il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)
LAVORO SALUTE DIRITTI
LE MATRIOSKE IN NERO E FUCSIA ALL'ATTACCO.
di Geraldina Colotti
Matrioske in nero e fucsia mobilitate in tutta Italia per lo sciopero globale. Ieri, a Roma e nel Lazio, tre le iniziative di avvicinamento all’8 marzo, giornata dell’astensione globale da ogni attività produttiva e riproduttiva indetta dal movimento Non una di meno. Le matrioske si sono fatte sentire davanti all’ospedale Grassi di Ostia, al Policlinico di Tor Vergata e al Policlinico Umberto I. Tre momenti coordinati per evidenziare il nesso tra salute, lavoro, autodeterminazione femminile e formazione di genere. Con l’hashtag #saluteliberatutte.
«Acqualuce deve riaprire. Zingaretti, che aspetti?» hanno gridato le donne davanti al Grassi di Ostia. Un’iniziativa contro la violenza ostetrica. «Questa era l’unica casa di maternità pubblica, è stata unaugurata l’8 marzo del 2009, ma è rimasta chiusa – spiega al manifesto Mirta, di Freedom-Non una di meno -. Nonostante gli impegni presi dai presidenti della Regione Lazio, prima Polverini poi Zingaretti, non sono mai state assunte ostetriche. In tutta evidenza, il diritto alla salute è garantito dal diritto al lavoro. Abbiamo organizzato un piccolo corteo interno, ricevendo l’appoggio degli operatori. Le donne devono poter scegliere il parto in casa maternità, assistito da ostetriche. Le principali evidenze scientifiche dicono sia una scelta sicura che produce migliori risultati di salute per la donna e per la persona che nasce». Tantopiù che la sentenza Ternovsky della Corte europea dei diritti umani, del 2011, «impone agli Stati membri di garantire la libertà di scelta delle donne rispetto al luogo del parto».
Punti rivendicati dal Tavolo Salute e Autodeterminazione, uno degli 8 discussi dal movimento in due grosse assemblee nazionali. Il nesso salute-lavoro è emerso anche dall’iniziativa che si è svolta davanti al Policlinico di Tor Vergata, «con una duplice richiesta – spiega Simona -: l’apertura di un reparto di ginecologia e maternità, e l’assunzione di solo personale laico negli ospedali pubblici. Questo garantisce sia i diritti che il lavoro per tante persone formate che però sono disoccupate o precarizzate dalla sanità nazionale e regionale. La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne».
Al policlinico Umberto I, le donne della rete Io decido – lavoratrici e studentesse della Sapienza – hanno distribuito volantini e sono state ricevute dal Direttore generale. «È inconcepibile – spiega Ambra, di Io decido – che in una università come La Sapienza non vi siano sportelli antiviolenza e consultori autogestiti. E che a Roma vi sia una percentuale sempre più alta di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche. Al Policlinico Umberto I, la questione principale è il Repartino che funziona al minimo per mancanza di personale non obiettore. E conserva una parziale attività solo per la protesta degli scorsi anni agita dalla rete Io Decido».
Le studentesse hanno organizzato la settimana «Sui generis», lezioni universitarie autogestite che sono state riprese anche dai ragazzi, presenti ieri all’iniziativa con i cartelli per il pieno accesso alla Ru486 e all’aborto libero, sicuro e gratuito. Lezioni «su concetti base dello sciopero dall’attività riproduttiva, che non significa l’astensione dal sesso, ma dal lavoro di cura, da quello domestico».
Dalla gran Bretagna, Payday/ Refusing to Kill – una «rete internazionale multirazziale di uomini etero e queer, compresi i trans, che lavora con lo Sciopero globale delle donne» – ha invitato gli uomini ad appoggiare lo sciopero dell’8 marzo, le campagne e la resistenza delle donne. Intanto, i paesi che aderiscono, dai cinque continenti, sono già 48. Dalla Colombia, hanno comunicato la propria partecipazione anche le guerrigliere delle Farc, impegnate in un difficile processo di smobilitazione. Insieme in tutto il mondo – dicono – «per costruire alternative all’attuale crisi capitalistica coloniale, che approfondisce le violenze patriarcali evidenziati dagli tassi di femminicidi in America latina e nel mondo, dalle espulsioni forzate, dalle guerre, dalle morti per gli aborti insicuri, dalla subordinazione e discriminazione delle donne nella partecipazione politica».
Anche le donne curde hanno inviato un comunicato di adesione intitolato «Facciamo del Ventunesimo Secolo il Secolo della Liberazione delle Donne» e firmato Jin Jiyan Azadî – Donne Vita Libertà. «Il nostro secolo – scrivono – può diventare il secolo nel quale la liberazione delle donne si realizza. Il sistema mondiale patriarcale e capitalistico attraversa una profonda crisi strutturale. Dobbiamo sfruttare queste storiche opportunità». Scrivono le femministe dal Venezuela: «Di fronte all’attacco patriarcale e neoconservatore nella regione e nel mondo, il movimento delle donne indica un’alternativa globale per tutti i popoli».
Secondo dati del Censis e dell’Ocse, l’Italia è la peggio piazzata in Europa per superare le differenze di genere. Gli uomini italiani dedicano in media solo 100 minuti al giorno per aiutare le donne nei lavori domestici: appena un po’ di più dei turchi, dei portoghesi e dei messicani… Le donne percepiscono salari inferiori agli uomini sia nel settore privato (meno 19,6%) che nel pubblico (meno 3,7%). Nel 2016, l’Italia è risultata all’ultimo posto in Europa per occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni (prima la Svezia e ultima la Grecia). Per assolvere ai loro molteplici compiti, le donne accettano più degli uomini il part time involontario (60,3%, Italia terza dopo Grecia e Cipro).
Non una di meno ha come obiettivo quello di stendere un Piano femminista nazionale contro la violenza di genere che abbracci tutti temi che la sottendono ed eviti «ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale». Scioperiamo – dicono – «per un reddito di autodeterminazione, per resistere al ricatto della precarietà, per un salario minimo europeo, perché nessuna donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». Libere di scegliere, pronte a reagire. È la consegna per l’8 marzo alle 10 presso la Regione Lazio, a Garbatella. In piazza per la Salute, l’Autodeterminazione e il Lavoro. Poi, alle 17, tutte al corteo al Colosseo.
NON UNA DI MENO RINNOVA
LA NOSTRA RIVOLUZIONE
di Lea Melandri
«Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente
Nel corso del mio lungo impegno nel movimento delle donne ho visto molte manifestazioni di piazza, le ho attese a lungo, vi ho preso parte con entusiasmo e ho sperato ogni volta che potessero avere continuità. Di quella che sta per invadere le città, da noi come in altri paesi del mondo – Non Una di Meno – dirò che cosa ha di particolare rispetto alle precedenti, e perché la considero una ripresa della rivoluzione culturale, o di quel salto della coscienza storica, che è stato il femminismo degli anni Settanta.
Allora come oggi si è trattato di un movimento internazionale: una generazione giovane che compariva, “soggetto imprevisto” sulla scena pubblica, abbandonando la “questione femminile” – lo svantaggio delle donne, la loro cittadinanza incompiuta, ecc. – per un’analisi del rapporto di potere tra i sessi, le problematiche del corpo, sessualità,maternità, aborto, considerate “non politiche”, per interrogare l’ordine esistente nella sua complessità. Negli slogan “il personale è politico”, “modificazione di sé e del mondo”, c’era la sfida, la protesta estrema di una inedita cultura femminista che – come scrisse Rossana Rossanda – si poneva «come antagonista, negatrice della cultura altra»: «Non la completa, la mette in causa».
Le esigenze radicali, che allora si rivelarono impossibili per ostacoli esterni ed interni al femminismo stesso, ricompaiono oggi, come spesso accade, in una situazione mutata e nel protagonismo di una generazione che, a differenza della nostra, non è “contro” le donne che l’hanno preceduta e in qualche modo fatta crescere.
Nei report usciti dalle affollatissime assemblee bolognesi del 4/5 febbraio, il richiamo al femminismo, alle sue pratiche e all’autonomia con cui ha dato vita ad associazioni, consultori, centri antiviolenza, interventi formativi nelle scuole, è ricorrente. Sia per quanto riguarda i media e la necessità di un «osservatorio indipendente», sia in riferimento ai consultori autogestiti nati nella prima metà degli anni Settanta per iniziativa dei gruppi di Medicina della donne e poi istituzionalizzati nel 1975. Con il timore che la stessa sorte possa toccare ai centri antiviolenza: «…i consultori devono tornare a essere aperti e accoglienti, liberi e gratuiti, diffusi nel territorio….Vogliamo vivere i consultori come luoghi di aggregazione e centri culturali (…) capaci di accogliere e riconoscere le molteplici identità di genere che un individuo può sperimentare …».
Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente.
Benché partito sull’onda di una rivoluzione che avrebbe dovuto investire il patriarcato e il capitalismo, liberare dai modelli interiorizzati del maschile e del femminile, sovvertire la divisione sessuale del lavoro, la politica separata, nel momento della sua diffusione il femminismo si è fatto quasi fatalmente, data l’ampiezza dei suoi temi, frammentario. Le manifestazioni che si sono succedute nel tempo hanno sempre avuto un tema specifico -la legge 194, la violenza domestica, ecc.
Lo Sciopero internazionale delle donne dell’8 marzo 2017 in Italia sembra averne ricomposto tutte le anime, in una visione di insieme che va dall’autodeterminazione sessuale e riproduttiva alla precarietà del lavoro, dal partire da sé come pratica di presa di coscienza ai problemi riguardanti le migrazioni, dal femminicidio alla violenza maschile vista come “fenomeno culturale”, dal sessismo al razzismo, all’omofobia. La ricerca dei nessi tra sessualità e politica, tra patriarcato e capitalismo, che già compariva nei volantini degli anni Settanta, ma che era sembrata a lungo come l’Araba fenice, negli “8 punti” con cui da Bologna è partita la decisione di riscrivere il “Patto straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, ha trovato per la prima volta concretezza e radicalità nel tenere insieme obiettivi e lavoro sulle vite singole.
La violenza maschile nelle sue forme più selvagge e criminali si può dire che ha fatto da catalizzatore nel collegare i molteplici aspetti di un dominio che attraversa le vicende più intime così come i poteri e i linguaggi delle istituzioni pubbliche, e che paradossalmente proprio negli interni delle case, dove si intrecciano perversamente amore e violenza, rivela la sua «normalità».
Se le donne sono state per secoli un corpo a disposizione di altri, l’8 marzo – come si legge nel documento Ni Una Menos delle donne argentine, da cui è partito il Paro Internacional De Mujeres, sarà il primo giorno della loro «nuova vita» e il 2017 «il tempo della nostra rivoluzione».
SCIOPERO DELLE DONNE
( E NOI MASCHI?)
di Alberto Leiss
«In una parola. Possiamo aderire in molti modi: incrociando le braccia per pura solidarietà, occupandoci dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Altrimenti impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a identificarci».
Domani è l’8 marzo e quest’anno c’è una novità. Molte donne in tutto il mondo pronunciano una parola che fa parte della storia del movimento operaio: sciopero! In Italia firma la dichiarazione di sciopero generale il movimento Non una di Meno, che – formato da soggetti diversi, dalla rete dei centri antiviolenza Dire, alla storica Unione donne in Italia (Udi) alla galassia romana Io decido – ha già dato vita alla grande manifestazione romana del 26 novembre scorso e a due assemblee nazionali a Roma e a Bologna.
Questo giornale ha già raccontato le caratteristiche e i contenuti di uno sciopero che si propone di coinvolgere sia il lavoro produttivo, sia il lavoro di cura che soprattutto le donne continuano a fare.
La reazione contro la violenza maschile si carica di protesta contro un intero sistema economico e sociale che rende in modo violento precaria la vita soprattutto delle (e dei) giovani, e che non elimina ancora troppi svantaggi per le donne, nonostante la forza e la libertà conquistata e ereditata dalla rivoluzione femminista.
La scelta di rilanciare una forma di lotta che rievoca apertamente le origini dei movimenti antagonisti di un altro tempo – qualche giornale ha ricordato come una enorme e pacifica manifestazione di donne russe avesse aperto le giornate della Rivoluzione sovietica (poi rovinata dai maschi) un secolo fa – secondo me non va confusa con un eccesso di nostalgia o di ideologia. C’è qualcosa di profondamente vero nell’idea che si debba in qualche modo ricominciare da capo per conquistare nuove libertà, per reagire a nuove sopraffazioni, e che un movimento mosso da queste ambizioni, sentimenti, desideri, per vincere debba assumere una dimensione globale.
In un momento in cui sembra prevalere ovunque lo spirito di scissione e di contrapposizione, anche intorno allo sciopero delle donne non sono mancate le polemiche. Ma è davvero possibile – dice una “madre di famiglia” – “astenersi”, sia pure per una sola giornata (ma quanto sono lunghe in certe situazioni 24 ore!) dall’accudire un bambino piccolo o un anziano malato? E che senso ha – dice un altro (sindacalista) – rinunciare a ore di stipendio per obiettivi un po’ vaghi come combattere la violenza maschile? E perché Non una di Meno – scrive su facebook la mia amica Isoke – non ha affrontato con la forza necessaria la violenza della tratta delle straniere costrette a prostituirsi?
Opinioni e dubbi forse fondati. Ma in me prevale l’aspettativa: domani scatterà una scintilla capace di illuminare un’altra scena per quella cosa che chiamiamo politica? E saranno le donne a accendere questa luce?
Lo sciopero – si legge nel blog di Non una di Meno – è “sciopero dei generi” e “sciopero dai generi”. Non solo una “mobilitazione di massa”, ma anche una “mobilitazione” per una trasformazione personale. Un invito a riconoscere e scartare gli stereotipi che una cultura millenaria ci cuce addosso.
Noi maschi possiamo aderire in molti modi. Incrociamo le braccia per pura solidarietà, un sentimento che andrebbe riscoperto. Occupiamoci – per un giorno – dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Se non possiamo fare questo, impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a metterci nei panni di quella ragazza che si è laureata a pieni voti, ha fatto il master, ha già scritto pagine geniali, o prodotto filmati esteticamente perfetti, ma trascorre i suoi giorni obbligata a dare consigli stupidi ai clienti di un call-center. E magari alla sera viene maltrattata dal fidanzato.
Non verrebbe in mente anche a noi di proclamare uno sciopero generale?
. MicroMega online, 6 marzo 2017 (c.m.c.)
Lo avevano detto che la manifestazione del 26 novembre scorso contro la violenza maschile sulle donne non sarebbe stata che una tappa di un percorso più ampio e ambizioso. E le donne del movimento “Non una di meno” sono di parola: quella promessa trova infatti oggi conferma e nuovo slancio con lo sciopero generale indetto per l’8 marzo sotto lo slogan: “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!”.
«Constatiamo ogni giorno quanto la violenza sia fenomeno strutturale delle nostre società, strumento di controllo delle nostre vite e quanto condizioni ogni ambito della nostra esistenza: in famiglia, al lavoro, a scuola, negli ospedali, in tribunale, sui giornali, per la strada… per questo – spiegano le promotrici – il prossimo 8 marzo sarà uno sciopero in cui riaffermare la nostra forza a partire dalla nostra sottrazione: una giornata senza di noi».
Accogliendo l’invito a organizzare uno sciopero internazionale lanciato dalle donne argentine, la rete “Non una di meno” ha fatto quindi appello a tutti i sindacati per una giornata di mobilitazione nazionale. Cgil, Fiom, Cisl e Uil non hanno accolto la richiesta. Ma lo hanno fatto alcuni sindacati di base che hanno dunque indetto uno sciopero generale di 24 ore (Usi, Usb, Cobas, Slai Cobas per il sindacato di classe, Confederazione dei comitati di base, Sial Cobas, Usi-ait, Sindacato generale di base; la Flc-Cgil - lavoratori settore della scuola pubblica e privata - ha indetto 8 ore di sciopero).
La copertura sindacale dunque c’è: in ogni luogo di lavoro, a prescindere che si appartenga o meno a un sindacato, si possono incrociare le braccia come forma di protesta contro la violenza sulle donne in tutte le sue forme.
Otto i punti intorno ai quali il movimento “Non una di meno” – composto dalla Rete IoDecido, da D.i.Re-Donne in rete contro la violenza e dall’Unione donne in Italia – chiama alla mobilitazione:
contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali («i centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere»);
per la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne;
per l’aborto libero, sicuro e gratuito e l’abolizione dell’obiezione di coscienza;
per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà;
contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà dei migranti e delle migranti;
affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università («per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere»);
per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti («perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività»);
contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista e che discrimina lesbiche, gay e trans.
Una piattaforma di rivendicazioni che costituisce un assaggio di ciò che sarà il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne su cui il movimento sta lavorando già da qualche mese.
Tantissime le iniziative previste per l’8 marzo: l’elenco completo e in continuo aggiornamento si trova sul sito nonunadimeno.wordpress.com. A Roma, tra le altre cose, alle 17 è prevista una manifestazione con partenza dal Colosseo.
Ma le braccia, quel giorno, non verranno incrociate solo in Italia: sono 40 i paesi che, sull’onda delle proteste che si sono dispiegate nel mondo intero nell’arco del 2016, hanno accolto l’invito delle donne argentine.
In prima linea gli Stati Uniti, dove lo sciopero – a solo un mese e mezzo dal corteo anti-Trump che il 21 gennaio scorso ha visto sfilare per le strade della capitale mezzo milione di donne – ha incassato il sostegno di un ampio ventaglio di realtà (femministe, afroamericane, lgbt eccetera) nonché di personalità del calibro di Angela Davis e Nancy Fraser.
E non è un caso che sia in primo luogo alle donne statunitensi che, a pochi giorni dallo sciopero, abbiano pensato di rivolgersi le donne polacche, le quali per prime hanno sperimentato, con il Black Monday dell’ottobre scorso, la forza di uno sciopero globale delle donne. La loro lettera (di cui in calce trovate una nostra traduzione) è il grido di allarme di chi già da più di un anno sperimenta sulla propria pelle scelte politiche scellerate. Ma è anche un messaggio di speranza che dice a tutte le donne del mondo: le vostre paure sono fondate, ma non siete sole.
