La nuova legge elettorale porrà alle vaganti sinistre problemi nuovi: è necessaria la ricerca non solo di identità ma anche di alleanze.
il manifesto, 16 marzo 2017
Molti protagonisti della scena pubblica stentano ancora a comprendere quanto profondamente cambierà lo scenario competitivo con l’adozione di un sistema proporzionale (quali che siano le varianti che potranno essere introdotte).
Cambia innanzi tutto il modo stesso con cui ciascuna forza si rivolge agli elettori. Agli elettori si dovrà dire: «Dateci più forza per sostenere le nostre idee», ma anche – ecco il punto – «per poter meglio contrattare un programma di governo», qualora – come è fisiologico che accada in una democrazia parlamentare – fosse necessaria una trattativa per la formazione di una maggioranza.
Un approccio totalmente diverso da quello del passato, che può modificare i comportamenti degli elettori rispetto a quelli attesi.
Ma anche una logica che potrebbe avere alcuni benefici effetti sulla qualità stessa del dibattito politico, permettendo che si torni a discutere nel merito delle scelte programmatiche e sulla loro compatibilità (così come comincia ad accadere in Germania, dove le posizioni di Schulz stanno aprendo nuove possibilità di dialogo con Die Linke).
Tutto ciò emerge chiaramente se guardiamo a quanto accade nell’area del centrosinistra. Dalle giornate del Lingotto, nulla è emerso circa la strategia del Pd: diverse ipotesi sono state fatte balenare, dalla coalizione “anti-populistica” aperta alle forze moderate fino ad alcune più o meno vaghe ipotesi di rilancio del centrosinistra.
Fallita la via del partito auto-referenziale che, grazie all’Italicum, poteva sperare di concentrare tutto nelle proprie mani, rimane un vuoto strategico: il Pd è privo di una qualsivoglia strategia coalizionale.
Lo schema di gioco neocentrista immaginato mesi fa (il corpaccione del Pd con due appendici a destra e sinistra) è saltato, grazie alla meritoria separazione della sinistra del Pd e grazie anche alle precisazioni che Pisapia ha introdotto nelle sue posizioni.
Questo vuoto strategico del Pd viene alimentato dall’incertezza sulla possibile riforma elettorale: si proverà a estendere alla Camera la possibilità di coalizioni, attualmente prevista solo al Senato?
E’ possibile che prevalga questa idea, così come è probabile che il Pd si batta per conservare la soglia del 40% per l’assegnazione del premio di maggioranza. Ma questa regola assumerà più che altro il valore di un possibile incentivo al “voto utile”: nessuno pensa che sia un tetto realisticamente raggiungibile. E molte cose potranno ancora accadere, nel Pd o intorno al Pd.
Se anche si tornasse alle coalizioni, come pensa il Pd di potersi attrezzare: inventandosi forse una “copertura” di comodo a sinistra? E non potrebbe invece accadere che debba essere superata quella identificazione tra segretario e premier, che Renzi, come se nulla fosse, ha presuntuosamente rilanciato?
Questo diverso scenario pone molti problemi anche per tutta la galassia a sinistra del Pd.
Sarebbe letale, per queste forze, se si pensasse che il “proporzionale” garantisca a tutti la coltivazione tranquilla del proprio spazio e che si possa fare a meno di costruire una qualche offerta politica unitaria e credibile.
Intanto perché superare una soglia d’accesso al 3% (o più alta, come attualmente quella del Senato) non è facile. Ma soprattutto perché anche con un “proporzionale” scattano particolari meccanismi che agiscono sul voto degli elettori. Solo una piccola parte di questi si accontenta di un voto di pura testimonianza: si vota molto più volentieri per una forza che sia consistente e, soprattutto, che possa “contare” nella dinamica parlamentare.
Se l’elettore di sinistra si troverà di fronte ad una sconfortante scelta tra tre o quattro liste diverse, è molto probabile che non ne scelga nessuna…; e anche quella quota di elettori del M5S che si dichiarano di sinistra saranno ben poco incoraggiati a cambiare opzione.
E’ bene, dunque, mettersi subito al lavoro: le elezioni non sono poi lontane, e i cartelli elettorali improvvisati all’ultimo momento sono poco credibili.
Occorre impiegare i prossimi mesi per costruire una strategia unitaria, coinvolgendo tutte le forze che stentano a riconoscersi in questa o quella sigla, e valorizzando le energie emerse durante la campagna referendaria.
Lo spazio per una forza ampia e radicata, “a doppia cifra”, c’è tutto. Ma, per questo, occorre anche un discorso politico netto: occorre proporsi come una forza che ridia voce ai valori della sinistra, che non si inchiodi a qualche formula astratta di coalizione, ma che non abbia alcun timore di proporsi come forza di governo; e che si metta in gioco, con le proprie idee e la propria autonomia, forte del consenso che gli elettori potranno dargli.
Non è più tempo per le battaglie di bandiera, o per la difesa di alcune ridotte di frontiera
esto estratto da "L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno
" che raccoglie tre lezioni tenute a Tokyo nel 1986». la Repubblica, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
Gli antropologi hanno molto da dire sulla procreazione artificiale, perché le società da loro studiate si sono poste tali problemi e hanno elaborato alcune soluzioni. Queste società, è vero, ignorano le tecniche moderne di fecondazione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrione, di trasferimento, impianto e congelamento. Ma hanno immaginato e messo in atto formule equivalenti, almeno dal punto di vista giuridico e psicologico.
Permettetemi di fare qualche esempio. L’inseminazione grazie a un donatore ha il suo equivalente in Africa, presso i Samo del Burkina Faso. In questa società, ogni ragazza si sposa molto giovane, ma prima di andare a vivere con suo marito deve, per tre anni al massimo, avere un amante scelto da lei e ufficialmente riconosciuto come tale. Poi porterà al marito il primo figlio, nato dall’unione con l’amante, che sarà considerato il primogenito dell’unione legittima. Da parte sua, un uomo può avere più mogli legittime ma, se queste lo lasciano, egli rimarrà giuridicamente il padre di tutti i bambini che esse metteranno al mondo successivamente.
In altre popolazioni africane, il marito vanta un diritto anche su tutti i figli futuri, a condizione che tale diritto venga nuovamente sancito, dopo ogni nascita, dal primo rapporto sessuale post partum. Il rapporto designa l’uomo che sarà il padre legittimo del prossimo bambino. Un uomo sposato con una donna sterile può anche, dietro pagamento, accordarsi con una donna feconda perché questa lo faccia diventare padre. In questo caso, il marito della donna sterile è il donatore di seme, e la donna “presta” il suo ventre.
Presso gli indios Tupi-Kawahib del Brasile, che ho visitato nel 1938, un uomo può sposare simultaneamente o in successione più sorelle, oppure una madre e la figlia nata da una precedente unione. Queste donne crescono in comune i loro figli senza preoccuparsi affatto, mi è sembrato, del fatto che il bambino di cui si prendono cura sia il proprio o quello di un’altra delle spose del marito. La situazione simmetrica prevale in Tibet, dove più fratelli hanno in comune la stessa sposa. Tutti i figli sono attribuiti al primogenito, che viene chiamato “padre”, mentre gli altri mariti vengono chiamati “zio”. In questi casi, la paternità o la maternità individuale sono ignorate o non se ne tiene conto.
Torniamo in Africa, dove i Nuer del Sudan assimilano la donna sterile a un uomo. In qualità di “zio paterno”, questa riceve dunque il bestiame che rappresenta il “prezzo della fidanzata” (in inglese bride price) pagato per il matrimonio delle sue nipoti, e se ne serve per comprare una sposa che le darà dei figli grazie ai servizi remunerati di un uomo spesso straniero. Presso gli Yoruba della Nigeria, le donne facoltose possono acquistare delle spose, obbligandole ad avere rapporti con un uomo. Quando nascono dei figli, la donna, “sposa” di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno procreati, se vogliono tenerli, devono pagarla profumatamente. In tutti questi casi, coppie formate da due donne che, letteralmente, chiameremmo “omosessuali”, praticano la procreazione assistita per avere dei figli di cui una delle donne sarà il padre di diritto, l’altra la madre biologica.
Le società senza scrittura conoscono anche equivalenti dell’inseminazione post mortem. Un’istituzione attestata da millenni (perché esisteva già presso gli antichi ebrei), il levirato, permetteva e talvolta imponeva che il fratello cadetto generasse in nome del fratello morto. Presso i Nuer sudanesi, di cui ho parlato, se un uomo moriva celibe o senza discendenza, un parente prossimo poteva prelevare dal bestiame quanto serviva per acquistare una sposa. Tale “matrimonio fantasma”, come dicono i Nuer, lo autorizzava a generare in nome del defunto, poiché questi aveva versato il compenso matrimoniale che permetteva la filiazione.
In tutti gli esempi che ho presentato, nonostante lo statuto famigliare e sociale del figlio si determini in funzione del padre legale (anche se quest’ultimo è una donna), il figlio conosce comunque l’identità del genitore e i legami di affetto che uniscono entrambi. Contrariamente a quanto crediamo, nel bambino la trasparenza non suscita il conflitto scaturito dal fatto che il padre biologico e quello sociale sono individui diversi.
Tutte queste formulazioni offrono altrettante immagini metaforiche anticipate delle tecniche moderne. Constatiamo in questo modo che il conflitto tra la procreazione biologica e la paternità sociale che ci imbarazza così tanto non esiste nelle società studiate dagli antropologi. Fuori da ogni esitazione, esse privilegiano il sociale, senza che i due aspetti si urtino nell’ideologia del gruppo o nello spirito degli individui. Se ho insistito a lungo su questi problemi è perché essi mostrano in maniera precisa, mi sembra, quale genere di contributo la società contemporanea può attendersi dalle ricerche antropologiche.
L’antropologo non propone ai suoi contemporanei di adottare le idee e i costumi di tale o talaltra popolazione esotica. Il nostro contributo è molto più modesto, e si esercita in due direzioni. Anzitutto, l’antropologia rivela che quanto consideriamo come “naturale”, fondato sull’ordine delle cose, si riduce a costrizioni e abitudini mentali proprie della nostra cultura. Ci aiuta dunque a sbarazzarci dei nostri paraocchi. In secondo luogo, i fatti che raccogliamo rappresentano un’esperienza umana molto ampia perché provengono da migliaia di società che si sono succedute nel corso dei secoli. Aiutiamo in questo modo a mostrare quelli che si possono considerare come degli “universali” della natura umana.
Ai giuristi e ai moralisti troppo impazienti, gli antropologi offrono consigli di liberalismo e di prudenza. Mettono in rilievo il fatto che anche le pratiche e le aspirazioni che turbano maggiormente l’opinione pubblica hanno il loro equivalente in altre società che non se la passano poi così male. Gli antropologi si augurano dunque che si lasci fare, e che ci si rimetta alla logica interna di ogni società per creare nel suo seno le strutture famigliari e sociali che si riveleranno vitali, o per eliminare quelle che faranno sorgere contraddizioni che solo l’uso potrà dichiarare insormontabili.
il manifesto, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
È tempo di ripensare le forme reali della democrazia costituzionale. C’è bisogno di ritrovare il fondamento pluralista e conflittuale che la qualifica. È necessario guardare alla realtà divisa, alle lacerazioni che colpiscono i corpi delle persone concrete.
Dobbiamo abbandonare i falsi miti per costruire il futuro. Abbiamo bisogno di quel che Stefano Rodotà ha definito un «costituzionalismo dei bisogni».
Alcuni eventi – accidenti della storia – possono assumere un valore simbolico e spingerci a guardare al di là dell’immediatamente rilevante. Così, i referendum sul lavoro potrebbero riuscire ad andare oltre alla miseria dei voucher per squarciare il velo sul degrado della democrazia sociale. Anche, la straordinaria reazione che si è espressa il 4 dicembre può diventare un inizio: non solo il rifiuto di una riforma della Costituzione peggiorativa dell’esistente, ma anche l’indicazione di una rotta verso politiche costituzionali più democratiche e partecipate. La lotta per la democrazia è oggi più aperta di ieri.
La storia passata insegna che il sistema politico tenterà di sterilizzare queste vicende riducendoli a meri “fatti”, per poter proseguire come se nulla fosse accaduto. Ma non sempre sarà facile sottrarsi al cambiamento. Il sistema politico in questo momento sta affrontando la questione della legge elettorale. Costretto dalla circostanza che un organo di garanzia costituzionale ha realizzato l’inimmaginabile: un giudice ha scritto in vece del parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale. Con qualche ottimismo possiamo sperare che si recuperi finalmente un equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui pretermesse della rappresentanza. Bene, non si può che essere soddisfatti.
Eppure, volendo spingere lo sguardo oltre il «fatto», mi chiedo: anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica? Non dubito che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria. Tuttavia, mi chiedo su quali fondamenta si vuole ricostruire la rappresentanza politica in seno al parlamento.
Una legge d’impianto proporzionale realizzerebbe, certamente e finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa? Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione collettiva. Temo si possa correre il rischio di garantire una rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione sociale. Sicché un cambiamento da tempo atteso, di segno assai positivo, rischierebbe di reggersi su gambe d’argilla. Imposto dalla forza dei giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.
Se vogliamo dare solide fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche a ciò che v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale. In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza politica e non soltanto le sue forme istituzionali.
Quel che mi sembra di poter rilevare è che non ha senso parlare del rapporto di rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al rappresentato. Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto. Da un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa stessa volontà.
Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni (dal parlamento in particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione.
Riscoprire le virtualità della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche rappresentare un rischio.
Può costituire un inizio se tramite la partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro dell’organizzazione dei poteri il parlamento come luogo del compromesso politico e sociale. Può altresì rappresentare un rischio qualora le dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare così diffuso oggi, non solo in Italia.
Ed è per questo che, oltre alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparsi delle forme di organizzazione dei poteri. Le sorti della democrazia partecipativa sono legate a quelle della democrazia rappresentativa.
Dunque, ripensare l’organo della rappresentanza, il parlamento. Anzitutto rivendicando un riequilibrio della forma di governo, la quale si è andata progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo. È questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia pluralista e conflittuale diventa anzitutto necessario liberare il parlamento dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi, aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.
Il parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente svuotato, schiacciato dal peso del governo e abbandonato al suo triste destino da un popolo distratto e indifferente. Potrà salvarsi solo se riesce a dare voce al rappresentato, ai soggetti storici reali. La forza autonoma dei parlamenti nelle società complesse si rinviene nella capacità di questi di essere effettivamente rappresentativi delle divisioni, luogo di scontro e composizione dei conflitti.
