22 mila voti, si è concluso con l’assegnazione di 130 voti in più a Trump.
L’appello ai grandi elettori repubblicani per non confermare la vittoria di Trump, sostenuto con centinaia di migliaia di firme, non ha ottenuto alcun effetto. L’idea che sta alla base di queste iniziative è che Trump rappresenti un vulnus per l’assetto istituzionale americano che rimane, pur con alcune distorsioni, democratico e in salute.
Il preambolo della Costituzione americana, We the people, diventa il feticcio continuamente agitato, come se di per sé costituisse un antidoto al tycoon newyorchese. Ma dopo i tre strappi avvenuti negli ultimi 16 anni, tutti a svantaggio dei democratici, – Gore che prende più voti di Bush senza diventare presidente, i democratici con più consensi ma in minoranza, con 30 deputati in meno dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti nel 2012 e i quasi 3 milioni di voti di scarto di Clinton rispetto a Trump – la distanza tra il sistema rappresentativo americano e la volontà degli elettori contraddice anche gli stessi principi della democrazia liberale.
La contraddizione si approfondisce se si guarda a una Hillary Clinton che vince nettamente nel 15% delle contee (in pratica le due coste), dove si produce il 65% del Pil, e Trump nel restante 85%, in quello che viene chiamato paese-cavalcavia. Detto in altri termini, una maggioranza elettorale e una potenza economico-finanziaria concentrate territorialmente che vengono sconfitte da una minoranza di elettori diffusa e articolata in una varietà di interessi anche contrapposti.
Come Trump e il suo establishment riusciranno a far convivere, non certo a comporre, l’estrema destra della Alt-Right con le concrete rivendicazioni degli operai del Michigan delusi dal sindacato e dal partito democratico rimane una domanda aperta. Anche se, osservando come si è mosso in questi due mesi scarsi il transition-team, il gruppo creato da Trump per gestire le nomine della futura amministrazione e il suo posizionamento politico, alcuni elementi vengono alla luce.
Dopo una prima fase in cui la scelta era orientata a ricucire con il gruppo dirigente del partito repubblicano, attenuando le fratture, si è repentinamente cambiato registro quando Trump e il suo staff, nel tour di «ringraziamento» post-elettorale attraverso gli Stati Uniti, hanno realizzato che, per mantenere il consenso, non potevano discostarsi molto da quell’immagine di populista autoritario e decisionista costruita nelle primarie e nella campagna elettorale. Un’immagine appunto che mette in tensione l’intero sistema istituzionale e rappresentativo senza però arrivare alla rottura conclamata. È la forza e la debolezza di Trump: non adeguarsi ma nemmeno rompere, pena essere travolto dal terremoto che lui stesso ha provocato.
Una presidenza, dunque, che sarà segnata da un defatigante e continuo work in progress, con l’incidente politico e diplomatico sempre dietro l’angolo. Tutto ciò può reggere a condizione che il conflitto sociale sia represso o, nella peggiore delle ipotesi, perimetrato e confinato politicamente e territorialmente. Non è un caso che nelle dichiarazioni di Trump e negli incarichi annunciati della prossima Amministrazione l’incompatibilità, implicita o esplicita, sia stata individuata nella lotta dei Sioux a Standing Rock, in Black Lives Matter e nella campagna per un salario minimo di 15 dollari all’ora.
La lotta iniziata dai Sioux Lakota contro l’oleodotto che inquinerà le falde acquifere dei loro territori ha progressivamente assunto il valore politico della contestazione generale. Una resistenza che dura da mesi, che ha richiamato nel Nord Dakota rappresentanti di centinaia di tribù di nativi e qualche migliaio di attivisti e che inquieta il team di Trump, che teme innanzitutto una possibile riedizione a Standing Rock dell’occupazione, armi alla mano, di Wounded Knee organizzata alcune centinaia di Sioux Oglala dell’American Indian Movement nel marzo-aprile del 1973.
In seconda battuta il timore deriva dalla possibile riproduzione in una grande metropoli dell’occupazione di spazi urbani e della possibilità che vengano autogestiti con un’organizzazione più strutturata di quella dimostrata da gran parte del movimento Occupy. Senza sottovalutare poi la possibilità che si attivino non prevedibili percorsi di politicizzazione, come ad esempio quelli dei giovani Sioux in dissenso con i consigli degli anziani che gestiscono i campi della protesta nel Nord Dakota.
Quanto a Black Lives Matter, nonostante la coalizione di gruppi, collettivi, associazioni che vi si riconoscono non stia attraversando, dopo l’elezione di Trump, una fase particolarmente dinamica di attivismo, essa mantiene tuttavia una capacità di mobilitazione che può ripresentarsi in ogni momento a causa di uno degli innumerevoli omicidi di afroamericani che la polizia continua a compiere. La necessità di un salto qualitativo, come quello tentato con Ferguson Action dopo l’esplosione della rivolta di due anni fa nella città del Missouri, continua a essere evocata.
Se in Black Lives Matter si consolidasse la tendenza che, anziché interpretare tutto come la volontà di affermazione di un suprematismo bianco, legge il razzismo istituzionale come il modo del «normale» funzionamento politico e sociale della cosiddetta società post-razziale americana, si aprirebbero spazi inediti di soggettivazione all’interno delle comunità afroamericane. Black Lives Matter continua a essere su un crinale tra la necessità di sostanziare politicamente e socialmente il razzismo istituzionale e la difficoltà a emanciparsi dal peso della tradizione delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. È chiaro che, se dovesse imboccare decisamente la prima strada, per la presidenza Trump si aprirebbe un fronte difficilmente governabile con la sola repressione.
Sono passati 4 anni dal primo sciopero a New York – illegale secondo la legge in vigore in quello stato e in quella città – dei lavoratori dei fast food per un salario minimo di 15 dollari all’ora. Un movimento nato dall’impulso di associazioni del volontariato civile e religioso e di settori attivi del movimento Occupy, che inizialmente scontava l’opposizione dei principali sindacati. In questi 4 anni si sono succedute varie fasi: dalle giornate di azione coordinate a livello nazionale alla promozione di referendum in vari Stati alla pressione sulle amministrazioni locali per adottare delibere a sostegno del salario minimo. In mezzo c’è stato anche il tentativo della SEIU, il principale sindacato dei lavoratori pubblici, di governare il movimento tentando di azzerare la rappresentanza che si era dato.
Un tentativo che ha avuto però l’effetto di un boomerang quando si è scoperto che, per raggiungere il suo scopo, la SEIU aveva assunto temporaneamente alcune centinaia di precari, dopo un breve corso di «attivismo», pagandoli meno di 15 dollari all’ora. In altri termini, un sindacato che per sostenere la lotta per un salario minimo di 15 dollari all’ora sfrutta una forza-lavoro precaria pagandola meno della rivendicazione minima che vuole perseguire. Attualmente in nessuno Stato e in nessuna città, nonostante gli impegni presi, è in vigore un salario minimo di 15 dollari all’ora.
E dalla seconda metà di novembre il conflitto è ripreso in varie città e catene di fast food. La decisione di Trump di nominare a capo del Dipartimento del Lavoro Andrew Puzder, amministratore delegato della grande catena CKE Restaurants e nemico dichiarato del salario minimo, è un messaggio esplicito. Da una parte si annunciano grandi piani di investimento per ammodernare le infrastrutture del paese, al limite dell’aborrito keynesismo, scommettendo su un rilancio dell’industria manifatturiera e quindi di posti di lavoro, anche per consolidare il consenso tra gli operai che lo hanno votato; dall’altra, si vuole ulteriormente precarizzare, se non clandestinizzare, una forza-lavoro, soprattutto migrante o di origine migrante, che lotta per il salario minimo. Un fronte aperto che preoccupa non poco l’Amministrazione che sta per entrare in carica.
Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento. Inizia anche a circolare la parola sciopero con grande dispiacere di Richard Trumka, presidente della Afl-Cio, la maggiore confederazione sindacale, che si è affrettato a smentire un loro coinvolgimento.
Che sia ancora viva la memoria dello sciopero generale del novembre 2011, organizzato a Oakland dal movimento Occupy dopo 65 anni dall’ultimo sciopero generale, violando le leggi in vigore e scavalcando le organizzazioni sindacali?

. articolo21 online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)
Sento che il Natale, questo Natale, irrompe nei nostri giorni per ricordarci di non arrenderci al presente. A sussurrare all’orecchio di ciascuno che il presente non ci basta.
Qualche giorno fa un’amica, solitamente un po’ sopra le righe, diceva che questo presente non ci merita. E non è che non lo amiamo questo tempo carico di nubi che impediscono la luce del sole. Vorremmo piuttosto trasformarlo nell’oltre. In un orizzonte che desideriamo, intravediamo e vogliamo avvicinare.
Perché il presente non basta a Martino, trent’anni con laurea e master sudati per il massimo dei voti e delle conoscenze, che perde entusiasmo e speranza ad ogni porta che si richiude cortesemente blindata al suo bussare.Vorrei non si arrendesse al presente nemmeno Gilda a cui senza troppi giri di parole hanno detto che le metastasi ormai diffuse decretano chiaramente che non le resta molto tempo.
Ma anche Mons. Dario de Jesus Monsalve, vescovo di Cali in Colombia e attivo mediatore di pace, vorrei che andasse oltre il presente che lo vede condannato a morte dai narcos e dai signori della guerra che qualche giorno fa gli hanno recapitato un messaggio in cui si legge che “il clero comunista” non merita di vivere. D’altra parte già il suo predecessore Isaías Duarte Cancino fu ucciso da una sventagliata di mitra nel 2002 mentre usciva da una chiesa.
Che non si arrenda al presente la folla di coloro che subiscono le guerre e la miseria pianificate e alimentate da altri.
C’è sempre un oltre che non ammette rese.Dobbiamo soltanto sforzarci di affrontare il tempo presente insieme.Ce lo ricorda un bambino piccolo e indifeso che nasce povero e si affida alle nostre premure. Dio che si fida di noi.

». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
«Il 2016 è stato un anno storico e turbolento», sostiene con marcato senso eufemistico Mark Zuckerberg in un messaggio video di fine anno registrato dal fondatore di Facebook assieme all’amministratrice Sheryl Sandberg, parte di una serie occasionale di one-on-ones in cui i due dirigenti discutono di temi «social». Questo particolare tête-à-tête ha avuto una eco negli Stati Uniti e in Europa per la valutazione con la quale Zuckerberg ha definito Facebook un nuovo tipo di mass media.
«Facebook non è un tecnologia tradizionale», ha detto il 31enne fondatore del social network che raggiunge di gran lunga più utenti di qualunque radio, televisione o giornale della storia. «Non si tratta di una tradizionale media company. Noi progettiamo una piattaforma tecnologica e ci sentiamo responsabili per come viene utilizzata».
Si tratta di una sostanziale modifica della linea ufficiale dell’azienda di Menlo Park che ad oggi ha tenuto a definirsi piattaforma tecnologica «neutrale» senza partecipazione attiva nel contenuto immesso dagli utenti. «Non scriviamo le notizie che la gente legge sulla piattaforma – ha sostenuto Zuckerberg -, ma allo stesso tempo sappiamo di essere molto più che semplici distributori. Siamo parte integrante del discorso pubblico».
L’acquisizione di una improvvisa consapevolezza editoriale segna una netta svolta per il social network. Facebook utilizzato da 1,8 miliardi di utenti, recentemente è stato ripetutamente chiamato in causa per il ruolo nella diffusione di notizie inattendibili, la marea montante di voci ed illazioni che ha contribuito sensibilmente ad alcuni dei fenomeni «storici» evocati a Zuckerberg, a partire dal voto inglese sulla Brexit per arrivare all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.
Per far fronte al proliferare di notizie imprecise o strumentali nella sezione trending l’azienda ha di recente sostituito lo staff editoriale con un algoritmo . Ma «l’automazione» della verità da parte dei programmatori è risultata altrettanto insoddisfacente. La scorsa settimana Zuckerberg ha annunciato l’accordo con una serie di partner giornalistici, fra cui la Abc News e la Associated Press alle quali appalterà le analisi di attendibilità.
I tentativi di mediazione «editoriale», oltre che l’inadeguatezza al ruolo dei programmatori di Silicon Valley, sottolineano la problematica attualmente legata ai social network. Mai come quest’anno è infatti stata esplicitata l’infuenza delle piattaforme come fonti di informazione.
L’elezione di Donald Trump (lui stesso inveterato twittatore), resa possibile in gran parte proprio da una campagna imbastita sul sistematico offuscamento demagogico tramite internet, ha messo al centro dell’attenzione il flagello delle fake news e le devastanti ripercussioni delle bufale virali emerse come più insidiose eredi della propaganda e fondamentali strumenti di persuasione populista.
Paradigmatiche sono ad esempio le attuali diatribe in Rete sull’assedio di Aleppo. Una tragedia efficacemente offuscata dalle infinite polemiche fra post virali che perorano, in termini propagandistici, le cause delle parti in guerra. Il popolo di Facebook è stato così sommerso dalle mille sterili polemiche a base di «like» e controlike, mentre i belliggeranti hanno potuto perseguire indisturbati (e rigorosamente al riparo da occhi giornalistici) i propri sanguinari fini.
Il turbine di «notizie» virali senza possibilità di verifica costituiscono l’orwelliano ecosistema post-giornalistico: una utile cortina fumogena per gli interessi economici, finanziari, geopolitici in campo. Il «turbolento» 2016 di Zuckerberg ha insomma esplicitato come non mai gli effetti potenzialmente devastatanti della «postinformazione» veicolata proprio dai social network.
La rappresentazione forse più agghiacciante a questo riguardo si è avuta il mese scorso con l’episodio pizzagate, quando un uomo armato ha fatto irruzione in una pizzeria di Washington minacciando personale e avventori. Il negozio era stato oggetto di una campagna social che aveva insinuato che fosse la centrale clandestina di un giro di pedofili gestito nientemeno che da Hillary Clinton e dal direttore della sua campagna elettorale, John Podesta. La bufala diffusa ad arte era stata potenziata da migliaia di «ri-post» fin quando un complottista lievemente più squlibrato aveva imbracciato un fucile minacciando la strage. Simili campagne calunniose stanno diventando una norma in Usa dove una costellazione di siti legati alla «Alt Right» usano simili arbitrarie accuse per aizzare l’odio complottista.
Di questa settinmana è invece la notizia di una famiglia ebrea in fuga dalla propria casa in Pennsylvania dopo che una campagna virale l’aveva tacciata di aver ottenuto la cancellazione della rappresentazione natalizia alla locale scuola media del «Cantico di Natale» di Dickens (la guerra contro il Natale è meme favorito di Donald Trump). La bufala paranoica, ormai è evidente, è sempre più precorritrice di una diffuso «anafabetismo dell’informazione» che rende plausibile ogni stravagante accusa proviente da un post scritto da un mitomane online. O da qualcuno vicino a un neoeletto presidente degli Stati Uniti.
Lo pseudogiornalismo viene cioè impiegato sempre più come arma contundente di un dilagante neomaccartismo per invalidare fondamentali meccanismi democratici e rimanda necessariamente alle responsabilità ora riconosciute anche da Zuckerberg. Ma permane un fondamentale equivoco: i social network ambiscono ad essere nuove agorà ma si tratta pur sempre di monopoli privati a scopo di lucro che commercializzano un unico prodotto: gli utenti.
