Definire un benessere ecologicamente sostenibile. Per immaginare un modo di vivere alternativo all'impero delle merci, occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo veramente bisogno».
il manifesto, "Le Monde diplomatique" 16 febbraio 2017 (c.m.c.)
Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.
La transizione ecologica chiede di fare scelte nel campo dei consumi. Ma su quale base? Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia (1).
Un negaWatt è un’unità di energia risparmiata – «nega» sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici e all’accorciamento dei circuiti economici, è possibile secondo gli autori mettere in piedi un sistema economico ecologicamente sostenibile a scala nazionale e anche oltre. Anche allo stato attuale della tecnologia, la nostra società già dispone di importanti «giacimenti di negaWatt».
Il consumismo non è sostenibile, perché aumenta continuamente i flussi di materie prime e il consumo di energia. I suoi effetti alienanti sulle persone, inoltre, non hanno più bisogno di essere dimostrati. Una società «nega- Watt» è una società della sobrietà in cui alcune possibilità di consumo sono deliberatamente scartate perché considerate nefaste. Ma sulla base di quali criteri?
Per rispondere a questa domanda, gli autori del Manifeste distinguono fra i bisogni umani autentici, legittimi, che occorrerà dunque continuare a soddisfare, e i bisogni artificiali, illegittimi, dei quali occorrerà sbarazzarsi. Il primo gruppo comprende quelli definiti «vitali», «essenziali», «indispensabili», «utili» e «convenienti». I secondi quelli ritenuti «accessori», futili», «stravaganti», «inaccettabili», «egoisti».
A questo punto si pongono due problemi. In primo luogo, come definire un bisogno «essenziale»? Che cosa lo distingue da un bisogno «accessorio» o «inaccettabile»? E poi, chi decide?
Quali meccanismi o istituzioni conferiranno una legittimità alla scelta di soddisfare un determinato bisogno anziché un altro? Il Manifeste négaWatt non dice niente in merito.
Per rispondere a queste domande, è opportuno fare riferimento a due pensatori critici e pionieri dell’ecologia politica: André Gorz e Ágnes Heller, autori negli anni 1960 e 1970 di una teoria dei bisogni sofisticata e di grande attualità (2). Entrambi hanno affrontato questi temi a partire da una riflessione sull’alienazione, che può essere misurata sulla base dei bisogni autentici. In effetti, si è alienati rispetto a uno stato ideale al quale si cerca di tornare, o che si cerca di raggiungere.
Il concetto indica il processo mediante il quale il capitalismo suscita bisogni artificiali che ci allontanano da questo stato. Oltre a essere alienanti, la maggior parte di questi bisogni sono ecologicamente irrealistici
Un compito urgentissimo del nostro tempo
Che cos’è un bisogno «autentico»? Si pensa naturalmente alle esigenze dalle quali dipendono la sopravvivenza e il benessere dell’organismo: mangiare, bere, proteggersi dal freddo, ad esempio. Nei paesi del Sud del mondo, e anche del Nord, alcuni di questi bisogni elementari non sono soddisfatti. Altri, che lo erano prima, lo sono sempre meno. Fino a tempi recenti era normale respirare un’aria non inquinata; ma nelle megalopoli contemporanee è diventato difficile. Vale anche per il sonno.
Oggi, a causa dell’inquinamento luminoso, molte persone stentano ad addormentarsi, perché l’onnipresenza della luce nelle città ritarda la sintesi della melatonina (chiamata «ormone del sonno»). In alcuni paesi, la lotta contro l’inquinamento luminoso ha portato alla nascita di movimenti sociali che rivendicano il «diritto al buio» e chiedono la creazione di «parchi stellati» non inquinati dalla luce artificiale (3 ).
Anche l’esempio dell’inquinamento sonoro è molto significativo per tanti cittadini. Somme di denaro sempre maggiori sono destinate all’insonorizzazione delle abitazioni, per soddisfare un bisogno – il silenzio – prima gratuito. Queste nuove spese sono suscettibili di ridurre il tasso di profitto, ma al tempo stesso offrono fonti di guadagno, per esempio per le imprese specializzate.
Non tutti i bisogni «autentici» sono di ordine biologico. Amare ed essere amati, acquisire conoscenze, dare prova di autonomia e creatività manuale e intellettuale, prendere parte alla vita pubblica, contemplare la natura... Sul piano fisiologico, se ne può certo fare a meno. Ma questi bisogni sono contestuali a una vita umana degna di essere vissuta. André Gorz li chiama «bisogni qualitativi»; Ágnes Heller, «bisogni radicali».
I bisogni qualitativi o radicali si fondano su un paradosso. Il capitalismo, benché sfrutti e alieni, produce alla lunga un certo benessere materiale per importanti settori della popolazione. In tal modo libera gli individui dall’obbligo di lottare quotidianamente per assicurarsi la sopravvivenza.
Nuove aspirazioni, qualitative, acquistano dunque importanza. Ma, man mano che diventa più potente, il capitalismo ne impedisce la piena realizzazione. La divisione del lavoro chiude la persona in funzioni e competenze anguste per tutta la vita, impedendo il libero sviluppo della gamma delle facoltà umane. Al tempo stesso, il consumismo seppellisce i bisogni autentici sotto bisogni fittizi. Raramente l’acquisto di una merce soddisfa una vera mancanza. Procura una soddisfazione momentanea; poi il desiderio che la merce aveva creato si rivolge a un’altra vetrina.
I bisogni autentici, costitutivi del nostro essere, non possono trovare soddisfazione all’interno dell’attuale sistema economico. Ecco perché sono il fermento di movimenti di emancipazione. «Il bisogno è rivoluzionario in nuce», diceva André Gorz (4). La ricerca del suo soddisfacimento porta presto o tardi gli individui a sottoporre a critica il sistema.
I bisogni qualitativi evolvono storicamente. Viaggiare, per esempio, permette all’individuo di arricchire le proprie conoscenze e aprirsi all’alterità. Fino alla metà del XX secolo, viaggiavano solo le élite. Adesso è una pratica resa democratica. Si potrebbe definire il progresso sociale con la comparsa di bisogni sempre più arricchenti e sofisticati, e accessibili ai più.
Ma ecco gli aspetti nefasti. Il trasporto aereo proposto da compagnie low cost contribuisce certo a rendere il viaggio accessibile alle classi popolari, ma emette anche enormi quantità-di gas serra, e distrugge le zone dove i turisti corrono in massa... a guardare altri turisti che stanno guardando quel che c’è da guardare. Viaggiare è diventato un bisogno autentico; ma occorrerà inventare nuovi modi di spostarsi, adatti al mondo di domani.
Se il progresso sociale provoca talvolta effetti perversi, certi bisogni nefasti all’origine possono, al contrario, diventare sostenibili con il tempo. Oggi il possesso di uno smartphone è un bisogno egoista. Questi telefoni contengono «minerali di sangue» – tungsteno, tantalio, stagno e oro –, la cui estrazione provoca conflitti armati e gravi danni ambientali. Ma il problema non è l’apparecchio in sé. Se nascerà uno smartphone «equo» – il Fairphone sembra prefigurarlo (5) –, non c’è ragione perché questo oggetto sia bandito nelle società future. Tanto più che ha portato a forme di socialità nuove, con il continuo accesso alle reti sociali, e grazie al suo utilizzo fotografico. Che incoraggi il narcisismo o produca nevrosi negli utenti non è certo inevitabile. In questo senso, non si può escludere che lo smartphone, attraverso alcuni suoi utilizzi, si trasformi progressivamente in bisogno qualitativo, come è già avvenuto per il viaggio.
Secondo André Gorz, il motto della società capitalista è: « Quello che è buono per tutti non vale nulla. Sei rispettabile solo se hai “meglio” degli altri» (6). Gli si può contrapporre un motto ecologista: « È degno di te solo quello che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né avvilisce nessuno». Agli occhi di Gorz, la particolarità di un bisogno qualitativo è quella di non lasciare spazio alla «distinzione». Nel regime capitalista, il consumo ha in effetti una dimensione di ostentazione.
Acquistare l’ultimo modello di automobile equivale a esibire uno status sociale (reale o presunto). Un bel giorno, tuttavia, il modello passa di moda e il suo potere distintivo viene meno, provocando il bisogno di un altro acquisto. Questa fuga in avanti insita nell’economia di mercato costringe le imprese che si fanno concorrenza a produrre merci sempre nuove.
Come farla finita con questa logica di distinzione produttivistica? Per esempio, allungando la durata di vita degli oggetti. Una petizione lanciata da Amis de la Terre (Amici della Terra) chiede che si porti da due a dieci anni la garanzia per le merci un obbligo sancito da leggi europee (7).
Oltre l’80% degli oggetti in garanzia viene riparato; la percentuale scende a meno del 40% una volta scaduta la garanzia. Morale: più la garanzia è lunga, più gli oggetti durano, e la quantità di merci vendute e dunque prodotte diminuisce, limitando in tal modo le logiche di distinzione che spesso si basano sull’effetto novità. La garanzia è la lotta di classe applicata alla durata di vita degli oggetti.
Chi determina il carattere legittimo o no di un bisogno? Qui c’è un pericolo, che Ágnes Heller chiama la «dittatura dei bisogni» (8), analoga a quella che vigeva nell’Urss. Se è una burocrazia di esperti autoproclamati a decidere quali sono i bisogni «autentici», e di conseguenza le scelte di produzione e di consumo, queste hanno poche possibilità di essere giudiziose e legittime.
Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.
È difficile immaginare questo meccanismo. Tracciarne i contorni è un compito urgente del nostro tempo; da questo dipende la costruzione di una società giusta e sostenibile. Il potere pubblico ha certamente un ruolo da giocare, per esempio tassando i bisogni futili per democratizzare i bisogni autentici, regolando le scelte dei consumatori. Ma si tratta di convincere della futilità di diversi bisogni; e per questo, occorre un meccanismo posto il più vicino possibile alle persone. Occorre sottrarre il consumatore al suo testa a testa con la merce e riorientare la libido consumandi verso altri desideri.
La transizione ecologica ci invita a fondare una democrazia diretta, più deliberativa che rappresentativa. L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova «critica della vita quotidiana»; una critica elaborata in maniera collettiva.
(1) Association négaWatt, Manifeste négaWatt. en route pour la transition énergétique! ,Actes Sud, coll. «Babel Essai», Arles, 2015 (1 ed.: 2012).
(2) André Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Parigi, 1964, e Á gnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx , Feltrinelli, Milano, 1980.
(3 ) C fr. Marc Lettau, Face à la pollution lumineuse en Suisse, les adeptes de l’obscurité réagissent, Revue suisse, Berne, ottobre 2016.
(4) André Gorz, La Morale della storia, Il Saggiatore, Milano 1963 .
(5) Si legga Emmanuel Raoul, È possibile fabbricare un telefono equo?, Le Monde diplomatique/ il manifesto, marzo 2016.
(6) Si leggano André Gorz, La loro ecologia la nostra, Le Monde diplomatique/ il manifesto,aprile 2010, e Antony Burlaud,André Gorz, verso l' emancipazione, Le Monde diplomatique/ il manifesto, dicembre 2016.
(7) «Signez la pétition Garantie 10 ans maintenant», 24 ottobre 2016, www.amisdelaterre.org
(8) C fr. Ferenc Fehér, Ágnes Heller e György Má rkus, Dictatorship Over Needs, St. Martin’s Press, New Y ork, 1983 .
(Traduzione di Marianna De Dominicis)
le Monde diplomatique
il manifesto
n. 2, anno XXIV, febbraio 2017 s
la Repubblica , 17 febbraio 2017, con postilla
Molti in Europa criticano il popolare premier ungherese Viktor Orbàn, pochi sanno con quali sfide dell'ultradestra egli fa i conti a casa. Un esempio, come narrato dalla britannica e ripreso ieri dall'agenzia italiana Dire, è ad Asotthalom, la graziosa cittadina a un passo dalla frontiera ungherese-serba e dalla barriera che la chiude per arginare la grande migrazione.
Il sindaco locale, Laszlo Toroczkai, membro di Jobbik (il partito di destra radicale che contesta nello Orszaghàz, il Parlamento nazionale, la maggioranza nazionalconservatrice della Fidesz di Orbàn, membro dei Popolari europei) ha varato dure leggi contro la residenza in loco dei musulmani, e anche severe restrizioni contro l'amore e le coppie omosessuali. Provvedimenti che appaiono contrari alle leggi ungheresi e alle stesse direttive del governo di maggioranza nazionalconservatore liberamente eletto (2010) e rieletto (2014).
Per ordinanza del giovane sindaco, è vietato ad Asotthalom indossare abiti strettamente musulmani, è vietato a qualsiasi muezzin lanciare appelli alla preghiera, è vietato anche costruire moschee. Sebbene i musulmani residenti siano appena due, e descritti come integrati e pacifici dagli abitanti intervistati dalla .
«Siamo tutti bianchi, europei, cristiani, vogliamo mantenere questa tradizione», ha detto il sindaco all'emittente britannica, aggiungendo di ritenere che è in corso una "guerra contro la cultura musulmana». E ancora: «Vogliamo dire benvenuto prima di tutto a gente dall'Europa occidentale che non vuole vivere in una società multiculturale, non vorremmo attirare musulmani nella nostra città, per la quale è molto importante preservare le proprie tradizioni; se un gran numero di musulmani arrivasse qui sarebbe incapace di integrarsi nella comunità cristiana».
Sempre secondo il resoconto della Bbc, il sindaco ha spiegato: «Vediamo che esistono in Europa occidentale vaste comunità di musulmani che si sono mostrate incapaci di integrarsi, e non vogliamo vivere la stessa esperienza qui... Vorrei che l'Europa appartenga agli europei, l'Asia agli asiatici e l'Africa agli africani».
Asotthalom, una deliziosa tipica cittadina agricola ungherese, con le strade ad angolo retto come a Torino, ampi giardini, case decorose in vecchio stile magiaro-asburgico, fu investita dalla grande ondata migratoria nel 2015, quando il premier Orbàn decise di reagire blindando il confine. La maggioranza dei migranti, profughi, immigrati illegali che vi passarono tentarono poi di proseguire verso altrove (Austria, Germania, Svezia) o furono poi radunati in centri di raccolta ungheresi, oppure espulsi perché ritenuti non in regola.
La nuova legislazione cittadina vieta di indossare lo hijab e altri indumenti musulmani o islamisti, vieta la preghiera e l'appello alla preghiera del muezzin, e anche la manifestazione pubblica di amore tra coppie omosessuali. Quest'ultima disposizione in particolare è in contrasto con la prassi della vita quotidiana nella vivace, giovanile capitale di tendenza Budapest, e di altre città del paese. E il governo di Orbàn non ha mai adottato simili misure. Il sindaco si è anche premurato di prevenire la costruzione di moschee. Chi le costruirebbe, quando ad Asotthalom vivono appena due musulmani, non è chiaro.
D'altra parte, dal 2015 gli abitanti di Asotthalom (cittadina con pochissima polizia) si sono sentiti spaventati e insicuri davanti alla massa di migranti in arrivo prima della costruzione della barriera di filo spinato lungo il confine a pochi chilometri a sud.
«Avevamo paura delle masse di migranti che camminavano attraverso la nostra cittadina, ho passato lungo tempo chiusa a casa da sola con i miei figli, avevo paura», ha detto alla la signora Eniko Undreiner. I gay fanno meno paura, sempre secondo le interviste volanti dei residenti raccolte dall'emittente britannica. Una citazione: «Alcuni gay vivono da noi, ci capita di parlare, sono molto gentili, poi ciò che fanno a casa loro non ci riguarda, siamo tutti esseri umani». Budapest metropoli globale è comunque lontana, negli animi ogni paese ha una sua capitale diversa dalla provincia profonda.
postilla
Il livello di barbarie raggiunto in Europa è tale da dover suscitare una riflessione profondamente autocritica per chiunque abbia partecipato con qualche responsabilità alla vita pubblica negli ultimi decenni. Come è mai stato possibile che la formazione del pensiero che si manifesta oggi nelle teste degli europei sia stata così straordinariamente povera da non aver fatto comprendere che il contributo dato dalle civiltà del mondo musulmano è stato così grande e fondativo quanto è stato? Se lo sapessero, gli europei non potrebbero essere così autolesionisti da voler tagliare una importante radice della loro stessa civiltà. Qualche colpa in questa tragedia va certamente attribuita all'orgoglioso eurocentrismo che ha dominato nel mondo "occidentale."
il manifesto, 17 febbraio 2017 (c.m.c.)
Comincio da me, così si è più chiari. Proprio perché – come ha scritto Marco Revelli – bisogna «prendere le distanze dalle configurazioni del giorno» – una vera girandola – credo sia necessario non prendere le distanze dai processi più consistenti per avviare i quali molti compagni si sono impegnati.
Molti compagni e non questo o quel leader che si sente improvvisamente chiamato dal popolo a creare qualche “campo”. Per questo oggi andrò a Rimini per partecipare al Congresso costitutivo di Sinistra Italiana.
Ci vado innanzitutto perché sento che ho più che mai bisogno di stare assieme a compagni con i quali in questi anni abbiamo combattuto le stesse battaglie (non solo reduci, per fortuna anche tanti nati nei ’90) – per ultima quella del referendum – per ragionare con loro e tentare di indicare una prospettiva che mi/ci sottragga da questo “squilibrio di sistema”.
Perché più che mai sento che rischiamo di essere travolti se non costruiamo un luogo, un aggregato, che dia forza all’intenzione di rispondere a una domanda di senso e non solo di consenso immediato; se, soprattutto, non riusciamo a mettere in piedi una pratica politica che dia rappresentanza reale ai bisogni degli sfruttati e non sia, come sempre più è, solo comunicazione.
Per questo sento l’urgenza di relazionarmi con gli altri, di superare il maledetto isolamento individualista che ci ha tutti ammalato, di ritrovare il collettivo, senza il quale non mi resterebbe che il malinconico brontolio solitario. Un partito è questo, innanzitutto.
Provarci vuol dire “chiudersi”, “isolarsi”, mentre invece bisognerebbe aprirsi? Certo che bisogna aprirsi, ma per aprire una porta devo avere una casa, cioè un punto di vista organizzato, se no la porta sbatte e basta. E poi, per guardare a quello che c’è all’aperto, bisogna avere il cannocchiale, non la lente di ingrandimento che ti consente l’illusione ottica di vedere grandissimo quello che invece è piccolo.
Io credo, per esempio, che piccolo sia il dibattito che si sta svolgendo all’interno del Pd.
Non dico che non sia rilevante, anzi, dico solo che riguarda un pezzetto di mondo, mentre c’è un mondo più grande, fatto di movimenti, gruppi che operano sul territorio, reti, insomma una società italiana più ricca di fermenti di quanto generalmente si creda. Frantumata, certo, ma anche per questo penso sia giusto ricominciare a pensare ad un’organizzazione politica che sappia impegnarsi ad esserne parte, non solo vago referente esterno.
Del Pd mi interessa – e molto – il grande corpaccio della tradizione, che però non recupererò alla soggettività politica appiattendomi su uno dei leader della sua minoranza interna. Con i quali potrò, se ce ne saranno le condizioni, allearmi per combattere delle battaglie, forse, persino elettorali.
Ma tanto più efficacemente potremo farlo tanto più saremo capaci di imporre un confronto di merito, e non solo di posizionamento.E’un azzardo puntare su Sinistra Italiana, un cavallo così fragile , pieno di difetti, che subisce prima ancora di nascere -. un vero record – una scissione corposa ( e certamente dolorosa)? Sì, lo è.
Potrebbe non funzionare. E però penso che se perdiamo questa occasione il rischio di trovarci assai male sarebbe ben maggiore. Ci sono momenti in cui occorre rischiare, cioè scegliere (e francamente questo non è poi un rischio così grosso).
Ho scelto Sinistra Italiana perché chi la sta costruendo ha avuto il coraggio – per l’appunto – di aprirsi, e cioè di rinunciare alle certezze dei propri rifugi. Che è quanto di più efficace si possa fare se si vogliono davvero “aprire campi” più inclusivi, che non siano la somma di identità irrigidite.
Sel, decidendo di sciogliersi, proprio questo ha fatto: mettere in discussione se stessa, a partire dalla riflessione critica sull’esperienza del centrosinistra di cui era stata protagonista.Saremo elettoralmente irrilevanti? Dipende da molte cose, ma – ed è questo che mi importa ribadire in questo momento – non tutto si gioca su quel terreno.
C’è un enorme lavoro da fare nella società per tradurre la disperazione in un protagonismo politico capace di dare al conflitto una prospettiva. Per rivitalizzare le istituzioni democratiche che Renzi ha cercato di sterilizzare bisogna cominciare di qui, altrimenti qualsiasi governo, anche un centrosinistra un po’ più di sinistra, sarà inutile.
Ci sono tempi in cui i risultati di quanto si fa si possono misurare solo nel lungo periodo.Quanto sta bollendo in pentola non è affatto un nuovo bel centro-sinistra di sinistra.
Mi sembra di capire che, anzi, il nuovo scenario politico sia un nuovo bipolarismo: non il vecchio sinistra/destra, ma: da un lato i “barbari” ( 5Stelle, Salvini e c. più la plebe che protesta contro licenziamenti e povertà, gli immigrati); dall’altro i “civilizzati”, quelli che hanno capito che in momenti come questi si devono erigere trincee. (E cioè il Pd, i mozziconi di destra già da tempo imbarcati da Renzi, ma oramai anche Berlusconi, riammesso nel salotto buono da quando si è visto che, diciamocelo, non è brutto come Trump).
Eugenio Scalfari ad Ottoemezzo, giorni fa, l’ha detto con maggiore chiarezza di altri ricorrendo a toni persino apocalittici: chi è civilizzato deve capire che il castello della democrazia è assediato e senza fare tante storie ubbidire e combattere con chiunque si ingaggi.
A questo punto che lo schieramento invocato si chiami centro-sinistra, o larghe intese, non ha importanza, è questione solo nominale. Non è più tempo, insomma – ecco il messaggio – per occuparsi di dettagli cincischiando su quanto di sinistra potrebbe essere il centrosinistra.Non siamo più, mi pare, al renzismo, siamo oltre, quello è stato – o meglio ancora è – l’apprendista stregone.
L’appello dei civilizzati avrà sicuramente chi lo ascolta, può apparire persino di buon senso. Anche perché i civilizzati hanno meno problemi: non il lavoro, non la povertà, non le miserie dei servizi pubblici che si restringono come pelle di zigrino.
Solo che le cose non stanno così: se le scelte dovessero ridursi a questa alternativa saremmo davvero fritti: il disagio sociale e il populismo che cresce in assenza di una forza che se ne faccia carico, potrebbe davvero dare fuoco alle polveri.
Il realismo dovrebbe indurre a privilegiare l’obiettivo di colmare questo vuoto.
la Repubblica, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)
Come difendersi dai populismi in tempi di crisi: la lezione postuma dello storico George L. Mosse.
Trump cavalca il risentimento di una middle class convinta di poter tornare a passati splendori a suon di protezionismo e discriminazione. Marine Le Pen incendia le folle ben oltre i confini francesi rilanciando parole d’ordine come «padroni a casa nostra» e un mitico «risveglio dei popoli». In Italia la destra cerca di ricompattarsi sotto l’ombrello “sovranista” (il neologismo per chi vuole smontare l’euro e l’Ue in nome del feticcio della sovranità nazionale). Lo scorso sabato, i fantasmi del luglio ’60 hanno scosso Genova in occasione del convegno “Per l’Europa delle patrie”, organizzato da Forza Nuova, ospiti d’onore alcuni leader dell’estrema destra europea neonazista e negazionista.
In L’umanità in tempi bui Hannah Arendt raccomandava di farsi «pescatori di perle», le perle di pensiero di chi ha penetrato con sguardo acuto i tempi oscuri. Di fronte ai rigurgiti del peggior Novecento, mentre gli intellettuali statunitensi si rimettono umilmente a studiare i prodromi del fascismo italiano, a noi può tornare utile rileggere uno dei più grandi e influenti storici del Novecento, George L. Mosse.
Nato nel 1918 e morto nel ’99, ebreo tedesco (rampollo di un’illustre famiglia di editori, sfuggì al nazismo riparando negli Usa) e omosessuale (fece coming out negli anni Ottanta) fu un outisder da ogni punto di vista: caratteristica che contribuì non poco a formare il suo sguardo libero, originale e provocatorio. Con La nazionalizzazione delle masse (1975) impresse alla storiografia la “svolta culturale” che rivoluzionò gli studi sui fascismi e le masse in politica nel XX secolo. Il suo vasto programma di ricerca, pervaso da un forte afflato etico, ruotò in gran parte attorno a un problema ancora attualissimo: la debolezza delle democrazie parlamentari nei momenti di crisi.
Il tema percorre sia La nazionalizzazione che un’altra grande opera, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (1980), in particolare la sezione in cui tenta di tracciare una teoria generale del fascismo. Una sintesi del suo pensiero emerge nella lunga Intervista su Aldo Moro, una disamina della crisi della democrazia italiana nel quadro internazionale (riproposta da Rubbettino nel 2015). Correva l’anno 1979, ma le riflessioni di Mosse intorno allo statista Dc assassinato, rilette oggi, offrono una griglia d’analisi pertinente ai problemi che ci assediano. A tratti, sono quasi profetiche.
Premessa: la libertà, politica ed economica, non può sopravvivere senza le strutture del sistema parlamentare, ma la storia ha mostrato che il “meno peggio” tra i sistemi politici è molto fragile, quando si trova sotto pressione. Non serve una guerra mondiale: basta una crisi economica seria e prolungata. Anche se il fascismo non si ripresenterà mai nelle stesse forme degli anni Trenta, i germi di crisi e dissoluzione del sistema permangono.
Il deficit originario che affligge la democrazia parlamentare, spiega Mosse, è l’inefficacia dei suoi meccanismi di partecipazione, limitati essenzialmente al momento del voto, come già avvertiva Rousseau. Questi si sono ancor più ristretti con la crisi dei grandi partiti, tradizionali strumenti di integrazione delle masse. Finché la maggior parte delle persone riesce a vivere dignitosamente, il sistema va avanti per inerzia; quando la scarsità incombe, le tensioni riemergono.
La democrazia parlamentare vive di mediazioni basate sulle facoltà critiche e razionali, ma la cittadinanza, continua Mosse, smette con facilità di avvertirne i benefici quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, manca una prospettiva per il futuro. In questi frangenti, il “leader forte” che risolve, in cui identificarsi, appare rassicurante, anziché una minaccia: non a caso, secondo recenti sondaggi, in Italia lo auspicano 8 cittadini su 10.
Mosse evidenzia un paradosso ancora attualissimo: per essere statisti di successo nei sistemi parlamentari contemporanei bisogna diventare in certa misura “leader carismatici”, capaci di muovere le passioni più che appellarsi alla ragione — anche se è quest’ultima a essere essenziale in una democrazia sana. L’irrazionale ha una presa molto maggiore su una popolazione alienata, quando il mondo appare pericoloso e incomprensibile.
Per questo oggi il mito della nazione, cioè la più potente idea-guida del XIX e XX secolo, capace di creare coesione, mobilitare passioni e superare le divisioni di classe, profondamente radicata nella cultura occidentale, s’è ridestata con vigore. Ripiegare nella comunità nazionale offre l’allucinazione consolatoria del ritorno a un passato mitizzato, a misura d’uomo, contro un mondo dominato dal potere misterioso del denaro.
La frustrazione, infatti, è incanalata contro “le banche” e “l’Europa”, incarnazioni delle grandi forze spersonalizzanti del capitalismo finanziario, arcinemico individuato già più di un secolo fa (e sopravvissuto allo spettro gemello del marxismo). Il bisogno di rassicurazione è tutt’uno con quello di avere la sensazione di partecipare, di contare qualcosa, anziché essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza.
È una delle chiavi del boom del Movimento 5 stelle, unico soggetto parzialmente alternativo alle destre: al rassicurante carisma del capo e a originali riedizioni dei grandi raduni ritualizzati unisce la retorica dell’“uno vale uno” e un ventaglio di strumenti, dai meet up alle consultazioni online, che soddisfano il bisogno di partecipazione, sebbene in modo più apparente che sostanziale. Anche perché molte persone non hanno gli strumenti intellettuali per comprendere la differenza, e questo ci porta all’ultima considerazione. Anche se non mancano della capacità di leggere una realtà sempre più complicata, le persone hanno comunque bisogno di «cogliere la vita nel suo complesso e a capire da sé», scrive Mosse (ne L’uomo e le masse). Per questo, le teorie del complotto e i “falsi” costruiti per compiacere credenze diffuse hanno tanta presa.
Ossessionato dall’interrogativo di Machiavelli, «come può l’uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?», Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione. Un buon suggerimento viene da Barack Obama: nel discorso d’addio ha rievocato il “community organizing” con cui si fece le ossa a Chicago, una tecnica di empowerment della cittadinanza assai efficace, poco nota in Italia (per saperne di più communityorganizing. it).
L’importante è non restare inerti. Mosse e tante altre guide possono aiutarci a ragionare sul passato, che è uno strumento vivo a nostra disposizione, non un presagio di condanna.
Senza tregua persistono nella loro imbecillità i membri del sesso strutturalmente debole. Soprattutto quelli di loro che hanno più facile accesso ai mass media.
il manifesto, 12 febbraio 2017
Hanno provato di tutto, per colpire Virginia Raggi. Bambolina, fatina. Ora che le voci sulle sue relazioni sentimentali si levano più alte, ecco il titolone di Libero. Una donna inchiodata al suo sesso. Non molto diverso dai tanto deprecati social, mi sembra. Giornali splatter che trasudano sessismo, si fanno portavoce della più odiosa misoginia. Puro stile Trump. Nessuno sembra interessato a capire chi sia, Virginia Raggi, donna a miei occhi imperscrutabile, dai comportamenti che oscillano tra la sfida della dura, che tira dritto, al mostrarsi fragile, e per questo seduttiva.
Intendiamoci. L’operato di Raggi è più che discutibile, e non solo per gli aspetti di abuso di ufficio su cui le indagini sono in corso. Ma critiche politiche, vi prego, alla sindaca di Roma.
Battute da spogliatoio, da maschi che si fanno tronfi della loro miseria, basta. E su questo non c’è altro da dire.
la Repubblica, 12 febbraio 2017 (c.m.c.)
«Siate realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente - e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.
È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalle procedure democratiche alle dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo.
Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’azione di una molteplicità di attori.
L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia. Si riscopre l’«utopia concreta» di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari.
Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.
Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.
In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’impossibilità di eludere una questione che riguarda l’antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano — qui distratto, come in troppi altri casi — dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.
Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio «diritto all’esistenza»: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) — un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.
Un tema tanto significativo per la costruzione dell’agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.
È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.
Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza «degna dell’uomo», «dignitosa». Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento — appunto la dignità — compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà.
Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi «dannati della terra», come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.
Internazionale online, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)
Premessa
Fu negli anni del secondo governo Berlusconi che il Parlamento italiano approvò la legge 30 marzo 2004, n.92,
«Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti
degli infoibati». Iniziò molto presto - come controcanto alle manifestazioni della destra neofascista e nazionalista -la civile protesta delle voci più riflessive. Il primo intervento critico fu forse quello di Corrado Staiano con un articolo sull'Unità, dal titolo emblematico: La memoria e gli avvoltoi. L'indignazione per la pesante mistificazione dei fatti ci spinse a raccogliere su eddyburg documenti che rivelassero ai frequentatori del sito la verità. Pubblicheremo presto una visita guidata che aiuti a ritrovare quegli scritti.
Stavamo per concludere un nostro scritto in occasione della nuova celebrazione di quell'iniziativa quando ci è capitato di leggere in anteprima l'eccellente servizio che la preziosa rivista Internazionale ha dedicato alla demistificazione della cerimonia, ahimè ripetuta ancora una volta. Ringraziando calorosamente Internazionale (il numero in edicola dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole) riprendiamo di seguito gli interventi di Nicoletta Bourbaki, Federico Tenca Montini, Piero Purini, Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Jože Pirjevec, Sandi Volk. Raccomandiamo di acquistare in edicola il testo cartaceo della rivista per giovarsi anche dell'apparato iconografico.
Infine, riprendiamo dal sito web "Burattini senza fili" una limpida testimonianza delle numerose falsificazioni compiute per accreditare le menzogne sull'"infoibamento" operato dai trucidi "comunisti slavi" : Come si manipola la storia attraverso le immagini"(e.s.)
di Nicoletta Bourbaki
Dal 2005, ogni 10 febbraio, sui mezzi d’informazione italiani viene raccontata una versione parziale e distorta di quel che accadde a Trieste, in Istria e in tutta quanta la “Venezia Giulia” nella prima metà del ventesimo secolo. La legge che nel 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo” allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni.
L’inquadratura, strettissima e al tempo stesso sgranata, si concentra sugli episodi di violenza chiamati - per metonimia - “foibe” e sull‘“esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italofona di quelle regioni.
Nel discorso pubblico italiano, infatti, dagli anni novanta e seguendo una precisa agenda politica, due argomenti diversi sono stati collegati in modo sempre più stretto e frequente, fino a sovrapporsi. Il giorno del ricordo ha dato a tale sovrapposizione il crisma dell’ufficialità, e oggi le foibe sono presentate come causa immediata dell’esodo. È un nodo che va districato con pazienza.
Quando si parla di foibe, sul confine orientale la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia.
I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani - stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola - sono un enorme non detto. La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano.
Il non detto pesa e condiziona tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza “jugoslava” presero parte numerosi italiani: civili italofoni di quelle zone, ma anche disertori e sbandati del regio esercito. Nei territori oggi indicati come Friuli-Venezia Giulia, Repubblica di Slovenia e Repubblica di Croazia, l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale.
