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«L’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie».

il manifesto, 7 maggio 2017 (c.m.c.)

Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese. Un fiume colorato, vivace e combattivo, di oltre quindicimila persone provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Davanti a tutti le mamme della Terra dei fuochi e una rappresentanza di terremotati di Amatrice. E uno slogan scritto su cento striscioni e ritmato lungo tutto il corteo: «Contro la Torino-Lione c’eravamo, ci siamo e ci saremo!».
I siti dei grandi giornali – almeno mentre scrivo – ignorano un evento di cui avevano anticipato il probabile insuccesso, evocando divisioni e disaffezione e amplificando le polemiche della destra e del Pd per la partecipazione del vicesindaco di Torino. Invece è stato, ancora una volta, un esempio di democrazia. Da parte di un movimento che da venticinque anni tiene aperta la partita ed è più che mai determinato a vincerla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Ma la manifestazione dice qualcosa di più. La consapevolezza che la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è un’opera devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa e decisa in modo autoritario apre la strada a una consapevolezza ulteriore.

Quella secondo cui lo scontro in atto in Val Susa è prima di tutto una grande questione di democrazia. Perché l’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie, aggravata dalla delega agli apparati (polizia, magistratura e, addirittura, esercito) della gestione delle più rilevanti questioni politiche.

Si spiega così la durata e l’ampiezza della partecipazione, che è anche una forma di resistenza contro la violazione di diritti fondamentali delle persone e delle comunità. Una violazione che non può essere legittimata da un voto di maggioranza. Perché – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia chiude definitivamente una partita. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

È una lezione che dovrebbe essere meditata da quel che resta di una sinistra troppo spesso interessata alle questioni istituzionali più che alle dinamiche reali e profonde del paese.

Articoli di Liana Milella e Andrea Colombo sulla goffaggine con la quale il parlamento a guida PD vorrebbe rendere più aggressivo il far west italiano e consentire l'assassinio dei presunti ladri a casa propria.

la Repubblicail manifesto. 6 maggio 2017


la Repubblica
LEGITTIMA DIFESA, SI CAMBIA
VIA DAL TESTO LA PAROLA NOTTE
MA AL SENATO VOTO A RISCHIO
di Liana Milella

«Renzi: basta errori e avanti con la legge. Grasso: “Meno male che c’è ancora la seconda Camera”. E Salvini minaccia il referendum»
L’ordine di Renzi è perentorio: «Sulla legittima difesa il Pd deve andare avanti perché la battaglia sulla sicurezza è strategica». Senza gli «errori» commessi alla Camera nelle ultime ore, togliendo dal testo subito l’espressione «tempo di notte», ma certamente senza mettere il ddl in un cassetto di palazzo Madama per dimenticarlo poi lì com’è avvenuto per tante altre leggi sulla giustizia. Renzi sa bene che i numeri del Senato sono ballerini per la maggioranza e che sarà necessario l’apporto dei verdiniani di Ala soprattutto dopo il deciso niet alla legge dei bersaniani di Mdp, ma è deciso ad andare avanti ugualmente.

Quando, a metà mattina, proprio il presidente del Senato Piero Grasso pronuncia una battuta chiaramente ironica e allusiva alla riforma costituzionale bocciata – «Diciamo meno male che c’è il Senato, se dobbiamo intervenire su questo tema, staremo a vedere le ulteriori proposte di modifica» – Renzi veicola ai suoi un messaggio chiaro che viene riassunto così: «Sulla sicurezza il Pd si gioca la prossima partita elettorale. La legittima difesa è una questione estremamente sentita dalla gente. La legge attuale non è né sufficiente, né adeguata, quindi dobbiamo andare avanti e cambiarla. Stavolta senza fare errori, né cedere a eccessivi compromessi». Come quelli che, invece, ci sono stati con i centristi di Alfano.

A 24 ore dal voto alla Camera, tra i renziani si apre la caccia al “colpevole”, a chi, pur di trovare un accordo con Alternativa popolare che minacciava di votare contro in aula, ha cambiato all’ultimo momento il testo della legittima difesa. Eh già, fanno notare adesso i Dem, perché fino a martedì sera, la legge che doveva andare in discussione non toccava affatto l’articolo 52 del codice penale, quello di Berlusconi e Castelli del 2006, cioè la legittima difesa vera e propria, ma un altro articolo, il 59 sulle circostanze in cui matura il reato.

Ma nell’ultima riunione di maggioranza, a poche ore dal voto, il ministro della Famiglia Enrico Costa, che ancora ieri difendeva la legge – «Non va cambiata, perché è sacrosanta» – ha puntato i piedi e preteso una modifica radicale della legittima difesa e dell’articolo 52. Il ministro Anna Finocchiaro, per evitare in aula una pesante spaccatura della maggioranza, ipotizza una possibile mediazione legislativa, che a quel punto mette d’accordo Pd e Ap. Il giorno dopo l’intero gruppo Dem, pur tra i mal di pancia degli orlandiani, la ratifica.

Dopo due anni di discussione parlamentare, per la prima volta, compare l’indicazione di un’irruzione “in tempo di notte”, oggetto di ironie politiche e scetticismo tra magistrati e giuristi. Ecco, ancora ieri, la bocciatura del presidente dell’Anm Eugenio Albamonte – «un intervento inutile» – e il suo invito «a cestinare il testo e lasciare le cose come stanno».

Ma è proprio questo che Renzi non è intenzionato a fare. Non vuole affatto fermarsi. Nelle stesse ore in cui il leghista Matteo Salvini ironizza sulla marcia indietro del Pd, «che vota una legge il giovedì per poi sconfessarla il venerdì», e lancia l’idea di un referendum per cancellare quella che battezza «una legge schifezza», Renzi chiede ai suoi di correggere e adeguare il testo.

Si muove subito un suo uomo, David Ermini, ex responsabile Giustizia del Pd e relatore della legittima difesa, che fa cadere il tabù del «tempo di notte ». «Se ci devono fare una campagna elettorale contro, noi lo togliamo» dice Ermini, anche se poi lui, la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti, il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato, accusano la stampa di aver presentato la legge in modo distorto. Quelle parole – «in tempo di notte» – non escluderebbero affatto, secondo loro, che la legittima difesa sia possibile anche in qualsiasi ora della giornata quando un’irruzione in casa o nel luogo di lavoro avviene con violenza e inganno.

Dalla prossima settimana la battaglia si sposta al Senato. Mentre M5S tempesta il Pd con hashtag ironici, dal #legittimaignoranza di Vittorio Ferraresi, al #Renziinsegueivoti di Danilo Toninelli, al #legittimadifesanotturna di Alfonso Bonafede.

Il manifesto
SPARI ELETTORALI.
IL PD TRAVOLTO
DALLE CRITICHE E DAL RIDICOLO
di Andrea Colombo

«Legittima difesa. L’Anm boccia il testo. Grasso:«Meno male che c’è il senato». Renzi dà la colpa agli altri, cercando inutilmente il voto di Forza Italia. Ermini: “Via la parola notte”»

È peggio che un semplice disastro. La legge sulla legittima difesa affonda sommersa non solo dalle critiche ma anche dal ridicolo. La campagna securitaria decisa da Renzi con l’obiettivo di rubare voti alla destra si è risolta in una sgangherata rotta.I magistrati aprono il fuoco. «Intervento che non serviva e anche un po’ confuso», attacca il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Non si ferma qui e affonda la lama nella carne viva: non bisognerebbe «assecondare gli umori» popolari, «meglio desistere dal mettere mano a questa normativa». Nella pattumiera.

Grasso, presidente di quel Senato che Renzi voleva abolire e al quale ora si raccomanda per modificare la legge, si gode la rivincita: «Meno male che c’è il Senato». Le opposizioni si divertono, non lesinano in sarcasmo. «Se questa legge passa raccoglieremo le firme per abrogarla col referendum», si allarga Salvini.

La legge, oltretutto, ha ottime probabilità di non uscire viva dall’aula del Senato. Renzi si è impegnato a modificarla, cioè a peggiorarla, nella speranza di raccattare i voti di Fi ma Berlusconi non ha intenzione di fargli il favore sacrificando la ritrovata intesa col Carroccio. Neppure gli scissionisti dell’Mdp cambiano idea e in queste condizioni una maggioranza al Senato non c’è.

Non sarà neppure facile cavarsi d’impiccio ricorrendo all’eterna arma del cassetto. La legge arriverà in commissione tra due settimane e per il Pd la cosa migliore sarebbe seppellirla lì. Più facile a dirsi che a farsi. All’origine si tratta infatti di una delle proposte di legge in quota opposizione. E’ una legge della Lega e se il Carroccio insiste per portarla in aula non c’è alternativa.

Ma il peggio è la rete. La vecchia sigla del programma cult di Renzo Arbore, Ma la notte no, impazza, vive una seconda giovinezza. Le battutacce si contano a centinaia. Inutilmente il relatore Ermini, fedelissimo del capo e reduce da una lavata di testa che lèvati, prova a correggere: «Toglieremo la parola Notte». Non ce ne sarebbe bisogno per la verità, «ma se serve a correggere un’opinione completamente stravolta…». Inutile. La slavina è irrefrenabile, il coro sull’assurda legge che permette di sparare ai malfattori ma solo di notte prosegue. Il povero Ermini in realtà ha ragione. La legge è pessima ma la distinzione tra notte e giorno è frutto solo di un pasticcio mediatico di un testo confuso, che però il gran capo conosceva bene.

Renzi aveva fiutato l’aria malsana già giovedì sera, navigando in rete e traendo le conclusioni dal diluvio di critiche e ironie pesanti che già s’abbatteva sulla legge. In questi casi il suo schema è fisso: addossare la colpa agli altri. Si attacca al telefono, strapazza Ermini: «E’ scritta così male che si comunica male da sé. Bisogna rimediare, cambiarla, sparigliare». Poi ordina al suo portavoce, l’onorevole Anzaldi, di chiamare quattro giornalisti fidati per spiegare che il capo è fuori di di sé: «Così non si può andare avanti. Manca una regia. Su questa strada andiamo a sbattere». Trattandosi di una proposta di legge nata in Parlamento e fatta propria dal partito di cui Renzi è segretario, con un suo uomo come relatore, non si capisce bene chi, se non Renzi stesso, avrebbe dovuto occuparsi della regia. Particolari. L’importante è scaricare ogni responsabilità su qualcun altro, meglio se sul governo. Al resto penseranno i media.

Quando per la legge arriverà il momento della verità, Renzi è già pronto a sfruttare come d’abitudine la situazione a proprio vantaggio, insistendo sull’impossibilità di andare avanti a fronte di un Senato dove le divisioni interne alla maggioranza non permettono più di procedere. Tanto più che, subito dopo la legittima difesa, arriveranno a palazzo Madama altri due provvedimenti modello Mission Impossible, la legge sul testamento biologico e quella sulla cittadinanza e lo ius soli.

Lo sgambetto del capo è stato preso malissimo dal governo, anche se tutti cercano di non rendere palese l’irritazione. La ministra per i rapporti col parlamento, Finocchiaro, incaricata di cercare una difficilissima mediazione sia con Fi che con i centristi della maggioranza, decisi a rendere il testo più severo di quanto non intendesse Ermini, si è ritrovata sul banco degli imputati e mastica amaro. Il ministro Orlando, che al provvedimento leghista era contrario dall’inizio, vede ancora più rosso, tanto che i suoi sbottano: «Siamo alla presa in giro. L’intervento di Renzi è insopportabile». Ma anche tra i capibastone della maggioranza Pd, Franceschini e Martina, l’umore è cupo. Si erano illusi che dopo la batosta del 4 dicembre Renzi fosse cambiato. In meno di una settimana si sono resi conto che non è così. Matteo Renzi è sempre lo stesso.

«Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare». doppiozero, 6 maggio 2017 (c.m.c.)

«Nelle notti di maggio inoltrato nelle terre irpine si faceva il fieno. Voleva dire che le erbe per la fienagione, lasciate al sole perché si essiccassero, venivano raccolte in fasci legati in tre punti da liane fatte dello stesso fieno (i truocchi). Le liane si facevano a loro volta con un arnese agricolo, il manganiello, che non aveva nulla a che fare con il suo omonimo fascista o con quello in dotazione ancor oggi alle forze dell’ordine. Era un arnese fatto con legno torto di ulivo uncinato a un’estremità e canna, che ruotando immerso nel fieno, ne raccoglieva una parte e la trasformava in legaccio.

A fare compagnia ai lavoratori sotto la luna piena era il silenzio. Bisognava finire il lavoro prima del sorgere del sole che, asciugando la rugiada, avrebbe reso friabile il fieno. Solo le voci sommesse di chi lavorava si sentivano nella notte. Voci che facevano da sfondo al ritmo intenso della fatica e ne costituivano la colonna sonora, insieme al fruscio lento e musicale del fieno ammorbidito dalla rugiada della notte di quasi estate.

Il risveglio della natura sarebbe stato lento e silenzioso: con l’arrivo delle prime luci avrebbero iniziato gli altri uccelli coi loro canti a sostituire la melodia notturna dell’usignolo. A giorno fatto ormai era tempo di mangiare e voci capaci di ascolto avrebbero accompagnato la frugale colazione, seduti sui fasci di fieno a contemplare il lavoro appena finito e ad ascoltare storie che si ripetevano con qualche differenza che le rendeva ogni volta nuove.

Capitava che a quell’ora, dopo aver portato i piccoli greggi fuori dagli jazzi, passasse per i tratturi qualche pastore che veniva invitato a favorire, a fare una sosta per condividere un poco di cibo. Poteva succedere allora che, in cambio, tirasse fuori dal tascapane l’armonica e regalasse alla comitiva qualche tarantella o un veloce saltarello. Si dileguava in quel momento la stanchezza della notte e il silenzio del mattino si arricchiva di ulteriori possibilità di ascolto. Di fronte a quella sana allegria veniva da pensare che il silenzio non è andare via dal mondo per qualche tempo, ma uno dei tanti modi densi di sentirlo, il mondo, e di risuonare con le sue vibrazioni.»

