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Quando Donald Trump, lo scorso weekend, è passato per Londra, non aveva ad attenderlo solo drappelli di contestatori, un sindaco nemico e un grande palloncino con la sua caricatura alto nel cielo, ma anche, nel cuore della National Gallery, il ciclo del Course of Empire dell'angloamericano Thomas Cole (1833-36), cinque dipinti che mostrano come il progresso e l’apogeo di una civiltà siano seguiti dal declino e dall’estinzione, specie quando l'uomo lascia libero corso all’odio intestino e al disprezzo per l’ambiente naturale. La mostra londinese di Cole, che Trump probabilmente non ha visitato (il ciclo in questione è però di norma albergato presso l’American Geographical Society di Manhattan, poco lontano dalla sua Tower) è accompagnata dal recentissimo “rifacimento" ad opera dell’artista losangelino Ed Ruscha, che traspone il concetto di decadenza dell’impero nel confronto tra alcuni luoghi-simbolo del boom americano “prima e dopo la cura”: capannoni di aziende, grandi magazzini, cabine telefoniche, che oggi sono diventati fabbriche cinesi, insulsi fast-food, il vuoto dell’etere.

“Decadence: a Very Short Introduction” si chiama il libretto di David Weir che spopola nelle librerie di Oxford. E anche se vi si parla di Wilde e di Baudelaire, l’impressione è che sia un tema sentito anche da questa parte dell’Atlantico. Chi percorreva le vie di Londra sabato 7 luglio si trovava dinanzi a una città solare e colorata, percorsa da migliaia di manifestanti del London Pride diretti a Trafalgar Square, e lucidamente commossa nel ricordo, in un angolo di Hyde Park, degli attentati jihadisti del 7 luglio 2005, che procurarono 52 morti e centinaia di feriti. Per una volta, questa cerimonia cittadina veniva tenuta al riparo dalle polemiche circa il protagonismo e la retorica “inclusiva" del sindaco musulmano Sadiq Khan (peraltro non capace di garantire la sicurezza in città, come hanno mostrato gli attentati degli ultimi mesi e il dilagare della violenza di strada), e dalle risse sulle responsabilità politiche remote della strage di 13 anni fa - risse che nel 2016, all’indomani del feroce rapporto Chilcot sugli errori e le volgari menzogne di Blair nell’intervento in Iraq, avevano avvelenato il clima di lutto condiviso. Sui giornali, campeggiava poi il nuovo nemico comune: l’intelligence russa, i cattivi del caso Skripal all’opera nella vicina Salisbury con danno anche - sembra - di due persone innocenti esposte per caso al letale novichok.

Soprattutto, sabato 7 era il giorno in cui veniva reso pubblico l’esito positivo del delicatissimo vertice del partito conservatore sulla politica della Brexit: dopo snervanti trattative nella residenza di Chequers (i giornali fornivano mappe delle stanze e menù dei pasti), i Tories si erano finalmente attestati sulla linea “morbida” di Theresa May. E così, poche ore dopo, il quarto di finale Inghilterra-Svezia si risolveva nel trionfo di una nazione improvvisamente più convinta di sé e sempre più simile al proprio allenatore, Gareth Southgate, capace di infondere una serena fiducia e un sentimento di coesione e umiltà sotto il suo sguardo fiero e il suo immancabile panciotto. Southgate, per i meno giovani, è colui che sbagliò il rigore decisivo nella semifinale di Euro ’96 (giocata a Wembley) contro la Germania: il suo riscatto - per di più tramite la gioiosa macchina multietnica di Maguire e Dele Alli, il sacrificio di Kieran Trippier e le serpentine di Sterling - diventava un simbolo che trascendeva il destino privato e coinvolgeva l’intera nazione. Reduce da un sostanziale fallimento al Middlesbrough, Southgate non appartiene certo all’aristocrazia degli Eriksson e dei Capello, né alla vecchia guardia un po’ arrogante degli Hodgson e degli Allardyce; e ha avuto l’opportunità di portare l’Inghilterra al vertice di un campionato mondiale improvvisamente declassato ad Europeo.

Ma di colpo, è venuto giù tutto il fragile castello. Le dimissioni di Boris Johnson precipitano il governo nel caos, lasciandogli una maggioranza esile in vista delle prossime scadenze, e soprattutto moltiplicando le incertezze sulla vera linea che il Regno Unito seguirà nelle trattative per la Brexit - già ora si paventa il rischio di finire marginalizzati come la Norvegia o l’Ucraina, mentre i seguaci di Johnson (tra cui la discussa ministra del lavoro McVey) promettono battaglia e vendetta, e l’ex segretario Hague e altri Tories - dinanzi all'ardua prospettiva parlamentare della linea May - evocano lo spettro di un secondo referendum: insomma, il caos. D’altra parte, i facili sfottò contro la legnosità della difesa svedese lasciano il passo a sconcertanti articoli circa l’”anarchia” che regnerebbe nella nazionale croata (dietro Modric il nulla; un allenatore improvvisato; una Federazione corrotta), e a una sicumera ignara perfino della scaramanzia: così, per dare sostanza al tormentone “Football’s coming home” cantato a squarciagola nei pubs dotati di maxischermo, la British Airways pensa bene di riempire i giornali con un biglietto aereo "Moscow-Home" (Demodedovo-Heathrow) a nome di "Mr. Football", datato 15.7.18 (il giorno della finale), imbarco alle 19.66 al "Gate-South”.

E invece poi arrivano le zampate di Perisic e Mandzukic, e si scopre che quel giorno Mr. Football atterrerà a Charles de Gaulle o a Zagabria: a Charles de Gaulle, sappiamo ormai, trovando a terra magari Michel Platini in compagnia di un emiro. Del resto nella biancorossa Zagabria, accanto ai tifosi in delirio, avrebbe forse avvistato l’antico patron della Dinamo, quel Zdravko Mamic che il mese scorso è stato condannato a 6 anni e mezzo di reclusione per aver intascato illecitamente i proventi di alcune cessioni di giocatori, tra i quali lo stesso Luka Modric che l’avrebbe coperto testimoniando il falso in tribunale. Mamic - già grande supporter e finanziatore della presidentessa croata Grabar-Kitarovic che nella semifinale esultava merkelianamente in tribuna - è oggi de facto latitante in Bosnia-Erzegovina, tra Mostar e Medjugorje; ma le ombre sulla Federazione si allungano prepotenti, il processo al divo Modric incombe dopo la fine del Mondiale, e lo stesso entusiasmo dei Croati più avveduti per dirigenti, politici e calciatori tanto compromessi pare un po' meno convinto di quanto non fosse all’epoca del terzo posto a Francia ‘98.

Quel che è certo è che sabato 14 i ragazzi di Southgate sono tornati a casa quarti, travolti dalla classe del multietnico Belgio; e anche se poi loro vengono ricevuti in pompa magna dalla May - pronta, come la sua collega croata, a trarre dividendi politici dagli exploits dei calciatori - Londra è tornata a lottare con le proprie paure del diverso, con l'assillo di una tambureggiante decadenza, e con le ancora oscure e irrisolte memorie del “seven-seven”, così assonante al “nine-eleven” (11 settembre) d’Oltreoceano. In fondo, era più probabile che Donald Trump, se avesse avuto un momento libero, visitasse la notevole mostra che la National Portrait Gallery, sempre a Trafalgar Square, dedicava alle rappresentazioni artistiche del suo grande amico Michael Jackson: tra le altre opere, il video di Rodney McMillan, che copriva il più importante concerto newyorchese della leggenda del pop, datato 10 settembre 2001.

Il Fatto Quotidiano,

Sapevo che sarei andato in Vietnam. A quel tempo filmavo per Tv7. La data (1 febbraio) era stata decisa secondo le esigenze e i turni della troupe e nessuno si aspettava, in quel momento, neppure gli strateghi americani, che i Viet Cong avrebbero attaccato Saigon, si sarebbero spinti fino a combattere sul prato intorno alla ambasciata americana, uccidendo e facendosi uccidere come in un grande e ben diretto spettacolo di morte. Noi siamo arrivati a Saigon di mattina, poche ore dopo l’inizio della “offensiva del Tet” e non sapevamo neppure che il Tet era (è) il Capodanno vietnamita. Ci ha portati a Saigon un Caravelle delle linee aeree thailandesi che è partito e arrivato in orario, senza alcun avvertimento o notizia all’aeroporto o dal pilota. Strano, dicevamo l’uno all’altro, per un volo di linea: stiamo volando sopra i fiocchi bianchi di decine e decine di esplosioni. A terra il Caravelle ha parcheggiato evitando le buche di esplosioni, fra due aerei distrutti.

L’aeroporto appariva deserto e devastato, le barriere d’ingresso abbattute, nessuno al controllo. Ma sul piazzale ingombro di macerie di una distruzione appena compiuta, c’era, in uno spiazzo ripulito e collegato ai resti di una strada, un unico taxi, forato di pallottole (un grosso buco al centro del parabrezza) ma con l’autista al volante. Forse non parlava il francese ma lo capiva. Ed era deciso ad accettare clienti, anche strani (io ero in giacca e cravatta) o pericolosi (le macchine da presa) come noi.
Quello è stato l’inizio del mio 1968. E da quell’inizio è arrivato in Italia il documentario I bambini di Bien Hoa (senza parole, la guerra, specialmente quando le vittime sono i bambini, parla da sola) La Rai di allora (Bernabei, Fabiani) lo ha messo in onda nonostante le reazioni dure del Quirinale di Saragat e dell’ambasciatore americano Martin.
Nel viaggio di ritorno io però mi sono fermato a New Dehli nella prima sera di pace che stavo trascorrendo in India (lavoravo a un progetto con l’unico documentario al mondo sui Beatles non fatto dal titolo I discepoli di Gandhi) ho incontrato i Beatles, appena arrivati nello stesso albergo e in viaggio verso la meditazione sull’Himalaya. John Lennon era intelligente e curioso, e con lui era naturale parlare. È nato, nella notte, il progetto di seguirli con le cineprese, la prima volta che qualcuno li avrebbe filmati, senza che fosse un loro progetto, senza la loro regia e la loro gente fidata. Ma Lennon si è fidato, e un po’ alla volta anche gli altri. E così siamo saliti all’Ashram del loro guru Maharishi Maharishi Yoghy (insieme a Mia Farrow, Donovan e al leader dei Beach Boys, Brian Wilson) e ne siamo discesi una settimana dopo con l’unico documentario al mondo sui Beatles non fatto dai Beatles, ma da una televisione italiana che lo ha trasmesso, lo ha venduto con grande successo nel mondo ma, stranamente, non lo ha mai commercializzato in Italia.

Ho dovuto abbandonare il documentario sui discepoli di Gandhi e la pace dell’India, perché il Tg di quei tempi mi voleva negli Usa per seguire Martin Luther King.
Stava diventando, in un anno elettorale, il grande leader politico nero. Quando King è stato assassinato, al Lorraine Motel di Memphis, Andrew Young e Jesse Jackson (le due persone più legate e più vicine a lui) mi hanno aiutato in una immediata inchiesta filmata a partire dal punto in cui loro (che erano accanto a King al momento del delitto, sul ballatoio del motel) avevano visto partire il colpo. Niente del nostro film coincideva con i rapporti di polizia, e per anni Coretta King e i suoi figli si sono battuti per la liberazione del presunto assassino (James Earl Ray) morto in isolamento in prigione. Ma erano i giorni (3,4 e 5 aprile) in cui Washington era in fiamme per la rivolta nera contro il delitto di Memphis. Le truppe federali non sono riuscite a fermare la rivolta. Ma è riuscito, nel cuore della notte in fiamme (5 aprile) Robert Kennedy, ormai candidato vincente alle primarie democratiche presidenziali, con una idea che è diventata anche un celebre Tv7 della Tv italiana.

Illuminato dall’unica lampada del datore di luci, in piedi sulla macchina scoperta noleggiata dalla Rai, facendosi sentire con due altoparlanti a cui era stato collegato il microfono, Kennedy ha detto: “Hanno ucciso mio fratello, hanno ucciso vostro padre. Ma non siamo quelli che uccidono, non vogliamo diventare come i nostri assassini. Noi siamo coloro che portano pace.

«Kennedy era credibile perché era il solo a battersi contro la guerra nel Vietnam e perciò seguito e sostenuto da una marea di giovani. La rivolta del ghetto di Washington è finita quella notte e Bob Kennedy diventava ogni giorno di più il futuro presidente degli Stati Uniti». Andrea Barbato e io lo abbiamo seguito, intervistato e filmato per la Rai durante tutti i mesi e tutti i giorni seguenti della campagna elettorale.

Fino alla notte del 4 giugno, quando l’uomo colpito con precisione alla testa e morente sul pavimento della cucina dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, è andato ad aggiungersi ai grandi cadaveri della politica americana, ancora una volta colpito con esattezza da un assassino sfuocato, e non veramente identificabile, per ragioni mai dette, salvo le falsità accettate ancora una volta nei tribunali per chiudere il caso.

Ma il caso non si è mai chiuso, e non era chiuso quando, in tanti (una folla di decine di migliaia, guidati da Allen Ginsberg e Norman Mailer) siamo andati al Pentagono “per levitarlo” (Allen Ginsberg) e infondergli una volontà di pace. E il caso non era chiuso quando, alla Convezione democratica di Chicago, soldati armati di baionette hanno circondato e bloccato l’immensa folla giovane, e il documentario lungo come un film che ne abbiamo tratto era in molti punti diretto da Michelangelo Antonioni, che era venuto a raggiungerci nel momento cinematograficamente migliore e politicamente peggiore di quel 1968. Nelle elezioni presidenziali, ricorderete, ha vinto Nixon. Ma con un trucco che, in due anni, lo porterà alla rovina del Watergate.

Tratto da Il Fatto Quotidiano del 13 luglio 2018, p. 22.

Nigrizia.it,

Non basta perseguitare chi fugge da condizioni disumane; nel cosiddetto ‘mondo civile’ ci si accanisce persino contro i bambini: qui in Italia si vuole agire nei confronti dei rom, minacciando la perdita della potestà genitoriale se i loro figli non frequentano le scuole; nell’America di Trump e della ‘tolleranza zero’ si agisce con crudeltà nei confronti dei migranti dal Centro America, separando e mettendo letteralmente in prigione i bambini di famiglie che sono riuscite a varcare il confine. Neanche il pianto disperato degli innocenti commuove questi novelli Erode!
Che fare? Non solo la società civile e le comunità cristiane, come invita a fare Zanotelli, ma anche le amministrazioni locali 'progressiste' dovrebbero prendere esempio dal movimento USA dei Sanctuary States (sono già 7) e delle Sanctuary Cities (sono decine le contee e le grandi città che vi aderiscono...): un movimento che si oppone alle politiche razziste e xenofobe contro gli immigrati 'illegali' attuate da Trump e che si sta impegnando in iniziative di contrasto alle leggi federali e in azioni penali, rischiando severi tagli di fondi da parte del governo federale. Per ora, di iniziative analoghe nel nostro paese non se ne vedono... (m.c.g.)

L’onda nera del razzismo e della xenofobia che sta dilagando in Europa – dall’Ungheria all’Austria, dalla Polonia alla Slovenia – travolge oggi anche il nostro paese. Il volto più noto di questo razzismo nostrano è certamente Matteo Salvini, segretario della Lega e ora ministro degli interni nel nuovo governo giallo-verde (non dimentichiamoci che Salvini è apprezzato da Bannon, ex consigliere di Trump e portabandiera dell’ultra destra sovranista mondiale!).

In queste prime settimane di governo giallo-verde, Salvini ha subito rivelato la sua strategia politica con degli slogan che fanno paura. «È finita la pacchia dei migranti», «i clandestini devono fare le valigie, se ne devono andare», «nessun vice-scafista deve attraccare nei porti italiani», «siamo sotto attacco e chiediamo alla Nato di difenderci dai migranti e terroristi», «l’Italia non può essere il campo profughi d’Europa».

Pesante l’attacco contro la Tunisia, definito come paese «esportatore di galeotti». La politica leghista vuole creare “più centri di espulsione” per sbarazzarsi di 500.000 irregolari rimandandoli ai loro paesi. Pesanti le parole del ministro degli interni contro il sindaco Mimmo Lucano che ha fatto rifiorire il paese di Riace (Calabria) accogliendo migranti: «È lo zero!». Altrettanto dura la politica del ministro degli interni contro i rom: vuole smantellare i loro campi con le ruspe e attuare quanto concordato nel “contratto di governo”: l’obbligo della frequenza scolastica, pena la perdita della responsabilità e potestà genitoriale. Siamo alle leggi speciali per i rom? Inoltre egli promette il pugno duro per la sicurezza e il decoro urbano, a spese dei senza fissa dimora, dei poveri, degli ultimi.