Un ruolo costituzionale che non può essere assimilato a quello del governo che deve, invece, promuovere una politica generale mantenendo un’unità di indirizzo politico, a scapito delle minoranze. Al parlamento, istituzione del pluralismo, si affiancherebbe così il governo, istituzione dell’unità maggioritaria. In un equilibrio tra poteri definito dal sistema costituzionale e dalla nostra forma di governo parlamentare.
Anche il rappresentato però dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene. Dovremmo noi tutti tenere ben presente che le sorti del parlamento si legano indissolubilmente a quelle della democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione. Una democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare. Una democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze politiche.
Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non possono fare a meno di un popolo sovrano, ma neppure di parlamenti autonomi. Riscoprire la complessità sociale e la centralità del parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli esecutivi, tuttavia non ci si può sottrarre, anche in questo caso si tratta di iniziare una lunga marcia.
« comune-info, 13 marzo 2017 (c.m.c.)
Tra i molteplici significati che ha assunto la parola libertà, ce ne sono due in particolare che la seguono da sempre come un’ombra: la negazione, la presa di distanza, la fuga da qualcuno o qualcosa, e la parentela con la scena pubblica. Libero, nel lessico greco e latino, è il non schiavo: maschio, adulto, appartenente a una comunità di eguali a cui è affidato il governo della città, figlio di genitori nati a loro volta liberi, in grado di sostenersi in armi e perciò dotato di poteri politici. È il cittadino guerriero. Fuori, negli interni domestici che la libertà e la politica si lasciano alle spalle, ci sono gli schiavi, le donne, gli adolescenti, esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica ed espropriati della loro stessa vita. Ma, sacrificato sull’altare della pòlis, è anche l’individuo, sottoposto in tutto, fin nelle sue scelte più intime, all’autorità del corpo sociale.
Un destino comune sembra imparentare perciò all’origine la libertà e la politica: uno strappo, un atto di cancellazione, il bisogno di dislocarsi rispetto a una matrice o a vincoli più o meno dichiarati. Nel vuoto apparente che si lasciano dietro vanno a collocarsi le donne, ma anche i corpi, le persone, le relazioni primarie e le vicissitudini improrogabili di ogni esistenza. Sarà per questo che, anche quando si fanno più articolate, più estese, le libertà – politiche, individuali – restano per larga parte formali, facili a sparire o a farsi inglobare su un versante o sull’altro.
C’è voluto un lungo percorso affinché, dalla zona d’ombra della vita pubblica, condizioni, rapporti dati come “naturali” – le passioni del corpo, la proprietà, le disuguaglianze economiche, i ruoli sessuali, gli impulsi d’amore e di odio – mostrassero, riaffiorando, quanto profonde, ramificate e inafferrabili siano le radici della libertà, quanto sia più giusto toglierle quella desinenza assertiva e parlare invece di “liberazione”.
Oggi sappiamo quanto sono esili i confini tra democrazia e regimi totalitari, quanto il sostrato biologico, considerato la frontiera estrema oscura della ragione, possa diventare, come è stato per il nazismo, la “verità ultima” della storia di un popolo; sappiamo che la guerra può confondersi con la difesa della vita, e quindi con la pace; conosciamo l’ambiguo legame che tiene insieme il bisogno di sicurezza, di protezione, l’attesa verso l’esterno, e la rinuncia alla libertà. Allo stesso modo, non possiamo ignorare che la resa delle donne al dominio dell’uomo è tuttora compensata da risarcimenti secondari, da gratificazioni illusorie e tuttavia durature. Ma non sembra che tale saggezza riesca a scalfire il sedimento secolare delle coercizioni su cui continuano a crescere e proliferare libertà visibilmente fragili, diritti destinati a restare sulla carta, opportunità, eguaglianze solo verbali.
Dove l’idea di libertà ha subito il suo più radicale ripensamento è stato nelle pratiche del femminismo, nella coscienza che ha riportato fuori dalle secche della “naturalità” il più antico dei domini, quello che ha riservato al sesso maschile non solo il potere di decidere le sorti del mondo, ma il pensiero, la costruzione ideativa e immaginaria che lo sostiene. L’intelligenza dell’uomo, essendosi arrogata le prerogative di unica esperienza compiuta dell’umano, non poteva che dare al processo di individuazione – cioè all’uscita dalla comune condizione animale – il volto di un “neutro”, mutilato di quell’appartenenza corporea e di sesso che l’avrebbe rivelato nella sua parzialità. Riportate entro la narrazione della storia personale – attraverso l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio – le illibertà non potevano che subire un processo inedito di svelamento: non erano solo quelle presenti nella vita sociale, e neppure ne condividevano modi e qualità.
Rispetto alle coercizioni esterne e a tutte le forme di violenza manifesta, che si sono accompagnate al dominio maschile, “immensa” appariva l’ “alienazione dell’io” conseguente all’aver fatta propria inconsapevolmente la rappresentazione del mondo dettata da altri.
Nelle conversazioni radiofoniche, tenute su Radiotre da Rossana Rossanda con alcune amiche femministe sulle “parole della politica”, Paola Redaelli così descrivere la rivisitazione del concetto di libertà:
«Libertà è una parola bellissima. Per me anzitutto vuol dire libertà di essere. Libertà di essere diversa. Per cui, a dire il vero, non è senza contraddizioni con uguaglianza. Libertà di essere diversa malgrado le leggi, al di là delle leggi, anche al di là di quelle che chiamavi ‘leggi di natura’. Libertà è poter scegliere senza cancellare niente di se stessi: il proprio essere intellettuale, i propri bisogni materiali, il proprio io profondo. Libertà è poter non trascurare nessuna parte di sé. Trasformare davvero il proprio rapporto con il mondo, fino all’ultimo e senza possibilità di tornare indietro». (R. Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989)
Per una “libertà che parte da dentro”, lo scavo nelle vite, spinto fin dentro la memoria del corpo, sembra non avere mai fine, e il femminismo, che ha aperto questo nuovo orizzonte, appare davvero come “la rivoluzione più lunga”, quella che non disdegna le frontiere ultime del pensiero, le esperienze che hanno il corpo come interlocutore e parte in causa. Riportare lo sguardo sulla scena pubblica, come chiede oggi un movimento di donne in evidente ripresa, senza restare ancora una volta respinte o affascinate, comporta un forte ancoramento alla storia e alla cultura che il femminismo ha prodotto, la riattualizzazione di teorie e pratiche che per fretta o paura sono state troppo presto abbandonate. Richiede soprattutto che, pur continuando a parlare di “libertà femminile”, non si dimentichi che dominate e dominanti hanno parlato per millenni la stessa lingua, che l’alienazione delle une non è stata senza costi per l’umanità degli altri.
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«Libertà e Giustizia: "». la Repubblica, 13 marzo 2017 (c.m.c.)
«Libertà e Giustizia pensa che la politica sia una bella cosa e i cittadini devono partecipare, anche senza candidarsi a qualcosa. In Italia c’è bisogno intorno al Palazzo di un modo nuovo di fare politica, che lo circondi in senso buono per dialogarci». Il professore Tomaso Montanari è il nuovo presidente dell’associazione che tanto si è impegnata per il no nella battaglia referendaria. E da quella vittoria intende ripartire.
Professore Montanari si parla di un “cambio di verso” di Matteo Renzi. Lei che ne pensa?
«Credo che si debbano giudicare i fatti e purtroppo c’è un problema di inaffidabilità di Renzi. Per esempio aveva detto che in caso di sconfitta al referendum avrebbe lasciato la politica. C’è un problema di storytelling, di narrazione, di scostamento fra gli annunci e la realtà . Il nostro giudizio si misurerà sui fatti ».
In questa sinistra così frammentata c’è qualcuno a cui vi sentite più vicini?
«Noi abbiamo fatto la scelta di non affiancare nessuno, nonostante dopo il 4 dicembre siano arrivate tante richiesta di vicinanza e offerte di candidature. Noi pensiamo che tutte queste manovre in corso siano molto autoreferenziali. Guardano dentro il campo, il Parlamento, le candidature, e poco al paese reale. Un’associazione come Libertà e Giustizia invece si rivolge ai cittadini e il nostro scopo è quello di offrire a questi cittadini uno strumento nuovo per esercitare la sovranità».
Il referendum del 4 dicembre può essere considerato un pezzo di questa ritrovata sovranità popolare. Ma c’era grande attesa per una nuova legge elettorale…
«Negli ultimi anni si è pensato che il problema fosse la governabilità e anche la sinistra si è convinta della necessità della vocazione maggioritaria. Ma il problema è: andare al governo per fare che cosa? Quello che vediamo è che manca un progetto, una visione di paese. Noi speriamo che una legge elettorale proporzionale possa portare in Parlamento un progetto e ricucire questa frattura fra elettori e rappresentanza».
I sondaggi però dicono che non ci sono maggioranze. La novità è che adesso i grillini parlano di alleanze. Si legge anche che i grillini la stimino molto…
«Libertà e Giustizia aveva già proposto un’alleanza su basi chiare fra Pd e grillini dopo le elezioni del 2013. Il fatto che oggi i grillini parlino di alleanze è un tratto di maturità. Del resto i Cinque stelle erano per il no e il no voleva dire difendere una Repubblica parlamentare. E quindi in una Repubblica parlamentare bisogna trovare dei compromessi. Che non sono naturalmente degli inciuci. Sulle simpatie grilline posso dire che il problema non sono le simpatie, ma una politica che sia disposta ad accettare il dissenso, il confronto. Io ho qualche dubbio che i grillini siano pronti ad accettare il dissenso, ma purtroppo devo dire che non lo è neanche il Pd».
Sbilanciamoci, 10 marzo 2017 (c.m.c.)
Festa grande alla fine del Carnevale. Razzi, scoppi e mortaretti per la clamorosa notizia: il Pil del 2016 è cresciuto non dello 0,8%, secondo le ultime previsioni del governo (dopo varie revisioni al ribasso), ma addirittura dello 0,9%. Un trionfo. E per quest’anno forse si potrebbe persino raggiungere l’1%, un altro decimale in più (ma mica è scontato). Avanti così, e forse tra un’altra decina d’anni riusciremo a tornare dove eravamo prima del 2008, sempre se non arrivano altre crisi. Insomma, un futuro luminoso.
Ma anche sul breve termine il governo non ha tanto da stare allegro. Non tanto per i 3,4 miliardi che la Commissione Ue ci ha imposto di trovare subito come condizione per approvare i conti di quest’anno: quello è solo l’antipasto, perché per il 2018 c’è da coprire un’altra di quelle clausole di salvaguardia che vengono dalle manovre passate, e lì son dolori, perché si tratta di quasi 20 miliardi. Per la precisione, secondo i calcoli di Nens, sono 19,571 miliardi, e per coprirli, se non si provvede altrimenti, aumenterà l’Iva di tre punti - dal 10 al 13 e dal 22 al 25% - diventando la più alta in Europa.
L’aumento dell’Iva è sempre stato paventato come una catastrofe quasi pari a un terremoto o un’inondazione. Certo, non è una bella cosa. Certo, sarebbe un nuovo aumento del prelievo fiscale, per giunta con un’imposta regressiva, cioè che colpisce tutti indistintamente. Certo, non farebbe bene ai consumi, che “fanno” due terzi del Pil. E però ha anche l’effetto di favorire i prodotti nazionali, perché colpisce le importazioni e non le esportazioni. Se proprio bisogna trovare quei soldi, meglio l’aumento dell’Iva o meglio altri tagli al welfare o agli investimenti, quei pochi che sono previsti? Uno potrebbe dire: meglio tassare i ricchi. Ma – a parte che la cifra è cospicua – chi lo dicesse sarebbe subito tacciato di populismo, se non di bolscevismo fuori tempo. Renzi, peraltro, aveva detto che nel 2018 le tasse le voleva ridurre: francamente non sembra aria.
Comunque una manovra da 20 miliardi, che siano tagli o nuove tasse, peserà in ogni caso sulla nostra già anemica crescita, mettendo a rischio persino quel già misero 1%, che infatti alcuni previsori – da ultimo il rapporto di Standard & Poor’s – giudicano un obiettivo difficile. E però lasciar correre il deficit non si può: la Commissione ci ha appena contestato uno sforamento dello 0,2%, figuriamoci uno di quasi l’1,2%, al di fuori di qualsiasi ipotetica “flessibilità” delle regole, che peraltro ci hanno già detto che abbiamo sfruttato al massimo possibile.
Ci avviamo dunque verso la fine del quantitative easing, che tiene a bada tassi e spread facendoci risparmiare bei soldoni di interessi sul debito, con questo peso da sopportare, e non è il solo: non possiamo certo dimenticare il problema delle sofferenze bancarie, tutt’altro che risolto. Il tutto in una situazione politica quanto mai incerta, con all’orizzonte elezioni che – anche se si arriverà alla scadenza naturale della legislatura – potrebbero provocare una situazione in cui sarà problematico formare una maggioranza di governo.
Ma chi ci ha ficcato in guai così grossi? La maggior parte delle persone, come spesso accade, si divide in due partiti. I Guelfi, quelli che sono contro l’impero, non hanno dubbi: la colpa è dell’Europa egemonizzata dalla Germania, della politica di austerità, dell’euro che ci impone una moneta sopravvalutata. I Ghibellini, quelli che stanno con la Svevia (antica regione tedesca), alzano gli occhi al cielo con aria di rancoroso compatimento: niente affatto, la colpa è dei governi italiani, che non hanno sfruttato il lungo periodo di bonaccia dall’inizio dell’euro allo scoppio della crisi per aggiustare i conti (e questo è vero: grazie Berlusconi) e poi non hanno fatto le riforme (mitiche!), o non ne hanno fatte abbastanza. Chi ha ragione? Purtroppo, entrambi i partiti.
Cominciamo dall’Europa. Se ne può dire tutto il male possibile, e ancora non basta. Tralasciamo il problema di fondo, cioè che è stata costruita male, che non è certo un dettaglio. Ma oltre a questo, fin dallo scoppio della crisi si è fatto di tutto per non risolverla, e anzi aggravarla. Ricordiamo che all’esplosione del caso greco la Germania ha impedito che fosse affrontato tempestivamente, perché il suo obiettivo – riuscito – era mettere in piedi quel meccanismo che ha trasformato i debiti greci con le banche tedesche e francesi in crediti verso la Grecia di tutti i paesi Ue, (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2015/02/23/i-furbetti-del-salvataggio/ ) che hanno così contribuito – mentre la situazione si incancreniva e si scatenava la speculazione sui debiti pubblici – a salvare quelle banche. Poi l’imposizione della politica di austerità mentre la congiuntura recessiva avrebbe richiesto il contrario, cioè stimoli fiscali all’economia, e l’uso delle aggravate difficoltà dei paesi del Sud Europa per imporre riforme (http://nuke.carloclericetti.it/AlsosprachMerkel/tabid/340/Default.aspx ) che riducessero le garanzie dei lavoratori. In piena recessione venivano varati il Six pack, il Two pack, il Fiscal compact, che imponevano un sentiero di consolidamento dei conti pubblici che avrebbe perpetuato la politica di austerità (il cosiddetto “pilota automatico”, teso a ridurre al minimo la discrezionalità delle scelte dei governi).