Alle donne d’America e di tutto il mondo: un avvertimento
e un grido di battaglia dalla Polonia
Noi donne polacche abbiamo assistito con una nauseante sensazione di familiarità all’emergere della più grande minaccia alla democrazia americana, nella persona di Donald Trump. Mentre ci avviciniamo all’8 marzo, giorno del nostro sciopero internazionale contro il ridimensionamento dei diritti delle donne, vogliamo condividere con voi qual è la posta in gioco, dalla prospettiva di un paese in cui un governo Alt-Right [1] è al potere da più di un anno. Care donne americane e di tutto il mondo le vostre paure sono fondate. Ma non siete sole.
L’8 marzo sarà il nostro secondo momento di protesta contro la tossica relazione nella quale il nostro attuale governo sta cercando di forzare le donne polacche. Il nostro primo sciopero è stato il Black Monday, nell’ottobre dello scorso anno, quando abbiamo inondato le strade con i nostri ombrelli neri in difesa dei nostri diritti riproduttivi. Proprio come Donald Trump, che nel suo primo giorno da presidente ha imposto il “bavaglio globale” alle ong che sostengono i diritti riproduttivi delle donne, il governo polacco ha iniziato il suo mandato con il tentativo di criminalizzare quelle poche eccezioni alla nostra già restrittiva legge anti-aborto. Non potevamo permettere e non abbiamo permesso che questa proposta passasse.
Da allora abbiamo visto che la strategia di un governo che inizia attaccando i diritti delle donne prosegue inserendo nazionalismo e demonizzazione dei migranti nei libri di storia degli studenti. Abbiamo visto che una presidenza che inizia facendo passare le redini della vita delle donne nelle mani delle autorità prosegue rimuovendo le tutele all’ambiente in pericolo.
Abbiamo anche sperimentato che quando un uomo eletto per rappresentare un’intera nazione volta le spalle alle donne, velocemente fa lo stesso con i media e i tribunali. Quando un bullo detiene un grande potere politico, le conseguenze sono quelle che vediamo in Polonia oggi: una corte costituzionale storpia, un sistema educativo immerso nel caos, un paese soffocato dallo smog, dove foreste e alberi urbani vengono sconsideratamente abbattuti, dove i media indipendenti sono indeboliti da sanzioni economiche e i mezzi di comunicazione pubblici sono trasformati in una macchina di propaganda del governo. Quello che era cominciato con una pugnalata ai nostri diritti riproduttivi è andato avanti attaccando molto di ciò cui, in quanto società moderna, avevamo più a cuore. Questi cambiamenti in Polonia sono avvenuti molto velocemente. Potrebbe accadere lo stesso negli Usa.
Per la verità, potrebbe accadere lo stesso in molte parti del mondo. Ci rendiamo conto che le politiche occidentali hanno oltrepassato il limite di tolleranza sociale rispetto alla disparità di reddito e alla corruzione. Cambiamenti sono inevitabili ed è certo che tutti ci troveremo di fronte un turbolento periodo di trasformazione. Ma non dobbiamo permettere che il fascismo e altri errori del passato siano presentati come soluzioni alle sfide di oggi. È nostra incrollabile convinzione che i diritti delle donne sono diritti umani. E un futuro costruito sulla democrazia, che implica il rispetto di tutti i diritti umani, è l’unico al quale prenderemo parte.
Ventotto anni fa, con Solidarność abbiamo portato la democrazia in Polonia dopo decenni di occupazione comunista. L’8 marzo, un giorno senza donne, ispirato al nostro Black Monday, sciopereremo di nuovo in solidarietà internazionale per difendere questi valori.
Sciopereremo con voi in quanto donne del 99%. In quanto madri, vedove, sorelle, figlie e leader della rivoluzione per un futuro inclusivo e sostenibile per tutti: quello in cui la notevole connettività della tecnologia può diffondere saggezza e cooperazione più velocemente e più lontano di false verità e odio. Un mondo in cui il valore degli esseri umani è basato su ciò che conoscono, su ciò che sanno fare e sul contributo che possono dare, non sul loro genere, sul loro luogo di nascita o sul loro dio. Una società in cui la mano invisibile dei valori democratici garantisce l’eguaglianza di tutti. Scioperiamo contro l’oppressione, nel nome di un nuovo progresso, dei diritti umani faticosamente conquistati da coraggiosi uomini e donne del passato. Ci impegniamo a prendere parte attiva nella creazione di un nuovo equilibrio, che emergerà dalle crisi odierne su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Per far capire l’impatto del nostro incontro globale, proponiamo di contarci. Scopriamo e lasciamo che gli altri scoprano quanto grande è la forza del nostro movimento. Contiamoci! Indipendentemente se abitiamo in una grande città o in un piccolo villaggio, se viviamo in Europa, America, Africa o Asia, se saremo in grado di partecipare a qualche dimostrazione pubblica o meno. Se condividi l’idea di un nuovo futuro interconnesso basato sull’uguaglianza democratica per tutti, allora per favore prendi il tuo numero.
Al link www.CountMeIn.pl ti sarà dato un numero di identificazione unico nel movimento globale delle donne per la democrazia. Usalo! Mostralo l’8 marzo e ogni volta che hai bisogno di sfidare un’ingiustizia, di denunciare un abuso, di elogiare una collaborazione, o di chiamare aiuto. Mostralo online e ovunque tu possa farlo in sicurezza. Usalo per costruire sostegno per un futuro di cui tutti possiamo essere fieri. E prendi il tuo numero così da non sentirti sola. Perché non lo sei.
Firme
Kongres Kobiet – Poland's Congress of Women (www.kongreskobiet.pl) International Women’s Strike – Poland (www.parodemujeres.com)
Lilja Ólafsdóttir e Gudrún Hallgrímsdóttir, tra le organizzatrici dello sciopero delle donne islandese del 1975, entrambe fanno parte del movimento femminista Redstockings Guðrún Jónsdóttir, una partecipante allo sciopero islandese del 1975, attualmente attivista di Stigamot, organizzazione che lotta contro gli abusi sessuali sulle donne
Wysokie Obcasy – settimanale polacco che si occupa di questioni relative alle donne (www.wysokieobcasy.pl ) Gazeta Wyborcza – maggiore quotidiano polacco liberale (www.wyborcza.pl)
NOTE
[1] Abbreviazione di Alternative Right, termine coniato dal suprematista bianco Richard Bertrand Spencer per indicare un insieme di idee di estrema destra incentrate sull’"identità bianca" e sulla conservazione della “civiltà occidentale”. Uno dei megafoni mediatici dell’Alt-Right è il sito Breitbart News di cui il neo capo stratega della Casa bianca, Steve Bannon, è stato direttore esecutivo.
Dal divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale alla sua regolarizzazione.
La Nuova Venezia, 6 marzo 2017 (m.p.r.)
I recenti sei arresti in Puglia per la morte di una bracciante, sollevano il problema del ruolo delle agenzie interinali, che hanno avuto sorprendentemente Marghera come incubatore. Vediamo perché. Sino alla liberalizzazione degli anni Novanta, in Italia il mercato del lavoro era sottoposto al regime del sistema di collocamento pubblico obbligatorio gestito da uffici pubblici, regolato dalla legge 264 del 1949. La successiva legge 1369 del 1960 vietava la mediazione e l’interposizione nei rapporti di lavoro; l’inosservanza di questa norma comportava l’applicazione di pesanti sanzioni penali. Il divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale aveva la giusta finalità di tutelare i lavoratori.
Guardando il triste crepuscolo del PD fuori dal crepitìo degli eventi quotidiani si riesce forse a capire che cosa si è sbagliato e da dove si può ripartire.
il manifesto, 5 marzo 2017
La crisi che sta attraversando il Pd riguarda e interroga tutte le forze progressiste: non tanto per continuare a coltivare l’illusione che l’ennesima diaspora di gruppi dirigenti sia di per sé sufficiente a garantire un riscatto dei subalterni. Ma perché è lo specchio nazionale della più generale crisi istituzionale che sta attraversando tutto l’occidente.
Il Pd è fallito perché è fallita la cornice dentro la quale era stato costruito, quella della governance neoliberale. La costituzionalizzazione cioè dell’idea che all’interno delle società, finalmente pacificate in seguito alla caduta del muro di Berlino, non ci siano conflitti, e quindi interessi da elevare e altri da reprimere, ma “problemi” a cui dare risposte “tecniche”. Risposte magari da trovare anche attingendo dal calderone radicale, purché rimangano all’interno del perimetro di ciò che da noi si attendono “i mercati”. Il “centrismo radicale”, insomma, che può prosperare sia in regime di grande coalizione (Germania) che bipolare (paesi anglosassoni) che tecnico (l’Italia ha sperimentato tutte e tre le versioni), ma che sottende comunque l’esistenza di un meta-partito unico delle classi dominanti.
Il peccato originale del Pd non è stato quello di essere il prodotto di una fusione a freddo tra culture differenti (e già allora fortemente diluite), ma di essere nato fuori tempo massimo. In un’epoca, cioè, nella quale ancora si pensava che la “globalizzazione reale” era – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui il partito guardava come al perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto.
Il Pd, dunque, si presentò ai cittadini come un partito post-ideologico, post-nazionale e post-classista, che avrebbe efficacemente guidato l’inserimento dell’Italia nel villaggio globale, assicurando al tempo stesso per le classi lavoratrici il mantenimento di livelli di welfare accettabili per resistere alla crescente precarizzazione dei loro impieghi. Lo stesso europeismo era considerato non tanto un progetto volto alla creazione di un’entità politica continentale con una forte identità sociale (e autonoma dagli interessi geopolitici statunitensi), ma come una via privilegiata per inserire il paese nella rete delle interdipendenze globali, rompendo le rigidità che rendevano difficile questa operazione.
Finché ha avuto senso l’antiberlusconismo militante, che assicurava un’identità progressista, e, d’altra parte, si manteneva un clima sociale accettabile, il progetto pareva andare incontro ad un futuro promettente. E’ stata la crisi del 2011 a far saltare il banco. La segreteria di Bersani non seppe (o non volle) vedere che la crisi degli spread, che lo Stato non poteva arginare – privo com’era di una Banca Centrale che sostenesse il debito pubblico -, rappresentava una grave torsione nel funzionamento della nostra democrazia; e che, a causa delle condizioni imposte dalla Bce e dal governo tedesco (Fiscal Compact, pareggio di bilancio), i poteri pubblici non potevano realizzare le politiche anticicliche necessarie a tenere a galla il paese. Mentre un’esigua élite nazionale si avvantaggiava dello stato d’emergenza per imporre drastiche misure di svalorizzazione del lavoro come via più rapida e più comoda alla ripresa dei profitti.
Insomma, la tanto decantata «Europa» si era trasformata in una gabbia le cui imposizioni peggioravano i conti pubblici, i livelli occupazionali e la vita dei cittadini in generale. Ormai abbandonata, con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, la retorica sugli Stati Uniti d’Europa e l’unione fiscale continentale che avrebbero reso sostenibile l’adozione della moneta unica, il Pd si è limitato a rafforzare la sua immagine di “partito della responsabilità” di fronte ad uno stato permanente di emergenza economica e di avanzata dei “populisti”. Un partito che, senza mai precisare in che maniera e con quali strumenti, avrebbe lottato per riorientare la politica economica della zona euro verso l’agognata “crescita”.
Naturalmente, dato il rigido controllo imposto dall’ex area del marco sulla costituzione gerarchica europea, Renzi non ha potuto ottenere niente più di un lieve margine negli obiettivi di rientro dal deficit, largamente insufficienti per far uscire l’Italia dalla deflazione e la stagnazione, ma pagati utilizzando la svalutazione del lavoro come merce di scambio. Il Pd non è così in condizione di tornare ad assicurarsi un consenso maggioritario nel perimetro del suo vecchio elettorato, che poco a poco prende coscienza che gli appelli all’Europa della crescita e del lavoro si stanno convertendo in un programma buono per le calende greche, i giorni cioè destinati a non arrivare mai.
La crisi generalizzata della governance neoliberale, e di quelle sinistre moderate che ne erano state i più coerenti alfieri, non apre tuttavia automaticamente le porte ai progetti di emancipazione popolare. Una nuova destra aggressiva ed esclusiva affila le armi e pesca nel consenso e nelle paure dei subalterni, un tempo rappresentati dal movimento operaio organizzato.
Il fallimento del Pd sta lì a dimostrare che non serve abbarbicarsi attorno alle certezze di ieri, se non a farsi travolgere dal loro tramonto. Nell’interstizio che si apre tra il vecchio che muore ed il nuovo che non sa nascere tocca inventare la democrazia di domani, prima che appaiano i mostri.
». Sbilanciamoci info, 2 marzo 2017 (c.m.c.)
La crisi del processo di integrazione europeo ha molte sfaccettature e si è aggravata negli ultimi anni. Il sintomo più visibile è stato il referendum britannico sull’uscita dalla Ue, ma questo non è certo l’unico indicatore del diffondersi delle tendenze disgregatrici e delle crescenti contestazioni alle politiche europee.
Brexit
La disintegrazione dell’Unione è stata introdotta esplicitamente nell’agenda politica dal referendum britannico. Si può inquadrare il risultato del referendum nel contesto globale delle rivolte contro le élite politiche. La crescita delle diseguaglianze, l’insicurezza economica, la stagnazione o diminuzione del reddito subita da larghi strati di popolazione, insieme alla riduzione dei servizi pubblici, sono i fattori alla base di questo malcontento, le cui espressioni politiche variano enormemente.
In Gran Bretagna, come in molte altre nazioni, gli immigrati sono diventati i capri espiatori, accusati di aver causato problemi economici, quando in realtà la mobilità dei capitali, non del lavoro, è stata una delle principali cause della riduzione degli standard di vita medi e dell’erosione dei diritti dei lavoratori e della protezione sociale. In Gran Bretagna un altro capro espiatorio è stato trovato nei più bisognosi e sia i conservatori che i laburisti, prima del cambio nella leadership del partito, hanno invocato un’ulteriore riduzione dei già inadeguati livelli di protezione sociale.
Durante la coalizione tra conservatori e liberal-democratici, nel 2010-2015, i demagoghi dell’Independence Party britannico (Ukip), sono riusciti a indirizzare il malcontento popolare contro la Ue e a fomentare un nazionalismo xenofobo, che individua i nemici nei lavoratori provenienti dagli altri Paesi dell’Unione. La crescente forza dell’Ukip ha allarmato i partiti tradizionali. Ciò che ne è seguito è stato, almeno in parte, guidato dal caso.
Per cercare di fermare l’avanzata politica dell’Ukip, il primo ministro britannico David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, in un momento nel quale la coalizione al governo sembrava destinata a continuare a governare il Paese; poiché i liberal-democratici non avrebbero mai potuto condividere la decisione di tenere il referendum, i conservatori erano sicuri che tale promessa non avrebbe potuto realizzarsi nella pratica. Tuttavia, l’inaspettata vittoria di una maggioranza conservatrice alle elezioni ha costretto Cameron a rispettare l’impegno preso.
Il trionfo della campagna del leave (uscire dalla Ue) ha coinvolto due grandi correnti politiche: da una parte il nazionalismo xenofobo promosso dall’Ukip; dall’altra la corrente ultra-liberale interna ai conservatori. Michael Gove e John Redwood, due conservatori membri del parlamento britannico, hanno visto l’Europa come un ostacolo al capitalismo globale deregolamentato di cui sono promotori. Nigel Lawson, ministro dell’economia britannico negli anni ottanta, sostenitore di questa corrente scrisse “la Brexit completerà la rivoluzione economica iniziata da Margaret Thatcher”.
Queste due correnti sono potenzialmente in conflitto, poiché la radicale deregolamentazione proposta dai conservatori porterebbe, con molta probabilità, ad accrescere la precarietà economica della maggior parte della popolazione. Sino a oggi tale conflitto è, tuttavia, rimasto sopito. D’altra parte, però, è già scoppiato un aperto conflitto all’interno del governo post-Brexit di Theresa May. Alcuni ministri, influenzati da potenti gruppi di interesse – quelli finanziari innanzitutto – sono preoccupati per le possibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico e dai rischi di instabilità economica, che hanno portato a un forte deprezzamento della sterlina. Essi stanno adoperandosi per una ligth-Brexit, una interpretazione minimalista dell’uscita dall’Unione, che preservi il più possibile lo status quo. Altri, invece, sono determinati nel dare seguito alle richieste populiste di controlli sull’immigrazione, anche a costo di distruggere i rapporti con la Ue. Non è ancora chiaro quale delle due strade verrà seguita.
Le posizioni e le argomentazioni del movimento laburista sono state quasi ininfluenti nel dibattito referendario. La posizione accettata quasi unanimemente dal partito è stata che l’Europa, per come è adesso, non fa gli interessi dei lavoratori, ma un’uscita dall’Unione associata a un programma politico xenofobo e a un’agenda che punta alla deregolamentazione non può certo migliorare la situazione. Nonostante questa posizione fosse più che ragionevole, la debolezza del partito laburista, unita alla posizione pro-Brexit della stampa di destra, ha fatto sì che essa risultasse marginale nel dibattito.
La Brexit ha reso concreta la minaccia che forze centrifughe possano erodere, o forse addirittura distruggere, il progetto europeo. In particolare, il trionfo, con la Brexit, di due portati della destra radicale – liberismo economico estremo e nazionalismo xenofobo – rafforzano le tendenze disgregatrici in tutta Europa. Il fallimento dei leader europei nel rispondere al malessere sociale, che trova invece una distorta espressione in queste forze distruttrici, aumenta certamente le minacce per l’Unione. La passività con cui essa sta affrontando l’avanzata delle forze nazionaliste in tutta Europa è in evidentemente contrasto con la durezza e determinazione con le quali è stata schiacciata la proposta, razionale e pro-europea, di superamento dell’austerità in Grecia.