E il segretario della Lega è passato subito dalle parole ai fatti, negando alla nave “Acquarius”, che portava oltre 600 migranti, di potere attraccare ai porti italiani. Un atto vergognoso giocato sulla pelle dei poveri, ma anche illegale perché viola la nostra Costituzione e i trattati internazionali firmati dall’Italia sulla ricerca e salvataggio marittimo.

È ormai un Salvini che impazza a tutto campo, mentre i Cinque Stelle sono già prigionieri del campo di forza della Lega che ha sempre più consensi e riceve gli elogi di Bannon e di Marine Le Pen e del gruppo di Visegrad. Dobbiamo riconoscerlo: siamo davanti a un “razzismo di Stato” preparato in questo ventennio da leggi come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, i decreti Maroni, la realpolitik di Minniti e da un crescente razzismo degli italiani.

E i conventi cosa fanno?

È un fenomeno questo che ci interpella tutti: società civile, cittadinanza attiva, movimenti popolari, Chiese, comunità cristiane. Come missionario mi appello per primo alla Chiesa italiana perché faccia un serio esame di coscienza cercando di capire quanto i cristiani abbiano contribuito a questo disastro. È mai possibile che le nostre comunità abbiano dimenticato quelle parole così chiare di Gesù: “Ero affamato…, ero assetato…, ero forestiero… e non mi avete accolto?”. Non è forse questo il momento più opportuno per aprire le nostre comunità ed accogliere coloro che sono minacciati di espulsione? A che cosa servono i conventi o le case religiose se non ad accogliere coloro che la società opulenta non vuole?

Dovrebbe farci riflettere che negli Usa tante chiese e comunità cristiane si siano dichiarate “sanctuary”, luoghi di rifugio per coloro che Trump (altro razzista!) ha deciso di deportare ai loro paesi dove rischiano la vita! Non è forse il momento in cui lanciare il “Sanctuary movement” anche in Italia per salvare tanti migranti da morte sicura? È mai possibile che negli USA lo stato della California si sia dichiarato “santuario” per gli irregolari che Trump vuole espellere e in Italia nessuna comunità cristiana ancora abbia fatto un tale passo?

Creare anticorpi

Mi appello alla cittadinanza attiva di questo paese perché in fretta crei gli anticorpi per reagire al fascio-leghismo nostrano. È fondamentale imboccare seriamente la strada della disobbedienza civile per tutte quelle leggi che disumanizzano i nostri fratelli e disumanizzano anche noi. «Una legge che degrada la personalità umana è ingiusta», così scriveva dal carcere di Birmingham, Martin Luther King. E aggiungeva: «I primi cristiani si rallegravano per essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano. Allora la Chiesa non era un semplice termometro che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica: era un termostato che trasformava il costume della società. Quando i primi cristiani entravano in una città, le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionare i cristiani perché “disturbavano l’ordine pubblico” ed erano “agitatori venuti da fuori”. Ma i cristiani non cedettero, chiamati ad obbedire a Dio e non agli uomini».

È questo lo spirito che deve ritornare ad animare le comunità cristiane per poter sconfiggere, insieme a tanti uomini di buona volontà, l’onda nera del razzismo e xenofobia che ci sta travolgendo. Dobbiamo farlo insieme, credenti e laici, memori di quanto afferma il danese Kaj Munk, pastore luterano antinazista, ucciso come un cane nel 1944: «Quello che a noi manca è una santa collera!».

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

la Repubblica

La truffa è semplice, basta adoperare le parole con fraudolenta malizia, magari usando espressioni in inglese. Ciò che è "piatto" non è la tassa, ma la percentuale di prelievo sul reddito, cioè l'aliquota. Chi guadagna molto dovrebbe, in base alla nostra Costituzione, pagare una percentuale del proprio reddito molto più alta di chi guadagna meno, invece con la flat tax pagano una uguale percentuale del reddito sia chi guadagna 1000 al mese sia chi ne guadagna 10.000, 100mila o 1milione. (e.s.)

la Repubblica, 17 maggio 2018
Che cos'è la flat tax: maxi taglio fiscale per i ricchi,
rischio beffa per i poveri

«La scheda. Le caratteristiche della "tassa piatta" che si prepara ad entrare nel programma di governo gialloverde e che costa almeno 50 miliardi. Chi avvantaggia e perché»

Che cos’è?

Nel gergo anglofilo della politica economica e delle tasse viene chiamata flattax, significa tassa piatta, ma anche con la traduzione in mano non si capisce.“Piatta”, ma perché? L’aggettivo viene dal linguaggio degli economisti cheparlano riferendosi ad un grafico con una curva dove sono rappresentati ilreddito (ascisse) e il peso delle tasse (ordinate). Se la curva cresce alcrescere del reddito, si parla di tasse progressive, se invece resta ferma alcrescese del reddito appare piatta e dunque le tasse sono meramenteproporzionali.

incidenza media delle due imposte, irpef attuale e flat tax con due aliquote, per un dipendente single. (Fonte: Massimo Baldini)
Detto questo dobbiamo spiegare che cosa sono le tasse progressive e quelleproporzionali. Il principio di progressività non è così intuitivo, perchéprevede che chi guadagna di più paghi più che proporzionalmente, mentre nelsentire comune il termine “proporzionale” già sembra sinonimo di equità. Invecequando si parla di soldi non è così perché, come diceva Einaudi (un grandeeconomista che è stato anche presidente della Repubblica) le stesse dieci lirenon hanno lo stesso valore per il povero che ci compra la minestra e per ilricco che ci compra la poltrona al teatro, dunque il ricco può pagare di più. Quello che diceva Einaudi è talmente vero che la nostra Costituzioneall’articolo 53 impone che che le tasse siano ispirate al principio diprogressività.

La flat tax è stata mai applicata?

Il 19 novembre del 2004 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi diritorno da una visita ufficiale nella giovane democrazia della Repubblicaslovacca, dove aveva esaltato le ricette dell’economista, consigliere diReagan, Arthur Laffer, rilanciò l’idea della flat tax che del rasto, fin dalprogramma del 2001 era stato uno dei suoi cavalli di battaglia. E’ vero chemolti paesi dell’Est hanno adottato l’aliquota unica ma bisogna considerare chequei paesi, usciti dai regimi non di mercato, non avevano un sistema fiscalesviluppato, quindi la certezza di una aliquota al 15 o 16 per cento era giù unsuccesso.

E gli americani?

Anche i falchi americani delle tasse non hanno mai avuto vita facile. MiltonFriedman consigliò la flat tax a Reagan che tuttavia non la adottò e nel 1986si limitò a tagliare l'aliquota massima con il celebre Tax Reform Act. Piùtardi, lo specialista Alvin Rabushka, tentò di dare consigli a George W. Bush:ma persino George junior si limitò a limare l'aliquota più alta in vigore negliUsa di circa 5 punti portandola al 35 per cento e rifiutò di introdurrel'aliquota unica proposta dal miliardario Steve Forbes (che per questo loattaccò duramente). Obama la riportò all'attuale 39,6 nel 2013. L'esercizio deltaglio delle tasse non è facile. Da qualsiasi sponda dell'Atlantico si cerchi diattuarlo.

Ora veniamo all’Italia.

La flat tax contenuta nel programma gialloverde è un grosso cambiamentorispetto all’attuale sistema. I puristi possono dire che non si tratta di unavera e propria flat tax, perché non ha una sola aliquota ma ne ha due, ma se siguarda la curva della progressività (vedi sopra) ci si accorge che il risultatodella “quasi flat tax” non cambia molto: invece di una linea retta c’è unpiccolo scalino.

Come funziona?

Le due aliquote sono del 15 e del 20 per cento, invece delle cinque attuali.Sui redditi fino ad 80 mila euro lordi si pagherà il 15 per cento e sulla parteche eccede gli 80 mila euro si pagherà il 20 per cento. Per attenuare larozzezza delle due aliquote e dare un po’ di progressività anche il progetto diflat tax gialloverde introduce delle deduzioni per i familiari (3.000 euro perciascun familiare a carico) che diminuiscono fino ad azzerarsi al crescere delreddito oltre gli 80 mila euro. La novità fondamentale da tenere presente chela nuova flat tax, almeno nei progetti, si propone come familiare, cioèl’aliquota si calcola sulla somma del reddito dei coniugi, creando delledifferenze con le coppie monoreddito tutte da valutare.

Chi ci guadagna e chi ci perde?

Il risultato della flat tax, secondo l’economista Massimo Baldinidell’Università di Modena, che ha scritto un dettagliato articolo sullavoce.info, si verificherà un gigantesco trasferimento di ricchezza a favore deipiù abbienti: così come è congegnata la riforma ci guadagneranno solo i redditialti e i poveri resteranno a guardare.

La palazzina a cinque piani.

Immaginiamo che i contribuenti italiani abitino un palazzo a cinque piani: alprimo i più modesti, nell’attico i più benestanti. Ebbene al primo piano c’è ilnucleo che si affaccerà alla finestra con un po’ di irritazione ma anche conqualche brivido: solo grazie ad una pesante clausola di salvaguardia, in basealla quale non si può essere penalizzati, con un costo complessivo stimato in 8miliardi, potrà pagare le stesse tasse che pagava prima. Senza clausola, con ilpuro calcolo del nuovo sistema, questa famiglia media, dove i due partnerlavorano e portano a casa 15 mila euro di reddito lordo ciascuno, sarebbecostretta a sborsare 2490 euro in più.

Il paracadute?

Il rischio che i poveri debbano pagare più di oggi è così concreto, tanto cheil progetto prevede un paracadute. Infatti la nuova deduzione sull’imponibiledi 3.000 euro non compensa la prevista cancellazione delle due detrazioni dalavoro dipendente che spettano oggi ai due coniugi e l’azzeramento delledetrazioni per i due figli: infatti oggi la famiglia del primo piano pagatranquillamente solo 210 euro di Irpef. Necessaria dunque la «salvaguardia»: macome funzionerà? E chi garantisce che il fisco non si presenti con un conto diversoe che il contribuente sia chiamato a dimostrare quanto pagava l’anno prima diIrpef?

I piani bassi

Anche al secondo piano, dove insieme al primo si affolla l’80 per cento dellefamiglie italiane, cioè il grosso del ceto medio basso della Penisola, non c’èda stare allegri. Due coniugi che guadagnano 25 mila euro annui lordi ciascuno,dunque con un reddito familiare di 50 mila euro, rientrano nell’aliquota del 15per cento. Con le deduzioni abbattono l’imponibile e alla fine risparmiano,rispetto ad oggi, 469 euro, con un guadagno sull’attuale reddito nettofamiliare di appena l’1 per cento.

I piani alti
Quando si arriva con l’ascensore fiscale al terzo piano della palazzina sicomincia a scorgere qualche sorriso. Lì i due partner che guadagnano 40 milaeuro ciascuno, e dunque hanno un imponibile familiare di 80 mila euro,pagheranno il 15 per cento ma risparmieranno 8.744 euro d’imposta e il lororeddito familiare aumenterà del 15 per cento. Al quarto piano, dove entrano 110mila euro si stappano bottiglie di pregio: 15.866 euro di tasse in meno, parial 21 per cento di aumento del reddito. Al quinto piano non si stappa perchémagari è meglio non farsi sentire dai vicini: in casa entrano già 300 mila euroe il taglio delle tasse sarà, con il progetto gialloverde, quasi del 40 percento. Euro più, euro meno, in casa ne arriveranno quasi 68 mila in più.

I costi

E’ l’aspetto più dolente, anche per i patiti della flat tax: ci vogliono 50miliardi per applicare la flat tax in Italia- ndr].

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Il manifesto

Questa volta la lotta contro lo sfruttamento non coinvolge solo gli sfruttati nell'area "bianca" dei paesi del benessere, ma chiama alla ribalta anche la più ampia umanità delle regioni, saccheggiate dai colonialismi vecchi e nuovi. É un altro passo verso la comprensione del fatto che i diversi sfruttamenti in atto sono tutte le diverse facce del padre di tutti (o quasi) gli sfruttamenti sul terreno dell'economia: quello del capitalismo, che ha trasformato ogni cosa in merce (e.s.)

Il manifesto, 17 giugno 2018
In ventimila a Roma contro il governo: «Prima gli sfruttati»
di Roberto Ciccarelli

Il corteo. Corteo Usb per la «giustizia sociale». Abo Soumahoro: «La pacchia è finita per Salvini». Ricordato Soumaila Sacko ucciso in Calabria. In piazza, tra gli altri, Potere al Popolo, Eurostop, Rifondazione Comunista. A Padova manifestazione Adl Cobas».

In ventimila hanno partecipato alla manifestazione indetta a Roma dall’Unione Sindacale di Base (Usb) dedicata a Soumaila Sacko, il bracciante maliano e sindacalista Usb ucciso nella piana di Gioia Tauro mentre raccoglieva delle lamiere per costruirsi una baracca nel campo di San Ferdinando. «Prima gli sfruttati» era lo slogan, stampato sullo striscione d’apertura disegnato da Zerocalcare, è la citazione rovesciata della parola d’ordine razzista «prima gli italiani» usato come passepartout della politica pentaleghista al governo.

In negativo, lo sfruttamento restituisce un’unità che va oltre le appartenenze nazionali. Contiene l’elemento unificante in cui possono riconoscersi italiani e stranieri che rivendicano tutele e diritti per tutti: la solidarietà internazionalista e la condivisione della stessa condizione sociale. È il controcanto alla contrapposizione artificiale tra immigrati e autoctoni, intensificata dalla propaganda e dagli urlatori da social media. È un buon segno perché chiarisce l’equivoco di fondo grazie al quale il potere mantiene intatte le diseguaglianze e le accresce.

Il ragionamento è sofisticato, considerata la polarizzazione del dibattito esistente, manel corteo di ieri era onnipresente. È stato sottolineato nei comizi finali in piazza San Giovanni e negli slogan urlati nei megafoni da uomini statuari e orgogliosi arrivati dal Mali o dalla Costa d’Avorio che lavorano a 1,5 euro al giorno nelle campagne pugliesi o calabresi. Parole ripetute come un mantra che mette i brividi: «No razzismo»; «Tocca uno, tocca tutti», «Schiavi mai». In mano, insieme a folte bandiere Usb, questi lavoratori reggevano cartelli con queste scritte: «Reddito di base incondizionato», «No lavoro gratuito», «No Jobs Act, No Fornero». Emidia Papi, sindacalista Usb ha ricordato che il problema dello sfruttamento in agricoltura riguarda anche i lavoratori italiani e il caso di Paola Clemente, morta di fatica nei campi di Andria. «Il problema della grande distribuzione, che fissa prezzi sempre più bassi per i prodotti è alla base dello sfruttamento».

Un’onda di entusiasmo è stata prodotta dall’intervento di Aboubakar Soumahoro, dirigente Usb, in piazza San Giovanni. Concreto e colto, acuminato e combattivo, il sindacalista italo-ivoriano di 38 anni ha declinato con eloquenza le linee di un pensiero politico che supera i confini delle identità politiche acquisite, ma che ancora si esita a declinare in una politica comune. Il concetto ricorrente nel ragionamento è stato la «giustizia sociale», un appello alla solidarietà contro la guerra tra poveri. «La solidarietà non è buonismo – ha detto Abo – ma è uno strumento di costruzione che mette insieme ciò che stanno dividendo: bianchi contro neri, etero contro gay e lesbiche. Un bracciante deve invece camminare gomito a gomito con un rider, i precari e tutti gli invisibili». Il riferimento è all’elaborazione critica dell’eredità subita del «colonialismo» e dello «schiavismo», ma non contrapposta all’identità sessuale. Questo è un ragionamento sulla composizione sociale di una forza lavoro che intreccia molteplici identità e non contrappone, come avviene anche a «sinistra», diritti civili e diritti sociali.

Il riferimento al «meticciato» nei discorsi in piazza, è un veicolo di una politica intesa come coalizione tra istanze molteplici: «Noi riteniamo che non esiste giustizia sociale senza anti-sessismo, anti-razzismo e anti-fascismo – ha aggiunto Abo – La solidarietà è la carne viva della nostra società e guarda ai bisogni comuni e connette le istanze materiali: come uguale lavoro e uguale salario. Noi partiamo da qui». Soumahoro ha inoltre decostruito l’imbroglio linguistico di chi usa la grammatica dei diritti per contrapporre gli oppressi. E ha denunciato il «linguaggio barbaro e incendiario di chi ritiene che si può parlare di diritti senza argomentarli con la giustizia sociale». «Altro che taxi del mare – ha aggiunto – siamo di fronte alla banalizzazione dei concetti della solidarietà». «Non possiamo solo difenderci, noi dobbiamo andare all’attacco. Diciamo a Salvini che la pacchia è finita per lui, noi vogliamo giustizia».