Il silenzio non è assenza di presenza, di suoni o rumori. Il silenzio, anzi, è un particolare e generativo modo di vivere la presenza, riconoscendo che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Scrive lo scrittore Amitav Ghosh: «Il riconoscimento segna notoriamente il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Riconoscere, pertanto, non è la stessa cosa che entrare in contatto per la prima volta, né abbisogna di parole: quasi sempre il riconoscimento è muto. L’aspetto più importante del termine riconoscimento sta dunque nella prima sillaba, che rimanda a una consapevolezza preesistente» (Robinson, 16 aprile 2017).

Il silenzio e l’ascolto sono condizioni essenziali per quel riconoscimento che può consentirci di ricongiungerci all’anima del mondo, al sistema vivente che ci precede e di cui siamo provvisoria espressione. Nel silenzio, come nell’ascolto, sono l’altro e il mondo, non la loro assenza, il campo di prova. L’ascolto e il silenzio assumono la connotazione di una conversazione con l’altro e il mondo, in cui la loro irriducibilità a noi è elaborata astenendosi dalla facile e frettolosa via d’uscita o di fuga che troppo spesso diventa la parola. Silenzio e ascolto possono diventare, allora, un particolare modo di accorgersi del mondo, un modo lento di sentirlo e, quindi, di sentirsi. Un modo in grado di cogliere l’unicità di ogni istante e della vita stessa: un thick feeling del mondo cui fa eco la thickdescription nella prospettiva antropologica di Clifford Geertz.

Alla maniera del monito poetico di Anna Achmatova:

Ma io vi prevengo che vivo
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco
né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente,
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.

O secondo il ritmo del suono che il silenzio offre a chi sa ascoltarlo, viene da aggiungere non solo nel buio, secondo il canto di Simon & Garfunkel:

Hello darkness, my old friend
I've come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seed swhile I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence.
Lentezza, silenzio e ascolto costituiscono quello che nelle scienze del cervello e del comportamento è riconducibile all’approccio in prima persona, il cosiddetto first person approach, che secondo Francisco Varela è in grado di combinare neurofisiologia e fenomenologia, dando vita a quella peculiare view from within, o visione dall’interno, propria della scimmia che si parla, quale noi umani siamo.

Il gioco introiezione/proiezione ci caratterizza e ci distingue, non perché non riguardi altri animali, ma in quanto è, da noi umani, animali di parola, risolto troppo spesso, precocemente, appunto, nella parola. La sospensione provvisoria di senso e una certa distanza o “estraneità” sono condizione necessaria per l’ascolto: solo la lentezza e il silenzio possono creare in noi quello spazio necessario. Ascoltare non significa eliminare l’estraneità ma elaborarla senza negarla, farla lavorare in noi, dandosi tempo. È a partire da quella sospensione che possiamo riconoscere come non sia il mondo che emerge dal soggetto, ma il soggetto che emerge dal mondo. Se il mondo ci genera, insieme all’illusione di essere noi a generarlo, conviene attraversarlo lentamente, ascoltandolo, spesso e per quanto possibile in silenzio.

Vale la pena domandarsi perché sono, allora, così difficili, il silenzio, l’ascolto e la lentezza, quelle dimensioni così densamente descritte nella narrazione magistrale di Sten Nadolny, che con La scoperta della lentezza se ne era occupato come pochi, irridendo alla cieca convulsione del nostro vivere attuale, con la precisione e il piglio che sono nella migliore tradizione letteraria di lingua tedesca. Come ha scritto Oreste del Buono, «Nadolny è uno scrittore di finezza, capziosità e suggestioni poetiche rare. La sua prosa è una continua sorpresa e la lentezza diventa, di segmento in segmento vissuto, un’avventura coinvolgente».

Baruch Spinoza ci fornisce una risposta forse più impegnativa della domanda quando introduce la vertigine della “causa sui”. La constatazione del mondo così com’è, della sua autofondazione, o, per dirla con William James, che ciò che è, è, in quanto semplicemente è, incluso il pensiero, (“We must simply say that thought goes on” – Principles of Psychology, 1890, vol. 1, Dover, New York, 1950; pp. 224-225), ci inquieta e induce a produrre spiegazioni rumorose e frettolosamente succedanee per riempire un vuoto che viviamo intollerabile.

Giungiamo così a pensare di essere noi a venire prima delle relazioni; che la tecnica sia un’esperienza accessoria prodotta da noi, e perdiamo il senso profondo della realtà: sono le relazioni a generarci e meriterebbero silenzioso ascolto; lungi dall’essere un’esperienza accessoria, la tecnica è antropogenetica: in quanto la tecnica, allora l’uomo. La stessa scienza è una teoria della tecnica: come ha argomentato acutamente Rocco Ronchi in un libro svolta per la riflessione filosofica: “La scienza è una teoria della tecnica, nel senso soggettivo del genitivo” (R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017; p. 262).

Fino a che rimaniamo autocentrati al punto da ritenere di essere gli artefici di qualcosa che chiamiamo esperienza, ritenendola esito della nostra sperimentazione di un mondo che sta là fuori e di cui partecipiamo come osservatori a distanza e con uno sguardo superiore, aumenteremo la nostra velocità di attraversamento e selezioneremo solo i segnali conformi, fino ad operare una reductio ad unum–indipendentemente da quale sia l’unum– che pare uno dei tratti preponderanti della nostra contemporaneità.

Siamo invece una actual entity che si fa nel corso del processo – emerge – per poi costituirsi come fatto compiuto solo al termine del processo stesso come suo risultato, che tende però a viversi come separata dal processo. Una specie di meta senza cammino, a causa della velocità del procedere e della cattiva elaborazione dell’ansia che la lentezza necessaria per ascoltare richiederebbe. Ad andare in crisi e, spesso, sovente perduta, è l’esperienza, che diventa così “esperienza di qualcosa”, con tutta la coazione compulsiva a “fare esperienze” che ne deriva. Non senza ragione, quando capita di dire a qualcuno che siamo stati in un luogo o di parlare di un’esperienza, spesso la risposta è: già fatto. “L’esperienza non è semplicemente esperienza di qualcosa”, scrive Ronchi, “per noi l’esperienza è sempre qualcosa” (p. 176).

Nei luoghi, infatti, troviamo nulla di più che quello che siamo capaci di portarvi. Non è che portiamo con noi quel che vi troviamo, come si porta un fardello o un bagaglio. È che conosciamo riconoscendo e sentiamo ascoltando: pensiamo camminando. Allora sarà il nostro mondo interno che, portandosi in un luogo, si farà raggiungere da quel che il luogo ha da dire; si farà osservare e ne ricaverà senso e significato, tendenzialmente unici, tanti quanti sono gli osservatori e quante sono le occasioni.

Del resto la domanda potrebbe essere: ma come facciamo a intenderci con questo mondo, con la natura e con gli altri? O meglio come facciamo a fare i conti con quelli che forse sono i più urgenti problemi del nostro tempo: la vivibilità degli ecosistemi a partire dalla sopravvivenza della specie; la convivenza tra le culture; possibilmente senza autodistruggerci?

Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare. In fondo siamo di fronte alla prima possibilità. A pensarci bene, infatti, è solo in questo nostro tempo che veniamo ridefinendo la nostra collocazione e il significato di noi stessi nell’universo e negli spazi ravvicinati della nostra vita.

Quando scopriamo che in una lontana galassia, distante da noi 8 miliardi di anni luce, un gruppo di astronomi guidato dal ricercatore Marco Chiaberge e di cui fa parte anche Alessandro Capetti, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto un buco nero supermassivo che sta letteralmente schizzando via dal centro galattico, a una velocità di 7,5 milioni di chilometri all’ora (per coprire la distanza tra la Terra e la Luna ci impiegherebbe appena 3 minuti) e che, secondo i ricercatori, questo buco nero “in fuga” è stato accelerato dalla enorme energia delle onde gravitazionali emesse durante la fusione dei due buchi neri che lo hanno generato; non solo, ma scopriamo anche che i ricercatori stimano che per spingere a una velocità così elevata un oggetto celeste della massa pari a un miliardo di volte quella del Sole, come il buco nero da loroindividuato, sia stata necessaria un’energia pari a quella rilasciata da 100 milioni di supernove, noi esseri umani come ci sentiamo?

Minuscoli è dir poco, persi forse nell’infinità dello spazio e nella profondità del tempo, ma forse proprio per questo presi da un’opportunità di guardarsi finalmente dal di fuori, di sorvolarsi e, accogliendo il limite e la finitudine come valori, incontrarsi con il mondo non dal di sopra ma dal di dentro: dal mondo interno e come parte del mondo. Non può trattarsi di un incontro automatico. Anzi. Richiede un autospiazzamento e una riflessione, nel senso di flettersi due volte su se stessi. Lo spaesamento e lo scompiglio per la sopravvenienza di un incontro con noi stessi, a lungo mancato e non atteso ma oggi necessario, richiede una sintonizzazione su una tonalità comune, per inventare un gesto di intesa.

Ci vuole garbo, però, e riflessione. Così come ci vuole la disposizione a considerare le nostre orme, voltandosi indietro a guardare: lo stesso gesto che immaginiamo possa essere stato alla base dell’imparare a tracciare segni e poi, alfine, a scrivere. Il garbo necessario ha le sembianze dello “shibboleth” ebraico: misurare le parole e lo stesso modo di pronunciarle; curare l’inflessione e essere attenti al linguaggio non verbale utilizzato.

E perciò, camminare con passo leggero, fermarsi ad ascoltare, soprattutto il vuoto interno, per consegnarsi ad un atteggiamento di apertura perché un’inedita sintonia con il mondo e gli altri si realizzi.

Voltandosi a guardare le orme, alfine emergerà, camminando nel silenzio interiore e nell’ascolto del mondo, una inedita armonia, quel thick feeling che non è fuggire dal mondo, ma partecipare del suo processo, come un seminatore che semina la terra ma da essa è seminato nel moment now in cui passo, gesto della mano, seme, terra e contesto coincidono.

». la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)

La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks - “Non nel nome di Dio”, edito da Giuntina - ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della “United Hebrew Congregations of the Commonwealth” e che è una delle voci più autorevoli dell’odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: «L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia».

Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è «l’inizio di un processo di de-secolarizzazione di cui la prova principale si chiama demografia: «In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità», mentre «dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico».

La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità. E se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l’effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: «Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore».

Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi a essere al contempo all’origine della civiltà e all’origine della violenza: «L’altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo».

Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata. Un’umanità senza gruppi è impossibile, ma un’umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di solidarietà e insieme di intolleranza.

Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone «una teologia dell’Altro» il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l’istinto naturale, è solo un nemico: «Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro». Questa teologia dell’Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà dal punto di vista altrui. È ciò che le religioni chiamano conversione.

Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a «rivalità tra fratelli ». Le tre religioni monoteistiche infatti sono «fratelli in competizione» per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all’insegna del superamento reciproco: «Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l’ebraismo, l’islam
Bonificare i testi sacri per neutralizzare l’odio lo ha fatto con entrambi». Il XXI secolo, però, «invita a una nuova lettura».

Sacks dà l’esempio proponendo una “controlettura” di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché «i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione». Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all’insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità tra le tre religioni abramitiche, ma è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia.

È decisivo notare però che il criterio di questa sua “contro-narrazione” è qualcosa di esterno al testo sacro. Non è la coerenza del testo in sé, né la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all’etica, come nella migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che «la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione» in base a cui «la nascita di Isacco non destituisce Ismaele » e «la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù».

Non c’è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c’è invece la riscoperta di un Dio universale e padre di tutti. Ecco perché «la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli». L’essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come le religioni hanno sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone: prima la fede era finalizzata al Noi, ora va finalizzata al Tutti: al Noi + Loro.

Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: «Possiamo e dobbiamo reinterpretarli ». Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando quei brani che incitano all’odio e alla violenza, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico “teshuvà”.

Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l’islam, che a differenza dell’ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida?

«Nelle coppie oppositive che abitano il lessico politico, quella tra sovranisti populisti e antipolitici democratici occulta la pratica democratica dei movimenti. Il filo rosso che lega i no-global a Nuit Debout è la ripresa di parola dei cittadini e la convergenza di pratiche sociali diversificate».

ilmanifesto, 3 maggio 2017 (c.m.c.)

La crisi delle istituzioni, la loro sempre più debole capacità di «rappresentare» gli interessi e le spinte al cambiamento di una maggioranza di cittadini, pur nella diversità delle loro condizioni sociali e ideali politici, sembra essere l’elemento inquietante di convergenza tra populismi di destra e di sinistra. C’è chi agita il mito del popolo sovrano per scardinare la democrazia e chi, al contrario, spera di allargarne le maglie, facendo crescere le opportunità di partecipazione.

La presa di distanza dalle istituzioni non è da oggi. Che cominciassero a venire meno le ragioni storiche che le avevano fatte sembrare necessarie, e che stesse rapidamente cambiando la realtà sociale con il modificarsi dei confini tra privato e pubblico, la comparsa di forme autonome dell’agire politico, create dai movimenti fuori dalle organizzazioni partitiche e sindacali, si era già visto alla fine degli anni Sessanta.

A proposito del depotenziamento della polarità sinistra-destra, scriveva Elvio Fachinelli: «Propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e di figura, hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele/infedele, credente/non credente, razza eletta/razza reietta» (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, 1974).
Sono passati da allora alcuni decenni, ma le coppie oppositive, su cui si sono rette le civiltà finora conosciute non accennano a darsi per vinte, a partire da quella originaria che ha considerato il sesso femminile il complemento organico dell’unico umano perfetto: l’uomo.

Nell’analisi che Alfio Mastropaolo ha fatto alcuni giorni fa su il manifesto (27/04/2017) dell’esito delle elezioni in Francia, si legge: «Tutti i populismi sovranisti sono antipolitici. Spregiano la politica democratica e il suo apparato di regole e di diritti. Ma non tutti gli antipolitici sono populisti. Molti sono anti-establishment, sono contro partiti convenzionali. Magari contro le istituzioni europee. Oltre la destra e la sinistra, ma non disdegnano le istituzioni democratiche (…) gli antipolitici di sinistra vorrebbero accrescere le opportunità di partecipazione popolare». Dopo essersi rallegrato della «strepitosa vittoria» di questi ultimi e della Waterloo di quelle «piccole cittadelle del privilegio» che sono i partiti tradizionali, arriva, sconfortante, la conclusione: «La più democratica delle antipolitiche è invertebrata».

Così come era accaduto ad Obama, anche Macron, «senza una solida struttura che connetta Stato e società, è probabile che finisca tra le grinfie del business, donde proviene».