Se si scostano i pesanti drappeggi scenici di una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali certissime e indiscutibili, alimenta le “passioni tristi” del rancore e del revanscismo, il “confine orientale” si rivela - per citare il titolo di un importante libro dello storico Piero Purini - un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati. Anche la frontiera postbellica tra Italia e Jugoslavia, oggi descritta come un solco invalicabile, in realtà rimase sempre porosa, permeabile, mutevole.
In una Lettera aperta sul Giorno del ricordo, abbiamo espresso le nostre critiche alla scheda Cosa sono le foibe pubblicata il 10 febbraio 2016 sul sito di Internazionale, e proposto alla rivista – che riteniamo un esempio di giornalismo scrupoloso, competente e indipendente – uno speciale che affrontasse la complessità di questa storia, coinvolgendo alcuni degli storici che, negli ultimi anni, hanno pubblicato le più interessanti ricerche storiografiche sul tema.
Ringraziamo Internazionale per la disponibilità e l’apertura.
Gli storici che hanno contribuito sono: Federico Tenca Montini, Piero Purini, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Anna Di Gianantonio, Jože Pirjevec e Sandi Volk. Le loro note biobibliografiche sono nei rispettivi articoli e interviste.
SUL CONFINE ORIENTALE,
LA STORIA TRASFORMATA IN OLOCAUSTO
di Federico Tenca Montini
La preminenza attribuita nel nostro paese alla storia del confine orientale non rappresenta un’esclusiva italiana, ma la variante locale di un fenomeno più ampio che ha interessato diversi paesi europei a partire dalla fine degli anni ottanta.
Il caso più simile è l’espulsione (Vertreibung) di svariati milioni di tedeschi dai territori del Großgermanisches Reich, il reich nazista nella massima estensione dei suoi ideatori, passati alla fine della guerra sotto l’amministrazione della Polonia e della Cecoslovacchia. La storia segreta del paese è riscoperta negli stessi anni anche in tanti stati dell’Europa centrale e orientale, nella fase di passaggio dal modello comunista all’economia di mercato.
Il contesto generale di queste “riscoperte” è la ritrovata popolarità di narrazioni storiche rimaste inutilizzabili per decenni a causa della guerra fredda.
Nonostante si ripeta ossessivamente che una congiura del silenzio avrebbe impedito di dare agli eventi dei confini orientali la meritata notorietà (meccanismo centrale nell’esposizione mediatica di cui sono oggetto all’improvviso), essi in realtà erano stati già assai dibattuti. Come accaduto per le foibe, anche il Vertreibung aveva occupato una posizione importante nel dibattito postbellico nella Germania Occidentale. Alcuni avevano pure tentato di porre le sofferenze inflitte ai tedeschi dalla vendetta dei confinanti orientali sullo stesso piano delle atrocità naziste, come testimonia la tesi dello storico e sociologo Eugen Lemberg, risalente al 1950, secondo cui «ciò che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, i polacchi e i cechi l’han fatto ai tedeschi».
Le vicende del confine orientale nostrano furono assai frequentate dai mezzi d’informazione nazionali almeno fino al 1954. Lo dimostra, tra i vari contributi dedicati all’argomento, la mole di scritti sulle foibe e la questione di Trieste apparsi sulla stampa locale lombarda, raccolti nel 2008 da Antonio Maria Orecchia in La stampa e la memoria. Il fatto che la questione sia passata di moda con il ritorno di Trieste all’Italia nel 1954 si deve principalmente alla considerazione che simili argomenti erano ormai privi di sbocchi politici: gli effetti della ricostruzione e del boom economico erano ritenuti più appetibili dei ricordi di guerra.
La fine del blocco sovietico e i nuovi irredentismi
Le cose sono cambiate, appunto, sul finire degli anni ottanta, principalmente come effetto dell’agonia del socialismo reale in Europa orientale. Nel passaggio da una retorica basata sull’internazionalismo all’incontrastata affermazione di logiche centrate sullo stato-nazione si verifica quasi contemporaneamente l’unificazione della Germania e lo scioglimento delle compagini federative ex socialiste di Cecoslovacchia e Jugoslavia. Subito, poiché l’equilibrio politico disegnato dalla conferenza di pace di Parigi appare suscettibile di ulteriori revisioni, si attivano gli irredentismi. In Germania si valuta brevemente la possibilità di rinegoziare il confine con la Polonia, prima che il confine esistente, tecnicamente provvisorio dal 1945, sia accettato formalmente con una serie di trattati tra il 1990 e il 1991.
Allo stesso modo, la dissoluzione della Jugoslavia stimola in certi ambienti l’idea che i vari trattati stipulati tra questa e l’Italia, tra cui quello di Osimo che nel 1975 aveva stabilito definitivamente il confine, non sarebbero stati ereditati dalle nuove repubbliche di Slovenia e Croazia.
A farsi portavoce di una simile interpretazione fu soprattutto un partito di estrema destra, il Movimento sociale italiano. Il suo segretario, Gianfranco Fini, nel novembre del 1992, sebbene l’Italia avesse riconosciuto la Slovenia e la Croazia all’inizio dell’anno, si imbarcò con Roberto Menia, un rappresentante locale del partito, per lanciare nel golfo di Trieste 350 bottigliette con all’interno un suggestivo messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo nel 1975 oggi non valgono più… È anche il nostro giuramento: ‘Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!’».
Come anche nel caso tedesco, l’impraticabilità di una revisione del confine si risolse nella richiesta della restituzione dei beni abbandonati dai cittadini italiani dopo la guerra. Per questo motivo, per una specie di ricatto, l’Italia (sotto il primo governo Berlusconi) pose il veto all’ingresso della Slovenia nell’Unione europea nel 1994. Il veto fu sollevato dal successivo governo di centrosinistra, su preghiera del presidente americano Bill Clinton. Ancora nel 2006, per raccontare la vicenda, il quotidiano Libero non trovò titolo migliore che «I beni degli esuli regalati da Prodi alla Slovenia». In Germania, invece, la questione della restituzione dei beni durò fino al 2004, quando il cancelliere Gerhard Schröder prese pubblicamente le distanze dall’argomento.
In assenza di ripercussioni pratiche, la questione dei confini orientali ha continuato a operare sul piano culturale e simbolico per tutti gli anni duemila.
Dal plurale al singolare
Ma in che modo gli eventi storici legati ai confini orientali sono entrati nel discorso pubblico? Ancora una volta, le traiettorie di Italia e Germania mostrano importanti tratti di convergenza.
Entrambi paesi invasori di territori situati a oriente e organizzati in deboli stati di recente formazione, entrambi sconfitti in guerra, Italia e Germania subirono la vendetta dei popoli che avevano invaso, con alcune differenze. Se l’esodo dei tedeschi si misura sulla scala dei milioni, nel caso degli esuli istriani si può parlare di circa 250mila persone. I tedeschi furono cacciati dalla Cecoslovacchia con i provvedimenti emessi dal presidente Edvard Beneš ben prima del colpo di stato comunista del 1948, mentre nessun provvedimento di espulsione riguardò la minoranza italiana in Jugoslavia, a cui in buona parte fu consentito di optare per la cittadinanza italiana e il trasferimento nella madrepatria dalle clausole del trattato di pace del 1947.
In entrambi i paesi, poi, le complesse dinamiche storiche del periodo postbellico sono riassunte in semplici slogan. Nel caso del Vertreibung, il termine è usato per descrivere trasferimenti di popolazione che hanno occupato la durata di svariati anni, dai reinsediamenti ordinati dai nazisti già al termine degli anni trenta per rinforzare la componente etnica tedesca nei territori di recente occupazione (dagli stati baltici verso Polonia e Boemia), ai circa sei milioni di tedeschi evacuati dalle autorità naziste nell’ultimo anno di guerra, comprendendo infine tutti quelli che sono stati effettivamente cacciati dopo la liberazione dei paesi dell’Europa orientale. Allo stesso modo, nella categoria di “esodo istriano” sono inclusi movimenti di popolazione avvenuti in circostanze e situazioni diverse, dall’evacuazione forzata di Zara a seguito dei bombardamenti alleati ai trasferimenti clandestini a quelli operati legalmente e in forma variamente organizzata attraverso le opzioni, il tutto lungo un periodo più che decennale.
Il corollario naturale della trattazione pubblica di questi argomenti è l’incertezza, se non l’esagerazione, sul numero delle vittime. Gli “espulsi” tedeschi variano, nei rapporti dei mezzi d’informazione, da cinque a venti milioni, con una congettura sul numero delle vittime fissata attorno ai due milioni e mezzo. Nel caso italiano il numero degli esuli varia da duecentomila a 350mila, cifra citata nella maggior parte dei casi, mentre le stime degli “infoibati” variano a seconda dei casi da alcune centinaia – il numero dei corpi che secondo le ricerche disponibili è stato effettivamente individuato sul fondo delle grotte carsiche – a diverse migliaia di italiani che persero variamente la vita in territorio jugoslavo dopo l’armistizio.
Poiché il concetto di “infoibamento” è per lo più utilizzato in maniera simbolica, stime ancora più elevate sono state calcolate da ambienti militanti includendo anche tutti i soldati italiani caduti e dispersi in territorio jugoslavo per i più vari motivi, al punto che nel volume Albo d’oro di Luigi Papo, il tenente colonnello Cuiuli, comandante del campo di concentramento fascista di Rab/Arbe, morto suicida in stato d’arresto a seguito dell’insurrezione dei prigionieri del campo dopo l’8 settembre, risulta tra le vittime delle foibe. Nel cimitero monumentale costruito in prossimità del campo è ancora possibile osservare una frusta uguale a quella con cui amava picchiare personalmente gli internati.
Curiosamente, tanto in Italia quanto in Germania l’interesse giornalistico verso le storie riscoperte non si estende alle opere storiografiche che trattano l’argomento da un nuovo punto di vista o a partire da nuove acquisizioni archivistiche. Sebbene esistano lavori di buon livello scientifico usciti negli ultimi anni, questi, quando non sono osteggiati, non ricevono solitamente grande pubblicità, mentre sono in genere reclamizzate pubblicazioni di carattere sensazionalistico o libri di ricordi personali di testimoni diretti, dei loro discendenti nonché semplici ammiratori. In assenza di nuove ricerche di grande impatto, e dunque in un circuito per lo più parallelo rispetto a quello del dibattito e della ricerca storiografica, il “mutato atteggiamento” nei confronti della storia dei confini orientali rispecchia semplicemente un modo diverso – ma che in realtà somiglia alla visione sviluppata da ambienti militanti settant’anni fa – di interpretare eventi noti da tempo.
Il Giorno del ricordo
In Germania le espulsioni assumono una visibilità particolare nel corso del Tag der Heimat, la ricorrenza patriottica dal più ampio significato celebrativo che ricorre annualmente la seconda domenica di settembre. In Italia, invece, si è optato per l’istituzione di un’apposita giornata commemorativa, il Giorno del ricordo, il 10 febbraio. La giornata è stata introdotta dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004, per iniziativa del secondo governo Berlusconi. Solo quattro anni prima, il precedente governo di centrosinistra aveva reso l’Italia uno dei primi paesi a commemorare le vittime della shoah il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, ben prima che le Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 2005, incoraggiasse tutti i paesi a fare lo stesso.
Al di là del diverso orientamento politico dei due governi, vi sono altri elementi che indicano una sorta di complementarietà tra le due date, in una tendenza che sembra accodarsi alla condanna dell’Unione europea degli opposti totalitarismi, fattore che alcuni autori indicano alla base della crisi del paradigma antifascista al livello continentale.
Se, soprattutto nella prima proposta di legge firmata dal già menzionato Menia, l’intento di commemorare ufficialmente le foibe conteneva effettivamente elementi di vendetta politica, nella formulazione definitiva della legge del Giorno del ricordo, approvata ad ampia maggioranza, è importante il ruolo di quel settore della sinistra ex comunista che accettò di buon grado l’occasione di segnare una cesura rispetto alla propria storia politica nonché sottolineare la propria adesione a quel neopatriottismo che negli ultimi anni stava prendendo il posto della discriminante antifascista messa in crisi dalla partecipazione dell’ex Msi al governo.
Questa critica è peraltro emersa durante la discussione della legge, quando il deputato Franco Giordano, tra i pochi a votare contro, disse che «non si può dedicare una giornata della memoria, al pari del 25 aprile e di quella dell’Olocausto, in quanto stiamo parlando di fenomeni che non sono assolutamente equivalenti e la proposta di renderli equivalenti […] in realtà allude ad un processo di revisionismo storico che cambia la natura dello Stato e della Costituzione antifascista».
La scelta della data, anzitutto, approvata su proposta delle associazioni degli esuli. Il 10 febbraio è infatti l’anniversario della ratifica del trattato di Parigi con cui le potenze alleate (Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica) stabilirono le condizioni per la fine delle ostilità con l’Italia. Tra le date alternative disponibili si possono elencare il 20 marzo, data della partenza dell’ultimo viaggio del piroscafo Italia carico di profughi da Pola, o il 15 settembre, data di entrata in vigore del trattato di pace stesso.
Il 10 febbraio 2007 il presidente della repubblica Giorgio Napolitano commemorò le foibe attribuendole a «un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947». Tale riferimento al trattato, per di più nell’anniversario della sua ratifica, suscitò l’allarmata reazione dell’omologo croato Mesić. Questi, oltre a denunciare quelli che riteneva «elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e ricerca di vendetta politica», dichiarò senza mezzi termini «disdicevole e potenzialmente pericoloso mettere in questione il Trattato di pace che l’Italia ha firmato nel 1947». Definiva anche «assolutamente inaccettabile per la Croazia qualsiasi tentativo di mettere in discussione gli accordi di Osimo (…) che la Croazia ha ereditato come uno dei paesi successori della Federazione jugoslava».
Tornando alla scelta del 10 febbraio, essa, come si è visto, da un lato suggerisce un nesso causale tra la pace imposta dalle potenze cui l’Italia aveva dichiarato guerra e gli eventi luttuosi che la festività si propone di commemorare e tramandare, dall’altro fa sì che le foibe e l’esodo siano ricordati esattamente due settimane dopo la Giornata della memoria della shoah. Considerato anche che in genere gli eventi legati alle due ricorrenze si sviluppano a cavallo delle giornate stesse e la somiglianza delle due denominazioni, oggetto di frequenti lapsus e malintesi sui mezzi d’informazione, ne deriva una certa confusione, come prova l’iniziativa di alcuni comuni di fare economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date.
Oltre agli effetti osmotici del calendario civile e delle gaffe, ne vanno considerati altri, altrettanto incisivi e significativi.
L’estetica dell’appiattimento
L’impianto di celebrazione della shoah, così ben strutturato e declinato in prodotti d’arte di qualità spesso elevata, tanto da essere divenuto patrimonio della cultura di massa e del senso comune, esercita, proprio in virtù del suo successo, un indubbio potere attrattivo sul tentativo di reclamizzare uccisioni e persecuzioni, nonostante queste abbiano spesso poco o nulla a che spartire con quelle commesse da Hitler e dai suoi volenterosi collaboratori di varie nazionalità. Non appena ci si accinge a raccontare una qualsiasi storia di massacri e persecuzioni, quindi, l’estetica della shoah emerge quasi naturalmente e procede a livellare per vaghi nessi associativi vittime di cui viene esaltata l’innocenza, la giovinezza e il candore a prescindere dalla natura della persecuzione subita, mentre i carnefici vengono nazificati.
Uno degli effetti di questo appiattimento si produce al livello iconografico, ed è il motivo per cui le fotografie sono usate in maniera indifferenziata: i profughi francesi che scappano dai nazisti diventano esuli istriani, immagini di fosse comuni naziste valgono per l’Holodomor (la grande carestia ucraina del 1929-1933). Le didascalie cambiano, ma stranamente il crimine ritratto è quasi sempre fascista.
Un altro effetto è l’utilizzo sempre più frequente della parola “genocidio”. Il termine è stato coniato in ambienti ebraici durante la seconda guerra mondiale e ratificato nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio nel 1948 con la risoluzione 260 dell’Onu: «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
Tale definizione, come si vede, non menziona le persecuzioni politiche. Ciononostante, dato il capitale morale che deriva dall’accusa di genocidio, c’è una tendenza a usare il termine per un’ampia gamma di massacri e persecuzioni, abuso che ne ha mutato profondamente il significato e il valore di condanna eccezionale.
Il senso della storia
Si diceva di un modo nuovo e “nazionale” di guardare alla storia in un certo numero di paesi, sia ex fascisti sia tra quelli in via di transizione dal comunismo. Nel 1989 Franjo Tuđman, l’aspirante leader di un paese, la Croazia, che si candidava a rientrare in entrambe le categorie, pubblica un libro indicativamente intitolato L’assurdità della realtà storica. Il volume è una raccolta di riflessioni vagamente filosofiche sul ruolo della violenza nella storia, in cui, tra le altre cose, viene posta in dubbio la consistenza numerica delle vittime ebraiche nel corso della seconda guerra mondiale, sia al livello europeo sia in Jugoslavia.
Mentre l’élite politica croata cercava di liberarsi della pesante eredità del regime fascista di Pavelić, in Italia e in Germania, oltre alle “riscoperte” di cui si è detto, cominciava a manifestarsi un interesse nuovo anche per il comportamento degli alleati durante la seconda guerra mondiale. Negli eccessi più noti, come l’incendio di Dresda – ma si pensi anche alla recente insistenza, in Italia, sui bombardamenti di Zara –, tale comportamento viene considerato su un piano simile a quello delle atrocità nazifasciste, collocando tutti questi eventi nella categoria molto generica di una guerra in cui i partecipanti, tutti e senza distinzione, si sarebbero macchiati di crimini analoghi.
L’elevazione dei crimini nazisti – crimini contro l’essenza innata delle persone – a una categoria di ordine superiore, a crimine terribile e inedito, a orrore tramandato agli eredi politici (e perfino biologici) di chi lo ha compiuto o più semplicemente a precetto morale centrale della nostra civiltà, ha coinciso con l’inizio di un periodo storico che ha conosciuto l’espansione dei diritti civili e l’emancipazione e integrazione di ampie quote di umanità oppressa – si pensi all’emancipazione politica delle donne e alla decolonizzazione.
La sostanziale negazione dell’unicità di questi crimini, confusi in una variegata schiera di pretesi genocidi tra cui le vendette postbelliche ai danni di italiani e tedeschi, le sofferenze patite da determinate categorie sociali e politiche nei paesi comunisti e i crimini degli alleati occidentali nel corso della guerra scatenata dalla Germania e dai suoi sostenitori, rischia di ripristinare un antico ordine del mondo in cui la storia è accettata come un naturale susseguirsi di violenze e sopraffazioni.
Non è un caso che la rappresentazione dell’Europa centrale e orientale promossa dalla “nuova sensibilità storica” in Italia e Germania abbia riscoperto una serie di cliché razzisti – si pensi all’immagine degli slavi in molto del materiale divulgativo sulle foibe – sostanzialmente affine alle rappresentazioni prodotte all’inizio del novecento per giustificare l’intervento armato in quello che veniva definito un oriente barbarico in preda a odi ancestrali. Ci si può chiedere quale sarà il risultato dell’incontro di rappresentazioni di questo genere con le emergenze degli ultimi anni: la crisi della democrazia liberale, l’ascesa dei populismi e la tendenza alla chiusura dei confini.
In questo senso non può che preoccupare una recentissima dichiarazione di Björn Höcke, politico tedesco del partito populista di destra Alternative für Deutschland (Afd), in prima linea contro rifugiati e immigrati. Parlando non a caso a Dresda ha annunciato che “la Germania deve smetterla di sentirsi colpevole e operare una svolta nel modo di ricordare il periodo nazista” e i tedeschi sarebbero gli unici che “hanno costruito un monumento alla vergogna nel cuore della loro capitale”, riferendosi al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, eretto nel 2005 a Berlino.
IL PREQUEL DEL GIORNO DEL RICORDO.
LA VENEZIA GIULIA
DALLA PRIMA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Piero Purini
Non è possibile affrontare i temi del Giorno del ricordo senza prima analizzare il contesto in cui l’esodo e le foibe avvennero e senza conoscere la complessità umana e nazionale del “confine orientale”. Per fare questo è necessario fare un salto all’indietro ed esaminare la situazione del territorio che all’inizio del novecento era chiamato Litorale austriaco.
Il Litorale (Küstenland in tedesco, Primorska in sloveno e croato) si trovava alla confluenza delle tre macroaree linguistiche più grandi d’Europa: la neolatina, la germanica e la slava. Di conseguenza la popolazione era mista, con zone a maggioranza slovena (il vasto territorio a est e a nord di Gorizia, il Carso triestino, il nord dell’Istria), italiana (il centro di Trieste, gran parte della costa istriana, il Friuli orientale e la Bisiacaria – cioè la zona del monfalconese), croata (l’interno dell’Istria). Erano presenti anche numerosi gruppi minoritari (romeni, serbi, ebrei, greci, cechi, armeni): il gruppo più consistente era quello tedescofono, presente soprattutto nelle città medie e grandi.
Spesso l’identità linguistica non era nettamente definita: in parte dell’Istria gli abitanti parlavano dialetti che non erano chiaramente sloveni o croati, ma mescolavano le due lingue; nel Friuli orientale la popolazione si esprimeva in lingua friulana; in quasi tutta la regione il dialetto venetomorfo rappresentava il vero veicolo di comunicazione ed era molto più usato della lingua italiana dagli stessi italiani.
Il plurilinguismo era una situazione estremamente diffusa, sia per la frequenza dei matrimoni misti, sia per la necessità di parlare più lingue in un territorio multietnico. Il meticciato linguistico era piuttosto normale, con persone che nei vari ambiti della propria esistenza usavano una lingua o l’altra (tanto che a Fiume - che non faceva parte del Litorale, ma nel 1924 fu annessa alla Venezia Giulia - si diceva che “el più stupido omo parla quattro lingue”) e le stesse lingue e dialetti erano abbondantemente contaminati da molti forestierismi.
Negli ultimi decenni dell’ottocento e all’inizio del novecento, l’espansione del porto e della città di Trieste, l’indotto, le infrastrutture e i commerci provocarono un forte sviluppo industriale e causarono una forte immigrazione e un aumento esponenziale della popolazione dell’intera regione. Trieste in particolare presentava nel 1914 un numero doppio di abitanti rispetto al 1870 e quasi decuplicato rispetto agli inizi dell’ottocento.
In questa nuova immigrazione erano prevalenti gli sloveni (provenienti sia da altre zone del Litorale, sia dalla Carniola), gli italiani immigrati dalle città dell’Istria e dal vicino Regno d’Italia (soprattutto dal Veneto e dal Friuli), i croati dell’Istria interna e della Dalmazia, i cechi provenienti dalla Boemia e i tedeschi da tutto l’impero, ma anche dalla Germania e dalla Svizzera.
Sloveni e croati, almeno fino agli ultimi decenni dell’ottocento e prevalentemente nei grandi centri, tendevano ad assimilarsi alla componente italiana, in quanto cultura dominante, in una o due generazioni. Si trattava del gruppo più forte da un punto di vista culturale ed economico, anche perché la borghesia del Litorale era in gran parte italiana o italianizzata. Assimilarsi offriva dunque più possibilità di avanzamento sociale e un più rapido miglioramento economico individuale.
Inoltre la diversità dei dialetti in molti casi rendeva difficile ai singoli la percezione di un’identità nazionale comune: la presa di coscienza della propria nazionalità da parte di sloveni e croati fu un fenomeno successivo (basti pensare che una codificazione definitiva e unitaria dell’alfabeto sloveno era stata raggiunta solo verso il 1835). Solo nella seconda metà dell’ottocento la tendenza degli immigrati a italianizzarsi diminuì, grazie a una maggior coscienza nazionale dovuta all’apertura di numerose scuole slovene e all’aumento del livello d’istruzione tanto nelle zone d’origine quanto in quelle di arrivo. Contribuirono a fermare l’assimilazione anche l’aumento dell’immigrazione che rese i nuovi arrivati meno vulnerabili, dato che trovavano sul territorio comunità nazionali già coese, la nascita di una coscienza di classe nel proletariato che si contrapponeva alla borghesia – italiana –, e infine la politica delle autorità austriache che, temendo il crescente peso dell’irredentismo italiano, tentavano di contrapporvi le altre nazionalità presenti.
La popolazione italofona di Trieste era anch’essa composita: autoctoni residenti in città da molte generazioni, italiani immigrati da altre zone della duplice monarchia (soprattutto dall’Istria, dalle città della Dalmazia, dal Friuli orientale e dalla Bisiacaria) e cittadini italiani – i “regnicoli” – residenti a Trieste ma privi della cittadinanza austriaca. Politicamente solo una minoranza degli italiani del Litorale era favorevole all’irredentismo e all’annessione del territorio all’Italia, ma furono proprio i leader e gli intellettuali irredentisti, in particolare durante gli anni della prima guerra mondiale, a fornire gli strumenti interpretativi della situazione locale all’opinione pubblica italiana.
La popolazione tedesca, nella sola Trieste, contava quasi 12mila persone. Si trattava soprattutto di funzionari imperiali, di impiegati nelle filiali di imprese austriache e di commercianti che da oltre un secolo avevano sul territorio le proprie attività. Erano presenti anche nuclei consistenti di operai di lingua tedesca tra i ferrovieri e i cantierini.
Il censimento del 1910 registrò nel Litorale una popolazione totale di 928.046 persone, di cui 354.908 italiani, 466.730 sloveni e croati, 39.798 di altra lingua e 66.611 cittadini stranieri, compresi i regnicoli. L’appartenenza nazionale fu stimata in base alla “lingua d’uso”, ma tale criterio era ambiguo: poteva essere interpretato tanto come lingua d’uso nelle relazioni interpersonali e lavorative quanto come lingua d’uso in famiglia. Le rilevazioni furono affidate a funzionari comunali, ma in buona parte dei centri più grandi (in primis a Trieste) i comuni erano guidati dal partito liberalnazionale, cioè dalla borghesia irredentista italiana, per cui si ritenne già allora che gli addetti alla rilevazione avessero censito come italiani una parte significativa dei bilingui e trilingui. In alcune zone le autorità imperiali procedettero a una revisione dei dati: per esempio a Trieste gli italiani passarono da 170mila a 148.398, mentre gli sloveni da 38mila a 56.917.
I primi cambiamenti forzati
La complessità etno-nazionale del Litorale non diede comunque adito, nel periodo precedente alla grande guerra, a violenze. Gli attriti si limitarono quasi esclusivamente a polemiche o ad articoli derisori sui giornali. Maggiori tensioni si ebbero in occasione dell’apertura di alcune scuole slovene in città o per la proposta di istituire una università italiana a Trieste, ma la situazione non degenerò mai in scontri pesanti
Lo scoppio della guerra nel 1914 portò ai primi cambiamenti forzati della popolazione del Litorale: decine di migliaia di giovani del territorio furono arruolati e spediti sul fronte russo, qualche migliaio di renitenti anarchici o socialisti e di irredentisti si rifugiò nell’ancora neutrale Italia, mentre una parte dei regnicoli rimpatriò a causa del crollo economico causato alla città dal conflitto. Quando cominciò a prospettarsi l’entrata in guerra dell’Italia anche i regnicoli rimasti dovettero fuggire in massa per non trovarsi nella situazione di cittadini stranieri in un paese nemico. Al momento dell’inizio delle ostilità il Litorale aveva perso la grande maggioranza dei cittadini italiani in esso residenti, quasi 35mila persone.
Durante la guerra il Litorale subì un grave spopolamento: il Friuli orientale, la Bisiacaria e l’Isontino, zone di operazioni o immediata retrovia, furono evacuati. Lo stesso accadde per il sud dell’Istria, ritenuto un territorio strategicamente importante per la presenza del porto di Pola. Gli sfollati furono ammassati in campi profughi sparsi per il territorio austriaco, mentre chi non era riuscito ad andarsene fu trasferito verso l’interno dell’Italia dopo l’occupazione dei paesi friulani e bisiachi da parte delle truppe italiane. Altri abitanti del Litorale, sorpresi altrove all’interno della monarchia asburgica dallo scoppio della guerra, non poterono ritornare a causa della limitazione del movimento dei civili. Con il procedere del conflitto molte amministrazioni, ditte e fabbriche (e il loro relativo personale) furono spostate in luoghi più sicuri all’interno dell’Austria-Ungheria. A Trieste, che nel 1914 contava 243mila abitanti, la popolazione si ridusse a sole 150mila unità.
La metamorfosi successiva alla guerra
La sconfitta dell’Austria-Ungheria produsse una vera e propria metamorfosi nella composizione etno-linguistica del territorio: già nei giorni precedenti l’arrivo delle truppe italiane si verificarono i primi incidenti con vittime slovene. Le nuove autorità italiane presero una serie di iniziative che via via resero più difficile la permanenza di coloro che non erano italiani e ostacolarono il ritorno degli sfollati di nazionalità slovena, croata o tedesca: ai reduci dell’esercito austriaco fu permesso di restare nel Litorale (ormai ufficialmente ribattezzato Venezia Giulia) solo se nativi del territorio, mentre quelli di altre nazionalità dovevano trasferirsi oltre la linea di demarcazione. Ciò significava che tutti i non italiani immigrati di recente e anche sloveni, croati e tedeschi residenti nella regione ma malauguratamente nati altrove dovevano andarsene. In seguito fu previsto l’arresto per coloro che ancora non avevano ottemperato all’ordinanza e da dicembre scattarono forme di internamento per i reduci ancora presenti sul territorio.
Anche i civili non italiani cominciarono a subire pressioni: circa 800 insegnanti e sacerdoti, considerati il veicolo più pericoloso del nazionalismo slavo e croato, furono internati, altri furono espulsi. Provvedimenti del genere furono adottati anche per ex prigionieri di guerra austriaci in Russia, ritenuti potenziali bolscevichi.
Nel pubblico impiego si verificarono cambiamenti radicali: buona parte dei funzionari dell’apparato burocratico asburgico e degli organi imperiali di pubblica sicurezza partirono negli ultimi giorni di guerra o subito dopo. Molti addetti all’ordine pubblico non italiani furono trasferiti nel corso del 1919 nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in base a un accordo tra i due governi. Migliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando in alcune zone a un vero e proprio spopolamento: addirittura dalla sola Pola vi fu un esodo che coinvolse da venti a venticinquemila individui, nella maggioranza persone legate alle attività del porto militare.
La comunità tedesca fu particolarmente colpita: le sue scuole furono chiuse (e trasformate per dileggio in caserme), circoli e giornali dovettero sospendere le attività, si verificarono epurazioni e licenziamenti nei posti di lavoro, ci furono delazioni nei confronti di persone che in ambito familiare e privato continuavano a parlare tedesco e atti intimidatori per spingere i tedescofoni ad andarsene in Austria. La vox populi dell’epoca parlò di 40mila persone emigrate da Trieste soprattutto a Vienna e a Graz.
Anche verso la Jugoslavia si verificò un flusso di partenze (che continuò anche per tutto il ventennio fascista) di sloveni e croati che trovarono più opportuno lasciare la zona invece di rimanere nelle proprie case. Alcune organizzazioni di aiuto ai profughi fornirono la prima assistenza a questi profughi e crearono strutture di accoglienza: nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia oscillavano già dalle 30 alle 40mila persone (di cui 15mila alloggiate in campi profughi). Nella sola Lubiana erano presenti quasi cinquemila profughi dichiarati, ma tra questi non era conteggiato chi non si era rivolto a organizzazioni ufficiali.
La bonifica fascista
A fronte di questi mancati rientri e di queste partenze, le autorità italiane insediarono nei nuovi territori migliaia di neoimmigrati dal regno. I primi a esservi trasferiti furono membri delle forze dell’ordine, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione pubblica necessari per il controllo dei “territori redenti”. La politica dell’Italia fu analoga a quella che si adottava nei confronti dei territori coloniali e il numero delle forze militarizzate presenti nella Venezia Giulia aumentò a dismisura: 47mila unità contro le 25mila del periodo asburgico (di cui però ben 17mila concentrate nel porto militare di Pola).
Ben presto cominciarono a trasferirsi dal regno anche moltissimi civili. I primi furono i regnicoli già residenti prima della guerra, seguiti da un numero sempre più consistente di neoimmigrati italiani. Nel 1921 il numero complessivo dei nuovi immigrati civili nella sola Trieste era di circa 40mila persone, di cui 25.500 già residenti prima della guerra. Vi erano diverse motivazioni per l’insediamento nella città: la fama di ricchezza di cui Trieste godeva nell’immaginario collettivo italiano, gli inviti che i nuovi immigrati inoltravano ai parenti, l’effettiva migliore qualità della vita che Trieste, pur nella situazione di crisi postbellica in cui la città si trovava, offriva rispetto al contesto rurale di molte zone dell’Italia.
Tuttavia la nuova situazione geopolitica del territorio mostrò presto tutti i suoi limiti economici, generando marginalità sociale e disoccupazione tra gli italiani immigrati di recente. Nel 1921 le autorità dovettero bloccare il flusso in arrivo e imporre misure di rientro all’immigrazione: dall’inizio di quell’anno alla metà del 1922 furono respinte ai luoghi di partenza più di diecimila persone. Nel censimento del 1921 i nuovi abitanti di Trieste provenienti dal regno arrivavano circa al 10 per cento della popolazione complessiva. Negli anni del fascismo l’immigrazione ebbe nuovo impulso a causa della politica fascista di italianizzazione dei nuovi territori, ormai definita ufficialmente “bonifica etnica”. Tra il 1918 e il 1931 furono 128.897 gli italiani immigrati nella Venezia Giulia, dei quali 63.932 concentrati nella provincia di Trieste e 49.009 nella città, dove risiedevano dunque i due quinti dell’intera comunità italiana immigrata. Nel 1931 un abitante su sette risultava essersi stabilito nella Venezia Giulia dopo la guerra.