Non basta. Le verifiche sul rispetto del percorso di consolidamento della finanza pubblica sono fatte dai tecnocrati della Commissione con una metodologia assurda (http://nuke.carloclericetti.it/LinkClick.aspx?link=501&tabid=36 ) e ideologicamente orientata, basata su una grandezza che è frutto di stime arbitrarie, il “Pil potenziale”, che si potrebbe descrivere con la filastrocca dedicata all’Araba fenice: «Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». E in base a questa metodologia fantasiosa, che l’Italia ha contestato (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2014/10/17/finalmente-litalia-contesta-un-po-la-ue/ ) – troppo tardi – senza ottenere il minimo risultato, si chiedono ogni anno sacrifici veri, tagli di spesa o aumenti di tasse.
L’elenco potrebbe continuare con i tanti “no” che rendono la costruzione europea ancor più sbilenca che negli anni passati. “No” alle tante proposte per risolvere la questione dei debiti pubblici, anche a quelle che non prevedono trasferimenti di risorse tra paesi (http://nuke.carloclericetti.it/IlPADRE/tabid/348/Default.aspx ); “no” alla garanzia comune sui depositi, che pure era nei patti dell’unione bancaria; “no” ai limitati interventi statali per le nostre banche, dopo che gli altri (Germania in testa) hanno salvato le loro con miliardi pubblici a palate; “no” a una politica europea di investimenti, a meno di non voler considerare tale il ridicolo Piano Juncker (http://nuke.carloclericetti.it/Junckerunannodopo/tabid/410/Default.aspx ), di cui si sono ormai perse le tracce. Gli ultimi anni dell’Unione, dal 2008 in poi, sono un vero e proprio racconto dell’orrore.
Non spendiamo altre parole sulle infinite colpe dell’Europa a guida tedesca. Ma veniamo alle nostre, di colpe, che non sono poche. La più grande è stata quella di accettare tutto, la gestione della crisi, i trattati sulla finanza pubblica, i metodi di calcolo, il tipo di riforme che ci sono state chieste, le norme sul bail-in. A volte con entusiasmo, come per la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che non era obbligatoria (e infatti quasi nessun altro l’ha fatto); a volte senza fiatare; altre volte, infine, con proteste o tanto flebili da non essere prese in considerazione (la metodologia del Pil potenziale, l’entrata in vigore immediata del bail-in) o rumorose ma di facciata, come quelle dell’ultimo periodo di Renzi, e per giunta su obiettivi il più delle volte sbagliati: pietire la “flessibilità” per il bilancio significa accettare implicitamente tutto lo schema entro cui questa “concessione” si colloca, quello schema che appunto andrebbe invece contestato con tutti i mezzi politici e procedurali disponibili.
Quel poco di gestione discrezionale della politica economica che ci è rimasta, poi, non è andata meglio. Sorvoliamo sui governi Monti e Letta, fedeli esecutori della linea di Berlino-Bruxelles. Renzi, invece, con l’idea di assicurarsi un consenso plebiscitario, quella linea l’ha stirata per tutto quel che ha potuto, e dall’Europa ha ottenuto margini non indifferenti, 19 miliardi di “sforamenti” rispetto ai conteggi “ortodossi”. Fra il 2014 e il 17 – ha calcolato il Rapporto sulla finanza pubblica del Mulino – ha speso 50 miliardi (10 finanziati con nuove tasse).
Una cifra ancora non sufficiente per un vero rilancio della nostra economia, ma che avrebbe potuto dare risultati ben più apprezzabili se fosse stata impiegata bene (http://nuke.carloclericetti.it/Flessibilit%C3%A0Nograzie/tabid/478/Default.aspx ). Invece ha dato risultati miseri perché si è seguito il pensiero economico dominante: non investimenti pubblici, perché lo Stato deve tenersi alla larga da interventi diretti: ma tanti soldi alle imprese (i due terzi del totale) perché così avrebbero ricominciato ad investire, e il resto in tasca ai consumatori (gli 80 euro, la girandola dei bonus) che così si sarebbero gettati a comprare svuotando i magazzini delle aziende. Naturalmente nulla di tutto questo è accaduto: le imprese non investono quando la domanda è stagnante, i consumatori spendono poco quando i salari sono bassi, la disoccupazione alta, il futuro incerto. Ed eccoci ancora con la crescita allo zero-virgola, fanalino di coda in Europa.
Insomma, l’Europa ci è matrigna, e noi ci abbiamo messo del nostro. Il quadro è disperante, il futuro non promette niente di buono. Soprattutto, non si vede una classe dirigente capace di prendere in mano la situazione e imprimere la sterzata che sarebbe necessaria. Forse è un discorso da gufi, ma doverlo fare non è certo una soddisfazione.
». connessioniprecarie, 14 marzo 2017 (c.m.c.)
Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per comprenderne appieno il significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza: chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di corteo non vede quello che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale. La dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti da uno sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo hanno preceduto.
Dismisura è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero. Solo partendo da questa dimensione politicamente e non solo geograficamente globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e di pratiche che si sono espresse al suo interno.
«Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando»! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.
A Plaza de Mayo più di duecentomila mujeres hanno gridato: «sí se puede», se si può fare uno sciopero contro Macri, lo facciamo noi donne!, catalizzando in questo modo una contestazione fino a questo momento frammentata e identitaria. Sono due episodi lontani ma al tempo stesso molto prossimi dell’8 marzo globale. Essi indicano chiaramente che lo sciopero voluto dalle donne ha prodotto la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo.
L’opposizione a questo o quel governo non si è ridotta alla richiesta di un cambio elettorale o a una protesta contro la classe politica. Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale. Le donne sanno che il neoliberalismo non ha inventato la violenza contro di loro, ma sanno anche che è arrivato il momento di restituire quella violenza alle condizioni politiche della sua continua riproduzione, smettendo di farne un oggetto di generica condanna.
Lo sciopero non è solo una sottrazione temporanea al lavoro, ma una pratica politica che segnala il rifiuto radicale, pieno e di massa, delle condizioni in cui oggi viene prodotta e riprodotta la vita. Proprio per la sua dismisura esso non mira a mediazioni locali o temporanee, ma esprime la sua potenza sul piano immediato della sollevazione di massa. «Non aspetteremo», hanno dichiarato le donne irlandesi di strike4repeal, riferendosi non solo all’urgenza di abrogare una legge antiabortista, patriarcale e assassina, ma al fatto che il tempo dello sciopero, il tempo della rottura è adesso. Per questo, l’8 marzo in tutto il mondo non è stato solo «il primo giorno della nuova vita delle donne», ma anche il primo giorno di una critica globale dell’esistente che da tempo sta faticosamente cercando le strade per esprimersi.
Lo sciopero ha aperto uno spazio politico senza precedenti in cui tantissime donne in tutto il mondo e moltissimi uomini precari, operai, migranti si sono mobilitati per rendere lo sciopero reale e andare oltre la sua evocazione, rompendo in questo modo l’isolamento della loro quotidiana insubordinazione. Le enormi manifestazioni che abbiamo visto sono stati scioperi. Le astensioni dal lavoro sono state dimostrazioni di forza e di coraggio. Il femminismo di migliaia di donne ha colto nello sciopero l’occasione per esprimere il rifiuto della propria condizione particolare di subordinazione, oppressione e sfruttamento, consentendo a ciascuna di diventare protagonista di un movimento globale.
Questa scelta femminista spiega e qualifica l’impressionante partecipazione in tutte le piazze dell’8 marzo: non solo la marea che ha inondato le metropoli e le grandi città, ma anche la presenza politica delle donne e di moltissimi uomini nei luoghi più disparati, dove le iniziative erano inattese. C’è chi ha paventato che questa sollevazione si limitasse, alla fine, a manifestare l’indignazione delle privilegiate, solidali con la causa di chi non può scioperare o gridare in piazza liberamente. C’è chi ancora una volta ha ripetuto che la lotta contro il capitalismo è un’altra cosa. Una cosa per soli uomini, forse. Invece precarie, operaie e migranti sono state presenti in tutte le piazze e hanno preso direttamente parola. Hanno rovesciato ogni discorso vittimizzante, hanno orgogliosamente trasformato la propria posizione di sfruttamento nel privilegio di chi diviene il soggetto della propria insubordinazione.
Lo sciopero ha sfidato molti confini ‒ quelli tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra i posti di lavoro e la società ‒ e molto praticamente ha mostrato che Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo hanno un comune campo di azione da occupare con la massima urgenza. Diffuso su tutto il pianeta e capace di rendere evidente il legame tra i diversi modi e i diversi piani in cui prende forma la violenza neoliberale, lo sciopero ha reso possibile una moltitudine di eventi e li ha connessi politicamente stravolgendo tutti i rituali di movimento: nessuna messa in scena del conflitto, ma una reale manifestazione di potere e del desiderio della sua conquista.
Questo sciopero ha dimostrato la possibilità di contrastare efficacemente la strategia della segmentazione messa in campo dal neoliberalismo patriarcale, perché ha reso possibile una sincronizzazione politica tra istanze anche molto diverse. La condizione vissuta dalle donne che reggono l’economia popolare argentina è certamente diversa da quella delle migranti vessate dal permesso di soggiorno in Europa, delle combattenti della Rojava, delle precarie spagnole, delle donne che in Turchia subiscono la violenza istituzionale di un governo autoritario e patriarcale, delle nere che negli Stati Uniti combattono contro la brutalità poliziesca, il sessismo e il razzismo istituzionale, delle francesi colpite dalla loi travail e dal suo mondo.
Le donne che hanno scioperato non sono state unite da un piano comune e omogeneo di rivendicazioni: in Brasile, si sono scagliate contro la riforma previdenziale, che aumenta l’età pensionabile delle donne estendendo e intensificando lo sfruttamento nell’indifferenza per il loro doppio carico di lavoro. Nelle Filippine le donne hanno preso parola contro le politiche agrarie neoliberali e le misure razziste del governo Duterte. In Australia, migliaia di educatrici hanno scioperato per contestare un welfare che si regge sulla sistematica riduzione dei loro salari.
In Polonia donne e uomini sono scesi in piazza contro l’alleanza tra il fondamentalismo cattolico e il neoliberalismo progressista che fanno fronte comune proprio a partire dalla violenza istituzionale e quotidiana sulle donne. La Francia, dopo le grandi mobilitazioni contro la loi travail, è tornata a riempirsi con le oltre 300 azioni che hanno travolto le strade delle principali città e che hanno visto un inedito protagonismo migrante. Donne curde, turche, cinesi, francesi, africane sono scese in piazza a hanno scioperato assieme contro la violenza, la precarizzazione e la strutturale discriminazione salariale che le colpisce.
In Svezia lo sciopero dell’8 marzo ha ripoliticizzato il lavoro di cura, portando in piazza centinaia di lavoratrici e lavoratori della sanità, degli ospedali e a domicilio, e aprendo un percorso per il diritto alla salute riproduttiva e contro la precarizzazione dei servizi alla persona. Lo sciopero dell’8 marzo non è però in nessun modo il risultato della somma occasionale di vertenze locali, della grande coalizione tra organizzazioni sindacali, politiche e di movimento, di contingenti alleanze di scopo in vista di una scadenza passeggera. Oggi possiamo dire che centrale è stato il processo che ha connesso fondamentali rivendicazioni politiche globali, fornendo forza e significato a ogni singola iniziativa locale. Questo sciopero transnazionale ha indicato la possibilità di agire sulla stessa scala su cui si dispiega quotidianamente la violenza neoliberale e patriarcale.
Nelle molte piazze in cui sono stati rivendicati salute, welfare, istruzione, libertà di muoversi e di restare non si è guardato nostalgicamente al passato, all’universalismo perduto della cittadinanza e dello Stato sociale novecenteschi – che molti paesi coinvolti nello sciopero delle donne non hanno mai neppure conosciuto – ma è stata avanzata la pretesa di ottenere qualcosa che non c’è mai stato. Mentre il neoliberalismo non ammette altra emancipazione che non sia quella garantita dal denaro, quelle rivendicazioni aggrediscono direttamente gli ingranaggi politici della sua riproduzione. Rivendicare il diritto di abortire liberamente significa pretendere di rovesciare l’ordine materiale e simbolico che vuole ridurre le donne a strumenti riproduttivi e contestare la regolazione normativa della sessualità.
Rivendicare servizi di cura per bambini e anziani significa rifiutare la divisione sessuale del lavoro che vuole condannare le donne a essere le serve domestiche e addomesticate dell’ordine neoliberale. Rivendicare l’asilo politico per sfuggire alla violenza contro donne e uomini e all’espropriazione dell’esistenza significa opporsi alla violenza quotidiana dei confini. Rivendicare salari più alti significa pretendere il potere sulla propria vita. L’irriducibile parzialità delle donne non si scioglie nel sogno di un’indistinta ricomposizione, ma attraverso la pratica sociale dello sciopero si fa valere con una forza collettiva e globale. L’8 marzo ci consegna una preziosa indicazione di metodo politico: non si tratta di reclamare generici diritti universali o un’emancipazione individuale, ma di colpire i pilastri su cui si regge un intero ordine di dominio e sfruttamento partendo dalla propria parziale posizione, facendone un punto di forza e non un limite. Questo ci hanno insegnato le donne dell’8 marzo.
Non è allora sorprendente che questo sciopero abbia preoccupato i custodi dell’ordine. Opinionisti e opinioniste di fama hanno perso l’occasione per tacere e si sono affrettati a dichiarare che lo sciopero dell’8 marzo ha danneggiato in primo luogo le donne, mentre le paladine del femminismo istituzionale hanno affermato severe che il lavoro non va mai rifiutato perché offre un’occasione di promozione sociale. Nonostante tutto, dopo anni di oscillazione tra il catastrofismo scandalistico della crisi e le tiepide ricette di risanamento dell’economia mondiale, le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo hanno dovuto registrare l’esistenza di una nuova pretesa di «giustizia».