A breve distanza di tempo, mi è capitato di leggere due altri articoli che, sempre con l’attenzione a quanto succede in Francia, disegnano un quadro all’apparenza estraneo a quello che è al centro dei media, e portano dentro le polarità che conosciamo, oppositive e simili al medesimo tempo – sovranisti populisti e antipolitici democratici -, una realtà sociale e politica destinata a far scomparire ogni surrettizia e mitologica idea di popolo. Non si può dire che i movimenti «no global» – dal popolo di Seattle, al Genoa Social Forum, a Occupy Wall Street, Indignados, fino a Nuit Debout – siano «soggetti imprevisti» come furono i giovani e le donne degli anni Sessanta e Settanta. Caso mai si possono considerare la «ripresa», ora manifesta ora carsica, di una straordinaria partecipazione popolare, allargamento dell’impegno politico, creazione di forme inedite di democrazia diretta, come lo furono in passato il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo.

Il legame tra società e Stato ha fatto da tempo il suo ingresso nella sfera pubblica e se ancora si vede solo il deserto su cui crescono fatalmente nuovi totalitarismi e inconsistenti governi democratici, è perché nessuno, tra i politici, gli intellettuali, gli opinionisti, sembra vederlo e volerne parlare.

Riferendosi a Nuit Debout e ai movimenti che si sono via via succeduti nel tempo, Lorène Lavocat su Reporterre-net il 6 aprile scrive: «Il movimento non è fallito, ho visto fiorire collettivi e inziative, alcune commissioni nate in quella piazza (come quella di Educazione popolare) continuano a incontrarsi».
Si tratta di un movimento che si pone come «convergenza» di pratiche diverse «senza che si verifichi una fusione o unità».

Quel deficit di democrazia su cui aleggia oggi minaccioso il fantasma dei fascismi e nazionalismi che l’Europa ha tragicamente già conosciuto, trova qui la sua risposta più radicale e realistica al medesimo tempo: «dare ai cittadini la capacità di influire in modo continuativo sulle decisioni, ridurre al minimo l’estrema presidenzializzazione del sistema, accrescere il controllo dei cittadini sui loro rappresentanti, garantire il pluralismo dell’informazione».

Mariana Otero, che sta per far uscire un documentario sulle assemblee parigine – L’Assemblea – definisce Nuit Debout un «appello alla democrazia», ma anche un luogo in cui la si vuole già praticare come «riappropriazione del potere politico da parte dei cittadini attraverso la riconquista della parola».

Le fa eco David Graeber in un articolo di pochi giorni dopo («Effimera» 20 aprile): «spazi prefigurativi, zone di sperimentazione democratica (…) parte di una civilizzazione insorgente, planetaria per portata e ambizione, nata da una lunga convergenza di esperimenti simili realizzati in ogni parte del pianeta (…) con contributi essenziali del femminismo, dell’anarchismo, disobbedienza civile non violenta».

I movimenti che raccolgono le esigenze radicali di ogni passaggio storico e tentano di darvi una risposta con azioni creative dal basso, sono la testimonianza viva, appassionata che «un altro mondo è possibile». Ma sono anche la realtà sociale e politica che le istituzioni, dalla scuola ai partiti, sindacati, parlamenti, volutamente ignorano o reprimono con la violenza.

«». huffingtonpost 1°Maggio 2017 (c.m.c.)

Quanti, tra i “lavoratori” della cultura, possono fare loro le parole che Giorgio Gaber cantava nel 1965? Oggi il più difficile da far proprio è il primo verso: perché tra chi manda avanti il patrimonio culturale non manca chi spera, né chi lotta, ma tende a mancare chi vive del lavoro. Perché dietro i lustrini dei grandi musei ipercommerciali di Franceschini, dietro i siti archeologici di grido, dietro l’agonia della biblioteche e degli archivi c’è uno schiavismo senza diritti e senza redditi mascherato da volontariato.

Ebbene, una delle cose più insopportabili di questa insopportabile situazione è che gli schiavi trenta-quarantenni del patrimonio non hanno neanche il modo di parlare con la loro voce. E allora almeno oggi – in questo primo maggio 2017 – vorrei provare ad ascoltarla, questa voce. È per questo che pubblico una delle lettere che ogni tanto mi giungono dagli inferi del patrimonio culturale italiano:

«Egregio prof. Montanari,
siamo un gruppo di lavoratori della Biblioteca nazionale di Roma, formalmente inquadrati come volontari.
In quanto lavoratori sfruttati, ci sentiamo vicini a tutti i precari che, come dice Guido Cioni, oggi non trovano la giusta collocazione nella pubblica amministrazione, vittime di un mondo del lavoro ormai frammentato e non più in grado di offrire il giusto riconoscimento e collocamento a chi ha investito anni e soldi nello studio per vedere realizzate le proprie speranze e aspirazioni.
Il Mibact, attraverso lo strumento del project financing, ha dato avvio a interventi di ristrutturazione e restyling della Biblioteca senza porre al centro dei suoi obiettivi il lavoro e ignorando le funzioni essenziali di un simile istituto. Le biblioteche, soprattutto in un paese ricco di storia come l’Italia, sono luoghi in cui dovrebbe essere celebrata la cultura, nel rispetto della dignità del lavoro.
Crediamo infatti che solo riconoscendo le professionalità di chi vi opera sia possibile valorizzare il nostro patrimonio e garantire una buona qualità dei servizi erogati all’utenza, un’utenza peraltro sempre più insoddisfatta.
Non si comprende dunque come si possa porre rimedio alle carenze di personale con il volontariato retribuito e non retribuito, con l’utilizzo del servizio civile (altra forma di volontariato) o con l’assunzione di un numero irrisorio di addetti.
A nulla sono serviti i nostri tentativi di dialogo con il direttore della Biblioteca e con il Ministero.
Siamo convinti che ogni battaglia per il riconoscimento dei diritti connessi al lavoro si possa vincere solo se si marcia uniti, facendo rete, costruendo una comunicazione continua tra le realtà presenti sul territorio, tra studenti (i lavoratori del futuro), volontari (che con fatica provano ad arricchire di competenze il proprio curriculum in vista di un contratto) e lavoratori sfruttati e non inquadrati sulla base delle abilità acquisite.
Facciamo parte di una generazione molto bistrattata e dunque scoraggiata. Stiamo invecchiando con prospettive lavorative che rischiano di trasformarsi in illusioni, la realizzazione professionale è ormai un miraggio, considerando che la realtà in cui viviamo ci costringe irrimediabilmente ad abbassare le nostre giuste aspettative, e le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno progressivamente sgretolato quei diritti che ci avrebbero garantito certezze per l’avvenire.
Le chiediamo di incontrarci, di raccontarci, di confrontarci per comprendere meglio quali siano gli obiettivi che possano unirci, nel breve e lungo termine, e spingerci a una mobilitazione comune. Le battaglie si vincono e si perdono. Ciò che può fare sempre la differenza è la coscienza di aver agito per costruire un futuro migliore per noi e i nostri figli, restituendo parola a chi si sente “invisibile” come noi, come molti in Italia».

Ecco l’unico modo possibile per “festeggiare” il primo maggio: prendersi il tempo per ascoltare e meditare la voce di chi non ha voce. La voce di chi lotta: di chi spera di poter vivere, un giorno, del lavoro che già sta facendo.

Molte volte su questo sito, abbiamo ricordato la festa del lavoro con lo sguardo volto al passato. Oggi non ce la sentiamo più.

Nel ricordare il 1° maggio nel 2017 ci sentiamo fortemente spiazzati, e non riusciamo a sentire questa data come una festa che ricorda momenti drammatici ma forieri di lotte, di riscatto e di progresso. Basta guardarci intorno per comprende quanto il mondo è cambiato, e in peggio, proprio sul tema fondativo dell'umanità che è il lavoro.

Per noi, che abbiamo letto e meditato su testi di autori lontani nel tempo (ma vicini alla verità) il lavoro è un valore, una dimensione essenziale dell'uomo, maschio o femmina che sia. È lo strumento che consente all'uomo, collaborante con i sui simili vicini o lontani nel tempo e nello spazio, di conoscere l'universo (quello della materialità come quello dello spirito e dei sentimenti) e a governarlo.

Nell'età lunga (troppo lunga) del capitalismo il sistema dominante ha condotto gli uomini a lavorare insieme, e a riconoscersi come una forza potenzialmente antagonista dello stesso sistema di cui facevano parte come sfruttati. I secoli che abbiamo alle nostre spalle sono interamente intessuti dalle vicende di quell’antagonismo, e dei successi e insuccessi delle parti in conflitto.

Oggi questa data ci fa riflettere sul che cosa abbiamo ottenuto e che cosa abbiamo perso. Dobbiamo però precisare quale attore vogliamo essere in questa riflessione: se vogliamo essere il cittadino dei paesi del benessere, e se in questo ambito vogliamo indossare l’abito e il punto di vista del ricco, oppure del benestante, o del povero. Una scelta simile dovremmo fare anche se volessimo collocarci al di fuori dei paesi del benessere: anche lì ci sono le differenze, le “classi”.

Cercheremo oggi di metterci nella collocazione di quelli che sono di più, della moltitudine, così le nostre considerazioni avranno un maggiore valore statistico. Come nell’Inferno dantesco, troveremo nostri simili in vari gironi: nell’infimo i profughi, quelli che oltre al lavoro hanno perso la casa, la terra, il cibo, la libertà; un po’ più su, gli schiavi: quelli che sono obbligati a svolgere lavori, ma privati di ogni scelta circa le sue condizioni, retribuzioni, tempi; e a rischio di perdere – se lo rifiutano – anche il luogo ove vivere.

Ancora un pò più su i precari, quelli che non possono investire il loro tempo e la loro attività in un progetto di apprendimento e crescita, ma devono essere pronti in ogni momento della loro vita a mutare mansione, settore, località, padrone, compenso. Quelli, infine, cui la relativa stabilità nel posto, nel ruolo, nel salario non è messa a riparo dalla crisi e dall’interruzione definitiva e senza domani (salvo a ricadere nei cerchi più vicini al cuore dell’inferno).

Descritto l’inferno, ci manca di raccontare chi è il demonio. Non vi è dubbio che si tratti di quel neoliberismo che già nelle sue riflessioni iniziali poneva al primo piano la riduzione del peso sociale del lavoro. E ricordiamo allora, visto che la data corrisponde, che proprio oggi, 1° maggio 2017 circa 2 milioni di italiani festeggiano l’ulteriore vittoria di uno dei più titolati traduttori del pensiero neoliberista in FARE, Matteo Renzi.

il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2017 (p.d.)

In risposta agli strali di Papa Francesco contro “i trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne”, arriva in Parlamento la relazione governativa annuale che presenta con orgoglio il boom dell’export di armi italiane. Un business quasi raddoppiato nell’ultimo anno (14,6 miliardi di autorizzazioni rilasciate nel 2016 contro i 7,9 miliardi del 2015) e quasi sestuplicato negli ultimi due anni (era a 2,6 miliardi nel 2014). “L’Italia - si legge nel documento del ministero degli Esteri - è riuscita a uscire dalla crisi del settore” e, grazie alla “capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale”, risulta oggi a livello mondiale “terza per numero di Paesi di destinazione delle vendite dopo Usa e Francia” e “fra i primi 10 per valore delle esportazioni” salendo dalla nona all’ottava posizione dietro Usa, Russia, Germania, Francia, Cina, Gran Bretagna e Israele.
“Il tono entusiastico di queste dichiarazioni - commenta Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo - sarebbe comprensibile se venissero da Confindustria difesa o dall’Istituto per il commercio estero, lo sono meno se provengono dall’autorità di controllo che dovrebbe essere neutrale e limitarsi a vigilare sul rispetto della legge 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi in guerra. Come possiamo però fidarci di un arbitro che continua a fare il tifo per la diffusione della produzione armiera italiana nel mondo?”, chiede provocatoriamente Vignarca, osservando che, dato tale orientamento, non stupisce che il governo continui ad autorizzare la vendita di armi a Paesi belligeranti.
L’incremento delle autorizzazioni rilasciate nel corso del 2016 è infatti legato all’aumento delle forniture di armamenti ‘made in Italy’ impiegati nella guerra in Yemen dalla coalizione a guida saudita, condannata dall’Onu per i bombardamenti aerei indiscriminati che hanno causato la morte di migliaia di civili. Parliamo dei 28 cacciabombardieri Typhoon prodotti dall’Alenia di Torino venduti per 7,3 miliardi al Kuwait (le cui forze aeree hanno condotto almeno 3 mila raid sullo Yemen), delle 22 mila bombe aeree della Rwm Italia di Domusnovas vendute per mezzo miliardo alla Royal Saudi Air Force (che, come documentato da Human Rights Watch, le impiega massicciamente in Yemen) e degli armamenti vari venduti al Qatar (impegnato nel conflitto yemenita con truppe di terra) che nel 2016 ha decuplicato le commesse italiane.
Le forniture verso il Medio Oriente crescono di anno in anno, facendo di questa regione la principale area geopolitica di esportazione per l’industria bellica italiana con vendite per oltre 8,6 miliardi, pari a quasi il 60 per cento del totale. “Questo dato - commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia - conferma una tendenza allarmante nella politica italiana di esportazione di sistemi militari degli ultimi anni, che contribuisce ad alimentare i conflitti che insanguinano la regione mediorientale e a ingrossare i flussi di profughi e rifugiati verso l’Europa”.
Come in tutti i grossi affari, anche nella vendita di armi le banche giocano un ruolo di primo piano, con una novità rilevante segnalata nella relazione annuale. Se gli anni passati il business dell’intermediazione finanziaria era dominato dalle banche straniere (sopra tutte la tedesca Deutsche Bank e la francese Crédit Agricole), nel 2016 è tornata in testa l’italiana Unicredit con oltre il 27 per cento delle transazioni (era al 12 per cento nel 2015) e sono in rimonta anche le popolari (in particolare la bresciana Valsabbina al 5 per cento e la Popolare di Sondrio al 2 per cento), tra le quasi merita segnalare il raddoppio del volume di affari bellici di Banca Etruria, dai 17 milioni del 2015 ai 31 milioni del 2016.
«Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?» il manifesto 27 aprile 2017 (c.m.c.)