Insieme al corteo «contro il razzismo istituzionale di Salvini & Co.», indetto a Padova da Adl Cobas con associazioni, sindacati (Cub Poste e Cobas Scuola), centri sociali (Pedro) e partiti (Coalizione civica), quello di ieri a Roma è stato «il biglietto da visita» per l’autunno di un’opposizione embrionale. In attesa di sviluppi, si spera larghi, la tragedia di un sindacalista maliano ha mobilitato realtà in lotta nella logistica, nelle campagne e per il diritto alla casa.

Sono i soggetti oggi nel mirino del «contratto di governo» fuori e dentro i confini. «Sono 20 anni che ci stanno abituando alla guerra tra poveri: ora dicono che se fermano un barcone avremo una casa e il lavoro. È una falsità ignobile, la respingiamo» sostiene Giorgio Cremaschi (Eurostop). «Con la Flat Tax il governo toglierà soldi dalle tasche dei lavoratori – ha aggiunto Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Il problema non sono i migranti o gli occupati di casa. Ci vuole lavoro sicuro e redistribuzione delle ricchezze». «Il razzismo e la xenofobia di Salvini è un prezzo che non dobbiamo pagare, rischiamo di essere ricordati per avere abbandonato centinaia di migliaia di persone» sostiene Eleonora Forenza (europarlamentare di Rifondazione).

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Ho ascoltato un'intervista rilasciata dal leader del M5S, Luigi Di Maio, a proposito dei porti da chiudere e dei migranti da respingere. Orribile: ecco perché Di Maio e Salvini sono due facce della stessa medaglia

Mi vergogno d’essere italiano. Ho ascoltato ieri l’intervista rilasciata da Luigi Di Maio a proposito della chiusura dei porti, e mi sono vergognato anche di essere, come lui, napoletano. Ma l’orrore di quella intervista mi è stato utile perché mi ha fatto capire una cosa: Di Maio e Salvini non sono due facce distinte e diverse della destra: sono le due facce della stessa medaglia, non so quale delle due sia la più disgustosa.

Non ha senso, quindi, guardare con occhio diverso il Movimento 5 stelle e la Lega, sostenendo che il primo è un aggregato di persone diversamente orientate, riunite solo dalla volontà di “superare” la Prima Repubblica.

Ciò che mi ha particolarmente colpito non è che i due energumeni avessero una visione simile della questione dei migranti. Sono tanti, ancora, quelli che non hanno compreso che l’esodo dalle regioni, che l’Europa ha sfruttato fino allo sfinimento, è inarrestabile. E ci sono tantissime altre persone, nell’Italia e nell’Europa di oggi, che covano nelle loro viscere profondi rigurgiti di razzismo sciovinista e nazista: Hitler ha seminato largo, e il terreno fertilizzato dal capitalismo era pronto a trasformare i semi in randelli da usare contro i diversi. Ha ragione Bertold Brecht, è cominciato con gli zingari[1] e prosegue senza tregua.

Mi ha indignato particolarmente la proposta, supinamente accettata da troppi, che sia possibile rovesciare il segno che distingue quelle singolarissime strutture della nostra civiltà che sono i porti. Ho imparato che la vera, profonda ricchezza della civiltà umana è nella concreta possibilità di incontrare, conoscere, esplorare le mille diversità che caratterizzano le diverse storie, costumi, credenze, saperi che contrassegnano le numerose etnie, patrie, città, lingue, culture che rendono ogni luogo e ogni persona diversi tra loro. E se separare gli uni dagli altri dignifica renderli sterili, la loro colloquiale diversità diventa invece un patrimonio di tutti.

Soprattutto nell’area geografica alla quale apparteniamo i porti sono sempre stati, al tempo stesso, il simbolo e la struttura dedicata all’incontro e allo scambio, quindi lo strumento per la crescita comune della comune civiltà. E chiudere i porti è una decisione molto vicina a quella di imporre una vasectomia generalizzata a tutti i maschi della razza umana.

[1] «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare».

Il discorso pubblico di queste ultime ore – almeno quello mainstream: in televisione, sui giornali, sulla rete ­– restituisce con impietosa fedeltà l'immagine di un'Italia con tre destre.

Quella della Lega: la destra xenofoba, razzista, con importanti venature fasciste che ha in pugno il governo del Paese.

La destra di fatto: il Movimento 5 Stelle, che ha deciso di rinnegare il mantra per cui non era "né di destra né di sinistra" portando al governo la Lega, e qui praticando la genuflessione invece dell'attrito. Perché la chiusura dei porti disposta dal ministro Danilo Toninelli, nel silenzio vergognoso della cosiddetta sinistra interna, non lascia spazi di manovra retorica: di destra è chi la destra fa. Punto.

Infine, la destra per convenienza: il Partito Democratico. Che prima ha aumentato a dismisura diseguaglianza e ingiustizia sociale, poi si è identificato come il partito della "ristretta cerchia dei salvati" (Franco Marcoaldi) e ha praticato schiette misure da destra securitaria.

La prima conseguenza è che non c'è, oggi, una opposizione moralmente, culturalmente e politicamente credibile.

Prendiamo la vicenda orrenda della nave Aquarius bloccata in alto mare da un Salvini che contemporaneamente postava sui social la propria foto in posa mussoliniana accompagnata dall'hashtag #chiudiamoiporti.

Ebbene, chiunque può criticare questo atto di teppismo fascista: chiunque tranne chi ha sostenuto, o non ha apertamente e duramente criticato, le politiche del predecessore di Salvini, Marco Minniti. E questo vale per i parlamentari e i dirigenti del Pd, naturalmente: ma anche per tutta la stampa che ha sostenuto quella politica.

Perché davvero non è credibile lo sdegno per i 629 dell'Aquarius in bocca a chi ha plaudito o taciuto di fronte alle migliaia e migliaia di morti e di torturati in campi di concentramento libici voluti e sostenuti dall'Italia.

Ma il problema è assai più profondo. Nel gennaio del 2016, nel suo editoriale di insediamento alla guida di Repubblica, Mario Calabresi scriveva che "la nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda".

È andata davvero così, ma questa non è stata una conquista: anzi è la radice del disastro di oggi. I frutti avvelenati che cogliamo in questi giorni del 2018 si devono all'innesto che, Veltroni e D'Alema prima e infine Renzi, hanno praticato sull'albero della sinistra, snaturandolo.

La "modernizzazione" di Blair al posto della giustizia sociale e dell'eguaglianza: è da quella breccia che è venuto giù tutto. Negando – in pensieri, parole, opere e omissioni – la differenza tra destra e sinistra, e praticando attivamente politiche di destra economica e securitaria, la sinistra politica si è suicidata, aprendo all'attuale stagione delle tre destre.

Pensare di uscirne rilegittimando la destra di convenienza del Pd "è peggio di un crimine: è un errore". Cioè non è solo sbagliato culturalmente, ma è anche perdente: non funzionerà.

In concreto: se io votassi a Pisa o a Siena, non parteciperei ai ballottaggi. Perché non saprei scegliere tra i vecchi sindaci del sistema di potere del Pd e i candidati della Lega. Sono due facce della stessa medaglia: sono l'uno l'innesco dell'altro.

Esattamente come non avrei saputo scegliere tra la Clinton e Trump: perché un'eventuale vittoria della Clinton avrebbe preparato solo uno schianto ancora più grande. E se a Pisa o a Siena dovesse rivincere il Pd non sarebbe un nuovo inizio: ma un prolungamento di agonia che aprirebbe la strada ad esiti ancora peggiori.

Un esempio concreto: nella mia Firenze la moschea non c'è perché prima Renzi e poi Nardella l'hanno impedito in tutti i modi, in perfetta intesa con un vescovo drammaticamente di destra, esatto opposto della Chiesa di Francesco. Chi mai potrebbe correre a rivotare per Nardella, sindaco della terza destra, quando, l'anno prossimo, si profilerà anche a Firenze un sindaco della prima destra?

Non bisogna sopravvalutare il dato elettorale di domenica 10 giugno, perché il Movimento 5 Stelle è sempre stato debole alle amministrative. Ma non c'è dubbio che se lo schiacciamento sulla Lega continua, il Movimento è destinato a scomparire: ha già perso gli elettori di sinistra, e quelli di destra presto preferiranno il partito del capo (Salvini) al partito del pallido esecutore (Conte).

È in questo spazio che può rinascere una sinistra che non sia solo culturale e sociale (l'unica che oggi esista e che abbia una qualche voce), ma che si ponga anche il problema di costruire rappresentanza politica, e che magari perfino ci riesca.

È una strada lunga e stretta, perché, prima che politicamente, la sinistra va ricostruita nelle lotte, in un sindacato dei diritti e dunque nel senso comune. È una strada che prevede la totale rimozione delle macerie, di sigle e storie personali, che ancora giacciono in mezzo alla strada della sinistra.

Ma non ci sono alternative: se non quella di rassegnarsi all'Italia delle tre destre, senza opposizione.

E rassegnarsi non è possibile.

Tratto dal sito qui raggiungibile.
Lettera da Parigi. Anche dall'estero qualcuno segue gli scandali peggiori che avvengono nel Belpaese. L'assassinio di Peppino Impastato da parte della mafia 40 anni fa, è ricordato da un Memoriale a Cinisi, Che cosa ricorderà gli scandali compiuti da signori in giacca e cravatte e senza sacrifici umani evidenti? (e.s.)

Don Ciotti, il creatore di Libera, ha osservato, qualche giorno fa, a proposito della mafia, che «nessuno in campagna elettorale ne aveva parlato perché disturba» [1]. Nella rivista MicroMega del 30 aprile, due giornalisti minacciati personalmente dai criminali, Amalia De Simone e Sandro Ruotolo, hanno intitolato un loro articolo: «La mafia è scomparsa dalla televisione e dai giornali».

Anche quando Sergio Mattarella fu eletto, pochissimi giornalisti osarono ricordare che il nuovo Presidente della Repubblica aveva tenuto tra le suoe braccia suo fratello morente, Piersanti, ucciso nel 1980 da Cosa Nostra, con la probabile complicità di Andreotti. Roberto Scarpinato, procuratore nel processo del 2003 contro Andreotti, ricorda che contrariamente a quel che si dice e scrive, la Corte ha stabilito che l’Inossidabile ha collaborato con Cosa Nostra, era informato della sua decisione di uccidere Piersanti Mattarella, non ha impedito il crimine e non ha denunciato i criminali.

Ma, a causa della sopravvenuta prescrizione, la corte non ha potuto condannare Andreotti, che eriuscito a fare tacere giornali e TV su tutto questo[2].

E quando pure la stampa osa menzionare i crimini della mafia, talvolta commette gravi omissioni. Il 29 aprile l'Espresso ha dedicato nove pagine e la copertina a Peppino Impastato, massacrato 40 anni fa da Cosa Nostra[3]. Ma solo quattro righe menzionano, limitandosi a ricordare l'evento e senza nemmeno citare ll lavoro paziente a accurato che Umberto Santino e sua moglie Anna Puglisi, stanno compiendo volontariamente da anni, creando, coltivando e animando il centro Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato".

Il giovane Peppino Impastato, nato a Cinisi in una famiglia mafiosa, aveva rotto con la parentela, svolgendo una serie di attività, tra cui la radio: aveva creato "Radio Aut", e denunciava i potenti mafiosi del paese e i loro complici. Il 9 maggio 1978, il corpo di Peppino è stato trovato sui binari della ferrovia, fatto a pezzi da quattro chili di tritolo.

Gli investigatori hanno immediatamente concluso che Peppino era un terrorista maldestro, vittima della carica che stava portando per preparare un attentato. Subito dopo il delitto, Umberto Santino e Anna Puglisi, coraggiosi combattenti contro la mafia, hanno avviato un lavoro per salvare la memoria di Peppino e ottenere giustizia;. Tra l'altro hanno organizzato una manifestazione nazionale nel 1979, riunendo a Cinisi 2000 persone. E' stata la prima manifestazione antimafia della storia d'Italia.

Ma sono stati necessari vent'anni di azione congiunta del Centro siciliano di documentazione Peppino Impastato, del fratello di Peppino e della sua madre, perché la giustizia sia giunta a riconoscere l'omicidio e a denunciare i colpevoli. Il boss che ha ordinato la strage, Tano Badalamenti, è stato condannato solo nell'aprile 2002. Il Centro Impastato ha dovuto lanciare una petizione per chiedere la riapertura del caso, che era stato prudentemente chiuso dalla giustizia nel 1992.

Oggi Anna Puglisi e Umberto Santino [6] stanno lavorando alla realizzazione di un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia. La loro azione costante dimostra che cittadini coraggiosi e ostinati possono, a rischio della loro vita, costringere l'apparato statale a riconoscere verità che disturbano troppe persone sul ruolo delle mafie. Ciò è particolarmente utile in questi anni,, allorché sono arrivati al governo dell’Italia, fascisti nostalgici[7] e figure inquietanti anche per altre ragioni.

Abbiamo letto che si è ampiamente discusso sull'inserimanto nel nuovo governo del professor Paolo Savona. Questo nome ci ha ricordato un altro scandalo italiano: l'intervento sulla Laguna di di Venezia denominato MOSE: un intervento scandaloso per ragioni diverse della mafia ma paragonabile a essa per l'effetto di corruzione su vasti corpi sociali. Ma di questo scriveremo in una prossima occasione, Perchè lo scandalo sembra prosegiore e aggravarsi con nuove devastanti iniaiative

Ci siamo ricordati che Savona è stato [8] presidente del Consorzio Venezia Nuova, il potente blocco d'intessi finanziari, immobiliari, industriali privati cui lo Stato ha affidato la gestione di una straordinari . Il nuovo ministro aveva affermato: “Le critiche sono prive di fondamento, il progetto delle opere mobili è tra i più studiati e più moderni del mondo”. Il Mose, diga galleggiante che avrebbe dovuto salvare Venezia dalle acque, non funziona ancora, deve essere già restaurata e causa gravi danni alla Laguna di Venezia che non proteggerà mai. Secondo il procuratore Scarpinato,[9] “uno dei più famosi casi di corruzione è il Mose di Venezia, 2 miliardi il costo iniziale previsto e costo finale, invece, di 6 miliardi, di cui 4 di spesa di corruzione. » E questi 4 miliardi « sono tagli agli ospedali, alle scuole, alle pensioni… »

9 giugno 2018, Parigi

[1] Silvia Bignami. 30 Maggio 2018. http://www.libertaegiustizia.it/2018/05/30/don-ciotti-ben-venga-governo-m5s-lega-ma-rispettino-la-costituzione/ et http://bologna.repubblica.it/cronaca/2018/05/30/news/don_ciotti_governo_m5s_lega-197736822/

[2] Saverio Lodato, Roberto Scarpinato. Il ritorno del Principe. Chiarelettere. 2008. Leggere anche :Umberto Santino. L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri. Ed. Rubbettino. 1997.

[3] http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/04/26/news/ancora-cento-passi-contro-la-mafia-1.321074

[4] Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato". http://www.centroimpastato.com

[5] Arles Arloff (Arlette Portnoff). Italie, un pouvoir corrompu. Futuribles n°381, gennaio 2012.

Ho incontrato nel 2003 e 2008 Anna Puglisi e Umberto Santino a Palerme. Arlette Portnoff.

http://www.eddyburg.it/2018/06/un-razzifascista-al-viminale.html

[https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/27/paolo-savona-e-il-ruolo-chiave-nellideazione-del-mose-indispensabile-critiche-sono-senza-fondamento/4384651/

[9] Di Matteo e Scarpinato: “La mafia non spara più, i politici se li compra” MicroMega, 5 settembre 2017. http://temi.repubblica.it/micromega-online/di-matteo-e-scarpinato-“la-mafia-non-spara-piu-i-politici-se-li-compra”/

Riteniamo che questo sia non solo è ingiusto nei confronti dei creatori a Palermo del primo centro italiano di documentazione sulle mafie, il Centro Peppino Impastato[4], ma è anche antipedagogico. In effetti, questa storia illustra la penetrazione della criminalità organizzata nello Stato italiano, fino nei servizi d’ordine e giudiziari, per non parlare della classe politica

il manifesto, alia è divenuta una malata terminale alla cui agonia assistiamo impotenti. Con commento (e.s.)