La divisione Nord e Sud nell’area euro
Non è stato solo il primo ministro britannico Cameron a spargere il seme della discordia in Europa. A suo modo, il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto lo stesso quando, a luglio dello scorso anno, confrontandosi con il governo greco, non ha dato alternative se non accettare l’austerità e le riforme strutturali richieste o lasciare l’area euro. Schäuble, che già nel 1994 aveva proposto un’Europa caratterizzata da un nucleo centrale, ha chiarito che l’appartenenza all’Unione dei Paesi (quelli periferici!) è reversibile, se questi non si adeguano ai cambiamenti strutturali e all’austerità fiscale e salariale.
Il governo guidato da Syriza non era pronto ad affrontare l’uscita dall’euro e, sotto fortissima pressione, ha accettato le condizioni imposte dagli altri Stati membri dell’area euro, guidati dalla Germania. A causa della continua contrazione della domanda interna, nel 2015 il Pil greco è diminuito ancora dello 0.2%, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto attorno al 25%. Se le politiche restrittive hanno abbassato il deficit della bilancia commerciale, senza peraltro affrontarne le cause, hanno però peggiorato i problemi legati al debito greco. Negli ultimi mesi, il conflitto tra Europa e Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità del debito pubblico greco e la necessità di un suo taglio si è intensificato. I Paesi dell’Europa centrale, tra cui la Germania, sono particolarmente riluttanti all’idea di tagliare il debito greco, nonostante i loro governi siano pienamente coscienti del fatto che ciò sarà inevitabile.
I programmi di adeguamento strutturale sostenuti dalla Commissione Europea e dai governi del nucleo centrale europeo, non hanno affrontato la profonda divisione che corre tra Nord e Sud, né il problema della debolezza delle strutture produttive e della deindustrializzazione nella periferia Ue. Il deprezzamento dell’euro, unito al trasferimento del turismo di massa da Egitto, Turchia e Tunisia ai Paesi dell’ovest del Mediterraneo, ha alleviato la situazione di Spagna e Portogallo.
Analogamente, la riduzione del grado di restrittività delle politiche macro deciso sia dal governo provvisorio della destra in Spagna, sia dal neo eletto governo progressista portoghese, con la sua aperta politica anti austerità, hanno contribuito a una qualche, lieve ripresa economica. Nonostante i due governi non abbiano rispettato le regole di bilancio imposte dalla Commissione Europea, in autunno 2016 non sono stati sanzionati. Anche il governo tedesco ha sostenuto questa decisione, il che ha lasciato margine di manovra al partito popolare spagnolo, importante alleato del tedesco Cdu/Csu, in uno scenario politico particolarmente incerto. Tuttavia la flessibilità concessa non deve essere interpretata come un cambio di direzione generale.
Sebbene i Paesi del nord Europa godano di un tasso di disoccupazione più basso rispetto a quelli del sud, sono anche loro esposti ai pericoli causati dagli squilibri presenti nell’economia europea. Ad esempio, essi sono, data la loro apertura economica e commerciale, particolarmente vulnerabili all’eventualità di una recessione indotta dalla Brexit in Gran Bretagna e nei maggiori Paesi europei. La crescita delle esportazioni (misurate in valore per includere il petrolio norvegese), dopo una lieve ripresa successiva alla crisi, è stata bassa in tutti i Paesi del nord (con l’eccezione dell’Islanda).
La situazione in Svezia e Norvegia è stata in qualche modo alleggerita grazie alla variabilità del tasso di cambio delle rispettive monete, mentre la Finlandia, facendo parte anche dell’Unione Monetaria, non ha potuto far fronte con il deprezzamento della moneta agli specifici shock che l’hanno colpita – i problemi della Nokia e le sanzioni alla Russia in particolare –, la qual cosa sarebbe stata particolarmente necessaria per sostenere l’industria del legno e dell’acciaio.
Analogamente, in Danimarca l’ancoraggio della moneta all’euro ha contribuito alla stagnazione delle esportazioni, sin dal 2010. Sebbene il flusso dei migranti abbia causato una crescita della spesa pubblica in Svezia, tale politica attiva discrezionale non è stata usata per aumentare l’occupazione; in Finlandia, invece, la crisi è stata ulteriormente aggravata dalle politiche di correzione fiscale mirate a soddisfare le richieste europee. In generale, l’ortodossia economica non ha permesso politiche di bilancio attive e solo la politica monetaria fortemente espansiva della Bce e delle banche centrali svedesi e norvegesi, con il loro pericoloso impatto sui prezzi delle case, ha permesso alla spesa interna di compensare, almeno parzialmente, la bassa domanda di esportazioni.
I rifugiati e la rottura dell’area Shengen
L’arrivo di un gran numero di rifugiati dal Medio Oriente e dai Paesi africani nel 2015 e a inizio 2016 ha evidenziato le spaccature interne alla Ue. Mentre le procedure non formalizzate utilizzate per gestire la crisi hanno portato a scaricare il peso sui Paesi periferici, la regolamentazione Ue sui rifugiati – derivante dalla Convenzione di Dublino – indica esplicitamente che a farsi carico dei migranti devono essere i Paesi di primo ingresso nell’Unione, tipicamente i più poveri. Nel 2015 questa scelta ha messo particolarmente in difficoltà la Grecia. Nell’estate del 2015 è apparso evidente che il governo greco – già affamato dalle politiche di austerità – era ormai sopraffatto dall’emergenza.
La decisione del governo tedesco di accogliere i rifugiati di guerra, particolarmente siriani, ha aiutato la Grecia, ma ha comportato problemi con altri governi, dall’Ungheria alla Svezia. Essa, assunta senza previa consultazione degli altri Paesi, ha riconosciuto implicitamente il fallimento degli accordi di Dublino. Da settembre 2015 a marzo 2016 sono state adottate soluzioni temporanee, non previste dalla normativa in vigore, come quella dei corridoi umanitari tra Germania e Croazia, attraverso i quali ai rifugiati è stato consentito di raggiungere l’Europa centrale.
Queste misure sono state, però, fortemente avversate da forze nazionaliste conservatrici come il governo di Fidesz in Ungheria. Esse si sono fortemente mobilitate per chiudere le frontiere agli immigrati e costruire muri. Queste istanze hanno trovato risonanza nei partiti cristiano-democratici e, addirittura, in alcuni partiti social-democratici. Rappresentanti di alto rango di governi come quello ungherese e austriaco sono andati in visita in Macedonia – Paese candidato a entrare nell’Unione – elogiando come questa stesse difendendo i confini “europei”. Implicitamente, hanno così mostrato come ci sia un Paese considerato “ridondante” nell’area Shengen – ancora una volta la Grecia.
I Paesi Ue si sono dimostrati incapaci di trovare una nuova formula per distribuire gli oneri associati alla crisi dei migranti. Invece di un più che giustificato approccio umanitario associato a circostanze eccezionali, hanno optato per esternalizzare la gestione del problema. A tal fine, il 10 marzo 2016 è stato siglato un accordo con la Turchia, che prevede che essa accetti i rifugiati in cambio di soldi, mentre la Ue si impegna a ricevere un numero limitato di rifugiati siriani provenienti dalla Turchia; inoltre, è prevista l’accelerazione dei negoziati di accesso della Turchia all’Unione e l’abolizione del visto per l’ingresso nella Ue dei cittadini turchi. In pratica, il governo turco ha bloccato i rifugiati in Turchia, impedendogli di raggiungere la Ue, in cambio dell’acquiescenza europea rispetto al carattere sempre più repressivo del regime che governa quel Paese.
L’imposizione del Comprehensive Trade and Economic Agreement col Canada (Ceta)
Alla fine di ottobre 2016 la Commissione e, più in generale, tutte le forze liberiste hanno utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per far sottoscrivere a tutti gli Stati membri il trattato Ceta con il Canada. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha elogiato questo accordo di libero scambio come “il più progressivo” mai siglato dall’Unione. Forti correnti interne ai partiti di sinistra, ai sindacati e ai movimenti sociali hanno, però, visto in questo accordo molti elementi regressivi dal punto di vista della democrazia e dello stato di diritto.
Una delle clausole più controverse riguarda la creazione di un tribunale che permetterebbe agli “investitori” (le grandi multinazionali) di citare in giudizio i governi per ottenere compensazioni economiche nei casi in cui ritengano che la regolamentazione nazionale leda i loro diritti, così precostituendo un privilegio legale per le imprese multinazionali. Altri elementi di preoccupazione riguardano, fra gli altri, i servizi pubblici e gli standard sanitari. Accordi commerciali come il Ceta scolpiscono nella roccia le regole liberiste, riducendo grandemente lo spazio per una ri-regolamentazione democratica. Le negoziazioni per il Ceta sono rimaste riservate a lungo, nascoste all’ombra delle trattative per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (il Ttip), basata sulla stessa filosofia.
Quando le negoziazioni per il Ttip sono saltate, viste le forti resistenze, le forze del libero mercato hanno messo l’approvazione del Ceta fra le loro priorità. Di fatto, molte società americane hanno sedi in Canada e possono, perciò, comunque avvalersi del Ceta. In un certo senso, il Ceta è un sotterfugio per imporre comunque le regole del Ttip. Sebbene in Germania le proteste contro il Ttip e il Ceta siano state particolarmente accese, i social-democratici hanno ceduto alle pressioni dei conservatori loro alleati, del mondo degli affari e di Bruxelles.
Il partito social-democratico austriaco ha negoziato una dichiarazione interpretativa di alcuni punti critici, che verrà allegata al trattato. L’ultimo ostacolo alla firma è venuto dalle regioni belghe della Vallonia e di Bruxelles. La Vallonia, in particolare, aveva evidenziato già un anno prima le sue obiezioni alla Commissione ma, ciononostante, quest’ultima ha scelto di fissare comunque la data della cerimonia per la firma. Ciò si è rivelato in parte un errore di calcolo, in quanto il governo regionale ha fatto slittare la data prevista, cedendo, infine, solo dopo aver negoziato una dichiarazione speciale.
Il commissario europeo Günther Oettinger ha reagito alle controversie sul Ceta chiedendo che i governi nazionali non interferiscano con le politiche commerciali europee. L’intento di questa dichiarazione è, evidentemente, quello di contrastare l’opposizione al trattato tramite la centralizzazione. Il percorso di ratifica del Ceta da parte dei parlamenti nazionali si preannuncia, tuttavia, accidentato. Di fatto, il modo in cui l’Europa ha insistito per l’approvazione del Ceta aggrava la crisi di legittimità europea e fomenta le tendenze disgregatrici.
Le relazioni Ue-Usa dopo l’elezione di Trump
L’ascesa dei partiti nazionalisti di estrema destra non è rimasta confinata all’Europa. Negli Usa, l’oligarca Donald Trump ha vinto con un margine ristrettissimo le elezioni presidenziali, grazie al supporto di varie forze di destra. Gli elementi chiave della sua campagna sono stati un’aggressiva retorica anti-immigrati, la promessa di abbassare le tasse e la fine di trattati commerciali come il Ttip. Se realizzate, le promesse di interrompere le negoziazioni per il Ttip e di ridurre le spese americane a sostegno della Nato cambieranno significativamente le relazioni tra Usa e Ue.
Dopo l’elezione di Trump, si è riacceso il dibattito sulla formazione di una “difesa comune”. In un contesto di “cooperazione strutturale permanente”, la cooperazione militare tra gli Stati membri non può che aumentare. In effetti, sia i deputati europei cristiano-democratici che quelli social-democratici hanno chiesto un aumento della spesa militare da parte dei singoli Paesi: in un contesto dove molteplici sono gli elementi di crisi, emerge dunque un ampio consenso, che va dai social-democratici alle destre nazionaliste, per una maggiore militarizzazione dell’Unione e una politica estera più aggressiva. Questa spinta militarista deve essere contrastata con decisione dalle forze di sinistra e dai movimenti per la pace.
Idee e strategie per leggere le tendenze disgregative
L’ampio consenso tra i cristiano-democratici, i social-democratici e i nazionalisti di destra non va oltre la militarizzazione della politica estera. Le élite europee hanno intrapreso percorsi differenziati per fronteggiare le molteplici crisi e le tendenze disgregative. Queste strategie sono strettamente legate ai differenti scenari futuri considerati e ai diversi modi di guardare all’Europa. Come nel caso della Brexit in Gran Bretagna , anche in Europa sono le forze di destra che dominano il dibattito sul futuro dell’Unione.
Cercare di sopravvivere in qualche modo: questo è il modo prevalente di gestione delle molte crisi che affliggono l’Europa. È l’approccio privilegiato dalla maggior parte dei cristiano-democratici, come dei social-democratici e dei liberali. Si tratta di una strategia che punta a proseguire nell’attuazione del modello neoliberista di integrazione e a preservare l’attuale configurazione geografica dell’Unione Monetaria e dell’area Shengen. È un approccio che ottiene il supporto delle maggiori multinazionali, ma che non fa in alcun modo i conti né con le divisioni tra centro e periferia dell’Unione, né con la sua perdita di legittimazione agli occhi delle classi popolari. Nonostante questa strategia abbia la pretesa di preservare il processo di integrazione europeo e i suoi confini geografici, la mancanza di elementi di promozione della coesione non potrà che accelerare il processo di disgregazione europeo.
Vanno anche evidenziate due sotto-varianti di questa strategia.
Cercare di sopravvivere con un po’ più di flessibilità fiscale e maggiori investimenti pubblici. È la strategia perseguita principalmente dai social-democratici e, in parte, dalle forze di sinistra in Francia e nei Paesi mediterranei. Essa punta a integrare l’approccio sopra descritto con una combinazione di flessibilità fiscale e investimenti pubblici. Si cerca di ampliare lo spazio per gli interventi di politica economica alleggerendo le regole fiscali. Questa strategia è caratterizzata da una qualche maggiore attenzione ai problemi di coesione dell’Unione rispetto alla variante principale.
Cercare di sopravvivere restringendo e rendendo più rigida l’area Schengen. Questa variante invoca il ritorno temporaneo dei controlli alle frontiere nell’area Schengen e vuole escludere dall’area i Paesi che non sono disposti a tenere rifugiati e migranti “indesiderati” fuori dai confini nazionali. Quest’approccio è perseguito soprattutto dalle correnti nazionaliste interne ai partiti cristiano-democratici dei Paesi del nucleo centrale europeo e dei Paesi più orientali dell’Europa centrale, ma esso gode del sostegno anche di alcuni partiti social-democratici. De facto questa strategia sta già prendendo piede, come dimostrato, ad esempio, dalla reintroduzione di controlli temporanei alle frontiere e dalla costruzione di barriere fisiche di confine all’interno della stessa area Schengen.
Core Europe: la costruzione di un nucleo centrale europeo. L’Europa è già caratterizzata da differenti gradi di integrazione. Tradizionalmente, il concetto di Europa core è stato finalizzato a intensificare l’integrazione neoliberista tra i Paesi che ne dovrebbero farne parte. Per questo come area di riferimento si guarda a un insieme di Paesi più ristretto e omogeneo all’interno dell’area euro. Questa visione è stata ampiamente dibattuta all’interno dei circoli cristiano-democratici dei Paesi interessati. I partiti della destra nazionalista che propongono questa visione, come Freiheitliche Partei Osterreichs (Fpö) o Alternative fur Deutschland (AfD), puntano soprattutto a rendere l’Unione più piccola e omogenea, vogliono liberarsi dei Paesi periferici che ritengono un peso. Le proposte delle forze di destra dei Paesi periferici, come in Italia la Lega Nord o, in modo più lieve, il Movimento 5 Stelle, puntano ad abbandonare l’eurozona e sono dunque complementari a quelle che mirano alla costruzione del nucleo centrale.
L’Europa delle nazioni. Alcuni partiti della destra nazionalista sostengono che il processo di integrazione europeo debba focalizzarsi sul Mercato Unico e la relativa regolazione economica. I partiti della destra nazionalista nell’Europa dell’est, come Fidesz in Ungheria o Prawo i Sprawiedliwość (PiS), in Polonia ritengono, invece, fondamentali anche gli apporti dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Tuttavia, essi invocano negli altri campi più libertà per gli Stati nazionali, in parte per realizzare strategie competitive, in parte per promuovere un’agenda politica nazionalista e conservatrice (ad esempio, in ambiti quali l’identità sessuale o le politiche sociali). Alcune forze della destra nazionalista, come il Front National in Francia, hanno formulato vaghe idee di “un’altra Europa”, tanto poco definite da non apparire sostanzialmente distinte da quelle che mirano alla completa dissoluzione dell’Unione.
Idee e strategie per la sinistra
Un’altra Europa: un federalismo europeo di sinistra: il concetto di un’altra Europa è stato usato anche da alcune forze di sinistra, ma con un significato completamente diverso. Il fine è quello di rifondare democraticamente la Ue, gettando le basi per un federalismo democratico europeo e per un’integrazione più equilibrata. Il punto è che i presupposti politici per l’attuazione di questa agenda sono particolarmente difficili da realizzare, sarebbe necessario un largo consenso generale e tra gli Stati membri, un contesto, insomma, opposto a quello che sembra prevalere attualmente.
A fronte del manifestarsi di forti disequilibri di potere fra i Paesi Ue e dopo l’esperienza greca, un crescente numero di forze di sinistra chiede ora l’attuazione di esplicite politiche di promozione sociale, che contemplino il non rispetto delle regole europee e, laddove necessario per intraprendere politiche progressiste, anche l’abbandono della moneta unica.
I due differenti approcci della sinistra differiscono principalmente nel giudizio su cosa sia politicamente realizzabile all’interno dell’Unione e su cosa potrebbe essere realizzato attraverso le singole politiche economiche nazionali.
Entrambe le prospettive appaiono di difficile realizzazione senza una maggiore unità politica e un maggiore incidenza elettorale della sinistra rispetto all’attuale. Malgrado contestazioni radicate negli specifici contesti nazionali costituiscano la più immediata forma di sfida alle politiche attuali, EuroMemo continua a ritenere indispensabile una prospettiva internazionale e a sostenere la necessità di un approccio coordinato a livello europeo per promuovere la ripresa economica e la giustizia sociale.