Mi chiedo: come si potrebbe essere partigiani oggi e tutti i giorni dell’anno? Perché quella della Resistenza è stata un’epoca eroica, quando ciascuno ha dovuto scegliere da che parte stare, e con sacrificio, considerato che la scelta poteva essere pagata in termini di vita.

Ma oggi se si volesse essere fedeli (tempi a parte) a quella scelta, cosa bisognerebbe fare? È l’interrogativo posto dall’articolo (il manifesto, 25 aprile) di Angelo Ferracuti: «La lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà». Le parole possono essere ancora rivoluzionarie, così come i racconti che ci facciamo. Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?

Credo che questo dovrebbe essere il compito di ogni nuova formazione politica di sinistra. Non tanto rintuzzare o polemizzare il racconto che ci viene fatto, quanto svelarne l’opportunismo, il calcolo che esso sottende, la disuguaglianza che esso produce, stando sempre dalla parte del più debole, del più esposto.

Credo che la crisi della politica, la sua ormai sempre più manifesta incapacità a rappresentare le persone, sia soprattutto una crisi di linguaggio, di narrazione. Così come i padri non sanno più raccontare fiabe ai loro piccoli figli, i politici non sanno più rappresentare il mondo che viene e, di conseguenza, meno che mai raccontarlo ai loro rappresentati. Ci raccontano storie banali usando parole consumate di cui loro stessi, spesso, non ne capiscono nemmeno il senso: le hanno sentite pronunciare da altri e le ripetono come a voler/si convincere che sono vere: debito sovrano, austerity, sicurezza, spending review, realismo, terrorismo e via dicendo.

In fondo queste narrazioni, pur appartenendo a schieramenti diversi, si somigliano tutte: non si esce dal labirinto dove siamo stati cacciati e dove fingiamo che esso sia l’unico mondo possibile.

Eppure basta che una persona scarti un poco da quel linguaggio che subito ottiene consenso. Macron non è di sinistra né di destra (così si definisce e così lo hanno definito), e già basta a sparigliare i giochi, a far salire sul suo carro quelli (di sinistra e di destra) che di parole non ne hanno più e non sanno più raccontare niente di nuovo. Gramsci scriveva anche fiabe (L’albero del riccio, ad esempio), raccontava storie ai suoi due figli che non poteva vedere, guardava alla politica come una pedagogia per adulti e, al tempo stesso, ci raccontava del mondo contadino e delle sue possibilità di riscatto. Anche allora, bisogna dirlo, prevalse il realismo di coloro che miravano a risultati più “urgenti”.

C’è nella politica di sinistra una sorta di coazione a ripetere che, forse, in tempi brevi può rassicurare i suoi elettori, ma alla lunga diventa disfatta. Tale è l’aspettativa delle persone nei confronti di una nuova narrazione che non c’è, che spesso finiscono col seguire il primo pifferaio magico che compare sulla scena (Grillo o Salvini, o lo stesso Renzi), mentre la sinistra continua nella sua stanca narrazione, incapace di rinnovarsi, di intercettare i cambiamenti e le aspettative, a replicare se stessa.

Eppure Marx ci aveva raccontato un mondo diverso da quello in cui viveva, ci aveva svelato i segreti dietro il capitalismo, i suoi aspetti minacciosi, gli incubi che avrebbero potuto realizzarsi e, insieme, ci aveva raccontato la bella fiaba di una convivenza pacifica, serena, senza più sfruttamento di ogni uomo su ogni altro. Col tempo ci siamo un po’ confusi. Perfino iniziamo a dubitare che i partigiani della Resistenza siano mai vissuti o che, comunque, avevano i loro interessi a fare quello che hanno fatto. Dunque perché portarli ad esempio?
Macron è il nuovo e guai a prenderne le distanze: saremmo tacciati di lepenismo. Questo anche ci è stato tolto: la possibilità di una critica onesta, stretti dalla morsa: sei con me o contro di me? La sinistra, come la destra, è diventata una categoria retorica: il nuovo se ne svincola e ne fa bandiera. E, infondo, anche questa è una narrazione: la nuova narrazione postnovecentesca.
Moni (Salomone) Ovadia, esponente di rilievo della cultura ebraica mondiale, critica duramente quanti (dalla Brigata ebraica al PD) hanno preteso di impedire ai rappresentanti della Palestina in lotta di partecipare alle manifestazioni dell'Anpi per il 25 aprile.

il manifesto, 26 aprile2017

Non sono solo i nostalgici o i cultori dei fascismi a cercare di corrompere il senso autentico dell’antifascismo, negli ultimi lustri ci si sono messi revisionismi a vario titolo che senza avere il coraggio di negare i fondamenti della Resistenza hanno fatto di tutto per infangarne memoria e magistero

Anno dopo anno lo slogan più ripetuto per la manifestazione del 25 Aprile, festa della Liberazione, è stato «ora e sempre Resistenza». Non è solo e tanto un afflato enfatico per sentirsi parte di un evento a cui la grande maggioranza di chi sfila oggi non partecipò.

Quelle parole hanno un valore ed un peso precisi: impegnano le generazioni a venire a battersi contro ogni oppressione, contro ogni tirannia sotto qualunque cielo essa si manifesti e operi mettendo genti e uomini gli uni contro gli altri. La lotta antifascista fu fenomeno italiano, europeo, ma anche extraeuropeo. La cultura germinata dell’impegno militante ed ideale delle Resistenze ha generato una Weltanschauung da cui è uscita una nuova umanità che ha voluto riconoscersi come integra, titolare di diritti universali per ogni essere umano. La vittoria contro la barbarie nazifascista ha fatto fiorire alcune scritture sacrali pur nella loro originaria laicità. Fra queste ci sono la Costituzione della Repubblica Italiana e la Carta dei diritti universali dell’Uomo.

Ma a dispetto di questo immenso patrimonio che delinea un mondo di pace e di uguaglianza, vi sono importanti movimenti che profondono intense energie per restituire legittimità alle ideologie dell’odio, del razzismo, della xenofobia, magari con il pretesto di tributare onore a combattenti caduti in guerra, spesso sotto la compiaciuta indifferenza di istituzioni ed autorità di paesi che si vogliono orgogliosamente democratici. La giustificazione a tale invereconda ipocrisia sarebbe che i morti sono uguali. I morti caduti per servizio nel portare guerre, stermìni, deportazioni, schiavismo, secondo questi becchini sarebbero uguali ai caduti per la libertà.

Ma non sono solo i nostalgici o i cultori dei fascismi a cercare di corrompere il senso autentico dell’antifascismo, negli ultimi lustri ci si sono messi revisionismi a vario titolo che senza avere il coraggio di negare i fondamenti della Resistenza hanno fatto di tutto per infangarne memoria e magistero. Ma negli anni più recenti un nuovo fenomeno sta mettendo a rischio il valore integro dell’antifascismo e del suo ammaestramento. Alcuni esponenti della sinistra moderata, in occasione dell’ultimo referendum per la riforma Renzi-Boschi della Costituzione sostenitori del sì, hanno rivendicato di essere gli autentici eredi dei partigiani e hanno accusato i sostenitori del no (segnatamente l’Anpi) di avere pervertito l’eredità dei partigiani veri (sic!). Lo stesso a loro modo hanno fatto esponenti istituzionali delle comunità ebraiche, in particolare quella romana, rifiutandosi di partecipare alla sfilata ufficiale di cui dovrebbero fare parte per definizione, rivolgendo a chi permette ad esponenti del popolo palestinese di partecipare alla manifestazione del 25 Aprile con la propria bandiera di tradire l’autenticità della giornata della Liberazione.

Affermando che quella bandiera richiama il Gran Muftì di Gerusalemme che fu in carica per un breve periodo nel tempo della II guerra mondiale e che era filonazista (Una provocazione. Magari tacendo il legame profondo e ben più recente tra Stato d’Israele e il regime razzista dell’apartheid in Sudafrica). I dirigenti del Pd romano quest’anno, sospettiamo per ritorsione al no dell’Anpi in occasione del Referendum costituzionale, hanno scelto di aderire alla protesta dei leader comunitari degli ebrei romani. Con tale decisione il Pd romano ratifica il giudizio che i rappresentanti del popolo palestinese siano solo gli «eredi» del Gran Muftì filonazista di Gerusalemme di 80 anni fa e non i figli di un popolo oppresso che vive sotto occupazione militare da 50 anni.

Io che credo profondamente alle parole «ora e sempre Resistenza», nell’intento di fare rinsavire Matteo Orfini e i suoi mi servirò delle parole pronunciate all’assemblea delle Nazioni Unite il 16 ottobre 2016 da Hagai El-Ad, direttore esecutivo del gruppo israeliano per i diritti umani Bet’Tselem:

«Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché sono israeliano. Non ho un altro Paese. Non ho un’altra cittadinanza né un altro futuro. Sono nato e cresciuto qui e qui sarò sepolto: mi sta a cuore il destino di questo luogo, il destino del suo popolo e il suo destino politico, che è anche il mio. E alla luce di tutti questi legami, l’occupazione è un disastro. (…)Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché i miei colleghi di B’Tselem ed io, dopo così tanti anni di lavoro, siamo arrivati ad una serie di conclusioni. Eccone una: la situazione non cambierà se il mondo non interviene. Sospetto che anche il nostro arrogante governo lo sappia, per cui è impegnato a seminare la paura contro un simile intervento. (…) Non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllare i palestinesi. (…) Non capisco cosa il governo voglia che facciano i palestinesi. Abbiamo dominato la loro vita per circa 50 anni, abbiamo fatto a pezzi la loro terra. Noi esercitiamo il potere militare e burocratico con grande successo e stiamo bene con noi stessi e con il mondo. Cosa dovrebbero fare i palestinesi? Se osano fare manifestazioni, è terrorismo di massa. Se chiedono sanzioni, è terrorismo economico. Se usano mezzi legali, è terrorismo giudiziario. Se si rivolgono alle Nazioni Unite, è terrorismo diplomatico. Risulta che qualunque cosa faccia un palestinese, a parte alzarsi la mattina e dire “Grazie, Raiss” – “Grazie, padrone” – è terrorismo. Cosa vuole il governo, una lettera di resa o che i palestinesi spariscano? Non possono sparire».

È vero, i palestinesi non possono sparire e hanno la piena titolarità per rivendicare i loro diritti, ovunque. E la loro liberazione ci riguarda.

«il manifesto, 26 aprile 2017

Mélenchon rivela, dimostra, impone alla sinistra italiana, se c’è e vuol esserlo davvero, cose chiare e nette. Rivela che meritare di essere definita «estrema» non impedisce di ottenere tanti voti quanto quelli che la distanziano di poco dalle due maggiori formazioni politiche.

Il risultato del primo turno dell’elezione in Francia dimostra, anzi, che la somma dei voti della sinistra estrema e del partito socialista, che è quello di Hamon e non quello di Hollande e degli altri converti al liberismo, supera quelli di Macron (23,8 %), il primo dei duellanti al secondo turno, dato che 19,6%, più 6,3 % è eguale a 25,9%. Essere di sinistra, anche estrema, non condanna perciò alla irrilevanza politica. Perché la sinistra non è morta col crollo del muro di Berlino.

Dimostra Mélanchon che si può rappresentare, quindi raccogliere, esprimere, assumere come propri e manifestare i bisogni, gli interessi, le domande, i progetti che emergono della classe sociale dei lavoratori.

Evitando, fortunatamente, di denominarli come partecipanti ad una gara podistica, primi, secondi, ultimi, penultimi … e nascondendo così che la loro è la condizione di vita determinata dal rapporto capitalistico di produzione. Rapporto che non è stato trasformato né dalla rivoluzione informatica né dalla globalizzazione che altri profili, anche importanti, hanno modificato, ma non certo la sua struttura quella salariale, che accomuna operai e impiegati, che, come tali, vengono sfruttati.

È quello stesso rapporto che investe i precari in quanto aspiranti allo sfruttamento, così come i disoccupati permanenti, depauperati anche della condizione di sfruttati. È, infine, quello degli emarginati dalle crisi di sovrapproduzione o da quella che da dieci anni attanaglia l’Europa, e che, con la finanziarizzazione dell’economia, prova a frenare o a mitigare le conseguenze della caduta tendenziale del tasso di profitto.

Mélanchon indica senza infingimenti che questa Europa è la maggiore e più evidente responsabile della sua regressione incessante sul piano della sostenibilità sociale. Non solo su questo giornale e già sulla rivista di questo giornale abbiamo denunziato cento volte l’accumulo di assurdità istituzionali e di totalitarismo normativo contenuto nei Trattati e riassunto in quello di Lisbona.

Oggi una forza politica europea non sospetta di popolarismo come la «sinistra radicale francese» pone come suo obiettivo programmatico la democratizzazione dell’Unione europea. Democratizzazione, quindi, non uscita avventuristica dall’Ue, consapevolezza quindi della impossibilità di lottare efficacemente contro il capitalismo da una dimensione territoriale minore da quella continentale. Democratizzazione che, per essere tale, deve radiare l’immunità politica dei consigli europei che, sotto lo scudo della collegialità, offre agli esecutivi degli stati dell’Ue, cioè ai produttori dei regolamenti europei, l’irresponsabilità politica delle norme che produce su proposta della Commissione, l’esecutivo per eccellenza dei Trattati, che a loro volta furono deliberati dagli esecutivi degli stati. Quei Trattati che pongono come fine esclusivo dell’Ue e come mezzo per raggiungerlo l’economia di mercato aperto e in libera concorrenza.

Dalla vicenda della sinistra radicale europea, dal suo irrompere imponente ed improvviso sulla scena francese la sinistra italiana deve trarre tutte le conseguenze. Innanzitutto quella di sapere che può esistere, e lo può, senza accoppiamenti snaturanti, senza attenuazioni o falsificazioni abiuranti, senza revisioni stravolgenti. Lo può se decide di essere sinistra.

eddyburg.it. In calce il link al libro di Alcide Cervi



Il 17 gennaio 1954, in occasione delle onoranze nazionali aisette fratelli Cervi fucilati a Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943 dainazisti, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il vecchiopadre Cervi, trattenendolo affettuosamente a colloquio.
Il testo che qui pubblichiamo è apparso su

Il Mondo il 16 marzo1954, ed è raccolto nel volume Il buongoverno di Luigi Einaudi, pubblicatodalla casa editrice Laterza che ringraziamo per la gentile concessione. (eddyburg, luglio 2004)

Alcide Cwevi e Luigi Einaudi

Entrano nello studio del presidente della repubblica ilpadre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini,il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino,l'on. Boldrini, medaglia d'oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore epittore, il quale reca l'originale del ritratto da lui dipinto dei settefratelli.