Questo femminismo del 99%, come lo hanno battezzato le donne dell’8 marzo statunitense, non corrisponde a un generico ideale di partecipazione dal basso o di cittadinanza radicale: permette alle donne che subiscono e hanno subito violenza e sfruttamento di alzare la testa e lottare, mentre chiede a tutti di prendere posizione e di schierarsi. Esso fa dello sciopero il confine politico di questo schieramento, mina i resti di una mediazione sociale in frantumi e rimescola i piani su cui è possibile costruire percorsi di organizzazione e di lotta. Fa saltare l’alibi del solito sciopero rituale che non serve a nulla, dando alle donne e agli uomini la libertà di sottrarsi a un ordine costruito contro di loro.
La parola d’ordine Yo decido lanciata dalle donne spagnole non assume come referente il sistema politico, ma si afferma sulle macerie della mediazione istituzionale che il neoliberalismo ha già da tempo travolto con la forza brutale del suo dominio. Non è un caso che i più spaventati dallo sciopero delle donne siano stati i grandi sindacati che ‒ in Argentina come in Italia ‒ hanno cercato di arginare o addirittura contrastare l’iniziativa autonoma delle donne per tornare alle placide contrattazioni sulle quali continuano a costruire la loro identità e ragione di esistenza. Le donne, intanto, hanno reso l’arma dello sciopero disponibile per quanti ‒ da posizioni diverse e in ogni parte del mondo ‒ hanno la pretesa di opporsi realmente alla precarietà, al razzismo istituzionale, all’ingiunzione al silenzio dell’ordine neoliberale.
È impossibile dire in che misura siamo effettivamente riuscite a interrompere ogni attività produttiva e riproduttiva. Eppure, nonostante le sue dimensioni ancora sperimentali, l’8 marzo segna una frattura, stabilisce un «prima» e un «dopo». Esso indica la possibilità di un processo di organizzazione che non si riduce alla sommatoria delle istanze militanti e liquida in un colpo ogni ipotesi micropolitica che non sia capace di pensare simultaneamente il piano locale e quello globale dell’iniziativa. Lo sciopero è stato prima di tutto transnazionale e proprio per questo ha attivato in decine di paesi un processo di organizzazione capillare, di cui le donne sono state protagoniste al di là di ogni etichetta politica e certificazione militante innescando l’azione di una moltitudine di soggetti.
A questo processo di organizzazione il progetto dello sciopero ha conferito e può continuare a conferire unità, indicando la possibilità di uscire dalla quotidiana impotenza in cui si agitano i movimenti locali e di fare valere una forza collettiva. Questa forza non può essere ridotta a un semplice strumento per scendere a patti con questo o quel governo. Lo stesso piano femminista contro la violenza che «Non una di meno» sta scrivendo in Italia saprà imporsi solo se rimarrà ancorato al processo di lotta globale attivato sotto il segno dello sciopero.
Dopo l’8 marzo globale non è più pensabile imbrigliare la forza sprigionata dallo sciopero delle donne nelle maglie strette di linguaggi usurati o in forme organizzative che hanno già fatto il loro tempo e mostrato la loro insufficienza. Solo un’infrastruttura politica transnazionale potrà far crescere il movimento dello sciopero. Mentre la parola d’ordine di «una giornata senza di noi» continua a viaggiare per il mondo, significativamente rilanciata dai migranti negli Stati Uniti come in Argentina, dopo l’8 marzo la sfida collettiva è quella di consolidare e accelerare il movimento dello sciopero che si aggira per il mondo e che le donne, per prime, hanno fatto valere come una possibilità globale.
Intervista a don Luigi Ciotti. «È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati».
la Repubblica, 12 marzo 2017, con postilla
Don Ciotti, la violenza contro chi non ha nulla rischia di diventare un rito macabro?
«È l’ennesimo segno di una disumanità enorme e noi dobbiamo chiederci quanto queste violenze siano frutto di un clima di egoismo, indifferenza e ostilità verso le persone più deboli o diverse. Persone fragili esposte all’indifferenza ma anche alla violenza verbale ».
Chi è fuori dalle regole fa più paura? O è il ritenere queste persone senza volto che li rende bersagli più facili?
«È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati. Serve una dieta della parole».
Quali parole sono abusate?
«Parole di odio che leggiamo ogni giorno anche sui social network. Ci vogliono parole autentiche, ma ferme e inequivocabili. Capaci di mordere le coscienze e esprimere dolore, compassione. Parola di condanna, se serve, ma anche speranza».
Come arginare questa ondata di odio verso gli ultimi?
«Parliamo di persone che vivono in strada perché non solo non hanno più la casa o hanno perso il lavoro, ma anche per conflittualità familiari. Viviamo anni di solitudine. E una delle povertà più gravi, a fianco di quella materiale e culturale, è quella relazionale, la solitudine che si dilata e diventa ansia, paura. Su questo bisogna lavorare».
Spesso i senzatetto rifiutano un ricoverano e scelgono la strada.
«C’è chi si autoesclude, ma ricordo che le direttive sociali europee insistono che il primo intervento per le persone che vivono in strada è fornire un riparo. Servono politiche di inclusione e di sostegno e non nuove discariche di essere umani. L’orizzonte è quello indicato da Papa Francesco. Parla di “periferie geografiche e esistenziali” e dice che bisogna uscire dalle incertezze e dagli egoismi facendosi viandanti di speranza per le persone escluse, emarginate e umiliate».
postilla
Difficile non mettere in relazionequeste parole di Don Ciotti con le parole che Matteo Salvini e i suoi seguaci inculcano nelle teste di troppi italiani - parole più incendiarie della benzina gettata dall'assassino di Palermo. Quando la violenza delle parole proveniva dal mondo degli sfruttati erano etichettata come incitazione alla violenza veniva condannata e repressa, ora che viene da altri mondi viene protetta dai ministri dell'interno: vedi Napoli. E vedi anche l'articolo di Alessandro Dal Lago in Orrore Umano
«». comune-info, 11 marzo 2017 (c.m.c.)
Fin da quando l’economia divorziò dalla filosofia e dalla morale, pretendendo di assumere uno statuto scientifico autonomo, si palesarono due tendenze: quella – ahimè vincente – basata sull’individualismo degli interessi di Adam Smith (di fede calvinista) e quella del suo contemporaneo meno noto Antonio Genovesi (napoletano di fede cattolica), primo cattedratico di economia in Europa all’Università di Napoli (1754), che considerava il mercato come una civilissima forma di “mutua assistenza”, capace di tenere assieme individui e comunità. A questa seconda scuola di pensiero si è ispirato il Laboratorio Nazionale di Nuova Economia, un gruppo informale che dal 2012 ha raggruppato ricercatori e attivisti di varie associazioni, fondazioni culturali, reti di economia solidale, tra cui Banca popolare Etica, Arci, Arcadia University, Attac Italia, Solidarius Italia.
Il loro scopo è stato studiare e accompagnare pratiche locali capaci di «coniugare l’economia e la finanza con la solidarietà, l’etica, la socialità, l’ecologia, le buone relazioni». Una di queste esperienze è in corso da circa tre anni a Roma, al III Municipio, tra via Salaria e via Nomentana.
Dopo molte riunioni periodiche aperte agli abitanti e incontri con gli operatori economici è stato organizzato nella piazza antistante il Municipio un incontro/evento per condividere con gli abitanti i risultati della ricerca-azione e una piccola fiera dell’artigianato di qualità del quartiere che mostrasse abilità e competenze degli artigiani. Falegnami, restauratori, corniciai, parrucchieri artistici, un bronzista, un calderaio… hanno creato un’istallazione che hanno chiamato Eco-house attorno a cui si sono svolte varie attività dimostrative. Le botteghe artigianali e il recupero di mestieri antichi possono costituire il tessuto su cui ricostruire relazioni sociali nelle aree urbane pesantemente colpite dalla crisi.
Oltre a ciò il Laboratorio è impegnato a costruire un circuito virtuoso tra il negozio locale di prodotti biologici Passo al Bio, rilevato da una cooperativa, il Gruppo di acquisto solidale, le cooperative sociali agricole del vicino Parco della Marciliana e i produttori della filiera agroalimentare che fanno parte della Rete dell’economia solidale del Lazio.
Soana Tortora, di Solidarius Italia, impresa sociale che si ricollega alle attività del filosofo brasiliano Euclides Mance, è una delle animatrici del gruppo di regia del Laboratorio: «Come ricercatori non siamo partiti dalle definizioni teoriche che connotano le varie esperienze di Nuova economia. Ci interessa piuttosto vedere dove ci porta un metodo davvero partecipativo di progettazione sociale. Come abitanti siamo impegnati a costruire relazioni comunitarie per mantenere di buona qualità le funzioni residenziali e la vocazione artigianale del quartiere attaccate dall’eccessivo costo dei fitti, dagli sfratti per cambio di destinazione e dal contemporaneo degrado e abbandono di molti edifici».
«Nel Libro Bianco del presidente della Commissione europea per la prima volta viene avanzata l’idea che in tema di costruzione europea l’Unione possa anche fare dei passi indietro».
Sbilanciamoci.info, 9 marzo 2017 (c.m.c.)
Che il progetto dell’Unione Europea sia da tempo in una crisi profonda non è certo una questione controversa. I sintomi del male sono chiari: basti ricordare il crescente euroscetticismo che si va diffondendo dovunque e l’attacco quasi quotidiano, da parte dei rappresentati politici di molti paesi, verso Bruxelles.
Per parte nostra, su di un piano politico, ricordiamo come l’Europa si sia intrappolata in una deriva tecnocratica e neo-liberista, con la corsa all’austerità, le svalutazioni “interne” e le cosiddette riforme “strutturali”, i favori ai paradisi fiscali, il taglio dei bilanci comunitari, l’assenza di politiche di sviluppo.Semmai oggi le incertezze planano sul che fare di fronte a tali minacce e a tali problemi.
Alcuni progetti di riforma
Negli ultimi mesi si vanno elaborando da diverse parti dei progetti di riforma su tutta o su una qualche parte della costruzione europea. Meraviglia semmai che esse non siano poi troppo numerosi, né che il dibattito in merito si presenti come molto vivace, o di livello adeguato, sintomi forse anche questi di una crisi profonda del progetto europeo.
Intanto c’è questa proposta della Merkel mirante ad un’Europa a più velocità, idea sufficientemente vaga per dare adito a diverse possibili interpretazioni; sempre in Germania, invece, Schultz, che comunque è d’accordo su questa ipotesi della cancelliera, vuole peraltro chiudere con la politica di austerità, da lui considerata come una delle cause fondamentali della crisi e vuole invece introdurre gli eurobond per migliorare le prospettive delle economie indebitate.
Ad un summit tenutosi a Versailles il 6 marzo, anche Francia, Italia e Spagna si sono dichiarate d’accordo con l’idea della Merkel, anche se temiamo che ogni paese, utilizzando l’espressione, pensi a cose almeno in parte diverse da quelle degli altri.
D’altra parte, si va discutendo di portare avanti la costruzione europea mettendo in comune in tutto o in parte il settore della difesa; ma non ci sembra poi una grande idea quella di rilanciare il progetto cominciando proprio da lì. Eccellono nell’esercizio pan-militare i governi italiano e francese.
Va ancora segnalato che il parlamento olandese sta avviando una commissione di inchiesta per valutare i pro ed i contro del mantenimento del paese nell’eurozona (Barber, 2017). Trattandosi di uno dei sei paesi fondatori della costruzione europea questo non appare certo un bel segnale.
Per quanto riguarda l’Italia, hanno destato un certo clamore le conclusioni a cui è giunta una ricerca della società Macrogeo, una creatura di Carlo De Benedetti, che da per scontata una chiusura dell’esperimento europeo e l’emergere invece di un polo mega-tedesco, cui farebbero capo paesi quali l’Olanda, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, alcune realtà scandinave ed eventualmente il Nord dell’Italia, che così si staccherebbe dal resto del paese.Come si vede il livello di confusione appare piuttosto elevato.
Le dimissioni di Juncker
Juncker aveva già fatto parlare di se qualche settimana fa, quando sembrava che egli fosse sul punto di presentare le dimissioni dalla carica, essendo la Commissione al crocevia di una serie di contraddizioni difficilmente sanabili. Egli ha apparentemente poi cambiato idea. Ricordiamo, a proposito dei problemi che egli può avere incontrato a Bruxelles negli ultimi tempi, solo un episodio che riguarda il nostro paese. La Commissione, ponendo molte speranze nelle promesse di rinnovamento del governo Renzi, aveva allentato le briglie sui conti dell’Italia per ben 19 miliardi di euro; col risultato di ricevere in cambio degli insulti dal capo del governo della penisola, che voleva ottenere ancora di più, ma contemporaneamente anche gli attacchi della Merkel, che gli ricordava come lo stesso Renzi avesse poi utilizzato le concessioni della Commissione per il varo di misure quali l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e il versamento di denaro ai giovani per permettere loro di comprare i biglietti per il cinema.
Il libro bianco
In questo clima si colloca il cosiddetto “libro bianco” del presidente della Commissione, reso pubblico ai primi di marzo e presentato come un contributo della stessa Commissione al dibattito sull’avvenire dell’Unione. Il testo dovrebbe essere dibattuto al summit di Roma del 25 sempre di questo mese, quando sarà celebrato il 60° anniversario del trattato di fondazione dell’Unione.
Ricordiamo che il testo sarà completato da qui all’estate da cinque rapporti specifici, che esploreranno “l’avvenire dell’Europa sociale”, “le risposte alla globalizzazione”, “le vie per l’approfondimento dell’unione economica e monetaria”, “la difesa” e “la finanza”.
Le trenta pagine del fascicolo appena pubblicato presentano cinque possibili scenari.
Il primo è quello che l’Unione si limiti al solo mercato unico. Il libro bianco sottolinea i lati negativi dell’ipotesi, quali la perdita della libertà di circolazione, i pericoli per la stabilità finanziaria, la riduzione di status e di peso internazionale dei vari paesi europei e di tutto il continente.
Lo scenario più ambizioso propone invece un’Europa federale. Ma l’ipotesi non appare in sintonia con l’aria del tempo ed essa viene valutata come oggi politicamente non credibile.
Il terzo scenario è quello dello status quo, linea chiaramente aperta a grandi criticità, gran parte delle quali conosciamo bene già adesso, ma che sarebbero presumibilmente destinate ad aggravarsi nel tempo.
Restano i due ultimi scenari.
Il primo rilancia l’idea della Merkel, ormai appoggiata dagli altri grandi paesi dell’Unione, di un’Europa a più velocità. Le politiche comuni attuali e qualcuna di quelle future rimarrebbero per tutti i paesi, ma alcuni di essi potrebbero decidere di andare più avanti, caso per caso, come nella difesa, nella giustizia, nel diritto commerciale, nell’armonizzazione fiscale.