. La Repubblica, 3 marzo 2017
A promuoverlo è la rete femminista “Non una di meno”, che ha portato in piazza lo scorso novembre 250mila donne contro la violenza. I sindacati di base (Usi, Usb e Cobas) hanno proclamato l’astensione per 24 ore, la Cgil fatica a discostarsi ma si sfila dallo sciopero generale. La rete femminista aveva chiesto questo ai confederali. Cisl e Uil non hanno risposto, Camusso, alla guida della Cgil, lo ha fatto con una lettera: «Sono solidale, vi esprimo affetto e rispetto, parteciperemo alle iniziative — scrive — ma lo sciopero non è solo un atto simbolico, ma la determinazione di rapporti di forza che si realizzano in presenza di ampia partecipazione ». Perciò il sindacato è pronto a proclamarlo laddove «abbia possibile concretezza». Non a caso sciopereranno le insegnanti e le educatrici degli asili, non le operaie: la Flc-Cgil ha proclamato 8 ore di astensione, la Fiom no. «L’80% della nostra categoria è donna e siamo educatori: abbiamo due volte ragione per aderire», afferma la segretaria nazionale della scuola Francesca Ruocco. Anche nei singoli luoghi di lavoro sarà possibile l’astensione, «col consenso delle lavoratrici », precisa Camusso. Ma niente sciopero generale.
È il nodo di questa mobilitazione: è possibile uno sciopero di genere, fuori da categorie e rivendicazioni contrattuali? Per le donne del movimento sì. «La natura politica di questo sciopero è l’opposizione alla violenza contro le donne in ogni forma », spiega Paola Rudan. «I confederali non hanno saputo cogliere la sfida, è una scelta miope: questo è uno sciopero politico, sociale. La copertura c’è, tutte le donne potranno farlo», contesta Tatiana Montella, voce di “Io decido”, la rete romana che sta nel movimento con l’Udi e i centri anti-violenza. Anime diverse di un nuovo e altro femminismo che avanza, con tanti distinguo, pure sulle mimose. «Noi le offriamo dal ‘44 e lo faremo anche quest’anno — spiega Laura Piretti, responsabile Udi — Aderiamo allo sciopero, anche se avremmo preferito che passasse l’idea delle donne che si fermano, che si sottraggono per un giorno o un minuto a questa società violenta».
La mobilitazione sarà internazionale, dalle donne polacche che protestano contro un disegno di legge che vieta l’aborto alle argentine già scese in piazza lo scorso ottobre per Lucia Pérez, stuprata e uccisa, sino all’appello sul Guardian, firmato anche dall’attivista Angela Davis. C’è prudenza sui numeri. Ma c’è già chi, come l’azienda dei trasporti di Bologna, annuncia possibili disagi. Da Palermo a Milano, saranno centinaia le iniziative, con cortei in tutte le città. A Roma si partirà con un presidio in Regione sul diritto alla salute, altrove si manifesterà davanti agli ospedali per il diritto all’aborto. E c’è chi invita a sospendere «le attività riproduttive»: non solo le pulizie di casa, ma anche i rapporti sessuali. Uno dei tanti modi per dimostrare che «se le donne si fermano, si ferma anche il mondo».
. la Repubblica, 3 marzo 2017 (c.m.c.)
Fin dal mito fondativo della sua storia, l’attività matematica si è suddivisa tra la ricerca e la divulgazione. Nella “Vita di Pitagora”, infatti, Porfirio racconta che «il maestro impartiva il proprio insegnamento a due categorie di persone: matematici e acusmatici. I matematici studiavano la parte più importante e approfondita della dottrina, mentre gli acusmatici si accontentavano dei fatti senza le spiegazioni».
Il “matematico” era in greco un letterale “apprendista”, che imparava attivamente il mestiere: l’analogo dell’odierno laureando, dottorando, ricercatore o assistente. L’“acusmatico” era invece un letterale “uditore”, che ascoltava passivamente l’insegnamento: l’analogo dell’odierno fruitore delle conferenze, degli articoli e dei libri di divulgazione. Una distinzione che Aristotele espresse concisamente nella dicotomia tra chi si preoccupa di “capire perché”, e chi si accontenta di “sapere che”.
Le prime testimonianze scritte di questa doppia attività di insegnamento ce le hanno lasciate Platone e Aristotele. Il primo ha scritto solo opere divulgative per una diffidenza nei confronti della scrittura, che gli faceva relegare l’insegnamento profondo all’oralità. Il secondo ha invece scritto sia opere divulgative che testi di ricerca, ma le prime sono andate perdute e ci sono rimasti soltanto i secondi. È interessante che entrambi i filosofi abbiano ritenuto di dover adottare, nella loro attività divulgativa, la forma dialogica.
Anche se spesso il dialogo platonico è fittizio, e l’interlocutore di Socrate è più una spalla che un comprimario: come l’ignaro schiavo al quale viene impartita, nel Menone, quella che è la prima testimonianza storica di una dimostrazione matematica che ci sia pervenuta. Non sappiamo invece come fossero i perduti dialoghi aristotelici, ma possiamo immaginare cosa ci siamo persi dal fatto che fu la lettura del Protrettico a convincere Cicerone a diventare un filosofo.
Anche la scienza, fin dal suo avvento, adottò la forma dialogica per la propria divulgazione.
Il Dialogo scientifico più famoso e importante è probabilmente l’omonima opera che Galileo Galilei pubblicò nel 1632, «dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte». Come già i dialoghi platonici, però, anche quelli galileiani non sono affatto discussioni fra interlocutori alla pari: al contrario, uno dei due contendenti (Filippo Salviati) è il ventriloquo dell’autore, mentre l’altro (Simplicio) rivela fin dal nome il suo ruolo di utile idiota. Galileo incautamente mise in bocca a Simplicio alcune idee del papa Urbano VIII, che ovviamente si infuriò e gli diede il benservito con il processo del 1633, tra le accuse del quale c’era anche quella di «haver scritto in dialogo», oltre che in volgare, affinché tutti potessero capire.
All’epoca il Dialogo fu dunque letto e percepito non soltanto come una disputa scientifica, ma anche e soprattutto come uno scontro fra la scienza e la religione. La stessa cosa successe nell’Ottocento a proposito del dibattito su evoluzionismo e creazionismo, anch’esso passato alla storia per un dialogo: questa volta reale. Lo scontro si tenne in pubblico a Oxford il 30 giugno 1860, tra il biologo Thomas Huxley e il vescovo anglicano Samuel Wilberforce.
Oggi i religiosi meno ottusi di Wilberforce preferiscono saggiamente dirottare i dibattiti fra scienza e religione su livelli più astratti, e mantenerli su toni più amichevoli. Il campione di questi dialoghi è il Dalai Lama, che incontra regolarmente scienziati delle discipline più disparate, a Dharamsala in privato e altrove in pubblico, per discutere di possibili punti di convergenza tra il buddhismo tibetano e la scienza occidentale. Alcuni sono stati trascritti in libri che spaziano dalla cosmologia alle neuroscienze, con titoli che vanno da Il sonno, il sogno e la morte (Neri Pozza, 2000) a Emozioni che distruggono (Mondadori, 2003).
A volte il dibattito fra fede e scienza può avvenire direttamente tra scienziati, credenti e non. Un esempio di questo tipo di incontro è La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? (Longanesi, 2008), che registra il dialogo fra l’astronomo gesuita George Coyne, per venticinque anni direttore dell’Osservatorio Vaticano di Castelgandolfo, e Arno Penzias, premio Nobel per la fisica nel 1978 per la scoperta della radiazione di fondo.
Altre volte il dibattito si sposta sul confronto fra le “due culture”: scientifica, da un lato, e umanistica, dall’altro. Uno stimolante esempio è il Dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, tenuto nel 1984 e ripubblicato da Einaudi nel 2005. Anche se in questo caso sarebbe difficile confinare i due interlocutori nei ruoli di letterato l’uno, e scienziato l’altro: Levi lavorò infatti per tutta la vita da chimico, come testimoniano i racconti del suo famoso Sistema periodico, e Regge si divertì per decenni a produrre opere di arte computerizzata. Semmai, il loro Dialogo serve a sfatare il luogo comune che esistano appunto “due culture”, e che la scienza sia contrapposta, invece che complementare, all’umanesimo.
Il massimo esempio contemporaneo di scienziato-umanista è forse Werner Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932, che divenne uno dei padri della meccanica quantistica solo perché dovette decidersi a scegliere fra la musica, la filosofia e la fisica, tre discipline in cui brillò per tutta la vita. Per quarant’anni egli ha avuto dialoghi con molte menti brillanti come la sua, a partire da Einstein, e ne ha raccontati alcuni in Fisica e oltre. Incontri e protagonisti (Boringhieri, 1984). Il loro interesse anche umanistico è sottolineato dall’attenzione che ha dedicato al libro un teologo come Joseph Ratzinger in Fede, verità, tolleranza (Cantagalli, 2003).
Chi non desidererebbe esser “sesto fra cotanto senno”, quando si svolgono incontri di questo genere? A volte le manifestazioni culturali regalano al pubblico qualche rara occasione. Ma la rete permette ormai di osservare da vicino addirittura i dialoghi che si tengono fra i ricercatori, nel momento stesso in cui producono i loro risultati: medaglie Fields come Terence Tao e Timothy Gowers, ad esempio, gestiscono da anni dei blog nei quali discutono in chiaro problemi aperti, che a volte vengono risolti collettivamente con la partecipazione attiva del pubblico. O, almeno, di quella parte che non si accontenta di “sapere che”, e pretende anche di “capire perché”.
Ripresentiamo, nella povera Italia del 2017, l'analisi di un politico che seppe scorgere nell'oggi i germi e i virus del futuro. Intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari,
La Repubblica, 28 luglio 1981. «I partiti sono diventati macchine di potere»
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».
La passione è finita?
«Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...»
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
«È quello che io penso».
Per quale motivo?
«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti».
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
«E secondo lei non corrisponde alla situazione?»
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
«La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
«Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?»
Veniamo alla seconda diversità.
«Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata».
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
«Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi».
Non voi soltanto.
«È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?»
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
«Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate».
Dunque, siete un partito socialista serio...
«...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...»
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
«No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese».
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
«Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta».
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude».
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
«Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili».
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
«Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati».
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
«Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire».
Un prezioso articolo che, cogliendo l'occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d'uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all'economia, dall'ambiente all'esodo.
il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito
Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.
In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].
La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.
L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.
Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?
Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.
Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.
Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.
Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).
Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.
Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».
Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.
All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali : quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).
[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
a Repubblica, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)
Casi come quello di Fabiano Antonini, il dj Fabo, individuano il punto più intenso della libertà esistenziale, perché pongono non solo la questione di chi abbia il potere di scrivere il “palinsesto della vita”, di individuarne il perimetro, ma soprattutto fanno divenire ineludibile il problema di chi possa avere il potere di determinarne la durata, di stabilire se debba continuare o no l’essere nel mondo di una persona.
Ma l’area da governare non riguarda soltanto il fine vita, il morire, anche se qui il potere di scelta si fa più drammatico, perché estremo, irreversibile. È ben più vasta, comprende l’insieme delle decisioni riguardanti ogni momento dell’esistenza — dal suo inizio alla sua fine — e la determinazione dei casi e delle modalità che riguardano la possibilità di dare voce e potere anche a persone diverse dal diretto interessato.
La discussione di questi giorni, dominata, com’è inevitabile e pure giusto, da una forte emotività, potrebbe indurre a ritenere che si viva in una situazione caratterizzata dal disinteresse istituzionale, dall’assenza di significativi principi di riferimento. Non è così, e lo dimostra anche il linguaggio comune quando adopera espressioni come “morire con dignità”, dove il fatto naturale della morte è distinto dal processo del morire, che appartiene ancora alla vita, sì che è ben evidente la consapevolezza di persone e istituzioni della possibilità di intervenire in questo processo per associare il morire ad un principio ormai così fortemente collocato nella dimensione istituzionale, qual è appunto quello di dignità.
Fin dall’inizio, infatti, nel delineare il sistema istituzionale si è avuta piena consapevolezza dei rischi legati all’intervento nel mondo della vita, tanto che l’articolo 32 della Costituzione si chiude con queste parole: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l’Assemblea costituente, promette ai cittadini che non “metterà la mano” su di loro, sulla loro vita. Al centro del contesto istituzionale si pone quindi il consento informato della persona.
Proprio questa è la linea seguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 438 del 2008. Qui si legge che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Le istituzioni, dunque, hanno una ben chiara responsabilità. Non possono limitarsi ad un riconoscimento formale, ma rendere effettivi questi diritti proprio perchè definiti fondamentali, rimuovendo gli ostacoli che ne rendono difficile o addirittura impossibile l’attuazione. L’intervento del Parlamento non dovrebbe portare soltanto ad un pieno riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, ma evitare anche che l’autodeterminazione possa tradursi in solitudine della persona e in irresponsabilità delle istituzioni.
: Miseria dello sviluppo di Piero Bevilacqua. Officinadeisaperi, 27 febbraio 2017 (c.m.c.)
Con inappuntabile coerenza i partiti che ormai possiamo chiamare indistintamente liberali, cercano da tempo di adattare le istituzioni formative ai bisogni delle imprese. Più precisamente cercano di piegare la formazione delle nuove generazioni a questa stagione ideologica del capitalismo contemporaneo e ai suoi progetti di dominio. E lo fanno con i più vari strumenti.
Nell’agosto del 2004, l’allora primo ministro britannico Tony Blair, sedicente laburista, conquistò le prime pagine dei giornali con una clamorosa trovata. Fece stanziare dal suo governo mezzo miliardo di sterline per incentivare la competitività nelle scuole inglesi. La logica del disfrenamento competitivo che attraversa l’economia internazionale portata dentro le scuole. Come se già la società non fosse impregnata di violenza agonistica, di individualismo, di lotta. Anche le istituzioni formative devono incorporare principi artificiali, di gara, supremazia, vittoria, sconfitta. Una mimesi della guerra che deve rifondare i valori, rimodellare la formazione culturale, plasmare il comportamento delle nuove generazioni.
Eppure, per secoli il merito culturale, anche dentro scuole e Università, non ha avuto certo bisogno di incentivi alla competizione per emergere. E a cosa porta un arricchimento culturale incentivato dal fine di prevalere sul prossimo?
Perché il medesimo agonismo debba essere replicato più tardi all’interno dell’azienda, dove operai, tecnici, dirigenti, dovrebbero guerreggiare reciprocamente per il bene dell’impresa?
Anche sotto il profilo di questo fine ultimo, noi crediamo che si tratti di un delirio. È sulla cooperazione dei suoi membri che si regge qualunque impresa. Senza dire che oggi nel campo del sapere è la cooperazione e il dialogo fra discipline diverse a far premio alla conoscenza. Così è nel campo della medicina, negli studi ambientali o nelle scienze della terra, per non dire delle migliaia di scienziati dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) che oggi concertano le loro disparate competenze per studiare il clima che cambia.
Ma oggetto dell’aggressione da parte dei partiti – in questo caso soprattutto della destra – è stata negli ultimi decenni la scuola pubblica. In Europa colpi d’ariete le sono stati lanciati contro, con varia fortuna. In Italia, soprattutto nei primi anni del governo di centro-destra, sono state intraprese vere campagne di diffamazione. Non solo i fogli della destra, ma anche Il «Sole 24 Ore», il giornale della Confindustria, ha ospitato articoli in cui la scuola italiana, accusata di statalismo, veniva trattata alla stregua del Monopolio dei Tabacchi.
Eppure, quella scuola, laica, pluralista e universale nei suoi programmi – i cui insegnanti vengono scelti non per appetenze confessionali o ideologiche, ma in base al merito e con pubblici concorsi – costituisce una delle grandi conquiste della democrazia repubblicana. Quel tanto di mobilità sociale che ha attraversato l’Italia nella seconda metà del Novecento – che ha permesso a figli di contadini e operai di diventare professionisti – lo si deve alla scuola pubblica. Difficilmente un Paese uscito da una guerra rovinosa, povera di materie prime e di fonti energetiche, con danni ingenti all’apparato produttivo, sarebbe diventato un grande Stato industriale senza un scuola capace di produrre tecnici, quadri dirigenti, professionisti dai molteplici saperi.
Ma certo la pressione maggiore è stata esercitata sugli indirizzi della formazione. E qui l’unanimità di posizioni del ceto politico è venuta crescendo di anno in anno. L’imperativo, ormai da tutti invocato, è uno solo: modellare la scuola «secondo le esigenze della società». Una perorazione eterna, com’è noto, che perde il suo antico significato positivo se nel frattempo la società si identifica con l’impresa con il cosiddetto libero mercato. In realtà l’esigenza continua di rimodellare le strutture formative non è che il frustrante tentativo di piegare scuola e Università a un mercato del lavoro sempre più mutevole. L’immaginifica parola d’ordine lanciata dalla destra italiana negli ultimi anni è stata la scuola «delle tre I»: Impresa, Inglese, Internet. Vale a dire la proposta di costruire precocemente soldatini manageriali, cui spalmare addosso qualche approssimativa verniciatura formativa.
Ma non è solo miopia italiana.
A molti, in Europa e nel mondo, questa appare la linea più avanzata dell’innovazione e dunque della modernità. Eppure pochi sanno, o ricordano, che il problema del nesso tra scuola e industria, tra formazione culturale e innovazione tecnologica, è stato affrontato e risolto quasi cinquant’anni fa. È stato Friederich Pollack – uno degli ultimi esponenti della Scuola di Francoforte – nel libro l’Automazione a ricordare i dibattiti dei primi anni ’60 del Novecento. Nel 1962, egli ricorda, a Cachan, in Francia, si svolse un congresso internazionale al quale parteciparono 500 esperti di consulenza professionale di tutti i continenti, con al centro il tema: L’inserimento del giovane in un mondo che sul piano tecnico ed economico si sviluppa ad un ritmo accelerato.