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria,ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidenteaveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei settefratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista La RiformaSociale, un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico edice al padre della sua commozione per poter cosí pensare con orgoglio ad unsuo rapporto spirituale coi martiri.

Il padre racconta:
- Sí, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano diimparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, sisforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto,ed erano 53 biolche di 2.922 metri quadrati l'una (circa 15 ettari e mezzo),vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terrasopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terrenosarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio.Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e sidiedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche.

I vicinipassavano, guardavano e scuotevano la testa: "I Cervi sono usciti pazzi.Dove andrà l'acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto comeun biliardo, l'acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ederbai intristiranno annegati". Ma i figli avevano dato al terreno, fattopiano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero equando d'accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti allastessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acqueed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua nonce n'è piú. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconosconoche noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.
- Anch'io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare ifossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed inveceeseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate supiede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo averresecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallostradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se neandavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videroperò che le viti venivano su piú belle di quelle dei fossati e del letame, ciripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.

Il padre, la madre, i figli e le figlie, le nuore

Il presidente: - Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?
Il padre: - Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, intutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamoricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochiarnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossilavori ed uno piú piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici,aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro.Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro locomprammo in Svizzera, ma viene dall'Olanda ed è originario americano. Col toroci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quandoabbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo comecarne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo dò via neppure se mi offronoun milione di lire. Questo - trattori, macchinari, fondo di vettovaglie,vacche, toro - è il "capitale" ed è nostro, di tutti noi".
- Anche del nipote?

Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e,tornato a casa, non trovai piú i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidiil nipote.

Le nuore: - È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.
- Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buonragazzo, radunai le nuore e: "Bisogna stabilire le cose per il nipote. Loteniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salarioche gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato adanno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti delsalariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spettacome parente. Che cosa ne dite voi?"
- Le nuore: - Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovetedecidere.
- Il padre: - No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei mortisono vostri figli. Voi dovete parlare.
- Le nuore: - Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.
- Il padre: - Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel chepensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare.Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero.
- E le donne ritornarono al lavoro.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore attonitiascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendoleper fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostrecontrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po' di tuttoquesto. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, ilpazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell'uomo saggio.
- Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donnetornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consigliorispetto al nipote è anche il nostro.
- Il padre: - Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?
- Le donne: - Sí, padre, noi lo sappiamo.
- Il padre: - Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlatoal padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia edentrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e nonsono contenti.

- Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote,che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volererimanere con noi.

- Il fratello e la cognata: - Lo sapevamo. Il figlio l'aveva detto quando erapartito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti.Noi siamo contenti.

- Se cosí è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa,radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognatasono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sonostati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo,che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso piú fare come una volta. Ilnipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci saròpiú, il "capitale" sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattronuore ed il nipote.

- Cosí fu deciso e cosí si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sueforze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende.
- Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene ditutti.
- Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c'era incasa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte chegli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed iodissi: noi non l'avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a farparte del "capitale". Diventerà proprietà comune; e come il restosarà diviso in cinque parti.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittoreguardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all'ombra delsicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia.Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosseancora stato scritto.

Il presidente, rivolto allo scrittore-pittore, il quale conosce i contadini deisuoi paesi - e sono uguali ai contadini di tutta Italia - interrogò: forseché isette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po' pazzicostruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatoredella legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loropaese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della"lingera" e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?

Lo scrittore-pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d'oroconsentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch'io di no e strinse la mano alpadre ed a tutti.

Qui potete scaricare e leggere il libro di Renato Nicolai eAlcide Cervi, I miei sette figli


«Io credo che noi colpevolmente continuiamo a trascurare un’arma politica ben nota che potrebbe avere un’efficacia non comune se utilizzata con sistematicità e su scala almeno europea».

officinadeisaperi, 22 aprile 2017 (c.m.c.)

«I mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro corpo». Così uno statuto di Enrico VIII del 1530.

Nel 1547 lo statuto di un altro sovrano inglese, Edoardo VI, «ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone». E più avanti stabilisce che «I giudici di pace hanno il compito di far cercare e di perseguire i bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato sul luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto e adoperato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi». Sono alcuni dei frammenti di quella che Marx, in un celebre capitolo del Capitale, definiva la «legislazione sanguinaria» messa in atto dalla corona inglese a partire dal ‘500, per punire chi si sottraeva al lavoro e dava spettacolo di povertà o creava insicurezza nelle città con i propri furti.

Siamo alle origini dell’ “accumulazione originaria” del capitale e tali feroci disposizioni contro i proletari dell’epoca vengono in mente a leggere le cronache su quanto accade alla frontiera tra Messico e USA, tra la Spagna e il Nord Africa, presso i fortilizi di Ceuta e Melilla, ai fili spinati e ai muri alla frontiera tra la Serbia e la Slovenia, alle barriere di cui si è circondata l’Ungheria, il cui parlamento ha votato l’arresto cautelare per chiunque entri nel territorio magiaro, al muro politico innalzato dal Regno Unito nei confronti di chi arriva dal Continente, alla nostra frontiera con la Francia a Ventimiglia.

Certo, non siamo ancora al marchio di fuoco della lettera C sul petto dei “clandestini”, ma quanto a crudeltà nei confronti dei disperati che scappano da guerre e miseria è solo una questione di grado. I gruppi dominanti dei paesi ricchi e il loro ceto politico sono feroci al punto giusto, quanto è consentito loro da secoli di habeas corpus e dalle conquiste dello stato di diritto dell’età contemporanea.

Ciò che tuttavia rende comparabile la situazione descritta da Marx con quella dei nostri giorni è la causa della formazione dell’esercito degli uomini e delle donne “eslege”, vagabondi e clandestini nel linguaggio dei persecutori. I questuanti che a partire dal XVI secolo vagavano per le città inglesi erano infatti contadini inurbati, cui erano state sottratte e recintate le terre da parte della nobiltà cadetta, che vi allevava pecore merinos. Avevano perso la casa, il cottage, erano rimasti privi dei “mezzi di produzione”, come dice Marx, e perciò migravano in città cercando lavoro e fonti di sostentamento. E qui trovavano il lavoro coatto o la persecuzione: la nuova forma di detenzione della fabbrica industriale arriverà più tardi.

Quanto somiglia la causa sociale dell’inurbamento proletario inglese alle guerre scatenate, o segretamente fomentate dall’Occidente nel Sud del mondo, alla miseria generata dalle sue politiche neocoloniali, ai disastri climatici provocati dal suo consumismo forsennato, da padroni del Pianeta? Gli stati ricchi saccheggiano le economie dei paesi poveri, devastano i loro territori e quando i fuggiaschi si affacciano ai loro confini sono marchiati come potenziali criminali. Nella marcia all’indietro che la storia ha intrapreso negli ultimi anni stiamo precipitando alle origini dell’accumulazione capitalistica…

Ebbene, credo che sia diventato pericoloso ormai per la nostra civiltà il grado di assuefazione con cui le nostre coscienze e il nostro stesso immaginario pubblico si sta adagiando all’orrore. Non possiamo più aspettare reazioni da Bruxelles, né iniziative dal nostro ceto politico. Fanno parte dell’apparato di potere che lavora, insieme ai media, per renderci tutto tollerabile, ordinario, normale, accettabile. Ma i semplici cittadini, ridotti ormai a puri consumatori di merci e di sogni pubblicitari, privi di voce per mancanza di rappresentanza, devono rassegnarsi, convivere impotenti con la barbarie quotidiana?

Io credo che noi colpevolmente continuiamo a trascurare un’arma politica ben nota che potrebbe avere un’efficacia non comune se utilizzata con sistematicità e su scala almeno europea.

Mi riferisco al boicottaggio delle merci. Diversi anni fa persino Umberto Eco la raccomandava come strumento legale di lotta. Ebbene, qual è il paniere delle merci dell’import-export tra l’Ungheria e l’UE? Dal momento che l’Unione che non espelle l’Ungheria, come sarebbe giusto, non potremmo condurre una campagna di boicottaggio dei prodotti ungheresi mostrando al governo di Orban che esiste un’opposizione alla sua politica criminale contro i migranti? Ma deve trattarsi di una battaglia articolata, che deve creare una rete nella rete, nutrita di buona informazione, che duri dei mesi, in grado di uscire, dove possibile, fuori dalla rete, con volantinaggi esplicativi davanti ai supermercati sui prodotti da boicottare, in grado di sostenere una campagna di massa che arrivi sui grandi media, generando allarme tra le imprese e l’opinione pubblica ungherese.

È quanto dovremmo fare anche nei confronti di singole imprese, per esempio contro Benetton, che intende sottrarre le terre dei contadini in Patagonia (A.P. Esquivel su “il manifesto” del 30 marzo) perché i latifondi che già possiede non gli sono sufficienti. Si tratta di una via potenzialmente dirompente. Il capitale ci ha ridotto a indifesi consumatori. Facciamo dell’uso mirato dei nostri consumi un’arma per colpire interessi potenti, trasformiamo la pubblicità nel suo contrario, una campagna di discredito in grado di far comprendere ai signori del capitale che possono essere danneggiati dai loro sudditi e che c’è un limite al loro dominio.

Sono rimasto sorpreso e amareggiato nel leggere su eddyburg gli articoli di Silvia Ronchey e di Federico Ruozzi su Don Lorenzo Milani tratti da la Repubblica del 21 aprile. Due articoli che vorrebbero essere simpatetici col Priore ma alla fine lasciano l’insopprimibile sensazione del fraintendimento e persino della complicità, per quanto involontaria, alla ennesima stigmatizzazione del Priore di Barbiana.

L’articolo di Ruozzi – curatore dei due volumi delle opere complete di Don Milani in uscita presso Mondadori – pur scritto nel tentativo di smorzare una polemica tipicamente da società dello spettacolo sulle pretese preferenze sessuali del Priore, finisce con l’alimentare una discussione tanto pruriginosa quanto priva di appigli. Chi sa dove stanno i punti nodali della vicenda biografica del Priore – e per la quale fa ancora largamente testo il magnifico scavo di Neera Fallaci uscito ormai quarantatre anni fa – sa anche che nelle mutande di Don Milani non c’è mai stato nulla da scavare e che il farlo implica necessariamente una scelta, appunto, spettacolare, pruriginosa e tendenzialmente stigmatizzante. Una scelta da quotidiano italiano mainstream, appunto, e dalla quale chi tiene all’insegnamento milaniano dovrebbe opportunamente tenersi a distanza.

Ma sorprende ancor più l’articolo di Silvia Ronchey, che vorrebbe a sua volta costituire un atto di apprezzamento verso l’esistenza e l’insegnamento del Priore.

Il primo elemento che lascia interdetti è la torsione cui viene sottoposta la figura di Don Milani, che diventa una sorta di eroe libertario, o per meglio dire un liberale che sarebbe stato bene nel circolo degli “Amici del Mondo”. Una semplificazione in tono con la cultura di origine di Repubblica, ma che riduce intollerabilmente la complessità, la scandalosa complessità di un uomo che fu senz’altro un grande borghese ma che si distaccò dalla sua classe sociale in più modi, decidendo anzitutto di accettare l’appartenenza a una fede e a una Chiesa e pagandone le conseguenze fino in fondo. Una scelta e una lezione allora come oggi estremamente difficili da comprendere e da accettare: ma una scelta in ogni caso radicalmente opposta a quella di coloro che vedono nell’assoluta centralità dell’individuo l’alfa e l’omega di ogni logica sociale.

Più in generale quel che sconcerta è che per trasformare Don Milani in eroe borghese e libertario Ronchey forza intollerabilmente la biografia del Priore in più punti, finendo persino per dare spago ai più recenti epigoni della sua antica catena di detrattori. L’insistenza sull’ebraicità della sua famiglia e persino sua, ad esempio, laddove entrambi i genitori erano e rimasero sempre rigorosamente agnostici e lontani da qualsiasi forma di appartenenza a comunità religiose, mostra la volontà di assimilare il Priore a una figura canonica dell’immaginario liberale novecentesco come l’intellettuale di cultura ebraica. La sottolineatura - peraltro sulla scorta della lettura di Alberto Melloni, direttore della pubblicazione del volume di Tutte le opere - della pretesa distanza di Don Milani da quello che sarebbe stato il ’68 e dell’abusiva appropriazione da parte di quest’ultimo di Lettera a una professoressa - dalla quale deriverebbe persino “la sistematica decostruzione del sistema scolastico” - cancella con un tratto di penna tutto l’enorme lavoro che nella scuola fecero, proprio sulla scorta della lettura della Lettera e del clima di rinnovamento del ‘68, migliaia di maestri e di maestre democratici, oggi dimenticati e umiliati da una “buona scuola” che ha tutti i tratti del recupero della scuola di classe contro cui il Priore si batté con tenacia, intelligenza e coraggio.

La figura del ribelle individualista viene valorizzata da errori grossolani come la pretesa che siano le reazioni ecclesiastiche a Esperienze pastorali a “rafforzarlo nel convincimento che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza” e che da ciò derivi l’esilio di Barbiana, laddove basta addirittura scorrere la voce “Lorenzo Milani” di Wikipedia per sapere che il libro esce ben quattro anni dopo il trasferimento a Barbiana. E, scegliendo fior da fiore la combinazione di errori fattuali e costruzione di un profilo di comodo, torna nell’articolo di Ronchey proprio l’oggetto della polemica pruriginosa e stigmatizzante che impazza sulla stampa mainstream.
Ronchey si spinge infatti a parlare del giovane Milani come un di “artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta”, un cammeo che farebbe del diciassettenne una sorta di fascinoso Keith Haring ante litteram ma che è sbagliato in ogni sua parte. Bisogna andare appena un po’- ma non troppo - oltre il profilo Wikipedia per sapere infatti che il ragazzo si avvicina per la prima volta alla pittura solo nell’estate del 1941 sotto la guida, si, di un maestro residente a Firenze ma mentre vive a Milano ormai da otto anni e che tutta la sua attività di artista rimane confinata in uno studio milanese affittato dai genitori e abbandonato nella primavera del 1943 al manifestarsi della vocazione religiosa. Da dove poi spunti la “non celata omosessualità” - peraltro decisamente smentita poche righe oltre da Ruozzi - non è dato sapere.