L’ultimo scenario, possibilmente complementare a quello precedente, vedrebbe l’Unione restituire ai singoli Stati alcune competenze oggi collocate a Bruxelles. Si tratterebbe di “fare meno ma meglio”, in tema ad esempio di politiche regionali, nonché di parte delle politiche sociali e dell’occupazione, delineando anche soltanto degli standard minimi su altri soggetti, come ad esempio la protezione dei consumatori e gli standard sanitari.
Va in proposito segnalato che è la prima volta che qualcuno suggerisce il principio che in tema di costruzione europea si può anche arretrare.
Parallelamente, invece, si dovrebbe andare più avanti su alcuni grandi dossier politici ed economici, quali la politica dell’innovazione, il commercio estero, i migranti e il diritto d’asilo, la protezione dei confini, la difesa. Ai maggiori poteri in alcune aree dovrebbe poi anche corrispondere il potere di implementare direttamente da parte di Bruxelles le decisioni collettive una volta prese.
Pur senza avanzare preferenze nette, comunque il documento suggerisce che sarebbero le due ultime opzioni quelle preferite.
Conclusioni
Come capo della Commissione, in presenza dei gravi problemi già prima ricordati, nonché della scadenza del 60° anniversario dell’Unione, della pendenza della Brexit e infine delle supposte minacce che pongono oggi gli Usa di Trump e la Russia di Putin, Juncker non poteva certo mancare di fare il punto sulla situazione e di aprire ufficialmente il dibattito.
Peraltro il suo approccio, pur con qualche spunto positivo, non ci appare complessivamente molto convincente e comunque esso fa intravedere una risposta molto debole di fronte ai problemi che si pongono.
Si può ricordare, tra l’altro, che negli ultimi anni molti studiosi ed operatori hanno elaborato delle idee e pubblicato delle ricerche che affrontano il problema in maniera anche molto approfondita. Di tutte queste analisi nel libro bianco ci sembra che non ci sia sostanzialmente traccia.
E’ vero che come presidente della Commissione Juncker non può imporre ai vari Stati le sue idee, ma comunque uno sforzo maggiore poteva, a nostro parere, essere fatto non solo a livello di analisi, ma anche di proposte.
Al di là di questo, entrando brevemente nel merito di quello che nel documento manca, ci sarebbe, tra l’altro, bisogno di attenzione ad una maggiore giustizia sociale ed economica, di andare inoltre verso la cancellazione delle politiche di austerità, di avviare grandi investimenti pubblici verso l’economia verde, le nuove tecnologie e la riduzione delle diseguaglianze tra paesi, in vista anche della messa a punto di un modello sociale europeo. Per non parlare della necessità di rinnovare la macchina organizzativa di Bruxelles, oggi tra l’altro facile preda di tutte le lobbies, come mostra in questi giorni il caso dei glifosfati e di cambiare alcuni principi di funzionamento, come quello dell’unanimità.
Ma di tutto questo nel documento non c’è traccia. Il progetto europeo, se si baserà sulle sole ipotesi del libro bianco, non sembra presentare motivi di entusiasmo.
Più in dettaglio, ad esempio sul piano sociale Juncker aveva dichiarato nel 2014 «…io vorrei che l’Europa avesse la “tripla A” sociale, altrettanto importante della “tripla A” economica e finanziaria…» (Ducourtieux, 2017). Ma la realtà non appare certo in linea con tali dichiarazioni. Per il vero, l’8 di marzo si è tenuto un “vertice sociale tripartito”, tra i dirigenti dell’Unione, i rappresentanti del padronato e quelli dei sindacati europei. Ma si è trattato, come al solito, di un dialogo tra sordi. La Commissione prepara inoltre per il 26 aprile la pubblicazione di una piattaforma europea dei diritti sociali, ma sono in pochi ad aspettarsi qualcosa da tali sforzi (Ducourtieux, 2017).
Testi citati nell’articolo
-Barber T., Europe starts to think the untinkable : breaking up, www.ft.com, 2 marzo 2017
-Ducourtieux C., L’Europe a bien du mal à prendre l’accent social, Le Monde, 8 marzo 2017
il manifesto, 9 marzo 2017
Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.
Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.
No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.
Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.
Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.
E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.
Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.
Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?
Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.
Mentre Donald Trump, e con lui i suoi fans di destra e purtroppo anche disinistra, fantasticano un’improbabile de-globalizzazione, spunta (o rispunta)un movimento femminista che ha tutte caratteristiche di un movimento globale.Mentre i media mainstream capovolgono l’elezione di Trump nella sconfitta delfemminismo perché il famoso tetto di vetro non è stato infranto neanchestavolta, spunta (o rispunta) un movimento femminista che mette il tetto divetro suddetto all’ultimo posto della sua agenda, e al primo la vita. Mentrel’egemonia del capitalismo neoliberale vacilla ovunque sotto i colpi di unacrisi ormai decennale, e ovunque ripropone per tutta risposta le sue ricettefallimentari senza trovare a sinistra ostacoli rilevanti e aprendo a destra viedi fuga razziste e fascistoidi, spunta (o rispunta) un movimento femminista chesi riappropria della centralità femminile nella produzione e nella riproduzionesociale, ne fa una leva sovversiva e chiama tutti, donne uomini e altri generidi ogni paese e di ogni colore, a unirsi a questa spinta sovversiva. Sono icolpi d’ala che solo la politica delle donne è capace periodicamente diinventarsi, gli scarti imprevisti dall’agenda politica e mediatica del presenteche solo la politica delle donne è capace periodicamente di produrre. E chefanno dell’8 marzo di quest’anno una giornata diversa dal solito, inedita,irrituale, inaugurale.
"La trappola dei due redditi", un testo americano pre-crisi, mostra come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito stava trascinando la middle class alla bancarotta». il manifesto, 9 marzo 2017 (c.m.c.)
È almeno a partire dalla larga circolazione dei Grundrisse, negli anni ’60 del secolo scorso, che i lettori di Marx hanno cominciato a familiarizzare con il concetto di general intellect. Una stupefacente divinazione del futuro che noi vediamo all’opera sotto i nostri occhi.
Il capitalismo si appropria dei saperi prodotti dall’anonima intellettualità di massa attiva nella società e la trasforma in profitto. Una inedita forma di sfruttamento del “sapere produttivo” che rinnova la l’accumulazione illimitata del capitale. Una immensa massa di lavoro gratuito che alimenta crescenti profitti privati.
Credo che proprio tale acquisita consapevolezza ci consenta oggi di scorgere in più piena luce la parte forse più nascosta della storia umana: il particolare sapere e il lavoro delle donne. Si tratta di un occultamento millenario. Basterebbe pensare al lavoro contadino, vale a dire all’attività produttiva più antica e più lunga della nostra storia. In questa vicenda le donne hanno svolto un ruolo decisivo di cui gli storici non trovano tracce, perché nessun documento l’ha mai registrato se non indirettamente.
Esse, ad es. selezionavano ogni anno le sementi delle piante per ricominciare il ciclo agricolo ed erano le prime a verificare la riuscita della raccolta perché, per la divisione del lavoro interna alla famiglia, erano poi loro adibite alla cucina. Era il loro parere, dato ai mariti o ai figli coltivatori, che orientava il progressivo miglioramento genetico delle piante e del modo di coltivarle. E naturalmente tale specifica attività non le sottraeva al loro mestiere più antico: produrre prole, allevarla, portarla alla condizione di forza-lavoro. Anche questo un sapere molto speciale, raffinato nel corso dei secoli.
L’avvento del capitalismo fa emergere il lavoro nascosto delle donne, con lo sfruttamento pieno in fabbrica. E’ una pagina storica ben nota. Ma è anche ben noto che dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo sino ad oggi il lavoro della donna, in fabbrica o in ufficio, non ha mai sostituito – se non in parte e per le classi sociali alte – l’antico lavoro domestico, fondato sui saperi vernacolari trasmessi da madre in figlia. Un sapere non codificato, che ha radici antropologiche profonde, spesso non surrogabile e insostituibile. Ad esso, è il caso di notare, è affidata la riproduzione della forza lavoro maschile oltre che della propria. Gli uomini ( e le donne) si possono presentare ogni giorno in fabbrica o in ufficio perché questo sapere sempre all’opera prepara le retrovie del lavoro produttivo. E’, potremmo dire, il general intellect femminile senza il quale il capitale non potrebbe alimentare la sua insonne bulimia.
Allevare i figli, cucinare, pulire la casa, aggiustare i letti, fare il bucato, lavare i piatti e altre attività pulviscolari hanno continuato a gravare sulle figure femminili aggiungendosi al lavoro subordinato. Un doppio lavoro (oggi attenuato nelle giovani coppie) che costituisce un gravame specifico delle donne nelle società capitalistiche contemporanee. Un fardello aggravato dal fatto, ben noto, che il lavoro domestico è fra i più ripetitivi e frustranti della vita sociale. Mentre, a dispetto dei due lavori svolti, è stupefacente constatare come la condizione complessiva della famiglia operaia abbia di poco migliorato il suo stato laddove il welfare non viene in soccorso. Alla “commercializzazione della vita intima” è corrisposto un allungamento del tempo di lavoro familiare, ma non un incremento significativo del reddito.
Due autrici americane, cinque anni prima della recente Crisi, hanno potuto scrivere un testo rivelatore del modo con cui il capitalismo americano aveva assorbito l’intero lavoro familiare, senza ripagare con un reddito adeguato. Elizabeth Warren e Amelia Tyagi, in The Two Income Trap (New York, 2003), la trappola dei due redditi, hanno mostrato come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito, stava trascinando - per la necessità della donna di monetizzare tutti i lavori svolti prima da lei - la middle class nella bancarotta. Come nella Gran Bretagna del XIX secolo, descritta nel Capitale di Marx, il capitalismo fagocitava l’intera famiglia nella macchina produttiva e gli prendeva l’intera vita.
A fronte di queste considerazioni oggi si può tornare a riflettere sulle differenze tra il movimento femminista degli anni ’70-80 e quello delle ragazze di oggi impegnate sul territorio universale del lavoro per abbracciare quello del genere. Forse allora si trattava di un passaggio necessario, al fine di scoprire più profondamente la specificità femminile, ma esso non ha saputo legare questo versante del corpo, oltre che antropologico, a quello sociale, più facilmente traducibile in progetto e politico. Oggi il movimento Nonunadimeno, che si presenta anche con uno sciopero, cioè con la volontà di colpire il potere capitalistico, appare come l’avanguardia di un’altra possibile storia.
«New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti». il manifesto,
Scoccata la mezzanotte, nei social già era chiaro che questo #lottomarzo sarebbe stato anche in Italia una irruzione straordinaria di lotta e gioia della politica, di passione com/movente.
Il feminiStrike globale, che ha reso questo 8 marzo una giornata di lotta senza precedenti, di ridefinizione stessa della forma-sciopero, riafferma la potenza della marea partita dalle donne argentine di Ni una menos. Chissà se al New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti.
Credo che il movimento dei movimenti delle donne oggi sia la forza politica che può agire la rottura in e con questo presente, affermandosi come soggetto radicalmente altro dal dominio capitalistico e patriarcale: ha preso corpo in Brasile nella lotta delle lavoratrici domestiche, negli Usa contro il sessismo di Trump, in Polonia contro il tentativo di rendere reato penale l’aborto, fino allo sciopero globale, sociale e politico, delle donne convocato per questo 8 marzo in più di 40 paesi.
Ieri anche dentro e fuori il Parlamento europeo a Bruxelles dibattiti, flash-mob e interruzione dei lavori. Una marea ha invaso tantissime città europee e non sono elencabili le tantissime manifestazioni in Italia: più di trentamila persone solo a Roma.
In Italia la marea aveva già portato in piazza il 26 più di 200.000 persone, dato vita ai tavoli di Roma e Bologna, al piano femminista contro la violenza e agli 8 punti per l’8 marzo, con la proclamazione dello sciopero femminista e dai generi, dal lavoro produttivo e riproduttivo. Una marea che sta cambiando ciascuna di noi, che ha fatto irruzione nella quasi totale assenza di conflitto sociale, connettendo lotte, desideri, bisogni, nel vuoto di parola, di senso e consenso di una politica ancora molto patriarcale, nei contenuti e nelle forme, anche a sinistra.
Una gioia potente, che può rivoluzionare lo spazio europeo e fare la differenza.
La straordinaria forza di questo movimento è anche nella capacità di leggere criticamente il presente, mostrando l’intersezione fra diverse forme di disciplinamento e dispositivi governamentali (come quelli neoliberisti, patriarcali, eteronormativi, razzisti) nell’estrarre valore dall’intera vita. Ed è proprio la femminilizzazione come messa al lavoro dell’intera vita di donne e uomini agita dal dominio neoliberista che ha reso oggi evidente come da una posizione femminista si possano produrre pensiero e pratiche politiche per tutte/i: soggetti-non-donna, queer, trans che si riconoscono nelle differenze e nella posizione femminista.
Il reddito di autodeterminazione, che ha una lunga genealogia femminista, è una proposta in cui si riconoscono oggi donne e uomini interamente «messi a valore» dalla femminilizzazione del lavoro neoliberista. Reddito di autodeterminazione come reddito di base incondizionato, reddito che reclamiamo come riconoscimento della vita attiva produttiva e riproduttiva e del diritto all’esistenza. Una «utopia concreta» che racconta anche quanto sia indispensabile il pensiero politico femminista per rivoluzionare lo spazio europeo e ripensare l’idea stessa di cittadinanza, oltre il familismo e il lavorismo che la connotano negli Stati nazione, oltre i dispositivi di inclusione ed esclusione, nello «smascheramento» della qualità borghese e neutro-maschile del «cittadino» oggi rimossa nei tanti cittadinismi di ritorno.
Una proposta che ci rinvia intera la necessità di rompere e rivoluzionare questa Ue fondata sul neoliberismo, che stenta perfino a riconoscere il reddito come strumento di redistribuzione. Certo, se partiamo dal disastro italiano, rappresentano passi in avanti anche la risoluzione del Pe del 2010 sul reddito minimo (equivalente almeno al 60% del reddito mediano) come misura di contrasto alla povertà, o la risoluzione approvata lo scorso gennaio sul «social pillar» in cui si «invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell’Ue, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze». Ma è evidente che non solo il riconoscimento di reddito per l’autodeterminazione, ma perfino di un reddito minimo è incompatibile con l’attuale architettura Ue disegnata dai Trattati e dai patti di stabilità.