Malgrado la narrazione ormai anacronistica di internet cone inarrestabile democratizzatore «orizzontale» della comunicazione, le piattaforme in rete rappresentano dunque un mastodontico trasferimento di strumenti di dialogo e «informazione» dalla sfera pubblica e politica a quella commerciale, al riparo da molta regolamentazione pubblica e quindi tantopiù suscettibili di strumentale manipolazione.
Nessuno con la possibile eccezione di Wladimir Putin (o Beppe Grillo), ha dimostrato di afferrare il concetto meglio di Trump, che ha come prima cosa nominanto Steve Bannon, operatore del massimo portale di bufale complottiste («Breitbart News»), a super-ministro della disinformazione e braccio destro nella Casa Bianca. E il «summit digitale» al quale Trump ha recentemente convocato i massimi dirigenti dei social network, subito accorsi al tavolo del nuovo inquilino della Casa Bianca, ha esposto la natura essenzialmente mercenaria del complesso tecno-info-industriale.
Il video dei due amabili impresari digitali che discettano disinvoltamente del futuro dell’informazione come di una strategia di new economy, ha trasmesso un affascinante – ed inquietante – scorcio dei nuovi poteri decisionali delle nostre vite.
«Donald Trump è stato eletto alla presidenza Usa perché ha saputo intercettare l’insofferenza della classe media bianca verso le minoranze, dalle donne agli immigrati. I parametri della politica a cui eravamo abituati sono stravolti. Il teorico dello storytelling ne discute con la filosofa americana Judith Butler
». La Repubblica, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Molti scrittori e intellettuali, negli Stati Uniti e in Europa, si sono pronunciati sul fenomeno Trump, il più delle volte per esprimere la loro costernazione o riprovazione, condannare i suoi eccessi linguistici o allarmarsi per le sue proposte, come la costruzione di un muro al confine con il Messico o l’espulsione di milioni di immigrati clandestini. Ho voluto discutere di questo con Judith Butler, filosofa americana che ha studiato gli effetti delle parole nel discorso politico a partire dal suo testo fondamentale Parole che provocano: per una politica del performativo.
Mi sembra che Trump sia una sorta di figura simbolo delle analisi che lei produce da vent’anni. Trump come “oggetto butleriano” per eccellenza, è d’accordo?
«Non sono sicura che Trump sia un oggetto adeguato per le analisi che ho l’abitudine di condurre. Non penso, per esempio, che vi sia una fascinazione legata alla sua personalità. E se prendiamo in considerazione la sua retorica, allora è necessario analizzare piuttosto gli effetti che produce su una frangia della popolazione americana.
Ricordiamoci che è stato eletto da meno di un quarto della popolazione, e che è solo grazie all’esistenza di un collegio elettorale arcaico che si appresta a diventare presidente. Non dobbiamo quindi immaginarci che Trump goda di un largo sostegno popolare. C’è una disillusione generale nei confronti della politica e un certo disprezzo nei confronti dei due principali partiti statunitensi. Tuttavia Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump. Perciò, quando ci poniamo la questione dei sostenitori di Trump, la cosa che ci dobbiamo chiedere è come sia riuscita una minoranza della popolazione americana a portare Trump al potere.
Quello su cui ci interroghiamo è un deficit di democrazia, non un’ondata di consenso popolare. La minoranza che ha sostenuto Trump, la minoranza che è riuscita a strappare un successo elettorale, ha potuto farlo non soltanto in virtù della propria disaffezione verso la politica, ma anche in virtù della disaffezione di quella metà circa di elettori che non sono andati a votare. Forse il tema di cui dovremmo parlare è la perdita di democrazia partecipativa negli Stati Uniti.
La mia opinione è che Trump ha scatenato una rabbia che ha diversi oggetti e diverse cause. Lo stato di devastazione economica e di delusione, la perdita di speranza nei confronti di un futuro economico determinato da movimenti economici e finanziari che devastano intere comunità hanno senza dubbio un ruolo importante. Ma altrettanto si può dire per l’accrescimento della complessità demografica degli Stati Uniti e le forme di razzismo, sia vecchie che nuove. Il desiderio di “fermezza” riguarda da una parte l’accrescimento del potere dello Stato contro gli stranieri, i lavoratori clandestini, ma si accompagna anche al desiderio di liberarsi del peso dello Stato, slogan che torna utile al tempo stesso all’individualismo e al mercato».
Se il fenomeno Trump può essere paragonato al fascismo è soprattutto rispetto al rapporto del leader con le masse che lo producono. In fondo, i grandi leader fascisti non avevano inventato il fascismo, ma si erano appropriati di uno scenario, quello di una piccola o media borghesia che viveva molto male il declassamento provocato dalla sconfitta militare e dalla crisi degli anni Venti, e la cui frustrazione si espresse, si saldò e trovò sfogo nell’odio per il proletariato. È un fenomeno comparabile a quello che si sta producendo negli Stati Uniti e in Europa, con il risentimento del piccolo bianco disprezzato e dimenticato a vantaggio delle minoranze visibili, nere, ispaniche, dei profughi senza documenti, delle donne e degli omosessuali.
«Forse è il momento di fare la distinzione tra le vecchie forme di fascismo e le nuove. Quelle che lei ha descritto sono le forme del fascismo europeo nella parte centrale del XX secolo.
Con Trump abbiamo una situazione differente, ma che definirei comunque fascista. Da una parte Trump è ricco, mentre la maggioranza di quelli che hanno votato per lui non lo sono. Eppure i lavoratori si sono identificati con lui, perché ha usato il sistema e ha avuto successo. Prendiamo l’esempio di com’è riuscito a sfruttare i debiti per non dover pagare le tasse. Hillary Clinton si sbagliava pensando che le persone comuni, che pagano le tasse, ne sarebbero state oltraggiate. In realtà si è guadagnato la loro ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse.
Loro vorrebbero essere come lui! Il lato fascista arriva, tuttavia, quando si arroga il potere di espellere milioni di persone, o addirittura di mandare Hillary in galera dopo il suo insediamento (su questo punto al momento ha fatto marcia indietro), di stracciare gli accordi commerciali a suo piacimento, di insultare il governo cinese, di chiedere la reintroduzione del waterboarding e di altre forme di tortura. Quando parla in questo modo, agisce come se avesse il potere esclusivo di decidere sulla politica estera, di decidere chi va in prigione, di decidere chi dev’essere espulso, di decidere quali accordi commerciali dovranno essere onorati, quali politiche estere dovranno essere disattese e quali ratificate. Allo stesso modo, quando afferma che vorrebbe picchiare o ammazzare qualcuno che lo interrompe tra la folla, rivela un desiderio omicida che, per dirlo sinceramente, tocca corde sensibili in molte persone.
Quando banalizza il sesso non consensuale o definisce Hillary una “donna meschina”, dà voce a una misoginia molto radicata, e quando giudica gli immigrati messicani degli assassini dà voce a un razzismo di vecchia data. Molti di noi hanno preso la sua arroganza, la sua boria ridicola, il suo razzismo, la sua misoginia, le sue tasse non pagate, per tratti caratteriali autodistruttivi, ma la verità è che per molte delle persone che hanno votato per lui erano cose eccitanti. Nessuno è sicuro che abbia letto la Costituzione, o che gliene importi qualcosa. È proprio questa indifferenza arrogante che attira la gente verso di lui. E questo è un fenomeno fascista. Se trasformerà le sue parole in atti, allora avremo un governo fascista».
Donald Trump ha fatto campagna elettorale in gergo, come tutti i leader fascisti, inventando il proprio “discorso sociale”, un miscuglio di facezie, smorfie, allusioni scatologiche, borbottii, slogan e anatemi.