Fa ulteriormente riflettere, infine, il fatto che questo Don Milani inventato – e costruito su basi così fragili e contraddittorie – venga presentato in un articolo dal solenne titolo “Chi è stato davvero Don Lorenzo Milani”.

Quel che viene da pensare è che a quasi settantantacinque anni dalla sua scelta di vita e a cinquant’anni dalla sua morte il Priore di Barbiana resti ancora e sempre un personaggio altamente indigesto e indigeribile. Un personaggio difficile da capire e da accettare, un esempio esigente che chiama a delle vocazioni che sono sempre state e restano di estrema difficoltà: oltre i suoi tempi e - mi viene da dire - molto oltre i nostri tempi. Un modello che richiama i cattolici - e i credenti in generale - a un tipo di fede e a degli stili di vita assai ardui da abbracciare nella loro asperità, nel loro rigore e nella loro inattualità. Ma un modello, anche, che richiama chiunque voglia stare nel mondo a scelte non meno radicali e non meno inattuali: stare dalla parte degli ultimi in un’epoca dominata dal potere bruto e dall’immaginario neoliberista è oggi un’impresa veramente eroica. Altro che l’“inappartenenza come unica possibile resistenza” accarezzata dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.

VITE PARTIGIANE
di Melania Mazzucco,

«Per il 25 aprile, a settantadue anni dalla Liberazione, scrittrici e scrittori (nati molto tempo dopo il 1945) raccontano le storie di uomini e donne che resistettero all’occupazione nazifascista. Sono biografie, lettere e ricordi da conservare perché la nostra memoria non vada perduta».

Chi non ha memoria non ha futuro. Così diceva Carla Dappiani, intervistata alla presentazione del film di Daniele Segre Nome di battaglia: donna (2015), di cui, insieme ad altre partigiane piemontesi, era protagonista. Con lapidaria efficacia, riassumeva il senso di quell’opera: ma anche delle altre, realizzate negli ultimi anni da cineasti e film-maker di diversa formazione, genere e provenienza (penso a Bandite di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, 2009, e a Tutto il bene avevamo nel cuore di Giuseppe Rolli, 2016).

Ma non solo: in questo primo scorcio del ventunesimo secolo non si contano le memorie, le biografie, le microstorie, le antologie, i romanzi, gli spettacoli teatrali che hanno per tema la Resistenza. Anzi, le Resistenze. Sembra l’irresistibile ritorno di un fantasma perturbante. Dopo la fioritura del periodo postbellico, culminata col documentario di Liliana Cavani La donna nella Resistenza (1965) e col Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1968), l’argomento infatti era stato relegato a materia di studio storico, e di veemente scontro politico e ideologico. L’ultimo degli scrittori partigiani, Giulio Questi — coetaneo di Meneghello, Calvino, Revelli — intuendo la dissonanza della propria voce dalla vulgata resistenziale ormai dominante, aveva preferito lasciare nel cassetto i suoi racconti, Uomini e comandanti, apparsi solo nel 2014 (ma il singolare slittamento cronologico li ha invecchiati come un vino prezioso, permettendo ai lettori di apprezzarne il tono ironico e feroce, la durezza scabra e antiretorica).

Nonostante le nuove prospettive di ricerca, inaugurate dal volume capitale di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), le lacerazioni non si sono sanate, ma anzi, approfondite: da una parte un revisionismo sempre più aggressivo, dall’altra un revival affatto nostalgico ( penso agli Appunti partigiani, le canzoni militanti riproposte dai Modena City Ramblers nel 2005). Intanto tornavano nelle sale e sugli scaffali delle librerie film coi partigiani ( I piccoli maestri di Daniele Luchetti, 1998) e libri sui partigiani. Partigiani inediti, scomodi, dimenticati o rimossi. Partigiani di pelle nera, come Giorgio Marincola, al centro di Razza partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; partigiani assassini, come nei libri di Giampaolo Pansa, Sergio Luzzatto e Mirella Serri — i quali, pur dissimili nelle intenzioni, nel metodo e nella forma, hanno suscitato violente polemiche e settari rifiuti, dimostrando che il ciclo delle vendette non si è ancora interrotto.

Però fra le Resistenze ritrovate oggi predomina quella delle donne. Perché infine, come auspicava Ada Gobetti, anche “la resistenza taciuta” — questo il titolo del primo studio storico di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone, apparso nel 1976 (il sottotitolo esplicitava: dodici vite di partigiane) — è divenuta una resistenza raccontata. Ma come? E soprattutto: a chi?
In qualche modo, si sta componendo un’opera collettiva, una fotografia di gruppo con messa a fuoco selettiva. Si tratta di recuperare storie, con pazienza, raccontare vite colpevolmente cancellate, far ascoltare, finché ancora possibile, le voci delle protagoniste: donne qualsiasi che divennero eroine loro malgrado, perché fecero una scelta.

Prendo a esempio due libri diversissimi: Scenari di guerra, parole di donne di Patrizia Gabrielli ( 2007), che raccoglie le voci di dozzine di donne toscane tratte dalle scritture custodite presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, e Gabriella Degli Esposti mia madre di Savina Reverberi ( 2017), biografia della partigiana emiliana torturata e fucilata dalle SS nel 1944. E lo spettacolo teatrale di Susanna Gabos, Ora veglia, il silenzio e la neve (2010), sulle giovani partigiane trentine Ancilla “ Ora” Marighetto e Clorinda Menguzzato. Ritratti concreti, disadorni ed efficaci come scatti di figure non in posa.

Quanto ai destinatari, le partigiane non hanno dubbi. I ragazzi italiani, interrogati recentemente su cosa si festeggiasse il 25 aprile, per lo più non hanno saputo rispondere. Tina Anselmi e Marisa Ombra si rivolgono perciò alle giovanissime: una nipotina immaginaria di undici anni la prima, nella sua intervista pedagogica, Zia, cos’è la Resistenza? ( 2003); una quattordicenne la seconda, nel suo libro di ricordi Libere sempre: una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi ( 2012). Le decane passano idealmente alle nipoti il testimone della libertà e della memoria.

Ma anche del racconto. Perché forse solo chi racconta un tempo che non è stato il suo può decifrare la filigrana dei fatti, andare oltre la burocrazia dei torti e delle colpe. Le nipoti, e i nipoti, non sono solo il pubblico di queste storie. Ne sono ormai gli autori. L’ultima è Rossella Schillaci, ideatrice e regista di Libere, una sinfonia di immagini e voci che racconta il movimento di resistenza delle donne. Un film di repertorio, un montaggio di fotografie, manifesti, volantini, filmati e registrazioni audio tratti dagli Archivi nazionali della Resistenza.

Leitmotiv: mani femminili che estraggono bobine e nastri da scatole ingiallite, che sfogliano faldoni e schedari, per scoprire, tra migliaia di reperti muti, volti e corpi di donne. Fotografate coi loro compagni nelle malghe di montagna, sui sentieri sassosi, nella pianura con l’immancabile bicicletta accanto, nelle fabbriche e nelle code per il pane. Presenti sempre, eppure per tanto tempo invisibili. Le voci, lucide e orgogliose ( ma anonime purtroppo, perché il film non ha didascalie), rivendicano le ragioni della scelta di resistere, e l’importanza del loro ruolo.

Le partigiane sono rimaste nella memoria al più in quello subalterno e vagamente romantico di “ staffette”. Eravamo ufficiali di complemento, spiega invece una di loro: portavamo ordini, sceglievamo gli itinerari per le bande, aprivamo la strada al loro ingresso nei borghi, trasportavamo esplosivo al plastico, quando nessuno sapeva neppure cosa fosse. E alcune avevano il fucile, e sapevano combattere. Nel racconto “ postumo”, la Resistenza si rivela soprattutto come un impetuoso movimento di emancipazione, che anticipò il femminismo. Ragazze spesso giovanissime — operaie, studentesse, sorelle di soldati — ma anche mogli e madri, si ribellarono al soffocante modello femminile imposto nel Ventennio, scoprendo nella Resistenza un’occasione di riscatto e libertà.

Settantamila donne secondo l’Anpi parteciparono ai Gruppi di Difesa, trentacinquemila le combattenti. Un esercito neanche tanto piccolo — di cui però l’Italia libera ebbe poi paura. Diede loro il voto, ma poca rappresentanza, tolse loro il lavoro al ritorno degli uomini dalla guerra e dalla prigionia, le ricacciò nei ruoli prestabiliti e le dimenticò. Nessuna delle quasi tremila giustiziate o uccise in combattimento è divenuta un’icona. I nomi di Cleonice Tomassetti, Iris Versari, Irma Bandiera, solo per citarne qualcuna, evocano un sussulto solo agli specialisti.

Per questo, raccontare si deve. Per nuovi occhi, con nuovi occhi. Registi, scrittori, teatranti, storici, cantanti, lo stanno facendo. Insieme, divisi, ma mossi dalla stessa esigenza. Perché, come scriveva Massimo Zamboni in L’eco di uno sparo (2015), il teso memoir sul nonno fascista assassinato nel 1944 da un partigiano, poi a sua volta ucciso da un ex gappista, «tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare».

LUNGO I SENTIERI
DELLA RESISTENZA
di Enrico Brizzi

«Un fazzoletto donato e la promessa di farlo rivivere lungo la Linea Gotica, sul filo delle montagne. Raccogliendo la testimonianza dei luoghi dove l’Italia, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, fu lacerata da un “immenso dolore”. Storia di un viaggio nella Storia».

Nella Bologna dei primi anni Ottanta la vita di noi giovanissimi aveva come luogo principe il cortile. Era lì che, una volta assolti gli obblighi scolastici, si prendevano le misure al mondo e ci si addestrava a crescere come animali sociali; il gioco — calcio, nascondino, corse in bici, battaglie fra indiani e cowboy — era la grammatica comune grazie alla quale ognuno di noi imparava a misurarsi con i coetanei, a valorizzare il proprio carattere e a gestire le proprie debolezze.

La ricchezza del cortile era data anche dal suo essere agorà, foro, social club per uomini e donne di generazioni diverse.

Osservando di sottecchi l’agire di cugini e zii ci preparavamo a diventare adolescenti, giovanotti, ragazzi grandi; poi c’erano i vecchi, patriarchi e matriarche ormai in pensione, i nostri nonni e i loro coetanei, gente che in gioventù aveva vissuto esperienze straordinarie, e non si faceva pregare troppo per raccontarcele.

Fra quanti avevano fatto la guerra, il più ascoltato era il signor Giancarlo; era diventato partigiano ancora adolescente, e quando ci raccontava di quelle stagioni epiche e spaventose non si dava mai un tono da eroe. Sabotare le attrezzature dei Tedeschi, sfuggire ai rastrellamenti, nascondersi e imbracciare un’arma, nelle sue parole erano state cose necessarie, non motivi di vanto. Dare il suo contributo ad abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’occupante straniero era qualcosa che, semplicemente, “ gli era toccato fare” per rispondere a un senso di giustizia, e la sua modestia me lo faceva ancora più caro.

Sono trascorse molte primavere, da allora; chi era bambino oggi è padre, e molti fra gli anziani di allora non sono più fra noi. Qualche tempo fa il signor Giancarlo mi ha fatto sapere che avrebbe gradito una visita. Sapeva della mia passione per i viaggi a piedi, e consegnandomi il suo fazzoletto da partigiano mi ha detto: « Ormai sono vecchio. Fammi la cortesia di portarlo in giro tu, che hai ancora le gambe buone».

Così ho riposto il fazzoletto nello zaino, e appena la primavera ha liberato creste e versanti dalla neve sono partito per un viaggio lungo il filo d’Appennino, per ripercorrere quella Linea Gotica che ha diviso l’Italia in due nella stagione più tragica che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare. Nel lasciarmi alle spalle il mare di Rimini per risalire verso il cuore della Penisola, ancora non sapevo quante e quali storie avrei incrociato lungo il mio percorso verso il Tirreno. Nel corso di due settimane di cammino, praticamente non sarebbe trascorso giorno senza trovare traccia dell’immenso dolore che investì l’Italia fra l’autunno 1943 e la primavera del ’45.

Sulle prime alture romagnole investite dalle battaglie ingaggiate dagli Alleati per sfondare la “ Linea dei Goti” sorgono i musei di Gemmano e Montegridolfo, ma i racconti più autentici escono dalla bocca dei vegliardi che, davanti a un bicchiere di vino, ancora si commuovono a ricordare quei giorni di barbarie, suppliche inascoltate e morti insepolti; a San Marino si può entrare nelle gallerie che ospitarono gli sfollati della Riviera, terrorizzati dalle tempeste di fuoco e d’acciaio che si abbattevano sulle proprie case; lungo la riva del Senatello si trova il luogo dove furono fucilati gli “ otto martiri” bollati come banditen, e proseguendo verso l’interno si raggiunge Tavolicci, una frazione annichilita dalla furia dei Tedeschi in ritirata nell’estate del ’44.

La repressione contro i partigiani e l’inumana “guerra ai civili” s’intreccia con fatti d’armi che videro fianco a fianco gli irregolari del Cln e gli eserciti dei “liberatori” — che non sempre, come noto, si comportarono da gentiluomini — come a Monte Battaglia, la cui antica rocca fu testimone di un simultaneo assalto di partigiani e truppe americane; la lotta fratricida, le delazioni e le manovre a tenaglia non risparmiarono neppure le “Foreste sacre” tra la sorgente del Tevere, l’Eremo di Camaldoli e la fonte dell’Arno; al passo della Futa un enorme cimitero di guerra germanico ricorda che a pagare il conto dell’orrore furono anche i giovani tedeschi, mentre scendendo verso Bologna si giunge a Monte Sole, teatro dell’orrenda strage di donne, vecchi e bambini compiuta dalle SS di Reder, che nell’autunno ’44 si lasciarono alle spalle settecentosettanta cadaveri e interi villaggi ridotti a macerie fumanti.