Auguriamo lunga vita al ministro dell'interno Matteo Salvini. Più precisamente, auguriamo a lui, e soprattutto a noi e agli altri connazionali, una vita brevissima alla sua permanenza al ministero degli Interni e una vita lunghissima al signor Matteo Salvini. Una vita così lunga perché possa riflettere sull'odio che è riuscito a concepire ed esternare nel periodo - speriamo breve - in cui ha ricoperto questa e altre cariche pubbliche. Leggete, commiserandolo, i pensieri che ha potuto esprimere oggi, riportati da Tommaso Di Francesco nell'articolo che riportiamo di seguito.
L'immagine che abbiamo scelto come icona rappresenta Mammona, emblema della smodata avidità della persona umana (ricorda il dilemma posto nella Bibbia: "amare Dio o Mammona". Non pensiamo che Salvini condivida con Mammona la cupidigia per la ricchezza, ma non abbiamo trovato un'altra immagine che esprima in modo così cupo l'odio per il suo simile diversamente colorato espresso dall'attuale occupante del Viminale.(e.s.)

l manifesto, 6 giugno 2018
Salvini papà e la pacchia dei migranti
di Tommaso Di Francesco

«Ong vice-scafisti», «Taglierò i fondi per l’accoglienza, i soldi vanno dati lì in Libia, in Tunisia dove non mi risulta ci sia la guerra ma che ci invia i galeotti, e poi in Niger…», Salvini non cambia look, è ministro degli interni ma aizza all’odio; una aggressività che deve far paura a lui stesso se si lascia andare alla retorica nuova del buon padre di famiglia, (la famiglia -nazione, che peggio non si può), «ma figuratevi – dice in una intervista in tv – se io che sono papà di due bambini voglio affogare la gente in giro…».

Eppure noi ce lo figuriamo.

Perché proprio mentre esternava alimentando odio, le notizie che arrivavano lo chiamavano direttamente in causa. Naufragio nell’Egeo con nove vittime di cui 6 bambini, strage a mare sulle coste tunisine con 48 persone affogate; mentre non si è spenta l’eco del misfatto che pochi giorni fa si è consumato in Libia, dove le milizie che gestiscono le prigioni hanno sparato a terra uccidendo 16 migranti.

E, come se non bastasse, nelle piane di Vibo Valentia, dove i braccianti-migranti vengono ogni giorno sfruttati per pochi euro, è stato ucciso Sacko Soumalyla, ventinovenne maliano e attivista del sindacato di base Usb.

Nella fossa comune che è diventato il Mediterraneo gli esseri umani disperati, ridotti alla condizione di ultimi degli ultimi, continuano a fuggire. E ad essere uccisi; sono sempre in fuga da condizioni di vita insopportabile nell’Africa dell’interno,– ricchissima di materie prime ma ridotta in povertà grazie al nostro modello di sviluppo-rapina rispetto al quale da nessuna parte si annunciano cambiamenti radicali; e in fuga dalle tante guerre mediorientali che abbiamo contribuito ad innescare secondo il rituale ormai collaudato di scelte occidentali bipartisan. Ma, è vero, gli arrivi, conti alla mano, sono sempre di meno: perché non si devono vedere e non stanno in nessuna statistica le disperazioni di quel quasi milione di persone di cui parlano le Nazioni unite rimaste intrappolate tra la costa della Libia e il confine sud del Sahara.

Né dobbiamo gettare l’occhio, nemmeno distratto, sulla realtà della detenzione di decine edecine di migliaia di persone in campi di concentramento, lager prigioni sottoposte ogni giorno a torture e violenza. Meglio non vedere e accontentarsi delle statistiche «brillanti». E ripetere il mantra sempre meno credibile che ha ben funzionato il famigerato Codice dell’ex ministro degli interni Minniti che ora si dice preoccupato che Salvini non diventi «l’Orbán del Mediterraneo».
Di che si lamenta Minniti: Salvini aspira fortemente al ruolo di facente funzioni di Orbán nel Mediterraneo, ma alla fine sarà respinto anche dal leader ungherese della Mitteleuropa di destra.

Il taglio naziona-populista all’accoglienza che Salvini agita preoccupa la Chiesa di Bergoglio perché è l’anticamera della morte certa per migliaia e migliaia di esseri umani; perché la disperazione africana non è finita, con le crisi che si moltiplicano, e la guerra afghano-mediorientale continua, anzi deve continuare nonostante i ripetuti, vecchi e nuovi annunci – per capirlo, guardate il «retroterra culturale» della nuova ministra della difesa, la grillina Elisabetta Trenta. È stato proprio Minniti a tirare la volata a Salvini sui migranti – come denuncia ora perfino il presidente del Pd Matteo Orfini.

Proviamo a ricordare infatti le caratteristiche del Codice neo-coloniale dell’ex ministro dell’interno Pd: blocco dell’accoglienza a mare, criminalizzazione delle Ong di soccorso; finanziamento della cosiddetta «autorità» libica – ma la Libia non ha alcuna autorità tantomeno unica e rappresentativa, è un paese spaccato in quattro tronconi contrapposti dopo la guerra della Nato nel 2011, con 700 milizie armate e tanti Paesi «alleati» che se la contendono per via della sua immensa ricchezza petrolifera. Il risultato è l’allargamento dell’universo concentrazionario in una miriade di galere, prigioni, torture, campi di concentramento che, ora con il consenso dell’Unione europea, vogliamo estendere a mezza Africa, perché dice la Commissione di Bruxelles che «il Niger è la frontiera sud dell’Europa». Il risultato delle statistiche è «brillante», così tanto che lo stesso Salvini fa sapere a Minniti che il suo è stato «un discreto lavoro» e che non ha intenzione di «smantellare nulla».

Un «lavoro», quello di Minniti, che continua ad esaltare con i suoi editoriali Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, manco fosse diventato come uno dei tanti «giornaloni» tradizionalmente schierati con il governo in carica.

Minniti sosteneva che così facendo avrebbe salvato la democrazia dalla deriva xenofoba; a quanto pare non solo non è servito ma, facendosi destra e attivando la devastazione della democrazia in mezzo continente africano da ridurre a campo di concentramento, ha anche soffiato il vento in poppa al nazional-populismo razzista ora al potere.

L’unica vera risposta gli viene per ora dalle parole di un dirigente sindacale dei braccianti della piana di Vibo Valentia: «È finita la pacchia per Salvini, perché noi risponderemo». . La protesta non si fermerà. E ci riguarda.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,

Se scendi da un’auto e, senza dire una parola, da settanta metri di distanza spari a tre uomini e ne colpisci uno alla testa, vuol dire che non volevi spaventare, ma uccidere. Siccome la vittima, Sacko Soumayla, 29 anni, veniva dal Mali, in tempi di salviniana muscolarità anti immigrati si è dato subito a questo omicidio uno sfondo razzista. Leggendo la biografia della vittima, viene il dubbio che le ragioni dell’assalto non siano dovute solo al colore della pelle o a ciò che Soumayla stava facendo, e cioè portare via qualche lamiera per costruire una baracca da una ex fornace chiusa da dieci anni e sotto sequestro perché vi erano state sversate 135mila tonnellate di rifiuti tossici.

Per cercare di capire quali motivi portino un italiano a uccidere a sangue freddo un lavoratore africano bisogna guardare a chi era Sacko Soumayla, che cosa faceva, dove e per chi.
Siamo nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, terra fertile di agrumi, kiwi, ulivi. Sacko Soumayla aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava come bracciante per 4,50 euro l’ora, era un sindacalista iscritto all’USB e lottava contro lo sfruttamento della mano d’opera immigrata.

Circa un mese fa, il 3 maggio, la testata online osservatoriodiritti.it ha pubblicato un’inchiesta intitolata "Migranti: nella Piana di Gioia Tauro vivono i dannati della terra" basata su un rapporto di Medu (Medici per i diritti umani). Lì c’è tutto quello che serve per capire che un lavoratore immigrato che si ribella può dare molto fastidio. Dà fastidio a chi, in questo caso italiani, vuole pagare il meno possibile la mano d’opera per lucrare di più. Dà fastidio a chi conviene mantenere i lavoratori in condizioni di precarietà, come l’attesa di un permesso di soggiorno, che rende più facile il gioco al ribasso e, infatti, 7 braccianti su 10 sono sfruttati e non hanno un contratto.

Se il contratto arriva, non è mai veritiero perché, per esempio, figura che hai lavorato 30 giorni invece dei reali 3 mesi, 2 giorni anziché i 16 effettivi. Non contenti di pagare poco e in nero, di ricorrere al reclutamento secondo l’odioso sistema del caporalato, questi pseudo imprenditori hanno tutto l’interesse a tenere i lavoratori in condizioni di vita miserevoli, come braccia da usare e buttare. Quando, come dicono gli operatori di Medu, «Oltre tremila persone vivono fra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti, dormono su materassi a terra o vecchie reti, circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati per scaldarsi», il loro primo pensiero è non soccombere. Chi si ribella a tutto ciò dà fastidio.

Otto anni fa, a Rosarno i braccianti protestarono contro queste forme di schiavismo, ma nulla è cambiato, come se lo Stato guardasse da un’altra parte. L’uccisione di Soumayla ha sicuramente uno sfondo razzista, ma emerge da un substrato di avidità, egoismo, disprezzo per la vita e stupidità, sì, stupidità perché lavoratori trattati e pagati in modo civile portano sviluppo e ricchezza alla zona in cui vivono. Evidentemente nella piana di Gioia Tauro gli interessi sono altri.

Come ha detto Antonello Mangano, curatore del sito d’inchiesta terrelibere.org, «Rosarno è uno dei luoghi centrali dell’economia globale. La mano d’opera arriva dall’Africa occidentale, i contributi alle coltivazioni da Bruxelles e, infine, le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco». Quindi, per favore, non chiamatelo solo razzismo.

Avvenire,

Comprensibile e apprezzabile la speranza che la Costituzione del 1948 costituisca il punto di riferimento, addirittura la «architrave», del governo giallo-verde affidato al professor Conte, sotto stretta vigilanza dei due cagnacci Salvini e Di Maio. Credo però che si possa già affermare che non è una speranza, ma un'illusione. Lo dimostrano le parole scritte e gli atti annunciati, e in parte già effettuato dal governo Conte e dai suoi membri.
Basta pensare alla flat tax e alla somma di effetti perversi che essa genererà nel rapporto tra i ricchi e i poveri: si ridurrà l’apporto dagli introiti fiscali allo Stato commisurata all’entità dei reddito (più sei ricco più alta è la percentuale del tuo reddito che versi alla cassa comune), e bisognerà compensarlo aumentando l’Iva (che è l’imposta che tutti pagano, e che quindi incide più sui poveri che sui ricchi. E se la somma della flat tax e dell’iva sarà inferiore a quello attuale (come è previsto) diminuirà l’apporto dello Stato al welfare, e quindi la salute, l’assistenza, la scuola e l’università, i trasporti collettivi e gli altri servizi pubblici dovranno essere pagati dai singoli utenti, attingendo ai loro redditi, tutto ciò in palese contrasto con l’articolo 38 della Costituzione.
Nell'articolo su Avvenire (che pubblichiamo sotto il nostro commento) Marcelli scrive: chi si interroga sulle radici di questo governo dovrebbe domandarsi quanto ha influito sull’approdo odierno, prima la dissoluzione di «quei partiti 'tradizionali' indeboliti sì dalla svolta del 1989, ma poi travolti dalla loro degenerazione in camarille di potere e in élites distinte e distanti dalla gente e, dunque, incuranti del Bene comune». E' giusto e vero, ma diciamolo chiaramente: la vecchia politica era ridotta in un ammasso di rifiuti. Ma sembra che oggi da quei rifiuti non nascano fiori, ma vermi. A noi i vermi non piacciono affatto (e.s.)

vvenire, 3 giugno 2018
Primo governo senza più tradizioni. Una storia tutta da fare
di Gianfranco Marcelli

Soltanto i fatti sapranno dirci se quello che ha giurato l’altro ieri al Quirinale sarà davvero per l’Italia un "governo del cambiamento". Fin d’ora invece si può affermare che questo è senz’altro l’esecutivo della storia repubblicana meno legato alle culture politiche che per oltre settant’anni hanno dominato la scena nazionale. Fino a Paolo Gentiloni, infatti, come anche prima nelle compagini a guida berlusconiana o ulivista-democratica, non mancavano mai esponenti che provenivano dai grandi filoni tradizionali della prima Repubblica: democristiani, socialisti, liberali, comunisti, destra post-fascista. Tutti raccolti sotto etichette in qualche modo aggiornate o rivisitate dopo il crollo del muro di Berlino, ma pur sempre ancorate, spesso negli stessi simboli elettorali, alle radici originarie.

Pure la Lega di Matteo Salvini, che nominalmente calca il palcoscenico da più di trent’anni e che alle urne del 4 marzo rappresentava la più vecchia "sigla" del panorama elettorale, è oggi lontana anni luce dal manipolo ultra nordista e secessionista guidato dal senatur Umberto Bossi, rimasto a lungo attivo solo entro un perimetro territoriale ben circoscritto. Siamo insomma di fronte, perfino dal punto di vista anagrafico vista l’età media dei componenti, al primo governo "post-partitico" della nostra vicenda politica, senza con ciò voler esprimere in partenza un giudizio positivo o negativo.

Anche i consueti spartiacque fra destra, centro e sinistra, nel caso del governo Conte, vanno ripensati. Le analisi più accurate dei flussi elettorali, che tre mesi fa hanno causato il successo dei "gialli" e l’avanzata dei "verdi", dimostrano che le provenienze dei loro consensi, specie a proposito dei 5Stelle, sono le più disparate. I voti sono cioè arrivati da ogni direzione e l’identikit finale dell’esecutivo, almeno come base elettorale che lo sostiene, non è facilmente definibile. In altri tempi, poi, si sarebbe parlato quasi di "governissimo", non tanto per l’ampiezza della maggioranza parlamentare – di fatto appena sufficiente – quanto per la distanza programmatica abissale che separava gli alleati odierni prima di firmare l’ormai celebre contratto. Saranno perciò le scelte concrete a qualificarne meglio l’orientamento.

È comprensibile che in molti osservatori l’assenza di riferimenti ideali chiari, il profilo culturale indistinto e piuttosto confuso del neonato esecutivo, possano destare sconcerto e inquietudine.

Chi ha vissuto o è cresciuto nel culto dell’ispirazione popolare o democratico-cristiana, non può certo sentirsi tranquillizzato dalle episodiche citazioni degasperiane di Luigi Di Maio. E chi oggi nutre nostalgia dell’austera leadership berlingueriana ascolterà con raccapriccio le semplificazioni populiste di Matteo Salvini.

C’è dunque un giustificato interrogativo su dove un governo dal Dna culturale imprecisabile, o comunque 'a bassa intensità', possa condurre il Paese. Quanti però agitano tale incognita dovrebbero domandarsi anche quanto ha influito sull’approdo odierno, prima l’appannarsi, e poi il vero e proprio rinnegamento dei modelli oggi rimpianti, da parte di chi ne ha incarnato nel tempo la realizzazione. Al punto da cancellarne nella gran parte dell’opinione pubblica la memoria e il desiderio di coltivarne l’eredità, proprio attraverso quei partiti 'tradizionali' indeboliti sì dalla svolta del 1989, ma poi travolti dalla loro degenerazione in camarille di potere e in élites distinte e distanti dalla gente e, dunque, incuranti del Bene comune.

Ma se davvero è scoccata oggi l’ora del pragmatismo, come la genesi e l’esito del patto di maggioranza dimostrano e come le prime battute del nuovo premier confermano («Ora passiamo ai fatti»), sarà bene prestare molta attenzione al modo in cui il primo esecutivo della XVIII Legislatura saprà declinarlo. Perché anche nel fare i conti con la realtà o la verità 'effettuale' (sembra, a proposito, che in M5S ci siano appassionati cultori di Machiavelli) si possono seguire criteri più o meno nobili.

Tra tutti i criteri possibili, il più utile e il più adatto alle circostanze storiche e geopolitiche nella quali si muoveranno il professor Conte e la sua squadra è di sicuro quello dell’umiltà, implicitamente richiamata da Sergio Mattarella nel suo messaggio di ieri per il 2 Giugno, quando ha ricordato che l’Italia repubblicana ha una storia e una collocazione internazionale chiari, sorretti dall’«architrave» della nostra Costituzione. Umiltà, dunque, che è poi l’approccio non solo più consono a un sano realismo, ma anche il più etico.