Più che attraverso un discorso strutturato comunica attraverso segnali, un amalgama di slogan e insulti branditi come una potente arma di delegittimazione delle minoranze. Che analisi fa dello slogan di Donald Trump nel suo reality “The Apprentice”: “You’re fired” (sei licenziato, sei fuori)?
«Ancora una volta, l’atto del linguaggio presuppone che lui solo sia in grado di rifiutare alle persone il loro impiego, la loro posizione o il loro potere. Quello che è riuscito a fare, in parte, è comunicare questo sentimento di potere che si è autodelegato. Ricordiamoci anche che la collera contro le élite culturali prende la forma di una collera contro il femminismo, contro il movimento dei diritti civili, contro la tolleranza religiosa e il multiculturalismo.
Trump ha “liberato” l’odio dai movimenti e dai discorsi pubblici di condanna del razzismo: con Trump, si è liberi di odiare. Si è messo nella posizione di colui che era pronto ad affrontare la condanna pubblica per il suo razzismo e il suo sessismo e sopravvivervi. Anche i suoi sostenitori vogliono vivere il proprio razzismo senza vergogna, e questo spiega l’impennata improvvisa dei reati motivati dall’odio per strada e nei trasporti pubblici, subito dopo le elezioni: le persone si sono sentite “libere” di esprimere il loro razzismo come volevano. Partendo da qui, cosa possiamo fare per liberarci a nostra volta di Trump, “il liberatore”?».
A concentrarsi troppo sulla retorica, il lessico e la grammatica trumpiane si rischia di dimenticare una seconda dimensione, quella corporale, l’enorme “corporeità” delle sue performance nei comizi o nei talk show. Non serve aggiungere altro sulla sua pettinatura o il suo “orangismo”, ma c’è anche una gestualità molto particolare, il movimento delle mani, della bocca, un manierismo che si esprime attraverso mimiche inadatte, gesti ampollosi, una sovraesposizione della sua persona tipica dell’universo dei reality. Le statue di Trump nudo che si sono diffuse sulle piazze pubbliche delle città americane non sono la consacrazione di una forma di sacralità kitsch che prende di mira una sorta di contagio astioso, di provocazione corporale?Vedendolo pensavo alla frase di Kafka: “Uno dei più efficaci mezzi di seduzione del male è l’invito alla lotta”. Come analizza lei l’irruzione sulla scena politica di questa figura da reality?
«Sembra evidente che la presidenza diventa sempre più un fenomeno mediatico. C’è da chiedersi se molte persone non affrontino il voto con lo stesso approccio con cui affrontano le opzioni “Mi piace” e “Non mi piace” di Facebook.
Trump occupa spazio sullo schermo e questo genere di potenza minacciosa si nutre anche delle sue pratiche di molestie sessuali. Va dove vuole, dice quello che vuole e prende quello che vuole. Così, anche se non è carismatico nel senso tradizionale del termine, occupando lo schermo come fa lui guadagna in levatura e in potenza personale. In questo senso, consente un’identificazione con qualcuno che infrange le regole, fa quello che vuole, guadagna soldi, ha rapporti sessuali quando e dove vuole.
La volgarità riempie lo schermo così come vuole riempire il mondo. E molti si rallegrano di vedere questa persona maldestra e così poco intelligente pavoneggiarsi come se fosse il centro del mondo, e conquistare potere per mezzo di questa postura».
Di fronte alle accuse di menzogne, Trump si è difeso dicendo di praticare la cosiddetta “iperbole reale”, “un’esagerazione innocente, ma una forma efficace di promozione”. I media europei utilizzano sempre più spesso l’espressione “post-truth politics”, politica della post-verità, per designare l’assenza di distinzione tra vero e falso, tra realtà e invenzione, caratteristica che secondo Hannah Arendt era il tratto distintivo del totalitarismo. I social network avrebbero creato un nuovo contesto caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, spazi chiusi che si prestano alle dicerie più folli, al complottismo e alla menzogna. E impermeabili al “fact-checking” dei media. Durante la sua campagna Trump ha saputo rivolgersi, attraverso Twitter e Facebook, alle sue piccole repubbliche del risentimento, e federarle creando un’onda sovreccitata. Lei che cosa pensa del concetto di “politica della post-verità”?
«In un modo o nell’altro, non riesco a credere che siano parole dello stesso Trump, ma di qualcuno che cerca di normalizzare e perfino di approvare la sua relazione disinvolta con la verità. Non sono sicura che ci troviamo in una situazione di post-verità.
A me sembra che Trump si scagli contro la verità, e metta bene in chiaro che non pretende di sostenere le sue affermazioni con le prove, né le sue proposte con la logica. Le sue dichiarazioni non sono totalmente arbitrarie, ma è pronto a cambiare posizione continuamente, legandosi unicamente all’occasione, al suo impulso e alla sua efficacia. Per esempio quando ha detto di Hillary Clinton che una volta diventato presidente la “getterebbe in prigione”, è stato acclamato da quelli che la odiavano, anzi questo ha consentito loro di odiarla ancora di più.
Naturalmente non ha il potere di “gettarla in prigione”, e non ne avrà il potere neanche come presidente, senza una procedura penale piuttosto lunga e il giudizio di un tribunale. Ma in quell’istante lui è al di sopra di qualsiasi procedura giuridica, esercita la sua volontà come crede e traccia il modello di quella forma di tirannia che non si preoccupa realmente di sapere se Hillary abbia commesso un reato penale. Al momento, i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. Le sue affermazioni sul fatto che Hillary Clinton non avrebbe vinto il voto popolare senza i milioni che illegalmente hanno votato per lei non possono essere dimostrate, ma in quel momento lui espone in pubblico la sua ferita narcisistica e cerca di delegittimare il voto popolare.
Contestualmente, scarta del tutto l’idea che i voti in suo favore possano essere illegali. Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».
Dopo il 2011 abbiamo visto rinascere, su scala internazionale, movimenti di piazza come Occupy, gli Indignados, la Nuit Debout, le Primavere Arabe… Nel suo ultimo libro, “Notes toward a Performative Theory of Assembly”, lei analizza le condizioni che hanno portato alla comparsa di questi movimenti e le loro implicazioni politiche, estendendo le sue analisi sulla performance politica. Quando dei corpi si radunano in piazza, scrive, sono dotati di un’espressione politica che non si riduce alle rivendicazioni o ai discorsi tenuti dagli attori. Quali sono le forze che impediscono o rendono possibile un’azione plurale di questo genere? Qual è la natura democratica di questi movimenti?
«“Comparsa” forse non è la parola più adatta per tradurre l’inglese appearance, ma bisogna convivere con i fantasmi della lingua.
Le manifestazioni e le riunioni spesso non bastano a produrre dei cambiamenti radicali, ma modificano la nostra percezione di cos’è il “popolo” e affermano le libertà fondamentali che appartengono ai gruppi nella loro pluralità. Non può esserci democrazia senza libertà di manifestazione, e non può esserci manifestazione senza libertà di movimento e di riunione.
Questa libertà presuppone dunque la mobilità fisica e la capacità. Tante manifestazioni pubbliche contro l’austerità e la precarietà presentano dei gruppi, in strada e allo sguardo del pubblico, che subiscono essi stessi un declassamento e una privazione di diritti. Inoltre, manifestando in quel modo affermano l’azione politica collettiva. Perciò, se siamo in grado di pensare alle assemblee parlamentari come parte integrante della democrazia, siamo in grado anche di comprendere il potere extraparlamentare delle manifestazioni di modificare la concezione pubblica di cos’è il popolo.
Soprattutto quando compaiono persone che teoricamente non dovrebbero comparire ci rendiamo conto che in qualsiasi discussione su chi è il popolo la sfera dell’apparenza e i poteri che controllano le sue frontiere e le sue divisioni vengono dati per scontati».