Comunità cancellate
La politica di bonifica etnica del fascismo non si attuò solo con l’immigrazione di italiani, ma soprattutto con la snazionalizzazione, l’assimilazione e la spinta all’emigrazione degli “allogeni” o “alloglotti”. Sloveni e croati della Venezia Giulia nel corso del ventennio fascista videro l’annientamento di tutte le iniziative economiche e culturali delle due minoranze. Nel giro di pochi anni le banche e gli istituti assicurativi di proprietà slovena e croata furono chiusi o assorbiti da istituti nazionali, i circoli e le istituzioni culturali soppressi, la stampa e l’editoria sospese, l’uso dello sloveno e croato vietato nei tribunali e negli uffici pubblici.
Ai contadini sloveni e croati che avevano ottenuto prestiti pubblici per l’aiuto postbellico furono aumentati talmente i tassi di interesse da costringerli a svendere le proprietà allo stato, che poi provvedeva a riassegnarle, a prezzo stracciato, a coloni italiani neoimmigrati. La “riforma Gentile” portò alla chiusura di tutte le scuole con lingua d’insegnamento non italiana, mentre i simboli delle due comunità furono distrutti. L’episodio più significativo fu l’incendio del Narodni dom, la casa del popolo che rappresentava il cuore culturale e simbolico delle comunità slovena, croata e ceca di Trieste, dato alle fiamme il 13 luglio 1920 in una delle prime “imprese” degli squadristi giuliani.
Le violenze colpirono istituzioni e singoli individui: scuole, circoli, giornali, negozi e studi professionali furono devastati dagli squadristi; intellettuali, attivisti o anche persone comuni colpevoli solo di esprimersi nella loro madrelingua furono brutalmente malmenati o addirittura assassinati dai militi fascisti. L’organista sloveno Lojze Bratuž, colpevole di dirigere un coro sloveno, fu ucciso dagli squadristi facendogli bere olio per motori; altre volte i fascisti spararono contro gli elettori che si recavano alle urne o contro operai in sciopero.
Lo sloveno e il croato furono cancellati addirittura dalla toponomastica: i nomi delle località slovene e croate furono modificati in lingua italiana, traducendoli (il monte Snežnik, da sneg, neve, divenne monte Nevoso), italianizzandoli per assonanza (Hrastovlje, bosco di querce, divenne Cristoglie) o addirittura inventandoli ex novo (Ricmanje divenne San Giuseppe della Chiusa). A volte furono fatti errori marchiani, come nel caso del monte Krn, italianizzato come monte Nero, confondendo il termine krn (mozzo, tronco) con črn (nero). Inoltre fu avviata una campagna per il cambiamento dei cognomi e nomi “allogeni” e la loro “restituzione” in italiano (spesso chi manteneva il cognome slavo non aveva accesso al posto di lavoro). Anche per i cognomi si procedette con traduzioni (Kovač=Fabbri, Lisjak=Volpe) e con assonanze (Kocijančič – Canciani, Jamsek – Giani). Come nel caso dei toponimi si verificarono episodi grotteschi: Smerdel (da smrditi, puzzare) divenne alternativamente Smeraldi oppure Odorosi; il cognome sloveno Starec (vecchio) divenne il fascistissimo Starace.
Molte famiglie smisero di esprimersi in sloveno e croato per adottare l’italiano; l’impossibilità di frequentare scuole dove si imparassero le due lingue staccò definitivamente numerosi giovani dal proprio ambito culturale d’origine. Altri scelsero di andarsene: circa centomila alloglotti lasciarono il Litorale tra le due guerre per dirigersi soprattutto in Jugoslavia, Argentina, Brasile, Francia, Belgio, Austria, Egitto. In Jugoslavia e in Argentina sorsero delle vere e proprie colonie di sloveni del Litorale che comprendevano decine di migliaia di persone.
La Jugoslavia fu la meta privilegiata di quest’emigrazione per il legame nazionale e culturale con la Venezia Giulia. Furono numerosi gli intellettuali, i professionisti, gli insegnanti, i funzionari di istituti che si trasferirono nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, andando incontro anche a prestigiose carriere. Molti di questi “profughi intellettuali” andarono a formare l’intellighenzia del nuovo stato jugoslavo, come docenti universitari, musicisti, architetti, avvocati, direttori di imprese. Operai, ferrovieri e cantierini trovarono lavoro nei porti adriatici, nelle nascenti industrie jugoslave e nel comparto ferroviario. I profughi senza specializzazione invece ebbero un destino meno fortunato: una parte considerevole dei contadini fu trasferita in Macedonia, una delle regioni più arretrate del nuovo stato jugoslavo.
La catena degli eventi
La snazionalizzazione diede i suoi frutti: nel 1921 il censimento segnalò nella regione 884.251 abitanti, di cui 503.134 italiani, 257.868 sloveni e 92.806 croati. Nel 1936 un altro censimento, i cui risultati però furono tenuti segreti, rilevò 1.001.719 abitanti (Fiume compresa), dei quali 606.623 italiani, 251.760 sloveni e 135.182 croati. Il risultato leggermente più alto fra i croati fu dovuto, oltre che all’annessione di Fiume, al fatto che in questo censimento ormai il grosso dell’operazione di bonifica etnica era già avvenuto, per cui le rilevazioni furono usate come una sorta di “verifica” della politica di snazionalizzazione e le pressioni sui censiti furono molto inferiori rispetto al 1921.
Contro la politica di bonifica etnica e le violenze fasciste nacquero movimenti clandestini di resistenza nazionale. I più importanti furono il Tigr – acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka) – e Borba (Lotta) che attuarono azioni e attentati contro simboli e istituzioni legate alla politica di bonifica etnica fascista. Per piegare questi gruppi e per intimidire la popolazione fu impiegato il tribunale speciale per la difesa dello stato, una magistratura fascista istituita dopo l’attentato del 1926 a Mussolini, che non prevedeva né ricorsi né appelli. Il tribunale speciale fu largamente impiegato dallo stato contro gli sloveni e i croati: i processi a loro carico furono 131, gli anni di carcere irrogati a residenti nella Venezia Giulia 4.893 (il 17 per cento delle condanne complessive emesse dal tribunale in tutta Italia), le condanne a morte 33 su 42 totali, le condanne eseguite 23 su 31.
Durante e alla fine della seconda guerra mondiale si svolsero episodi di violenza che una certa vulgata istituzionale, attraverso il Giorno del ricordo, ha trasformato in eventi a sé stanti: le “foibe” e l‘“esodo”. Ma non sono eventi a sé stanti, non possono essere estrapolati da una situazione storica di violenza e di sopruso che continuava da oltre vent’anni. Per non parlare dei crimini avvenuti durante l’occupazione della Jugoslavia, di cui tratteranno in questo speciale altri studiosi.
Senza conoscere la catena di eventi che scatenò reazioni di tal genere, non è possibile dare una chiave di interpretazione corretta a quegli avvenimenti e il Giorno del ricordo, anziché essere un’occasione di riflessione storica, rimarrà esclusivamente uno strumento politico.
PERSECUZIONI, CRIMINI FASCISTI E RESISTENZE
NEI BALCANI E NELLA VENEZIA GIULIA, 1920-1945
di Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki
Una conversazione con gli storici Carlo Spartaco Capogreco, Anna Di Gianantonio ed Eric Gobetti.
Nicoletta Bourbaki. Nell’ottobre 1993, su iniziativa dei governi dei due paesi, si è costituita una commissione mista storico-culturale italo-slovena, che ha presentato la sua relazione nel 2000. Lo scopo dichiarato era ricostruire i processi storici che, nel periodo 1880-1956, influenzarono i rapporti tra italiani e sloveni, per poter avviare nuove relazioni tra i due stati. Come giudicate quella vicenda, sia riguardo a come è nato e si è svolto quel lavoro di ricerca storica comparata, sia alla luce della diffusione pressoché nulla – ai limiti della censura – che ha avuto in Italia la relazione finale?
Eric Gobetti. Ho forti perplessità sui tentativi di creare una “memoria condivisa”, cosa oggettivamente molto difficile in situazioni di violenze estreme e di lunga durata. Ritengo più logico un riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o trovare una, spesso impossibile, mediazione. Fatta questa premessa, il lavoro della commissione ha rappresentato un enorme sforzo, portato avanti con estrema abilità diplomatica e nobili obiettivi di pacificazione delle memorie. Si possono muovere molte critiche a quel lavoro (a titolo d’esempio si può notare la totale assenza del termine “crimini” nel descrivere le repressioni italiane durante la guerra), tuttavia l’elemento più significativo è proprio la sua mancata circolazione in Italia. L’impostazione oggettiva e fattuale di quel testo infatti andrebbe in contraddizione con la vulgata che si è preferito diffondere al livello politico e mediatico in questi anni. In definitiva, pur con tutti i suoi limiti, credo che quel documento potrebbe aiutare almeno a ristabilire corretti dati fattuali dai quali partire per una seria analisi di un fenomeno complesso. In questa fase storica, sarei favorevole a un utilizzo della relazione per esempio nelle scuole e nelle commemorazioni del 10 febbraio. Tutto sommato, su quei decenni di violenze l’Italia ha prodotto un vero e proprio documento ufficiale, perché non utilizzarlo nella data ufficialmente destinata a ricordarli?
Carlo Spartaco Capogreco. Infatti, la mancata diffusione della relazione da parte dell’Italia non depone bene. Soprattutto considerando la discutibile impostazione impressa dall’Italia, alcuni anni dopo, alla legge sul Giorno del ricordo. In questo senso, come scrissi nel 2007 in occasione della polemica intercorsa tra gli allora presidenti di Croazia e Italia, Mesić e Napolitano, il modo in cui era stata scritta la legge istitutiva di questa commemorazione finiva per consolidare una lettura degli eventi storici sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale.
Al di là di ogni altra considerazione, aggiungo solo che nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004) l’omissione del contesto storico e, perfino, del termine “fascismo” non aiutano gli italiani di oggi a “fare memoria” realmente. A comprendere e a ricordare, anche, le sofferenze cagionate al nostro e ad altri popoli dalla dittatura fascista. Sulla legge del 2004 relativa alle foibe, confermo quanto scrivevo nel 2007 sul numero di aprile di L’Indice dei libri del mese: con la sua impostazione chiusa e nazionalistica, corre seriamente il rischio di “legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)”.
Anna Di Gianantonio. Si è tentato di trovare dei punti di equilibrio, dei punti di contatto incontrovertibili tra italiani e sloveni, in base all’idea che gli italiani hanno sbagliato con il fascismo e gli sloveni con le foibe, ma non so quanto possa reggere dal punto di vista storico questo tentativo di contemperare le varie responsabilità. Ultimamente un filone storiografico mette in discussione il rapporto causa-effetto nella storia.
Certamente i fatti storici hanno un’evoluzione più complessa dei processi chimici o meccanici, eppure il fascismo e la guerra hanno determinato le vicende al confine orientale in misura tale che risulta impossibile pensare che non abbiano avuto conseguenze nel 1945. Non mi pare che si possano accusare gli sloveni degli abusi da essi stessi subiti durante il ventennio. Al contrario, al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale. Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.
Tutta la cultura italiana legge lo slavo come l’Altro, compreso Scipio Slataper, che pure era una delle persone più attente alle implicazioni sociali del “problema slavo”. Nel suo libro Il mio Carso dipinge gli slavi come rozzi contadini senza cultura e senza storia. Certo ci sono intellettuali diversi, come Angelo Vivante, che nel suo Irredentismo adriatico si mostra molto consapevole del problema sociale ed economico che l’irredentismo può creare all’impero austroungarico, ma mi pare un caso molto isolato. Quando poi gli slavi già nei primi anni del novecento riescono a costruire le loro banche e le loro imprese, a emergere economicamente, si scatena anche una concorrenza. L’affermazione dell’italianità in ambienti misti porta a negare i legami che ci sono in una società come questa, dove è molto difficile dire chi è italiano e chi è sloveno. Aggiungo che la relazione del 2000 non è stata divulgata anche a opera degli stessi studiosi che l’hanno scritta. Gli stessi che ci hanno lavorato poi non hanno preteso che il lavoro fosse divulgato.
NB. Entriamo nel cuore delle questioni. Cosa rappresenta la Jugoslavia per l’Italia fascista?
EG. La Jugoslavia rappresenta il principale obiettivo strategico non solo dell’Italia fascista ma del nazionalismo italiano in generale. La prospettiva di espansione territoriale verso est è infatti precedente al fascismo e viene motivata storicamente con la secolare presenza veneziana lungo le sponde orientali dell’Adriatico. Con l’attacco del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo (della Dalmazia in particolare), il regime ottiene dunque un significativo successo politico e propagandistico, raggiungendo obiettivi strategici di lunga durata.
NB. L’aspetto che lei sottolinea, della volontà di espansione italiana nei Balcani anche prima del ventennio fascista e per tutta la sua durata, è centrale. Il razzismo antislavo a cui accennava Anna Di Gianantonio ne costituisce un aspetto davvero oscuro e poco conosciuto, che però serve a comprendere tutto ciò che avverrà in seguito. Ci torneremo più avanti. Prima analizziamo il culmine di questo processo: quello delle violenze belliche nei confronti delle popolazioni slovena, croata e montenegrina.
EG. Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza nei Balcani, che avvengono già poche settimane dopo la resa dell’esercito jugoslavo, e cioè nell’estate del 1941. In ogni diversa realtà geografica i fenomeni resistenziali e repressivi assumono forme differenti. In Montenegro l’apice della repressione si raggiunge immediatamente dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, quando l’esercito italiano impiega fino a 70mila uomini in quella che si caratterizza come una vera e propria spedizione punitiva. In quelle stesse settimane nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti. In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia. L’inizio di questa nuova fase repressiva coincide con la costruzione di una vera e propria cintura di filo spinato e posti di blocco attorno a Lubiana, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942. Nei mesi successivi, poi, una serie di rastrellamenti sempre più massicci seminano morte e distruzione in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina.
NB. Che ruolo hanno in tutto questo personaggi come Mario Roatta e Mario Robotti?
EG. Mario Roatta, ex capo del servizio informazioni militare (Sim) e delle forze fasciste in Spagna, è uno dei più apprezzati generali italiani. Non a caso viene scelto per comandare la seconda armata, che governa i territori jugoslavi annessi e occupati, dal confine italiano fino al Montenegro (escluso). Roatta guida l’esercito italiano in Jugoslavia nei mesi centrali dell’occupazione (essenzialmente nel corso del 1942) e imposta la strategia italiana su un doppio binario: un sistema di ampie alleanze militari con le realtà locali disposte a collaborare in una logica anticomunista, e una durissima repressione, codificata nella famosa circolare 3C (emessa in due versioni nella primavera e poi nell’estate del 1942) che identifica esplicitamente i civili come possibili favoreggiatori dei partigiani e dunque obiettivo privilegiato delle operazioni repressive.
CSC. La circolare 3C era un articolato repertorio rivolto alle forze di occupazione, contenente disposizioni per l’internamento dei civili e la lotta antipartigiana non molto diverse da quelle utilizzate dai nazisti nello stesso periodo. E dai rapporti della polizia segreta fascista dell’epoca emerge un forte apprezzamento dei comandi militari italiani per i metodi antiguerriglia usati dai tedeschi nei Balcani.
EG. Quanto a Robotti, già comandante militare in Slovenia, succede a Roatta al comando dell’armata nel febbraio del 1943. La sua nomina (che avviene però in una fase di recessione dell’impegno italiano in questi territori) è dovuta allo zelo con cui ha condotto la repressione in Slovenia nei mesi precedenti. Robotti è infatti noto agli studiosi per la severità con cui condusse le operazioni di rastrellamento, ma soprattutto per un atteggiamento particolarmente cinico verso le vittime delle repressioni italiane, esemplificato dalla famosa annotazione: «Si ammazza troppo poco!».
CSC. I nomi di Roatta e Robotti – accusati di crimini come fucilazione di ostaggi, terrore pianificato e atrocità e rappresaglie di vario genere – figurarono tra i primi negli elenchi degli italiani di cui, nel 1945, il governo di Belgrado chiese l’incriminazione alla War crimes commission dell’Onu.
NB. È possibile quantificare il numero di vittime dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia?
EG. Non sarà mai possibile stabilire una cifra precisa. Esistono però cifre parziali, che danno un’idea di un fenomeno niente affatto estemporaneo o marginale. Gli sloveni fucilati dagli italiani sono tra i 1.500 e i duemila; cinquemila montenegrini sono vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941.
Le vittime dell’internamento italiano sono invece circa centomila, e tra questi si contano cinquemila morti per fame, malattie, inedia. E ovviamente non stiamo contando i profughi, le migliaia di persone rimaste senza casa e proprietà in seguito alle devastazioni, ai saccheggi, agli incendi ordinati dagli italiani. Poi bisognerebbe considerare le vittime “indirette” del sistema di occupazione italiano, ovvero uccise fisicamente per mano di ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste che operano grazie al supporto italiano.
NB. Nel suo I campi del Duce, edito anche in Slovenia e in Croazia, il professor Capogreco ha ricostruito l’intera rete del sistema concentrazionario fascista operante in Italia e in Jugoslavia. Quanti furono i campi italiani in Jugoslavia? Potrebbe parlarci di quelli operanti sulle isole di Rab (Arbe) e di Molat (Melada)?
CSC. L’internamento dei civili jugoslavi, nell’ambito più generale dell’internamento civile fascista, fu numericamente preponderante. Se prendiamo in considerazione anche i più piccoli campi di transito e quelli temporanei, il numero complessivo delle strutture concentrazionarie italiane attive in Jugoslavia tra la fine del 1941 e l’8 settembre 1943 fu alquanto alto. Considerando, invece, solo i campi maggiori, essi furono una decina. Furono impiantati soprattutto lungo la costa adriatica, mano a mano che si andò sviluppando la resistenza nei confronti degli occupanti. E per i campi più importanti gli italiani preferirono la localizzazione insulare, come avvenne, per esempio, ad Arbe (nel golfo del Quarnero), a Melada (nell’arcipelago Zaratino) e a Mamula (all’imbocco delle Bocche di Cattaro).
I campi di Arbe e Melada furono indubbiamente tra i più grandi per capienza, e i peggiori per condizioni di vita. Peraltro, le pratiche d’internamento “a tappeto” realizzate dall’Italia fascista in quei due campi – vista l’assoluta arbitrarietà del sistema di “internamento parallelo”, irrispettoso delle più elementari tutele previste per i civili dal diritto internazionale – rientrano nella fattispecie dei crimini di guerra.
La mortalità, ad Arbe e Melada, fu sempre molto alta e legata soprattutto alla fame, alle intemperie e agli stenti. Ad Arbe morirono 1.477 persone su un numero totale di reclusi che nell’anno di funzionamento oscillò dai duemila agli ottomila. È una cifra raccapricciante. Gli internati di Melada, talvolta, morivano anche per fucilazione: giustiziati in quanti ostaggi, in occasione di particolari azioni partigiane.
NB. Che memoria ha avuto l’Italia del dopoguerra dei campi di concentramento fascisti e dei luoghi a essi collegati?
CSC. All’indomani della seconda guerra mondiale, la storia dei campi allestiti, tra il 1940 e il 1945, dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, fu pressoché rimossa dalla memoria collettiva. Questi argomenti – poco congeniali alla narrazione del passato che andò affermandosi dopo la fine della guerra – rimasero sostanzialmente avulsi dal sentire comune degli italiani e dall’interesse della ricerca accademica. Anche le strutture fisiche e i siti geografici dei campi italiani – al centro-nord non meno che al sud – furono oggetto di questa rimozione, restando privi di tutela e divenendo perciò, per così dire, “luoghi dell’oblio”…
La ricostruzione storica del sistema concentrazionario fascista, la relativa mappatura geografica e la riappropriazione di quel retaggio da parte della comunità nazionale richiesero tempi lunghissimi (e in parte restano ancora incompiuti). Anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza” della storiografia ufficiale – a farsi carico delle ricerche e della riscoperta dei siti, il più delle volte, furono studiosi free-lance, che agivano unicamente per passione personale.
La rimozione o la lettura assolutoria del passato più scomodo – supportate dalla mancanza di una “Norimberga italiana” – ebbero, evidentemente, nei campi di concentramento fascisti uno dei propri momenti topici, dando luogo a un vuoto di memoria tra i più emblematici e persistenti del secondo dopoguerra: un buco nero che, oltre alle vicende dei siti legati alla shoah (i “campi provinciali” per ebrei istituiti dalla Rsi, a partire dal dicembre 1943), avvolse anche quelle dell’“internamento parallelo”, la rete di campi fascisti per slavi che interessò sia la penisola sia i territori jugoslavi occupati; e azzerò perfino la memoria dei campi coloniali, nonostante che il suo stesso ideatore, il generale Rodolfo Graziani, ne avesse ammessa e rivendicata la creazione fin dagli anni trenta.
Tant’è che, nel 1965, a una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di tanti propri connazionali internati a Monigo (Treviso), le autorità trevigiane non seppero dir nulla di quel campo, e neppure indicare il luogo di sepoltura degli internati deceduti. Un episodio che testimonia la rimozione dello stesso dato storico dell’esistenza di campi di concentramento italiani. Una cancellazione tanto tenace e diffusa che contagiò, talvolta, perfino le benemerite associazioni dei deportati nei lager. In un libro del 1963 – Notte sull’Europa, a cura di Fernando Entasi e Roberto Forti – l’Associazione nazionale ex-deportati (Aned) attribuì sbadatamente alcune delle immagini più raccapriccianti del campo fascista di Arbe all’universo concentrazionario hitleriano.
NB. Quando comincia la partecipazione degli italiani alla resistenza jugoslava nei territori occupati nel 1941? Che caratteristiche e dimensioni ha il fenomeno, e che rapporto c’è tra resistenza jugoslava e resistenza italiana?
EG. Sono circa 300mila gli italiani che sperimentano sulla propria pelle la straordinaria capacità organizzativa e militare della resistenza jugoslava. Molti di loro porteranno a casa questa esperienza e, per chi farà la scelta partigiana dopo l’armistizio, la Jugoslavia rappresenterà sempre un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare.
Si calcola che siano almeno 50mila gli italiani che scelgono di resistere ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una cifra considerevole, ma va sottolineato che molti di questi uomini finiranno per essere uccisi o catturati nei primi mesi dopo l’armistizio. Per esempio i primi tentativi di resistenza nelle città dalmate di Spalato e Dubrovnik vengono subito stroncati dai tedeschi, che riconquistano le località e fucilano gli ufficiali catturati. Solo i più fortunati e i più motivati riescono a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e aderiscono o trovano un accordo con le unità partigiane jugoslave. Col tempo saranno costituite due divisioni partigiane interamente italiane – Italia e Garibaldi – che combattono agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo fino alla fine della guerra; mentre molti volontari italiani restano inquadrati come singoli o piccoli gruppi nelle unità jugoslave.
Nel caso che ho studiato più a fondo, quello della resistenza italiana in Montenegro raccontata nel mio film Partizani, dei 20mila uomini che inizialmente scelgono la resistenza, solo cinquemila andranno a formare la divisione Garibaldi nel dicembre del 1943. Dopo aver subìto gravissime perdite ed essere stata integrata con numerosi rimpiazzi, la Garibaldi rientrerà in Italia nel marzo del 1945 con circa 3.800 uomini.
NB. Con Anna Di Gianantonio, i cui studi si basano molto sulla raccolta di fonti orali, focalizziamo lo sguardo sulle regioni dell’alto Adriatico, la cosiddetta Venezia Giulia, a partire dalle centinaia di interviste con i testimoni diretti che ha realizzato. Che caratteristiche ha la resistenza in queste regioni e perché si manifesta per certi versi molto prima? Qual è il collante che permette di tenere assieme le forme prima embrionali e poi più strutturate di collaborazione antifascista tra i diversi gruppi “nazionali” e linguistici fin dalla fine della prima guerra mondiale?
ADG. Per quanto riguarda le caratteristiche della resistenza, il punto di partenza è sicuramente il lavoro operaio nelle fabbriche, in particolare nei cantieri navali, sia di Trieste sia di Monfalcone. Qui la manodopera è mista, composta da italiani e sloveni, in un cantiere lavorano migliaia di operai ed è facile avere rapporti con persone di diverse nazionalità. Tra l’altro è molto significativo che gli operai italiani, che avevano mansioni più elevate, riescono a costruire con i colleghi sloveni un rapporto che dura per tutti gli anni trenta. Quindi il dibattito sul fascismo e successivamente la coesione nella resistenza hanno radici profonde. Le cellule erano miste, si riunivano in anfratti del cantiere, nelle navi in costruzione e discutevano della situazione politica nei momenti di pausa.
L’operaio qualificato spiegava agli altri non solo il lavoro ma anche la politica. C’erano stati poi dei collegamenti negli anni trenta con le organizzazioni come il Tigr (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka – Fiume), composte da sloveni e croati che compivano attentati terroristici per reagire alle condizioni di vita cui erano costretti. Quindi nel 1941, al momento dell’occupazione italiana e tedesca del Regno di Jugoslavia e l’annessione della provincia di Lubiana, i contatti sono già attivi.
NB. Quali paure innesca la collaborazione tra antifascisti italiani e sloveni nelle classi dominanti dell’epoca?
ADG. Già all’indomani della prima guerra mondiale ci furono scontri di piazza e scioperi molto decisi nel cantiere, che il padronato tentò di sedare. Queste lotte erano nate soprattutto per il problema della casa, che era drammatico. Monfalcone era distrutta, gli operai erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna precari, per di più in un territorio affetto da malaria, cui erano esposte soprattutto le donne. Lottavano per un aumento salariale, un orario di lavoro adeguato e contro gli incidenti sul lavoro, che erano all’ordine del giorno.
Gli operai quindi entrarono in azione subito, spinti da un lato dalla volontà di riscattare con più diritti i sacrifici patiti dai soldati e dai loro familiari durante la guerra, dall’altro dalle condizioni economiche e sociali in cui vivevano, dure e precarie.
E non solo gli operai. Dopo la guerra il clima insurrezionale è diffuso, nel periodo che nella storiografia italiana viene chiamato “biennio rosso”. Fin da subito ci sono occupazioni dei comuni nel 1920, nel 1921 un gruppo di fascisti assalta il cantiere di Monfalcone con lanci di bombe contro i lavoratori, uno dei quali viene ucciso. Dalla fine del 1919 a tutto il 1920 vengono colpite sedi dei circoli di cultura e delle camere del lavoro, subito entrano in gioco le squadre fasciste esterne e interne al cantiere, gli “operai a doppia paga” che si guadagnavano un surplus con il pestaggio dei loro colleghi di lavoro. Lo scontro è acuto, così come precocissimo è il manifestarsi del fascismo. La violenza si scatena immediatamente, dalla fine della guerra e sotto i regimi liberali, grazie all’intervento di squadre sovvenzionate dagli armatori Cosulich in risposta a scioperi e manifestazioni. Il clima è incandescente – come ho detto – e proprio per questo a Monfalcone le squadre entrano in azione praticamente da subito.
NB. Stiamo parlando di episodi di violenza squadristica, antislovena ma anche antioperaia, che avvengono già prima della presa del potere da parte del fascismo.
ADG. L’opera di repressione, sia nei confronti degli operai sia nei confronti degli sloveni, avviene già sotto il governo liberale. L’azione delle squadre fasciste è precoce, precede di molto la marcia su Roma, che è la data di inizio del fascismo al livello nazionale. I lavoratori di questo parlano, anche perché gli sloveni conoscono l’italiano. Trascorrono insieme le domeniche, fanno feste, si incontrano, discutono, quindi la situazione politica è nota a tutti e due i gruppi “nazionali”. Questi gruppi di operai però nel corso del tempo si assottigliano, con i licenziamenti in fabbrica da un lato e la repressione dall’altro le cellule si riducono a pochi operai.
Si tratta tuttavia di una fetta importante della popolazione, di un mondo sloveno che è da subito antifascista perché anche la persecuzione comincia subito. Il Tigr nasce e agisce alla fine degli anni venti e già nel 1930 si celebra il primo processo di Trieste che si conclude con le fucilazioni di Basovizza. In seguito si forma una larghissima aggregazione clandestina di tutte le componenti politiche slovene – cristiano-sociali, cattolici, liberali, comunisti – che subisce la sua battuta d’arresto con il secondo processo di Trieste nel 1941, un processo grandioso e unico nella storia europea, in cui decine di esponenti di una comunità linguistica, di ogni estrazione politica, furono processati perché non volevano scomparire, e cinque furono mandati a morte senza che fosse provato nulla contro di loro.
NB. Spostiamoci al secondo dopoguerra, al “controesodo” dei cantierini monfalconesi che dal 1946 decidono di trasferirsi in Jugoslavia. Per quella scelta viene proposta l’interpretazione del perseguimento dell’ideale socialista, o di adesione alle direttive di partito, quindi motivazioni tutte ideologiche, fino ad arrivare, pensiamo al libro di Claudio Magris, Alla cieca, a questa idea dei cantierini che se ne vanno come degli ingenui idealisti che non hanno capito che si stanno gettando tra le braccia di un potere dispotico. Leggendo le testimonianze nei suoi libri sembra emergere una questione spesso non considerata, ovvero quella di una classe operaia multietnica che è abituata fin dall’ottocento a muoversi in un’area geografica molto vasta, che non guarda per niente al fatto se ci si muova nel mondo slavo o meno.
ADG. Va considerata assolutamente la dimensione europea di questa ricerca del posto di lavoro. In molti casi parliamo di operai provetti che trovano lavoro facilmente, come i Fontanot che vanno a Vienna, dove trovano lavoro, poi vengono mandati in Bulgaria in un piccolo cantiere, infine ritornano a Trieste e poi a Monfalcone. Un altro pezzo della famiglia va in Francia, dopo un tentativo fatto negli Stati Uniti, ma anche in quel caso continua l’attività antifascista sul campo. Spartaco, per esempio, entra nel famoso gruppo partigiano composto esclusivamente da mano d’opera immigrata, cioè da stranieri, che ha compiti di guerriglia urbana. Finirà fucilato dai nazisti come i cugini Nerone e Jacques, ma anche in quel caso i superstiti tornano a Monfalcone alla fine. Sono persone che sanno lavorare, costruire una nave a quel tempo è un’operazione artigianale, c’è un sapere che viene fatto valere.
Per quanto riguarda coloro che vanno in Jugoslavia dopo la guerra, bisogna ricordare che nel periodo 1945-1947 operava il Partito comunista della regione Giulia (Pcrg) e permanevano i “poteri popolari”, forme di democrazia diretta instaurate dopo il conflitto e prima dell’amministrazione americana. Aleggiava l’idea che si potesse ancora “dare una spallata” e creare un mondo nuovo, ma ci fu anche una sequela spaventosa di attentati fascisti e una mancanza di posti di lavoro dovuta ai novemila licenziamenti minacciati e ai duemila messi in atto dal cantiere. A Monfalcone e a Trieste nel luglio del 1946 si svolse un enorme sciopero chiamato “dei dodici giorni” che cominciò con il blocco del Giro d’Italia a Pieris e proseguì con il blocco totale di tutte le fabbriche e le campagne, ma poi fu represso e fallì.
Va ricordato il clima nel dopoguerra alimentato dal Pcrg, che il partito di Togliatti cercò di “moderare” nel suo desiderio di passare alla Jugoslavia, cosa che riuscì solo con il ritorno a Trieste di Vittorio Vidali, che stroncò anche in modo violento coloro che non avevano rinnegato Tito dopo il 1948. Il Pcrg dunque aveva creato il mito della Jugoslavia e pertanto esitava a fermare le partenze degli operai.
In conclusione, c’è stata la spinta dei licenziamenti, della repressione, e l’idea che lì si potesse stare meglio, alimentata anche dal partito. Infine ci sono gli esuli dall’Istria, che si stabiliscono a Gorizia, Monfalcone, Trieste. Ci sono scontri, lotta per il posto di lavoro, licenziamenti da una parte e assunzioni dall’altra. Molti esuli vengono assunti in cantiere. Mario Udovisi, un esule e un fascista dichiarato che ho intervistato, sostiene di essere stato una specie di ufficio di collocamento del cantiere che suggeriva ai responsabili chi assumere e chi licenziare. Quindi si genera una situazione politica e sociale di grande tensione. E poi appunto i rapporti e i contatti che c’erano stati spingono la gente a cercare lavoro altrove, sia per motivi economici sia per ideali politici.
NB. Cosa comportò realmente la rottura tra Tito e Stalin per gli italiani trasferiti in Jugoslavia? Quali e quanti finirono stritolati nel conflitto? Negli ultimi anni si è parlato molto del campo di prigionia di Goli Otok, dove furono mandati i “cominformisti” e dove finirono anche italiani.
ADG. Non tutti cadono nella dinamica repressiva che segue la rottura tra Stalin e Tito del 1948. Centinaia di persone partecipano a un’assemblea a Fiume a favore dell’Unione Sovietica dopo lo strappo del Cominform, subito individuate dalla polizia e quindi incarcerate, anche se pochi italiani finirono a Goli Otok. A Fiume vi è una forte concentrazione di dissidenti che prende posizione pubblicamente, ma quelli che erano da altre parti della Jugoslavia, della risoluzione verranno a sapere molto tempo dopo, nessuno gli chiede da che parte stanno, non si pronunciano e continuano a lavorare. Non tutti sono repressi, e non tutti se ne andranno, alcuni torneranno in Italia molti anni dopo.
Pino Petean, uno dei miei intervistati, rimane e anche Silvano Cosolo, che vive a Sarajevo e ne parla come un mondo per lui meraviglioso, dove si fanno le lotte per migliori condizioni di lavoro. Ha scritto un libro intitolato Amare Sarajevo in cui descrive un mondo che sente più libero, parla di libertà religiosa e sessuale, di un mondo che non aveva nulla a che fare con la rigidità dei costumi nell’Italia degli anni cinquanta. È il racconto di una bellissima gioventù, con un rapporto molto aperto con le donne per esempio, in cui lui fa le lotte operaie nel contesto jugoslavo per avere maggior reddito, e dove non è che venga perseguitato perché è italiano. Lui torna molti anni dopo perché vuole tornare al suo paese, a San Canzian d’Isonzo.