La condizione perché la parola "mutualismo" non diventi un passepartout, una parola magica da evocare per ogni cosa e il suo contrario - come è avvenuto per esempio, per le parole "sostenibilità" "partecipazione" e"sviluppo" - è che sia chiaro il suo significato nel contesto attuale, e quindi il suo contenuto, è fortemente conflittuale e anticapitalistico. Il libro di Salvatore Cannavò, recensito di seguito da Ciccarelli per i

l manifesto, è molto chiaro in proposito (e.s.)

il manifest0, 2 giugno 2018
Mutualismo, un’idea conflittuale e politico
di Salvatore Cannavò

Mutualismo è un concetto ricorrente nell’ultimo quinquennio. Salvatore Cannavò lo riporta alla realtà storica, momento germinale del movimento operaio e anarchico, e ne mostra l’attualità con una serrata rassegna delle esperienze italiane e internazionali, più o meno riuscite. Scritto da un ex parlamentare di Rifondazione Comunista, fondatore della corrente di Sinistra Critica, prima vice-direttore di Liberazione, oggi lavora al Fatto Quotidiano, Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, pp.191, euro 15) è un libro esigente che non fa sconti alla parte dell’autore.

Inizia raccontando il tempo dell’ultimo governo Prodi 2006-2008. Dall’opposizione interna alla Rifondazione di Bertinotti, Cannavò scrive: «Avevamo ragione a dire che abbandonare il movimento no-global per allearsi con Clemente Mastella avrebbe condotto la sinistra alla disfatta; ragione nello spiegare ai governi di centro-sinistra che a furia di fare le politiche di destra avrebbe vinto non solo la destra, ma quella più estrema». Certo «avere avuto ragione, però, non consola».
In un ventennio, da Genova in poi, si è esaurita la ricerca di una società «altra». Il «sociale» è diventato un vicolo cieco quanto la ricerca di una «globalizzazione» equa e giusta dall’alto. Oggi viviamo sul rovescio di quell’antica promessa, le istanze immaginarie del ritorno alla «nazione» e la saldatura con la «sovranità» sembrano avere assorbito, e sconvolto, la critica al capitalismo globale.

Per uscire da questo labirinto Cannavò propone un’idea «conflittuale e politica» del mutualismo. La precisazione è opportuna perché in questa categoria si avverte il rischio di giustificare l’esistente, fare da tappabuchi alla scomparsa del Welfare. Il mutualismo sembra essere un’istanza risarcitoria, consolatoria e sussidiaria di un’istituzione pubblica che non c’è più. O, tutt’al più, un’integrazione al welfare aziendale. In queste condizioni pensare che il mutualismo sia una via d’uscita è un’illusione.

Cannavò denuncia questo rischio. «Serve – scrive – un obiettivo di sistema» dove le esperienze di «autogestione» – raccontate nel libro – «possano divenire strumenti per un ordine sociale diverso contro questo modo di produzione e i suoi poteri». Per farlo serve un mutualismo conflittuale in senso anticapitalista. Cannavò lo descrive ripercorrendo il lavoro storico che Pino Ferraris fece un quarto di secolo fa. È una genealogia ricorrente, l’abbiamo riportata alla luce con Giuseppe Allegri nel Quinto Stato cinque anni fa. Un anno dopo l’abbiamo ritrovata in Comune di Dardot e Laval. Nel frattempo è riemersa nei discorsi di base e nelle reti già attive e ritorna in questo libro.

Cannavò fissa il movimento carsico in un concetto importante: l’auto-governo dell’essere umano. L’autogestione non basta, è necessario affermare una politica democratica ampia. Non quella basata sulla delega al leader, né sulla fusione mistica in un «popolo», ma sulla cooperazione, ovvero l’esercizio delle potenzialità dell’essere umano con i suoi simili. Tale esercizio non è ipotecato da leggi superiori (il Bene, la Legge, il Popolo) o dal Capitale. È la sperimentazione delle possibilità generate dall’uso comune, e non proprietario, della vita; la creazione di una resistenza contro lo sfruttamento; l’organizzazione di un’alternativa concreta e una critica attiva dell’alienazione.

Il mutualismo 2.0 sembra avere intercettato queste domande diffuse. Per questo si torna a parlare di società di mutuo soccorso, cooperative aperte, reti di mercato alternative, sindacati sociali, partiti a rete e federati su scala locale, nazionale e sovra-nazionale. Una prospettiva che ricorda la Prima internazionale. La storia del mutualismo antagonista ci ha trasmesso una tecnica di auto-difesa; una politica neo-comunista, e non statale; cooperativa e non burocratica; di classe e non di «popolo»; federativa, non nazionalista; anti-sessista e anti-razzista. Un’impostazione fondamentale per creare «coalizioni», utile per organizzare una battaglia per il salario minimo e il reddito di base incondizionato, due tra gli obiettivi individuati nel libro, centrali in un momento politico dove entrambi sono stati riscoperti dal dibattito politico.

Nulla tuttavia è scontato, vista la frammentazione e l’identitarismo della «sinistra». Ciò non toglie, conclude Cannavò, che bisogna mantenere alti gli obiettivi e «costruirli con lenta impazienza».

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Avvenire

Il nuovo premier Giuseppe Conte, tra la calca dei cittadini ai Fori Imperiali, invita alla prudenza: «Non fatemi i complimenti adesso, non ho fatto ancora nulla. Spero che me li possiate fare dopo. Finora sono state fatte troppe chiacchiere, ora bisogna fare i fatti. Tenete duro, teniamo duro». Nel pomeriggio il premier ha parlato al telefono con la cancelliera tedesca Merkel e con il presidente francese Macron.

Fontana: incentivare le nascite. Polemiche
Incentivare le nascite e disincentivare gli aborti; sostenere la famiglia, che è «quella naturale», mentre le famiglie arcobaleno «per la legge non esistono». Così il neoministro della Famiglia e disabilità, Lorenzo Fontana, intervistato da Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Avvenire e Gazzettino. Parole bocciate dall'opposizione e dalle associazioni per i diritti gay. «Trovo gravissimo - dice la senatrice del Pd Monica Cirinnà - che un ministro della Repubblica neghi la realtà, anche se ne capisco la funzione reazionaria e oscurantista. Negare l'esistenza di chi chiede diritti e riconoscimento equivale a voler oscurare dei cittadini, silenziarli, relegarli fuori dal dibattito politico e sociale».

Lo stesso compagno di partito e di governo Matteo Salvini ha cercato di gettare acqua sul fuoco: "Io personalmente ritengo che il nostro Paese debba ancora avere alcuni principi, come che la mamma si chiama mamma e il papà si chiama papà e il bambino viene al mondo se li ha e viene adottato se ci sono un papà e una mamma. L'amico Fontana ha detto oggi una cosa che mi sembra normale", ma "sono cose fuori dal contratto di governo e non perderemo tempo su questo".

Di Maio: quota 100 per superare la Fornero

Dalla flat tax per le famiglie con tre figli alla quota 100 per superare la legge Fornero, dal miglioramento dei centri per l'impiego al reddito di cittadinanza. L'agenda economica delle prime mosse del nuovo Governo giallo-verde prende forma. A tracciarla è anche il vice premier e leader del M5s Luigi Di Maio, che in un video su Facebook in diretta dal Ministero dello sviluppo economico, che guiderà insieme a quello del Lavoro, indica le "iniziative che vanno affrontate subito". Misure già delineate nel contratto M5s-Lega e che potrebbero confluire nella prossima manovra, che è il veicolo naturale per questo tipo di interventi, ma per le quali ora bisognerà fare i conti con il nodo coperture.

Il costo complessivo delle principali misure annunciate potrebbe infatti superare i 100 miliardi, ma per alcune si potrebbe procedere per gradi: il reddito di cittadinanza, ad esempio, come indicato anche nel contratto, arriverà solo dopo il potenziamento dei centri per l'impiego. E anche la flat tax, secondo quanto annunciato dal neo ministro della famiglia Lorenzo Fontana, partirà subito mo solo dai nuclei con almeno
tre figli.

Fisco, flat tax e via spesometro.
La 'tassa piatta', che il neo ministro dell'economia Giovanni Tria sostiene anche a costo di aumentare l'Iva, è una delle misure più costose. Il nuovo modello di tassazione con due aliquote al 15% e 20%, per famiglie e imprese, ha un costo di circa 50 miliardi di euro, ha spiegato l'ideologo leghista della flat tax, il senatore Armando Siri, precisando che sarà in vigore dal 2019. Per dare una mano agli imprenditori ("li dobbiamo lasciare in pace", dice Di Maio), inoltre, via lo spesometro, via il redditometro e gli studi di settore: una misura il cui costo è però difficilmente quantificabile. Nel capitolo fisco bisogna tener conto anche della neutralizzazione dell'aumento dell'Iva, che scatterebbe il prossimo gennaio, per la quale servono 12,5 miliardi.

Industria, investimenti auto elettrica.

Sul fronte delle politiche industriali, Di Maio ha indicato gli investimenti nell'auto elettrica, accogliendo con "molto entusiasmo" gli investimenti annunciati da Fca in questo settore: "Vuol dire che potremo lavorare a quel milione di auto elettriche che ci eravamo prefissati come obiettivo anche insieme alla principale azienda automobilistica del Paese". Fca su questo capitolo punta 9 miliardi ma ancora non è noto quanto investirà il governo.

Lavoro, revisione jobs act e centri impiego.

Sul fronte del lavoro si parte dalla revisione del Jobs act, perché c'è troppa precarietà, ha annunciato Di Maio, indicando anche la necessità di migliorare i centri per l'impiego. A questo fine, Di Maio vuole mettere assieme gli assessori al lavoro di tutte le Regioni e cominciare a "lavorare per migliorare questi centri che hanno bisogno di più personale, di più risorse e di una filosofia diversa dove c'è lo Stato che mi consiglia su cosa formarsi in attesa che arrivi una proposta di lavoro". Per il potenziamento dei centri per l'impiego, il contratto M5s-Lega prevede una spesa di 2 miliardi. Potrebbe invece slittare ad una fase successiva il reddito di cittadinanza: "Prima dobbiamo lanciare i centri per l'impiego e poi facciamo il reddito di cittadinanza", spiegava qualche settimana fa Laura Castelli(M5s), indicando un orizzonte di 6-8 mesi per mettere in piedi i centri per l'impiego. Per il reddito di cittadinanza il contratto stima 17 miliardi annui per un assegno mensile da 780 euro. Ma per l'Inps la proposta arriverebbe a costare fino a 35-38 miliardi.

Pensioni, superamento Fornero con quota 100.

"Il tema delle pensioni è fondamentale e una delle prime cose su cui ci siamo messi d'accordo è fare quota 100 per superare la legge Fornero", ha annunciato Di Maio. Nel contratto M5s-Lega si stima per questo un costo di 5 miliardi. Ma nei calcoli dell'Inps, permettere il pensionamento con quota 100 tra età e contributi o con 41 anni di contributi a prescindere dall'età costerebbe il primo anno 15 miliardi per poi arrivare a regime a 20 miliardi l'anno.

Salvini: migliorare gli accordi con i Paesi di origine dei migranti

In un comizio pomeridiano a Vicenza Salvini elenca le priorità: il dossier immigrazione, il dossier sicurezza, il dossier lotta alla mafia e beni confiscati ai mafiosi, l'alta età media della polizia e dei vigili del fuoco. E annuncia che chiederà al ministro dell'Economia "assunzioni di persone giovani".

Parlando della necessità di migliorare gli accordi con i Paesi da cui partoni i migranti, ha aggiunto: "Bisogna andare in Tunisia da cui parte la maggior parte delle persone, in Marocco, in Egitto, in Libia seppure la situazione è complicata - e concordare il fatto che le partenze devono diminuire. Siamo disposti ad aiutare anche economicamente per fare crescere lì famiglie e aziende senza mettere gente sul primo barcone".

Quanto alle ong che soccorrono i migranti in mare, Salvini ha confermato che "stiamo lavorando": "quello che è certo è che gli Stati devono tornare a fare gli Stati e nessun vice scafista deve attraccare nei portiitaliani".I toni non sono proprio ancora da ministro: "Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia, preparatevi a fare le valigie, in maniera educata e tranquilla, ma se ne devono andare".

Domani pomeriggi, domenica, Salvini sarà in Sicilia, a Pozzallo, dove oggi sono sbarcati dalla nave Aquarius 158 persone, "ospiti non desiderati".Poi in settimana, il 5 giugno, il ministro Salvini volerà a Lussemburgo per la riunione dei ministri Ue.

I senatori Pd: Trenta (Difesa) chiarisca sui suoi rapporti con Sudgestaid

"Notizie di stampa affermano che la neoministra della Difesa Elisabetta Trenta è stata per anni presidente di Sudgestaid, una società che si occupa di reclutare mercenari che operano nei teatri di guerra del Medio Oriente. Sarebbe importante che la ministra Trenta chiarisca quali sono oggi i suoi rapporti con quella società". Lo chiedono in una nota congiunta i senatori del Pd Eugenio Comincini, Simona Malpezzi e Valeria Sudano, che preannunciano un'interrogazione parlamentare urgente sulla questione sollevata da Il Fatto Quotidiano in particolare che titola: "Trenta e l'ombra dei contractor: la prof. guerriera", spiegando anche che il ministro insegna intelligence alla Link University. "Sempre dalla stampa - continuano i senatori dem - apprendiamo che sono intercorsi rapporti tra le società che la neoministra ha presieduto e i servizi di sicurezza. Anche su questo è necessario fare chiarezza. Ci auguriamo che la ministra voglia al più presto spiegare la situazione".

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L'icona è tratta da una caricatura di Mannelli, ripresa da il Fatto quotidiano

lI manifesto, 1 giugno 2018. Questi sciocchi italiani, credono di essere schiavi dell'Unione europea, in realtà il tallone è l'Impero statunitense. Il quale comunque rafforza il suo armamento in Euroa(e.s.)

Il titolo un po' ermetico che il manifesto ha dato all'articolo di Dinucci non aiuta a comprendere il reale problema . Le turbolenze che si agitano alla periferia dell'Impero non possono non turbare la Corte assisa tra la CasaBiance e Wall street. Se l'Italia, in un empito nazionalistico, volesse sganciarsi dalle alleanze attuali, o addirittura mutare casacca e indossate quella si Putin, uscire uscirebbe dalle catene che la legano ferreamente nel blocco militare della Nato. Un blocco che nacque per bilanciare e contrastare il blocco simmetrico degli stati e delle armate dek Patto di arsavia, Un patto, quello Nordatlantico, che ha ormai 'unica funzione di essere lo strumento militare per evitare l'uscita di qualche stato dal dominio coloniale degli Usa. E per twnere sotto scacco l'Impero russo, sempre possibile avverario e potenziale nemico.(e.s.)
il manifesto, 1° giugno2018«Sovranità» da Bruxelles, non da Washington
di Manlio Dinucci


Steve Bannon – ex stratega di Donald Trump, teorico del nazional-populismo – ha espresso il suo entusiastico sostegno all’alleanza Lega-Movimento 5 Stelle per «il governo del cambiamento».

In una intervista (Sky TG24, 26 maggio) ha dichiarato: «La questione fondamentale, in Italia a marzo, è stata la questione della sovranità. Il risultato delle elezioni è stato quello di vedere questi italiani che volevano riprendersi la sovranità, il controllo sul loro paese. Basta con queste regole che arrivano da Bruxelles». Non dice però significativamente «basta con queste regole che arrivano da Washington».

Ad esercitare pressione sull’Italia per orientarne le scelte politiche non è infatti solo l’Unione europea, dominata dai potenti circoli economici e finanziari soprattutto tedeschi e francesi, che temono una rottura delle «regole» funzionali ai loro interessi. Forte pressione viene esercitata sull’Italia, in modo meno evidente ma non meno invadente, dagli Stati uniti, che temono una rottura delle «regole» che subordinano l’Italia ai loro interessi economici e strategici.

Ciò rientra nelle politiche che Washington adotta verso l’Europa, attraverso diverse amministrazioni e con metodi diversi, perseguendo lo stesso obiettivo: mantenere l’Europa sotto l’influenza statunitense. Strumento fondamentale di tale strategia è la Nato. Il Trattato di Maastricht stabilisce, all’Art. 42, che «l’Unione rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la Nato». E il protocollo n. 10 sulla cooperazione stabilisce che la Nato «resta il fondamento della difesa» dell’Unione europea.