Il culto dei comandanti partigiani caduti in zona, da “ Lupo” Musolesi a Toni Giuriolo, protagonista del romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, appare spoglio di retorica se lo si confronta con le memorie di quanti presero ancora giovanissimi la via della montagna, come Enzo Biagi, cresciuto ai piedi del Corno alle Scale; appena più in là, seguendo il sentiero 00 e la sua variante moderna, l’Alta Via dei Parchi, si raggiungono il passo dell’Abetone e i valichi ai piedi dei quali venne proclamata in territorio modenese e reggiano la Repubblica di Montefiorino, abbattuta dai nazifascisti ma abbastanza forte da risorgere e mantenersi libera sino al termine del conflitto.

Dal passo di Pradarena, sopra Ligonchio, si scende fra i boschi della Garfagnana, e da Barga si riprende quota verso le Apuane, dove camminamenti, bunker e muraglie anticarro sono ancora intatti; qui, fra le montagne del marmo, l’epos partigiano della Divisione Lunense e del Gruppo Valanga incontra quello di truppe alleate che all’epoca apparvero a dir poco esotiche — i Nisei hawaiani, i Brasiliani, i battaglioni di soli blacks statunitensi. Ci si confronta con gli episodi di collaborazione e le incomprensioni, talora fortissimamente volute, fra comandi alleati e partigiani, come il “malinteso” che causò la morte di Miro Luperi, il comandante “Reno”, abbastanza coraggioso da attaccare per primo le forze germaniche convinto di ricevere un appoggio che non sarebbe mai arrivato.

È difficile trattenere le lacrime osservando le foto delle piccole vittime ammassate nella chiesa di Sant’Anna di Stazzema; erano bimbi non diversi da noialtri quando ancora trascorrevamo i pomeriggi in cortile. Mentre si scende verso le spiagge della Versilia è fatale sentir riecheggiare in testa i versi orgogliosamente rabbiosi che Calamandrei dedicò al feroce Kesselring; ormai, avanzando nel vento salmastro, non possiamo più credere che “gli uni e gli altri si equivalevano”. No. La nostra Italia, l’Italia di cui vogliamo tenere viva la memoria, è quella dei ribelli della montagna, del presidente Pertini, del signor Giancarlo.

Qualcuno, ancora ragazzo, trovò il coraggio per fare la scelta più difficile, e siamo fieri di essergli stati amici per tutta la vita. Ormai il mare ci balugina di fronte, e dopo tanti giorni in montagna stiamo per tornare in mezzo alla gente: è tempo di tirare fuori dallo zaino il fazzoletto che ci è stato donato, e mettercelo al collo ché tutti possano vederlo.

GENERAZIONE FENOGLIO
di Paolo Di Paolo

«Margherita, figlia dell’autore del “Partigiano Johnny”, racconta in quest’intervista eredità e memoria del grande scrittore simbolo della Resistenza. “Quello che mi stupisce è l’affetto dei lettori, soprattutto giovani. Vengono in visita alla tomba e gli lasciano una sigaretta”».

Quello che mi stupisce, ogni giorno di più, è l’affetto dei suoi lettori. Credo che gli avrebbe fatto piacere, se fosse ancora qui. Soprattutto quando arriva dai più giovani. Ragazze che vogliono sapere se — alla fine di Una questione privata — Milton muore oppure no. Ragazzi che gli lasciano un biglietto con scritto “ Grazie a te ho passato la maturità!”. Ho saputo di due sposi in viaggio di nozze sul lago Maggiore che hanno fatto, all’ultimo momento, una deviazione — duecento chilometri! — per passare da Alba. E c’è spesso chi lascia, sulla sua tomba, una sigaretta».

Una sigaretta? «Sì, è un omaggio allo scrittore e al fumatore. Una volta ne ho trovate due, posate accanto alla lapide: un mozzicone e una intatta. C’era anche un biglietto: “ Io non fumo più, ma avevo voglia di fumarne una con te”».

Margherita Fenoglio vive ad Alba, in provincia di Cuneo, fa l’avvocato. Ha avuto accanto suo padre Beppe solo per un paio d’anni. Fenoglio è morto nel febbraio del 1963, quarantenne: lei aveva due anni. La sua fortuna di scrittore è quasi tutta postuma. Oggi è fra gli autori del Novecento italiano più amati, il vero classico sulla Resistenza, sempre più letto e tradotto: in più di venti lingue, dal Sudamerica alla Corea del Sud. Al Centro Studi Fenoglio di Alba arrivano migliaia di lettori e studiosi ogni anno. Sul quaderno degli ospiti, due coniugi italiani residenti a Boston hanno scritto: «Qui siamo fieri di essere italiani».

«So di essere comunque un’orfana privilegiata», dice Margherita. «Chi resta senza genitori da bambino, il più delle volte, sente di sapere troppo poco, di vivere solo un’assenza. Per me, mio padre è invece una presenza massiccia, costante, direi quotidiana. Anche molto impegnativa. Ma mi considero — per quanto riguarda la sua figura di scrittore — solo una lettrice più coinvolta».

Che effetto le ha fatto la prima lettura dei libri di suo padre?
« La malora è stato il primo suo romanzo che ho letto. Parlava di un mondo che non era per me così lontano. Ho sempre vissuto in città, ad Alba, ma sapevo cos’era la vita in collina, la durezza di quella vita. La malora è il libro a cui forse era più legato. Aveva patito il risvolto di copertina negativo scritto da Vittorini e l’accoglienza fredda della critica, ma a mia madre una volta disse: "ti rendi conto, Boba, che se non avessi scritto La malora nessuno fra cinquant’anni saprebbe più com’era la vita nella Langa?" Quanto al Partigiano Johnny, letto a sedici anni, mi sembrò difficile. Più tardi me ne sono innamorata » .

Uscito postumo nella tempesta del ’ 68, si è imposto sui romanzi usciti negli anni Quaranta (Pavese, Vittorini, Calvino).
« In termini numerici, di vendite, cresce di anno in anno. È un romanzo impegnativo, ma credo che la fascinazione nasca da più elementi. L’incompiutezza. Lo stile, così insolito. Lo sguardo, antiretorico al limite della spietatezza, sullo spaesamento morale seguito all’ 8 settembre e sulla guerra civile. La stessa espressione “guerra civile”, che lo storico Claudio Pavone avrebbe sdoganato negli anni Novanta, mio padre avrebbe voluto usarla per i suoi racconti quando suonava blasfema. Ma penso che la fortuna del Partigiano Johnny sia dovuta soprattutto al suo essere un romanzo sull’esistenza prima ancora che sulla Resistenza. Al modo in cui pone il tema della scelta: la necessità, l’irrinunciabilità della scelta. La solitudine del momento in cui scegli » .

Come in “ Una questione privata”, che presto sarà un film dei Taviani, tutto è calato in una prospettiva individuale, emotiva, perciò umanissima.
« Chi voleva la Resistenza “ cantata” non poteva amare i libri di mio padre. Se sul piano stilistico gli veniva rimproverata l’anomalia — così poco italiano, troppo cinematografico —, su un piano ideologico era ancora più difficile digerirlo. Ha precorso troppo i tempi? Non sta a me dirlo. So solo che molti mi parlano di Johnny o di Milton, e di Fenoglio stesso — chiamandolo Beppe, per nome — , come di modelli, di miti della propria formazione, non solo letteraria. Quanto a Fulvia, la protagonista di Una questione privata, so che ogni ragazza, leggendo, vorrebbe essere lei » .

Molti giovani scrittori oggi l’hanno scelto come maestro...
« Scopriamo di continuo fan insospettabili, tra i nuovi scrittori italiani, e li invitiamo ad Alba. Giacomo Verri, trentanovenne, ha evocato esplicitamente la lezione fenogliana nel suo Partigiano Inverno. Emiliano Gucci, l’anno scorso, ha letto in pubblico una lettera a Beppe: “ Raccontavi a me, di me, ti occupavi dei miei sentimenti, di mettere su pagina le mie emozioni, la mia vita” » .

Ma Milton, secondo lei, nel finale del romanzo sopravvive o muore?
« Da adolescente appassionata ai classici russi, con animo tragico avrei detto che muore. Oggi penso che viva » .

Secondo lei come sarebbe stata la vita di Fenoglio dopo i quarant’anni?
« Avrebbe voluto scrivere e basta. Come è noto, per vivere lavorava in una casa vinicola. Ma era consapevole del proprio valore. So di scontri apocalittici con mia nonna, che non considerava scrivere un mestiere. Ma per lui scrivere era tutto, e a sua moglie affidava tutti gli aspetti pratici della vita. In cucina non metteva piede, una volta si era ustionato con una caffettiera. Di mia madre scherzosamente diceva: “ Boba, o della pastasciutta”. E di sé: “ Beppe, o della malinconia”. È stata mia madre a tenermi sempre con i piedi per terra: “ Sei nata da lui, mi diceva, e devi considerarla una fortuna, ma non hai meriti”. Ogni tanto penso che qualcosa in più di lui so farla: so guidare ( lui saliva su una Vespa guidata da mia madre stringendosi a lei spaventato), so fare le percentuali e le divisioni con le virgole. Una volta che gli dissero “ buongiorno ingegnere”, fu molto orgoglioso. Aveva frequentato Lettere ma senza laurearsi. Mia madre gli disse: “ Be’, in effetti un uomo di ingegno lo sei” » .

Mai avuto la tentazione di scrivere, quindi?
«Io? Mai. C’è una grande differenza tra scrivere bene e essere scrittori » .

C’è una pagina di suo padre che le sta più a cuore?
« Non è in un romanzo, è la commemorazione funebre di un partigiano morto diciannovenne a Valdivilla, Dario Scaglione detto Tarzan. Il discorso per l’intitolazione di una strada: “ Quel rettangolo di metallo — Corso Dario Scaglione — sarà come tanti altri un monumento alla libertà il cui possesso c’è costato lui e tanti altri come lui. Sarà una pagina aperta a chi vuole e verrà dove noi e i venturi leggeremo le parole che non sono soltanto parole bellissime a scriversi e a leggersi, ma che sono la gloria della vita” » .

E una via Beppe Fenoglio esiste?
« Ce ne sono moltissime, da nord a sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Catania »

 

«25 aprile. Con stupide pretese incrociate stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare la Festa della Liberazione».

il manifesto, 22 aprile 2017

Grazie a una straordinaria combinazione di stupidità, meschinità e arroganza, stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare il 25 aprile.

Io trovo stupida e settaria la pretesa di impedire la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica. La Resistenza, la guerra di liberazione, l’antifascismo sono state realtà complesse e molto diversificate. La Brigata ebraica, corpo militare inquadrato nell’esercito inglese, non è la stessa cosa della Brigata Garibaldi, ma nel ’44 nel fronte contro i nazisti c’era; non è giusto dimenticarselo, ed è sciocco settarismo farne occasione di scontro in un momento che dovrebbe invece sancire la capacità della democrazia antifascista di far convivere differenze e contrasti senza trasformarli in violenza.

Trovo arrogante la pretesa di impedire la presenza delle bandiere palestinesi, curde, e di altri popoli sotto occupazione militare. Il 25 aprile non è solo la commemorazione di eventi di tre quarti di secoli fa, ma dovrebbe essere la riaffermazione dei valori di libertà, partecipazione democratica, civile convivenza, nel mondo di oggi.

Antifascismo oggi significa lotta contro razzismi, discriminazioni, violenze, e non c’è dubbio che queste cose oggi in Palestina, in Kurdistan, e magari in South Dakota, continuano ad accadere. Pretendere di non parlarne significa ridurre il 25 aprile a una mesta e insignificante rievocazione di glorie passate.

Trovo inevitabilmente ambigua la relazione che in questo contesto viene istituita fra Brigata Ebraica e stato di Israele. La comunità ebraica e le sue espressioni sono una sacrosanta componente della democrazia italiana, non un’emanazione di Israele. Al tempo stesso, un legame se non altro emozionale con lo stato ebraico esiste ed è giusto e logico che sia così. Allora sarebbe bene che chi manifesta in nome dei palestinesi si assicurasse di non essere avvicinato da venature di antisemitismo, che dell’antifascismo è proprio il contrario (e di cui comunque non si possono certo accusare gruppi come gli «Ebrei contro l’occupazione», da sempre impegnati per una soluzione democratica del conflitto). E sarebbe utile se chi manifesta sotto le bandiere bianco azzurre della Brigata Ebraica si domandasse in che misura Israele oggi somiglia a ciò per cui lottavano i combattenti ebrei di allora.

Trovo meschino e arrogante lo slogan per cui «l’Anpi non rappresenta i veri partigiani» e la trovata del Pd di tirarsi fuori. Non c’è dubbio che per ovvi motivi generazionali l’Anpi, come le altre associazioni nate della Resistenza, stia attraversando una complicata fase di trasformazione. Ma la pretesa di delegittimarla perché i «veri» partigiani sarebbero altri è sia arrogante – chi sono i veri partigiani non lo decide nessuno – sia meschina perché non è altro che la piccola vendetta del Pd per la posizione presa dall’Anpi nel referendum del 4 dicembre (purtroppo fa eco a questo slogan anche la Comunità ebraica romana. Ma neanche quelli che innalzano le bandiere della Brigata Ebraica sono i combattenti del ’44).

Molti anni fa, su iniziativa di questo giornale, partimmo in migliaia sotto la pioggia per andare a Milano a dire a Berlusconi, Fini e Bossi che l’antifascismo era vivo. Oggi a Milano sfilano i neonazisti. Chissà dove stanno i «veri» partigiani.

«Gladys Martínez López del collettivo

Diagonal il manifesto

«La direzione di Podemos appoggia la creazione di un mezzo d’informazione alternativo»: così El País ha informato sulla nascita di El Salto, una piattaforma mediatica di proprietà collettiva appena nata a Madrid. Tuttavia, la realtà del processo che consolida El Salto è molto distante dalla descrizione del più grande quotidiano globale in lingua spagnola.

L’idea nasce nella redazione del quotidiano (creato nel 2005) dall’esigenza di democratizzare la comunicazione dello Stato spagnolo facendo confluire in uno spazio condiviso diverse realtà di informazione critica e indipendente. L’obiettivo è consolidare un nuovo gruppo mediatico per contendere l’egemonia dell’informazione alle grandi corporazioni. Intanto, il progetto è partito con una rivista mensile (lo scorso marzo è uscita il primo numero), che approfondirà le tematiche trattate quotidianamente in un’innovativa piattaforma digitale, con contenuti scritti e audiovisivi.