Di fronte alla obsolescenza rapida e continua dei mestieri e delle competenze tecniche, ricorda Pollack, la conclusione del congresso fu che gli esperti di consulenza professionale dovevano consigliare ai giovani «di non specializzarsi». Solo una formazione ricca e universale è il percorso che può salvare un giovane da uno specialismo precoce, che precocemente verrà travolto dall’innovazione tecnologica. Un’acquisizione, dunque, di mezzo secolo fa, completamente rimossa per la rozza furia di «stare dietro allo sviluppo». Una strategia formativa – c’è bisogno di dirlo? – che ha maggior valore strategico oggi, quando un ingegnere meccanico, in una qualunque fabbrica automobilistica, è condannato all’obsolescenza delle sue competenze nel giro di 5-6 anni. Dunque, gli attuali novatori, i riformatori progressisti di tutte le fedi, non fanno in realtà che inseguire un treno partito da un pezzo. Solo che essi continuano a inseguirlo correndo nella direzione opposta.
Tuttavia, non ci sono stati solo questi tentativi e campagne sparse. In realtà una più vasta regìa era già all’opera. Come ormai comincia ad emergere con sempre maggiore consapevolezza e visibilità generale, le riforme (o i loro tentativi) dell’ultimo decennio rientrano nel più ampio disegno di costruzione di nuove e più omogenee istituzioni formative all’interno dell’Unione Europea.
È almeno dalla Dichiarazione di Bologna, sottoscritta il 19 giugno 1999 dai ministri dell’Istruzione dei vari Paesi dell’Unione – seguita dalle Dichiarazioni di Lisbona e Parigi e da varie altre iniziative recenti –, che è emersa in maniera lineare l’intelaiatura progettuale di trasformazione e rimodellamento dell’istruzione superiore proposta per il Vecchio Continente. Secondo tali nuove linee – ricorda C. Lorenz in un saggio apparso su “Passato e presente” nel 2006 – tanto la Scuola che l’Università devono ricadere nella logica del New Public Management (NPM), esse cioè devono abbracciare le finalità di servizi organizzati secondo regole di mercato, obbligati ad accettare e conformarsi alle sfide della competizione, secondo gli imperativi di una visione neoliberista dello sviluppo. Dopo la dichiarazione di Bologna – che pur perseguiva giuste finalità di omologazione europea degli studi e dei criteri valutativi – è apparso sempre più evidente che agli iniziali obiettivi formativi sono subentrati criteri di addestramento culturale all’agone competitivo.
Sempre più – ha ricordato Christophe Charle, docente della Sorbona – «le università sono assimilate a imprese o marche che si dividono un mercato di diplomi, il cui valore sociale è misurato in funzione degli sbocchi lavorativi e degli stipendi ottenuti dai laureati di questo “investimento educativo”». È il mercato che preme sempre più direttamente sugli stessi contenuti formativi delle Università. Tutto questo mentre aumentano ovunque le rette per l’iscrizione, che tengono sempre più ai margini i ragazzi socialmente non abbienti e creano un nuovo «darwinismo educativo». Le conquiste egalitarie realizzate su tale terreno, sia in USA che in Europa, a partire dal dopoguerra, si stanno rapidamente perdendo. L’uguaglianza dei punti di partenza, con scuole e Università alla portata di tutti, oggi si va trasformando in una chimera, che rende completo e definitivo il circolo dell’iniquità in cui le società liberali stanno rinchiudendo il mondo.
Ho avuto la ventura di seguire direttamente, in qualità di docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma, l’applicazione della riforma universitaria introdotta dall’ex comunista Luigi Berlinguer, nel 1998 e proseguita, senza apprezzabili modifiche, nel 2005 da Letizia Moratti, ministro del governo di centro-destra. Mi è stata dunque concessa la possibilità di osservare molto da vicino la grande trasformazione che si è venuta verificando in poco tempo all’interno di una grande e antica Facoltà umanistica europea. Occorre dire che i mutamenti sono stati rapidi: nel linguaggio di docenti e studenti, nel loro comportamento, nell’organizzazione dello studio e degli esami, nel rapporto con i libri di testo, nei criteri di valutazione culturale. Questi ultimi hanno costituito il vero cuneo con cui la logica accumulativa del profitto, l’utilitarismo carrieristico si è fatta strada nel mondo degli studi.
Com’è noto, per poter plasmare la mente dei giovani allievi secondo procedure di economia aziendale è stata introdotta la misurazione del profitto universitario con il sistema dei crediti. Gli studenti possono accumulare crediti, anche fuori dalle Università, da poter spendere nel futuro come moneta sonante. Il linguaggio bancario non è solo una goffa simulazione e una umiliazione storica per le Università d’Europa, nate nel Medioevo, che hanno fatto grande per secoli questo Continente non solo di economie, ma anche e soprattutto di conoscenze e saperi. Quasi che i nostri Atenei venissero ora rivalutati, sottratti alla loro cadente vetustà, grazie all’efficiente linguaggio delle imprese. Non è solo questo.
Sotto tale aspetto la rimodulazione del linguaggio universitario in ossequio ai dettami dell’economicismo corrente non sembra voler arrestarsi di fronte a nulla. Rivelo qui un particolare poco noto. Affinché la svalutazione di tutto ciò che è pubblico, anche nelle Università, potesse spingersi sino al grottesco, al fine di non lasciare inesplorato nessun angolo del regno del ridicolo, nella nuova normativa è previsto che l’iscrizione dei ragazzi al biennio specialistico si configuri sotto forma di un contratto, siglato tra lo studente e un rappresentante della Facoltà, di norma un docente. Basterebbe questo straordinario segnale per avere un’idea della meschinità senza fondo che deve oscurare la mente del riformatore a cui dobbiamo tali trovate.
Anche l’iscrizione universitaria – che di fatto avviene attraverso un regolare pagamento delle tasse allo Stato – deve fingersi come un atto privatistico, deve schiacciarsi su un modello di subordinazione personale, per apparire economicamente efficiente. Quasi che lo studente fosse un prestatore d’opera – un bracciante agricolo o un fornitore di merci – il quale sottoscrive un impegno di lavoro con una controparte privata da onorare secondo uno standard di efficienza.
Naturalmente non sottovalutiamo il potere del linguaggio. Il riformatore delle università lo sa bene, perciò non si cura del ridicolo. Esso deve addestrare a una nuova visione economica della vita universitaria e degli studi le nuove generazioni. Il linguaggio diventa poi obbligante, perché incarna regolamenti. Così i crediti hanno trasformato i ragazzi in procacciatori di punteggi, come i clienti dei supermercati, che li collezionano per poter riscuotere i premi finali.
Eppure non è questo il cuore del problema.
Non è qui che la riforma neoliberista ha ficcato il suo cuneo devastatore. Non è qui che anche il sapere in generale subisce un colpo micidiale e forse irreparabile. La vera e radicale trasformazione, la rottura programmata di un paradigma culturale secolare – talmente grave e profonda da non essere stata neppure avvertita, probabilmente, dagli stessi programmatori – è che nelle Università, soprattutto nel Facoltà umanistiche, è cambiato il modello storico dello studio, il processo di apprendimento e di formazione, il meccanismo della trasmissione del sapere. Con la moltiplicazione degli esami, ridotti ad esamini, non solo si immeschinisce il quadro della formazione complessiva dello studente, costretto ad imparare poco di tutto, ma si realizza qualcosa di assolutamente nuovo.
La preparazione dell’esame cessa di essere ciò che è stato per tanti secoli fino ai nostri giorni: l’occasione per studiare e approfondire un determinato campo del sapere.
Un campo che diventa nostro e che interiormente ci arricchisce e ci plasma. Con la riforma essa è diventata qualcos’altro. Ciò che prima era studio, lettura di tanti libri su una singola disciplina, riflessione, approfondimento, meditazione, rielaborazione critica, ora, con la moltiplicazione degli esami, si trasforma in una prestazione continua e frammentata, nella rendicontazione di alcune rapide letture a quella specie di verificatore fiscale che è diventato il docente. Gli esami e la loro preparazione così come i crediti vengono misurati secondo un impiego di quantità temporali, contate in ore necessarie richieste, così che il percorso dello studente sia soggetto a un determinata velocità di prestazione come in una qualunque fabbrica tayloristica. La formazione delle nuove generazioni si trasforma così in un percorso a cottimo, piegata a una logica di rendimento temporal-quantitativo, che mette in secondo piano la qualità culturale e spirituale della formazione. Soprattutto abolisce la dimensione stessa della formazione così come l’abbiamo finora conosciuta: intreccio inscindibile di valori spirituali e saperi.
Gli studenti apprendono a concepire lo studio come un lavoro scandito da tempi determinati, soggetto a standard oggettivi di misurazione e si abituano ad essere continuamente monitorati da un’autorità organizzativa posta al di sopra di loro. È la plasmazione aziendale dell’uomo nuovo, così come lo vuole questa recente incarnazione dello sviluppo, un progetto camuffato da via libertaria che rivela un tendenziale volto totalitario, portatore della «tetra visione di una esistenza controllata e aritmetizzata in ogni suo gesto», come dice Claudio Magris.
Il tentativo, dunque, è di creare velocemente nuovi quadri disciplinati da inserire nei vari settori del mercato del lavoro, una sorta di uomo nuovo seriale, con caratteristiche omogenee, flessibile e veloce, adattabile a varie circostanze, interamente modellato dal suo finale scopo produttivo. A essere direttamente minacciata è dunque la figura umana che ci è più familiare, che ha attraversato sinora indenne tutte le civiltà, che è fondamento di ogni civiltà: l’uomo che pensa. Avanziamo, così, a piccoli passi verso quell’avvenire, come dice Emil Cioran, «in cui il rimpicciolimento dell’uomo raggiungerà la perfezione di un’utopia capovolta». Dovrebbe essere evidente, ma non lo è: nella nostra epoca non è il sonno della ragione, ma la ragione, questa ragione calcolante, che genera mostri.
Ancora più stupefacente è oggi il fatto che – a dispetto dello sforzo di piegare il mondo degli studi superiori alle necessità dell’economia al suo vortice distruttivo – esso non sortisce alcun esito concreto sul piano della creazione di nuovo lavoro. Oggi in Europa, e soprattutto in Italia, la disoccupazione intellettuale ha assunto dimensioni forse mai prima conosciute. Un’intera generazione rischia di essere privata del lavoro per il quale si è formata. Non sempre il fenomeno è visibile in tutta la sua ampiezza, statisticamente rilevabile. Spesso è occultato dal fatto che tanti laureati si rassegnano a lavori precari e dequalificati. Ma migliaia di giovani che si sono laureati spesso con il massimo dei voti, che hanno conseguito il Dottorato, che sempre più di frequente hanno nel loro curriculum Master e PhD acquisiti in Italia e all’estero, frequentato stages e simili sono senza lavoro.
In genere si tratta dei ragazzi che hanno utilizzato le borse Erasmus e Socrates nelle Università europee, che conoscono più lingue, che a 25 anni hanno girato buona parte del mondo. Ci chiediamo come sia possibile, in questa fase incerta di costruzione dell’Europa, dare nuovo impulso all’Unione lasciando nell’insicurezza e nella precarietà il fiore della nostra gioventù studiosa. È uno spreco intollerabile – sia per quello che esso è costato alle famiglie e alle finanze pubbliche – sia per il suo potenziale inutilizzato. Da dove può trovare consenso il progetto europeo se lascia nella precarietà la futura élite intellettuale che esso stesso ha allevato?
In realtà, il modello verso cui tendono tanto l’Europa che gli USA – questi ultimi, per lo meno, con incomparabile generosità di mezzi – è di creare nuove figure di ricercatori che rispecchino, coerentemente, tanto il modello formativo avanzante che le tendenze del mercato del lavoro Ricercatori a tempo determinato, sulla base di contratti a scadenza escogitati al fine di incalzarli a prestazioni sempre più efficienti: è questa la nuova frontiera per le nuove generazioni studiose. In Italia il governo di centro-destra, raccogliendo anche idee che sono di tutto il ceto politico, ci ha provato con un disegno di legge delega sul “Riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari”. Ma è stato sconfitto. La tendenza generale, comunque, è evidente. Si vogliono, per il futuro, ricercatori e docenti che stanno sempre sulla corda, non sicuri del domani, e perciò pronti a piegare la schiena a compiti sempre più severi. Naturalmente, nella dominante logica del “breve termine” tale modello dovrebbe essere altamente produttivo, privo di sprechi e di parassitismi.
Eppure in pochi riescono a immaginare gli effetti di lungo periodo che una simile condizione degli studiosi verrebbe a produrre. Nei giovani sarebbe mortificato lo spirito critico e di innovazione, vista la subalternità ai molteplici poteri, accademici, politici, aziendali cui sarebbe sottoposta la riconferma del loro lavoro. Ma ciò che appare clamorosamente dimenticato è il valore della ricerca non finalizzata a scopi immediati, che lascia libero lo studioso di perseguire le proprie strategie di indagine, senza vincolarlo a scadenze strette di produttività. Tutto ciò che di grande e straordinario hanno prodotto sinora la cultura e la scienza in tutta la storia passata si deve alla possibilità dell’investimento intellettuale di lungo periodo.
Nessuno si è accorto che la stessa nostra civiltà si fonda su tale modello?
Gli storici della mia generazione, in Italia, agli inizi dei loro studi, hanno sempre guardato con invidia ai loro colleghi e coetanei francesi. Questi ultimi agli inizi della loro carriera, godevano della possibilità di lavorare, anche per 5-6 anni e oltre, e con buon sostegno finanziario, all’elaborazione della Tesi di Dottorato. Dopo la laurea, i giovani più dotati potevano impegnare le proprie energie, senza altre cure, in ricerche di vasto respiro e impegno. Da quelle Tesi nascevano i loro primi grandi studi. Ma proprio quella generosa istituzione ha consentito alla Francia di generare la più affascinante e prestigiosa storiografia del Novecento. Una avventura intellettuale come quella delle “Annales”, non ha confronti con gli altri Paesi e ha dato vita alla fioritura di una galleria interminabile di grandi storici, da Marc Bloch a Lucien Fevbre, da Ferndand Braudel a Jacques Le Goff, solo per citare i nomi più noti. E considerazioni analoghe potremmo svolgere per campi del sapere lontani dai nostri.
Quali scopi produttivi perseguiva Einstein nell’indagare i problemi della relatività? Quale contratto a scadenza doveva onorare?
E non è forse noto che uno dei gioielli della tecnologia contemporanea, il computer, è in fondo il frutto ultimo di lunghi studi astratti e disinteressati di matematica?
Le grandi imprese del pensiero non si realizzano con la frusta di qualche aguzzino. Ma fioriscono nelle società nelle quali la ricerca libera e disinteressata è un valore, fa parte di un progetto che non scade l’anno successivo. L’ossessione della resa economica di tutto il nostro agire è il tarlo che oggi immeschinisce ogni impresa.
Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è pessima, se si rimane nell'orizzonte dei partiti e partitini, disgregati, fatti, disfatti, disseminati, raggruppati. Ma un filo di speranza c'è, nell'eredità morale e materiale del referendum del 4 dicembre.
il manifesto, 26 febbraio 2017
Qualcuno sembra trarre un respiro di sollievo alla notizia che i sondaggi danno sempre come primo il Partito Democratico, attestato, secondo Swg, sul 28% in declino nel giro di una settimana di tre punti. Anche il M5Stelle perde, ma meno, dal 26,2 al 25,3% Questo dato in particolare consolerebbe i renziani. Difficile condividere un simile irresponsabile ottimismo. Non solo perché si devono ancora diradare le nebbie e depositare le polveri perché il normale cittadino possa orientarsi nel nuovo confuso quadro dell’offerta politica. Per questo è certamente prematuro inseguire i sondaggi, che registrano peraltro un alta percentuale di non risposte. Ma soprattutto perché non è questo il metro di misura per giudicare quello che succede. In realtà siamo di fronte alla crisi definitiva di un progetto politico. Quello iniziato con Veltroni che voleva fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria autosufficiente, ponendo così nel discorso del Lingotto del 2007 le basi per la caduta del secondo governo Prodi.
Ora il Partito di Renzi è andato a sbattere contro il voto popolare del 4 dicembre. Un voto denso di motivazioni democratiche e sociali. Non a caso i giovani e il Mezzogiorno sono stati i due artefici della sconfitta della controriforma costituzionale. Gli stessi contro cui si abbatte il conclamato fallimento del Jobs act, certificato dai dati Inps che ci raccontano che nel 2016 il numero dei nuovi contratti «stabili» è crollato del 91% rispetto all’anno prima. Diminuiti gli incentivi sono spariti i posti di lavoro. Il rapporto di lavoro precario torna a farla da padrone. Con i suoi tassi di sfruttamento bestiale, come è stato evidenziato nel caso tragico di Paola Clemente morta di fatica nelle campagne pugliesi. Reclutata da un’agenzia interinale, forma moderna dell’antico sempre persistente caporalato. Si comprende bene perché il governo tema il referendum sui voucher e sui subappalti e nicchi rispetto all’obbligo che la legge gli impone di fissare la data per l’effettuazione.
Di fronte a questo dramma le tempeste in atto nel quadro politico restano confinate in un bicchiere d’acqua. Che si determini una vera e propria scissione, o che nel Pd sia in atto un’implosione a scoppio ritardato o una lunga diaspora, ha importanza relativa – se non per i singoli protagonisti. Così come dove effettivamente si accasino quelli se ne sono andati via da Sinistra Italiana a congresso aperto, dal momento che non lo sanno neppure loro. Il nuovo condottiero, Giuliano Pisapia, può forse drenare voti in uscita dal Pd e da Sel, ma non resuscitare il cadavere del centrosinistra. Del resto anche chi decide di abbandonare Renzi – non sto parlando delle continue giravolte di Emiliano – lo fa senza esprimere una leggibile passione ideale e politica, così da rimanere senza popolo. È incredibile che qualcuno pensi che ci si possa appassionare, appena varcata la soglia dei locali riservati agli addetti ai lavori, alla data del congresso o alle modalità delle primarie, quando le questioni della vita quotidiana ruotano attorno ai grandi temi del lavoro, in particolare per i giovani (già ci siamo dimenticati della sconvolgente lettera di Michele, morto suicida a trent’anni), della mancanza di reddito, della povertà, del disastro della scuola, come della sanità, dell’assoluta incertezza nel futuro.