Michel Foucault analizzava la crisi della democrazia a cavallo del V e del IV secolo avanti Cristo ad Atene al tempo stesso come un problema discorsivo, il paradosso del “parlare con franchezza” in democrazia (la “parrèsia” è pervertita) e come uno spostamento della “scena” del politico dall’agorà all’“eklèsia”, cioè dalla città dei cittadini alla corte dei sovrani. Lo sviluppo di queste nuove scene democratiche comparse a partire dal 2011 può essere considerato una rivincita dell’agorà sull’“eklèsia”?
«Prima di chiederci che cosa significa parlare con franchezza al potere dobbiamo chiederci chi può parlare.
A volte, la presenza stessa di coloro che teoricamente dovrebbero restare muti nel discorso pubblico finisce per oltrepassare queste strutture. Quando gli immigrati clandestini manifestano, o quando le vittime di espulsioni si riuniscono, o quando quelli che subiscono la disoccupazione o tagli drastici alla loro pensione si mettono insieme, si iscrivono nell’immaginario e nel discorso in un modo che ci dà un’idea di cos’è o cosa dovrebbe essere il popolo. Certo, presentano delle richieste specifiche, ma mettersi insieme è anche un modo di presentare una richiesta fisica, una rivendicazione che prende corpo nello spazio pubblico e una richiesta pubblica ai poteri politici.
Quindi, in un certo modo, dobbiamo entrare nel dibattito prima di poter parlare con franchezza al potere. Dobbiamo spezzare i vincoli della rappresentanza politica, per svelare la sua violenza e opporci alle sue esclusioni. Fintanto che l’argomento della “sicurezza” continua a servire come giustificazione per l’interdizione e la dispersione delle manifestazioni, delle riunioni e degli accampamenti, la sicurezza sarà usata per decimare i diritti democratici e la democrazia stessa. Solo una mobilitazione su larga scala, una forma di coraggio incarnato e transnazionale, si potrebbe dire, riuscirà a sconfiggere il nazionalismo xenofobo e i vari alibi che oggi minacciano la democrazia».
Traduzione di Fabio Galimberti
«La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni». E invece, questi che hanno occupato il Palazzo...
MicroMega online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)
Lo so, dovremmo esserci abituati, dovremmo avere ormai gli anticorpi, dovremmo non stupirci più. E forse neppure arrabbiarci. Eppure... Eppure, al di là della rabbia, rimane un doppio quesito a cui non è facile trovare soluzione. Il primo riguarda il totale scollamento della classe politica, specialmente quella di governo (centrale e locale), dalla società: i rappresentanti dai rappresentati, gli eletti dagli elettori. Quando poi gli eletti lo sono grazie a una legge incostituzionale, oppure non hanno ricevuto alcun mandato parlamentare, neppure per tal via (si ricordi il caso clamoroso di Matteo Renzi), la cosa diventa evidentemente più grave.
In breve, lor signori se ne infischiano di quello che "la gente", ossia il popolo, il demos fondamento della "democrazia", chiede. Hanno "straperso" (cito Renzi) al referendum, e hanno fatto in tutta tranquillità un governo del "Sì". Hanno conservato al potere tutti coloro che si erano contraddistinti per accanimento nella campagna per l'approvazione della "riforma costituzionale", e addirittura hanno promosso la signora Maria Elena Boschi: un vero e proprio calcio in faccia a 20 milioni di cittadini e cittadine. E così, vanno avanti per la loro strada, incuranti, ciechi, sordi, insopportabilmente autoreferenziali, o semplicemente piegati ai veri loro "elettori": grandi banche, alta finanza, cartelli di imprenditori, BCE, e così via.
Ieri in Parlamento si è votato di nuovo a favore del TAV, opera sciagurata, costosissima, e fonte di guai, per tutti. Ogni studio di settore, geologico, economico, sociologico, paesaggistico, ha dimostrato, con numeri veri (non quelli fasulli del fasullo “Osservatorio” governativo), che il “supertreno” in Val di Susa non ha senso, e potrà portare benefici finanziari a pochi, sostanzialmente le ditte appaltatrici, e danni a tutti gli altri cittadini, e in primis ai valsusini, vessati, oppressi, da una vera e propria occupazione militare del territorio che dura da troppo tempo, con un incredibile accanimento di magistratura (la Procura di Torino) e forze dell’ordine, che in questo caso davvero sembrano le forze dell’ordine padronale. E allora: perché non sospenderla? perché non impiegare le risorse nelle opere utili, necessarie, improcrastinabili? Messa in sicurezza del territorio, misure di prevenzione antisismica, riassetto idrogeologico, per esempio... No. Si va avanti, imperterriti.
Altro esempio; i voucher, un insulto a chi lavora, un abominevole ritorno all’indietro, culturale prima che ideologico, e il Jobs act, un fallimento clamoroso, secondo dati certificati dall'Istat e da altri istituti: un ceto politico responsabile cancellerebbe gli uni e l'altro. Invece no, si va avanti. E l'orrido Poletti, ministro dei miei Lavoro, dopo aver lodato voucher e Jobs Act, se ne esce con una frase che è un capolavoro di imbecillità, un vero e proprio atto di guerra a una generazione che quelli come lui hanno costretto alla fuga da questo Paese condannato.
Non nuovo a uscite come l’ultima, del 19 febbraio scorso, Poletti, che ha un curriculum scolastico di Istituto tecnico (e basta!), si permette di deridere i giovani che stanno fuori. Giovani con tanto di lauree, spesso dottorati e master, che la classe politica ha deciso scientemente di espellere, incurante dei danni sociali di medio e lungo termine che una tale decisione comporterà. Pochi giorni prima sempre lui, il “ministro cooperativo”, come è stato etichettato felicemente, aveva sentenziato: «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto».
Non ci ha neppure spiegato quale laurea si possa raggiungere a 21 anni (ma è poco pratico di università….: allora glielo spiego: a quell’età anche il più solerte studente potrebbe al massimo una Triennale che vale come il 2 di picche) E ha un’altra aggravante, quella di suo figlio, ultraquarantenne (non laureato, ça va sans dire!) che non ha avuto bisogno di emigrare, lavorando per uno dei tanti gangli del sistema cooperativistico una volta detto “rosso”, e in particolare per una cooperativa giornalistica che gode di lauti finanziamenti pubblici. Un altro insulto alle migliaia di giovani bravi, che si arrabattano con collaborazioni giornalistiche retribuite con oboli miserandi, non retribuite affatto. E naturalmente leggo sui giornali “il governo fa quadrato intorno al ministro del Lavoro”…
Ma cambiamo settore: e dal Lavoro (o meglio dal Non lavoro) passiamo all'istruzione? Stiamo aspettando che la nuova ministra, anch’essa priva di uno straccetto di laurea (forse persino di un vero diploma di Scuola superiore) cancelli la "Buona scuola": lo farà? No, non lo farà, magari al massimo proverà ad escogitare “aggiustamenti”, che forse finiranno per essere le classiche toppe peggio del buco. E, rimanendo nel settore, poiché non viene immediatamente ritirata la “riforma Gelmini”, che ha devastato gli atenei italiani? Oltre tutto una legge voluta e realizzata (la sola!) da Berlusconi. Allora il PD, sia pure senza barricate, era formalmente contrario.
Da anni è al governo. Perché l’ha tenuta, quell’osceno “ridisegno” dell’Università italiana? Esiste l’istituto dell’abrogazione: la sola cosa da fare, in casi di leggi cattive e dannose, è tirare un tratto di penna: abrogare la Legge Gelmini, abrogare il Jobs act, abrogare la “buona scuola”, e aggiungo la cosiddetta “riforma della Pubblica Amministrazione, firmata dalla ministra Madia, bocciata clamorosamente dalla Corte costituzionale: risultato? La legge è là, operante, e la Madia è stata confermata al suo dicastero.