Questi che vanno in Jugoslavia trovano un ambiente per loro stranamente liberale, riconducibile al fatto che non è un paese cattolico. A Sarajevo poi già nell’immediato dopoguerra sono rappresentate e praticate tutte le confessioni religiose, non c’è discriminazione religiosa. Infine diversi lavoratori con le loro famiglie tornano in Italia, ma dalla metà degli anni cinquanta. E magari poi diranno «eravamo sciocchi perché pensavamo di trovare le salsicce che cascavano dagli alberi»: erano partiti con l’idea di vivere in un mondo economicamente più ricco, solo perché socialista, mentre si erano ritrovati in una nazione distrutta dalla guerra.
Tutto questo non significa negare Goli Otok, ma collocare quella vicenda nella sua prospettiva di repressione politica mirata sugli oppositori interni, tant’è vero che vi finirono anche alti dirigenti militari, professionisti, professori jugoslavi. Il fatto è che Tito, oltre ai problemi di ricostruzione di un paese distrutto, non vuole avere anche il problema della quinta colonna sovietica al suo interno. A Goli Otok ci sono quelli che si schierano con l’Urss, e nemmeno tutti, e la maggior parte proviene da altre repubbliche jugoslave.
Conversazione avvenuta via email dal 10 al 24 gennaio 2017.
ESODO E FOIBE.
SEPARARE CIÒ CHE APPARE UNITO
di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk Intervista con gli storici Jože Pirjevec e Sandi Volk.
Nicoletta Bourbaki. Ogni anno si sente ripetere dai mezzi di informazione che gli infoibati tra 1943 e 1945 furono almeno diecimila, e si parla spesso di un genocidio della popolazione italiana paragonabile alla Shoah per crudeltà se non per i numeri. È credibile tutto ciò? Ci può dare una stima attendibile del numero di persone uccise nella Venezia Giulia dalle forze legate alla resistenza Jugoslava, nel corso di esecuzioni collettive, tra il settembre 1943 e il maggio-giugno 1945? Queste vittime sono tutte “infoibate”?
Jože Pirjevec****. Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato. Penso che al massimo si possa parlare di 400 – 500 vittime.
Relativamente alle persone decedute a causa di tutte le forme di violenza – arresti, deportazioni, “infoibamenti” – dopo il 1 maggio 1945, secondo la storica slovena Nevenka Troha le vittime nella zona di Trieste sarebbero state 601. Claudia Cernigoi fornisce cifre leggermente più basse e parla di 498 morti. Sempre secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Per queste ultime zone, determinare il numero dei morti risulta più difficile. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.
Questi numeri trovano conferma in una recente ricerca: Urška Lampe, nella sua tesi di dottorato dell’Università del Litorale di Capodistria – Deportazioni dalla Venezia Giulia dopo la seconda guerra mondiale, 1945-1954 – cita documenti dell’ufficio zone di confine, tra i quali ha reperito i dati di uno studio sugli scomparsi, coordinato negli anni cinquanta dal commissariato generale del governo per il Territorio di Trieste. Nel 1959, dopo alcuni anni di ricerca, i risultati mostrarono che nel territorio di Trieste, Gorizia e Udine i morti per diverse cause – “infoibati”, fucilati o deceduti per malattia – furono 645; i deportati che poi rientrarono dai campi jugoslavi 1.239; quelli che non ritornarono 1.982.
Dunque, secondo questa indagine il numero totale delle vittime per mano jugoslava nel periodo dopo la liberazione non dovrebbe superare i 2.627, numero non dissimile dalle stime sopra menzionate. Inoltre possiamo ritenere che un certo numero di persone rimpatriate non sia stata registrata o non si sia presentata alle autorità per paura di un nuovo arresto dovuto al presunto passato fascista. Sono cifre che le autorità italiane avevano a disposizione già nel 1959, ma non sono mai state pubblicate. Ciò mi sembra significativo, perché dimostra che grande operazione propagandistica e politica sia stata portata avanti negli ultimi decenni.
NB. Quali persone furono uccise, e in quali contesti? Si parla di foibe istriane, dell’occupazione di Trieste nel maggio del 1945, di deportazioni…
JP. Si tratta di situazioni molto diverse. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, fondamentalmente anarchica, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale.
I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale. In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale.
Quando all’inizio dell’ottobre 1943 i tedeschi cominciarono a occupare l’Istria per assicurarsi il controllo sulla neocostituita Zona di operazione Litorale Adriatico (Ozak), le forze partigiane non furono in grado di far fronte alla Wehrmacht. Per questa ragione decisero di sbarazzarsi dei prigionieri. Molti di questi furono frettolosamente fucilati. In altri casi si procedette invece al loro rilascio, in alcuni frangenti liberando, senza rendersene conto, anche criminali fascisti. Relativamente al numero delle vittime, nelle stime degli storici non ci sono grandi divergenze: dovrebbero aggirarsi tra 400 e 500, sebbene il numero delle persone realmente “infoibate” – cioè gettate nelle voragini carsiche – sia inferiore, tra le 250 e le 300. Le altre morirono in modi diversi e alcune semplicemente scomparvero. I morti sul territorio dell’attuale Repubblica di Slovenia dovrebbero essere 26, mentre le altre vittime si riferiscono alla parte dell’Istria che oggi si trova in Croazia.
Va sottolineato che i tedeschi, quando occuparono l’Istria nell’ottobre del 1943, fecero decisamente molte più vittime e deportarono moltissimi istriani a Dachau e in altri campi di concentramento, ma di questo non parla quasi nessuno.
A guidare la repressione sul Litorale Adriatico fu mandato Odilo Globočnik, uno degli alti ufficiali nazisti più vicini a Himmler. Globočnik ha una storia particolare: nato a Trieste da padre sloveno, emigrato in Austria dopo il crollo dell’impero asburgico, aveva fatto una notevole carriera dentro il partito, diventando uno dei leader del nazismo carinziano. Nel 1941 fu inviato in Polonia per pianificare lo sterminio degli ebrei. Nel 1943, accusato di malversazioni e di appropriazione indebita, fu mandato punitivamente a Trieste con i suoi collaboratori per combattere i partigiani.
Oltre a effettuare repressioni e rappresaglie, lo staff di Globočnik sfruttò la questione foibe in funzione antibolscevica, come era stato già fatto nel caso dell’eccidio di Katyń in Polonia. I corpi decomposti delle vittime istriane furono recuperati, le loro foto affisse nelle vie cittadine. Furono pubblicati opuscoli sull’argomento. Le autorità fasciste, quelle di Salò, si agganciarono immediatamente a quel filone, e l’azione propagandistica acquisì un’enorme risonanza, collegandosi poi – a guerra finita – alla questione delle foibe triestine e goriziane.
NB. Riguardo alle foibe triestine e goriziane e alle deportazioni, abbiamo visto che negli avvenimenti del 1943 le vittime appartengono alla borghesia dei paesi istriani. Invece nei fatti del 1945 le vittime chi sono?
JP. Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone. Diverse cause convergevano in quella vicenda: da una parte la volontà di controllare e neutralizzare i possibili avversari, dall’altra ragioni di vendetta personale, di rivalsa. Si verificarono pure episodi di saccheggio, perché le nuove autorità non erano in grado di controllare la situazione.
NB. Si accusano spesso i partigiani jugoslavi di avere infoibato molti dirigenti e partigiani del Comitato di liberazione nazionale di Trieste, è vero? Perché le forze legate alla resistenza jugoslava, compresi diversi reparti formati da partigiani italiani comunisti, si scontrarono con le forze della resistenza italiana “moderata”?
JP. La resistenza italiana – che oltre a essere appunto “moderata”, era anche numericamente modesta – non fu in grado di comprendere che la frontiera stabilita nel 1920 a Rapallo era ormai obsoleta. Pensava ancora di poter conservare il vecchio confine, che privava la nazione slovena di un quarto del suo territorio. Quei “liberali” italiani riconoscevano i molti torti subiti dagli sloveni durante il fascismo, e assicuravano che in futuro i rapporti interetnici nella zona sarebbero stati più corretti, ma non erano disposti ad accettare una frontiera diversa tra Italia e Jugoslavia. Men che meno, l’idea di Trieste jugoslava.
Per questo motivo i rapporti tra le due resistenze furono conflittuali fin dall’inizio: alcuni esponenti della resistenza moderata, non molti per la verità, furono arrestati e rinchiusi nelle prigioni dell’Ozna, la polizia segreta della Jugoslavia. Vi rimasero per qualche mese e alla fine del 1945 alcuni furono fucilati.
NB. Di quante persone stiamo parlando?
JP. Non abbiamo dati certi. Grazie all’intervento di uno dei capi comunisti sloveni, Boris Kraigher, i membri del Cln incarcerati a Trieste – tra i più noti lo storico Carlo Schiffrer – furono tutti rilasciati tranne uno. Due membri del Cln goriziano furono deportati e probabilmente uccisi già a maggio. Uno dei capi del Cln di Trieste, Giovanni Paladin, pubblicò un elenco di trenta partigiani del Corpo volontari per la libertà a suo dire deportati o “infoibati”. Tra questi troviamo i nomi di alcuni morti in prigionia, ma anche di altri che riuscirono a ritornare dopo alcuni anni.
NB. Perché fin dall’immediato dopoguerra in Italia si comincia a parlare di foibe? E perché questo termine diventa così carico di significati simbolici?
JP. Bisogna dire innanzitutto che l’idea della voragine in cui sono gettati i nemici ha qualcosa di orrido, di spaventoso, è molto efficace nel colpire emozionalmente ed evocare paure primordiali.
Da un punto di vista politico, invece, in una situazione in cui la questione del confine orientale era ancora aperta, le forze di destra – non tanto la politica ufficiale, ma piuttosto i giornali ed i fascisti che si erano riscoperti “democratici” – sfruttarono a fondo le “foibe”, elaborando una narrazione che colpisse l’immaginario collettivo.
NB. La foiba di Basovizza è stata proclamata monumento nazionale perché vi sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone. Su quali basi si afferma ciò?
JP. Su nessuna, per quanto mi risulta. Io ho visto i documenti statunitensi e britannici su Basovizza. Appena presero il controllo di Trieste, dopo il 12 giugno 1945, gli alleati furono sollecitati dalle forze politiche italiane a effettuare un’esplorazione della foiba. Nei primi giorni dopo la ritirata jugoslava ci furono alcune esplorazioni. Ricerche più concrete cominciarono alla fine di luglio o all’inizio agosto, e si protrassero fino alla fine di novembre. Nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti, Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene.
Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo.
Negli anni cinquanta il pozzo di Basovizza fu usato per un certo periodo come discarica dal comune di Trieste. Gli alleati, prima di abbandonare Trieste nel 1954, vi gettarono a loro volta molta ferraglia. Successivamente, una ditta locale ottenne il permesso di sgomberare la “foiba” da quel materiale, per poterlo riutilizzare come ferrovecchio. Nemmeno gli operai che ci lavorarono trovarono resti umani.
Nel 1959 il pozzo fu sigillato con una lastra di pietra, affinché nessuno potesse procedere a ulteriori indagini, con il pretesto che la sua esplorazione era troppo pericolosa per la presenza di esplosivi o simili. C’era stato effettivamente un ferito, si trattava di uno degli operai della ditta incaricata di svuotare il pozzo. Aveva utilizzato durante il carnevale un petardo trovato nella fossa.
Nei primi anni sessanta il pozzo di Basovizza diventò una specie di simbolo di tutte le “foibe” della nostra zona, un luogo di pellegrinaggio, tanto che nel 1992 è stato proclamato monumento nazionale.
NB. È corretto a suo parere parlare di “negazionismo” in merito alle foibe come si fa riguardo alla shoah?
JP. È offensivo, francamente. Per il libro sulle foibe che ho pubblicato con Einaudi nel 2009 insieme ad alcuni collaboratori, sono stato accusato di essere un negazionista, alla stregua di David Irving, lo studioso che nega la shoah. Ma io non nego affatto le foibe: ne contesto l’uso politico e l’entità delle cifre riportate. Si tratta di conoscere la verità storica e inserirla in una realtà oggi lontana e difficilmente comprensibile nella sua drammaticità. Non va dimenticato che in ogni paese dove c’è stata la resistenza, a guerra finita ci furono episodi di repressione analoghi, anche feroci. Ma dove si sono ammazzati tra connazionali – italiani che uccidevano italiani, francesi che uccidevano francesi, norvegesi che uccidevano norvegesi… – la questione è stata lasciata cadere nell’oblio.
Nelle nostre terre, dove sloveni, croati, serbi, jugoslavi hanno ammazzato italiani, ovviamente la vicenda è stata coltivata e sfruttata da coloro che hanno interesse che i rapporti tra i nostri popoli non migliorino.
Il Territorio libero di Trieste (TlT), istituito dal trattato di pace del 1947 e diviso provvisoriamente in zona A (sotto amministrazione angloamericana) e zona B (sotto amministrazione jugoslava). Nel 1954, in base al memorandum di Londra, la zona A passò sotto amministrazione italiana. Con il trattato di Osimo nel 1975 Italia e Jugoslavia sancirono la definitiva spartizione del TlT tra i due stati.
Nicoletta Bourbaki. Parliamo dell’esodo dai territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia al termine della seconda guerra mondiale. I numeri dei profughi sono nebulosi e non c’è completa chiarezza nemmeno sull’arco temporale. Perché?
Sandi Volk. Perché quei numeri servivano allo stato italiano alla conferenza di pace, quale dimostrazione dell’attaccamento della popolazione all’Italia e proprio per questo sono numeri inattendibili. La verifica più facile, rispetto al numero canonico di 350mila, consiste nel prendere e sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.
Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Oapgd, più conosciuta come Opera profughi) agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili. L’Opera profughi reperì 140.091 persone con la qualifica ufficiale di profugo rilasciata dalle prefetture e 4.553 profughi deceduti dopo l’emigrazione. A questi furono aggiunte 46.260 persone non materialmente reperite, verosimilmente emigrate all’estero, e altre 10.536 persone che non avevano avuto la qualifica di profugo ma che, a dire dell’Opera profughi, “non potevano essere escluse”, compresi i familiari acquisiti dopo l’emigrazione. In questo modo l’Opera profughi è arrivata a “censire” 201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.
Questo tipo di “censimento” è alla base di tutte le ancor più fantasiose quantificazioni successive. Padre Flaminio Rocchi, artefice della cifra “ufficiale” dei 350mila, aggiunge al numero dei profughi anche i deceduti prima dell’esodo! Mi pare evidente che ci sia una volontà politica di non arrivare a una quantificazione seria, che peraltro potrebbe essere ottenuta tranquillamente ricorrendo alle schede di censimento dell’Opera profughi oppure, meglio ancora, alle anagrafi slovene e croate, dove sono annotate le cancellazioni dalla residenza e dalla cittadinanza.
NB. Per quale ragione si associano le foibe all’esodo, pur essendo fenomeni distinti?
SV. L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto. L’argomento degli intenti genocidi dei partigiani nei confronti degli italiani fu utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943, per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana. Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco.
L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.
NB. Si dice che gli italiani d’Istria scelsero di andarsene per rimanere italiani e al tempo stesso che furono obbligati ad andarsene in quanto italiani: cosa c’è di vero – o di falso – in queste affermazioni? Quale fu il destino di chi scelse di rimanere?
SV. Chi rimase si trovò in una situazione in cui da gruppo dominante passava a gruppo minoritario. Sebbene la Jugoslavia si facesse vanto delle numerose minoranze che vivevano al suo interno, compresa quella italiana, e garantisse agli italiani posti negli organismi rappresentativi e nelle istituzioni politiche, ci furono anche spinte alla “slovenizzazione” o “croatizzazione”, con i diritti garantiti sulla carta alla minoranza italiana applicati in maniera molto diseguale.
Quanto alle interpretazioni citate, si tratta dell’ennesima semplificazione a uso politico. Se ne andarono italiani, sloveni e croati, come attestano le stesse organizzazioni dei profughi. Anche perché il diritto a optare per la cittadinanza italiana non era legato alla nazionalità, bensì alla “lingua d’uso italiana”.
Sul fatto che gli italiani furono tutti cacciati, diverse testimonianze di profughi e documenti delle associazioni attestano che la Jugoslavia rigettò parecchie domande d’opzione per la cittadinanza italiana. Credo che le cose vadano viste nel contesto complessivo: si trattò sicuramente di uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi anche di discriminazione degli italiani da parte di alcune autorità locali (le autorità federali jugoslave erano decisamente contrarie a tali pratiche e intervennero in varie occasioni), ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche. Il geografo Gianfranco Battisti ha descritto l’esodo come l’intensificazione di un processo, già in atto precedentemente, di spostamento degli italiani dalle zone del confine orientale verso l’interno dell’Italia, verso il “triangolo industriale”, che infatti fu una delle principali zone d’insediamento dei profughi del dopoguerra.
Inoltre vanno considerate le singole realtà dell’Istria, spesso molto diverse tra loro, e le realtà di singoli gruppi, per esempio i funzionari dello stato italiano immigrati tra le due guerre che “seguirono il posto di lavoro” tornando in Italia.
Sarebbe inoltre necessario indagare l’attività delle organizzazioni filoitaliane e il peso che ebbero nello spingere gli istriani a partire: il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria distribuiva denaro alle famiglie dei sostenitori e simpatizzanti dell’Italia e sovvenzionava attività di propaganda. Il fatto che all’inizio degli anni cinquanta, in una situazione di totale indigenza della popolazione, il Cln dell’Istria comunicasse che i sussidi sarebbero cessati e i soldi sarebbero stati utilizzati per il sostegno ai profughi in Italia, fu certamente un fattore che spinse la gente ad andarsene, come anche la propaganda volta a far partire gli istriani. Sicuramente ci fu chi se ne andò “per restare italiano”, ma si trattava di solito del ceto dominante. Si verificarono anche episodi di persone espulse, solitamente oppositori politici o attivisti delle organizzazioni filoitaliane, prese e accompagnate alla frontiera, ma si trattò di casi molto limitati.
NB. Si diceva che l’esodo è avvenuto in un arco temporale molto ampio, ma è corretto parlare di un unico esodo?
SV. È problematico, perché in realtà cominciò nella primavera del 1941, con l’esodo da Zara decretato dalle autorità militari italiane in previsione dell’attacco alla Jugoslavia, esodo che coinvolse alcune migliaia di persone. Se teniamo conto che la data limite “ufficiale” è il 1958 e in realtà le persone ebbero la qualifica di profughi anche più tardi, definirlo un unico esodo è piuttosto azzardato.
NB. Dipendeva anche dall’anno, dalla situazione internazionale?
SV. Sì, sicuramente. Infatti, come già detto, per capire contesti e motivazioni andrebbero approfondite le singole ondate. Ma evidentemente si preferisce ridurre tutto a una “partenza degli italiani per rimanere italiani”. Questa è una spiegazione politica che non spiega nulla, in ciò speculare a quelle date da parte jugoslava secondo cui quelli che se ne n’erano andati erano tutti fascisti ovvero “sfruttatori del popolo”.
NB. Qual è il ruolo dei Cln di Pola e Fiume nell’esodo dalle rispettive città? E quale fu l’atteggiamento dell’Italia rispetto a questi trasferimenti da Pola e Fiume, che sono un po’ diversi rispetto agli altri?
SV. Il Cln di Fiume fu il primo a usare apertamente l’invito all’esodo come strumento di lotta politica con il quale convincere gli alleati ad assegnare la città all’Italia. Ma, a parte qualche volantino, ebbe poco peso reale. Il Cln di Pola, invece, era un’organizzazione probabilmente maggioritaria in città, interlocutrice ufficiale del governo italiano e con in mano le leve del potere politico. Di fatto, decretò e organizzò l’esodo, sempre per convincere la conferenza di pace che quelle terre dovevano tornare all’Italia, nella speranza che ciò potesse accadere magari a lungo termine. Il governo italiano mise a disposizione del Cln di Pola denaro, trasporti e posti dove alloggiare gli emigrati, senza però un piano preciso per il loro insediamento definitivo. I profughi furono dunque sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta.
Ad allungare i tempi per la sistemazione definitiva di istriani e dalmati contribuì anche la scelta, collaudata proprio con l’esodo da Pola, di insediarli il più compattamente possibile, in particolare nelle zone del confine orientale, soprattutto a Trieste e nel goriziano, e in zone politicamente inaffidabili per i governi democristiani, come Emilia-Romagna e Toscana, allo scopo di “bonificare” nazionalmente o politicamente quelle zone. L’insediamento compatto in borghi destinati esclusivamente ai profughi istriani corrispondeva anche all’interesse delle organizzazioni degli esuli. Queste, evitando che i profughi – cioè la loro base – si “diluissero” nella società, potevano mantenere il proprio peso e il ruolo politico.
Tuttavia già negli anni cinquanta gli stessi dirigenti delle organizzazioni dei profughi cominciarono a porsi la domanda se fosse stato giusto scegliere la strada dell’emigrazione definitiva. Alcuni, come Guido Miglia, dirigente del Cln di Pola, giunsero a sostenere che l’esodo era stato usato strumentalmente dalle forze politiche italiane più reazionarie in funzione anticomunista e per mantenere tesi i rapporti con la Jugoslavia.
NB. Il nome Comitato di liberazione nazionale di solito è associato alla lotta antifascista. I Cln di Fiume, di Pola e dell’Istria sono coinvolti nella lotta antifascista?
SV. No, nascono dopo la fine della guerra. Durante la guerra, in Istria i Cln praticamente non ci sono. Quello di Pirano e quello di Isola sono gli unici di cui abbia conoscenza, ma la loro attività fu pressoché insignificante. Tutti gli altri Cln sono nati, come dicevo, dopo la guerra e avevano come obiettivo il mantenimento di quei territori all’interno dello stato italiano. Facevano anche attività clandestina: raccoglievano informazioni di tipo giornalistico, che venivano passate a Radio Venezia Giulia, e di tipo spionistico, che passavano ai servizi segreti. C’era anche un’attività di tipo “militare” (sabotaggi, eccetera), ed è uno degli aspetti meno studiati di questa vicenda.
Il più importante e duraturo di questi Cln fu quello dell’Istria, che fu organizzato a Trieste con i rappresentanti dei comitati clandestini delle varie località istriane. Una volta riorganizzato su base partitica, il Cln dell’Istria diventò l’interlocutore principale di Roma per quanto riguardava l’appartenenza statale dell’Istria, ma fu anche molto importante nella vita politica triestina. Per esempio, fu proprio il Cln dell’Istria a portare la maggioranza dei partecipanti alla prima manifestazione di massa del fronte favorevole all’Italia a Trieste nella primavera del 1946. Dopo il 1954 si trasformò da organizzazione dei filoitaliani dell’Istria in organizzazione dei profughi a tutto tondo, mantenendo rapporti privilegiati con il governo e aumentando il suo peso nella politica triestina.
NB. Quali altre organizzazioni si occupavano dei profughi?
SV. Ce n’erano una miriade, organizzate su base di provenienza geografica o di categoria, ma per quanto riguarda l’assistenza, la più importante fu di gran lunga l’Opera profughi, che ho già citato. L’Opera fu un organismo unico, nato su iniziativa dello stato italiano ma diretto da privati, che gestì completamente l’assistenza agli esuli in qualunque aspetto, dall’alloggio nei campi profughi, all’assistenza all’infanzia, alla sistemazione lavorativa. Ebbe un ruolo molto importante anche perché contribuì a costruire una nuova identità “profuga” che sostituì la precedente identità locale, fatta anche di dialetti diversi e di accentuate rivalità campanilistiche.
La costruzione di questa identità “profuga” comune avvenne nei vari enti, istituti e iniziative dell’Opera – dove giocoforza si trovarono insieme esuli di tutte le età e di tutte le località dell’Istria – attraverso l’uso del dialetto quale “lingua ufficiale”, attraverso la costruzione di una memoria storica patriottica comune, attraverso i mezzi d’informazione (negli anni cinquanta la radio Rai nazionale trasmetteva uno specifico programma per i profughi), attraverso i raduni e le celebrazioni delle organizzazioni degli esuli.
NB. Qual è l’identikit del profugo istriano?
SV. In realtà non c’è un identikit del profugo istriano, perché se ne andarono persone di tutti i tipi, provenienti da luoghi diversi, di condizioni sociali diverse, per ragioni diverse. Nell’Archivio centrale dello stato ci sono elenchi molto dettagliati dei profughi, divisi per categorie professionali o addirittura di mestiere, in cui si trova di tutto.
NB. Ma dunque esiste una statistica sui profughi?
SV. Esistono le statistiche basate sul censimento dell’Opera profughi, che sono del tutto inaffidabili. Tuttavia, potendo accedere ai moduli del censimento, che sono molto dettagliati, sarebbe sicuramente possibile fare delle statistiche. Ma l’archivio, con il pretesto che contiene dati personali, è consultabile solo da pochi eletti e, purtroppo, chi ha avuto modo di accedere a quei dati non ha mai prodotto nulla di interessante o di scientificamente significativo.
NB. L’orientamento politico dei profughi era determinante?
SV. Direi discriminante per poter accedere ai sostegni e agli aiuti dello stato. Per avere la qualifica di profugo, che dava diritto all’assistenza (aiuti economici, accesso al campo profughi, assistenza all’infanzia, ai giovani e agli anziani, impiego, assegnazione degli alloggi), si doveva passare per apposite commissioni al livello provinciale, di cui facevano parte, con ruolo decisivo, le organizzazioni dei profughi. Chi era considerato “non abbastanza italiano” non otteneva la qualifica. Va anche detto che non tutti i profughi erano ritenuti ugualmente meritevoli o affidabili per le iniziative di “rafforzamento dell’italianità” e di bonifica politica di zone ritenute “calde”. Spesso ai profughi le commissioni chiedevano anche di fornire informazioni su conoscenti e altro, e non tutti erano disponibili a farlo. I “cominformisti” istriani, cioè i comunisti che nel 1948 si schierarono con Stalin contro Tito e poi si rifugiarono in Italia, spesso nemmeno si rivolsero alle commissioni. E in queste ultime ci fu chi propose di non dare loro nessun tipo di assistenza. Alla fine, ai cominformisti fu concesso unicamente l’alloggiamento nei campi.
Ci furono inoltre notevoli differenze nel livello di assistenza, anche a seconda delle varie “ondate” di profughi. Ciò generò proteste e recriminazioni anche pesanti da parte di chi era partito già nel 1945 e considerava i profughi recenti “meno fedeli all’Italia” rispetto a chi se n’era andato subito. Una categoria particolare fu poi quella dei cosiddetti “muggesani”, quelli che abbandonarono alcune frazioni del comune di Muggia comprese nella zona A del Territorio libero di Trieste, cedute alla Jugoslavia nel 1954. Erano in gran parte operai dei cantieri navali di Muggia (che rimase in Italia) di orientamento comunista. Proprio per questo della loro sistemazione non si occuparono gli organismi di governo o l’Opera profughi, bensì l’amministrazione comunista del comune di Muggia. Fu l’unico caso in cui fu rotto il monopolio dei partiti di governo, della Dc in primis, nella gestione dell’assistenza ai profughi a Trieste. Un monopolio che fu segnato anche da pesanti scandali finanziari e da appropriazioni indebite.
NB. Al termine del secondo conflitto mondiale in Europa abbiamo diversi esempi di spostamenti forzati di popolazione, che a loro volta rientrano nel quadro degli scambi di popolazione che hanno interessato il continente per tutto il novecento. Quali sono le differenze e quali le similitudini con l’esodo dell’Adriatico orientale? Per esempio rispetto ai tedeschi della Polonia o dei Sudeti?
SV. La differenza sostanziale è che non c’è uno scambio di popolazioni, anche se l’Italia l’aveva proposto durante le trattative di pace, né un esodo forzato. Nulla di paragonabile con gli scambi di popolazione tra Polonia e Ucraina o con l’espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale, fenomeni accompagnati da massacri, campi di concentramento e scontri armati. Le stesse organizzazioni dei profughi hanno focalizzato le similitudini piuttosto sulla gestione della sistemazione dei profughi. In particolare, ho trovato richiami alla vicenda dei finlandesi emigrati dai territori annessi all’Urss dopo il 1945, in parte a quella dei tedeschi espulsi dai paesi dell’est, ma soprattutto a quella dei profughi greci dopo il 1923, quando i cristiani ortodossi dell’Anatolia dovettero emigrare in Grecia mentre i musulmani di Grecia dovettero trasferirsi in Turchia. In Grecia l’insediamento dei profughi ebbe un impatto molto maggiore che in Italia, dato che i profughi erano più di un milione su una popolazione totale di circa 4,5 milioni di abitanti. Il loro insediamento fu mirato, gestito da organizzazioni ad hoc ed ebbe anche precise finalità politiche, in questo caso opposte a quelle perseguite in Italia: i profughi greci erano infatti generalmente schierati su posizioni liberali e di sinistra e furono utilizzati per rafforzare il partito liberale di Venizelos.
NB. L’antropologa Pamela Ballinger paragona gli esuli istriani a quelli cubani, per l’ideologia, per l’uso politico dei profughi a Miami…
SV. Credo il paragone possa essere plausibile, anche se personalmente li vedo più simili ai pieds noirs, i coloni francesi emigrati dopo l’indipendenza algerina. I dirigenti e le organizzazioni degli ex coloni francesi usarono spesso argomentazioni razziste nei confronti degli algerini, sottolineando la “missione civilizzatrice” dei francesi nei confronti dei barbari indigeni, argomentazioni simili a quelle usate dalle organizzazioni degli esuli nei confronti degli “slavi”. Chiaramente questo paragone calza relativamente all’atteggiamento delle organizzazioni e delle loro dirigenze, non a quello della massa profuga.
IL VIAGGIO CONTINUA.
POSSIBILI PERCORSI DI APPROFONDIMENTO
di Nicoletta Bourbaki
Per questo speciale abbiamo camminato nelle terre attraversate dal confine orientale d’Italia guardando al di là dell’Adriatico. Abbiamo incontrato sette autori le cui ricerche ci hanno colpito per la capacità di far luce su aspetti poco noti, o per l’originale sguardo multidisciplinare e sovranazionale. Accanto ai loro saggi ne aggiungiamo alcuni altri per chi voglia proseguire su questo cammino, valorizzando anche lavori scritti da storici stranieri. Per ogni proposta spieghiamo cosa ci ha indotto a selezionarla nella vasta letteratura scientifica disponibile sul tema. Molto infatti si è scritto in Italia in proposito, talora con risultati molto validi, ma spesso rimane da superare la ritrosia a varcare letteralmente il confine e confrontarsi con l’altro.
Ecco perché ci sembra inevitabile, pur con tutti i limiti del caso evidenziati nelle interviste, partire da Relazioni italo-slovene 1880-1956. Il testo è stato
approvato all’unanimità il 27 giugno 2000 dalla commissione storico-culturale italo-slovena, costituita nel 1993 sotto l’egida dei ministeri degli esteri dei due paesi e formata da storici sia italiani sia sloveni. Purtroppo, la relazione non ha avuto in Italia alcuna diffusione ufficiale. Lo scritto è lungo 30 pagine ed è liberamente scaricabile in diversi formati.
Per una carrellata visiva sulle medesime vicende sipuò guardareMeja - guerre di confine, documentario di Giuseppe Giannotti, prodotto da Rai Educational nel 2008, della durata di 58 minuti. Realizzato con il supporto scientifico del Centro di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini di Gradisca d’Isonzo (Go), è stato presentato in pubblico nel 2011 e infine trasmesso su Rai Storia nel 2016. Il video intervalla le immagini dell’epoca e le interviste ai testimoni con l’intervento di storici di diverse nazionalità, affrontando le vicende del confine orientale dal 1918 alla firma del trattato di Maastricht. Qui è suddiviso in 4 puntate di 12-15 minuti.
Entrando in biblioteca proponiamo un percorso cronologico, a partire dalle tematiche analizzate in questo speciale.
Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (il Mulino, 2009). Dalla costruzione dell’identità nazionale, al nazionalismo come forma di rappresentanza politica, al fascismo, all’occupazione nazista, alla lotta partigiana e alla nascita della Jugoslavia socialista: la storia politica e sociale del confine orientale vista da uno storico tedesco che conduce un’analisi comparativa tra la storiografia italiana, tedesca e slovena.
Piero Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) (Kappa Vu, 2014). I bruschi sovvertimenti demografici sul confine orientale cominciano con la grande guerra. Questo saggio segue attraverso fonti italiane, tedesche, inglesi, slovene e croate tutti gli spostamenti di popolazione nell’area dal 1914 fino alla firma del trattato di Osimo nel 1975, pacificazione finale di un’area soggetta a svariati traumi correlati ai diversi scenari politici internazionali.
Marta Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli, 2008). Il libro di Verginella, professoressa ordinaria di storia del diciannovesimo secolo all’università di Lubiana, racconta la storia del litorale sloveno in maniera empatica e originale, conducendo il pubblico italiano alla scoperta delle ragioni dell’altro.
Milica Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine: gli sloveni della Venezia Giulia sotto l’occupazione italiana 1918-1921 (Fondazione Sklad Dorce Sardoc, 2010). La storia della comunità slovena della Venezia Giulia dall’annessione del territorio all’Italia fino all’invasione della Jugoslavia: dalle promesse tradite da parte delle nuove autorità italiane, alle violenze fasciste, alla snazionalizzazione forzata, all’emigrazione, alla nascita del movimento antifascista sloveno.
Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943) (Bollati Boringhieri, 2003). Le politiche di occupazione italiane in Europa durante la seconda guerra mondiale sono inquadrate come parte integrante del progetto imperiale fascista. Con un occhio particolare alle vicende della Grecia e dei Balcani, Rodogno rende esplicito il progetto di sfruttamento economico alla base dell’espansionismo italiano nell’Europa orientale, e descrive in modo preciso la logica tipicamente coloniale con cui furono gestiti i rapporti con le popolazioni dei territori occupati.
Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) (Laterza, 2013). L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’esplodere della violenza su base “etnica” a opera di ustascia e cetnici (sostenuti rispettivamente da tedeschi e italiani nel quadro di una concorrenza tra alleati), il sorgere e lo sviluppo della resistenza guidata dai comunisti, le rappresaglie e le politiche repressive messe in atto dal regio esercito italiano. Attraverso citazioni e documenti non si tralascia di ricostruire le motivazioni e il vissuto delle parti in lotta.
Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) (Einaudi, 2006). Il saggio descrive le diverse forme di reclusione dei civili a opera dell’Italia fascista nella seconda guerra mondiale e tratta la storia e il funzionamento di ogni singolo campo di prigionia, sia quelli posti sul territorio italiano sia quelli nei paesi occupati, tra cui spicca per dimensioni e mortalità quello dell’isola di Arbe/Rab, destinato ai familiari dei resistenti jugoslavi.
Alessandra Kersevan, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, 2008). Una ricostruzione minuziosa e documentata del sistema concentrazionario italiano allestito prima e durante l’invasione nazifascista della Jugoslavia. L’opera descrive struttura e funzionamento dei lager ubicati a Gonars, Arbe, Visco, Cairo Montenotte, Renicci, Colfiorito, luoghi dove morirono di fame, stenti ed esecuzioni sommarie migliaia di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini. Istituzioni oggi dimenticate, delle quali anche il paesaggio – come la coscienza nazionale italiana – reca pochi segni.
Galliano Fogar, Dalle aggressioni fasciste alla occupazione nazista, in Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera (con il resoconto del processo). Trieste-Istria-Friuli 1919-1945 (Aned-Trieste, 1974). Nella “Venezia Giulia” la resistenza e la conseguente repressione antipartigiana cominciarono già nell’autunno del 1941, dopo l’invasione della Jugoslavia. Lo stato fascista mise in moto una macchina repressiva che, senza soluzione di continuità, dopo l’8 settembre 1943 fu inglobata nell’amministrazione militare nazista dell’Ozak. Fogar analizza i vari aspetti del collaborazionismo giuliano: amministrativo, militare, confindustriale.
Karl Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione Prealpi e Litorale Adriatico, 1943-1945 (Libreria Adamo, 1979). La ricostruzione dettagliata della storia della Zona d’operazioni Litorale Adriatico basata sull’analisi della documentazione esistente in lingua tedesca.
Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica (Mursia, 1973). Un libro non recentissimo (la prima edizione per la University of Chicago è del 1970), scritto da uno storico sloveno poi trasferitosi negli Stati Uniti. È stato uno dei primi studi ad analizzare comparativamente la storia di Trieste basandosi su fonti italiane, statunitensi e jugoslave, riuscendo in questo modo a inserire la questione della Venezia Giulia in un contesto realmente internazionale.
Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009). La storia della questione di Trieste vista dall’altra parte, cioè da quella jugoslava. Questo volume ha permesso agli storici italiani di avere una visione degli avvenimenti non italocentrica, ma con un focus privilegiato sulla situazione e le aspettative degli abitanti del territorio di lingua slovena e sulle azioni e i provvedimenti delle autorità jugoslave.
Glenda Sluga. The problem of Trieste and the italo-yugoslav border, difference, identity, and sovereignty in twentieth-century Europe (SUNY Press, 2001). Analizzata da una prospettiva postcoloniale la questione della sovranità sulla città di Trieste nel secondo dopoguerra rivela l’inadeguatezza degli strumenti della “geopolitica” e la strumentalità delle retoriche nazionali di fronte a una realtà multiculturale e plurilinguistica.
Anna Di Gianantonio et alii, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese (Consorzio Culturale del Monfalconese; Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 2005). La vicenda dell’esodo dei cantierini monfalconesi in Jugoslavia e del turbolento dopoguerra in uno dei centri industriali più importanti dell’alto Adriatico, raccontata attraverso le testimonianze dei testimoni diretti e dei protagonisti.
Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Una ricerca che affronta il tema delle foibe inserendolo nella narrazione della storia dei rapporti tra le diverse popolazioni dell’alto Adriatico e nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Il testo svolge l’analisi sia dei documenti d’archivio sia delle narrazioni che hanno sovraccaricato i corpi rinvenuti nelle cavità carsiche di significati politici e identitari.
Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952) (Ombre corte, 2007). Chi furono davvero gli infoibati? Nella maggior parte dei casi si trattò di deportati e talvolta di prigionieri di guerra. Quest’opera indaga in parte sul loro destino nei campi di prigionia jugoslavi nel drammatico dopoguerra di un paese devastato, ma soprattutto consente di esplorare la più vasta tematica dello scambio di prigionieri tra Italia e Jugoslavia nell’ambito dell’escalation politico-diplomatica avvenuta tra questi due paesi e di come essa abbia influenzato anche il discorso sulle foibe.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu, 2005). Elenchi di infoibati/deportati della Venezia Giulia cominciarono a essere diffusi già durante la guerra, ritornando in auge negli anni ottanta-novanta con numeri di vittime ancor maggiori. Con una verifica accurata negli archivi, Claudia Cernigoi ha scoperto molti dati inesatti (persone ancora vive, duplicazioni, morti per altre cause, eccetera), in molti casi la collaborazione attiva con i nazisti degli scomparsi da Trieste, e ha indagato sul passato spesso torbido dei personaggi che pubblicarono queste liste. È significativo che alcuni ambienti abbiano reagito con l’accusa di negazionismo: un’accusa solitamente riferita alla negazione della shoah e per estensione a realtà scientifiche incontrovertibili, che in questo caso è stata strumentalmente rovesciata di significato e da allora è utilizzata frequentemente per chiunque manifesti un approccio critico al tema delle foibe.
Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980). A tutt’oggi il punto di partenza per ogni ricerca sull’esodo istriano del secondo dopoguerra. Un’indagine sulla situazione precedente alla partenza, sulle paure reali o indotte negli istriani, sulla dinamica dell’esodo, sulle sue ragioni, sulla propaganda sia jugoslava sia italiana. In questo studio sono trattate per la prima volta con sistematicità la varie fasi dell’esodo, i problemi di quantificazione dei profughi, le loro condizioni e il loro destino una volta giunti in Italia. Recentemente l’Irsml ha digitalizzato il volume, che è oggi liberamente consultabile su Google Books.
Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (Kappa Vu, 2004). Un libro che si focalizza soprattutto sulla condizione degli esuli dopo la partenza e sull’uso che fu fatto di essi da parte dei partiti di area governativa e da parte delle associazioni dei profughi per modificare gli equilibri etnico-nazionali e politici dei territori dove vennero insediati.
Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960 (LEG, 2015). Alla metà degli anni novanta Nemec ha condotto un’importante opera di ricerca nell’ambito della storia orale relativamente alla comunità di un piccolo paese istriano, Grisignana d’Istria. La ricercatrice ha raccolto le testimonianze di coloro che se ne andarono nel dopoguerra ma anche di alcuni rimasti. Il puntuale confronto tra le memorie degli intervistati e una ricostruzione della storia sociale e politica dell’Istria fa emergere le complesse realtà celate dietro la scelta dell’esodo così come di quella di rimanere nel proprio paese d’origine, nonché i processi di costruzione dell’identità legati a tali scelte.
Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani (Il Veltro Editrice, 2010). Gli istriani, esuli e rimasti, sono stati per l’antropologa statunitense Pamela Ballinger il case study perfetto per indagare l’intreccio tra identità, memoria e frontiera. Nel saggio passa al setaccio ogni narrazione dell’esodo, sia essa pubblica o privata, storiografica o letteraria, nazionale o internazionale. Il risultato è una cartina di tornasole delle rappresentazioni date nel tempo del confine orientale, dall’irredentismo fino alla “vigilia” del Giorno del ricordo (il testo originale in inglese è stato pubblicato nel 2003).
Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico (Kappa Vu, 2014). La ricostruzione di come il tema “foibe” è stato ed è trattato nel dibattito pubblico e sui mezzi d’informazione italiani, analizzando le semplificazioni e le distorsioni dei fatti storici in una chiave comparativa europea e rintracciando le radici e lo sviluppo delle narrazioni contemporanee.
«Questo anniversario è servito a nascondere le responsabilità e gli orrori del fascismo nelle vicende di Trieste, della Venezia Giulia e del confine orientale; a riscrivere e a deformare la storia di quelle terre e delle sue popolazioni; a occultare i crimini di guerra italiani e le gesta infami di chi collaborò con i nazisti».
il manifesto, 9 febbraio 2017
Da quando per legge fu istituito nel 2004, il 10 febbraio, come «Giorno del ricordo» (anniversario del Trattato di pace che nel 1947 aveva fissato i nuovi confini con la Jugoslavia), per «conservare e rinnovare», come scritto, «la memoria di tutte le vittime delle foibe» e della «tragedia dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», abbiamo assistito a una sorta di accaparramento di questa giornata da parte delle destre, con il prevalere nel corso degli anni dei fascisti. Quasi un’egemonia.
Possiamo ora dire, in sede di valutazione storica, che la decisione di inserire nel calendario nazionale questa data, a dieci giorni dalla giornata per il ricordo dalla Shoah e di tutte le vittime e i perseguitati del nazifascismo, abbia indubbiamente segnato una svolta facendo parlare correntemente di foibe come «Olocausto degli Italiani».
Questo anniversario è più che altro servito a nascondere le responsabilità e gli orrori del fascismo nelle vicende di Trieste, della Venezia Giulia e del confine orientale; a riscrivere e a deformare la storia di quelle terre e delle sue popolazioni; a occultare i crimini di guerra italiani e le gesta infami di chi collaborò con i nazisti; a scorporare dal contesto l’esistenza a Trieste della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento in territorio italiano con forno crematorio; a tentare di porre, in una specie di «dualità della memoria», le vittime delle foibe sullo stesso piano di quelle dell’Olocausto. Una sorta di contraltare.
All’origine di questa deriva crediamo si debbano anche porre alcuni interventi, a partire dal 2007, tenuti solennemente dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parlò apertamente di «cieca violenza», di «furia sanguinaria», di «parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana», nonché di «disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”». Il tutto senza alcun riferimento alla precedente oppressione fascista delle minoranze slovene, all’invasione della Jugoslavia e ai precedenti crimini di guerra italiani commessi in quel Paese dal 1941 al 1943.
Almeno 230mila furono i civili montenegrini, croati e sloveni massacrati, fucilati o bruciati vivi nelle loro case durante i rastrellamenti (alcuni storici parlano di più di 400mila), diverse migliaia i civili, uomini, donne e bambini, deportati e rinchiusi in decine di campi di concentramento (i «campi del Duce») disseminati nelle isole dalmate, in Friuli e nel resto d’Italia. Parole che suscitarono anche le rimostranze del presidente della Croazia Stipe Mesic.
Nella stessa celebrazione vennero, tra gli altri, decorati da Napolitano i parenti di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara, fucilato dagli jugoslavi nel 1947 come criminale di guerra e in quanto tale già inserito nel 1946 da un’apposita commissione d’inchiesta italiana fra i civili e i militari italiani passibili di essere posti sotto accusa presso la giustizia penale militare, in quanto nella loro condotta erano «venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità».
Poi, nel 2015 ci fu il caso della consegna, per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, dell’onorificenza (ritirata in aprile) «per cause riconducibili a infoibamenti», ai familiari del capitano del battaglione Benito Mussolini, Paride Mori. Il capitano Mori era stato ucciso in combattimento, il 18 febbraio 1944, in uno scontro con i partigiani titini, e non “infoibato”. Questo caso svelò come su mille riconoscimenti dal 2004, con tanto di medaglia, circa trecento riguardassero militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Tra loro carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi, poliziotti, finanzieri e volontari nella Guardia nazionale repubblicana. Il novanta per cento appartenenti a formazioni al servizio dei nazisti. Nella lista si rintracciarono anche cinque criminali di guerra.
Con il «Giorno del ricordo» così costruito, volto a ricordare «tutte le vittime», nascondendo i giudizi di valore sulle responsabilità storiche, era inevitabile che riemergessero le destre peggiori. Anche quest’anno saranno, infatti, loro in diverse città d’Italia a celebrare questa data, con una serie di convegni e iniziative in cui si esalteranno il fascismo e la Repubblica di Salò.
A Pavia sarà addirittura il locale gruppo naziskin a farsene carico con un presidio, a Firenze, sabato prossimo, con un convegno, la Lega e Lealtà azione, la finta associazione culturale dietro la quale operano gli Hammerskin, mentre a Milano il Municipio 4, presieduto dalla Lega, aveva addirittura organizzato, sempre con Lealtà azione, per lunedì 13 alla Palazzina Liberty (quella di Dario Fo e Franca Rame), un concerto nazi-rock, poi annullato a seguito delle proteste antifasciste. A suonare era stato chiamato Skoll, nome di battesimo Federico Goglio, un cantautore il cui nome d’arte, per sua stessa ammissione, si ispirerebbe a un «lupo feroce» della mitologia germanica, dedito «alla violenta cancellazione della vita sulla terra azzannando il pianeta e riempiendo l’universo di spruzzi di sangue». Già esibitosi per Casa Pound e per i nazisti di Varese (la Comunità militante dei dodici raggi), era appena stato condannato dal Tribunale di Milano per apologia di fascismo. Fatto che non aveva minimamente turbato i promotori.
Riferimenti
Nell'icona cinque sloveni fucilati dai soldati italiani del generalwìe Roatta ( quello di :«testa per dente») Dane, Slovenia, , 31 luglio 1942. Vedi Come si manipola la storia attraverso le immagini
« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)
Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.
Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi.
C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia elettorale”.
È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso.
A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria ».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti. Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.
Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è fallito.
Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile.
Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio. Del resto, ogni sistema elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle due, è meglio?
Fra un mese. Le donne di 22 paesi unite in un 8 marzo di lotta «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare». Articoli di Geraldina Colotti e Bia Sarasini,
il manifesto, 7 febbraio 2017
NON UNA DI MENO:
«SIAMO PRONTE A BLOCCARE IL PAESE»
di Geraldina Colotti
Sul pullman che da Roma ci porta a Bologna, l’età media non supera i 25 anni, con qualche punta verso il basso o verso l’alto: si va dai piccolissimi che impongono a tutte di rispettarne il sonnellino, a qualcuna più avanti con gli anni. Sui piccoli schermi compaiono le immagini di Zootropolis, il nuovo cartone animato targato Disney che ha per protagonista una coniglietta-poliziotta. «Ma è ’na guardia», esclamano in molte, e parte un coro di «buuh». Sul pullman stracolmo, tutte realtà autogestite, centri sociali, sindacaliste di base o centri anti-violenza che lavorano con le migranti. Marta prende il microfono e dispensa le informazioni di viaggio e gli appuntamenti che ci attendono…
All’università di Bologna, la partecipazione ai tavoli è maggiore di quella di Roma, il giorno dopo la grande manifestazione del 26 novembre, che ha portato in piazza oltre 200.000 persone. Allora, si era più di 1200, in questo fine settimana, circa 2000. Gli 8 tavoli tematici sono gli stessi stabiliti a Roma: Piano Legislativo e Giuridico; Lavoro e Welfare; Educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità: la formazione come strumento di prevenzione e di contrasto alla violenza di genere; Femminismo migrante; Sessismo nei movimenti; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Narrazione della violenza attraverso i media; Percorsi di fuoriuscita dalla violenza. La discussione – a volte animata ma inclusiva – si protrae anche oltre «l’allarme» di chiusura, annunciato ossessivamente dagli altoparlanti dell’istituto alle 18.
Alla plenaria – aula magna stracolma e diretta streeming per chi si trova sopra in un’altra sala – si presentano le sintesi dei tavoli, temi e proposte per lo sciopero globale dell’8 marzo: astensione da ogni attività produttiva e riproduttiva e anche dal consumo. Uno sciopero generale di 24 ore, «dentro e fuori i luoghi di lavoro; per le precarie, le occupate, le disoccupate e le pensionate; le donne senza salario e quelle che prendono un sussidio; le donne con o senza il passaporto italiano; le lavoratrici in proprio e le studentesse; nelle case, per le strade, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri».
La sfida politica del «nuovo sciopero femminista» è stata lanciata anche ai sindacati. Quelli di base, come Cobas e Usb, hanno aderito, ma è in corso la discussione per far convergere sull’8 marzo, come vorrebbero le donne, anche la seconda data di astensione dal lavoro nel comparto scuola, stabilita per il 17, di cui si condividono i contenuti. Molte, infatti, le proposte provenienti dal tavolo su Educazione e formazione. L’educazione di genere, necessaria a tutti i livelli del percorso scolastico, «non è una materia, ma una postura politica e culturale per prevenire la violenza maschile». Per l’8 marzo, si porteranno «le lezioni in piazza», per denunciare la violenza sistemica del patriarcato, quella del capitalismo e del neocolonialismo, per «costruire ponti e non frontiere».
Impossibile dar conto della pluralità di percorsi e di voci che cercano tonalità comuni, ri-nominando antichi nodi e nuovi problemi in un’ottica femminista. Radicale la critica al cosiddetto sistema dell’accoglienza, basato su logiche securitarie e sulle deportazioni. L’orizzonte è quello di un mondo senza permessi o respingimenti, la barra viene posta in alto ma gli obiettivi sono concreti: cittadinanza, permesso senza condizioni e condizionamenti familiari per le migranti, adempimento degli obblighi stabiliti dalla Convenzione Oil per le lavoratrici domestiche, abolizione dell’«obiezione di coscienza» in ospedali e strutture pubbliche, rilancio politico dei consultori…
«Con o senza sindacati, bloccheremo il paese. Non un’ora di meno», si è detto nelle conclusioni, comunque in divenire: perché il percorso non si ferma all’8 marzo. L’appuntamento sarà per il 22 e 23 aprile a Roma. L’obiettivo è quello di far convergere pratiche e riflessioni nella stesura di un Piano femminista antiviolenza da presentare alle istituzioni. Un nuovo movimento connesso a livello internazionale. Allo sciopero, che ha preso avvio dalla proposta delle donne argentine, a ottobre dell’anno scorso, hanno già aderito oltre 30 paesi. Nel solco delle polacche, che hanno innescato il movimento, le argentine hanno scelto il nero per riconoscersi. In Italia, per lo sciopero e per i percorsi che lo prepareranno nei territori, i colori saranno due: il nero e il fucsia. «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare»
In Italia e non solo. Di questo hanno parlato le duemila donne riunite in assemblea a Bologna, lo scorso weekend, convocate da NonUnaDiMeno, il coordinamento di collettivi e organizzazioni che già il 26 novembre ha portato almeno 400.000 donne a manifestare a Roma contro la violenza maschile. Ma ci saranno ben 22 paesi in sciopero, l’8 marzo. Tutto parte dall’Argentina, ultimi ad aderire gli Stati Uniti, sulla spinta della “Women’s March on Washington” del 26 gennaio scorso. Un appassionato confronto, a Bologna, sui temi della violenza contro le donne, si è preparato il piano-antiviolenza, e sui temi dello sciopero. Cosa vuol dire scioperare? Chi partecipa, come si indice?
E se va notato, ancora una volta, che l’informazione mainstream ha mancato un evento politico di prima grandezza – del resto anche la marcia statunitense è stata attivata dai social, non da tv e da carta stampata – sarebbe un peccato che la sottovalutazione mediatica trascinasse con sé anche una sottovalutazione politica. Cosa è questo sciopero? Come si mette in pratica?
Bisognerà ricordare che in Polonia, nel “black monday” del 3 ottobre 2016, nella loro azione contro la minaccia di una legge che vietasse del tutto l’aborto, le donne polacche dissero: se ci fermiamo noi si ferma tutto. Come è effettivamente è successo. Questo vuol dire sciopero delle donne, in un mondo in cui il lavoro si è completamente trasformato. Mettere tutti in condizione di guardare cosa è il lavoro, oggi. Chi più di una donna sa che il lavoro è precario, sfaccettato e spezzettato, e investe direttamente la vita? Chi può saperlo meglio di chi è stata obbligata da sempre al lavoro di cura, per di più gratuito?
C’erano molti uomini, perlopiù ragazzi ovviamente, all’assemblea. Alcuni provenienti dal mondo queer, perché lo sciopero è anche uno sciopero dai generi, dagli stereotipi e dai ruoli obbligati. Uno dei modi per metterlo in pratica sarà il kindergarten gestito dai compagni, un accudimento dei bambini già messo in pratica durante l’assemblea. Ma lo sciopero, è stato ripetuto in tanti interventi, è sospensione, astensione. Blocco delle attività. Di tutti i tipi. Per esempio dall’insegnamento ma anche dal portare i bambini a scuola. Con l’attivazione di fondi di solidarietà, per permettere a tutte di scioperare. E qui sta il nodo centrale. Per astenersi dal lavoro, per chi lavora a contratto, occorre che lo sciopero sia indetto. Erano presenti molte sindacaliste, soprattutto Usb e Cobas, anche se non mancavano iscritte alle confederazioni, soprattutto Fiom. C’è una forte pretesa di attenzione, da parte dell’assemblea, rivolta a tutte le sigle sindacali. Come è giusto, si tratta della più importante manifestazione politica sul lavoro prevista nei prossimi mesi.
La scelta è stata di non mobilitarsi per una manifestazione nazionale. Si sciopererà insieme nelle città. Per bloccarle. Contro la violenza maschile, contro il neocapitalismo che di questa violenza è permeato, contro il dominio che entra nelle pieghe della vita quotidiana. In Italia contro il jobs act, contro la cancellazione dei diritti. Fondamentale è riconoscere che sono le donne a guidare la lotta per un lavoro diverso, oggi. L’esperienza diretta, nella propria vita, della violenza e dell’ingiustizia è forza viva, trascinante. Il coraggio è ascoltarla.
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. il manifesto, 5 febbraio 2017, con postilla
Ragionare e intervenire sul processo politico in atto diventa ogni giorno più difficile in questo nostro, sempre più confuso paese. La tentazione di tacere è grandissima, tuttavia, anche tacere mi sembrerebbe fuori luogo. A meno che non si accetti di uscire definitivamente di scena. In mancanza di meglio, perciò, procediamo per punti separati. Può darsi che alla fine, rimettendoli insieme, un senso comune ne scaturisca.
1. Il voto anticipato
Io penso che in questo momento auspicare, e battersi, per il voto anticipato, sia più che sbagliato, criminale.
Si capisce, razionalmente, che lo facciano le destre estreme e il Movimento 5 Stelle: desiderano approfittare della congiuntura favorevole rappresentata dalla clamorosa sconfitta renziana al referendum, cui anche noi abbiamo contribuito (ma non potevamo fare altrimenti). Ma il Pd? Il Pd è trascinato al voto solo perché Renzi sa che molto probabilmente sarà sconfitto, ma ha bisogno di garantire alle sue personali posizioni una consistenza parlamentare sufficiente a garantirgli di traghettare il momento difficile, o quanto meno a non uscire di scena, o per sempre. A lui, s’intende: non al partito, che rischia di andare in frantumi ancor più di quanto non sia già accaduto nei frangenti precedenti.
Poi, per chi lo avesse dimenticato, c’è l’Italia. Può questo nostro sempre più confuso e disgraziato paese consentirsi il lusso di una campagna elettorale a breve termine ancor più violenta e distruttiva di quella passata, rischiando al tempo stesso la più che probabile affermazione della componente politica grillina, con tutto ciò che questo significherebbe sia sul piano interno sia su quello internazionale? La risposta, semplice e inequivocabile, è: no, non può.
L’Italia e, persino, il Pd non possono essere messi così facilmente in gioco al solo scopo di salvare quel che resta della carriera politica di Matteo Renzi. Possibile che il (cosiddetto) gruppo dirigente del Pd non ne prenda atto e non ne tragga le conseguenze logiche e necessarie? Arrivare alla scadenza naturale del 2018 attenuerebbe e in taluni casi cancellerebbe gli effetti negativi dei processi in atto, e forse qualche dato più positivo farebbe nascere.
2. La legge elettorale
Il fatto che non ci sia una legge elettorale decente è un argomento in più a favore della tesi sopra sostenuta. Votare con l’Italicum, emendato dalla Corte costituzionale sarebbe anche questo suicida. Incongruenze, contraddizioni, ecc. ecc., ne segnano il testo. Alle molte osservazioni da più parti già avanzate io ne aggiungerei una, cui attribuisco, diversamente da altri, un’importanza estremamente grande, anzi, una valenza quasi simbolica: quella che si riferisce ai capilista bloccati (emendata dalla Corte costituzionale con la misura, un po’ ridicola a dir la verità, dell’estrazione a sorte dell’unico beneficiario).
I capilista bloccati, infatti, sono l’espressione più lampante di una concezione della democrazia delegata ai capi e capetti di ogni genere. Io ritengo che tale misura confligga clamorosamente, nella sostanza, con l’art. 67 della Costituzione (appunto), il quale recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni, senza vincolo di mandato».
Spiega sapientemente il costituzionalista Ernesto Bettinelli: «In verità la norma costituzionale intende sottolineare che, dopo la competizione, gli ‘eletti’ acquisiscono in Parlamento una posizione esclusiva (status): una nuova dignità…. della quale devono essere consapevoli e meritevoli…». E cioè: sono liberi di pensare, decidere e votare, checché ne dica il loro partito o gruppo di appartenenza. Ma come questo potrebbe correttamente e, diciamo, agevolmente avvenire, se i deputati, invece di essere eletti dal popolo, lo fossero, pressoché direttamente, da un Matteo Renzi o da un Beppe Grilllo?
(A questo proposito, e sia pure marginalmente – ma non tanto – rispetto al discorso principale. Possibile che in nessuna sede, né politica né giudiziaria, sia stata osservata e denunciata la rilevanza penale delle norme che nel Movimento 5 Stelle regolamentano la fedeltà degli eletti al Capo, addirittura con un sistema di multe monetarie da appliccarsi nel caso di una qualsiasi infrazione al comando ricevuto? Se l’art. 67 della Costituzione è ancora in vigore, questo starebbe a significare che le procedure sono assolutamente fuori norma. E allora?).
Una nuova legge elettorale, sensata e coerente, rispettosa il più possibile della libera espressione della volontà popolare, cioè, il più possibile, senza vincoli né premiazioni fuori ogni misura, non si fa in due mesi, soprattutto sotto l’urgenza del voto. Ci vuole tutto il tempo che ci vuole, e ci vuole una saggezza sopra le parti, che per ora non si vede..
3. Le prospettive della sinistra
Poiché sono intervenuto su questo giornale (10 dicembre 2016) anticipatamente rispetto ad altri interlocutori e ad altre formazioni, vorrei tornare su quelle idee, precisarle e se possibile rilanciarle.
Scrivevo in quell’occasione che non c’è prospettiva politica strategica per la sinistra italiana al di fuori di un centro-sinistra di governo. Questo non vuol dire un centro-sinistra in qualsiasi forma e a qualsiasi condizione. Vuol dire, appunto, un’ipotesi strategica da costruire: prospettive, programmi, radicamento sociale e… uomini. Allo stato attuale delle cose Matteo Renzi, per le cose dette più volte, e anche in questo articolo in precedenza, appare non un possibile alleato ma un sicuro avversario (potrebbe cambiare? Altamente improbabile, e poco credibile, se accadesse). Per cui, anche questa volta separando l’uomo dal suo partito, il Pd potrebbe (dovrebbe) stare dentro il disegno di un possibile centro-sinistra soltanto se, com’è auspicabile – l’ho già detto più volte – rientrasse nella sua storica e irrinunciabile prospettiva (non ce n’è un’altra neanche per lui), liquidando la strategia destrorsa e populista del suo attuale leader.
Ma, per la precisione, occorre aggiungere: se si vuole fare un centro-sinistra, ci vuole oltre che un centro serio, orientato a guardare a sinistra, anche una sinistra seria, seriamente orientata a guardare verso il centro. Ripeto e preciso, perché non ci siano equivoci: una sinistra seria, cioè una sinistra-sinistra, seriamente (cioè con argomenti e fermezza di posizioni) orientata a guardare verso il centro. C’è? Non lo so: anche questo si vedrà, se le sarà consentito anche temporalmente di emergere (motivo in più, com’è comprensibile, per gli “altri”, e forse soprattutto per Renzi, per accelerare il più possibile il voto allo scopo di scongiurare questa prospettiva.
Un’ultima osservazione si può ancora fare. E’ un dato di fatto che la rivoluzione neoliberista, degenerata ora in trumpismo e populismo, e in Italia, fra l’altro, nelle fortune sproporzionate di una formazione di chiaro orientamento populistico-reazionario, come il Movimento 5 stelle, ha frantumato quasi dappertutto la sinistra, relegandola ai margini (se si pensa che in Inghilterra i laburisti di Corbyn si apprestano a votare in Parlamento per la Brexit, un brivido ci corre lungo la schiena). E se invece si assumesse come orientamento strategico e propria cultura politica la persuasione che mettere da parte (anche strumentalmente) le divisioni e praticare, anticipatamente rispetto ai tempi storici, l’unità, – l’unità di tutte le forze di sinistra (anche se le vicende più recenti sembrano muoversi nella direzione contraria) – non sarebbe utile questo a formulare in maniera più efficace la strategia e a modellare su quella l’azione?
Illusioni, utopia? Ma anche in questo campo la sinistra appare vistosamente avere dimenticato quanto illusioni e utopia servano, anzi siano necessarie a fare funzionare meglio la pratica, o almeno ne siano indissociabili. Stiamo tutti con il naso rivolto verso il basso a rimuginare la sconfitta. E se, una buona volta, lo volgessimo verso l’alto a guardare cosa c’è, se c’è qualcosa di possibile oltre la nostra sconfitta?
postilla
Il guaio è che se continuiamo a riferirci alla sinistra del millennio scorso (non solo come testimonianza storica ma anche come concretezza politica) non riusciremo mai a dare alcuna prospettiva credibile a quanti soffrono in mille modi diversi (con la fame e la sete, la miseria, la morte fisica, la disperazione, l'annichilimento personale, la mancanza di presente e di futuro ecc.ecc) a causa dei danni che ha procurato l'incarnazione attuale del capitalismo. Una forza rivoluzionaria (cioè fortemente orientata a uscire dal sistema vigente), se ci fosse e fosse abbastanza consistente potrebbe stipulare alleanze con altre, ma dovrebbe esserci. Io, non la vedo. Quindi non mi resta che consolarmi con l'antico motto di Claudio Napoleoni, «cercare ancora». Ma fuori dai residui del passato, e magari anche tra i cespugli di Grillo (e.s.)
reset, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
Una ragazza vestita di rosso che viene investita in pieno dai lacrimogeni, durante le proteste di Gezi Park, in Turchia, nel 2013; la giovane manifestante col reggiseno blu picchiata dai poliziotti, durante gli scontri in Piazza Tahrir al Cairo. Queste immagini, dopo aver fatto il giro del mondo, sono divenute simboli delle rivolte che hanno animato il Medio Oriente e il Nord Africa, a partire dal 2009, con le proteste del movimento dell’Onda Verde in Iran, poi in maniera sempre crescente durante le sollevazioni popolari della cosiddetta “Primavera Araba”, fino ad arrivare alle manifestazioni del 2013 in Turchia.
Questi scatti fotografici sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo internazionale, tramutando le ignare giovani protagoniste in icone del proprio tempo. Quanto è stato immortalato in quei fotogrammi, infatti, rappresenta esattamente la cifra dei cambiamenti e delle trasformazioni socio-politiche avvenute negli ultimi anni nella regione mediorientale: il ruolo e la presenza femminile e giovanile in prima linea all’interno di quei movimenti di contestazione e dissenso politico che hanno sfidato e, in qualche misura, sovvertito l’ordine politico costituito di alcuni paesi dell’area.
Questa nuova soggettività politica della donna deve, tuttavia, essere messa in relazione con la lunga storia di lotte e movimenti femministi di cui è stata testimone la regione mediorientale. Infatti, sebbene la condizione delle donne nei paesi arabo-musulmani venga per lo più descritta in Occidente, attraverso narrazioni mediatiche generalizzanti, come immobile e retrograda, occorre sottolineare invece che l’attivismo delle donne nei paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa) risale alla fine dell’800 e si interseca con la costruzione degli Stati-Nazione nel corso del ‘900, attraverso una storia fatta di percorsi plurali e di differenti anime: dai gruppi che adottano un approccio “secolare” che riconduce la religione alla sfera privata, a quelli che, invece, la pongono al centro delle rivendicazioni di uguaglianza, considerandola il principale strumento per reclamare e ottenere diritti.
Lo studio dell’evoluzione nel tempo dei movimenti femminili suddetti e della loro relazione con l’attivismo femminile attuale è stato il motore che ha portato avanti la ricerca di due studiose italiane, Renata Pepicelli, docente presso l’Università LUISS Guido Carli e l’American University of Rome, e Anna Vanzan, dell’Università degli studi di Milano. È appena stato pubblicato, infatti, sul numero 1/2016 della rivista “Afriche&Orienti” il dossier, da loro curato, “I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente: percorsi e generazioni ‘femministe’ a confronto”.
Il volume raccoglie al suo interno diversi saggi che, attraverso approcci diversi, raccontano le esperienze dei movimenti femminili in Marocco, Tunisia, Egitto, Iran e Turchia, ponendo l’accento sia sugli obiettivi comuni, sia sulla pluralità dei percorsi che caratterizzano le rivendicazioni delle donne nei diversi paesi. Oltre a Renata Pepicelli e Anna Vanzan, sono autrici dei saggi anche tre studiose che vivono, fanno ricerca e insegnano sulle rive nord e sud del Mediterraneo: Maryam Ben Salem, docente all’Università di Sousse e ricercatrice del CAWTAR (Center of Arab Woman for Training and Research); Mulki al-Sharmani, dell’Università di Helsinki; e Leila Şimşek-Rathke dell’Università di Marmara, Istanbul.