Oggi 21 dei 27 paesi della Ue, con circa il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, le cui «regole» permettono agli Stati uniti di mantenere, sin dal 1949, la carica di Comandante supremo alleato in Europa e tutti gli altri comandi chiave; permettono agli Stati uniti di determinare le scelte politiche e strategiche dell’Alleanza, concordandole sottobanco soprattutto con Germania, Francia e Gran Bretagna, facendole quindi approvare dal Consiglio Nord Atlantico, in cui secondo le «regole» Nato non vi è votazione né decisione a maggioranza, ma le decisioni vengono prese sempre all’unanimità.

L’ingresso nella Nato dei paesi dell’Est – un tempo membri del Patto di Varsavia, della Federazione Jugoslava e anche dell’Urss – ha permesso agli Stati uniti di legare questi paesi, cui si aggiungono Ucraina e Georgia di fatto già nell’Alleanza atlantica, più a Washington che a Bruxelles.

Washington ha potuto così spingere l’Europa in una nuova guerra fredda, facendone la prima linea di un sempre più pericoloso confronto con la Russia, funzionale agli interessi politici, economici e strategici degli Stati uniti. Emblematico il fatto che, proprio nella settimana in cui in Europa si dibatteva aspramente sulla «questione italiana», è sbarcata ad Anversa (Belgio), senza provocare alcuna significativa reazione, la 1a Brigata corazzata della 1a Divisione statunitense di cavalleria, proveniente da Fort Hood in Texas.

Sono sbarcati 3.000 soldati, con 87 carri armati Abrams M-1, 125 veicoli da combattimento Bradley, 18 cannoni semoventi Paladin, 976 veicoli militari e altri equipaggiamenti, che saranno dislocati in cinque basi in Polonia e da qui inviati a ridosso del territorio russo. Si continua in tal modo a «migliorare la prontezza e letalità delle forze Usa in Europa», stanziando dal 2015 16,5 miliardi di dollari. Proprio mentre sbarcavano in Europa i carri armati inviati da Washington, Steve Bannon incitava gli italiani e gli europei a «riprendersi la sovranità» da Bruxelles.

il manifesto,

«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’«irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi. Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.

Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.

Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.

Sbagliano quanti liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani – quasi il 60% – è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini…

È dunque per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» – da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?

Una mano, forse, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti… È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove… Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.

Il secondo fattore è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».

Per questo credo di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro – di due entità per definizione «prive di forma» – i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.

A questo modello «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).

Se vorremo combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.

Internazionale

«Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi», afferma l'autrice. Il punto è cha la categoria della "sinistra" così come l'abbiamo ereditata dai secoli passati a me sembra del tutto superata, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello, per così dire, congiunturale. Se la componente socialista della sinistra si è dissolta nella "modernizzazione" di Benito Craxi, quella comunista è stata seppellita sotto le rovine del Muro di Berlino dall'incauto e precipitoso Occhetto. Sopravvissuti a quell'evento sono solo alcune piccole compagini, delle quali Rifondazione comunista è l'unica di un qualche rilievo, sia dal punto di vista dell'ideologia che dell'organizzazione. Il resto non ha più nulla a che fare con le precedenti formazioni della sinistra. È avvenuto un grande rimescolamento delle formazioni politiche italiane, accompagnato da una e vera mutazione antropologica nel personale ex comunista

Sotto il profilo della congiuntura mi sembra (e mi è sembrato fin dalle prime apparizioni del ragazzo di Rignano, a suo tempo sponsorizzato da Silvio Berlusconi) che il buon Matteo Renzi e il residuo di militanti e strutture che Bersani gli ha lasciato conquistare non abbiano mai avuto nulla di ciò che era la vecchia sinistra, e quindi neppure qualcosa che possa definissi centrosinistra. Il PD è uno dei molti partiti della vecchia impallidita centrosinistra via via risucchiate nel gorgo del liberismo capital-finanziario.

Per concludere questo lungo commento introduttivo all'interessante articolo di Ida Dominijanni ripeterà quanto ho ampiamente argomentato nel mio scritto "La parola sinistra". La sinistra è sempre stata quella parte politica che ha promosso e difeso la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. Ma i due mondi alternativi degli sfruttati e degli sfruttatori sono sostanzialmente (economicamente, socialmente, geograficamente, ideologicamente) del tutto diversi da quelli che era nel XX secolo. È da qui che bisogna cominciare, uscendo dalla palude di idee ed eventi limpidamente raccontato da Ida Dominijanni nell'articolo che segue (e.s.).

Internazionale, 1° giugno 2018
Ottantotto giorni
di Ida Dominijanni

Alla fine ci abbiamo messo la metà del tempo della Germania, e senza elezioni a ripetizione come in Spagna. Il governo concepito nelle urne il 4 marzo ha avuto una gestazione lunga 88 giorni e a dir poco rocambolesca, ma alla fine assomiglia al voto da cui nasce e di questo deve prendere positivamente atto anche chi di quel voto non è contento affatto. La gestazione rocambolesca ha rischiato di mandare in default l’istituzione più alta della repubblica, nonché l’unica a essere fin qui sopravvissuta alla crisi di legittimazione di tutte le istituzioni repubblicane, ma alla fine e in qualche modo Sergio Mattarella ha vinto: governo politico (anche se infarcito di tecnici nei ruoli più importanti, a cominciare dal presidente del consiglio), composto dai vincitori delle elezioni (anche se uniti non da una solida alleanza ma da un sospettoso, e sospetto, contratto), senza presenze troppo inquietanti per l’Unione europea e i famigerati mercati (il caso Savona si chiude con un compromesso di facciata, ma accettabile per tutti).

L’antica sapienza democristiana della prima repubblica ha avuto la meglio sulle intemperanze dei due capopopolo che si vorrebbero levatori della terza? Sì e no. Sull’operato di Mattarella, sulla sua gestione del fattore-tempo, sulla sua tolleranza per gli strappi alle forme e alle procedure, sulle sue rigidità (il discutibile veto su Savona) e le sue condiscendenze (l’ancor più discutibile incarico a Conte) si discuterà ancora a lungo. Ma è lecito pensare che nel piegare Di Maio e Salvini alla disciplina della formazione del governo il cinismo dei mercati e di chi li muove, Bce compresa, abbia pesato almeno quanto la suddetta sapienza e pazienza del capo dello stato. Tre giorni di impennata dello spread devono aver convinto Di Maio e Salvini che altri due mesi passati a gridare all’impeachment e ad arringare le piazze avrebbero avuto sui loro elettorati la forza devastante di un’atomica.

Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi.

E qui finisce il brindisi per il lieto evento, perché né la laboriosità del parto né le fattezze della creatura promettono alcunché di buono per il futuro. Del presidente del consiglio non sappiamo che cosa pensi dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Luigi Di Maio può intestarsi la mossa finale che ha vinto le resistenze di Salvini, ma solo dopo aver ingoiato a sua volta tutte le condizioni del suo alleato, che non solo si insedia al Viminale con intenzioni fieramente razziste ma incassa ministeri chiave per l’egemonia sul senso comune quali l’istruzione (Bussetti) e la famiglia (Fontana, militante pro-vita ed eteronormativo sfegatato. A proposito, il tanto apprezzato Giorgetti, sottosegretario in pectore alla presidenza del consiglio, fu a suo tempo il principale estensore della legge 40 contro la procreazione assistita). Sulla giustizia (Bonafede, M5s) il “contratto di governo” si segnala per essere il più forcaiolo della storia della repubblica. Sulla politica industriale, e in generale sull’idea di sviluppo del paese, il più omissivo. Sui rapporti con la Ue, come s’è visto nell’ultima tumultuosa settimana, il più opaco. Sulla politica estera il più pericolosamente ambiguo. E siccome il mondo ci mette sempre lo zampino, per ironia della storia la prima gatta da pelare del governo del “prima gli italiani” sarà la guerra dei dazi contro l’Europa dell’alfiere di America first: contraddizioni in seno al sovranismo.

Restano sul campo i morti, i feriti e gli effetti collaterali di questi 88 giorni. Gli sconfitti del 4 marzo, ovvero il centrosinistra a trazione renziana e il centrodestra a trazione berlusconiana, ne escono entrambi ma diversamente triturati. Il centrodestra perde la maschera del preteso moderatismo berlusconiano, si radicalizza sotto la guida di Salvini (nonché di Meloni) ma mantiene e rafforza la sua pretesa egemonica sulla società e sullo scacchiere politico. Il centrosinistra e la sinistra, al contrario, si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi. Che se la siano cercata e meritata non è di nessuna consolazione, la situazione attuale essendo la dimostrazione che senza sinistra in questo paese vacilla l’intera impalcatura democratica.

Gli effetti collaterali non sono meno rilevanti. L’odiosa formula del “contratto di governo” segnala un processo preoccupante di privatizzazione della politica che si cristallizza nel linguaggio (para)giuridico. La scomposta spericolatezza dei principali protagonisti di questa lunga crisi nel rapporto con il Quirinale accentua una crisi di autorità della politica e delle istituzioni che sembra ormai priva di anticorpi nei leader delle nuove generazioni, e che il sempre più frequente ricorso alle “competenze” e ai “tecnici” copre malamente. Infine ma non ultimo, il rapporto fra politica e comunicazione ha subìto un’ulteriore torsione: mai la formazione di un governo era stata così spettacolarizzata, con un assedio così pervasivo della scena e del retroscena e un accavallarsi così rapido dei fatti e delle reazioni, in tv e in rete: una saturazione dell’informazione e della comunicazione che fa tabula rasa dei tempi e dei riti residui della decisione e della riflessività politica.

Ma che accelera inevitabilmente, e positivamente, anche tutte le contraddizioni in campo. L’opposizione – politica e giornalistica – all’establishment, ora che è al potere, dovrà trovare nuove, e si spera più pacate e razionali, strategie narrative di autolegittimazione. Il populismo di governo dovrà fare i conti con i limiti che il populismo d’opposizione ignora. La questione europea, fin qui inchiodata fra l’ottusità della governance comunitaria da un lato e le falene regressive del sovranismo dall’altro, dovrà dispiegarsi, da qui alle elezioni del 2019, in tutta la sua gigantesca portata. Se Bruxelles, Francoforte e Berlino dovessero finalmente realizzare che la gabbia soffocante dei parametri, della moneta e delle direttive calate dall’alto rischia di partorire solo mostriciattoli, il laboratorio italiano anche stavolta non avrà funzionato invano.

Nel Paese della commedia dell'arte il governo Conte nasce come una farsa, una pochade.

Un governo che nasce mentre il presidente del consiglio incaricato viene nascosto in tutta fretta in un armadio del Quirinale, in tasca la lista dei ministri: mentre torna al talamo nuziale l'altro, il marito scacciato, e ora benevolmente riammesso.

Un governo del paradosso: con i due vicecapi che comandano il capo. Anzi: con un vicecapo che è il vero capo, e tiene gli altri due al guinzaglio.
Un governo il cui vicepresidente tre giorni fa ha annunciato in diretta la messa in stato d'accusa del Capo dello Stato che oggi lo ha nominato.

Un governo che nasce con una manifestazione antifascista (del sedicente Fronte Repubblicano) in solidarietà di un presidente della Repubblica che ha appena nominato ministro della polizia e vice premier uno in cui Casa Pound si riconosce, uno che annuncia rastrellamenti di migranti "con le maniere forti", uno che vuole gli italiani armati, uno che dice che "il fascismo ha fatto anche cose buone". Un fascista.

Un governo che nasce con un presidente della Repubblica che prima forza la Costituzione per fermare Savona, nemico dell'Europa, e quattro giorni dopo nomina Savona ministro dell'Europa.

E delle due l'una: o Mattarella ha dato disco verde perché è riuscito a imporre al governo il proprio indirizzo politico (violando la Costituzione); o Mattarella ha affidato il Paese a un governo che farà il disastro che egli ha descritto domenica 27 maggio.

Un governo di destra, a tratti di estrema destra, che nasce grazie all'aventino del Partito Democratico. E grazie al fatto che la solidarietà del Pd con il suo presidente della Repubblica finiva prima della disponibilità a votarne il governo.

E, ancora prima, grazie alla politica di una Sinistra diventata destra, che, in venticinque anni e infine con l'abisso renziano, ha sfigurato il Paese con la diseguaglianza, e poi ha indegnamente cavalcato il vento di destra (si veda alla voce "Minniti").

Un governo delle forze antisistema che nasce mettendo Economia ed Esteri saldamente nelle mani del Sistema. Così che concreto è il rischio che tutto continui esattamente come prima: ma con la devastante arma di distrazione di massa della caccia al diverso (di pelle, di sesso, di pensiero).

Un governo del cambiamento: che per cambiare un Paese maschilista è un governo di maschi.

Un governo del cambiamento: che per cambiare l'ingiustizia sociale diminuirà le tasse ai ricchi, le aumenterà ai poveri.

Un governo in cui un Movimento del 33 % e "del cambiamento" si fa tappeto e sgabello di un partito del 17% e che governa da anni mezzo Nord. Un Movimento che firmando il contratto col diavolo si è venduto l'anima. E che non vedrà realizzato il suo pallido reddito di cittadinanza nemmeno col binocolo.

Un governo del merito con il presidente del Consiglio che scrive il curriculumcome i pescatori della domenica raccontano le loro imprese. E con un integralista alla Famiglia, un ginnasta alla Scuola, un manager della scuola privata alla Cultura.

Con il presidente del Consiglio che si dichiara avvocato difensore degli italianimentre nomina alla guida della Pubblica Amministrazione l'avvocato difensore di Andreotti.

Un governo senza opposizione in Parlamento: perché la miccia non può diventare l'opposizione alla bomba, la causa non può opporsi al suo effetto, la radice all'albero. E il Pd di destra non è il rimedio al governo della Destra.

Mentre si ammaina la speranza del Movimento 5 Stelle, si alza su Palazzo Chigi la bandiera della paura.
La notte sarà lunga e sarà nera.

Non siamo stati i soli a criticare Sergio Mattarella per le sue posizioni a proposito della priorità dei “mercati”

versus i cittadini. Qui raccogliamo un ricco florilegio di commenti. Con commento (e.s.)

Sottraendosi alla viziosa abitudine degli italiani di trasformare le questioni complesse a tifoseria: «sei per Mattarella o per Salvini?») molti intellettuali hanno espresso in questi giorni valutazioni critiche sull'operato di Sergio Mattarella nella gravissima crisi istituzionale nella quale siamo immersi. La questione mi è sembrata importante. Non a caso la prima analisi duramente critica dell'iniziativa di Mattarella a difesa dei "mercati" è stata costituita dal documento politico

Potere al popolo (cui aderisco) nella sua assemblea di Napoli redatto e approvato dall'Assemblea di Napoli 27 maggio scorso. Lo pubblicammo su eddyburg: eccolo qui.

Liberi di pensare e scrivere uscendo dalle regole del "tifo" si sono rivelati Francesco Gesualdi (28 maggio), Massimo Villone e (29 maggio), Barbara Spinelli, 30 maggio) Lorenza Carlassare (30 maggio), Tomaso Montanari (tra i primissimi a esprimere sinteticamente la sua critica, l'ha argomentata oggi, 31 maggio. La pubblichiamo di seguito, seguita a sua volta da numerose altre posizioni riprese dal sito web di Giustizia e Libertà

Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia
In queste ore concitate e drammatiche occorre conservare la lucidità, e non prestarsi alla facile demagogia della piazza.Se la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato appare una truculenta buffonata, anche le mobilitazioni in suo favore appaiono del tutto fuori luogo.

Sergio Mattarella ha infine inflitto all’istituzione della Presidenza della Repubblica una torsione inaudita, che costituirà un precedente pericolosissimo. Il suo lungo discorso ha esplicitato il fatto che egli si è assunto la responsabilità di decidere l’indirizzo politico del governo, entrando nel merito di idee e di scelte politiche: così non rispettando spirito e lettera della Costituzione. Le sue motivazioni hanno formalizzato una dura verità: la sovranità dei mercati ha preso il posto della sovranità popolare. L’incarico a Carlo Cottarelli ha poi tratteggiato icasticamente l’immagine di una democrazia commissariata.