Un tempo ci si aggrappava alla celebre citazione di Mao «Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente». Non era sempre così neppure allora, ma oggi di vero è rimasta solo la prima parte. Confusione tanta, ma situazione pessima.
Eppure una via d’uscita c’è sempre. Anche in questo difficile caso. La vittoria del No è stato il frutto di una insorgenza democratica, ove le idee di società legate al dettato costituzionale hanno fatto momentanea egemonia anche sulle destre che brandivano il referendum per scopi puramente politicisti. In quello scontro è tornato a manifestarsi, legando assieme i temi costituzionali con quelli sociali, un popolo di sinistra, con una forte incidenza giovanile. Si sono creati centinaia di comitati popolari sul territorio che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi e reclamano una legge elettorale proporzionale per dare vita a un parlamento legittimo costituzionalmente. L’operazione da fare è quindi capovolgere il punto di partenza. Neppure una lista elettorale, per quanto necessaria, ci salverà.
Bisogna partire dalla capacità di relazione con un rinnovato popolo di sinistra – nel quale è così qualitativamente rilevante il protagonismo femminile – prima che dalla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra di cui pure abbiamo estremo bisogno. Perché quest’ultimo senza il primo è privo di fondamenta, esposto ai venti più flebili.
Non solo per le donne, ma per tutti i generi vogliono che prevalga la volontà del curatore su quella curato, dello specialista sul cittadino: come per l'interruzione di gravidanza così per il diritto a lasciare la vita secondo la natura e la volontà della persona.
la Repubblica, 26 febbraio 2016Questa legislatura ha tolto l’Imu, forse aggiungerà le Dat. Un altro acronimo, figlio di una politica che ormai s’esprime soltanto a monosillabi. Significa “Disposizioni anticipate di trattamento”; significa perciò testamento biologico, per usare l’espressione che ci era divenuta familiare. Troppo semplice, meglio complicarne il suono. Ma in ultimo ci ronza in capo un dubbio: queste Dat saranno un diritto o un desiderio?
Dipende dalle attese, dalle pretese. Sta di fatto che il testamento biologico fu la promessa mancata della XVI legislatura; e meno male, perché il ddl Calabrò (approvato dal Senato il 26 marzo 2009) in realtà recava un elenco di divieti. Con le elezioni del 2013, ricomincia il tira e molla. Finché, nei giorni scorsi, la commissione Affari sociali della Camera molla: dopo 16 progetti di legge l’un contro l’altro armati, dopo 3200 emendamenti, approva un testo unificato. Con una maggioranza trasversale, che viaggia dal Pd ai Cinque Stelle.
Con l’ira funesta dei cattolici, che denunciano un voto frettoloso (in effetti, il Parlamento ne discute soltanto da 8 anni); ma infine con 5 articoli e con 28 commi che ci accordano il diritto di respingere le cure, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali, oggetto del contendere nel caso di Eluana Englaro. E quindi, se adesso l’aula della Camera non ne stravolgerà il dettato, anche l’Italia potrà dotarsi d’uno strumento che in alcuni Stati americani funziona dagli anni Novanta, in Olanda dal 2001, in Spagna dal 2002, in Francia dal 2005, nel Regno Unito dal 2007, in Germania dal 2009.
Meglio tardi che mai, disse quello studente novantenne mettendosi una laurea in tasca. Sennonché in questa circostanza l’università parlamentare ha inventato una nuova fonte del diritto, superiore alla legge, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti siglata dall’Onu: il codice deontologico. Portentosa innovazione, scaturita da un emendamento congiunto di un forzista (Palmieri) e una piddina (Carnevali), per comprimere l’efficacia vincolante delle Dat; hai visto mai, qualcuno potrebbe disporne in modo indisponente. Di conseguenza il medico (articolo 1, comma 8) rispetterà «ove possibile» le direttive del paziente; potrà disattenderle (articolo 3, comma 4) quando sopraggiungano «terapie non prevedibili» nel momento in cui quest’ultimo le aveva sottoscritte (un nuovo tipo di aspirina?); ne verrà infine affrancato (articolo 1, comma 7) se le disposizioni anticipate di trattamento contrastino con la «deontologia professionale».
Durante l’Ottocento veniva celebrata l’onnipotenza delle assemblee legislative. Ora ci tocca invece registrarne l’impotenza, anche davanti a regole private, quelle stabilite dall’Ordine dei medici. Che in primo luogo dettano norme volubili come ballerine: difatti il loro codice deontologico fu varato nel 1954, poi riscritto interamente nel 1978, nel 1989, nel 1995, nel 1998, nel 2006, nel 2014, fino alle due modifiche parziali approvate a maggio e a novembre del 2016. E in secondo luogo quelle norme suonano spesso ermetiche come una Sibilla. Così, l’articolo 17 vieta al medico, «anche su richiesta del paziente», d’effettuare atti intesi a «provocarne la morte». L’articolo 38, proprio in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento, precisa che il medico dovrà verificarne la «congruenza logica», come un professore che ha il potere di promuoverti o bocciarti. Un altro paio d’articoli (16 e 39, oltre allo stesso articolo 38) dichiarano che il medico «tiene conto» delle volontà del paziente (cioè le conta, dopo di che fa un po’ come gli pare). Infine l’articolo 22 sancisce espressamente il diritto dei medici all’obiezione di coscienza, ultimo baluardo contro la coscienza dei loro pazienti.
Ecco, è esattamente questo il tarlo che divora le buone intenzioni, lasciandole in balia dei malintenzionati. Perché il rinvio al codice deontologico trasformerà ogni nostra decisione in una supplica al sovrano, dove il sovrano è l’Ordine dei medici. E perché l’obiezione di coscienza permetterà la fuga dai diritti sanciti dalla legge, ammesso che questa legge veda mai la luce. Non a caso la Costituzione italiana non le dedica un rigo, a differenza della Carta tedesca o spagnola. Si riferisce invece, in molti luoghi, al primato della legge. Ma ormai la legge non è più una cosa seria. È solo una finta, un’ammuina.
In realtà l'autore afferma due cose importanti: l'ideologia è una base essenziale per qualsiasi politica: non è vero che le ideologie sono morte, invece una ideologia (quella del neoliberalismo, (prodotta dalla Trilateral Commission e dalla Mont Pàlerin Society) hanno cacciato le altre.
la Repubblica, 25 febbraio 2017
CARO direttore, commentando le vicende del Pd, Michele Serra ha rilevato come la fine dell’ideologia rischi di tradursi in quel partito nella fine della stessa politica.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, in effetti si brindò non solo alla fine dell’ideologia comunista ma di tutte le ideologie, considerandole camicie di forza del pensiero, strumenti di autoritarismo culturale e politico. Molti liberali non consideravano la loro come una ideologia: la intendevano piuttosto come l’unica concezione del mondo possibile per chi avesse a cuore la libertà.
In quegli stessi anni, però, nell’establishment occidentale si andava affermando una variante radicale del liberalismo. Lo racconta bene Tony Judt in un piccolo libro intitolato Guasto è il mondo. Negli anni Settanta le idee liberiste propugnate da Hayek nel dopoguerra si erano diffuse fino al punto di diventare senso comune: lasciate che gli interessi privati si dispieghino liberamente senza le interferenze della politica economica — dicevano i liberali — e otterrete più crescita e più benessere per tutti...
Il discorso liberista trae forza anche dal cattivo uso delle politiche pubbliche e dalla crescita del ruolo politico del ceto medio — in Italia lo descrive molto bene Sylos Labini. È questa l’ideologia che prepara la svolta politica di Reagan e della Thatcher, una visione del mondo elaborata da agguerriti think tank, diffusa da autorevoli media e sostenuta da aziende multinazionali interessate ad avere mano libera planetaria.
La forza di questa ideologia, paradossalmente, sta anche nel negare di esserlo. Lo scrive molto efficacemente Umberto Eco nel 1983 in Sette anni di desiderio: “Si parla di crisi delle ideologie. Errore. Casomai bisognerebbe parlare di modificazione delle ideologie. È caratteristico delle nuove ideologie non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute come verità” … Una “verità” che sembra sostenere in maniera indiscutibile la marcia gloriosa della globalizzazione. Ma nel 2007 arriva la crisi finanziaria ed economica, che rivela la crescita di diseguaglianze e di insicurezza sociale che le politiche legate a questo modello ideologico hanno prodotto nel mondo. Il credo dell’ideologia neoliberista è rimesso in questione da autorevoli economisti e da grandi istituzioni economiche internazionali, e perfino da giornali mainstream come il Financial Times. Eppure, in questi dieci anni nel campo progressista non riesce ad affermarsi un paradigma alternativo. Non è un problema della sola politica ma di tutta la sinistra, anche quella che si occupa di diffondere le idee: i giornali, le riviste, le case editrici. E non è solo un problema italiano: la sinistra è divisa e in difficoltà in buona parte dell’Occidente.
E questo non perché manchi un pensiero nuovo, ad esempio sui temi dell’equità. Pensatori come Tony Atkinson e Amartya Sen (solo per citarne due molto noti anche in Italia) hanno scritto libri fondamentali su come nel XXI secolo si può ripensare una società insieme più giusta e più libera. E anche in Italia ci sono studiosi che da anni lavorano su un nuovo modello di welfare, che coniughi lotta alla povertà e alle disuguaglianze — anche di genere — con la sostenibilità economica ed ambientale.
Ciò che manca è il passaggio dalle idee alle opinioni: quelle che Leopardi (nel Discorso sui costumi degli italiani) ritiene decisive nel determinare i comportamenti. Un ambito in cui svolgono un ruolo essenziale i media, purché siano disposti ad assumere fino in fondo la loro responsabilità di orientamento intellettuale e formazione dell’opinione pubblica. Un esempio?
Nel suo ultimo libro La grande fuga il premio Nobel Angus Deaton scrive che la crescita non garantisce la creazione di più opportunità per tutti: anzi, è compatibile con maggiore diseguaglianza e povertà. Dunque, se la crescita è uno strumento e l’equità è il fine, almeno per chi è progressista non ha senso auspicare la crescita senza darle precise qualificazioni. Una idea che ancora non è diventata senso comune.
Di tutto ciò, i litigi tra Renzi, Bersani e D’Alema non sono che una modesta conseguenza. Date per morte tutte le ideologie, la maggioranza dei professionisti della politica ha smesso da tempo di citare i libri che ha letto mentre si dedica con passione ad inseguire i ritmi e le logiche della comunicazione televisiva. Siamo alla politica del giorno per giorno, la cui agenda è dettata dai sondaggi e in cui la personalità dei capi fa premio sulla qualità dei programmi. Eppure, mai come in questa fase di grande confusione, c’è spazio per idee nuove. E le idee nuove ci sono (e non solo nei libri). E c’è anche una nuova generazione che può dare “gambe” a queste idee, che forse più che nei partiti lavora nelle ong in giro per il mondo. Certo, bisogna fare una rivoluzione culturale. Compito molto difficile ma (la storia ci dice) non impossibile. E oggi quanto mai necessario.
L
il manifesto, 25 febbraio
Il Pd è un partito «sbagliato», nato male, cresciuto peggio, destinato a concludere la sua parabola. In che modo lo vedremo presto. Lo si può ben cogliere nelle vicende di questi giorni.
Molti sembrano scandalizzati o infieriscono con toni moralisti: ma come, una scissione per una questione di calendario? In realtà, dietro tale questione, emerge il problema di fondo di questo partito, l’idea e il modello di partito che ne ha segnato le origini, e che ne sta segnando la fine.
Si parla di «congresso»: ma in realtà lo statuto del partito non usa nemmeno questa espressione, e non prevede quel processo democratico di confronto, dibattito interno e poi decisioni, cui si pensa normalmente quando si parla di un congresso.
Del resto, la cosa fu apertamente teorizzata a suo tempo: «Ma nel nostro Statuto il congresso non c’è», si leggeva in un’intervista a Salvatore Vassallo (Corriere della Sera, 28 gennaio 2009). Quello che c’è, come recita il titolo di un articolo dello Statuto stesso, è un’altra cosa: una «scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale». E’ qui la tara originaria, l’imprinting presidenzialistico e leaderistico che ha segnato la vita del Pd (su cui, ad onor del vero, nella prima fase della sua segreteria, Bersani tentò di intervenire, senza riuscirci).
Per comprendere la posta in gioco, nello scontro in corso, occorre dunque ricordare cosa prevede questo micidiale e distruttivo congegno: tutto si gioca sulle candidature, formalmente legate ad una piattaforma.
In una prima fase, agli iscritti spetta un solo, miserrimo compito: scremare le candidature, fino a ridurle (a certe condizioni) ad un massimo di tre. Poi si va alle primarie «aperte», ed entrano in gioco gli elettori. Nelle altre occasioni, un percorso durato circa sei mesi.
Ebbene, se queste sono le regole, la questione del calendario è una questione molto seria, su cui è sbagliato ironizzare.
Il problema è molto semplice: non c’è più propriamente un «corpo» del partito, alla fine vince chi riesce ad attivare la migliore circolazione «extra-corporea», ossia mobilitare risorse esterne al partito.
E qui entra in gioco l’analisi di quanto accaduto in questi anni: hanno perfettamente ragione quanti dicono che «la scissione c’è già stata».
Non si hanno dati precisi, ma decine, forse centinaia di migliaia, di iscritti se ne sono andati (del resto, cosa serve avere una tessera, se poi conta soprattutto la «gazebata» finale?).
Anche molti elettori se ne sono andati.
Le attuali minoranze del Pd sono prive, al momento, di una reale forza da spendere in questo scontro: l’unica possibilità che hanno è quello di provare a ri-mobilitare quella schiera di iscritti e di elettori che hanno abbandonato il partito in questi anni.
È un’impresa per certi versi disperata, ma che avrebbe comunque bisogno di alcuni mesi di tempo, per risultare credibile, suscitare una qualche speranza, e tentare di convincere quel popolo della sinistra che ricorda oggi un «volgo disperso», per dirla con Manzoni.
È vero che, grazie soprattutto al referendum, Renzi potrebbe aver perso una parte delle sue capacità espansive, e che, per altro verso, l’esito del referendum ha segnato una significativa ripresa di attività e di coraggio di una parte di quel popolo. Ma è un’impresa comunque ardua, perché il Pd renziano, in tutti questi anni, ha prodotto una rottura profonda: una radicale disconnessione sentimentale.
È davvero arduo pensare che tanta gente possa tornare ad appassionarsi alle sorti del Pd e dare una mano ai candidati delle minoranze.
Per questo, la partita che si sta giocando in queste ore è un gioco a somma zero, e siamo ad una stretta in cui comunque si impongono decisioni irreversibili.
Se le minoranze accettano di entrare in un percorso congressuale, tanto più se accelerato, rischiano di trovarsi dentro una trappola mortale.
Ma, per motivare adeguatamente una scissione, occorre fare emergere i veri nodi che si celano dietro la questione dei tempi.
Renzi vuole portare alle estreme conseguenze la logica che ne ha sempre guidato l’azione: una logica di clan, di tribù, intrinsecamente divisiva e proprietaria, incapace di concepire l’idea stessa di un partito come corpo collettivo, fondato sulla partecipazione democratica degli iscritti ed anche sulla mediazione all’interno dei gruppi dirigenti (una dimensione essenziale nella vita di un partito, che Renzi evoca in modo sprezzante e populista con l’immagine dei «caminetti»).
Ma occorre soprattutto fare emergere anche il tema di fondo: l’Italia non può non avere una sinistra, non può dilapidare l’eredità della storia del movimento operaio, socialista e comunista.
Ad una domanda, su cosa di «nuovo» potesse portare la sua candidatura alla guida della Spd, qualche giorno fa Martin Schulz ha risposto: «Nulla, la Spd da 150 anni dice le stesse cose».
Forse ha esagerato, ma recuperare l’orgoglio e la dignità di una storia, ecco, questa è forse la vera posta in gioco, e il primo passo da fare.
Nel video che circola in rete ormai da ieri, tre dipendenti di un supermercato di Follonica, di cui uno dall’altra parte dello smartphone che riprende, dileggiano due donne rom, rinchiuse nel gabbiotto in cui viene riposta la «merce difettosa», i rifiuti del negozio. E proprio come prodotti andati a male, vengono trattate le due donne, mentre urlano stipate e incredule tentando di aprire la porta che però rimane sbarrata. Oltre alla solita colata maleodorante di commenti sui social, e all’immancabile saltarci sopra del segretario leghista Matteo Salvini che propone assistenza legale agli autori del video casomai ne avessero bisogno, ciò che va in scena è una nuova grammatica del sadismo, sdoganata da un clima di violenza politica qui come oltreoceano.
«». Il PaesedelleDonne online, 24 febbraio 2017,
Trani – Fu un infarto a ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di San Giorgio Jonico scomparsa mentre lavorava all’acinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana. L’inchiesta, aperta all’indomani della denuncia da parte del marito e della Cgil, è arrivata a una svolta. Sei persone sono state arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato tranese Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro: la nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti. Se fosse entrata in vigore prima, probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto.
In carcere sono finiti Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che trasportava in pullman le braccianti fino ad Andria; il direttore dell’agenzia Inforgroup di Noicattaro, Pietro Bello, per la quale la signora lavorava; il ragioniere Giampietro Marinaro e il collega Oronzo Catacchio. Stessa sorte anche per Maria Lucia Marinaro e la sorella Giovanna (quest’ultima ai domiciliari). La prima è la moglie di Ciro Grassi, indagata per aver fatto risultare giornate fasulle di lavoro nei campi con lo scopo di intascare poi le indennità previdenziali, e la seconda avrebbe lavorato nei campi come capo-squadra.