Attraverso approcci diversi, basandosi su metodologie storiche e sociologiche, le ricercatrici descrivono l’utilizzo, da parte delle giovani donne, di nuovi modelli di attivismo di cui sottolineano gli elementi di frizione, influenza e tensione in relazione a quelli usati dalle generazioni precedenti. Infatti, il filo conduttore che tiene insieme i diversi saggi è il tema del confronto tra differenti generazioni di attiviste e diverse forme di azione politica delle donne. Un confronto che a volte si caratterizza per elementi di continuità, a volte di rottura.
Ciò che emerge dalle ricerche contenute in questo volume è la diffusa e generale difficoltà per le nuove generazioni di ritrovarsi all’interno di un discorso femminista “tradizionale”. Infatti, secondo Renata Pepicelli, durante il periodo delle recenti proteste «una nuova generazione di attiviste è emersa al di fuori dei tradizionali spazi di azione delle organizzazioni femministe storiche»: il femminismo non costituisce più la principale identità militante di queste giovani, ma, piuttosto, un’identità tra molte altre.
Le loro rivendicazioni di genere sono, infatti, calate in una più ampia cornice di rivendicazioni di democrazia, libertà e giustizia. Come descrive Anna Vanzan nel suo saggio, durante la recente ondata rivoluzionaria che ha sconvolto la regione mediorientale «le donne, nonostante la loro cruciale presenza nelle piazze e nelle fasi della transizione, sembrano partecipare soprattutto come cittadine, ovvero senza articolare le proteste in una vera e propria cornice di genere».
In questo momento storico di transizione e cambiamenti, le donne sembrano aver momentaneamente accantonato le istanze femministe, per dare, invece, la priorità a obiettivi politici e sociali che riguardano l’intera società in cui esse vivono. Come afferma una giovane attivista marocchina, durante un’intervista, alla Prof.ssa Pepicelli: «non abbiamo bisogno di domandare, di scrivere, di trattare la donna in un contesto a sé stante, separato dalla società. Quando si dice democrazia automaticamente si parla di cittadini, donne e uomini, tutti uguali davanti alla legge».
Quello che è certo, dunque, è che le donne con il loro impegno nel costruire nuove forme di organizzazione e aggregazione, sono in prima linea nel tracciare la via verso il raggiungimento di una piena cittadinanza.
«La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa "come questione strutturale" in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, "strumento primario di violenza", uno dei nodi globali». il manifesto, 4 febbraio 2017 (c.m.c.)
Come si può interrompere e sovvertire ogni attività produttiva e riproduttiva? Quali pratiche possono esprimere il rifiuto dei ruoli imposti dal genere, il rifiuto di ogni forma di violenza contro le donne e della loro oppressione, dentro e fuori i luoghi di lavoro? Allo sciopero globale hanno aderito già 30 paesi. All’indomani dell’insediamento di Trump negli Usa, milioni di donne sono scese in piazza per manifestare «contro il volto patriarcale e razzista del neoloberismo americano».
Un inedito ciclo di lotte femministe si sta «facendo largo nel mondo»? Venerdi sera, a Roma, nello spazio autogestito Communia, in tante ne hanno discusso con Celeste, Magda ed Eleonor, provenienti dall’Argentina, dalla Polonia e dalla Finlandia (Eleonor, di origine etiope-eritrea).
La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa «come questione strutturale» in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, «strumento primario di violenza», uno dei nodi globali. E così, anche Al tavolo sul Femminismo migrante è emersa la necessità di «fare una critica radicale al sistema di “accoglienza” (dagli Hotspot agli Sprar) ed espulsione», basato su una logica violenta «di potere e privilegio», che spesso nella materialità si riduce a esercitare controllo e repressione: «un sistema che priva le donne migranti della propria libertà e autodeterminazione».
E anche la civilissima Finlandia – dice Eleonor – messa alla prova di massicce richieste di asilo si chiude, stringe le maglie della legge e non accoglie i rifugiati. Inoltre, in Finlandia, «il livello della violenza domestica contro le donne è molto alto anche se poco percepito. E le donne nel lavoro, vengono pagate meno». Il diversity management – se n’è discusso al tavolo Lavoro e welfare – «è ormai un meccanismo di valorizzazione e messa a produzione delle soggettività stesse». Quanto alla violenza domestica, fra le proposte del tavolo su Piano legislativo e giuridico, c’è «l’urgente necessità di una modifica legislativa che introduca la violenza intra-familiare quale causa di esclusione dell’affido condiviso e il divieto di mediazione nei casi di violenza intrafamigliare».
Ma poi: come intendiamo noi occidentali il femminismo «in relazione alle donne immigrate nel nostro paese e in Europa?» Che uso facciamo dei termini «a partire dal nostro posizionamento privilegiato»?
Le donne immigrate sono anche europee, provenienti dai paesi dell’est. Magda, che ha messo in moto il primo sciopero globale intercettando un sentire diffuso, racconta la lotta delle donne polacche intorno alla legge sull’aborto che le destre vorrebbero ulteriormente peggiorare: «Nel periodo comunista – dice – l’aborto era un diritto pienamente garantito. Dopo l’89 è diventato il primo bersaglio della chiesa cattolica. Nel ’95, la legge è stata peggiorata e l’aborto limitato solo a pochissimi casi. Una soluzione di compromesso da cui ora ci tocca ripartire. Nel socialismo le donne avevano la parità totale e piena occupazione. Solo che, dopo aver guidato il trattore, tornavano a casa a fare il doppio lavoro».
Un'occasione per dire che la sbarra va posta sempre in alto: verso il sovvertimento complessivo dei rapporti di potere. «Perché ad ogni femminicidio il patriarcato si rifonda», dice Celeste, raccontando il percorso in crescendo del movimento delle donne argentine.
(segue)
Non che la consistenza elettorale e la presenza in Parlamento siano elementi che un nascente partito politico debba trascurare. Ma essi non possono costituire gli aspetti condizionanti della sua nascita e del suo progetto generale. Un nuovo soggetto politico non può vincolarsi sin dalla fondazione ai problemi tattici del momento, e deve proiettarsi in una temporalità che scavalca il calendario delle tornate elettorali.
Perché il suo problema e il nostro, quello dell'Italia intera, non è la percentuale di consensi che riuscirà a ottenere alle prossime elezioni. E’ la creazione di un forza capace di rimettere in moto il conflitto anticapitalistico, di ridare protagonismo politico ai lavoratori, ai giovani e al ceto medio impoverito, senza cui il declino del paese sarà irrimediabile.
Certo, non si può ignorare che l’iniziativa di D’Alema e compagni sta creando un nuovo scenario. Ma attenzione: si tratta di una iniziativa a suo modo disperata, resa peraltro necessaria dall’avventurismo del loro segretario. Quel Matteo Renzi che tanti in Italia avevano scambiato per uno statista. Un tentativo che si svolge all’interno di un’area politica moderata su cui occorrerebbe esprimere un giudizio storico-politico. I tanti che oggi invocano la nascita di un nuovo centro-sinistra dovrebbero infatti rammentarsi che per realizzarlo occorrerebbe la presenza di un partito di sinistra. Che non c’è. E’ esattamente quel che sta cercando di fare Sinistra Italiana.
E’ dunque un errore pretendere che una nuova formazione, nata per affrontare un lavoro di lunga lena, si inceppi nelle questioni tattiche delle alleanze prossime venture. Per fare quale politica, con quale prospettiva strategica? E’ un errore che nasce da una inadeguatezza storiografica, teorica e culturale che ancora pesa in tanti settori della sinistra, tradizionale e non, incapaci di un bilancio sereno di quanto è accaduto negli ultimi 30 anni. Oggi un tale bilancio è possibile trarlo molto più agevolmente che non dieci anni fa. Perché quel che è accaduto è facile da interpretare: la sinistra storica, non solo quella italiana, ma anche quella delle socialdemocrazie europee, ha di fatto abbandonato il suo tradizionale insediamento sociale (classe operaia e ceti medi e popolari) e ha salvato se stessa come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione, favorendolo, talora anticipandolo (riforme del mercato del lavoro a partire da Treu e Schroeder, liberalizzazione dei capitali, a partire da Mitterand, ecc). Ancora oggi essa pratica un riformismo caritatevole, direi di riparazione.
». Altreconomia, n. 190 Febbraio 2017 (c.m.c.)
Le tre Destre. Sono le forze rimaste a contendersi il potere: la Destra tradizionale (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia), la nuova Destra populista (Movimento 5 Stelle) e la Destra neoliberista (Partito Democratico, con la fuorviante etichetta di “centro-sinistra”). Che molti neghino la distinzione tra destra e sinistra è un sintomo di quanto la mentalità di destra sia diffusa. Benché falsa, tale credenza ha finito per dire qualcosa di reale: in effetti la differenza da tempo non si vede. Non perché non esista in sé, ma perché la sinistra politica è sparita e così anche quella culturale.
È vero che la prima politica è quella dei cittadini e delle comunità civili che costruiscono risposte ai problemi senza affidarsi ai voleri dei politici. Ma l’interazione con la politica seconda, quella istituzionale, resta imprescindibile. Quindi un partito ci serve, benché come strumento debba essere profondamente trasformato. Il partito che serve non è di destra, né di finta sinistra, né neutro. Dev’essere uno strumento capace di aprire strade inedite, democratico anzitutto internamente, adatto per logica, regole e formazione dei suoi aderenti a trasformare il potere in servizio. Dovrà essere eticamente ispirato non per la presunzione settaria che i suoi iscritti siano per principio tutti onesti, ma per il metodo di prendere ogni decisione alla luce dell’etica del bene comune.
La differenza tra destra e sinistra è politica, ma ha radice etica: infatti la sinistra si definisce per l’impegno a tradurre in ogni situazione il criterio dei diritti umani e della natura, a scegliere la democrazia come forma di ordinamento della società e la nonviolenza come metodo. Non c’è sinistra dove manca la ricerca di un’alternativa al capitalismo. Il compito attuale è quello di dare seguito coerente (anche nella politica istituzionale) a questo orientamento, invece di incartarsi nella suggestione per cui si crede che la differenza con la destra non esista. Quest’ultima adotta ben altri criteri: il primato del mercato, il potere del capo, l’ostilità verso gli stranieri, il culto della piccola “comunità” chiusa, l’individualismo, il nazionalismo. In varia misura le tre Destre seguono criteri simili. La conferma sta nel fatto che nessuno dei partiti nominati è contro il sistema capitalista, anzi.
La promessa del Movimento 5 Stelle di porsi oltre destra e sinistra è inconsistente: lo strapotere del capo, la mancanza di una lettura critica della globalizzazione, la carenza di democrazia interna, l’ostilità verso i migranti e le alleanze nel Parlamento europeo attestano che questo partito non è affidabile. La sinistra politica e culturale è finita quasi ovunque in Europa perché non ha saputo rinnovarsi collocandosi dalla parte giusta rispetto alla contraddizione tra tutelati e non tutelati, tra Nord e Sud del mondo, tra generazioni vecchie e nuove, tra uomini e donne, tra violenza e nonviolenza, tra crescita e decrescita. Ha rinunciato a promuovere un’altra economia e un’altra società.
Segnalo l’esigenza di dare vita originale a un partito di sinistra non per nostalgia di forze come Sinistra Ecologia e Libertà o Rifondazione Comunista, le cui angustie sembrano riproporsi anche in Sinistra Italiana. Un partito strutturalmente diverso potrà nascere solo dalla maturazione della coscienza collettiva dei gruppi e delle associazioni (compresi i “Comitati per il ‘No’ al referendum costituzionale”) che lavorano per arrivare un giorno a sostituire il capitalismo con la democrazia intera. Purché diano forma politico-progettuale alla loro azione e, senza accontentarsi di restare alla forma di reti, spesso autoreferenziali, sappiano diventare movimenti di liberazione radicati e popolari.
La rigenerazione di una sinistra autentica in Italia e in Europa è condizione della rinascita della politica in quanto cura del bene comune. Chi lavora per un’altra economia, anche se non vuole avere a che fare con i partiti né con la sinistra, non può disinteressarsi di questa rinascita.
” con gli studenti della Rete della Conoscenza promuove un patto per il lavoro culturale aperto a studenti e docenti, precari e freeance nei beni culturali». il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
«La situazione dei lavoratori del settore dei beni culturali in Italia non è più accettabile e crea un problema nazionale: biblioteche che chiudono, cultura meno accessibile, flussi turistici sotto le aspettative, tutela del patrimonio storico-artistico a rischio, marginalità del patrimonio culturale, della Storia, dell’Arte e della cultura dalla coscienza collettiva del Paese» – dichiara Andrea Incorvaia, attivista della campagna Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali – «Si è potuti arrivare a questo punto a causa di un chiaro disegno politico, ma anche della limitata opposizione di professionisti (o aspiranti tali), di chi questi professionisti li deve formare (insegnanti e professori) e dei datori di lavoro o committenti: da qua nasce l’esigenza di un Patto fra i soggetti che vivono il mondo dei Beni Culturali, un patto che abbia come obiettivo fondamentale la tutela dei diritti del lavoro e della dignità professionale».
«La sottoscrizione del Patto impegna studenti e professori, professionisti e aspiranti tali, datori di lavoro a censurare il ricorso al lavoro gratuito e sottopagato, ai tirocini formativi per coprire le carenze di organico, al volontariato in sostituzione del lavoro retribuito, alla negazione di diritti e di retribuzioni adeguate: sono tutte piaghe che affliggono il settore dei Beni Culturali da anni anche perché i suoi protagonisti hanno finito per considerare normale questo stato di cose inaccettabile» – prosegue Martina Carpani, Coordinatrice nazionale della Rete della Conoscenza – «Ma non è una situazione piovuta dal cielo: questo Governo è direttamente responsabile di politiche occupazionali insufficienti e della diffusione del lavoro precario: non solo ha liberalizzato i voucher, ma lo stesso MiBACT ha legittimato definitivamente il volontariato nel settore, con sistematici bandi volti ad assumere volontari laureati e preparati, ma senza retribuzione o con retribuzioni ridicole e vergognose».
*** Mille nuovi precari al Mibact: volontari al posto dei lavoratori
«Migliaia di professionisti sono stati spinti ad accettare condizioni di lavoro indegne per poter rimanere nel campo, e tanti altri a cambiare lavoro, per non dover accettare condizioni di lavoro indegne; datori di lavoro e committenti hanno spesso accettato di buon grado la prospettiva del massimo ribasso, facendo fronte alla mancanza di fondi con collaborazioni gratuite o appoggiandosi a varie associazioni di volontariato; anche il mondo accademico si è reso corresponsabile, facendo sempre troppo poco per il futuro dei propri laureati e per evitare che la selezione, a forza di titoli post-laurea e lavoro gratuito, divenisse sempre più censitaria» – prosegue Incorvaia – «Quella di oggi vuole essere una giornata di svolta per il mondo dei beni culturali: PLaC – Patto per il Lavoro Culturale vuole rompere questo meccanismo, mettendo ognuna delle persone che hanno a cuore il patrimonio culturale italiano di fronte alle proprie responsabilità, chiedendo di esporsi con nome e cognome per sottoscrivere impegni precisi»
Al patto hanno aderito, al momento, Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Claudio Meloni della Fp-Cgil, Vittorio Emiliani, Rita Paris, Adriano La Regina, Margherita Corrado, Manlio Lilli e tanti altri. La giornata di lancio del Patto per il Lavoro Culturale è proseguita verso il Mausoleo di Augusto, in Piazza Augusto Imperatore a Roma, monumento da anni simbolo di spreco e degrado del patrimonio culturale per un’azione di denuncia da parte degli attivisti.
«Non c’è più tempo, dobbiamo coalizzarci e rompere, a partire da questo Patto, lo sfruttamento e lo svilimento del lavoro nel settore dei beni culturali. Ne va del futuro del nostro patrimonio culturale, cuore pulsante del Paese, e del futuro di intere generazioni di professionisti dei beni culturali presenti e futuri» – concludono gli attivisti nella nota – «Si tratta di un’emergenza nazionale, per il nostro patrimonio e il futuro di tantissimi giovani professionisti altamente qualificati»
«Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia».il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
Politica e istituzioni sono entrate in un corto circuito dal quale faticano a uscire. Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017 perché recidivo nella volontà di forzare gli argini costituzionali, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia. Come può cogliere il senso del voto referendario del 4 dicembre, che è stato soprattutto il rigetto di un modo arrogante e chiuso all’ascolto di esercitare il potere, di ridurre il governo al comando? È proprio questa filosofia del governare che può alla fine trovarsi confermata se si accetta la normativa di risulta per la camera così com’è, magari estendendola al senato. A questo obiettivo punta Renzi quando chiede il voto subito, con argomenti collaterali quali lo slittamento dei referendum Cgil, e il voto prima di una legge di stabilità che quest’anno si preannuncia dura. Cresce la fronda nel Pd, e persino un ministro prende posizione contro il voto subito.
Un dibattito interessante sul lavoro, a partire dal "reddito di cittadinanza. Ma raramente la sinistra riesce a uscire dall'angusto recinto del capitalismo. Neppure col pensiero. Articoli di Laura Pennacchi, Marco Bascetta, Aldo Carra, Andrea Fumagalli.
il manifesto, 29 gennaio - 1° febbraio 2017, con postilla
29 gennaio 2017
PERCHÉ AL «REDDITO DI CITTADINANZA»
PREFERISCO IL LAVORO
di Laura Pennacchi
Ha più di un fondamento l’affermazione de Le Monde secondo cui è «una falsa buona idea» l’ipotesi del «reddito universale» o «reddito di cittadinanza», che in tempi di populismi dilaganti ricorre dall’Italia alla Francia. Questa ipotesi (con cui si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale non sottoposto a nessun’altra condizione) pone immensi problemi di costo – si discute di centinaia di miliardi di euro -, a fronte del ben più limitato ammontare che sarebbe richiesto da «Piani per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne» ispirati alla prospettiva del «lavoro di cittadinanza» e al New Deal.
Un costo così illimitato rende la prima semplicemente irrealizzabile e i secondi assai più credibili e questo basterebbe a chiudere la diatriba, se non fosse che l’ipotesi di «reddito di cittadinanza» pone anche rilevantissimi problemi culturali e morali, sui quali è bene soffermarsi.
Non può essere sottovalutato che tra i primi sostenitori della proposta di «reddito di base incondizionato» ci fu Milton Friedman, il monetarista antesignano del neoliberismo che ne formulò una versione a base di riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa».
Ma anche vari teorici di sinistra finiscono con l’avvalorare, pur di realizzare il «reddito di base», l’immagine di uno stato sociale «minimo», specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.
Sottostante a tutto ciò c’è una strana resistenza, anche a sinistra, a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi «senza fine» esplosa nel 2007/2008, quasi si fosse indifferenti ad un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e del suo esito più devastante, la «crisi permanente» per l’appunto. La motivazione con cui da parte di molti si giustifica il «reddito universale» è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile». Con questa motivazione, però, il «reddito di cittadinanza» viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe a essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde e l’operatore pubblico si vedrebbe giustificato nella sua crescente deresponsabilizzazione (perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).
In questa prospettiva è quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ci si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Problemi di allocazione e di struttura si pongono tanto più al presente: il necessario «nuovo modello di sviluppo» non nasce spontaneamente, né solo per virtù di incentivi monetari, quale è anche il «reddito di cittadinanza», ma ha bisogno di pensiero, ideazione, progetti.
Chiarezza concettuale e culturale va fatta sulla stessa concezione del lavoro. L’escamotage a cui alcuni a sinistra ricorrono – sosteniamo insieme sia il «reddito universale» sia la «piena occupazione» – è fittizio e lascia tutti i problemi irrisolti. Stupisce, piuttosto, che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo «l’economia che uccide» – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’«essere» del lavoratore. Così come stupisce che non si faccia appello al Marx che, con Hegel, vede nel lavoro – nella sua «inquietudine creatrice» – il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.
Dunque, piuttosto che ambire a costruire un «welfare per la non piena occupazione», la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della «piena e buona occupazione», nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
Non a caso il grande studioso Anthony Atkinson, scomparso da pochi giorni, da un lato proponeva un «reddito di partecipazione», cioè un beneficio monetario da erogare sulla base dell’apporto di un contributo sociale (lavoro di varia forma e natura, istruzione, formazione, ecc.), dall’altro si riferiva a Keynes e a Minsky e consigliava di tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione, facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito», dall’altro ancora suggeriva che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di «reddito di cittadinanza») di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di «reddito di cittadinanza».
Benoit Hamon, che ha prevalso con ampio margine nelle primarie del Partito socialista francese per la candidatura all’Eliseo, e che guarda a una possibile alleanza rosso-rosso-verde, ha posto tra gli obiettivi centrali del suo programma il reddito di cittadinanza.
Seppure, nei tempi e nei modi della sua realizzazione, ha spesso oscillato dall’originaria impostazione universalistica e incondizionata a soluzioni più graduali e circoscritte, resta un segnale forte che, insieme al rifiuto della Loi Travail, ha saputo mobilitare una parte consistente dell’elettorato di sinistra, giovanile in particolare.
Del reddito di cittadinanza esistono infinite varianti e interpretazioni nel corso di una storia assai lunga che ha attraversato movimenti e progetti politici antagonisti, del tutto antitetici alla tradizione liberale nella quale gli avversari del basic income, si sforzano insistentemente di rinchiuderlo. Ricordare che Milton Friedman proponesse, a suo modo, forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione.
Resta il fatto che a sinistra il reddito di cittadinanza (o di base) incontra molteplici resistenze, ideologiche prima ancora che contabili. Il che rende questa vittoria di Hamon tanto più significativa e probabilmente dovuta, oltre che alla presa di distanza dal neoliberismo, dall’aver incrociato la domanda dei tanti soggetti sociali esclusi dagli ammortizzatori sociali che la sinistra tradizionalmente difende e gelosamente amministra.
Ormai stufi di rincorrere la promessa della piena occupazione da cui tutto dovrebbe discendere. L’articolo di Laura Pennacchi, pubblicato su queste pagine domenica scorsa, ci offre un catalogo piuttosto completo di queste resistenze. Che spaziano dal costo finanziario del basic income al «valore etico» del lavoro, con immancabile citazione di papa Francesco il quale, facendo il suo mestiere, fa risiedere nell’ora et labora, l’essenza della persona. Quanto ai costi del reddito universale (che dovrebbe riassorbire altre forme di previdenza) esistono tanti calcoli quante ne sono le varianti.
Qui, non potendo entrare in questioni tecniche, basterà dire che nel mondo barbaramente diseguale descritto da Piketty, l’insufficienza delle risorse è un argomento generalmente piuttosto debole.
Vi sono due tendenze alle quali quanti coltivano la fede nella piena occupazione non danno risposta.
La prima è che l’automazione e la tecnologia sono, per loro essenza, votate al risparmio di lavoro, a ridurre cioè il dispendio di fatica umana nella produzione di ricchezza. Che questa potenzialità si rovesci in disoccupazione e miseria è una conseguenza dei rapporti sociali. Solo nei momenti di più feroce sfruttamento (come la prima rivoluzione industriale) moltiplicano lavoro, perlopiù ripetitivo, dequalificato e sottoposto a un rigido comando gerarchico.
Oppure, come nell’epoca digitale, lavoro gratuito più o meno inconsapevole. Veniamo così alla seconda tendenza, del tutto invisibile a quanti guardano al reddito di cittadinanza con gli occhiali appannati dei classici ammortizzatori sociali. Viviamo in una società nella quale gran parte delle attività che ne fanno la ricchezza e la qualità sociale non sono riconosciute come lavoro e non danno diritto ad alcuna forma di reddito.
L’inattività assoluta è una pura e semplice invenzione ideologica. Per dirla con una formula secca non è di disoccupazione, ma di «disretribuzione» che dovremmo parlare. Il rapporto tra lavoro e reddito è stato di fatto già reciso, ma non dal reddito garantito, bensì dal dilagare del lavoro gratuito. Tradurre in contratti di lavoro retribuiti e regolamentati, per non dire stabili, queste molteplici attività che formano il fitto tessuto della cooperazione sociale va, questo sì, ben oltre il più strenuo sforzo di fantasia.
Detto altrimenti, ci troviamo già in una situazione di piena occupazione, la quale si presenta appunto nelle forme del lavoro precario, intermittente e gratuito da cui trae alimento il cosiddetto «capitalismo estrattivo». In questa prospettiva il reddito di base non è che il trasferimento di una parte di questa ricchezza a coloro che effettivamente la producono e non un semplice ammortizzatore sociale.
Si tratta, insomma, di un obiettivo pienamente politico e anche di un relativo trasferimento di potere.
La garanzia di un reddito comporta infatti maggiore forza contrattuale e più ampi margini di libertà dalle pretese del dirigismo pubblico di stabilire l’ «utilità sociale» come da quelle dello sfruttamento privato. «Datori di lavoro» è una espressione che non consente equivoci di sorta, che si tratti dello stato o del padrone.
Esprime, infatti, il potere di stabilire se, come, quanto, quando e cosa «dare». Una prerogativa alla quale non si rinuncia certo facilmente. E con la quale il desiderio di autonomia di innumerevoli soggetti produttivi non può che entrare in rotta di collisione.
1° febbraio 2017
REDDITO E LAVORO DUE IPOTESI DIVERSE
MA NON ALTERNATIVE
di Aldo Carra
Gli articoli di Laura Pennacchi e di Marco Bascetta, mentre nel partito socialista francese vince un candidato con la bandiera del reddito universale e della riduzione degli orari di lavoro, ripropongono la divaricazione dei punti di vista della sinistra italiana.
Da una parte centralità della creazione di nuovo lavoro come fonte di reddito, dall’altra affermazione del diritto ad un reddito di cittadinanza a prescindere dalla prestazione lavorativa.
Dopo il No dei giovani al referendum, la denuncia della crescita delle disuguaglianze per scarsità di lavoro e bassa remunerazione, mentre si sta dispiegando una ristrutturazione dei soggetti politici e tra poco dovremo affrontare referendum Cgil ed elezioni, una piattaforma politica della sinistra sulla materia si impone con urgenza. Proporrei alcuni punti di riflessione.
1 – Il matrimonio tra reddito e lavoro per cui non si dava reddito senza lavoro e lavoro senza reddito è finito da tempo: le diverse forme di welfare hanno introdotto sostegni al reddito che prescindono da prestazioni lavorative; negli ultimi anni si sono diffuse forme diverse di lavoro non retribuito connesse a prestazioni fatte per un mix di impegno civile, aspettative indotte, piacere personale. Forse se la dimensione spaventosa della disoccupazione misurata col metro tradizionale di lavoro e non lavoro non assume caratteri di rivolta è anche per questa area cuscinetto che vive in un limbo sostenuto spesso da ammortizzatori familiari.
2 – In uno quadro così dinamico le due ipotesi estreme presentano diverse criticità. La proposta di puntare esclusivamente a programmi di crescita capaci di creare occupazione in presenza di livelli di disoccupazione straordinari – 10 milioni tra disoccupati, scoraggiati, cassintegrati – non appare realistica, tenendo presente che innovazioni e robotizzazione ridurranno ulteriormente il lavoro necessario. Sul lato estremo, concentrare attenzione e risorse su una forma di sostegno come il reddito di cittadinanza appare a molti rinunciataria perché non si cimenta con la costruzione e la sfida di un nuovo modello di sviluppo oltreché negativa e dannosa sul piano etico.
3 – Collocando queste due ipotesi alle estremità di una scala, si possono ipotizzare svariate soluzioni intermedie come un reddito di cittadinanza attiva, cioè erogato in funzione di prestazioni lavorative prevalentemente di carattere sociale, ed un lavoro di cittadinanza come dovere delle istituzioni verso i cittadini e diritto dei cittadini. Le diverse proposte non sono necessariamente alternative. Al contrario, penso si possa progettare una strategia articolata, percorsi che consentano l’adattamento alle esigenze dell’individuo e dei territori con soluzioni e strumenti differenziati in veri e propri piani pluriennali. Maggiore credibilità alle due proposte dovrebbe venire dalla riduzione degli orari di lavoro, incoraggiandola nei rinnovi contrattuali con misure condizionate a nuove assunzioni e incentivi compensativi delle perdite di salario.
4 – Le diverse ipotesi, prese singolarmente o intrecciate e graduate, hanno implicazioni in termini di costo. Ciò implica investimenti pubblici sia nei settori produttivi che in quelli sociali (dai servizi alle manutenzioni, ripensando in forme nuove ai lavori socialmente utili) reperendo le risorse con una maggiore progressività sulle fasce alte sia delle imposte sui redditi che sui beni patrimoniali e sulle successioni, con investimenti diretti europei, con spesa pubblica esclusa dai vincoli di bilancio, senza trascurare l’ipotesi, a questo fine, di creare la moneta fiscale.
Un Piano straordinario di investimenti per il lavoro e per il reddito come programma minimo comune per un nuovo soggetto politico della sinistra. Se si discutesse di più di questo e, a cominciare dal congresso di Sinistra Italiana, si potesse delineare una piattaforma da discutere con il mondo giovanile innanzitutto, come base di possibili alleanze penso che il progetto ambizioso di Sinistra Italiana partirebbe col piede giusto.
1° febbraio 2017
«REDDITO DI BASE CONTRO LA PRECARIETÀ,
MODELLO HAMON PER SINISTRE E SINDACATO»
intervista di Roberto Ciccarelli ad Andrea Fumagalli
«Intervista a Andrea Fumagalli, economista dell'università di Pavia e membro del Basic Income Network Italia: "A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste sostenendo il reddito di base nel suo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica"»
«Dai dati Istat sulla forza lavoro emerge che il mercato del lavoro italiano è in forte stagnazione e gli sperati effetti del Jobs Act non si sono fatti sentire – afferma l’economista Andrea Fumagalli, docente all’università di Pavia e membro dell’associazione del Basic Income Network per il reddito di base in Italia – Una volta terminata la droga degli incentivi la crescita occupazionale si è interrotta e quella che c’è stata è trainata dai contratti precari. Il contratto a tutele crescenti, anche se viene considerato un contratto a tempo indeterminato nelle statistiche, in realtà è un contratto a tempo o un contratto di apprendistato lungo tre anni. Già adesso si inizia a vedere che molti lavoratori assunti con questo contratto sono licenziati a un costo irrisorio per le imprese ed è probabile che a tre anni dall’introduzione del Jobs Act il numero di coloro che saranno assunti stabilmente sarà relativamente basso. Ciò dipende dalle politiche assistenziali all’impresa deliberate dal governo Renzi non hanno avuto effetti sul livello della domanda e dei consumi interni e ha favorito la stagnazione del Pil e una riduzione del potere di acquisto, oltre che il rischio di una deflazione strutturale».
Perché cresce la disoccupazione giovanile?
C’è un effetto demografico dovuto non tanto all’aumento della componente giovanile che è in calo, ma all’aumento della fascia dei lavoratori con più di 50 anni, uno degli effetti dell’onda lunga del boom demografico degli anni Sessanta. Fenomeno accentuato anche dalla riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile in modo drastico. Questa situazione fa da tappo a un potenziale aumento dell’occupazione giovanile. Aumenta lo scollamento tra una forza lavoro giovanile mediamente più istruita rispetto alla domanda di lavoro che ancora ricerca competenze basse. Questo dipende dalla struttura produttiva italiana votata a produzione tradizionali a basso valore aggiunto e meno innovative.
Il programma «garanzia giovani» ha funzionato?
Grazie anche a un cospicuo finanziamento europeo doveva favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I risultati sono stati di gran lunga inferiori all’obiettivo dichiarato dal ministro Poletti di inserire nel mercato del lavoro quasi un milione di giovani. Quelli inseriti vivono condizioni contrattuali precarie ad alta ricattabilità o forme di lavoro non pagato.
Perché il mercato del lavoro italiano si conferma sempre tra i peggiori in Europa?
In Italia, più che altrove, il perseguimento ottuso di politiche di sostegno all’offerta produttiva si è coniugato con politiche salariali inadeguate. Non esiste un salario minimo, né un sostegno al reddito minimo. E sono continuate le politiche di riduzione della spesa pubblica sociale in un contesto economico dove la produttività del lavoro cresce a ritmi insufficienti proprio a causa dell’eccesso di precarietà.
È possibile un’inversione di tendenza?
Con le elezioni politiche a breve è difficile che possa esserci. Sul medio-lungo periodo potrebbe essere possibile solo se cambiasse la prospettiva culturale e politica, anche all’interno delle forze di sinistra e sindacali.
In che modo?
Che non si facciano schiacciare da una retorica di tipo lavoristico e che riescano invece a elaborare politiche aperte e innovative di sostegno al reddito in grado di creare le premesse per una valorizzazione delle competenze e delle capacità lavorative che già esistono.
Sarà mai possibile?
Al momento attuale non se ne vedono le premesse. A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste su questo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica.
postilla
Sembra davvero difficile per la sinistra italiana (non consideriamo ovviamente parte della sinistra la compagine renziana) guardare al tema del lavoro dell’uomo fuori dal confine del capitalismo. Quasi mai si sente il respiro, il desiderio, l’esigenza di porre la questione del lavoro nell’ottica di una nuova visione della persona umana. In questo gruppo di articoli – che abbiamo ripreso da un recente dibattito del manifesto – l’unica che vi accenna è Laura Pennacchi. E ne accenna riprendendo le parole di un uomo che non può essere ricondotto al concetto classico, e forse obsoleto, di “sinistra”: Papa Francesco.
Stupisce, scrive Pennacchi «che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’"avere" ma l’”essere” del lavoratore».
Da qui bisognerebbe ripartire, magari ricordando i ragionamenti di un altro grande economista troppo presto dimenticato, Claudio Napoleoni. Ma qui ci fermiamo, promettendoci di riprendere il discorso in uno spazio un po’ più ampio di una postilla. (e.s.)