E così seguitando, in un infinito elenco di scorrettezze istituzionali, all’insegna di una gigantesca stoltezza politica. In fondo non ha senso lamentarsene. Questi governanti sono in grado di essere altro da sé? Possono essere all’altezza dei ruoli che ricoprono? La risposta è nei loro atti. In ciò che fanno quotidianamente e in ciò che non fanno. La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni. Dopo la vittoria clamorosa del “No”, nessun ministro del governo Renzi avrebbe dovuto essere confermato. Si sarebbe dovuto fare un governo istituzionale il cui unico compito era portare il Paese alle elezioni. Si è fatto un Renzi bis senza Renzi, ma nella sua ombra. Scandalosamente, tanto più per coloro che (Boschi, Fedeli…) avevano garantito le proprie dimissioni dal governo o addirittura dal Parlamento in caso di bocciatura della “riforma”.
Sono là, promosse entrambe. E vanno coi loro sodali avanti per la loro strada che non è la nostra. Vanno avanti, incuranti, sordi e ciechi davanti ai bisogni più evidenti del Paese, alle richieste più drammatiche della società, di quella parte sempre più ampia (dati Istat alla mano) di vecchi e nuovi poveri, di disoccupati, inoccupati, cassintegrati, di giovani o ex giovani senza futuro. I Poletti (un nome e direi anche ormai un volto simbolo), vanno avanti per una strada senza uscita, resistono alle loro scrivanie, mentre la casa brucia. Il Palazzo non si piega alla Piazza. Anche se nel Palazzo restano in pochi e la Piazza pullula di umanità scontenta e furiosa. Ma i Poletti sono tranquilli. Procedono. Restano. Governano. Un cupo “muoia Sansone con tutti i filistei” sembra guidare il loro agire.
Il secondo problema che mi pongo, riguarda la provenienza politica di larga parte di costoro, quelli del “Sì”, quelli del Tav, quelli del Jobs Act, quelli che l’articolo-18-è-superato, quelli della “Costituzione va aggiornata”, quelli dell’ “abbiamo una banca”…: ebbene, costoro da dove vengono? Dal PCI-PDS. E allora ti chiedi: ma come? Si sono formati nel Partito comunista? In quello di Enrico Berlinguer!? Certo non sono nati politicamente nel 1989. Allora qualche domanda su quella tradizione, o meglio sugli esiti di quella tradizione nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, quanto meno, bisognerà porsela.
Quando Berlinguer nella famosissima intervista a Eugenio Scalfari nel 1981, parlava della “degenerazione” dei partiti, divenuti mere “macchine di potere”, quanta consapevolezza aveva che il suo proprio partito era divenuto esattamente così? Forse era un timore che non osava confessare pubblicamene, forse un monito ai suoi e un avvertimento. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che con la sua morte, pochi anni dopo, il freno che la sua figura in sè stessa costituiva, venne meno. E fu campo libero per le centinaia, le migliaia di Poletti che vivevano nel sottobosco della tradizione del PCI, una tradizione che col comunismo aveva ben poco a che fare, e che invece si era mischiata e fusa con ambienti del socialismo craxiano, con ambienti bancari, imprenditoriali, ecclesiastici (a cominciare dalla cattolicissima Compagnia delle Opere).
La mutazione genetica del Partito non è iniziata con la Bolognina di Achille Occhetto, ma era in corso da tempo, da molto tempo. E oggi, ahinoi, dobbiamo constatare che proprio coloro che ne provengono sono i più fervidi esecutori delle politiche di aggressione alla democrazia e delle pratiche di disgregazione sociale. Un tragico paradosso per chi aveva creduto nella giustizia, nell’eguaglianza, nella libertà. Per fortuna, potremmo concludere, sono tutti morti. E i sopravvissuti non sembrano aver conservato neppure memoria di un tempo in cui essere comunista significava, essenzialmente, due cose: essere onesti e stare “dalla parte” del proletariato.
21 dicembre 1956. Stati Uniti . Sentenza della corte suprema che ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblico. Riportiamo un approfondimento di Nadia Venturini estratto da un articolo del
La Stampa, 30 novembre 2015 (c.m.c.)
Il Sud 50 anni fa
E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma.
I neri sapevano dove nascondersi per organizzare le loro azioni
La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi.
Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani.
Chi era Rosa Parks prima di diventare famosa
Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.
Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.
Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.
L’intervento di Martin Luhter King in difesa di Parks
Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.
Non soltanto Rosa:le altre donne della ribellione
Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione, ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera. Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker, che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.
Jo Ann Robinson . fu lei a ideare il boicottaggiodei bus
Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.
I neri pagavano il biglietto e poi venivano lasciati a terra
Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.
Quella notte passata a stampare volantini di propaganda
Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie.
La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.
Le domestiche di colore ostentavano calma a casa dei bianchi
Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale. Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla.
Bernice Robinson e l'attivismo delle parrucchiere
I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.
Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.
Le beauticians nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale. La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere informazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.
Septima Poinsette Clark, insegnante e rivoluzionaria
Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.
Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo.
Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.
Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.
Il manifesto, 20 dicembre 2016 (p.d.)
L’Osservatorio sul precariato dell’Inps conferma il boom dei
voucher: tra gennaio e ottobre 2016 sono stati venduti 121,5 milioni «buoni lavoro», valore nominale di 10 euro, destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio. Rispetto ai primi dieci mesi del 2015, quando il nuovo precariato aveva già battuto il record del 2014 (+67,6%), si tratta di un incremento del 32,3%.
La norma sulla tracciabilità dei voucher, da poco attivata, non sembra fermare il boom del lavoro a scontrino che integra e a volte sostituisce il lavoro propriamente detto. Il ministro del lavoro Poletti ieri ha detto di aspettare i risultati a partire «dal prossimo mese. Se i dati ci diranno che anche questo strumento non è sufficiente a riposizionare correttamente i voucher la cosa che faremo è rimetterci le mani».
Il pressing della sinistra Pd sul governo Gentiloni continua, mentre incombe la decisione della Consulta sui referendum della Cgil su voucher, articolo 18 e appalti. «Dietro questi voucher dilaga una forma di precarietà indifendibile che colpisce i più deboli – sostiene Roberto Speranza che si è candidato alla segreteria del Pd – In Parlamento c’è già una buona proposta. Non si può più aspettare». «Occorre tornare allo spirito e alla lettera della legge Biagi – sostiene Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro del Senato – Sull’articolo 18, infine, la situazione è più complessa: sarebbe prioritario concentrarsi sui temi dei licenziamenti disciplinari, di quelli collettivi e del mantenimento dell’articolo 18 nel caso di cambio di appalto».
«Sui voucher questo strumento non ci possono essere interventi correttivi o migliorativi: l’unica soluzione è l’abolizione che dovrebbe fare il Parlamento. In caso contrario si vada al referendum» sostiene Arturo Scotto (Sinistra Italiana). «Poletti dice anche che il jobs act fa bene al Paese e non vede motivi per i quali si debba modificare. Per fortuna li vedono gli italiani e li vedranno anche nelle urne» aggiunge Pippo Civati (Possibile).
Il monitoraggio dell'Inps permette di analizzare altri aspetti decisivi del Jobs Act che il neo-presidente del consiglio Gentiloni «non ha nessunissima intenzione di cambiare sull’articolo 18». Continuano a calare le assunzioni a tempo indeterminato senza articolo 18, il settore sul quale sono stati investiti almeno 11 miliardi di euro in sgravi contributivi triennali alle imprese. Dopo il taglio degli incentivi (da 8.040 a 3.250 euro per neo-assunto) questa tipologia di contratti ha registrato una diminuzione di 492 mila unità, pari a –32% rispetto ai primi dieci mesi del 2015.