Nel corso delle indagini furono acquisiti nelle abitazioni delle lavoratrici in provincia di Taranto carte e documenti in cui sarebbero emerse differenze tra le indicazioni delle buste paga dell’agenzia interinale che forniva manodopera e le giornate di lavoro effettivamente effettuate dalle braccianti. Dai documenti era emersa una differenza del 30 per cento tra la cifra dichiarata in busta paga e quella realmente percepita da alcune lavoratrici. Le braccianti sfruttate nei campi – secondo la Procura di Trani – percepivano ogni giorno 30 euro per essere al servizio dei caporali per 12 ore: dalle 3,30 del mattino, quando si ritrovavano per essere portate nei campi a bordo dei pullman, alle 15.30, quando ritornavano a casa dopo essere state al lavoro tra Taranto, Brindisi e Andria.
L’inchiesta non riguarda la morte della donna, sulla quale è in corso una consulenza di un docente di medicina del lavoro che dovrà accertare se vi sia stato nesso di causalità tra decesso e superlavoro, ma lo sfruttamento di Paola e di oltre 600 braccianti. Le vittime dello sfruttamento – secondo l’accusa – sono donne poverissime con figli da sfamare e mariti spesso senza lavoro, in molti casi ex lavoratori dell’Ilva di Taranto. Quello che più colpisce delle 302 pagine del provvedimento restrittivo è la straziante confessione di alcune braccianti, sfruttate e sottopagate dall’agenzia interinale.
Una donna racconta agli inquirenti che un giorno, sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, «alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro. Anch’io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e che perderlo è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile».
Un’altra fa mettere a verbale al pm Alessandro Pesce che «se fai la guerra perdi, perché il giorno dopo non vai più a lavorare». E una sua collega aggiunge: «Per noi 32 euro al giorno sono necessari per sopravvivere». Testimonianze coraggiose che commuovono il procuratore tranese Francesco Giannella: «Nell’indagine è emerso – spiega – che il caporalato moderno si è concretizzato esclusivamente attraverso l’intermediazione di un’agenzia interinale. E’ una forma più moderna e più tecnologica rispetto a quella del passato». Ma il motore che lo alimenta è sempre lo stesso:«L’assoluta povertà delle braccianti che vedono nei caporali i loro benefattori, anche se questi le sorvegliano pure quando vanno in bagno e bacchettano se non lavorano bene».
Paola Clemente, è emerso, era stata assunta da un’agenzia interinale ma non era stata sottoposta, o quanto meno non risulta, a una visita medica. Poi, la svolta. Dopo un’inchiesta di Repubblica e l’intervista al marito di Paola, la Procura di Trani decise di riesumare il cadavere. L’autopsia accertò che si era trattato di una “sindrome coronarica acuta”. La donna, stabilirono gli esami eseguiti dal medico legale Alessandro Dell’Erba con il tossicologo Roberto Gagliano Candela, era affetta da ipertensione (che stava curando) e da cardiopatia.
Durante l’ultima assemblea della Cgil a Taranto alla leader della Cgil, Susanna Camusso, fu consegnata una copia rilegata della legge in materia di contrasto al fenomeno di caporalato che il segretario generale della Cgil Bat, Giuseppe Deleonardis, volle dedicare proprio a Paola Clemente. La sua fu, ha ricordato, fu una battaglia a favore dei diritti dei lavoratori costretti a vivere nei ghetti e quelli vittime del caporalato, che ha portato a un’accelerata verso la stesura e l’approvazione della legge contro i caporali perché, disse, «se c’è un lavoro sfruttato e schiavizzato, c’è un impresa che sfrutta e schiavizza».
Immancabili le reazioni politiche. A cominciare da quella della presidente della Camera, Laura Boldrini, che spera che la nuova legge sul caporalato «si dimostri una risposta efficace per debellare una forma di schiavismo intollerabile». «La tragedia di Paola Clemente – dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina – è ancora viva in tutti noi e la nuova legge contro il caporalato ha segnato un punto di svolta».
la Repubblica, 24 febbraio 2017 (c.m.c.)
Cambiano vestito ma sotto c’è sempre lo stesso cuore nero. La raccolta del carico umano non la fanno più nella piazza ma in un ufficio con vetrine luccicanti e signorine sorridenti, mail garbate, furgoncini che profumano di nuovo. Sono schiavisti e si presentano come tour operator.
È il nuovo “caporale” dell’Italia nascosta, quello che si adegua ai tempi e sa che non può più andare all’alba giù in paese e mettersi davanti a tutti quelli che aspettano tremanti e dire «tu sì» e «tu no», tu lavori per me e tu fai la fame, «tu domani» e «tu mai». Come alla fiera del bestiame, solo che adesso il mercato degli animali è più pettinato, a prima vista regolare e legale, politicamente super-corretto. Senza quella manifesta violenza fisica e psicologica che li faceva sembrare tanto cattivi, tanto mafiosi. Ma sempre sfruttatori di sangue sono, vampiri che fatturano secondo stime per difetto 9 miliardi di euro l’anno, tre solo con il pomodoro. Sono sempre loro, come quando li ammassavano sul cassone di un camion per scaricarli poi in una vigna o in un orto, in un uliveto o in una serra.
Questa storia di Trani ci fa scoprire un Meridione che cambia e non cambia mai nei suoi abissi, dai campieri a cavallo ai campieri costretti dalla modernità a ripulirsi per continuare a trafficare con lavoratori in servitù totale. Solo i nomi sono diversi. Oggi è toccata a Paola, Paola Clemente, stroncata dalla fatica sotto un tendone nelle campagne di Andria. Ma quante sono le Paole di cui non sappiamo nulla e non sapremo mai nulla, le Paole che muoiono di fatica giù in Puglia o in Calabria, in Sicilia o in Campania? Solo quelle pugliesi - le braccianti donne - vittime dei caporali italiani sarebbero 40 mila. È come la mafia che non spara più e che si presenta conciliante e “affettuosa” per fare affari o dare lavoro. Mica lo fa con la lupara a tracolla o con il revolver infilato nella cinghia dei pantaloni. Fa la sua offerta, prendere o lasciare. Fuori è tutto in ordine, dentro tutto sudicio. Tour operator.
E cosa faceva prima Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che spostava quelle come Paola fino ad Andria o giù nel tarantino o verso Brindisi perché dividessero gli acini maturi da quelli ancora acerbi e non sviluppati? Faceva il “caporale” alla vecchia maniera, all’antica come era abituato a fare da una vita. Non ha mai trovato un altro mestiere. Si è solo emancipato nella sua specialità. Dalla conta mattutina nell’arena al patto con il direttore dell’agenzia interinale che ha il suo sito con “offerte di lavoro” e addirittura con “opportunità di carriera”, il ragioniere compiacente che sapeva tutto e giostrava con i contributi da far sparire, c’era pure una parente loro che poi nei campi faceva anche la caposquadra. La Kapò del vigneto.
Quelle come Paola stavano piegate fra pesticidi o l’inferno dei tendoni dodici ore per 30 euro, due euro e mezzo ogni sessanta minuti. Dalle tre di notte alle tre del pomeriggio. Ma ufficialmente le braccianti guadagnavano di più, il resto però - il trenta per cento circa - se lo prendevano i padroncini. Se lo dividevano.
Che differenza c’è mai fra questa schiavitù avvolta in carta patinata e quella rozza di più di mezzo secolo fa tra Eboli e Battipaglia, fra l’agro napoletano e i feudi sterminati dei conti e dei marchesi giù in Sicilia? Sempre mercato di braccia e di corpi, di soprusi e di “soprastanti” anche se nessuno li chiama più così ma così sono ancora. Il cuore nero.
Negli ultimi anni abbiamo raccontato le vicende degli schiavi che si muovevano di regione in regione inseguendo i raccolti di frutta e verdure dalla Sicilia alla Puglia, dal casertano ai giardini di arance della Piana di Gioia Tauro. Abbiamo raccontato la “caccia al nero” del 2010 sulle strade fra Rosarno e Gioia Tauro, quando la popolazione locale ha imbracciato le armi contro i senegalesi e gli ivoriani e i ghanesi che non ne potevano più di morire di freddo e di fame. E poi le tragedie dei bulgari, dei romeni, dei lituani, degli slovacchi che sopravvivevano nelle baraccopoli della Capitanata e ogni tanto morivano e ogni tanto si ribellavano. Come quei tre ragazzi polacchi di vent’anni - Arkadiusz e Wojcech e Bartosz - che un giorno d’estate del 2006 hanno fatto scoprire il racket del Tavoliere.
Ma ci mancava in questa miserabile lista il mediatore losco provvisto di licenza di “noleggio e trasporto persone con conducente” che viene contattato da una grande società del Nord, con sede al centro di Milano e che ha i suoi referenti in ogni piccola e grande città del Sud. Questa società come altre agenzie di collocamento sono tutte senza un pelo fuori dalla legge, buste paghe apparentemente regolari, firme e controfirme, le carte sempre a posto. Poi qualcuno non ce la fa più. Capita. Poi qualcuno muore. Capita.
«I vescovi e la ministra contro le assunzioni Ma altre regioni sono pronte a seguire il Lazio»A una buona azione corrisponde subito una cattiva reazione... reazionaria.
la Repubblica, 23 febbraio 2017
Prima la Cei, poi la ministra alla Sanità. Sul concorso del San Camillo di Roma per l’assunzione di due ginecologi obiettori di coscienza piovono le critiche del Vaticano e del governo. «Si snatura l’impianto della 194 che non aveva l’obiettivo di indurre all’aborto ma prevenirlo. Predisporre medici appositamente a questo ruolo è una indicazione chiara», dice don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. Beatrice Lorenzin, che ieri era a Bruxelles e che qualche mese fa era intervenuta alla Camera sullo stesso tema parlando di modalità di reclutamento discriminatoria, ha aggiunto: «È evidente che abbiamo una legge che non prevede questo tipo di selezione. Dà invece la possibilità, qualora una struttura abbia problemi di fabbisogno, per quanto riguarda singoli specifici servizi, di poter attingere anche in mobilità da altro personale. Tra l’altro quando si fanno assunzioni e concorsi non mi risulta che ci siano parametri che vengono richiesti».
Quello che ha fatto il Lazio viene osservato con interesse dalle altre Regioni, in particolare quelle in difficoltà ad assicurare l’interruzione volontaria di gravidanza per carenza di non obiettori. «Non sono convinto della tenuta giuridica dell’atto, che probabilmente sarà impugnato. Ma se si dimostrasse legittimo seguiremmo di sicuro la stessa strada», dice Baldo Guicciardi, assessore alla Salute della Sicilia. Apertura anche dal Molise, che ha il record di obiettori (più di 9 su 10). «Abbiamo 312mila abitanti e per ora con un medico strutturato rispondiamo alla domanda — spiega il presidente Paolo di Laura Frattura — Se però ci trovassimo in difficoltà, il concorso potrebbe essere una strada». Dalla Puglia sono più scettici. «Assunzioni con quei presupposti non si possono fare. La soluzione sta nel convenzionarsi con specialisti esterni non obiettori. Grazie a loro per ora sopperiamo alle carenze». La posizione è simile a quella delle Marche, mentre dalla Basilicata fanno sapere che in questo momento non c’è spazio per le assunzioni, vista la crisi del sistema sanitario: «E poi avremmo più bisogno di anestesisti ». L’assessora toscana Stefania Saccardi, invece, non pensa al concorso dedicato perché «i nostri dati sono buoni, abbiamo abbastanza non obiettori e gli aborti sono in netto calo». Dalla Lombardia invece arriva un forte no della Lega all’idea del Lazio. Il sindacato dei ginecologi, la Fesmed, non critica l’impostazione del concorso. «Quello si può fare in quel modo — dice il presidente Giuseppe Ettore — Ma dopo, se chi ha vinto cambia idea è impossibile allontanarlo come minaccia di fare il Lazio, perché quel professionista ha diritto di diventare obiettore quando vuole. Un giudice gli darebbe ragione».
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Il governo: “È evidente che abbiamo una norma che non prevede questo tipo di selezione”
i lavori in corso in questo così denso fine settimana, è questa». Huffington Post, 19 febbraio 2017
L’infinita soap-opera del Pd non ha dalla sua dei buoni sceneggiatori: né fra i protagonisti, né fra gli osservatori. A una classe politica che oscilla fra il non dare il meglio e il dare il peggio di sé fa riscontro un coro di cronisti e commentatori che oscillano a loro volta fra la foga di descriverla come un covo di vipere velenose e l’ansia di scongiurare una scissione che sarebbe al meglio incomprensibile, al peggio devastante. Il bilancio della parabola del Pd – dieci anni non ancora compiuti e vissuti molto pericolosamente – pencola infine fra quello di un partito mai nato, di una miscela mal riuscita e di un progetto mai decollato, a quello di un bene prezioso e irrinunciabile, dell’unico superstite del riformismo europeo, dell’ultima barriera della civiltà contro l’invasione dei barbari pentastellati o trumpisti.
Tutto questo non aiuta a capire se c’è, e qual è, la posta della partita che si sta giocando – malamente – nel Pd, ma anche fuori dal Pd: sono aperti altri cantieri, in primis quello del congresso di fondazione di Sinistra Italiana, e intanto non smobilitano le reti dei comitati nati a sostegno del No al referendum costituzionale. Si può continuare a guardare tutto questo come una commedia recitata da attori di second’ordine, con le batterie cariche di personalismi, ambizioni, rivincite e rancori incrociati. Oppure si può fare uno sforzo di generosità – ce ne vuole parecchia, lo so – e alzare, quantomeno, l’asticella delle aspettative e delle richieste, sperando che serva ad alzare anche quella delle risposte.
Lascerei perdere, intanto, gli scongiuri. Il fantasma delle scissioni perseguita la sinistra, e l’invocazione dell’unità la alimenta, da quando è nata. Già questa storica altalena dovrebbe dire qualcosa di un problema evidentemente malposto. Non sempre la convivenza forzata è sinonimo di unità, e non sempre le divisioni sono foriere di sciagura. Non sempre l’unità è garanzia di un’identità riconoscibile, e non sempre le differenze condannano alla frammentazione. Un’articolazione non settaria delle differenze è ciò che da sempre manca alla sinistra e alla forma-partito disciplinata e disciplinare da cui la sinistra, fra mille trasmutazioni che della forma-partito hanno buttato il bambino tenendosi l’acqua sporca, non è mai riuscita a emanciparsi davvero.
Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Stiamo all’oggi: è possibile guardare a quello che sta capitando non come un a un destino di disgregazione, ma come a un’occasione di ricomposizione? E’ possibile pensare che sia questa, e non la solita “resa dei conti” fra narcisi (uomini) in guerra fra loro la posta in gioco della situazione? E’ possibile guardare all’eventualità che il Pd si spezzi definitivamente come a un elemento di maggior chiarezza, e non maggior cupezza, del quadro?
Tutto dipende, naturalmente, dal giudizio che dell’avventura targata Pd si dà. Lo scongiuro della scissione muove evidentemente da un giudizio positivo, o meglio dalla convinzione che, ben realizzato o no, il progetto del Pd fosse, dieci anni fa, la risposta giusta al problema.
Varrebbe la pena ricordare che dieci anni fa “il problema” era assai diverso da quello di oggi: in Italia c’era un bipolarismo che pareva definitivo; la crisi mondiale del debito si annunciava – non vista, al Lingotto - ma non aveva ancora messo in crisi il pensiero unico neoliberale; l’opera di sistematico smantellamento delle tradizioni politiche europee novecentesche, e segnatamente di archiviazione del bagaglio concettuale della sinistra, era al suo apice; l’America era ancora, per quelli che si volevano emancipare dal complesso di colpa per essere stati comunisti a loro insaputa, un mito progressista, e l’aggettivo “democratico” un passepartout per risolvere qualunque dilemma del presente e del futuro. Si innamorò di quel progetto chi voleva una sinistra light, liberata da qualunque istanza di critica anticapitalistica, completamente risolta nell’interiorizzazione del paradigma liberaldemocratico come unico orizzonte possibile.
Era un innamoramento malriposto. Ma non solo per la perenne incompiutezza che avrebbe da allora in poi caratterizzato “l’amalgama mal riuscito”, bensì per i suoi difetti genetici. Un difetto di identità, perché dalla somma di due tradizioni indebolite non nasceva una cultura politica riconoscibile. Un difetto di struttura e di radicamento, perché il partito dei gazebo e delle primarie portava in sé l’embrione del partito personale del leader. Un difetto di progetto, perché la bandiera dei diritti, separata dalla critica dei poteri, si sarebbe rivelata ben presto una strada aperta al loro smantellamento più che al loro allargamento. Un difetto perfino nel nome, perché già allora era chiaro – non c’era ancora Trump, ma Berlusconi sì – che l’aggettivo “democratico”, in un Occidente in cui la democrazia si sfigurava partorendo mostri, non era la soluzione ma il problema. Un difetto, infine, di presunzione, in quell’ostinata idea, tutt’ora perdurante, che il Pd fosse “il partito della nazione” (il termine risale ad allora) che rappresentava e incorporava i destini dell’Italia. Il difetto stava dunque nel progetto, non nella sua cattiva realizzazione. Il seguito della vicenda l’ha solo aggravato, fino all’esito, estremo ma coerente, della scalata di Matteo Renzi, con la iper-personalizzazione della leadership e la rottamazione di ogni residua cultura politica che l’hanno caratterizzata.
Ma nel frattempo, soprattutto, si è rovesciato il mondo, ed è collassato il sistema politico italiano. Le sorti della globalizzazione non sono più magnifiche e progressive. La crisi del capitalismo finanziario ha smontato da sola le ricette neoliberali, con o senza lo zuccherino delle “terze vie” blairiane. La destra ha cambiato natura e da liberista si è fatta protezionista. I nazionalismi risorgono sotto la bandiera illusoria del sovranismo. E i popoli spremuti dalla crisi e, in Europa, dall’austerity si danno voce come possono e con chi trovano, sui una sponda e sull’altra dell’Atlantico: e tanto peggio per chi ha aspettato Trump per accorgersene, liquidando quattro anni fa il M5S a fenomeno effimero e transeunte e pensando di riportare il tripolarismo in un bipolarismo forzato a colpi di leggi elettorali incostituzionali e di riforme costituzionali sonoramente bocciate.