MicroMega online, 30 gennaio 2017 (c.m.c.)
«Penso che avremmo tutti bisogno di sederci dopo questi fatti e discutere di come dovrebbero essere costruite in futuro le politiche commerciali». La commissaria europea al Commercio Cecilia Malmström probabilmente non immaginava che due oscuri trattati dai nomi incomprensibili come TTIP e CETA avrebbero spopolato nei media internazionali, portato oltre tre milioni di cittadini europei a promuovere e firmare una e portato in piazza negli ultimi tre anni oltre quattro milioni di cittadini di tutti e 27 i paesi membri, 50mila solo a Roma il 7 maggio 2016.
Ma quello che queste persone hanno capito, e che i loro governi sembrano voler ignorare, è che TTIP (Transatlantic Trade and Investment partnership, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti) e CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, la sua versione in minore tra Ue e Canada), in realtà sono delle scorciatoie per via commerciale di operazioni molto coerenti di ridisegno della filiera delle decisioni e delle responsabilità.
In questi giorni c’è chi vuole far passare il CETA come un argine al trumpismo: peccato che il premier Justin Trudeau – che il Parlamento europeo ospiterà a Strasburgo a metà febbraio per godersi in prima fila la deprecabile approvazione del CETA e che posta selfie con bambini rifugiati – abbia salutato l’elezione di Trump, che pure lo svillaneggia spesso su Twitter, come «la possibilità di assicurare a canadesi e americani il giusto successo con un maggior lavoro comune su commercio e sicurezza» [i], e abbia gioito per lo sblocco da parte di Trump della costruzione dell’Oleodotto Keystone XL, stoppato da Obama perché ritenuto devastante per l’ambiente, definendo la scelta di Trump «una decisione molto importante per il Canada che ho sempre sostenuto». [ii]
Trump fermerà il TTIP e la globalizzazione? Proprio no: il suo programma prevede una raffica di accordi commerciali bilaterali e di chiuderli uno dopo l’altro a un ritmo veloce. Peter Navarro, direttore del nuovo Consiglio Nazionale del Commercio della Casa Bianca, ha detto che insieme al ministro al Commercio Wilbur Ross spingeranno per accordi che stringano i requisiti delle regole di origine, che diano un giro di vite al dumping dell’acciaio e dell’alluminio e riducano il deficit commerciale americano richiedendo alle nazioni partner di comprare più prodotti americani.
Per questo Trump prende tempo sul TTIP: proverà a negoziare un accordo bilaterale con la Gran Bretagna, già annunciato, e ad imporre un vantaggio più netto per gli Usa all’Europa, indebolita dalla Brexit. E il rischio è che per evitare l’isolamento commerciale e imporre la svolta antidemocratica auspicata, la Commissione europea accetti il TTIP a tutti i costi, come oggi spinge verso il CETA nonostante il quadro politico sia assolutamente diverso da quello in cui l’ha negoziato.
Il vero obiettivo di TTIP e CETA, infatti, è spostare il baricentro delle decisioni dai Parlamenti nazionali ed europei a commissioni tecniche ad hoc dove ”esperti” incaricati dei Governi Usa e canadese, insieme ad altri “esperti” individuati per decisione autonoma della Commissione europea, stabiliranno quando una marmitta sia abbastanza sicura, ma anche quanto piombo o ormoni sia giusto che siano presenti nel cibo che mangiamo, solo alla luce dei potenziali vantaggi commerciali per chi li produce ed esporta. Ma c’è di più: con questi trattati si punta a introdurre una corsia legale preferenziale, un tribunale arbitrale riservato alle imprese dove esse possano contestare le leggi pur emanate a tutela dei diritti dei cittadini, qualora danneggino i loro interessi commerciali. Una scelta che l’associazione dei magistrati tedeschi, DRB, ha giudicato “senza basi legali”[iii].
Da Seattle a Bruxelles: che cos’è che non va
Era dai tempi della rivolta a Seattle nel 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization – WTO) e dal G8 di Genova 2001 nel nostro Paese, che sindacati, associazioni e movimenti non erigevano barricate fisiche e politiche contro la deregulation commerciale. Questa volta, però, un’inedita alleanza, anche al di là dell’Atlantico, con piccole e medie imprese dei settori agroalimentare e manifatturiero, oltre duemila Regioni tra cui Abruzzo, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige e Val D’Aosta e città europee [iv], e con magistrati e esperti di diritto e commercio, hanno inceppato i rispettivi esecutivi. Il TTIP, rispetto al quale Trump si era dichiarato critico ma che oggi col suo staff sta valutando a fondo, essendo sensibili i vantaggi per le esportazioni Usa da esso prefigurato, è fermo da oltre 5 mesi ma, dicono i negoziatori “basterebbe un po’ di volontà politica per portarlo a compimento”[v].
Il CETA, invece, sarà sottoposto al voto del Parlamento europeo a metà febbraio, se non interverranno ostacoli. Mentre Germania, Francia, Austria e persino piccoli stati federali come la belga Vallonia hanno sollevato criticità rispetto ai due trattati, il Governo Renzi ne è stato fiero campione[vi]: “L'Italia è stato l'unico Paese che ha inviato una lettera alla Commissione europea autorizzandola a considerare il CETA una competenza esclusivamente europea”, ha spiegato il ministro competente Carlo Calenda chiedendo a Malmstrom di tagliare fuori il suo Paese e gli altri 26 dal processo di ratifica[vii] del trattato per accelerarne l’iter[viii]. E’ difficile spiegarsi il perché.
TTIP e CETA sono fondati essenzialmente sugli stessi tre pilastri: un primo nucleo di regole per facilitare l’accesso al mercato con l’abbattimento di dazi e tariffe e a nuove regole per l’accesso ai servizi e agli appalti pubblici della controparte. Un secondo nucleo di regole si concentra sulla cooperazione normativa tra le sue parti, affrontando gli ostacoli tecnici agli scambi, la sicurezza alimentare e la salute degli animali e delle piante, le regole riguardanti gli specifici settori produttivi. Il tutto da armonizzare in appositi comitati bilaterali fuori dal controllo parlamentare, per rendere il commercio più facile, non il cittadino più tranquillo. C’è poi un terzo nucleo normativo che si concentra su specifici ambiti come sviluppo sostenibile, energia e materie prime, proprietà intellettuale e indicazioni geografiche, concorrenza, protezione degli investimenti, piccole e medie imprese.
Se entrasse in vigore solo il primo pilastro in CETA e TTIP, i due trattati raggiungerebbero appena 1/3 delle proprie potenzialità. E’ con l’avvicinamento delle regole tra le due sponde dell’Atlantico, sia con il CETA sia con il TTIP, che si raggiungono i cosiddetti “migliori” risultati commerciali. Usiamo le virgolette perché per il TTIP, infatti, parliamo di un modesto incremento del PIL inferiore allo 0,5% in USA e UE entro i primi 13 anni di applicazione del trattato, a fronte di un incremento delle esportazioni dell’UE verso gli USA del 60% circa e di quelle degli USA verso l’UE di oltre l’80%[ix]. Con il CETA si parla di un piccolo aumento di PIL per l’Europa in dieci anni tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%, a fronte di un aumento delle esportazioni rispettivamente del 24.2% e del 20.4% [x].
Se si applicano alle analisi, però, i modelli econometrici usati dalle Nazioni Unite al posto di quelli della Banca Mondiale, e si prendono dunque in considerazione più variabili oltre al saldo netto commerciale, scopriamo questi flussi commerciali aggiuntivi in arrivo da oltreoceano andrebbero a sostituire quote dal 30 al 70% di interscambio tra Paesi dell’Unione (fenomeno noto come Trade diversion), e gli scarsi guadagni previsti si tradurrebbero in danni certi. Per il TTIP si arriva a quantificare, sempre in 13 anni, una perdita di reddito da lavoro tra i 165 e i 5mila euro per ciascun lavoratore europeo a seconda del Paese e una moria di circa 600mila posti di lavoro, la maggior parte tra Germania, Francia e Italia.
Il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia[xi]. Con il CETA entro il 2023 il governo canadese perderà lo 0,12% delle sue entrate da tasse commerciali, mentre in Europa si registrerà una perdita media di entrate dello -0,16% per cui si arriveranno a tagli nella spesa pubblica fino allo -0.20% in Canada e allo -0.08% in UE che si proietteranno in maggiori perdite nei Paesi europei con i settori pubblici più consistenti come Francia (-0,20%) e Italia (-0.20%)[xii].
Chi negozia e chi controlla
Tutti i dubbi espressi emergono da valutazioni indipendenti. Anche se l’Europa prevede che per ogni accordo vengano realizzate analisi ex ante anche sul piano della sostenibilità, i negoziati sono condotti senza che nessuno se non i negoziatori– e quindi per l’UE la Commissione e i suoi esperti - possano accedere agli annessi dove sono indicati i livelli numerici delle armonizzazioni e degli abbattimenti.
Una corretta quantificazione, così, si può effettuare solo una volta che le due parti abbiano concluso il negoziato che è sottoposto a riservatezza come prevede il Trattato di Lisbona [xiii]. Esse, dunque, sono più accurate per il CETA, che è stato concluso e legalmente riordinato, meno per il TTIP i cui allegati tecnici sono stati messi a disposizione solo degli analisti indipendenti dai leakage (sottrazione e pubblicazione non autorizzata di testi rocambolescamente recuperati) condotti sotto la propria responsabilità legale da organizzazioni internazionali come Wikileaks, Greenpeace o le campagne StopTTIP dei Paesi europei tra cui l’Italia[xiv].
Sul sito della Commissione europea, infatti, dal 2014, pur dopo un richiamo formale a una maggiore trasparenza mosso dall’Ombudsman europeo[xv] su ricorso di un gruppo di Ong europee, sono disponibili una decina di proposte europee di testo del TTIP e molta propaganda. I parlamentari europei, dopo quell’autorevole intervento, possono consultare il TTIP, senza allegati, per un turno di un’ora circa, in apposite stanze dove accedono dopo perquisizione e vengono controllati a vista perché non prendano altro che appunti personali su carta e senza citazioni letterali del testo, disponibile nella sola lingua inglese[xvi]. Lo stesso i parlamentari nazionali, e solo dal 2016[xvii].
Il CETA, invece, i parlamentari europei, che devono votarlo, e quelli nazionali, che dovranno ratificarlo, non l’hanno letto prima della conclusione del negoziato. La ministro al Commercio canadese ha ammesso in un recente incontro a Bratislava di non averlo mai letto, e di “fidarsi dei suoi esperti”. Ne aveva un’idea in itinere, oltre ai lobbisti di mestiere, solo un pugno di esperti di Ong e sindacati (tra cui chi scrive) che lavorava grazie a “copie abusive”, perché l’intervento dell’Ombudsman è arrivato quando ormai il suo iter era quasi concluso, forse anche grazie a tanta riservatezza.
Il CETA, pericoloso sconosciuto
Nel CETA si ritrovano tutte le caratteristiche che hanno generato tanta preoccupazione intorno al TTIP. Il CETA, ad esempio, crea l’Investment Court System (ICS): un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati canadesi e l’UE dinnanzi a un tribunale arbitrale qualora una legge o regola introdotta o vigente danneggiasse i propri interessi. L’ICS sostituisce nominalmente il controverso meccanismo Investor to State Dispute Settlement (ISDS) presente nel TTIP, ma ne mantiene inalterati tutti gli aspetti controversi, contrariamente a quanto richiesto dal Parlamento europeo nella risoluzione del luglio 2015[xviii].
I membri delle corti ICS, poi, sono avvocati commerciali cui è concesso di svolgere attività libero professionale, con rischi di conflitti di interesse. II diritto di legiferare degli Stati non è adeguatamente protetto, perché nelle cause ICS viene tenuta in considerazione solo la lettera del CETA, e non la giurisprudenza dei singoli Stati o dell’Unione. L’Europa, ad esempio, nel 1997 in piena allerta mucca pazza bloccò l’importazione di carne contenente ormoni appellandosi al principio di precauzione, uno dei principi distintivi dell’UE[xix].
Nominalmente anche il Canada rispetta il principio di precauzione [xx]., ma insieme agli Usa si appellò contro il bando presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO (DSB), e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.[xxi]
Molte corporation americane, tra le quali Walmart, Chevron, Coca Cola e ConAgra, hanno controllate canadesi, e il CETA potrebbe permettere loro di operare nei mercati europei in condizioni di favore e di utilizzare l’ICS anche senza TTIP. Con la cooperazione normativa in vigore, poi, l’UE dovrà consultare il Canada prima di introdurre nuove leggi o regolamenti, e prima che tutti gli altri portatori di interessi si esprimano. Per questo oltre 100 esperti giuristi di tutta Europa hanno chiesto alla Commissione di fermare i negoziati e di aprire un confronto più serio e sull’impatto democratico di CETA e TTIP: «chiediamo con forza di non indebolire ne’ minare lo stato di diritto e i principi democratici sui quali i nostri Stati Membri e l'Unione Europea sono stati fondati – scrivono - fornendo agli investitori esteri un sistema giudiziario e legale parallelo non necessario, sistemicamente sbilanciato e strutturalmente inadeguato».[xxii]
A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta[xxiii] nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli[xxiv], uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester[xxv] dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che «chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge» perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.
L'attacco al Mediterraneo e il Governo Italiano
Quello che ha colpito del Governo Renzi (Gentiloni ancora non si è espresso nel merito) e della parte del Parlamento europeo che ne segue le orme da Bruxelles, è che il loro tifo pro TTIP e CETA ne autolimita la capacità politica. Un pugno di parlamentari europei del Belpaese, infatti, si è unito con una propria lettera alla richiesta del ministro Calenda di tagliare fuori i parlamenti nazionali dal processo di ratifica del trattato[xxvi], nonostante contro questa scelta si sia giù espressa la Commissione[xxvii], ma anche il nostro Parlamento, a partire dalla sua presidenza[xxviii], addirittura ospitando un importante incontro alla Camera dei deputati in cui parlamentari di tutti i gruppi politici, e lo stesso ministro Calenda, hanno ascoltato i fondati motivi di preoccupazione di numerose realtà da Coldiretti a Greenpeace, dalla Cgil alle Acli, a Slow Food, Legambiente, Arci, Attac.
Lo stesso Governo che fa la voce grossa con l’Europa per la sua miopia sulle migrazioni, e giustamente critica Trump per le sue politiche razziste, ignora un dato importante: i maggiori flussi commerciali provenienti da oltreoceano taglieranno di netto import ed export tra Europa, in primis l’Italia, e la sponda Sud del Mediterraneo.
L’ultimo Rapporto ICE 2016 spiega che già oggi le esportazioni italiane sono cresciute verso gli USA almeno in volume se non in valore, perché ci siamo avvantaggiati del cambio più favorevole. Si è ridotta però la presenza italiana in Africa: in rapporto alle esportazioni dell’area dell’euro, la quota italiana nell’Africa settentrionale è scesa nel 2015 sotto la soglia del 20 per cento, per la prima volta nell’ultimo decennio[xxix]. SACE, la società che assicura le nostre esportazioni all’estero, identifica il Nord Africa e l’Europa, il nostro mercato interno come spazi più strategici per l’Italia di Usa e Canada, soprattutto per l’agroalimentare[xxx].
UNCTAD, inoltre, avverte che l’area nordafricana è colpita da una “deindustrializzazione prematura” causata da “aperture dei mercati unilaterali” quindi dal trentennio di liberalizzazioni subite a partire dagli anni Ottanta dalle politiche economiche e commerciali imposte dalla Banca Mondiale ma anche da partner commerciali come l’Europa, che hanno «ridotto la capacità degli Stati di orientare gli investimenti e pianificare», trasformando la disoccupazione da ciclica a cronica[xxxi].
In queste aree, da cui gli orribilmente stigmatizzati “migranti economici” scappano per l’impossibilità di trovare un futuro, il TTIP porterebbe, stando alle analisi condotte dalla Fondazione Bertelsmann favorevole all’accordo, a una riduzione dei già magri redditi pro-capite nell’area dal 2 fino a più del 5%[xxxii].
Il CETA, stando invece alla Tufts University[xxxiii], spazzerà via almeno 80 mila posti di lavoro a ridosso della sua entrata in vigore nelle aree extra accordo, a partire proprio dal Mediterraneo. Spingere per l’approvazione di questi trattati da parte dell’Italia è come accenderci una miccia sotto ai piedi e chiederci di essere ringraziato per il buon affare che pure un paio di nostre grandi imprese avranno fatto nel vendergli l’ordigno.
Buon compleanno Europa
La comunicazione della Commissione Europea del 14 ottobre 2015 “Commercio per tutti – Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” è il documento strategico su cui si basa la strategia commerciale dell’UE. Pur sostenendo operazioni come TTIP e CETA, si ammette la necessità di implementare una politica commerciale più attenta ai temi della trasparenza e della sostenibilità.[xxxiv]
Il Parlamento UE, con la Relazione(2015/2105(INI) relatrice l’italiana Tiziana Begin, ha chiesto al Consiglio europeo, cioè a tutti i nostri Governi, di rendere pubblici i mandati negoziali di tutti i trattati. E ancora, con la Relazione sulle norme sociali e ambientali, i diritti umani e la responsabilità delle imprese (2015/2038(INI) di cui è stata relatrice un’altra italiana, Eleonora Forenza, il Parlamento europeo ha anche chiesto alla Commissione di effettuare valutazioni ex ante ed ex post dell'impatto di tutti gli accordi commerciali sulla sostenibilità e sui diritti umani.
Il 60esimo compleanno dei Trattati di Roma che hanno istituito la Comunità economica europea, che cadrà il 25 marzo prossimo e verrà celebrato a Roma con tutti gli onori, offre l’occasione migliore per ripensare le relazioni economiche e commerciali dentro e fuori l’Europa, e sarebbe auspicabile farlo nel modo più ampio, più rigoroso ma capace di visione che fosse possibile. A Bruxelles come a Roma mancano ad oggi, da quanto si è visto, esecutivi capaci di farlo da soli.
*giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch, Osservatorio italiano su Clima e commercio
NOTE
[i] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-trump-canada-us-relations-1.3843142
[ii] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-cabinet-keystone-xl-1.3949754
[iii] http://www.dw.com/en/german-judges-slap-ttip-down/a-19027665
[iv] La lista di qui https://stop-ttip-italia.net/zone-no-ttip/
[v] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2017/january/tradoc_155242.pdf
[vi] http://www.eunews.it/2014/10/14/renzi-il-ttip-ha-lappoggio-totale-e-incondizionato-del-governo-italiano/23167
[vii] La lettera originale pubblicata da Stop TTIP Italia https://stop-ttip-italia.net/2016/06/18/esclusivo-stopttip-italia-pubblica-la-lettera-di-calenda-su-ceta/
[viii] http:/www.politico.eu/article/eu-faces-last-chance-to-save-canada-trade-deal
[ix] http://ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/14-03CapaldoTTIP.pdf, p. 8
[x] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 23
[xi] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 27
[xii] Ibidem p. 25
[xiii] Una critica del 2010 a questa impostazione http://europaduepuntozero.blogspot.it/2010/05/leuropa-ed-il-commercio-internazionale.html
[xiv] https://stop-ttip-italia.net/documenti/
[xv] http://www.ombudsman.europa.eu/it/cases/summary.faces/it/58670/html.bookmark
[xvi] Il racconto di Tiziana Begin http://www.repubblica.it/economia/2015/10/19/news/ttip_tiziana_beghin-125417169/
[xvii] Il racconto di Giulio Marcon (Si) https://www.commo.org/post/70181/ttip-marcon-si-nella-sala-lettura-del-trattato-unora-per-800-pagine-non-e-vera-trasparenza/
[xviii] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2015-0252+0+DOC+XML+V0//IT
[xix] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al32042
[xx] Health Canada, “Decision-Making Framework for Identifying, Assessing and Managing Health Risks—1 August 2000.”
[xxi] WTO, 2009, European Comminutes—Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), https://www.wto.org/english/tratop_e/dispu_e/cases_e/ds26_e.htm
[xxii] https://stop-ttip.org/wp-content/uploads/2016/10/Legal-Statement_IT.pdf
[xxiii] https://correctiv.org/recherchen/ttip/blog/2016/10/17/alles-bleibt-angeblich-gleich-trotz-ceta/
[xxiv] Una collezione di pareri in questo articolo https://corporateeurope.org/international-trade/2016/10/great-ceta-swindle?page=0%2C1
[xxv] https://twitter.com/snlester/status/784013175742136320?lang=de
[xxvi] https://stop-ttip-italia.net/2016/10/15/quando-un-europarlamentare-chiede-di-esautorare-un-parlamento-nazionale/
[xxvii] europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2371_it.pdf
[xxviii] http://www.ilvelino.it/it/article/2016/07/05/ttip-boldrini-ce-bisogno-di-riflettere-sia-rimodulato-su-principi-equi/320e44b6-9c6d-4858-89cb-854eb08108f8/
[xxix] Ice p. 123
[xxx] SACE, Rapporto Restart 2015-2018, Figura 4, in http://www.sace.it/docs/default-source/ufficio-studi/pubblicazioni/restart---rapporto-export-2015.pdf?sfvrsn=2
[xxxi] http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/tdr2016_en.pdf p. IX
[xxxii] Bertelsmann foundation in EP: «The TTIP’s potential impact on developing countries» DG EXPO/B/PolDep/Note/2015_84 http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2015/549035/EXPO_IDA(2015)549035_EN.pdf
[xxxiii] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 28
[xxxiv] Trade for all: Towards a more responsible trade and investment policy.
Il testo integrale della comunicazione è consultabile in diverse lingue sul sito della Commissione Europea al seguente indirizzo: http://trade.ec.europa.eu/doclib/cfm/doclib_results.cfm?docid=153846
Dopo la Grecia, la Spagna, gli Usa, la Gran Bretagna, anche in Francia appare un candidato della sinistra radicale (quella che vuole andare alla radice della crisi. Intervista di Anais Ginori a Marc Lazar (l
a Repubblica) e un articolo di Anna Maria Merlo (il manifesto), 31 gennaio 2016
la Repubblica
"LAVORO ED ECOLOGIA
CON HAMON VINCE UNA NUOVA SINISTRA
Anais Ginori intervista Marc Lazar.
«Per il politologo le primarie socialiste sanciscono la sconfitta delle politiche di Hollande: e il successo di un partito più attento alle idee»
Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla Luiss di Roma, con la vittoria di Benoît Hamon la gauche abbandona il realismo e sceglie l’utopia?
«Il voto delle primarie è soprattutto contro François Hollande e i suoi governi. Una parte della sinistra si è mobilitata per esprimere chiaramente il rigetto di quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni. Poi la forza di Hamon è aver saputo offrire una narrazione nuova, spostando il partito a sinistra. Il concetto di utopia in questo caso è da maneggiare con cura».
Perché?
«Hamon non rappresenta una sinistra movimentista, solo di protesta e di opposizione. Lui vuole il potere. Le sue proposte sono discutibili, si può essere perplessi sulla fattibilità di alcune misure, ma sono lo specchio di una nuova visione del mondo, del lavoro, dell’ecologia».
L’idea di versare a tutti un reddito universale, che costerebbe allo Stato centinaia di miliardi di euro, non denota un’assenza di realismo?
«Ci sono riflessioni di filosofi su questa misura, che affascina in modo trasversale, e nasconde un dibattito serio su quale sarà il futuro del lavoro. Sicuramente nell’immediato è un’illusione. Se per caso vincesse, ipotesi improbabile, Hamon avrebbe difficoltà a versare il reddito universale e potrebbe deludere i suoi elettori. Ma bisogna guardare la proposta da un altro punto di vista».
Quale?
«E’ un risposta, magari sbagliata, a una domanda giusta, che esiste soprattutto tra i giovani. Ovvero immaginare la trasformazione del mondo e colmare quel vuoto di speranza, ideali, che ha portato all’attuale crisi della sinistra non solo in Francia. Hamon è il sintomo di radicalizzazione della sinistra sia all’interno di alcuni partiti, com’è accaduto nel Labour con Jeremy Corbyn, sia fuori, con la nascita di forze nuove come Syriza, Podemos».
Una sorta di rivincita sul riformismo di esponenti come Manuel Valls o Matteo Renzi?
«Nella loro lunga storia i riformisti o socialdemocratici hanno sempre sofferto di un deficit di credibilità sull’economia. La destra li ha sempre descritti come capaci solo di “tax and spend”, tassare e spendere soldi pubblici. I riformisti hanno dimostrato in Francia o in Italia di poter invece amministrare, governare. Ma per un certo elettorato di sinistra non è sufficiente. E probabilmente c’è anche una questione di metodo: sia a Valls che a Renzi è mancata l’arte del compromesso e una certa pedagogia nello spiegare le riforme».
Perché la svolta all’estrema sinistra del Ps non ha beneficiato Arnaud Montebourg?
«Montebourg ha una visione economica molto protezionista, mentre Hamon è aperto al mondo, unisce l’aspetto sociale a quello ecologico. La mancanza di notorietà del prescelto è un vantaggio: è apparso come un nome nuovo».
Hamon sarà sostenuto da Valls e dagli altri socialisti?
«Valls l’ha promesso ma penso che, in pratica, sarà fatto con poca convinzione, come accadde nel 2007 quando Ségolène Royal non venne appoggiata dall’apparato. L’ala destra del partito socialista si asterrà o farà poco. Il problema di Hamon è anche aprire un dialogo con i candidati fuori dal partito, come Mélenchon o Jadot (esponente dei Verdi, ndr.). E’ stato abile, già ieri ha lanciato un appello all’unità, in modo da farli sembrare settari».
Cosa succederà in caso di eliminazione di Hamon al primo turno?
«Dipende dalla percentuale che ottiene. Se ha un risultato dignitoso, strappando abbastanza voti a Mélenchon, come sembrano suggerire i primi sondaggi, allora potrà prendere il controllo del partito nell’autunno prossimo. Se invece finirà dietro a Mélenchon, allora Valls lancerà la battaglia per riconquistare la leadership».
E’ possibile la scomparsa del vecchio Ps?
«Non credo che possa sparire nel giro di qualche mese com’è accaduto al Partito socialista di Craxi. Nonostante la crisi, è una forza politica radicata nel Paese, negli enti locali, nell’amministrazione dello Stato. Di certo si è chiuso quello che noi chiamiamo il ‘ciclo di Epinay’ dal nome del congresso del 1971. E’ allora che François Mitterrand è riuscito a mettere insieme le diverse anime del socialismo. Una lunga storia terminata. Dopo le presidenziali, ci sarà un chiarimento: in un senso o nell’altro».
«Presidenziali. Dopo la vittoria alle primarie, il candidato socialista all'Eliseo incontra il primo ministro e cerca di unire. La strada è in salita. Macron attira l'ala destra del Ps. Uno spiraglio dal verde Jadot, chiusura da Mélenchon. Henri Weber: " È la quarta rifondazione della socialdemocrazia" (e si farà all'opposizione)»
Benoît Hamon, dopo aver vinto le primarie del Parti socialiste nel ballottaggio contro Manuel Valls (58,7% a 41,2%), in uno scrutinio che ha registrato una partecipazione in aumento (più di 2 milioni di votanti), ha subito iniziato la ricerca di un’intesa, sia nel Partito socialista che nell’area più allargata della sinistra. Sarà ricevuto in settimana dall’indifferente Hollande.
Ieri, il candidato del Ps alle presidenziali ha incontrato il primo ministro, Bernard Cazeneuve, che lo ha messo in guardia: «La sinistra non vincerà senza difendere il bilancio dei cinque anni della presidenza Hollande». Hamon si è dichiarato «soddisfatto» dell’incontro e ha assicurato che potrebbe «arricchire» il proprio programma con le «proposte» delle altre correnti del Ps, fermo restando il ritiro della Loi Travail. La strada non è facile. È stata la sinistra del Ps a vincere le primarie. A questi dissidenti il gruppo legato a Valls rimprovera la «fronda» contro Hollande, che ha finito per mettere fuori gioco per le prossime presidenziali prima il presidente in carica, poi lo stesso Valls e il partito. Già ieri, del resto, è iniziato un lento esodo di personalità dell’ala destra verso l’appoggio a Emmanuel Macron, candidato che per il momento non ha ancora presentato un programma politico preciso, ma che si dichiara «né di destra né di sinistra» e gioca la carta della gioventù (sua – ha 39 anni – e del suo elettorato, stando ai sondaggi).
Anche Hamon ha un elettorato giovane. Ha subito teso la mano alle altre due anime della sinistra, i Verdi e Jean-Luc Mélenchon. Europa Ecologia ha scelto, con le primarie, Yannick Jadot come candidato (estromettendo l’ex ministra Cécile Duflot, molto più conosciuta). Jadot, per il momento, mantiene la candidatura (ma ha difficoltà a raccogliere le 500 firme di politici eletti necessarie per potersi presentare). Ammette, però, «la bella campagna» di Hamon e mostra disponibilità, sempre che Hamon non si chiuda nei meandri del Ps. Molta meno disponibilità da parte di Jean-Luc Mélenchon, che considera possibile un’intesa solo alla condizione che sia lui a guidarla: Hamon preoccupa France Insoumise, un ultimo sondaggio dà Mélenchon sorpassato dal candidato Ps (ma tutti dietro Macron). Il Pcf, che ha scelto a fatica di schierarsi dietro Mélenchon rinunciando ad avere un proprio candidato, considera «una buona notizia» la vittoria di Hamon e si dice pronto a «discutere con tutta la sinistra anti-austerità».
Sulla sinistra e la vittoria di Hamon chiediamo un parere a Henri Weber, tra i fondatori della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr), con Alain Krivine e Daniel Bensaid, poi vicino a Laurent Fabius, che è stato senatore Ps e europarlamentare.
Benoît Hamon può cambiare la situazione a sinistra? Può rappresentare un rilancio della socialdemocrazia data per morta?
La socialdemocrazia sta vivendo una crisi internazionale. La Francia non è esclusa, tanto più che qui è stata al governo e questo costa molto caro nelle difficili condizioni di oggi. La socialdemocrazia, secondo me, non è in agonia, ma sta vivendo una crisi di rifondazione. È la quarta volta: era successo nel 1921, nel ’40 con la guerra, nel ’69, dove il Ps era crollato al 5% alle presidenziali, per poi rinascere nel ’71 a Epinay e aprire un ciclo ventennale di esercizio del potere. Una crisi di rifondazione deve portare a un rinnovamento totale, teorico, di programma, di organizzazione, delle pratiche militanti. Dare il Ps per morto è ormai un genere letterario in Francia, questa tesi ha riempito le biblioteche. Ma il Ps è comunque riuscito ad aprire i seggi per le primarie, con 60mila militanti impegnati, niente male per un cadavere».
Il primo ministro, Bernard Cazeneuve, ha suggerito a Hamon di cercare un’unità a sinistra. È una strada possibile?
Ricomporre le diverse anime della sinistra prenderà tempo e sarà fatto stando all’opposizione. Certo, non è escluso che Macron vinca: bisogna aver presente che non è la sinistra che può vincere, ma la destra che può perdere. Non si può imputare questa crisi a un uomo o a un partito, anche se hanno delle responsabilità, siamo di fronte a eco-sistema politico che è cambiato, che fa sì che tutti i partiti di governo siano in crisi, come era successo negli anni ’30 solo i demagoghi prosperano. Macron rappresenta un tentativo, si tratta di un partito-impresa, un’organizzazione che si propone come un’impresa di servizi, con un capo gerarchico – lui stesso – che alla fine sceglierà i 577 candidati per le legislative, che si sono presentati in seguito a un appello su Internet.
Hamon a chi si rivolge?
Hamon parla all’immaginario. Ha adottato il metodo del principio di piacere, non quello del principio di realtà, ma del resto il suo obiettivo è trovare una soluzione alla crisi del Ps e della sinistra, conquistare il partito non arrivare all’Eliseo. Propone temi piacevoli alle orecchie di sinistra, a un uditorio che vuole sbarazzarsi dalla fatica del potere. Salvo Macron, tutti considerano che l’elezione è persa e che bisogna approfittarne per ricomporre la sinistra. Ma ognuno vuole farlo a proprio vantaggio, Mélenchon, Macron, Hamon. Il reddito universale che propone è una bella idea, ma per ora resta un’utopia.
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ytali, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
Interrogarsi se sia il degrado del ceto politico (o delle classi dirigenti in generale) la causa dello sfarinarsi di quasi tutti i legami che strutturano la società contemporanea o se sia vero il contrario, è domanda meno oziosa di quanto possa apparire. Perché l’assunzione di uno dei due poli di riflessione induce a comportamenti e a posizioni culturali e persino psicologiche del tutto diverse (anche se, in fondo, complementari).
Chi investe tutta la sua imprenditorialità sulla dimensione separata ed impermeabile della politica rispetto alla sfera drammatica di una società in cui crescono fortemente diseguaglianze sociali e culturali, coglie una parziale verità, ma si attribuisce inopinatamente un compito demiurgico di rappresentazione di sentimenti espressi in forme spesso contraddittorie se non proprio aggressive. Se contro la “casta”, indistintamente definita, tendi a raffigurare una società illibata e priva di pesanti increspature culturali e psicologiche finisci con l’essere travolto da una violenta vandea che rifiuta ogni forma di relazione con i migranti, i diversi ed alimenta scene di conflitti egoistici interni alla stessa società. Non può essere questa una tentazione per qualsiasi ipotesi che si autodefinisca progressista.
Eppure il deficit spaventoso di progettualità e di rappresentanza di un pezzo di ceto politico che fa riferimento a valori vaghi di radicalità progressista tenta questa avventura come aggiramento ad una mancanza di consenso. Ma se impasti temi sociali veri e fondati con egoismi violenti e grevi diventi inconsciamente, e un po’ stupidamente, parte attiva di un collante culturale e politico che è alla base di tutti i movimenti reazionari che stanno animando la scena politica del vecchio continente con esperienze di governo fino a ieri impensabili.