Nel 2016 le assunzioni con esonero contributivo biennale sono state 323 mila, le trasformazioni dei rapporti a termine che beneficiano del medesimo incentivo ammontano a 117 mila, per un totale di 440 mila rapporti di lavoro agevolati, il 33,9% delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato. Rispetto al 2015, la differenza è enorme: il rapporto era pari al 60,8%. Gli incentivi continueranno fino al 2018. Le imprese del Sud li incasseranno a pieno titolo anche nel 2017.
Crescono i licenziamenti tra chi ha un contratto a tempo indeterminato, in particolare quelli per giustificato motivo oggettivo e quelli per giusta causa: i primi sono passati dai 380.292 dei primi dieci mesi del 2015 ai 399.613 del 2016; i secondi da 47.728 dello scorso anno ai 60.817 di quest’anno. I licenziamenti complessivi sul tempo indeterminato (507 mila) sono in aumento rispetto al 2015 (490 mila) e diminuiscono rispetto a due anni fa (514 mila). L’obbligo alle dimissioni on line abbia inciso su questo andamento.
Aumenta il precariato che resta la forma dominante del mercato del lavoro. Lo si vede dai numeri assoluti. Il totale delle assunzioni a tempo indeterminato, a termine, apprendistato o stagionali avvenute nel settore privato sono state 4 milioni e 833 mila nei primi dieci mesi del 2016. I contratti a tempo determinato sono 3 milioni e 106 mila, in aumento sia sul 2015 (+4,9%), sia sul 2014 (+7,6%). Le assunzioni con un contratto in apprendistato sono aumentate di 38 mila unità (+24,5%).
La ricetta del jobs act è un assistenzialismo statale alle imprese in un’economia senza domanda. Questa è l’eredità che il renzismo ha lasciato al governo senza Renzi: crescita dilagante del precariato dentro e fuori il perimetro del lavoro subordinato e un trasferimento di ingenti risorse pubbliche alle imprese.
Il 75% dei nuovi rapporti di lavoro sono precari. Questo è il calcolo della Fondazione di Vittorio (Cgil), confermato anche dal nuovo report dell’Inps. «Il Jobs Act è una ricetta amara e sbagliata – sostiene Tania Sacchetti (Cgil) – non produce occupazione di qualità, dispensa meno diritto, tutele nel lavoro e lascia piena discrezionalità alle imprese».
«Dobbiamo chiederci se capiamo chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile. Siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici quelle donne? Le riconosciamo soggetti di trasformazione?»
comune-info, 18 dicembre 2016 (c.m.c.)
Come abbiamo visto in occasione della splendida manifestazione del 26 novembre a Roma e nel dibattito del giorno successivo, tra i moltissimi gruppi e associazioni di donne in lotta per denunciare le violenze subite dalle donne ovunque nel mondo, è emerso quest’anno anche il drammatico tema delle violenze e degli abusi che le migranti richiedenti asilo sono costrette a subire nelle loro tremende odissee.
Si tratta infatti di una questione centrale per le femministe di oggi, come dice in questo appello Helen Pankhurst, nipote della celebre suffragetta Emmeline:
«Quando la situazione di una donna è così disperata che è costretta ad impegnarsi in ‘sesso di sopravvivenza’ per garantirsi una protezione maschile per il suo viaggio, questa è una questione femminista. Quando una donna è costretta ad arrancare per centinaia di miglia a piedi, pesantemente incinta e con bambini malnutriti in braccio, questa è una questione femminista… quando le donne abortiscono sul ciglio della strada in un paese sconosciuto; quando le madri sono costrette a mandare i propri figli non accompagnati sui gommoni nel buio, per niente sicure di poterli rivedere vivi; quando le donne che stanno raggiungendo il Regno Unito sono maltrattate e umiliate, o detenute durante la gravidanza per il reato di richiedere asilo: queste sono questioni femministe. Urgenti, disperate, scandalose questioni femministe. E, come femministe, dobbiamo agire».
Non c’è alcun dubbio, siamo di fronte a una delle più drammatiche questioni femministe della nostra epoca. Ma c’è un grande pericolo nella costruzione e nella narrazione della categoria “migrante”, assurta nel bene e nel male a centro di ogni discorso politico, culturale, mediatico, antropologico, quasi fosse uno schermo nero, un black mirror utile a coprire qualsiasi finzione o distorsione della realtà, in un senso e nel senso opposto.
Su una sorta di video eternamente acceso, scorrono a ritmo continuo fuggevoli immagini di donne, uomini, bambini che perdono la loro corporeità, la loro verità, per entrare a far parte di una rappresentazione che si confonde con mille altre cui assistiamo dalle nostre case. La popolazione migrante diventa così un teorico “insieme” reso compatto e inconoscibile dalla spettacolarizzazione che ce la offre in pasto, stimolando secondo i casi indecenti rifiuti o lancinanti sensi di colpa.
Quando poi nelle piazze, negli alberghi, nei paesi sperduti entrano in scena i corpi veri e l’insieme inizia a sciogliersi, allora appare un mondo di soli uomini che “fanno paura” perché appaiono “troppo giovani, troppo alti, troppo forti”, grazie a un immaginario regressivo che divide il mondo tra noi e loro, i “minacciosi altri” da cui difendere le “nostre donne”, che invece nella realtà sappiamo essere esposte alle violenze di partner autoctoni. Ma dove sono le tante donne che in tv abbiamo visto sbarcare dalle navi, stanche, spaurite, avvolte nelle gellabie, spesso con i bambini stretti in braccio? Che cosa accade dopo lo sbarco, perché sembrano quasi svanire nel nulla?
È un fenomeno inquietante: la presenza delle donne migranti nelle nostre città e nei nostri territori viene resa invisibile da quei dispositivi ufficialmente destinati a “proteggerle”, che nei fatti le sottraggono immediatamente alla vista ricoverandole in centri impenetrabili. Ci rendono così impossibile monitorarne le condizioni, il rispetto dei diritti, la regolarità delle procedure, e soprattutto ci impediscono il contatto, l’inizio di un dialogo, il loro riconoscimento come persone.
Tuttavia l’inconoscibilità dei soggetti migranti, e in particolare delle donne, viene prodotta anche dall’opacità della stessa categoria “migrante” che cancella e appiattisce le differenze con una forzata universalizzazione. Chiediamoci allora se sappiamo metterci davvero in gioco rovesciando la comune percezione di questa realtà anche dentro di noi. Dobbiamo chiederci se capiamo davvero chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile.
Una prima cancellazione riguarda la consapevolezza della ricchezza culturale dei paesi d’origine dei richiedenti asilo. Dire migranti per una troppo grande quantità di persone in Occidente significa ormai pensare a qualcosa di nebuloso senza storia e senza cultura, e senza differenze. Un’ignoranza che impedisce di leggere la realtà, fra l’altro cancellando anche la memoria di un femminismo non occidentale di antica data (risale al 1944 il primo Congresso femminista arabo organizzato da Hodā Shaʿrāwī, egiziana, pioniera del movimento femminista egiziano e arabo).
Queste nuove presenze in parte ci disorientano e la difficoltà di entrare con loro in un vero rapporto ci spinge a cristallizzarle nel momento dell’esodo, senza vedere il prima e soprattutto il dopo della loro vicenda. Eppure la rottura dell’ordine che queste donne sperimentano nell’esilio, rischiando violenze, abusi e persino la morte, esprime un’eccedenza sovversiva rispetto alla norma omologatrice del mondo globalizzato, come dice Lidia Curti :
«L’oscillazione delle identità e dei linguaggi spezza la compattezza della parola "migrante", una superficie che rischia di essere impenetrabile, limita esseri pur complessi e mutevoli a un solo momento, cristallizzati nel passaggio tra origine e destinazione, nella fuga come in un fermo immagine. Senza più movimento o differenziazioni […] È anche soggetto politico non univoco che parla contro la violenza arbitraria della legge e di quella nascosta nelle pieghe della vita quotidiana, un soggetto politico che mette in questione il nostro concetto di modernità».