Peraltro, i lavori e gli studi prodotti dalla Commissione Femm del Pe così come dal Gendermainstraming Network (ogni Commissione del Pe ha una responsabile del gender impact dei suoi lavori) dimostrano come l’Ue sia lontana non solo da essere uno spazio di autodeterminazione per donne e uomini, ma perfino da una reale gender-equality. Come riporta Differences in men’s and women’s work (studio del 2016 per Femm), il gender pay gap medio dell’Ue si attesta intorno al 16.4%, ma il gender overall earnings gap arriva al 41,1%. Le donne sono la gran parte del part-time non volontario e il gender-pension gap è al 40,2%.
La disuguaglianza economica continua ad essere una forma di violenza diffusa nello spazio europeo. Peraltro nella Ue in cui una donna su quattro ha subito violenza fisica, 14 SM su 28 (ormai 27) non hanno ancora ratificato la Convenzione di Istanbul.
Per uno spazio europeo libero da ogni forma violenza contro le donne occorre davvero che la marea femminista si aggiri per l’Europa.
A proposito della difesa della lingua italiana e di alcuni casi recenti. Una cosa è combattere l'imperialismo linguistico (strumento d'un più sostanziale imperialismo politico), altra cosa è difendere la coesistenza di lingue e culture diverse. Con riferimenti
Ci sembra che la questione posta dal recente articolo di Ainis (la Repubblica, 8 marzo) , e da altri difensori della lingua italiana, vada inquadrata in un panorama un po' più ampio, tenendo conto che la questione linguistica è sempre collegata molto strettamente a quella del potere. I due episodi citati da Ainis (quello milanese e quello altoatesino) esprimono situazioni e suscitano riflessioni molto diverse, sebbene anche legate tra loro.
Il primo episodio, quello del Politecnico di Milano è sintomo e conseguenza del sistema di potere che il mondo anglosassone (ma in particolare gli Stati uniti d'America), ha costruito da molti decenni. Precisamente da quando la “Dottrina Truman” (1947), proclamata in coincidenza con la rottura dell’unità antifascista, trasformò rapidamente Washington nella capitale di un Impero mondiale.
Il consolidamento della lingua anglosassone come dominante nell’economia capitalistica fu una delle tante conseguenze del nuovo assetto dei poteri nel pianeta. Esso si sviluppò poderosamente con la nuova forma del regime economico, ideologico e sociale del capitalismo: il neoliberisno (o, nell’accezione anglosassone del termine, il “neoliberalism”). Noti sono ai nostri lettori i momenti e gli strumenti rilevanti nel percorso impresso alla globalizzazione dal potere dominante, sa sul piano della teoria che su quello delle azioni concrete nei gangli del potere reale.
Si tratta delle teorie elaborate e delle azioni condotte dalla della Mont Pèlerin Society (1947) e dalla Trilateral Commission (1973). Si tratta, sul piano gli eventi storici, dell’allineamento della Cina di Deng Xiaoping alle pratiche del capitalismo (1982), e del crollo del capitalismo di Stato dell’Unione sovietica, simbolicamente espresso dall’abbattimento, da parte del governo comunista, del Muro di Berlino (1989). Tutto ciò contribuì a realizzare un modello di società nella quale - in tutte le sfere in cui si dovevano o volevano scambiare nozioni e azioni in aree non localistiche - il trionfo della lingua anglosassone era l’inevitabile conseguenza.
Bolzano e il Sudtirolo
Un’altra storia è quella raccontata dall’esperienza bolzanina. Molti hanno dimenticati come si giunse all’assetto politico-amministrativo dell’attuale regione a statuto speciale denominata Trentino - Alto Adige/Südtirol. La storia iniziò alla fine della Prima guerra mondiale quando gli accordi di pace attribuirono all’Italia una regione austriaca originariamente denominata Südtirol (Tirolo del sud). Dopo la seconda guerra mondiale gli accordi di pace si conclusero con la formazione della regione italiana denominata, appunto, Trentino-Alto Adige/Südtirol. L’accordo fu raggiunto con il cosiddetto lodo De Gasperi-Gruber, attraverso una serie di tappe e di reciproche concessioni. Una regione italiana si, ma costituita da due province: una di popolazione e storia prevalentemente italiana, quella di Trento, e una a predominanza austriaco-ladina, Bolzano. Ma a differenza delle altre ragioni italiane, quella “mista” non è la sede del potere legislativo: legiferano i due consigli provinciali. E il consiglio regionale è semplicemente la somma dei due consigli provinciali Perciò appunto quando nelle normative italiane ci si riferisce alle regioni si adopera la dizione: le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano".
In quell’area si parlano tre lingue: l’austro-tedesco, l’italiano e il ladino . Nel regime austroungarico le minoranze linguistiche erano generalmente rispettate, ai tempi della dominazione austroungarica toponimi tedeschi e ladini convivevano tranquillamente. Ainis, critica l'azione della "commissione paritetica Stato-Provincia autonoma di Bolzano la quale ha annunziato una riforma della toponomastica, per cancellare il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana. Nell'articolo si ricorda, giustamente, che, mentre nel trentino la lingua ufficiale è l'italiano, in quella sudtirolese vige il bilinguismo. Ainis rimpiange, giustamente, che «la Vetta d’Italia, il punto più a nord della penisola, d’ora in poi si chiamerebbe Glockenkarkopf», cancellando la doppia dizione in vigore oggi. Ma non ricorda ai lettori che la Vetta d’Italia, era stata così ribattezzata dall’irredentista italiano Tolomei già nel 1904, mentre la popolazione locale continuava a nominarla con il tradizionale toponimo austriaco.
Tornando al Sudtirolo, l’avvento in Italia del regime fascista provocò un’italianizzazione forzata dell’intera area. I cognomi furono italianizzati (a partire da quelli dei dipendenti pubblici), e così la toponomastica. La popolazione di lingua germanica venne invitata a trasferirsi nelle limitrofe province austriache e popolazione di origine italiana a impiantarsi nella provincia di Bolzano. Come del reso era avvenuto in Slovenia, nel breve periodo dell'occupazione italiana. Nella Repubblica italiana succeduta alla sconfitta del nazifascismo si raggiunse un equilibrio nelle regioni di confine si era trovato: il lodo De Gasperi-Gruber e il bilinguismo della provincia/regione al confine con l’Austria lo testimonia.
Oggi la ventata nazionalistica che soffia gelida su tutto il mondo fa riemergere antiche rivendicazioni, ed è giusto segnalarlo. Ma non è giusto ignorare che gli italiani non si comportarono sempre da “brava gente” .
Ancora oggi, del resto, le reazioni di gran parte degli italiani all’arrivo di persone che vengono da altre terre e altre storie, praticano diverse religioni e parlano diverse lingue genera reazioni che, nei casi più favorevoli (dove cioè si sia superato positivamente la soglia della ”prima accoglienza”) si concretano nella pretesa di operare una italianizzazione forzata della lingua e dei costumi dei migranti, al di là dell’apprendimento necessario a chiunque viva in un paese in cui la maggioranza degli abitanti parli una lingua diversa.
Per superare gli sbarramenti e non alimentare i nazionalismi occorre praticare, nell’esperienza quotidiana, la consapevolezza che viviamo in un mondo di diversi, e che anche le diversità linguistiche e culturali (come quelle della botanica e della natura) non sono una minaccia ma una ricchezza. La condizione iniziale è che ci sia il rispetto del diverso; il percorso virtuoso è che dal rispetto di passi alla curiosità, e infine alla conoscenza. Impieghiamo tanto tempo a imparare l’uso di ogni nuovo gadget elettronico; non sarebbe meglio impiegarne un po' per conoscere lo swahili o l'arabo, lo svedese o lo slavo?
Riferimenti
Si veda in proposito, su eddyburg, l'articolo di Michele Ainis Se tocca al giudice difendere l'italiano, la lettera di Giorgio Pagano a nome di un gruppo di docenti del Polimi No all'inglesizzazione degli atenei
il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2017 (p.d.)
a Repubblica, 8 marzo 2017
Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”.
Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione (diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata. Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico ( demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” ( idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’”educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».
Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide.
Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.
Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino.
Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.
Difendere la lingua italiana: d'accordo, ma come, da che cosa, in quale contesto? Il caso milanese è proprio identico a quello di Bolzano? Abbiamo qualche dubbio, cercheremo di spiegarci meglio. la Repubblica, 8 marzo 2017
Il caso del Politecnico di Milano e il ricorso al Tar per abolire i corsi in inglese Abbiamo dimenticato che la lingua di un popolo è un bene come la Pietà.
Parrebbe un’ovvietà lapalissiana, rischia di trasformarsi in una prece, una speranza, un desiderio. Non solo per il degrado culturale dei nostri studenti, né per la sciatteria linguistica che trasuda in tv così come dalle pagine dei libri. No, la questione ormai investe la sopravvivenza stessa dell’italiano, quale lingua ufficiale dello Stato. Tocca il ruolo delle istituzioni che dovrebbero proteggerlo. E in ultimo interroga l’identità degli italiani, la loro comune appartenenza.
Ne sono prova due episodi, fra i molti che potrebbero elencarsi. Il primo riguarda una vicenda giu- diziaria innescata dal Politecnico di Milano, dove vengono impartiti — dal 2014 — corsi di laurea magistrale e dottorati di ricerca esclusivamente in lingua inglese. Succede, del resto, anche in altri atenei. A Milano, però, un gruppo di docenti si è rivolto al Tar, ottenendo l’annullamento di quell’iniziativa. Dopodiché il Politecnico si è appellato al Consiglio di Stato, che a sua volta ha chiamato in causa la Consulta. Oggetto del contendere: è legittimo che professori italiani, in territo- rio italiano, insegnino a studenti italiani usando una lingua straniera?
L’altravicenda si sviluppa a Bolzano. Dove la commissione paritetica Stato-Provincia autonoma ha annunziato una riforma della toponomastica, per cancellare il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana. Risultato: oltre 1500 toponimi si pronuncerebbero soltanto in tedesco. Fra questi la Vetta d’Italia, il punto più a nord della penisola; d’ora in poi si chiamerebbe Glockenkarkopf, cancellando la doppia dizione. E altri luoghi come il Monte Sant’Anna, il lago Trenta, la montagna della Palla Bianca.
Da qui la reazione dell’Accademia della Crusca, subito appoggiata da 102 senatori. Anche perché proprio lo Statuto del Trentino, all’articolo 99, proclama l’italiano «lingua ufficiale dello Stato». Certo, in Alto Adige vige un regime di separatismo linguistico, figlio dell’accordo De Gasperi-Gru- ber del 1946. Un’eccezione rispetto al primato dell’italiano nei documenti ufficiali della nostra Re- pubblica. Ma l’eccezione non può divorare la regola, rimpiazzandola con la regola contraria. Se ne occuperà, probabilmente, la Consulta.
Che nel frattempo ha tuttavia deciso la querelle sul Politecnico. Stabilendo che è lecito impartire corsi di studio in lingua inglese, purché in misura residuale rispetto all’offerta complessiva dei singoli atenei; altrimenti verrebbero penalizzati sia gli studenti (con una barriera linguistica che pre- scinde dai loro saperi), sia gli stessi docenti (rispetto alla libertà d’insegnamento, che comprende anche la scelta sulle forme di comunicazione didattica). Insomma, l’obiettivo dell’internazionalizza- zione non può andare a scapito della nostra lingua nazionale, della sua dignità sociale e culturale. La sentenza n. 42 del 2017 - pubblicata nell’ultima settimana di febbraio — non è affatto un ine- dito nella giurisprudenza costituzionale. Già nel 1982 (sentenza n. 28) la Consulta sancì l’obbligo d’usare la lingua italiana nelle comunicazioni degli uffici pubblici; mentre nel 1999 (sentenza n. 159) aggiunse che la tutela attribuita alle minoranze linguistiche non può mai relegare l’italiano in una posizione marginale. Stavolta, però, vi si coglie un pathos, un’enfasi speciale. Dice la Corte: vero, il plurilinguismo è un tratto delle società contemporanee. Vero, la globalizzazione abbatte confini, mescola culture. Ciò nonostante, la difesa della nostra lingua nazionale non è un retaggio del passato, bensì strumento «per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica ». E l’italiano costituisce «un bene culturale in sé», al pari delle sinfonie di Verdi o della Pietà di Michelangelo. Dovremmo allora chiederci perché, da dove scaturisca questo tono
d’allarme. Ma dopotutto ciascuno conosce la risposta. Noi italiani abbiamo un’identità debole, sfo- cata. Non a caso perfino il più grande monumento edificato dopo l’unificazione nazionale — il Vit- toriano — rimane orfano di qualsiasi rappresentazione dell’Italia. Se si eccettua la parentesi dolente del fascismo, la nostra storia viene scandita dal localismo, non dal nazionalismo. Ma adesso gli ele- menti di disgregazione prevalgono, e di gran lunga, sull’integrazione. Ne è specchio la politica, ne èvittima, a suo modo, la lingua. Dal fascismo allo sfascismo.
«Salto d'epoca. Finita la ruota della fortuna siamo entrati nella ruota del criceto, tanti smanettoni invisibili e sommersi, precari a partita Iva con la paura e il rancore che si fa razzismo».
il manifesto, 8 marzo 2017
Oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per capire oltre l’invito di Candido «Dobbiamo coltivare il nostro orto», evocato in un altro scritto di Revelli sul manifesto. O ancora se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato, della civiltà materiale.
Sono tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Può sembrare retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”. Che diventa, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Questo sommerso carsico ha poco a che fare con il “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria.
Riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero/Mediterraneo. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi. In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e lo sfarinamento dei ceti medi cui si aggiunge oggi la forma partito. Il sommerso ascendente dei tardi anni ’60 sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi.