Nel suo discorso Mattarella ha detto che aveva accettato tutti i ministri tranne quello dell’Economia. Tutti: anche Matteo Salvini all’Interno. In questo doppio registro c’è il senso profondo della crisi generale in cui siamo sprofondati: si tutelano i soldi, non i corpi. Gli investitori, non i principi fondamentali della Carta. È una dittatura dei mercati in cui le vite, i diritti, l’eguaglianza contano meno di zero. Ed è qui, è proprio in questa sottrazione di democrazia e in questa generale genuflessione al potere del denaro, che la propaganda razzista di Salvini prospera e macina consenso.
(29 maggio 2018)

Riportiamo a seguire anche gli interventi di altri autorevoli esponenti della cultura italiana, che hanno espresso argp,entate crotiche al presidente della Repubblica, senza per questo fornire armi al fascista Salvini ma dandogli una lezione di democrazia

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I poteri del Presidente di Paolo Flores d'Arcais, Paul Krugman, Paolo Maddalena, Valerio Onida, Massimo Villone, Guido Salerno Aletta
Flores d’Arcais: “Esula dai poteri del Quirinale sindacare sulle opinioni politiche dei candidati ministri”. Krugman: “Non c'è bisogno di essere populisti per essere inorriditi dal fatto che i partiti che avevano vinto un chiaro mandato elettorale sono stati esclusi perché volevano un ministro dell'economia euroscettico". Maddalena: “È riconoscimento formale del passaggio della sovranità dal Popolo Italiano al mercato globale”. Onida: “Il Colle non ha potere sull’indirizzo politico”. Villone: “L’errore di Mattarella”. Salerno Aletta: “Un vulnus profondo alla forma di Stato”.

I Giuristi Democratici: “Veto Mattarella grave sconfitta della democrazia”
L’Associazione Nazionale Giuristi Democratici: “La scelta del Presidente della Repubblica non è condivisibile perché il rifiuto alla nomina non può mai fondarsi su un giudizio politico sul soggetto, ma solo su una sua inidoneità giuridica a ricoprire l’incarico. Non convincono poi le ragioni addotte. Secondo il nostro ordinamento sono le scelte degli elettori che determinano la nascita del Governi, non le reazioni dei mercati finanziari”.

Il gran rifiuto del Presidente e la Repubblica a sovranità limitata di Angelo d'Orsi
Sono le parole presidenziali, oltre e più che il gesto di rifiuto in sé, a costituire un drammatico vulnus alla democrazia e al funzionamento della Repubblica. Sono la conferma che ormai il Paese è a sovranità limitata: alla sudditanza agli Usa ora si è aggiunta, in modo clamoroso, la limitazione proveniente non tanto dall’Unione Europea, in generale, ma dalla sua leadership tecno-finanziaria.

Tra Mattarella, Salvini e i tedeschi: si può uscirne a sinistra? di Alessandro Somma
Esorbitando rispetto alle sue prerogative costituzionali, il Quirinale ha trasformato le prossime elezioni in un plebiscito sulla permanenza nell’Eurozona. Un grave errore che consegnerà l’Italia alla peggiore destra che forse abbandonerà l’Euro, ma resterà fedele all’ortodossia neoliberale. L’unica possibilità per la sinistra è accettare la sfida populista e assumere l’opposizione all’Ue come fondamentale terreno di scontro politico.

Né con Mattarella né con Salvini. Serve un terzo spazio di Giacomo Russo Spena
Le conseguenze politiche della crisi istituzionale che si è aperta sono evidenti: alle prossime elezioni Lega e M5S faranno una campagna elettorale a colpi di sovranismo contro le ingerenze dell'UE. A ciò, non si può opporsi difendendo la dittatura dello spread e la Troika, ma costruendo un'alternativa capace di rompere questi due blocchi, entrambi sbagliati e nefasti per il Paese.

il Fatto Quotidiano,

Lorenza Carlassare – professore emerito a Padova, una dei nostri costituzionalisti più autorevoli – risponde al telefono con l’abituale fermezza: «Non è difficile valutare alla luce della Carta i fatti di questi giorni. Si discute se il comportamento del capo dello Stato sia stato corretto. La risposta per un costituzionalista è facile, perché noi valutiamo le situazioni solo ed esclusivamente in rapporto al dettato costituzionale e a ciò che rientra nella tradizione del sistema parlamentare. La nostra non è una Repubblica presidenziale: da qui discendono molte conseguenze. Il presidente quando forma il governo non fa il suo governo, ma quello della maggioranza».

E come si deve regolare?
«Semplicemente tenendo conto di qual è l’orientamento della maggioranza parlamentare e di quale governo potrà ottenere la fiducia delle Camere. Quel governo dovrà avere la fiducia e conservarla, altrimenti dovrà dare le dimissioni. L’unica stella polare che deve guidare il cammino del presidente è questa valutazione sulla possibilità o meno che quell’esecutivo abbia la fiducia del Parlamento».

Dove risiede il potere decisionale del presidente?
«Dopo le consultazioni, deve valutare qual è la persona maggiormente idonea a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. È una valutazione che però non si basa su opinioni o convincimenti personali del capo dello Stato, ma sulla base delle consultazioni che altrimenti sarebbero inutili. Dopo aver individuato la persona e conferito l’incarico, la responsabilità passa al presidente incaricato che deve comporre la lista dei ministri del suo gabinetto. La proposta di cui parla l’articolo 92 della Carta vincola il capo dello Stato, che può esprimere valutazioni di cui il presidente incaricato può tenere conto se lo ritiene. Il diniego sul nome di un ministro può esserci per incompatibilità col ruolo, per conflitto d’interessi o indegnità causata, per esempio, da condanne penali, dunque solo per ragioni oggettive».

Il presidente può fare valutazioni politiche?
«No. Perché non è organo di indirizzo politico. La dottrina – da Serio Galeotti a Livio Paladin, per citare due autorevolissimi costituzionalisti – è sempre stata concorde nel ritenere il presidente un organo di garanzia e non di indirizzo politico».

Si dice che il presidente si sia fatto garante della Carta, che all’art. 47 assicura la tutela del risparmio.
«Mi fa felice riscontrare questo interesse per il risparmio degli italiani che per decenni non si è mai manifestato né da parte del presidente Mattarella, né dei suoi predecessori. Tanto è vero che tanti risparmiatori sono stati messi in ginocchio. E non mi riferisco solo a quelli truffati dalle banche: il risparmio è stato distrutto dai meccanismi attuali. È bene che il presidente se ne faccia carico, ma voglio far notare che nel programma di governo non erano previsti provvedimenti distruttivi del risparmio. La valutazione sulla linea economica è stata squisitamente politica. E questa sfugge alle prerogative presidenziali».

Ci sono punti del programma di governo che suscitano perplessità?
«Credo quelli sulla sicurezza, citati anche in un’intervista a Gustavo Zagrebelsky qualche giorno fa su Repubblica, come l’autodifesa sempre legittima, o l’uso della pistola a onde elettriche considerata dall’Onu uno strumento di tortura, l’introduzione di reati specifici per i migranti clandestini o il trasferimento dei fondi destinati ai profughi ai rimpatri coattivi. Sono cose in evidente contrasto con la Carta: il presidente avrebbe potuto farlo notare e comunque respingere i singoli provvedimenti».

Cosa pensa della ventilata messa in stato d’accusa?
«Mattarella ha certamente esorbitato dalle sue funzioni. Ma la messa in stato d’accusa è qualcosa di più complesso: bisogna dimostrare, anche con comportamenti reiterati, l’intenzione di sovvertire la Costituzione. Non è questo il caso. In ogni caso, nell’interesse del Paese è un discorso che va abbandonato perché paralizza il funzionamento delle istituzioni».

Si cita spesso il precedente di Napolitano, che ha interpretato in maniera vigorosa il suo ruolo: per Renzi anche imponendo il percorso di riforme costituzionali.
«Le rispondo così: quando il presidente Cossiga esorbitava dalle sue funzioni, i costituzionalisti manifestavano le loro critiche continuamente proprio per evitare che si potesse parlare di una prassi consolidata».

La presidenza della Repubblica ne esce ammaccata?
«Mi auguro con tutto il cuore di no».

il Fatto Quotidiano,

Barbara Spinelli, il Quirinale ha bloccato la nomina di Paolo Savona al Tesoro per timore delle reazioni dei mercati, che sono crollati comunque. Quanto devono contare i mercati nelle decisioni della politica?

Sicuramente contano ma non devono essere in competizione con le elezioni. Nel ’98, l’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer disse che ormai le democrazie si fondano su due plebisciti egualmente legittimi: quello popolare e quello permanente dei mercati internazionali. È una visione nefasta. I mercati non possono esser messi sullo stesso piano dell’articolo 1 della Costituzione, secondo cui la sovranità appartiene al popolo.

Il commissario Ue Oettinger ha detto: “I mercati insegneranno agli italiani a non votare per i populisti alle prossime elezioni”. Le prossime elezioni saranno lo scontro finale tra sovranisti e anti-sovranisti?
Non esistono scontri finali nella storia. Lo scontro in questione è d’altronde basato su una fake news: l’uscita dall’euro non era nel programma M5S-Lega. Né in quello di Savona.

L’uscita dall’euro era però in una bozza del contratto di governo.
Lega e Cinque Stelle l’hanno poi ritirata. Il Quirinale lo ha ignorato: mi sembra tra l’altro che abbia opposto il suo veto non al programma, ma a Savona. Detto questo, non ritengo di per sé uno scandalo che si possa parlare di uscita dall’euro. Da anni scenari simili sono allo studio, viste le grandi e irrisolte difficoltà dell’eurozona: sono contemplati, sia pur segretamente, non solo da Savona ma dalla Banca d’Italia, dalla Banca centrale, da massimi economisti tedeschi.

Come viene vista la situazione a Bruxelles: pericolo scampato o grande incertezza?
L’establishment comunitario ha pesato su Mattarella, con pressioni di vario genere. La preoccupazione resta, anche se l’Italia è oggi commissariata più esplicitamente ancora che negli ultimi anni: oggi tramite Cottarelli e Fmi, domani forse tramite Draghi. Ma le elezioni non sono abolite. Inoltre resta un grande “non-detto” nell’establishment europeo.

Cioè?
Cosa significa uscire dall’euro: implica anche uscire dall’Ue? Il non-detto può trasformarsi in pressioni aggiuntive. Personalmente non credo che le due cose si equivalgano. I pareri legali sono divisi su questo.

Tra gli elettori crescerà la voglia di cambiamento o prevarrà il timore dell’incertezza?
Le forti pressioni su Tsipras non impedirono ai greci, nel 2015, di votare contro il memorandum della Troika. La paura può produrre spinte alla ribellione. Anche in Germania l’euro-scetticismo è aumentato: si continua a parlare di un’eurozona ristretta. Trovo molto grave che ci sia stato un veto a Savona per le sue critiche all’unione monetaria: significa non riconoscere le conseguenze gravissime delle disfunzioni dell’eurozona, già segnalate agli esordi da Paolo Baffi. Le disuguaglianze sociali e geografiche che ha prodotto generano il rigetto presente. L’architettura e i parametri dell’eurozona vanno dunque cambiati. E i cambiamenti vanno negoziati in maniera efficace. Savona era il più adatto a questo compito. Non l’hanno voluto per questo.

Perché chi considera l’euro e l’Ue intoccabili non riesce ad argomentare le proprie posizioni con la stessa efficacia dei critici?
Le posizioni dei difensori dell’euro sono spesso ideologiche, del tutto allergiche alla dialettica. Le tesi si rafforzano attraverso il confronto con le obiezioni. Se Savona dice che lo statuto della Bce deve considerare prioritari non solo la stabilità dei prezzi ma anche l’occupazione a l’aumento della domanda, perché viene considerato eretico? Si parla di eresia quando c’è un’ortodossia religiosa. Il caso greco avrebbe dovuto far capire che esiste ormai una tragica sconnessione tra le sovranità popolari e la delega a poteri europei neoliberisti.

Il tema della sovranità popolare è però lasciato dai liberal a personaggi come Steve Bannon, che è a Roma in questi giorni.
Sono d’accordo. Ma chi ha consegnato il tema della sovranità popolare alle destre estreme? Le forze di sinistra classiche. Mattarella ha messo il veto sulla scelta di Savona, ma non aveva niente da dire sul capitolo migranti del programma? O su quello della sicurezza interna?

Qual è stato l’errore della sinistra?
Da decenni, la sinistra ha smesso di occuparsi dei diritti sociali ed economici concentrandosi su quelli civili. Questi ultimi sono indispensabili, ma se si rinuncia a quelli sociali ed economici finiremo col perdere anche quelli civili. Come si vede in Polonia, dove il governo approva misure di Welfare ma smantella diritti civili. Se la sinistra rinuncia, saranno le estreme destre a presidiare la questione sociale.

L’idea di un “fronte repubblicano” guidato da Gentiloni a difesa di istituzioni e Ue è incoraggiante?
No comment sulla sinistra di Gentiloni o Renzi. Su alcune politiche – penso a quelle di Minniti sui rimpatri in Libia– non vedo differenze dal programma della Lega. Gentiloni si è congedato dicendo: ‘La stanza dei bottoni non me l’hanno mai mostrata’. Quindi chi comandava? Non andare fuori strada significa lasciare che nella stanza dei bottoni comandi il ‘plebiscito permanente dei mercati’? E cosa significa l’articolo 11 della Costituzione, quando si delegano sovranità a ordinamenti internazionali il cui scopo non è più ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’?

Un amico fraterno mi ha scritto per rimproverarmi di aver scelto, criticando Mattarella, il versante sbagliato di uno schieramento tra «la peggiore destra animata da un imbecille (Di Maio) e da un farabutto (Salvini) e «il presidente della Repubblica. Mattarella» Ha aggiunto che a suo parere la gravità della situazione «non consente finezze, o con i fascisti o con Mattarella, non ci sono terze vie (come non ci furono ai tempi di Weimar e della marcia su Roma)». Ed è perciò «necessario che anche la sinistra, quella alla quale apparteniamo noi, prenda una posizione netta, senza se e senza ma».

Valutazioni analoghe hanno espresso altre persone che stimo molto, e colgo l'occasione per rispondere anche a loro.

Contemporaneamente, secondo un costume tipicamente italiano si è avviata, e prosegue, una forme di tifoseria nella quale tutti sono invitati a dire Si o No a Mattarella e ai suoi critici, senza argomentare il loro voto.

Ho risposto al mio amico che non si possono valutare gli eventi di questi anni schematizzandoli nel contrasto tra due soggetti: Di Maio e Salvini da una parte, Mattarella dall’altra. A me sembra che sia indispensabile tenere il massimo conto di due elementi: i princìpi da un lato, e dall’altro gli interessi e la strategie di cui gli attori sono portatori.

Sono convinto (come ho scritto ieri commentando su eddyburg il documento di Potere al popolo) che le motivazioni con le quali Mattarella ha giustificato il suo diniego sono molto gravi.

Piaccia o non piaccia Savona è stato proposto dalla maggioranza di un parlamento legittimamente formato, e non vi era alcuna ragione costituzionalmente valida per impedirne l’entrata in carica. Le motivazioni ripetutamente espresse da Mattarella rivelano – senza possibilità di dubbio – che la ragione della pesante censura a Savona è costituita dai timori e dalla volontà de “i mercati”. Errore, a mio parere, altrettanto grave di quello che Giorgio Napolitano confessò di aver compiuto, quando, intervenendo su Renzi lo sollecitò a indire il referendum per modificare la Costituzione al fine dichiarato di ridurre i diritti relativi a lavoro e democrazia. Napolitano interveniva allora obbedendo in tal modo alla volontà espressagli dal gruppo JP Morgan Chase Bank. Ci indignammo e protestammo tutti, o mi sbaglio?

Ma oggi la cosa è ancora più grave, perché l’obbedienza a “i mercati” è stata completata dall’affidamento di formare il governo a un personaggio, Carlo Cottarelli, la cui formazione, la cui storia, la cui dichiarata volontà, la cui stessa “specializzazione” è quella di tagliare il welfare, nell’appiattire la tassazione nell’interesse dei più ricchi (quindi violare la Costituzione)…e infine impiegare i fondi stanziati per l’accoglienza di migranti e profughi per destinarli invece secondo il modello Minniti, al respingimento. Ed è Mattarella, succube de “i mercati”, e non altri, a prendere la decisione di incaricare Cottarelli a formare il governo della Repubblica.

Questa è la mia posizione. Una posizione personale, certamente. Infatti, come faccio sempre da qualche tempo, quando esprimo posizioni che non rispecchiano il punto di vista di tutto il gruppo di eddyburg le concludo con la mia sigla.