Ma anche fuori dal vecchio continente il populismo approda al governo sconquassando equilibri geopolitici. Trump ha vinto negli Usa con l’annuncio di politiche protezionistiche e di forte arretramento culturale, sociale e civile. Nonostante ciò la presidenza Trump viene salutata in alcuni ambienti di sinistra radicale come la “caduta del muro del liberismo globalizzato” (sarebbe comico se non fosse tragico dipingere così un governo composto da miliardari e finanzieri, da nemici giurati dei diritti delle donne, dei neri, dei gay, dei migranti e di ogni forma di ambientalismo). E se, in Europa, le destre xenofobe, razziste e reazionarie inneggiano coerentemente al nuovo modello di riferimento, anche il M5s saluta con entusiasmo la novità d’oltreoceano.
L’errore strategico
La povertà culturale ed analitica di una critica amplificata alla politica “tout court“, pur avendo spesso conferme da quel mondo, determina un pesante errore strategico non privo di conseguenze. L’eccesso di soggettivismo e politicismo di cui è figlia questa facile scorciatoia oscura colpevolmente un dato che è evidente da qualche decennio: la perdita di potere, di ruolo e di funzioni delle istituzioni a tutti i livelli. In particolar modo delle assemblee elettive in danno degli esecutivi. La globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, il peso crescente della tecnocrazia hanno svuotato la capacità di incidenza dei processi istituzionali e sottratto ogni forma di capacità alla politica di mutare i destini individuali e collettivi.
“Foglie morte in attesa dell’ultimo refolo di vento di autunno”, così il filosofo Emanuele Severino raffigura i politici lasciando intravedere quasi una vita autonoma della tecnocrazia nei processi di governo del mondo. Con quanta efficacia, però, è facile constatarlo nella polarizzazione della ricchezza in aree sempre più ristrette e con sempre meno legittimazione democratica a fronte di un impoverimento che tocca realtà sociali prima neanche sfiorate dalle varie congiunture economiche.
L’urlo indistinto contro la politica, l’urlo che reclama un cambio salvifico, l’urlo privo di progettualità alternativa e di un blocco sociale coeso di riferimento, alimenta facili illusioni e produce fortissime disillusioni che a loro volta incoraggiano passività e rabbia, depressioni e rivolte individualistiche. Se il problema del permanere della tua condizione di sofferenza è legato ad una rapida sostituzione del ceto politico di governo, l’obiettivo sembra così a portata di mano che quando si realizza e le attese vengono però deluse, il divario tra politica e società diventa una voragine.
I nuovi populismi
La via breve e spesso strumentale del populismo rimbalza sui social con toni apodittici e gravi. Brucia ogni ipotesi di soluzioni alternative e credibili ad una crisi economica e culturale che non ha alcun precedente storico per intensità, forma e durata. Un tempo queste modalità erano appannaggio di forze ristrette. Oggi queste forze, nella crisi perdurante, se non proprio l’agonia, delle vecchie formazioni politiche, hanno consensi sempre più significativi.
La soluzione semplice se pur improbabile di problemi complessi ha un appeal superiore a qualsiasi altra soluzione praticabile. Prima queste modalità erano atteggiamenti estremi di forze estreme spesso nostalgiche di altri periodi storici che narrano di un benessere antico il più delle volte mai esistito. Oggi il populismo è di sinistra, di destra e di…centro. È di opposizione e di governo.
Magari con forme di diversa intensità. Al populismo ci si oppone spesso con un “embrassons-nous” del sistema politico che si rinserra in una sorta di cittadella separata in un meccanismo di autodifesa che viene percepito come tutela di facili prerogative e antichi privilegi. Ovviamente questo atteggiamento non fa che alimentare il fuoco del rancore, della rabbia, fino al sentimento ingovernabile dell’odio.
La complessità della crisi
La complicazione strutturale del nostro tempo è determinata dal fatto che il degrado della società e l’irrilevanza della politica si intrecciano e si autoalimentano reciprocamente. Se non si produce un’analisi unitaria si finisce con il rincorrere vecchie antinomie tra autonomia del sociale ed autonomia del politico, entrambe deprivate di una dimensione vitale positiva e fortemente deteriorate. Qui siamo. Il paese che ha conosciuto il più alto livello di socializzazione e partecipazione politica, l’Italia, è stretto tra opzioni liberiste di natura tecnocratica e varie forme di populismo.
Il paese che, negli anni Settanta, ha conosciuto il più alto livello di conflitto sociale organizzato e, forse, la più importante sperimentazione di modelli sociali alternativi, vive oggi la dissoluzione di ogni forma di legame sociale e solidaristico. Dal conflitto collettivo ispirato alla giustizia sociale all’invidia di tipo individualistico. Dalla consapevolezza di essere parte di un grande movimento di massa con una idea di trasformazione o trascendenza della realtà al vuoto di senso esasperato che si cristallizza nel tempo presente. L’Italia, più che altri paesi europei, conosce la distruzione se non la dissoluzione dei corpi intermedi della società.
“L’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Pare che la dissoluzione liquida della società descritta tante volte da Bauman trovi qui una applicazione particolarmente favorevole. Ma di liquido ci sono solo i soggetti organizzati: partiti, associazioni ed in parte anche sindacati. Remo Bodei in una recente intervista parla infatti di un ritorno alla materialità dura determinato dalla crisi economica, dalle crescenti disparità e dalle sacche nuove e vaste de povertà. È singolare rilevare che in una delle fasi di maggiore difficoltà del capitalismo (forse la più critica dalla sua nascita) nel governare le società siano scomparsi i suoi antagonisti. Il capitalismo in crisi travolge i suoi avversari. Eppure non convince, anzi si disaccoppia dalle forme di democrazia liberali finora sperimentate in occidente disarmando e rendendo inutile la politica.
Possiamo affermare con buone ragioni che questo liberismo contemporaneo sia profondamente illiberale. A ben guardare sta mutando profondamente la dimensione dell’umano. C’è il capo e ci sono le folle. Un clima culturale e psicologico non dissimile dai periodi inquietanti dei totalitarismi del secolo scorso. Ma ancora Bodei osserva giustamente che tutto è cambiato. Si è chiusa un’era apertasi con la rivoluzione francese. C’è una copiosa letteratura che disvela l’allarmante prospettiva che ci attende, ma a differenza del secolo scorso la funzione intellettuale non orienta grandi masse. Torna la nota profezia di Keynes: ” l’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Il fattore umano
“L’inatteso”, nelle relazioni umane, accentua sentimenti estremi, esaspera competizioni e narcisismi. Trasforma il bisogno di giustizia sociale in invidia e rancore. Sedimenta sacche di odio che sfociano in episodi sempre più diffusi di violenza improvvisa e priva di una spiegazione razionale. Il narcisismo è sicuramente la malattia del nostro tempo. C’è un narcisismo manifesto ed esibito nelle competizioni dell’apparire. C’è un più diffuso narcisismo che possiamo definire “represso”. È quello di chi aspira a godere di uno status che non potrà mai raggiungere.
Una potente deprivazione che lacera gli individui lasciandoli macerare in una rabbia interiore a stento tenuta a freno da meccanismi di controllo che impediscono sentimenti e legami autentici. Una deprivazione di beni materiali ed emotivi che vengono assurti a beni irrinunciabili anche se spesso inconfessabili. Il rapporto del capo con le folle imprigiona gli individui in un rapporto muto ed unidirezionale.
È un rapporto di tipo adattivo privo di elementi di criticità. È una sorta di identificazione ed induce ad atteggiamenti compiacenti al volere del modello di riferimento. Atteggiamenti vissuti in condizione di solitudine rancorosa. È una forma di relazione di tipo verticale che impedisce la dimensione orizzontale del legame sociale.
La perdita della libertà
Di questo tipo di relazione è utile indagare la perdita di libertà dei soggetti coinvolti. Nel suo ultimo libro Il coraggio di essere liberi il teologo Vito Mancuso utilizza efficacemente la metafora della professione dell’attore che usa tante maschere e recita su testi di cui non è evidentemente l’autore. « L’attore parla obbedendo ad un copione… Né i movimenti sono naturali, ma costruiti, artefatti». È gratificato dalla sua capacità tecnica se apprezzata da chi giudica la sua prestazione. Ognuno di noi tenta di recitare sui diversi palcoscenici dell’esistenza. Tutte le nostre parole, il linguaggio corporeo, le movenze sono finalizzati al compiacimento di un regista esterno.
Per dare un senso al vuoto esistenziale del tempo presente lo si riempie con una trama comportamentale dettata da un modello esterno mitizzato. Non c’è possibilità di entrare in conflitto con l’altro da te, affrontare l’incertezza della relazione o subire le possibili ferite narcisistiche. L’altro è potenzialmente e tendenzialmente un competitore se non proprio un nemico. Il rapporto fideistico con il capo sottrae anche lo spazio di una riflessione sul sé e su quella parte del sè in cui abitano le “ombre” di cui ha tante volte parlato Jung. Si finisce con l’essere soli e contemporaneamente fuori da sè. Si placa così, artificialmente, un senso insopportabile di vuoto. È evidente che in questo contesto perdono senso e significato valori come libertà ed uguaglianza. Libertà da chi? Non certo dal capo. Uguaglianza con chi? Non certo con l’altro.
Solidarietà
Anche termini come fratellanza e solidarietà, valori propri non solo di un mondo laico ma anche cattolico e religioso hanno perso peso. Riappaiono in congiunture ed eventi straordinari, ma se la congiuntura e l’evento si protraggono nel tempo questi sentimenti rapidamente rifluiscono per lasciare il campo ad un sentimento di tipo individualistico ed utilitaristico. Il termine solidarietà rischia di essere una parola sempre più vuota se non viene praticata e vissuta in una dimensione concreta.
La politica che proclama solidarietà non viene creduta perché spesso non rappresenta un mondo o una comunità che la praticano. E quella parola si rovescia quasi fosse un disvalore propagandistico. Quella parola continua ad avere un senso in aree di volontariato ed associazionismo sia laico che religioso. Vale a dire in mondi vitali che hanno dato alternative concrete al senso di vuoto, di ingiustizia, di precarietà esistenziale provando a mettere in discussione sè stessi nella relazione con l’altro.
Papa Francesco ha proposto questa dimensione originaria della fede per cercare di recuperare una scissione evidente tra la Chiesa e la società. Processo non dissimile dalla divaricazione tra politica e società. Ma questi sforzi incontrano resistenze molto grandi. Si può evidenziare un conflitto aspro tra le gerarchie ecclesiastiche, ma anche, problema più serio, una resistenza o, nel migliore dei casi, una disabitudine a praticare la solidarietà concreta in tante strutture territoriali fino a disattendere apertamente le indicazioni del Pontefice.
Nel pieno della tragedia dei migranti e dei profughi la proposta di Papa Francesco di aprire chiese e sedi per dare loro ricovero è stata straordinariamente importante. Non a caso è stata dileggiata dai capi razzisti e da coloro che osannano i muri alzati di tutta Europa. Ma questa indicazione ha incontrato inerzie e ostilità anche all’interno della Chiesa. Anche il mondo cattolico è, dunque, attraversato da questa crisi di senso e di vuoto delle società contemporanee.
Radicalità nella società e responsabilità in politica
Il tema cogente è quello di provare a ricostruire legami, pratiche sociali, mutualismi. Per semplificare si potrebbe dire che occorrerebbero comportamenti determinati e coraggiosi nella società per sradicare convinzioni incancrenite o atteggiamenti narcisistici e cinici. Occorrerebbe investire personalmente e collettivamente nella costruzione di legami di tipo solidaristico e mutualistico. Ricostruire in forme moderne e contemporanee luoghi in cui far nascere assistenza, protezione sociale, scambio culturale ed emotivo, socialità e gratuità. Ma questi spazi dovrebbero avvalersi di una politica compatibile con la loro crescita. Una politica responsabile e di governo che si lascia contaminare da queste pratiche sociali.
Un tempo avremmo chiamato questi luoghi con un termine gramsciano “casematte”. Una politica capace di esprimere anche compromessi, sane mediazioni con l’intento di facilitare il diffondersi di queste esperienze di tipo comunitario. Radicali nella società e responsabili in politica. Solo così si può favorire un processo molecolare di trasformazione sociale e culturale.
Rifondare il popolo contro ogni tentazione populistica. Rifondare la politica contro ogni tentazione autoreferenziale o settaria. Non è più tempo, a sinistra, di posizioni moderate o rigoriste. Così si fa solo il gioco delle destre. Ma non è più tempo, a sinistra, di posizioni estremistiche e propagandistiche. Servono solo a riprodurre ceti politici mediocri e parassitari privi di qualsiasi relazione sociale. Spazio e tempo si sono stretti come una morsa.
Serve una nuova teoria e nuove idee credibili di governo della società. Ma serve un grande coraggio nel mettere in discussione unilateralmente sè stessi per incontrare l’altro/a e sostituire pazientemente la tela stracciata della vecchia società in un nuovo ordito in cui cominciano a prendere vita e senso parole come uguaglianza, libertà, fratellanza/sorellanza, solidarietà.
bilanciamoci online, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)
Il BES e la misurazione del benessere in Italia
Nel marzo del 2013, un giorno dopo la presentazione in pompa magna (a Roma presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, in presenza delle più alte cariche dello Stato) del primo rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), il Corriere della Sera sottotitolava la notizia relativa a tale evento con le seguenti parole “Istat: nel 2013 il Pil è già calato dell’1%”. Sarebbe come dare la notizia della vittoria di Donald Trump alle Presidenziali statunitensi sottolineando che Bernie Sanders è in rimonta nei sondaggi: inutile e fuori bersaglio.
Il fatto che uno dei principali quotidiani nazionali ponesse l’accento sull’andamento del Pil proprio mentre veniva presentato un progetto volto al superamento di simili misure mette in evidenza due questioni importanti. In aggiunta alle evidenti responsabilità dei media mainstream italiani, sulle cui competenza e affidabilità non ci soffermeremo oltre, è necessario riconoscere una seconda plausibile causa dell’infelice scelta, ovvero la scarsa fruibilità di BES e indicatori analoghi.
Il BES si presenta infatti come un sistema di 130 indicatori suddivisi in 12 macro aree, che puntano a catturare pienamente la complessità che caratterizza il concetto stesso di benessere. L’abbondanza di indicatori inclusi ogni anno nel rapporto BES è figlia del principio di inclusività secondo cui la definizione stessa di benessere deve risultare da un processo di deliberazione tra rappresentanti di istituzioni, società civile e parti sociali. Nonostante un simile approccio democratico abbia garantito al BES il supporto trasversale dei diversi attori in campo, ha al contempo pesato duramente sulla sua fruibilità e applicabilità dal punto di vista pratico.
Se è vero che il BES e simili misure, comunemente definite “dashboard”, vantano una grande universalità di contenuti – non esistono vincoli materiali al numero di indicatori inseriti –, allo stesso tempo tendono a generare confusione e smarrimento. Infatti, non è difficile immaginare che tanto il decisore quanto il cittadino affrontino la cascata di 130 indicatori con la perplessità di chi si domanda “e quindi?”.
Per quanto volgare e frutto di un dogmatismo anti-intellettuale che in questa epoca storica non necessita di ulteriori tutele, tale domanda è legittima e ci impone non tanto di mettere in dubbio la reale efficacia del BES, quanto di vagliare le sue possibili criticità. Al fine di valutare le effettive qualità dell’approccio dashboard e delle sue alternative, prima di tutto è necessario prendere in considerazione ognuna di esse separatamente.
Approcci alternativi al Pil
Nel corso degli ultimi 50 anni, ovvero dagli albori della ricerca di strumenti da sostituire agli approcci tradizionali di valutazione del benessere e del progresso socio-economico, quattro sono state le principali metodologie adottate o considerate su grande scala: le misure correttive di carattere monetario, le misure soggettive di benessere, gli indicatori compositi, e i dashboard di indicatori.
Le misure correttive di carattere monetario – utilizzando un neologismo potremmo definirle “post-Pil” – hanno rappresentato storicamente il primo passo verso il superamento del Pil: esse partono dal presupposto che la produzione e il consumo di beni e servizi di un determinato Paese riflettano in maniera molto approssimativa il suo benessere economico. Al fine di sopperire a questa imprecisione di fondo, gli indicatori post-Pil correggono il dato relativo al prodotto interno lordo attraverso la considerazione di parametri ritenuti importanti nella determinazione del benessere e che nonostante ciò rimangono al di fuori dalle statistiche conteggiate nel Pil.
I parametri in questione, il cui valore è prima quantificato in termini monetari e in seguito sottratto o aggiunto a quello del Pil, includono le esternalità dei sistemi diproduzione, tra cui l’inquinamento, le disuguaglianze e l’esaurimento delle risorse, ma anche elementi positivi come il valore dei servizi forniti in maniera informale, oppure a livello domestico. In buona sostanza gli indicatori post-Pil, pur impiegando una importante innovazione di contenuto, sono caratterizzati dal presupposto secondo cui il Pil non è di per sé uno strumento scorretto, bensì meramente incompleto, e si prefiggono di rimediare a tale carenza piuttosto che abolirlo del tutto.
Diametralmente opposto è il presupposto ideologico che sta all’origine delle misure soggettive di benessere. Questo tipo di approccio, le cui basi scientifiche si collocano nel campo della psicologia positiva, risponde alla volontà di andare oltre all’equivalenza “prosperità economica = benessere”, e racchiude gli sforzi messi in campo nel tentativo di quantificare il benessere come concetto definito e percepito dal punto di vista della persona. Le misure soggettive di benessere si costruiscono partendo dai risultati di studi basati su indagini di tipo sociologico-psicologico (principalmente questionari auto-valutativi), il cui obiettivo è quello di determinare il livello soddisfazione della persona per il tipo di vita che sta vivendo.
Un approccio alternativo che negli ultimi anni ha suscitato un crescente interesse in ambito istituzionale, sia a livello nazionale sia internazionale, è esattamente quello sopracitato dei dashboard di indicatori. La parola dashboard si può in questo caso tradurre come “cruscotto” o “quadro strumenti”, ovvero la parte dell’automobile sulla quale si trovano i segnalatori relativi a velocità, numero di giri del motore, stato del serbatoio di benzina, eccetera. Come si può intuire, questo tipo di indicatori ha precisamente il funzionamento di un quadro-strumenti: fornisce dati di varia natura (non omogeneizzati né aggregati) relativi alle diverse variabili che si reputano necessarie alla valutazione del benessere.
L’ultima categoria, quella degli indicatori compositi, rappresenta un passo in avanti – quantomeno potenziale – rispetto alla categoria dashboard. Pur mantenendo la concezione di benessere come fenomeno oggettivo determinato da una pluralità di aspetti, gli indicatori compositi sono così chiamati perché presuppongo l’aggregazione dei dati relativi alle singole variabili in un unico valore numerico. Negli indicatori compositi, una volta raccolti i dati relativi ad ogni variabile, questi vengono prima normalizzati – ovvero trasposti su una scala comune che permette di confrontare dimensioni altrimenti incomparabili (basti pensare all’aggregazione di dati relativi all’aspettativa di vita con dati relativi alla qualità dell’aria) – e in seguito accorpati tenendo in considerazione il “peso”, ovvero l’importanza relativa assegnata a ogni dimensione.
Misure alternative a confronto
All’inizio di questo articolo è stato presentato il problema del BES e delle misure dashboard rispetto alla difficoltà con cui essi vengono recepiti tanto dalle istituzioni e dai decisori quanto dai cittadini. Nonostante sia un elemento importante per la valutazione di un indicatore, la fruibilità non è l’unica caratteristica da tenere in considerazione: altre caratteristiche delle misure di benessere includono l’affidabilità (quanto attendibile è il dato prodotto), la rilevanza (quanto accuratamente si considera il benessere in quanto tale) e la democraticità (quanto condivisibili sono la metodologia e le variabili adottate).
In termini di democraticità nessuna delle misure alternative qui considerate presenta criticità degne di nota, in quanto ognuna di esse permette almeno in linea teorica di sviluppare un dibattito di tipo deliberativo volto a garantire l’espressione democratica degli interessi di ogni parte coinvolta.
Diverso è invece il quadro riguardante l’affidabilità e la rilevanza delle misure. In termini di affidabilità il Pil, che si basa su statistiche ufficiali e consolidate, è chiaramente superiore a tutti gli approcci alternativi, che arrancano notevolmente su questo fronte – prime fra tutti le misure soggettive di benessere. Nella valutazione di quest’ultime, infatti, è importante considerare il problema insito nel loro carattere soggettivo: domandare alle persone quanto siano soddisfatte della propria vita, o quale sia il livello di benessere che percepiscono, tende a generare risposte la cui attendibilità risente dell’influenza di elementi emotivi e cognitivi.
Basti pensare alla tendenza della persona ad adattarsi alla propria condizione e alla maniera in cui essa percepisce il cambiamento: immaginiamo un individuo abituato a vivere in condizioni di estrema indigenza e che improvvisamente vede il proprio reddito aumentare in misura tale da permettergli finalmente di consumare due pasti completi al giorno invece di uno. Ora immaginiamo un secondo individuo che, abituato a una vita agiata tra ville e auto di lusso, vede improvvisamente le proprie disponibilità economiche ridursi fino al punto di potersi permettere solamente di consumare due pasti completi al giorno.
Sebbene i due individui siano dal punto di vista oggettivo nella stessa condizione di benessere, è plausibile immaginare che il secondo tenderà a riportare una percezione di benessere nettamente inferiore rispetto al primo. Simili caratteristiche della natura umana, e nonostante i progressi metodologici che hanno portato a un netto miglioramento delle misure soggettive di benessere, fanno sì che quest’ultime non godano dell’attendibilità necessaria a gettare le basi di politiche pubbliche efficaci.
L’affidabilità è del resto un problema che riguarda non solo le misure soggettive, ma anche quelle oggettive, come ad esempio gli indicatori compositi. Sebbene dal punto di vista teorico questo tipo di indicatori non presenti criticità rilevanti, sotto il profilo metodologico gli indicatori compositi faticano a mantenersi su standard adeguati.
Infatti, pur guidate da metodi matematico-statistici sempre più affidabili, sia la procedura di normalizzazione dei dati sia quella di assegnazione dei pesi risentono dell’inevitabile arbitrarietà che guida la scelta dei parametri dai quali dipendono. Tuttavia, sebbene gli indicatori compositi non siano scevri da vincoli metodologici considerevoli, essi rappresentano una notevole opportunità di avanzamento nell’ambito della rilevanza. Infatti, come anche gli indicatori dashboard, grazie alla libertà di scegliere le variabili da tenere in considerazione, gli indicatori compositi permettono di adattarsi a qualsiasi definizione di benessere venga proposta, senza dipendere da precise espressioni culturali e ideologiche come nel caso delle misure soggettive e quelle post-Pil.
Pur equiparabili alle misure dashboard in termini di rilevanza, gli indicatori compositi sono notevolmente più immediatie fruibili. Diversamente da misure quali ad esempio il BES, gli indicatori compositi hanno il vantaggio di fornire una valutazione chiara attraverso un dato sintetico, che seppur non significativo in sé, attraverso la comparazione su scala temporale permette di valutare il progresso (o regresso) di una comunità su più dimensioni contemporaneamente. Sebbene altre misure di benessere siano equiparabili agli indicatori compositi in termini di fruibilità, pare evidente che essi abbiano un significativo vantaggio sul piano della rilevanza.
Lo stato attuale della ricerca nell’ambito della misurazione del benessere presenta dunque un quadro complesso all’interno del quale, pur in presenza di vantaggi comparati di una misura sull’altra, non esiste un candidato chiaramente superiore agli altri. Tutto ciò, purtroppo, contribuisce all’impasse della comunità “” di fronte alla scelta di un’alternativa chiara al Pil.
Al fine di superare le attuali difficoltà è necessario abbandonare la visione idealistica che ha prevalso fino a ora, in virtù di un approccio più pragmatico e orientato alla realizzazione di un obiettivo preciso. Se tale obiettivo, sul quale ormai da tempo sembra esserci consenso, è quello di superare il Pil e sostituirlo con una misura alternativa di benessere, allora la strategia vincente deve considerare le possibilità di successo di tale misura.
Questo implica la necessità di valutare non solo le caratteristiche puramente scientifiche di ogni indicatore, ma anche il suo impatto in termini politici. Per quanto il BES rimanga un importante esperimento di assoluta avanguardia, fino a quando si scommetterà su simili misure – scientificamente affidabili, ma di scarso impatto – l’effettivo superamento del male peggiore, ovvero il Pil, rimarrà con ogni probabilità un’utopia.
la Repubblica, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
LA “NUOVA” America di Donald Trump, per rispondere alla provocazione di Roberto Saviano, si presenta al mondo con i connotati del vecchio rinnovato a nuovo: un populismo nazionalista che non nasconde il desidero autoritario. Il menu offerto dalla Casa Bianca in questa prima settimana assomiglia all’indice di un libro di storia della prima metà del Novecento. E in questo senso l’America di Trump è insieme vecchia e insieme espressione rappresentativa di un capitalismo globale che vuole rivedere il suo rapporto con la democrazia e il cosmopolitismo dei diritti umani.
Di nuovo in questa America c’è la sepoltura senza esequie non solo dei Gloriosi Trenta ma anche dell’ideale che li aveva nutriti: politiche di eguali opportunità e ricerca di cooperazione internazionale. L’America di Trump è un rinnovato vecchio: protezionismo economico in età di globalizzazione finanziaria che, per irrobustire l’industria nazionale, farà prima di tutto gli interessi delle multinazionali imprenditrici, promettendo ai molti (che hanno votato Trump) che questo sarà positivo soprattutto per loro.
La stessa vetustà nel nuovo è rintracciabile nella propagandistica cancellazione per decreto di intenti della riforma sanitaria di Obama lasciando in sospeso il contenuto, ovvero come potrà rendere l’assicurazione altrettanto universale senza gravare sulla spesa pubblica. In questa cornice si inserisce l’obolo ai repubblicani: l’assalto rinnovato al diritto di interruzione di gravidanza. Vecchia e tradizionale è anche la politica antiambientalista che subito si afferma per decreto, dando via libera al passaggio dell’oleodotto anche nelle terre dove vivono gli Indiani d’America, e che rischiano l’inquinamento delle falde acquifere.
Vecchia politica di aggressione all’ambiente, dunque, cucinata insieme alla promessa di alleggerimento delle tasse agli imprenditori se promettono di investire in America. Una politica, faceva osservare un articolista del New York Times, che vende l’illusione ottocentesca di moralizzare il capitale, come se non sia realisticamente ovvio ( in primis a Trump, lui stesso un impresario che opera sul mercato globale) che esso segue la logica della convenienza, non della morale.
Ma il protezionismo rinnovato in grande stile si avvale dell’armamentario della filosofia liberista che Ronald Reagan portò alla Casa Bianca: anche Trump prova a giocare con la favola del trickle- down, vendendo l’illusione per cui abbassare le tasse ai ricchi equivarrà a indurli ad investire con un po’ di convenienza per tutti. E la guerra ideologica contro il Messico, al quale Trump vorrebbe imperialmente fare pagare il muro anti-immigrazione che lui vuole finire di costruire, rischia di diventare un boomerang perché molti dei beni abbordabili per i consumatori americani sono importati proprio dal Messico, mano d’opera compresa.
Ma di nuovo zecchino, qualche cosa c’è. Prima di tutto, la pratica in grande stile e alla luce del sole del conflitto di interessi, di fronte al quale la più vecchia democrazia del mondo non ha, proprio come l’Italia di Berlusconi, nemmeno uno straccio di impedimento normativo. In secondo luogo l’attacco, anche violento nel linguaggio, verso chi critica il presidente e, soprattutto, verso la stampa. Trump rovescia la tradizione jeffersoniana per cui un Paese può reggersi senza un governo ma non senza una stampa libera e rispettata.
La Casa Bianca inscena quotidianamente comunicati contro i giornalisti, e in aggiunta contro l’opinione democratica che gli ricorda che lui, il voto popolare non lo ha preso. Per questo, Trump sta facendo una crociata senza precedenti per contestare i “dati” veri nel nome di “dati alternativi” e quindi ricontare i voti. Il Presidente è in permanente campagna elettorale, come il populismo vuole.
Quale sarà l’effetto di questa vecchia-nuova politica populista e nazionalista fuori dagli Stati Uniti? Questa domanda mette in luce l’altra grande novità del governo Trump: la sua presidenza è un messaggio eloquente di sostegno ai populisti d’Europa, a partire dagli eredi della Brexit, ma soprattutto a quelli emergenti nel vecchio Continente che a Coblenza si sono riuniti in internazionale populista con un solo obiettivo: atterrare questa Unione per fare una nuova Europa, tanto populista, bianca e cristiana quanto l’America che Trump vuole.
La novità straordinaria che sta sotto i nostri occhi è che, oggi, il maggiore concorrente dell’Europa democratica viene proprio dall’America.La storia ha ricorsi mai identici perché avvengono in un nuovo contesto. Ritorna con l’elezione di Trump la reazione contro la democrazia tollerante e la voglia del nazionalismo geloso delle frontiere, e che però deve alzare muri fisici poiché mezzo secolo di libertà di movimento non si cancella per decreto.
Ritorna il senso di fallimento degli ordini liberali degli anni del primo dopoguerra, quando dalle disfunzioni dei partiti tradizionali emersero nuovi leader autoritari che si scagliarono contro l’umanitarismo democratico e la Lega delle Nazioni. Così Trump arringa contro l’Onu e dichiara che la tortura può essere buona strategia nella lotta contro l’Isis, ignorando che anche il suo Paese ha firmato una convenzione internazionale contro la tortura, che la pratica in silenzio e senza fanfara presumendone l’illegittimità.
La grande differenza è che nel Primo dopoguerra, in alternativa ai regimi totalitari che quei “nuovi” leader misero in scena, negli Stati Uniti si stava sperimentando una risposta democratica alla crisi economica, a guida Frank Delano Roosevelt. La nuova America è, al contrario, omologa alla voglia di populismo che c’è in Europa. E questa novità è una cattiva notizia per tutti.
L'obiettivo: «avviare da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione».
il manifesto, 28 gennaio 2017
Primo. La crisi perdura in modo feroce. La profezia di Krugman di una lunga stagnazione dopo gli anni del crollo si sta avverando. Non sarà lo zero virgola a cambiare le cose nei prossimi mesi e anche le locomotive del Pil mondiale arrancano. In Italia le cose vanno peggio.
A questi tassi di crescita, ci vorrà ancora una decina d’anni per tornare allo stesso livello del Pil del 2007. Nel frattempo il Censis ci dice che 10 milioni di italiani rinunciano a curarsi per mancanza di soldi, l’Istat che più di un giovane su tre non ha lavoro e che la povertà assoluta è tornata a crescere: 4milioni e 600mila italiani nel 2016.
Secondo. L’Europa. È diventata nel corso di questi anni non la soluzione, ma parte del problema. Uscire dall’euro risolverà i problemi? Fare l’euro senza politiche comuni è stato un grave errore. Ma è un errore anche pensare che senza euro sarebbe possibile tornare a fare politiche keynesiane.
Se si dovesse uscire dall’euro il segno sarà quello della destra nazionalista e non quello della sinistra radicale. I lavoratori hanno pagato un enorme prezzo per entrare nell’euro: non gliene facciamo pagare un altro per uscirne.
Serve un «aggiustamento radicale», dice Varoufakis: politiche comuni, democratizzazione della Bce, conferenza del debito, ecc. Non ci sono i rapporti di forza? Perché ci sono forse i rapporti di forza per uscire dall’euro senza il rischio di una catastrofe sociale?
Terzo. L’Italia ha sofferto più di altri questa crisi, ma l’ha affrontata con gli stessi strumenti del neoliberismo europeo ed atlantico: riduzione della spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, mercato. Prima con la tecnocrazia di Monti, poi con il populismo dall’alto di Renzi, le politiche seguite sono state le stesse: quelle neoliberiste, con risultati economici catastrofici, conseguenze sociali drammatiche, un sistema industriale devastato. Le imprese italiane sono state svendute al miglior offerente o (come la Fca/Fiat) se ne sono andate: il nostro paese è diventato una sorta di bad company del modello neoliberista globale.
Quarto. Il Pd – Renzi o non Renzi – ha alzato bandiera bianca di fronte alla destra. Ed è questo che rende impossibile alcuna coalizione o le primarie con un partito che ha fatto politiche neoliberiste. C’è una mutazione strutturale e irreversibile che ha trasformato il Pd, da «partito» di centro-sinistra a «partito della nazione», coacervo di comitati elettorali. La minoranza del Pd – che ha alternato afonia politica ed errori madornali – appare assolutamente ininfluente e residuale.
Quinto. Il centro-sinistra è morto. Dobbiamo invece costruire una sinistra alternativa, fondata sull’autonomia e non sull’opportunismo di alleanze spurie. Il congresso di Sinistra Italiana può dare un decisivo contributo, ma senza autosufficienza. Solo un campo aperto di una politica diffusa e plurale – fatto di partiti, movimenti, associazioni, liste civiche, territoriali, organizzazioni del lavoro, ecc. – può ricostruire una cultura politica che si sottrae ad un politicismo rifiutato da chi a sinistra non va più a votare. Si tratta poi di prepararsi alle imminenti elezioni. In coalizione con questo Pd non si può andare. E nemmeno con tre più liste diverse alla sinistra del Pd o con una lista frutto di accordi dell’ultimo minuto.
Serve da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione. E serve una leadership corale capace di federare e di interpretare – anche con la propria storia personale nelle lotte sociali e per i diritti- la volontà di unità e di cambiamento che ci ha consegnato il voto del 4 dicembre. A queste condizioni è possibile mantenere aperta la costruzione di una sinistra capace di dare voce alle domande di cambiamento del paese.