Questa voglia collettiva di rendersi ed essere visibili nel fare società e nel fare economia non c’è più. Per molti l’ascesa e la visibilità non hanno significato inclusione nel passaggio d’epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso, milioni di posti di lavoro sono andati distrutti, molti sono tornati nei sottoscala e nell’economia informale. E’ una spaccatura che attraversa anche il sindacato, che firma accordi di welfare aziendale con le medie imprese globalizzate e di formazione al lavoro “ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova a svuotare con il cucchiaio il mare dei voucher. E che dire e che fare di fronte alla proposta di Bill Gates di tassare i robot? E del mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con la grande distribuzione e i grandi gruppi assicurativi e in basso con le false cooperative dei lavori ai margini della logistica o, peggio ancora, speculando sui profughi richiedenti asilo? E’ così che si è scomposto l’operaio massa e il volontario come sostituto del militante, di cui scrivevamo su Communitas. Si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibili le vite minuscole della piccola borghesia. Pochi sono andati verso l’alto, a fare i manager, gli altri sono andati in basso pieni di incertezze per il destino dei figli a rischio neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più un rifugio, alcune banche sono fallite con le loro assemblee di popolo. La borsa poi…
Ci si “aerbirizza”, quelli a cui è rimasta la casa, facendosi affittuari per studenti e turisti, ci si “uberizza” in lavoratori autonomi di terza generazione fatti di lavoretti vari offerti dai padroni degli algoritmi, magari in conflitto con il lavoro autonomo di prima generazione. Oppure ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti. Ragionammo anni fa dei forconi, che si prendevano il centro delle città. Si trattava di un “popolino” di ambulanti commercianti e artigiani ormai working poors, provenivano dal contado e non dalle fabbriche, segno di un territorio desertificato. Un deserto che sotto il sole dei flussi surriscalda un magma sociale difficile da toccare e trattare con le categorie del ‘900 senza scottarsi. A seconda del punto di eruzione è fatto di taxisti in deficit corporativo, da ambulanti che reclamano spazi, di espulsi dai robot, sino ai nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti. Ne deduco che lo scomporre e ricomporre questo magma sia questione politica quanto il tema nodale delle povertà. Così come mi pare urgente capire che cosa ne sia del lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita Iva terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo.
I pifferai della ruota della fortuna raccontano spesso delle start up che si quotano o sono acquistate dai padroni della rete, o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa. In quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per l’apparire. A noi tocca ragionare della ruota del criceto che mostra, in una stasi accelerata, tanti smanettoni al lavoro invisibili e sommersi, o precari a partita Iva a basso reddito, quando va bene. Anche la composizione dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi. Ed anche per loro, per gli scampati al Mediterraneo, è questione il rimanere sommersi ed invisibili, nella speranza di andare verso un altrove, di andare oltre un muro, per non essere rimpatriati (se di patria si può parlare). Il grande esodo nasce da guerre, da mutamenti ambientali che producono i dannati della terra.
A fronte di questo salto d’epoca, la paura ed il rancore si sono fatti razzismo nell’Europa dell’indifferenza che non coglie la sfida delle migrazioni come questione politica che interroga un modello di sviluppo che produce fame, guerra e desertificazione. Verrebbe da dire “non voglio essere complice di questa economia e di questa politica”. Visto che non trovo un altrove, mi ritiro a coltivare il mio orticello. Ma proprio l’alzare lo sguardo nel riconoscere e riconoscersi nella sociologia delle macerie induce l’urgenza di un lavoro sociale di lunga lena, prepolitico, di ricostruzione, che vada oltre il nostro circoscritto coltivare l’orto volteriano.
il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2017 (p.d.)
«Lotto marzo. Le donne chiedono il reddito di autodeterminazione. Un welfare per tutte e tutti. Lo sciopero proclamato dalle donne rende visibile il taglio verticale del potere neo-capitalistico. Che si fa forte del patriarcato per dominare la vita».
il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Oggi, 8 marzo 2017, le donne scioperano, non sono in festa. “Se la mia vita non vale, io non produco” è lo slogan chiave della giornata che invita allo sciopero. Perché non c’è nulla da festeggiare, c’è molto contro cui lottare, molto da cambiare.
Lotto marzo, appunto, come dice l’invenzione felice di NonUnaDiMeno, l’insieme di gruppi, associazioni, femminismi diversi (le sigle originarie sono D.I.R.E, Udi, e coordinamento dei collettivi romani) che dal settembre scorso hanno dato vita al nuovo movimento. E alla entusiasmante manifestazione del 26 novembre 2016. 200.000 in strada a Roma, un corteo che accoglieva anche tantissimi ragazzi e uomini, la più grande manifestazione di movimento vista in Italia negli ultimi anni. Una scelta vitale, di notevole forza politica, che va oltre differenze e contrapposizioni troppo presenti anche nei femminismi. È stata la violenza maschile contro le donne, il ripetersi di femminicidi feroci a spingere a unirsi, a lottare insieme. A cercare la strada e la forza per ribaltare un potere che agisce sulle vite singole, fino ad armare la mano di un uomo che non sopporta di essere abbandonato. È un nuovo rischio, che minaccia le donne proprio perché sono libere. Perché possono e vogliono decidere di sé. Per questo lo sciopero è globale, un movimento internazionale che attacca alla radice il potere. Il potere del neocapitalismo che, lungi dal modernizzarsi, ha assunto il patriarcato come una propria articolazione.
La prima volta era successo in Polonia, il Black Monday del 3 ottobre 2016. Vestite di nero le polacche si sono fermate, per lottare contro la completa abolizione della possibilità di aborto. Se le donne si fermano, si ferma tutto. E con loro gli uomini, che le hanno aiutate, e in parte sostituite. In Argentina, da dove viene NiUnaDeMenos, è stato un mercoledì nero il 17 ottobre, dopo che Lucia Pèrez, 16 anni, è stata violentata, torturata e uccisa a Mar de Plata. Infine il 21 gennaio 2017, già dopo la proclamazione dello sciopero globale delle donne per l’8 marzo, la Women’s March on Washington. Una mobilitazione imponente, un milione solo negli Usa, due milioni nel mondo. Contro Trump, cioè contro il potere machista, razzista, sessista, classista.
Per questo le donne chiedono il reddito di autodeterminazione. Perché la precarietà è insopportabile. E una redistribuzione del reddito necessaria. Un welfare per tutte e tutti, chiedono. Lo sciopero proclamato dalle donne rende visibile il taglio verticale del potere neo-capitalistico. Che si fa forte del patriarcato per dominare la vita. Fin nelle pieghe prima nascoste e ora visibili, in piena luce. Proprio perché la libertà delle donne ha rotto la divisione tra privato e pubblico, la famiglia non è più quello spazio di potere riservato anche all’ultimo degli uomini, in cui nell’ombra si riproduceva l’esistenza. Lo sciopero, dice il manifesto «per uscire dalle relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà… per avere un salario minimo europeo, perché non siamo disposte ad accettare salari da fame, né che un’altra donne, spesso migrante…sia messa al lavoro in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». E ancora si sciopera «perché vogliamo essere libere di muoverci e restare». Contro le frontiere per le/i migranti, contro il razzismo. E si sciopera per la formazione, per cambiare la cultura che sostiene la violenza. E soprattutto si sciopera «perché la risposta alla violenza è l’autonomia delle donne». Non sono vittime, le donne che scioperano. Sono donne libere. Con l’invito ad astenersi dal lavoro, obbligano tutti a pensare cosa sia il lavoro. Anche chi ha ritenuto che uno sciopero non può essere politico. E chi lavora si muove solo per difendere i propri diritti. E il diritto a vivere?
La posta in gioco è molto alta. Judith Butler la chiama «alleanza dei corpi». Lo abbiamo visto nelle strade, in diversi continenti, in questi mesi. In quelle foto dall’alto, straripanti. Questo è in campo oggi, otto marzo 2017. La potenza di corpi alleati tra loro, che non si nascondono, che si mostrano, non irreggimentati in discipline e totalizzazioni. Che partono da sé, perché solo questo sé corpo-mente hanno a disposizione. E non vogliono cederlo. Sono tempi in cui si ragiona e si discute di popolo, e di populismi. Si costruisce un nuovo popolo. Ricco di differenze, pieno di speranze di trasformazione. Guidato dalle donne.
«». connessioni precarie, 7 marzo 2017 (c.m.c.)
«Pubblichiamo sul nostro sito ‒ e in contemporanea su EuroNomade.info ‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia chiamiamo "inchiesta militante", all’interno del Colectivo Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón.
Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati, collettivi di migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe complesse dell’economia popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia popolare, offre una prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario ripensare radicalmente questa pratica politica al di là dei confini del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta avvenendo in tutta l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che sono strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne.
La convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come in Italia ‒ una tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un «monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità di convocazione, ma anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo sciopero anche al di là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni.
Lo sciopero è considerato da Véronica come un salto: esso ha imposto di andare al di là di semplici rivendicazioni rivolte alle istituzioni, per porre con la forza di un movimento di massa l’ambizione a una trasformazione radicale. Il salto dello sciopero mette in campo un femminismo che rompe con ogni discorso identitario per diventare pratica di massa e moltitudinaria, capace di connettere lotte diverse attraverso i confini e a partire dal protagonismo delle donne. Attraverso lo sciopero, le donne si sono affermate come soggetto politico e, così facendo, hanno reso lo sciopero una pratica disponibile per molti altri soggetti, hanno ridato vigore alle lotte di chi, come i migranti, negli ultimi anni ha utilizzato lo sciopero politicamente.
In Argentina i migranti, uomini e donne, non solo incroceranno le braccia l’8 marzo, ma hanno già convocato "una giornata senza di noi" contro le nuove politiche migratorie del governo Macri. La sfida lanciata dall’8 marzo – indicato come "il primo giorno della nostra nuova vita" ‒ è di dare continuità e una prospettiva organizzativa all’impressionante e inattesa forza messa in campo dallo sciopero sociale e transnazionale delle donne».
Verónica, come descriveresti l’inizio dell’esperienza di NiUnaMenos? Quali sono stati i momenti più significativi per il suo consolidamento e la sua accelerazione?
«Seppure molto vicina, non sono parte del gruppo originario di NiUnaMenos. Posso però parlare di NiUnaMenos come fenomeno sociale che, come tale, appare con le due grandi manifestazioni del 3 giugno 2015 e 2016. Un vero e proprio straripamento che nessuno si aspettava. È stata impressionante la connessione che si è data, totalmente inattesa per le stesse organizzatrici. Il 3 giugno 2015 era impossibile arrivare alla piazza perché la mobilitazione era completamente disorganizzata, del tutto anomala.
«La stessa cosa è accaduta l’anno seguente e la piazza ha tolto ogni dubbio sul carattere di massa della mobilitazione. Posso dire di più sul «salto», la trasformazione che si è imposta il 19 ottobre, quando è stata lanciata per la prima volta la idea dello sciopero delle donne. Lo sciopero del 19 segna già un cambiamento per il tipo di appello e mobilitazione, ancora una volta di massa, e per il fatto che a scatenarlo è l’omicidio cruento di Lucía Pérez, un omicidio che si è consumato nello stesso momento in cui 70.000 donne erano riunite nell’incontro nazionale di Rosario. La sovrapposizione di questi due eventi ci dice molto sulla dimensione di massa e sulla trasversalità che ha avuto la mobilitazione del 19 ottobre.
«L’aspetto importante di questa giornata è che con la parola sciopero abbiamo connesso la violenza maschilista alla trama economica, politica e sociale. Mi pare che con questo tipo di connessione si superano due questioni. Da una parte, il ruolo della donna esclusivamente come vittima, con tutta quella sorta di architettura che, di volta in volta, si costruisce intorno al femminicidio, a un linguaggio che parla solo di dolore, di vittima e di assassinio. Se l’essere riuscite a imporre la parola femminicidio è stato un trionfo rispetto alla cronaca dei crimini passionali, si corre però il rischio di sostenere una narrazione dominante di violenza e di vittimizzazione. L’appello allo sciopero opera una torsione di questa narrazione, per mescolare la questione del lutto e della rabbia con la potenza che si dà nello stare insieme nelle strade».
Prima di parlare dello sciopero dell’8 marzo. Come hai detto NiUnaMenos ha travalicato, fin dall’inizio, ogni aspettativa… Da questo punto di vista, che relazione vedi con gruppi e reti organizzate?
«Credo che l’interessante di NiUnaMenos come parola d’ordine, come movimento che raggiunge una trasversalità impressionante, come fenomeno sociale è che riesce a catalizzare una rabbia e delle narrazioni che nominano una nuova forma di violenza nei territori. Ciò che da un po’ di tempo stiamo chiamando una nuova conflittualità sociale ha un asse specifico nella violenza contro il corpo delle donne. Queste mobilitazioni di massa mostrano il tentativo di connettere la specificità della violenza sulle donne con altre forme di violenza, dando conto di un nuovo tipo di guerra nei territori. Rita Segato le chiama «guerre contro le donne». L’interessante qui è mostrare come questa guerra contro le donne fa sì che un femminismo popolare, di massa, che vive nelle strade si trovi obbligato a connettere la violenza contro le donne con altre forme di violenza. In questo modo si toglie dal centro il discorso specifico di genere. Mi sembra che in Argentina sia la prima volta che il femminismo, i suoi discorsi e le sue narrazioni si connettono con un’esperienza più popolare, più di quartiere, più di strada.
«In generale c’era una resistenza all’uso della parola «femminista» perché la si circoscriveva a una tradizione liberale o accademica. C’erano in Argentina un sacco di lotte che riguardavano le donne, che però non si riconoscevano come lotte femministe e, come ho detto, molte volte c’è stato un pregiudizio rispetto al termine «femminismo». Negli ultimi due anni mi sembra che stiamo assistendo alla riappropriazione dei discorsi e delle esperienze femministe. Ed è molto interessante vedere come in America Latina sta circolando una discussione molto profonda intorno a cosa significa un femminismo popolare, un femminismo comunitario, un femminismo che si lega alle lotte territoriali, alla difesa della vita e delle risorse naturali… E qui confluiscono tutta una serie di lotte che hanno al proprio centro le questioni del territorio e della violenza. La questione fondamentale è che il femminismo produca connessioni e si traduca in un’istanza espressiva di questo tipo di conflittualità».
Che cosa distingue questo movimento dalle lotte per l’estensione dei diritti portate avanti dalle organizzazioni LGBT, che pure hanno ottenuto dei risultati durante i governi Kirchner?
«Credo che in questo momento ci sia qualcosa nel movimento delle donne che sta andando oltre le rivendicazioni puramente identitarie. In un certo senso si tratta di quello che Angela Davis ha chiamato intersezionalità, una parola che risuona molto oggi in America Latina e che per me è più interessante delle rivendicazioni di tipo identitario e della forma in cui queste rivendicazioni hanno espresso domande che poi si sono tradotte in leggi che certamente sono significative, però mi sembra che oggi il movimento vada oltre un’agenda di richieste in chiave identitaria. E non si esaurisce in una serie di richieste puntuali alle istituzioni. Certamente abbiamo una serie di domande e rivendicazioni concrete, per esempio un maggior reddito per garantire una maggiore autonomia economica per le donne in un contesto di violenza; certamente ci sono proteste contro la politica razzista e conservatrice di vari governi in America Latina, però mi sembra che si sta dicendo che esiste un «oltre» rispetto a queste rivendicazioni e non è ancora molto chiaro che cosa sia questo oltre.