Comunque la mia posizione l’avevo già espressa ieri sera, nei commenti di apertura di un pezzo su eddyburg. Da allora non ho cambiato idea. E devo dire che mi spinge ancora di più a ribadirlo il fatto che aborro dal costume italiano del “tifo”: o per la Roma o per la Lazio, o per i Bianchi o per i Neri. Preferisco molto il ragionamento e l’argomentazione. E la convinzione che mai la ragione sta tutta e solo da una delle due parti

Infine, per quanto riguarda la sinistra italiana, non ritengo più validi oggi, nel XXI secolo, un glossario e una visione dei conflitti politici indubbiamente coerenti con i problemi del millennio scorso ma non più oggi. Le forme e gli stessi contenuti del conflitto sono diversi, sono mutati i contenuti stessi (l’ideologia, gli interessi economici, le figure sociali) sia degli sfruttati che degli sfruttatori. Ho tentato di scrivere qualcosa di semplice in proposito nell’articolo cui reinvio: “la parola Sinistra”. (e.s.)

il manifesto, 2

L’incarico a Cottarelli non ha dato alcun beneficio per lo spread e la borsa, che anzi volgono al peggio. Non poteva andare diversamente, posto che nomi prestigiosi nell’esecutivo non avrebbero impedito una sfiducia a breve praticamente certa, con la prima assoluta di un governo del presidente privo di qualsiasi sostegno mandato al massacro in parlamento. Quale peso, quale autorevolezza in Italia e all’estero per un governo nato morto? Un governo di zombie. Cottarelli non ha ancora consegnato la lista dei ministri a Mattarella, e non si sa – a questo momento – se la consegnerà. Palazzo Chigi è vuoto, nel senso più stretto del termine. Il vecchio governo ha già portato via gli scatoloni, il nuovo ancora non c’è. Una situazione pericolosa e insostenibile.

Come è insostenibile l’ipotesi che un governo senza fiducia sia a lungo mantenuto in vita dal capo dello stato ritardando lo scioglimento delle camere. Già poche settimane di inerzia potrebbero arrecare al paese un grave danno. Bisogna tornare alle urne, ponendo fine a ogni ulteriore indugio. Si parla del 29 luglio per il voto. Per questo è comunque necessario un premier in carica, per la controfirma del decreto di scioglimento anticipato. Può essere Cottarelli, o ancora Gentiloni, o magari un redivivo Conte, ripescato nei tempi supplementari.

Tutto questo accade mentre il paese si è diviso sul diniego opposto da Mattarella a Paolo Savona come ministro dell’economia. Si preparano piazze pro e contro il Colle. Un brutto segnale, che pone un carico pesante sul ruolo di rappresentante dell’unità nazionale proprio del capo dello stato.
Si argomenta che abbia difeso la Costituzione. Non è così. Il capo dello stato può fare argine contro leggi o atti di governo incostituzionali, o anche lesivi di trattati in vigore. Ma la possibilità di assumere in un programma di governo la scelta politica di uscire da uno o più trattati è altra cosa. Per me, uscire dall’euro sarebbe scelta grave e da contrastare perché non nell’interesse del paese. Ma non dubito che il popolo italiano abbia in principio il diritto di fare quella scelta. Si pensa forse che vi siano trattati scritti per l’eternità?

Si oppone che sono state disattese prassi consolidate. Si lamenta che il “contratto” di governo ha natura privatistica, che è venuto prima dell’incarico, e che il signor nessuno incaricato non risponde al modello dell’art. 95 della Costituzione (“dirige e coordina”). Argomenti carichi di formalismo. È vero che non sono state osservate antiche ritualità e regole di galateo istituzionale, seguendo un iter tortuoso e pasticciato più del necessario. Ma sono cose alla fine largamente ininfluenti rispetto ai processi politici reali, meno lontani dal passato di quanto può a prima vista sembrare. Più sostanziale è il distacco di Mattarella dal principio aureo su cui la presidenza per Costituzione necessariamente riposa: non essere parte nella dialettica politica.

Ci sono ragioni più profonde. È mancata una presa d’atto che la rottura avvenuta il 4 marzo è stata ben più profonda di quello che si poteva pensare prima del voto. Forse nasce qui l’errore di Mattarella di voler portare a Palazzo Chigi un governo tecnico contro una maggioranza parlamentare sostenuta da una fiducia. Qui si fonda la lettura riduttiva da parte di molti – anche costituzionalisti – di un conflitto tra responsabili favorevoli a Mattarella e irresponsabili all’assalto del Palazzo. Infine, un pezzo importante dell’establishment del paese, da sempre nelle stanze del potere o nelle immediate vicinanze, ha probabilmente temuto di essere prossimo allo sfratto e ha cercato di evitarlo, allagando i fossati e sbarrando le porte ai nuovi barbari.

Che il governo gialloverde fosse di destra e da combattere politicamente non si discute. Ma qui si parla di altro. Per Mattarella, l’impeachment sarebbe stato eccessivo rispetto ai fatti ed è bene che sia messo da parte. Ma l’art. 90 Cost. esclude per il capo dello stato la responsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, non lo sottrae alla critica. Anzi, è proprio la critica il complemento fisiologico della irresponsabilità. Come i fatti di queste ore dimostrano, chi critica il capo dello stato difende l’istituzione della presidenza. Il capo dello stato ha diritto al rispetto, che va dato senza riserve. Non ha diritto a un silente ossequio.

Potere al popolotere al popolo a proposito delle iniziative di Sergio Mattarella, nel suo ruolo di presidente della <Repubblica: al servizio dei "mercati". Con commento (e.s.)

Le prese di posizione di “Potere al popolo” hanno il duplice pregio della radicalità e della chiarezza: due pregi del tutto coerenti con l’esigenza di fondo che ha provocato la nascita di Pap, che è quella di ribaltare il tavolo della “politica politicante" e di sostituirla con un politica che garantisca uguaglianza e democrazia a tutti, a partire dai più fragili e sfruttati. Radicalità non significa “estremismo”, ma andare alla radice delle cose e, se sono marce, tagliarle, operare un cambiamento reale e profondo. Chiarezza significa parlare in modo tale da farsi comprendere dal popolo, da tutto il popolo che si vuole rappresentare.

La critica di “Potere al popolo” a Sergio Mattarella puà essere riassunta in una sola proposizione: il presidente della Repubblica ha adoperato il suo potere inibitorio non per tutelare i cittadini, ma per difendere “i mercati” cui Paolo Savona non piace.

Il giudizio severo su Mattarella è rafforzato dal sostegno che il presidente della Repubblica ha dato a una persona, Carlo Cottarelli, efficace strumento delle centrali del finanzcapitalismo, come tale responsabile diretto delle politiche neoliberiste, della progressiva riduzione del welfare nei paesi che lo avevano raggiunto e del respingimento dei popoli di migranti e profughi dai Sud del mondo. Tutto questo, e di più, potete leggere dal documento politico di “Potere al popolo” che riportiamo di seguito (e. s.)


Potere al popolo
Il documento politico
dell’Assemblea nazionale

Il presidente Mattarella si è reso responsabile di una grave crisi istituzionale, pur di non accettare come Ministro dell’economia Paolo Savona, considerato “euroscettico” e dunque non compatibile con i diktat dell’Unione Europea.

Mattarella ha ammesso di non aver accettato Savona perché sgradito “ai mercati”, temendo “un segnale di allarme o di fiducia per i mercati”. La volontà dei mercati ha prevalso su quella dei cittadini.

Piegandosi ai diktat della Bce e del Fmi, Mattarella dà l’incarico a Cottarelli, diretto rappresentante dei poteri forti della finanza e noto “tagliatore di teste” del FMI, ex strapagato plenipotenziario per la spending review.

Un governo “tecnico” che si dà la priorità, dichiara Cottarelli, “di far quadrare i conti”. Una replica del Governo Monti, che per far quadrare i conti ha aumentato l’età pensionabile, precarizzato il lavoro, tagliato i servizi pubblici.

Non ci interessa sapere se Salvini volesse davvero fare questo governo o no, nemmeno il dibattito su un eventuale impeachment di Mattarella: quello che è inaccettabile è la motivazione della sua scelta. Dire che si rifiuta la nomina di un ministro perché ha una visione della politica monetaria diverse da quelle della UE è inaccettabile. Così come è inaccettabile il ricatto dello spread, che la sovranità sia dei “mercati” e non del popolo che vota.

In questo modo il presidente Mattarella ha portato un attacco diretto alla democrazia ed alla Costituzione del nostro paese, facendo una scelta politica in continuità con lo sciagurato interventismo dell’ex presidente Giorgio Napolitano.

Grave ci sembra anche l’accodarsi di CGIL e ANPI a questa scelta. In questo modo la rabbia popolare, che ha radici giustissime, si rivolgerà non solo contro una parte politica, la sedicente “sinistra”, ma contro le stesse istituzioni nate dalla Resistenza.

Si regalerà a Di Maio e Salvini il ruolo di “vittime dei poteri forti”, di “antisistema”, di difensori degli interessi popolari, lasciando che la nostra gente sia sempre più fomentata dal razzismo e dalla xenofobia della Lega per nascondere la guerra ai poveri dichiarata anche da Salvini (voucher, flat tax, ecc) e farla diventare guerra tra poveri. Il nostro paese avrebbe invece bisogno di giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, diritti per tutte e tutti, di cooperazione e non di odio.

La mossa di Mattarella nasconderà agli occhi degli elettori le responsabilità e le colpe della Lega che ovunque governa, alleata di Berlusconi, persegue le stesse politiche neoliberiste di Monti e Renzi, volute dai mercati e da Confindustria, di cui Savona è stato un tempodirettore generale.

Ieri, 27 maggio, si è conclusa a Napoli l’entusiasmante assemblea nazionale di Potere al Popolo, con la partecipazione di più di un migliaio di persone: giovani, donne, lavoratori. L’impegno preso è stato quello di intraprendere tutte le mobilitazioni necessarie a contrastare l’ipotizzato governo M5S e Lega, che ritenevamo lontano dagli interessi popolari, a cominciare dalla proposta di flat tax a favore dei ricchi.

Potere al Popolo!, così come era pronto ad opporsi al governo Salvini/Di Maio per il suo programma e la linea politica anti-popolare, ora afferma con altrettanta determinazione che è contro il grave atto di Mattarella e contro il futuro governo Cottarelli.

Contro questo ora intende lottare per una democrazia senza sovranità limitata e senza presidenti della Repubblica che, invece essere garanti di una repubblica parlamentare, si ergano a difensori di banche e finanza.

Le mobilitazioni che avevamo in programma contro il governo Salvini-Di Maio ora saranno rivolte contro il governo Cottarelli, pura espressione dell’austerità autoritaria del mercato, della finanza multinazionale e dei diktat dell’UE.

Saremo l’unica forza politica impegnata fino a luglio a raccogliere le firme per la legge di iniziativa popolare he chiede di cancellare il pareggio di bilancio inserito in Costituzione da Monti, Berlusconi, Pd.

Sfideremo Lega e 5 Stelle a cancellare comunque la Legge Fornero proponendone la riforma in Parlamento, dove avrebbero da subito i numeri per approvarla.

Basta rivoluzionari a parole. Non faremo ancora una volta i sacrifici per garantire i vostri profitti!

Testo tratto dalla pagina qui raggiungibile

pressenza

Si può pensare alle crisi e alle soluzioni possibili in modo totalmente diverso da Paolo Savona, ma ciò non esime - chi voglia ragionare sulle cose senza paraocchi - dal sostenere che le proposte fatte proprie da Mattarella sono devastanti e vanno respinte. Esistono molte strade da esplorare per uscire dalla crisi finanziaria e dall'indebitamento dello Stato nei confronti del mondo della finanza. Preoccupante la prontezza con cui il Presidente della Repubblica accetta la soluzione che colpisce i cittadini. Questa la posizione, che riportiamo di seguito dell'erede morale del pensiero e l'opera di Lorenzo Milani, difensore dei diritti della persona umana dal bulldozer del sistema capitalistico (e.s.)

pteessenza online, 28 maggio 2018
Il gran rifiuto di Mattarella e la crisi delle democrazie
di Francesco Gesualdi


I provvedimenti discriminatori e persecutori contro gli immigrati, aggiunti alla flat tax che avrebbe aggravato le disuguaglianze, per me erano e restano scelte inaccettabili che inficiano l’intero programma presentato da M5S e Lega, che eppure contiene elementi condivisibili. Ma la scelta del Presidente della Repubblica di non accettare Paolo Savona come ministro dell’economia, rappresenta una grave ferita per la democrazia. Le ragioni addotte da Mattarella per rifiutare la sua firma sotto quel nome sono che “la designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari”. Ed ha continuato “ho chiesto per quel ministero la designazione di un esponente politico della maggioranza che non sia visto come sostenitore di una linea che potrebbe provocare, probabilmente o inevitabilmente, l’uscita dell’Italia dall’euro”.

Tradotto, Mattarella ha detto che siamo tutti dei vigilati speciali e che l’ultima parola sul tipo di governo che si deve insediare nei singoli paesi l’hanno i mercati che attraverso le loro scelte di acquisto o di vendita di valute e titoli del debito pubblico possono decretare la vita a la morte delle economie nazionali. E a sottolineare come il potere di banche, assicurazioni e fondi di investimento sia assoluto, nel senso che non c’è modo di portare il mercato ad alcun tavolo di negoziazione, Mattarella ha usato l’aggettivo ”immediato”. Come dire: il mercato osserva, ascolta e reagisce immediatamente ora per salvaguardare i propri capitali, ora per creare condizioni propizie ai propri calcoli di guadagno. Non a caso la sua richiesta era che venisse proposto un altro nome percepito dai mercati come meno dirompente di Paolo Savona.

Diciamolo con chiarezza: Paolo Savona è un economista di sistema convinto sostenitore del mercato e della crescita, che non mette in discussione l’obbligo dello stato a pagare i suoi creditori. Però è altrettanto persuaso che per rilanciare l’economia italiana bisogna spendere di più come cittadini e come stato. Di qui il suo sostegno ad un pacchetto economico che al tempo stesso prevede riduzione delle tasse ed espansione della spesa pubblica. Una possibilità che oggi è preclusa dai rigidi parametri di Maastricht che in nome della stabilità dell’euro pongono limiti molto stretti alla possibilità di fare altro debito. Di qui l’affermazione di Savona che se non funziona il piano A, bisogna avere di riserva il piano B che prevede l’uscita dall’euro per recuperare piena sovranità sulle politiche monetarie, fiscali e di bilancio.

In termini di obiettivi economici personalmente sono su posizioni diverse rispetto a quelle di Savona. Credo che il nostro obiettivo non debba essere la crescita, ma una distribuzione più equa della ricchezza e una riconversione ecologica della produzione e del consumo, in una logica di inclusione lavorativa che passa al tempo stesso tramite una riduzione dell’orario di lavoro e di più stato per la fornitura di servizi pubblici e tutela dei beni comuni. Il grande macigno che blocca la strada di questo percorso è un debito pubblico verso privati che sottrae risorse enormi alla collettività. Per questo credo che la grande battaglia debba essere condotta per liberarci dal debito, senza fare pagare i più deboli. Che significa aprire un contenzioso con i mercati ancora più acuto di quello aperto dall’ipotesi di uscire dall’euro finalizzato a raggiungere meglio gli obiettivi di sistema.

In conclusione, che si persegua un obiettivo o l’altro, la necessità di recuperare tutti gli strumenti che permettono ai governi di esercitare a pieno la loro funzione di promozione sociale e di indirizzo economico, si pone in ogni caso. Gli europeisti che credono in un’Europa sociale, chiedono di provare fino in fondo a recuperare questa condizione tutti insieme, ma forse dobbiamo ammettere che i margini per riuscirci sono molto scarsi, visti gli egoismi nazionali che dominano a livello europeo. Per cui uno scontro con l’Europa, ma ancora di più con i mercati sembra ineludibile. Uno scontro che pur essendo economico, diventa inevitabilmente istituzionale perché pone il problema di chi comanda. Mattarella ha ammesso che comandano i mercati e un’affermazione del genere è di una gravità inaudita da parte del garante di una Costituzione che afferma solennemente che la sovranità appartiene al popolo.

Mattarella avrebbe dovuto rispettare la volontà popolare e annunciare nel tempo stesso che si andava alla guerra. Informare i cittadini della situazione era suo obbligo, poi i cittadini o meglio i suoi rappresentanti in Parlamento avrebbero deciso le misure da assumere nel giorno per giorno. L’esito avrebbe anche potuto essere una grande ritirata o l’apertura di una nuova stagione in cui si tornava a ridiscutere il ruolo dello stato, il ruolo dei mercati e quale Europa vogliamo davvero. Ne abbiamo bisogno e Mattarella doveva permetterlo, anche se dovevamo accettare di andare verso l’ignoto.

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