Articoli di Michele Prospero, Aldo Carra, Tonino Perna. Ma serve una nuova sinistra, oppure un modo nuovo di pensare - e quindi di fare - Politica?
il manifesto, 22 febbraio 2017
«Le radici del fallimento del Pd risiedono nelle scelte originarie del Lingotto, a favore di un partito incolore e senza classe. Con la benedizione di Marchionne»
Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.
Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.
Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe. La sua identità era fissata nel maggioritario e nelle primarie. Un collante fittizio che non poteva durare. Ci sono componenti del vecchio Pci che nell’amalgama si sentono a loro perfetto agio. Sono i notabili del partito degli eletti. Fassino, Chiamparino e Renzi, che si contendono la benedizione di Marchionne, costituiscono un amalgama riuscito. I vecchi miglioristi si trovano bene con il rottamatore visto come un modernizzatore. E Poletti è l’espressione di un tradimento delle ragioni sociali dello stesso riformismo emiliano che cede di schianto al fascino padronale del renzismo.
Per chi non si rassegnava a questa resa ingloriosa la rottura era inevitabile. La differenza tra Veltroni e Renzi non è nei principi, cioè nella visione aconflittuale del mondo, nella esaltazione dell’impresa, che è comune. Nemmeno nella cultura istituzionale e politica c’è una frizione: entrambi sognano il presidenzialismo e inseguono le primarie come unzione mistica in un partito liquido. Non a caso i media e i poteri economici che sostengono Renzi sono gli stessi che hanno accompagnato l’ascesa di Veltroni.
Quale è allora la differenza? Con l’alleanza capitolina tra il mattone e l’immaginario, tra le notti bianche e il cemento nero della città infinita del degrado speculativo, Veltroni aveva costruito le basi per la leadership nazionale. Il suo però non era ancora un partito personale, cioè si basava sul soccorso dei poteri forti, ma il leader non aveva costruito un potere economico autonomo. Con la sconfitta politica abbandonò per questo lo scettro.
Le fondazioni, le donazioni dei poteri finanziari, l’influenza del comitato d’affari della piccola borghesia toscana, specializzata nel cucire rapporti con banche e imprese all’ombra delle istituzioni conquistate, assicurano invece al leader un capitale a sua disposizione per edificare un partito personale che non obbedisce a canoni solo politici. Per questo tratto proprietario-personalistico del Pd non è stata ordinata la sola operazione politica decente dopo il clamoroso plebiscito: licenziare il capo di un non-partito, odiato dal popolo.
Il Pd salta, oltre che per il rifiuto delle degenerazioni di un partito personale, per altre due ragioni. La prima è la grande crisi economica alla quale il Pd risponde con il Jobs Act. Cioè con la potenza illimitata del capitale, padrone assoluto della vita del lavoratore, costretto a vagare in solitudine, e privo di diritti, tra i fantasmi della concorrenza. Già con Veltroni (emblematica fu l’operazione Calearo) il Pd aveva rinunciato ad ogni radicamento nel mondo del lavoro. Con Renzi la rottura è però definitiva e totale perché simbolico-culturale-giuridica. Dopo il Jobs Act si rompe la coalizione sociale del Pd, partito dei Parioli. E la prima area a saltare fu l’Emilia Romagna, con la diserzione di massa delle consultazioni regionali.
La seconda causa della catastrofe del Pd risiede nell’attacco alla costituzione. Il plebiscito di dicembre, convocato per consolidare il potere personale sulle tracce di uno scivolamento populistico e autoritario, ha segnato una cesura storica irreparabile. Ad essa il Pd reagisce con la provocazione della accelerazione verso i riti della nuova incoronazione mistica del capo caduto nel baratro.
Non serve a nulla evocare i demoni del ‘900 di fronte a ribelli che impugnano le armi per garantire la continuità del governo. Proprio questa aporia, di una rivolta per la stabilità, consiglia di gestire con accortezza tattica i tempi delle sinistre, variamente collocate nella gestione dei passaggi parlamentari, senza le accelerazioni perniciose. Organizzare il proprio campo, e al tempo stesso aprire con duttilità alla gestione delle sfide elettorali con una strategia aperta e condivisa: questo è il ruolo di una sinistra plurale che, pur nella differenza dei percorsi, non rinuncia a una vocazione egemonica.
La domanda di Gramsci deve sempre risuonare nei soggetti della sinistra, in tempi di crisi: come non diventare momenti che contribuiscono, loro malgrado, alla decomposizione generale. Una sinistra plurale nei profili organizzativi deve essere capace però di esprimere una convergenza, soprattutto se la legge elettorale la rende di fatto necessaria, come al senato. Una grande coalizione costituzionale, capace di lanciare una credibile alternativa, smentirebbe i censori che, dopo l’implosione del Pd, pronosticano un inevitabile trionfo del M5S.
Il terreno per le destre e il M5S sarebbe in discesa proprio se il Pd rimanesse ostaggio della follia renziana. Una sinistra plurale, non deviata dalla ossessione di trovare immediate soluzioni organizzative, può contendere il consenso ai tre populismi in scena e fare di lavoro e costituzione le bandiere di una ricostruzione democratica.
L’ORIZZONTE NON SI VEDE ANCORA
di Aldo Carra
«Dopo il 4 dicembre. Una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica»
Esattamente un anno fa con Cosmopolitica decollava il tentativo ambizioso di superare Sel per costruire una sinistra nuova e più larga. Adesso è nata Sinistra Italiana, alcuni promotori hanno deciso di fare altro, il Pd sta deflagrando e nel cielo europeo e mondiale si addensano nubi preoccupanti. Sembra passato un secolo. La storia corre e la sinistra annaspa. Come ha scritto Revelli siamo dentro un processo entropico: ogni giorno il quadro cambia e ogni pezzo non sta più né dove stava ieri, né dove pensavamo dovesse stare oggi. Alzare la testa per vedere meglio quel che accade fuori e lontano da noi: questo è il suggerimento che se ne ricava.
Giusto, ma non basta.
Perché il terreno sottostante, frana e se non si sta con i piedi per terra e in movimento, si rischia di restare intrappolati nelle sabbie mobili. Mai come oggi, quindi, dobbiamo muoverci nell’oggi scrutando l’orizzonte lontano e seguendo la direzione giusta.
All’orizzonte c’è la fase terminale dello sviluppo capitalistico, la sua mutazione genetica dalla produzione materiale di beni e servizi per soddisfare bisogni delle persone alla produzione virtuale di finanza per soddisfare le leggi di sopravvivenza della finanza stessa.
Ma ci sono all’orizzonte anche mutazioni straordinarie indotte dall’evoluzione tecnologica. Le macchine sostituiscono l’uomo e ne mutano il destino: o liberazione dal lavoro o dominio finanziario e tecnologico e nuova schiavitù dell’uomo, ridotto a scarto. Il progresso creato dall’uomo gli si rivolge contro. Problemi spaventosi stanno davanti a noi. Altro che sinistra moderata o radicale, campi larghi o orticelli, il destino di Renzi e quello della Raggi… Epperò.
Epperò dobbiamo agire nel presente per costruire il futuro. Il 4 dicembre rappresenta il punto di svolta di una tendenza pluriennale della politica italiana: l’idea che la governabilità è più importante della rappresentanza, la vocazione maggioritaria come diritto di una minoranza che non riesce a conquistare la maggioranza dei consensi popolari a diventare maggioranza per legge, un Partito incolore che, assemblando componenti storiche diverse, pretende di diventare il centro unico del sistema politico e poi, come evoluzione naturale, il passaggio dal partitone solo al comando all’uomo solo comando.
La riforma costituzionale e la legge elettorale non erano che il punto di arrivo di questa pericolosa perversione democratica. La risposta negativa degli italiani è stata la pietra tombale su quel progetto.
Quindi una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica.
Al congresso di Rimini abbiamo visto tanti giovani, una bella discussione, tanto entusiasmo. Quelli che chiamammo cosmopolitani tentano di dare l’assalto al cielo. Ma l’orizzonte non si vede ancora.
A diradare la nebbia di cui ha parlato Cofferati, penserà il tempo. Serve, però, che le tante energie che si sono mobilitate nel referendum provino a soffiare insieme. Per aiutare il vento della storia.
QUALCOSA SI MUOVE
MA ABBIAMO UN PROBLEMA,
IL LEADER CHE NON C’È
di Tonino Perna
«Sinistra. Ci servirebbe un Alexis Tsipras capace di cucire le diverse anime in un paese con una tradizione di scontro nella sinistra storica e nuova»
«C’è vita a sinistra» scrive Norma Rangeri nel suo editoriale sul nuovo scenario politico italiano. Dovremmo dire «Grazie Renzi» perché se non avesse sofferto di onnipotenza, attaccato la Costituzione per un plebiscito personale e giocato il tutto per tutto, non avremmo visto questo risveglio. Ma abbiamo di fronte una grande questione anche se facciamo finta che non esista.
In una recente intervista su questo quotidiano Rossana Rossanda ad un certo punto faceva un’osservazione che, a mio avviso, è centrale in questa fase storica: «Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona a cui collegarsi che un’idea.
Ripenso a quando, all’inizio della storia del manifesto, noi 3 o 4 più in vista, sicuramente avevamo molto difetti, ma non la superbia del personalismo». In queste poche battute è racchiuso un passaggio epocale.
Ricordo che una decina di anni fa, a cena conversando con la giornalista e scrittrice Adele Cambria, una persona che ha dato tanto al femminismo quanto alla mia terra, le esposi le ragioni e gli obiettivi della nascente Sinistra Euro Mediterranea, e lei mi chiese, gelandomi: ma il leader chi è?
Nella rivoluzione culturale del ’68, come nelle lotte sociali degli anni ’60 e ’70, c’erano tanti leader di movimento, di gruppi e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare, ma l’adesione ad un movimento o a un partito avveniva sul piano ideologico prima di essere il frutto di una identificazione personale.
Anche nel grande Pci sicuramente Togliatti aveva un carisma ed una naturale leadership che non aveva Longo, ma non per questo il partito si dissolse alla scomparsa del «Migliore».
Oggi, anche se non ci piace, la gran parte delle nuove forze politiche si costruisce sulla figura del leader che a sua volta è in buona parte modellato dai mass media.
Per l’appunto è quello che Mauro Calise ha chiamato Il partito personale così come ha recentemente intitolato il suo ultimo saggio La democrazia del leader, una forma di democrazia che non ci piace affatto ma con cui dobbiamo fare i conti.
Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso c’è stato un mutamento culturale radicale già intuito e denunciato con grande acume da Christopher Lasch nel testo che lo ha reso famoso, La cultura del narcisismo, accompagnato da un sottotitolo profetico: «L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive».
È in questa dimensione esistenziale che la ricerca del leader come punto di riferimento manifesta, allo stesso tempo, il bisogno di una guida che dia un orizzonte ed una speranza in un’epoca di «disillusioni collettive» ed il bisogno di fuggire dalla propria responsabilità/ impegno per cambiare la società.
La creazione di un partito o forza politica della Sinistra non potrà non porsi questo problema, che può anche essere affrontato nella sua migliore accezione. Vale a dire: la ricerca di un leader capace di cucire le diverse anime, culturali prima che politiche, del nostro paese. Con alcuni valori forti quali l’uguaglianza, la solidarietà, la pace ed il rispetto della natura.
È quello che hanno fatto Syriza ed il suo leader Alexis Tsipras in un paese con una tradizione di scontro tra le diverse anime della sinistra storica e nuova.
Ed è quello che ci auguriamo nasca anche nel nostro paese, ma che non può essere il frutto di meri accordi di vertice. D’altra parte, sappiamo bene che una forza autenticamente di sinistra nasce all’interno della sfera sociale, nelle forme dell’altreconomia e, soprattutto, nei momenti storici di mobilitazione e conflitto.
Il periodo migliore di Rifondazione comunista seguì ai fatti di Genova del luglio 2001.
In quel violento scontro, carico di torture, pestaggi e violazioni dei diritti umani fondamentali, nacque una generazione politica nuova che riempì le file di quel partito che Fausto Bertinotti, ultimo leader della sinistra radicale, aveva aperto al movimento Noglobal, che marciava contro i Grandi del G7.
Per questo la ricerca di un leader-regista, capace di unire e portare a sintesi le diverse spinte non può prescindere dalla costruzione di movimenti dal basso che lottano e si impegnano, sul piano locale-globale, nella costruzione di una cultura ed una pratica quotidiana alternativa a questa società capitalistica sempre più distruttiva dei legami sociali e degli ecosistemi.
doppiozero, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
«L’astrazione oggi non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale o una sostanza. È piuttosto la generazione di modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale. Il territorio non precede più la mappa, né vi sopravvive. […] È la mappa che precede il territorio – precessione dei simulacri – è la mappa che genera il territorio […]. L’età della simulazione comincia con l’eliminazione di tutti i referenti – peggio: con la loro resurrezione artificiale in un sistema di segni, che sono una materia più duttile dei significati perché si prestano a qualsiasi sistema di equivalenza, a ogni opposizione binaria, e a qualsiasi algebra combinatoria. Non è più una questione di imitazione, né di duplicazione o di parodia. È piuttosto una questione di sostituzione del reale con segni del reale; cioè un’operazione di cancellazione di ogni processo reale attraverso il suo doppio operazionale. […] sarà un iperreale, al riparo da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo per la ricorrenza di modelli e per la generazione simulata di differenze.» (Simulacres et simulation)
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni: «Al momento i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. (…..) Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo, il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti: «Mia madre chiese: che cosa vogliono da te? Risposi: paura. Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
Da dove partire? “Anche dalla cura delle parole, dal restituire alle parole il loro significato, iniziando dalla parola ‘sinistra’. Per farlo, oggi, ci vuole coraggio”. Da Nichi Vendola, nel suo splendido intervento in chiusura di congresso, arriva anche questo prezioso consiglio ai naviganti di Sinistra italiana, entrati nel mare della politica (non solo) italiana con l’entusiasmo di chi parte per un viaggio liberatorio, anche se faticoso e pieno di rischi.
Sanno di avere di fronte una società disillusa, in gran parte convinta che la politica non possa migliorare (anzi…) la vita quotidiana. E non basta una parola, per giunta abusata ogni giorno a destra e a manca. “Dobbiamo fare il nostro mestiere – avverte quindi Nicola Fratoianni – perché di fronte alla situazione in cui versa questo paese, o si cambia in modo radicale o non c’è partita”. E radicale, spiega Piero Bevilacqua annunciando l’adesione al nuovo partito, significa “profondo”: “E’ un termine che non viene da Marco Pannella. Viene da Carlo Marx”.
Il documento finale del congresso sottolinea: “Quello che oggi scegliamo, a Rimini, non è ricostruire la sinistra che non c’è più, ma costruire una sinistra che non c’è mai stata”. Per specificare il concetto, l’intervento di Vendola aiuta: “Il centrosinistra, l’Ulivo, sono state esperienze collegate a una globalizzazione che sembrava potesse offrire delle opportunità. Si sono schiantate, perché è schiantata la base sociale che li sosteneva. Mi dispiace per i compagni e le compagne che se ne vanno. Ma per me oggi la cosa fondamentale è la bussola, e la rotta da seguire”. Scegliendo un’autonomia culturale e politica legata a quello che vuol dire essere di sinistra: “Non dobbiamo mai separarci dalla dimensione della lotta per la trasformazione della società”.
Nell’elezione di Fratoianni e del gruppo dirigente di Sinistra italiana – 503 sì, 32 contrari, 28 astenuti, un centinaio di assenti dall’inizio o al momento del voto – c’è la fotografia di una platea di delegati e delegate che ha portato in trionfo la giovane ex sindaca di Molfetta, Paola Natalicchio: “Chiedo a Fratoianni di lavorare all’unità della sinistra italiana e non solo di sinistra italiana. Di mettere insieme i pezzi per una alternativa di paese. E di capovolgere la piramide: perché la sensazione di un partito calato dall’alto in questi mesi è stata forte, e come dirigenti dobbiamo farci carico e promuovere un rovesciamento del processo. Giriamo il paese, solo un bagno di realtà ci può distrarre da questa storia di D’Alema e di Emiliano”.
Unità e umiltà, come scandito nell’assemblea di Podemos, con le immagini proiettate nell’auditorium e con Pablo Iglesias che ripete più volte: “Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società”. Di qui le prime mosse del partito: con l’adesione alla Sinistra europea; con “i 500 comitati unitari da costruire subito” per i referendum della Cgil contro i voucher e la giungla di appalti e subappalti senza diritti. Comitati come quelli per i referendum costituzionali, ricordati da Martina Carpani (Rete della conoscenza) come un essenziale momento formativo per i giovani che si affacciano alla politica. E poi il sostegno, concreto, a migranti, rifugiati e richiedenti asilo nella giornata delle manifestazioni in tutto il continente. E ancora l’8 marzo per ‘Non una di meno’.
Quanto ai movimenti del quadro politico, pronti a discutere con tutti. Ma non con il cappello in mano. Anzi: “Se la scissione nel Pd dovesse portare a nuovi gruppi parlamentari – ammonisce Fratoianni – vorrei vedere cosa faranno se si dovesse votare la fiducia al governo Gentiloni”. A rispondergli, poche ore dopo, sarà il dem uscente Enrico Rossi a RaiNews: “Ci sarà, a quanto mi risulta, un gruppo formato da chi esce dal Pd e chi esce da Sinistra italiana, ma sosterrà il governo Gentiloni”. Già lo immaginava Stefano Fassina: “Non siamo l’organizzazione giovanile di D’Alema e Bersani. Abbiamo già dato, diciamo”. Così come, guardando a Pisapia, Pippo Civati ha replicato: “Vedo che chi ha votato Sì al referendum costituzionale si propone di organizzare chi ha votato No”.
L’ultimo intervento del congresso è stato quello di Luciana Castellina. Che, rispondendo a Eugenio Scalfari, ha chiosato: “Da una parte i ‘civilizzati’, tutti insieme, a difendere una democrazia svuotata. Dall’altra i ‘barbari’ che bussano alle porte. Noi dovremmo stare con i barbari. Perché lì c’è un pezzo del nostro popolo”.