«Siccome non si traduce nel linguaggio delle richieste o rivendicazioni, è un linguaggio che dobbiamo inventare per dire che cosa significa politicamente questa trasformazione più radicale. C’è un altro tema che mi pare interessante pensare. Si parla molto nel continente della fine del cosiddetto ciclo dei governi progressisti e di una svolta conservatrice e di destra. Mi pare che i punti nodali che sta ponendo il movimento delle donne offrano dei vettori di analisi che indicano anche un’altra agenda politica che non è solo quella del cambiamento elettorale, ma che invece sta pensando più in chiave sociale, di come si è acutizzato lo sfruttamento del lavoro, come si è data la finanziarizzazione dell’economia popolare, qual è il legame tra economia e violenza nei territori, ecc. Mi sembra che questo movimento sta dando alla luce una prospettiva più complessa…»
Potremmo dire che il movimento delle donne sta ponendo una discussione che va ben oltre il dibattito kirchnerista /antikirchnerista?
⋄Esattamente. E credo che ci immetta in un contesto che non è quello della depressione perchè è terminata l’epoca dei governi progressisti, quando arrivavano risorse dallo Stato, è un altro il tipo di dibattito che si pone. Si è mosso profondamente l’asse, e lo ha mosso un soggetto che nessuno pensava potesse attuare un così grande spiazzamento, in una forma così moltitudinaria».
Tornando al «salto» dello sciopero… Se l’opposizione allo stupro e al «femminicidio» permette di tenere insieme forze molto diverse, che possono convergere su una questione così essenziale, nel momento in cui si è articolato il problema della violenza come questione non solo femminile ma sociale, che riguarda precarietà, sfruttamento, regime dei confini, devastazione ambientale, ecc. sono emerse delle differenze all’interno del movimento legate, per esempio, a diverse ‘tradizioni politiche’ o alle identità e programmi delle strutture organizzate? Come avete governato le differenze di posizione emerse con la dichiarazione dello sciopero?
«Come prima cosa direi che a NiUnaMenos si è aggiunto VivasNosQueremos, che è una parola d’ordine che viene dal movimento delle donne in Messico e che cerca di pensare che non si tratta solo di morte, ma anche di come vogliamo vivere. E qui mi sembra che si apra un’interlocuzione con l’America Latina. Poi chiaramente il tema dello sciopero è un ulteriore gradino che sicuramente mette molta più gente a disagio. E questo si vede nella forma in cui i media hanno ripreso una parte del discorso di NiUnaMenos perché la narrazione della vittimizzazione li metteva abbastanza a loro agio, perfino i media mainstream, e questo è un elemento che sicuramente ha giocato un ruolo nell’impatto iniziale di NiUnaMenos. Inoltre, il discorso della vittimizzazione è quello che oggi cerca di riconvertirsi nella logica «punitivista». È un’altra delle forme possibili di appropriazione o di cattura in cui si rischia di incorrere quando si parla solo di femminicidio. È la deriva della traduzione in termini securitari ‒ o nell’agenda della destra ‒ delle questioni portate avanti dal movimento delle donne.
«Non meno importante è il fatto che lo sciopero, oltre a spiazzare la questione della vittimizzazione, rivendica che qui c’è un movimento di donne che è un soggetto politico e che come tale sta imponendo una discussione trasversale sia a livello della società nel suo complesso, sia all’interno delle organizzazioni sociali. La questione dello sciopero ha prodotto dibattiti molto interessanti, però anche controversie e polemiche molto accese con i sindacati, per esempio. Lo stiamo vedendo nell’organizzazione dell’8 marzo. I sindacati, da una parte, mettono in discussione la legittimità del movimento delle donne per parlare di sciopero, perché avvertono che c’è qualcosa intorno alla disputa sul monopolio di questo strumento politico che li indebolisce. Però, dall’altro, emerge una chiara questione generazionale perché quella che è sentita come una minaccia dalla cupola, dalle giovani militanti donne del sindacato è vista come la possibilità di una confluenza tra la loro militanza sindacale e la loro militanza come donne.
«Di fatto, ed è un dato abbastanza impressionante, negli ultimi mesi c’è stata una quantità di giovani donne elette come delegate sindacali che hanno portato dentro al sindacato l’agenda di genere e per molte di queste il 19 ottobre è stata la prima esperienza nelle strade come donne sindacaliste. Questo significa che si è aperta una discussione che non si esaurisce nel modo in cui molti sindacalisti vorrebbero risolverla, vale a dire, sostenendo, per esempio, «da questo momento è politicamente corretto avere nell’organizzazione una segretaria di genere femminile…», quando invece la dinamica del movimento delle donne sta dicendo «no, ciò che reclamiamo non riguarda una segretaria di genere, si stanno ponendo discussioni in maniera trasversale alle stesse organizzazioni».
Negli ultimi mesi si sono date alcune mobilitazioni particolarmente forti. Da una parte, a seguito dei licenziamenti in ambito statale e in particolare nei Ministeri di Educazione e di Scienza e Tecnica. Dall’altra, le grandi manifestazioni intorno alla questione dell’emergenza sociale. Che tipo di ruolo hanno giocato queste mobilitazioni nella dichiarazione dello sciopero dell’8M? Vedi una relazione con queste mobilitazioni? Anche perché in queste lotte, se sei d’accordo, abbiamo assistito a un nuovo protagonismo delle donne che generalmente restava un poco coperto dalle logiche sindacali più classiche…
«Mi sembra che il 19 ottobre e oggi l’idea di sciopero posta dal movimento delle donne ci obbliga a una ridefinizione e soprattutto a un ampliamento dell’idea di sciopero perché si includano esplicitamente le donne dell’economia informale, dell’economia popolare, oltre a fare riferimento alla politicizzazione del lavoro domestico, riproduttivo, di cura. Si assume una mappatura del lavoro che almeno in America Latina ‒ dove la discussione sull’economia popolare è abbastanza importante ‒ si caratterizza per una forte eterogeneità.
«L’ampliamento dell’idea di sciopero credo interpelli questi settori del lavoro, ovvero è necessario chiedersi come uno sciopero possa contenere al suo interno realtà del lavoro così eterogenee. Per esempio, ci diceva una donna cartonera[2]: «se io non lavoro un giorno non mangio, perché il mio sostentamento è garantito dal lavoro di tutti i giorni». Come è possibile pensare che quest’aspetto non sia una debolezza di questo settore ‒ che visto da questa prospettiva non riuscirebbe a prendere parte allo sciopero ‒ ma piuttosto una specie di sfida alla stessa idea di sciopero, che deve essere capace di contenere questo tipo di realtà? Quindi lo sciopero è anche uno strumento capace di politicizzare figure del lavoro molto diverse però anche molto trasversali. La discussione intorno all’economia popolare, la sua relazione con i sussidi statali, con l’eredità del movimento piquetero[3], ecc. è qualcosa che si può vedere in tutta la sua complessità alla luce dello sciopero.
«Mi sembra che sia possibile una riconsiderazione del lavoro in chiave femminista e questo a partire dal 19 ottobre. «Il primo sciopero contro Macri lo facciamo noi donne»: questa parola d’ordine è stata molto forte il 19 ottobre. E l’8M sarà il secondo sciopero che facciamo, mentre nel frattempo tutte le centrali sindacali minacciano scioperi che però non fanno mai! La forza dello sciopero, quindi, chiama in causa la situazione argentina più congiunturale ‒ ciò che significa il governo neoliberale e conservatore ‒, però anche, più specificamente, le centrali sindacali che stanno chiaramente agendo sul terreno della negoziazione delle misure di austerity. E l’altro punto molto interessante e, credo, abbastanza sorprendente, è come l’idea di sciopero abbia avuto un’eco transnazionale, regionale e non solo regionale».
Tornando per un momento alla questione sindacale. Come hai accennato, ridefinire lo sciopero come pratica politica femminista significa anche sottrarlo al «monopolio sindacale». Alla fine, i sindacati argentini hanno dovuto dichiarare la loro adesione formale. Puoi dirci come avete articolato il rapporto con i sindacati, che tipo di difficoltà avete incontrato e come siete arrivate a questo risultato?
«Come prima cosa bisogna sottolineare che l’esigenza di un pronunciamento delle centrali sindacali esce da un’assemblea convocata da NiUNaMenos, che è stata un’assemblea moltitudinaria, con organizzazioni, movimenti sociali, gruppi culturali, ecc. Dalla stessa assemblea sorge la necessità di interpellare i sindacati.
«Da lì si apre tutto un processo di negoziazione che ancora stiamo attraversando e che ha a che vedere con la discussione intorno a quali sono gli attori legittimi per convocare lo sciopero, e la discussione continua a essere aperta… Però, come accennavo, questo processo evidenzia anche lo sfasamento generazionale all’interno del sindacato, le diverse esperienze militanti con cui le giovani arrivano al sindacalismo e la capacità della dirigenza sindacale di essere più o meno aperta all’emergenza di questi nuovi quadri giovani. È una disputa molto forte. Rispetto allo sciopero delle donne i sindacati attuano una sorta di duplice strategia: da un lato, assumono il discorso dello sciopero come strumento molteplice per diluirlo e non per potenziarlo come, al contrario, facciamo noi. Quindi, per esempio, ti dicono che sarebbe lo stesso dire «giornata di lotta», però noi sappiamo che non si tratta della stessa cosa. Dall’altro, cercano di imporre l’idea dello sciopero come misura che possono convocare solo loro in quanto sindacati.
«Mi sembra che tra questi due poli si sia aperta una tensione in queste settimane e si tratta di una tensione ancora molto attiva. In ogni modo, è un evento storico che i tre sindacati aderiscono insieme a uno sciopero che ha al proprio centro le questioni di genere. Ed è anche la prima volta, secondo quello che ci dicono le compagne, che si dà questo livello di discussione dentro al sindacato a partire dal movimento delle donne. È anche interessante come si stia producendo un nucleo di riflessione femminista sul tema del lavoro».
L’appello internazionale per lo sciopero dell’8 marzo fa espressamente riferimento alle politiche dei confini e alla condizione delle donne migranti. In che modo NiUnaMenos ha articolato il proprio discorso? Esistono percorsi di organizzazione per lo sciopero insieme alle donne migranti?
«Ci sono molte compagne di diversi collettivi e reti migranti che stanno partecipando nell’organizzazione dello sciopero. Inoltre la questione del lavoro migrante è fondamentale in questa mappatura del lavoro in chiave femminista, di questi lavori permanentemente invisibilizzati, oltre che femminilizzati. Tutto questo è molto presente. L’altro punto è che ‒ in Argentina in particolare, però potremmo parlare a livello continentale ‒ con l’apertura del primo centro di detenzione per migranti nel settembre scorso e l’ultima riforma per decreto del governo di Macri, che riduce le possibilità di soggiorno dei migranti, ci troviamo di fronte a politiche concrete di criminalizzazione. Quindi la dinamica di connessione con i lavoratori migranti è molto importante per costruire lo sciopero. Inoltre, proprio in questi giorni, i collettivi migranti hanno lanciato uno sciopero per il 30 marzo.
«C’è qualcosa di questa apertura dell’idea di sciopero che comincia a essere riappropriata anche da altri collettivi e da altre esperienze. E da questo punto di vista, la questione migrante parla un linguaggio che connette lo spazio regionale latinoamericano e per questo esce dalle dinamiche nazionaliste cui, tradizionalmente, fanno riferimento molte organizzazioni sociali».
Che cosa significa convocare uno sciopero che è uno sciopero sociale e transnazionale? Sociale perché impone una trasformazione radicale della società e transnazionale perché aggredisce questioni che non sono vincolate alle politiche dei singoli Stati ma attraversano i confini… Che cosa pensi di questa prospettiva e come cambia per voi il significato dello sciopero nel momento in cui sono le donne a rivendicare questa pratica in una prospettiva esplicitamente globale? Quali prospettive apre questa dimensione dopo l’8 marzo?
«È proprio questa potenza che è stata sorprendente, imprevista e che al tempo stesso esprime una forza che dobbiamo chiederci come sostenere. Perché è un tipo di connettività transnazionale che già dal 19 ottobre si è rivelata molto efficace nel tradurre una serie di domande fatte con un linguaggio molto diverso. Per esempio, lo sciopero in Paraguay ha una forte componente impegnata nella lotta contro l’avvelenamento da agro-tossici, quindi parte da una domanda di salute e dal ripudio delle multinazionali che ci stanno avvelenando.
«In Honduras e Guatemala lo sciopero ha a che vedere fortemente con la discussione sul femminicidio e sul territorio in relazione alle miniere multinazionali che stanno uccidendo i leader contadini e indigeni. In Brasile è legato alla protesta contro la chiesa evangelica e la sua offensiva contro l’autonomia delle donne sul loro corpo. Questa capacità di connessione, ripercussione e traduzione messa in campo dallo sciopero lo rende una misura molto elastica, cioè capace di contenere tutte queste domande, senza però diluirle in una dimensione globale astratta. Però questa stessa capacità di traduzione e di elasticità apre una domanda su come ci organizziamo: cosa facciamo il giorno dopo? Nell’appello abbiamo detto che l’8 marzo è il primo giorno della nostra nuova vita… è un movimento che dice che vuole cambiare tutto e credo che questo «voler cambiare tutto» esprime esattamente la capacità di politicizzare tutti questi temi.
«Lo sciopero deve essere uno strumento e un linguaggio capace di dar conto di tutte queste dimensioni della vita, della riproduzione della vita e del rifiuto del suo sfruttamento. Quindi qui gioca questa sorta di versatilità che può connettere a livello globale e che lascia aperta la domanda intorno a che cosa significa il movimento delle donne come soggetto politico: quali sono le sue forme di organizzazione? Che cosa significa questa eterogeneità quando riempie le strade? Che cosa si tesse tra una mobilitazione e l’altra? Penso che le mobilitazioni di piazza siano molto importanti però lasciano aperta la domanda su come tutto questo si strutturi nella lotta quotidiana per cambiare radicalmente le nostre vite».
[1] Verónica Gago, La razón neoliberal. Economías barrocas y pragmática popular, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014.
[2] Con cartoneros ci si riferisce alle donne e agli uomini che raccolgono i rifiuti riciclabili.
[3] Movimento dei disoccupati che si consolidó in Argentina durante le politiche neoliberali degli anni Novanta. Cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberalismo, Roma, DeriveApprodi, 2003.
Due storie raccontate da Michela Bompani e Lucia Serranò dalle rispettive sezioni locali di Genova e Firenze de
la Repubblica. 7 marzo 2017 (p.d.)
la Repubblica online, ed Genova
la Repubblica online, ed Firenze
PRATO, OPERAIA CINESE MUORE