Allora la domanda da porci in particolare adesso, rispetto alle migranti che arrivano da noi in questa fase storica, è se siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici. Non sono solo persone che hanno attraversato tutti gli orrori possibili, sono anche e soprattutto soggetti di autotrasformazione e trasformazione. Hanno compiuto un viaggio nell’altrove, un viaggio nel futuro che mette in discussione le nostre regole, il nostro concetto di modernità, il nostro femminismo, la nostra idea di democrazia, così carente da molti punti di vista.
Sempre secondo Curti:«La migrante ha costante coscienza di sé, di ciò che è e di ciò che diviene. La nuova appartenenza richiede un passaggio interiore tra quello che è e ciò cui aspira – o deve aspirare – ad essere. Ella è uno spazio di differenze, un soggetto molteplice, la cui voce richiede ascolto attento alle pieghe della sua condizione e non la sommaria rappresentazione che la parola evoca: l’identità migrante è instabile, fluida, ricca di ibridità».
Quindi non si tratta solo di denunciare e svelare le violenze dei nostri meccanismi occidentali ai loro danni, dobbiamo anche e soprattutto costruire il terreno di confronto e disponibilità al nostro stesso, profondo mutamento. Dobbiamo rompere quella categoria compatta come un muro che cancella le individualità, le soggettività, le storie, sviluppando un progetto che non finga un’inesistente identità fra noi, diverse per status, colore, origine, e non ancora ibridate dalla sperata mescolanza, ma metta in luce ciò che realmente ci accomuna, l’essere tutte – noi e loro – corpo estraneo e straniero nell’ordine patriarcale.
Solo accettando il mutamento che ci mette in discussione e rompe tutte le categorie, potremo forse riuscire a far emergere le voci e la forza delle donne migranti come soggetti autonomi che stanno mutando se stesse, il luogo dell’origine e quello di destinazione.
Proviamo allora a uscire dalle generalizzazioni e dalle categorie per trovare insieme strade di libertà alla ricerca di una nuova cittadinanza «che prescinda dalla nazione e si riferisca ad affiliazioni diverse. Si può pensare a un movimento sociale, culturale o politico; un evento congiunturale; un’aura affettiva; una localizzazione geografica diversa da quella tradizionale, che tenga conto delle complesse intraetnicità che coinvolgono il nostro rapporto con l’altro e dell’altro con noi», suggerisce Lidia Curti, e questa credo sia la direzione verso cui potremmo muoverci come femministe oggi.
Piccola (e utilissima) storia delle modifiche alla costituzione: ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto (perchè non si dveva fare), e ciò che si dovrebbe fare. Trascura però un punto: ciò che si dovrebbe
attuareLettera al direttore de La Repubblica, 18 dicembre 2016
Caro direttore, fino ai primi anni Ottanta è stato pacifico, almeno in dottrina, che le revisioni costituzionali dovessero avere un contenuto omogeneo e puntuale. Si riteneva cioè che, secondo l’art. 138 della Costituzione, fossero modificabili soltanto singoli articoli della Costituzione o tutt’al più una pluralità di articoli tra loro connessi, in modo tale che, nell’eventuale voto confermativo, gli elettori potessero esprimersi su una sola questione.
Le cose cominciarono a cambiare con l’istituzione della cosiddetta Commissione Bozzi, che nel 1985 propose una vasta modifica anche della Parte prima della Costituzione. Il primo vero tentativo di una mega-riforma lo si ebbe però solo con la Commissione De Mita- Iotti (1993), cui fu affidato il compito di elaborare un “progetto organico” di riforma relativo a quasi tutta la Parte seconda della Costituzione, che non fu nemmeno posto all’esame delle Camere, in conseguenza dell’anticipata conclusione della XI legislatura.
Il secondo tentativo lo si ebbe con la Commissione D’Alema che si impegnò a lungo, nella XIII legislatura, per elaborare una riforma in senso federale dello Stato con il Presidente della Repubblica eletto dal popolo, ma la riforma si arenò a seguito del venir meno dell’appoggio di Forza Italia. Il terzo tentativo fu quello della mega-riforma Berlusconi - bocciata dal popolo (2006) - che pretendeva anch’essa di instaurare una forma di Stato federale, con un premierato assoluto e una diversa composizione (federale) della Corte costituzionale.
Il quarto tentativo è stata la mega-riforma Letta (2013), che prevedeva una legge costituzionale “madre”, cui sarebbero dovute seguire svariate leggi costituzionali “figlie” afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo: modifica che si arenò non solo per l’ostracismo del M5S ma soprattutto perché Forza Italia fece mancare l’appoggio alla maggioranza poco prima del voto definitivo. Il quinto e ultimo tentativo è quello recente della discutibilissima mega-riforma Boschi, sonoramente bocciata dagli elettori.
In conclusione, nessuna mega-riforma (dal contenuto disomogeneo) ha mai avuto successo. Per contro le leggi di revisione costituzionale finora approvate sono tutte omogenee e puntuali. Ne ricordo alcune: l’estradizione dei rei del delitto di genocidio; la previsione della circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere; la pari opportunità tra donne e uomini; la pari durata delle due Camere; l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari; l’attribuzione alle Camere del potere, a maggioranza dei due terzi, di disporre l’amnistia e l’indulto; la diversa disciplina costituzionale del bilancio dello Stato: l’eventuale possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere anche negli ultimi sei mesi; la sottoposizione del Presidente del Consiglio e dei Ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; la sostituzione del titolo V della Costituzione relativo a Regioni, Province e Comuni.
Ebbene, non poche sono le modifiche costituzionali, omogenee e puntuali, che potrebbero essere approvate dalle Camere addirittura quasi all’unanimità. Innanzi tutto l’eliminazione della seconda parte del terzo comma dell’art. 30 della Costituzione che presuppone la differenza giuridica tra filiazione legittima e la filiazione naturale, che già da tempo è stata eliminata dal legislatore ordinario (e dalla pubblica opinione), per cui è priva di significato giuridico. E poi l’eliminazione del Cnel, la cui permanenza come non ha ostacolato la vittoria del No, così anche non ha minimamente influenzato gli elettori che hanno votato Sì.
Aldilà di queste due modifiche che dovrebbero ritenersi scontate, penso a talune semplici modifiche che troverebbero ostacoli solo in coloro che auspicano mega-riforme che potrebbero non arrivare mai (per cui meglio un uovo oggi che una gallina domani!). Modifiche che però avrebbero anche un grande significato politico.
La riduzione dei deputati a 400 e i senatori a 200, con un comitato misto per superare le eventuali divergenze; l’introduzione della sfiducia costruttiva nei confronti del Governo, tanto più necessaria qualora si dovesse tornare ad un sistema elettorale proporzionale; la riattribuzione alla competenza esclusiva dello Stato di alcune materie troppo generosamente assegnate nel 2001 alla potestà legislativa concorrente delle Regioni che hanno determinato un immenso contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale (istruzione; porti e aeroporti civili; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; grandi reti di trasporto; trasporto e di navigazione; turismo; radiodiffusione e telecomunicazione ecc.).
Modifiche, tutte queste, che comunque dovrebbero riguardare la futura legislatura, perché l’attuale, quand’anche ci fosse tempo sufficiente, è viziata nella sua rappresentatività popolare (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale) per cui, come non avrebbe dovuto approvare la mega- riforma Boschi, non potrebbe nemmeno approvare queste minori modifiche.