Un canale per dar voce ai movimenti sociali, ma anche per stimolare la partecipazione della cittadinanza nel mondo dell’informazione, El Salto è il risultato della vivacità sociale e politica apertasi con l’apparizione del movimento degli Indignados, il 15 maggio del 2011, durante il secondo governo Zapatero. Tutt’altro che una scelta di partito calata dall’alto, quindi, ma una complessa trama di alleanze e cooperazione tra mezzi d’informazione (anche in lingue diverse) della Galizia, del Paese Basco, dell’Andalusia, che porta oltre venti realtà indipendenti a creare, dal basso, «el primer gran medio financiado por la gente».

«Ci dicono impossibile, ma già lo stiamo facendo», si legge sulla pagina in formazione di El Salto. Come? Ce lo spiega Gladys Martínez López, una giovane del collettivo che ha partecipato alla costruzione del progetto.

Qual è la differenza tra El Salto e i media indipendenti a cui ci siamo abituati in passato?
Il movimento 15M ha segnato un punto di non ritorno; quell’esplosione di dignità, di denuncia e rivendicazione mostrò una ripoliticizzazione di ampi strati della società, evidenziando l’indignazione popolare. Sono nati diversi mezzi d’informazione, alcuni dei quali hanno cominciato ad occupare quello spazio alla sinistra di El País in cui fino ad allora ci muovevamo praticamente da soli. In questo scenario interessante, il progetto è cresciuto. Tuttavia, al di là della riuscita di Diagonal, avevamo come la sensazione di sbattere contro un tetto di vetro che ci impediva di continuare a crescere, sentivamo di esserci accomodati nel nostro giornalismo di nicchia. Invece, per andare oltre e consolidare la nostra sostenibilità, dovevamo fare un “salto”, non aveva più senso continuare a competere con tutti quei mezzi d’informazione con cui già avevamo stabilito logiche di cooperazione. Allora ci siamo chiesti perché non creare un grande mezzo d’informazione con un’infrastruttura comune in cui possano confluire tutti questi progetti. Così abbiamo cominciato a confrontarci con i diversi progetti mediatici che hanno poi dato vita a El Salto. Proprio questa volontà di unire, di far confluire, di creare logiche di collaborazione pura, è uno degli elementi originali rispetto ad altre esperienze mediatiche.

Stiamo costruendo un grande mezzo d’informazione, di massa però orizzontale, basato e sostenuto da migliaia di persone associate, con norme etiche per quanto riguarda pubblicità e indipendenza da imprese, partiti, ecc. Un altro aspetto chiave è l’importanza che diamo all’informazione locale, sempre più abbandonata dal sistema mediatico dominante, ma oggi cruciale più che mai, per l’interesse che suscitano gli «ayuntamientos del cambio» (città ribelli, ndr) e per l’importanza della dimensione territoriale delle lotte. Infatti il numero zero è uscito in sei edizioni diverse: insieme all’edizione statale, quelle andalusa, galiziana, di Madrid, della Navarra, di Aragón. Infine, El Salto oltre ad essere un “mezzo di mezzi d’informazione”, vuole consolidarsi come gruppo mediatico innovativo nello sperimentare nuovi formati e nuove tecniche comunicative. Per questo tendiamo a tessere alleanze e a creare spazi di cooperazione.

Un “salto” collettivo in un mondo, quello dell’informazione, che sembra essere sempre più ostaggio delle logiche di mercato e delle grandi corporazioni. Qual è il panorama mediatico in Spagna?
Nella prima edizione abbiamo dedicato un ampio spazio ai grandi gruppi mediatici, che nello stato spagnolo si accaparrano più della metà del mercato dell’informazione e la maggior parte dell’audience: Mediaset, Prisa, Atresmedia. Tutti questi gruppi, tra le altre cose, sono accomunati dal vincolo che unisce i loro consigli d’amministrazione a grandi banche, multinazionali dell’energia, grandi imprese… Per noi è impossibile fare informazione indipendente con un consiglio d’amministrazione legato a grandi imprese.

Dall’altra parte, come ho spiegato prima, troviamo un panorama mediatico indipendente, nato dopo il 15M, con una molteplicità di nuovi media e di diverse tendenze. C’è poi il recente processo di “democratizzazione” dell’informazione, con l’assottigliamento, nello spazio digitale, delle linee che separano “giornalismo professionale” e “giornalismo cittadino”. Certamente il panorama è inedito, ma resta solida l’egemonia del discorso dominante e dei grandi apparati mediatici, appoggiati dai gruppi politici e imprenditoriali. Per questo crediamo necessario un giornalismo critico, dal basso, appoggiato e partecipato da migliaia di persone associate.

Un progetto che s’inserisce in una cornice abbastanza vivace. Che relazione c’è tra El Salto e la fase politica che vive lo Stato spagnolo?
Il bipartitismo è ancora vigente, e il Partido Popular – un partito di destra per certi versi erede del franchismo – continua a governare. Ciò nonostante, tanto il Partido Popular come il Psoe (i due “partiti del regime”) sono usciti malconci dall’esplosione del movimento del 15M, prima, e poi dall’irruzione di Podemos nelle istituzioni. In diverse comunità autonome, le candidaturas del cambio sono riuscite a sconfiggere l’egemonia pluridecennale del Partido Popular, anche se questo in diversi contesti ha significato stringere alleanze con il Psoe.

Negli ayuntamientos del cambio, governati da liste civiche di unità popolare, le lotte sociali sono entrate con forza nei consigli comunali. Molti attivisti e attiviste dei movimenti hanno oggi cariche istituzionali e politiche, con conseguenze positive ma anche negative: s’indeboliscono i movimenti per lavorare in istituzioni le cui logiche sono veramente difficili da cambiare. Senza dubbio, dalla prospettiva di un mezzo d’informazione critico come il nostro è molto più facile ottenere dichiarazioni e interviste da questi nuovi partiti, liste civiche, istituzioni che si sono nutrite dei movimenti, perché sono più accessibili. A seconda del contesto e delle situazioni, si sono ottenuti cambiamenti più o meno importanti, ma anche blocchi, disillusioni, incoerenze… Noi crediamo fermamente che è imprescindibile mantenere un’assoluta indipendenza da qualunque potere economico e politico per informare dal basso sulle ingiustizie, le promesse incompiute, gli immobilismi, di qualsiasi stampo e colore politico.

Questione di genere. Esplicita («montami a casa tua») o subdola (l’uso maschile e femminile dei tablet), lo spot made in Italy è inchiodato allo stereotipo».

il manifesto, 19 aprile 2017

Quando si pensa alla pubblicità sessista vengono in mente donne in pose provocanti e doppi sensi squallidi. «Te la do gratis/ perché pagarla di più/ tu dove glielo metteresti/ montami a casa tua» e simili, ricorrenti slogan. O si immaginano pezzi di corpi femminili associati a prodotti, per esempio le bocce da bowling di una ditta di Messina, o dei grandi hamburger di un locale di ristorazione, sovrapposti ai seni. Sono casi abbastanza chiari, la volgarità è palese.Ma il sessismo può assumere forme eleganti, raffinate.

Mentre non usa porre oggetti davanti alla faccia o in testa a un uomo, alla donna si mette di tutto, dalle scarpe ai paralumi che le coprono il volto (Arredamenti Pezzini) dalle tazzine di caffè della Lavazza ai piatti della collezione dei supermercati Simply, o all’insalata della Fiera del gusto di Gorizia. O magari le si nasconde il volto con una papera di gomma. Spesso, anziché nasconderle il viso, lo si elimina proprio, e l’immagine pubblicitaria consiste di un corpo acefalo.
Un’altra forma di sessismo è la scelta del carattere della donna.
Se non è sexy o dolce moglie e mammina, negli spot televisivi diventa emotiva, aggressiva, imprevedibile, infantile, o con un misto di queste caratteristiche, a cui viene aggiunta a volte la connotazione sessuale. Esempi. Canone Rai: uomo posato, donna infantile e isterica. Costa crociere: donna che sfrutta la sessualità per attirare l’attenzione dell’uomo e poi diventa violenta. Golia: bambina deficiente.

Diversi uomini trovano queste pubblicità offensive per loro. Sono d’accordo. Non si accorgono, tuttavia, che la donna, lungi dall’essere vincente, è rappresentata come mentalmente instabile. Non ci sono vincitori in questi spot, solo perdenti.
Poi c’è la caratterizzazione dei bambini, con stereotipi a go-go: le bambine interessate al loro aspetto, passive e sorridenti, desiderano essere ballerine e principesse. I bambini amano l’avventura, vogliono diventare esploratori o astronauti e sono mostrati con oggetti come binocoli o timoni, in movimento.

A volte, per fortuna, si reagisce: nel 2015 uscì uno spot della Kimberly-Clark per i pannolini Huggies in cui si diceva «lei penserà a farsi bella, lui a fare goal». La pagina facebook della ditta fu sommersa dalle critiche, moltissime di giovani papà e mamme, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ricevette tante segnalazioni di sessismo, e la Kimberly-Clark fu costretta a modificare il costosissimo spot.

Nella pubblicità italiana lavori domestici e cura dei figli sono puntualmente appannaggio della donna. «Emozioni che si tramandano» recita lo slogan del detersivo Scala, con una mamma e una bambina sorridenti con le ramazze in mano.
Ma ci sono anche modi più subdoli nell’attribuire attitudini femminili e maschili secondo stereotipi antiquati. Tempo fa un opuscolo della Samsung pubblicizzava un computer mostrando un uomo, vestito, con lo sguardo intento di chi sta lavorando, e una da donna semivestita e sdraiata sul letto. Il testo chiariva che “lei” può usare il portatile per chattare, fare shopping e guardare film. Dunque il messaggio è che l’uomo guadagna, lei spende, si dedica ad attività superficiali ed è sempre sexy. Un altro esempio di attribuzione di attitudini diverse è la “cassetta degli attrezzi” del 2016 della Lycia: per la donna nella cassetta ci sono i trucchi e per l’uomo gli attrezzi da lavoro. Anche in questo caso, per fortuna, c’è stata una forte reazione di critica. La ditta non ha modificato l’immagine ma si spera che non ripeta l’errore in futuro.

Uno degli aspetti più subdoli del sessismo è la ricerca dell’aderenza di forma e colore tra la donna e il prodotto. L’acqua Brio blu della Rocchetta ne è un esempio.

Quando la vincitrice di Miss Italia 2013 fece da testimonial per questa pubblicità il fotografo Ico Gasparri, da decenni impegnato nel contrasto alla pubblicità sessista, rivolgendosi alle aspiranti Miss, scrisse: «Guardate a cosa hanno portato i tanti sforzi, i probabili sacrifici personali e familiari, le tante aspettative della vostra collega vincitrice dell’edizione 2012: a fare la bottiglia di acqua minerale! Ad assumerne i colori, a interpretarne l’effervescenza e la briosità, ancheggiando, saltellando e contorcendosi in improbabili pose da pubblicità all’italiana».
Altri esempi di aderenza tra donna e prodotto sono il chicco di caffè sul volto di una ragazza per la Pellini, il logo della Abarth sul collo della modella in uno spot della Fiat, la donna-supposta di glicerina dello spot di Eva Q, e i chicchi di caffè al posto dei peli dell’inguine di una donna nuda per il caffè Godo.

L’aderenza si estende poi al carattere, che serve a rappresentare le diverse caratteristiche di un prodotto alimentare, come nella pubblicità dell’olio Bertolli dove tre gemelle rappresentano i gusti.
Nel nostro Paese, dove persiste la visione del ruolo ancillare della donna, la pubblicità la usa per attirare l’attenzione, rallegrare, stimolare l’erotismo, a far identificare il prodotto con piacere, allegria, spensieratezza. Alle donne acquirenti si chiede di immedesimarsi con le modelle seducenti o con le mammine felici. E le stesse ditte che, come la Muller, all’estero promuovono una figura di donna moderna, e nelle cui pubblicità compaiono donne di tutte le età, di fisici diversi, vestite normalmente, in Italia si ostinano a «far l’amore con il sapore».

».

il manifesto, 18 aprile 2017 (c.m.c.)

L’elezione di Donald Trump potrebbe costituire l’avvio di una profonda ristrutturazione degli schieramenti in campo: di quelli politici e di quelli dei loro supporters, che agiscono al di fuori della sfera politico-elettorale, ma che con i partiti in senso proprio hanno legami strettissimi: marciano divisi, per colpire uniti. Da un lato c’è uno schieramento che potremmo chiamare «globalista». Per esso la consegna del pianeta al mercato è giusta e inevitabile. In linea di massima questo è lo schieramento che al momento prevale alla guida delle democrazie sviluppate. Salvo aver alfine trovato un rivale assai temibile.

È ancora un’ipotesi: grazie a Trump di schieramenti se ne potrebbe costituire un altro, che potremmo denominare «sovranista», la cui struttura portante sarebbe fatta di quei partiti che ordinariamente vengono classificati come populisti. Secondo questo secondo schieramento il rimedio ai danni prodotti dai globalisti non consiste nel sottrarre spazi al mercato, ma nel restringere il mercato entro i confini nazionali, dandogli lì piena libertà di manovra. L’altra caratteristica dello schieramento sovranista sta nella sua capacità di strumentalizzare le sofferenze e le paure di una parte delle vittime dei globalisti, da esse traendo parte non secondaria del suo seguito elettorale.

Tra i due rivali, uno ben solido, l’altro in via di consolidamento, c’è più accordo che contrasto. Wall street non ha manifestato sofferenza dopo la vittoria di Trump. La Brexit non ha prodotto effetti sconvolgenti, e la borsa di Londra se la cava egregiamente. Se così fosse, sarebbe un’invenzione straordinaria: il capitalismo fa opposizione al capitalismo. Evviva il capitalismo! Divergono sui mezzi: l’uno considera lo Stato un ingombro, l’altro uno strumento. Forse è un conflitto ciclico nella storia del capitalismo. Quello che è verosimile è che i sovranisti non riusciranno a sfuggire dal labirinto di vincoli in cui i globalisti hanno cacciato le società occidentali e proveranno a mascherare il loro fallimento con un po’ di misure illiberali, antidemocratiche, razziste. Trump ha già cominciato. Anzi, ha fatto di meglio. Ha ripreso a bombardare, con tanto di motivazioni umanitarie. Non senza ottenere il plauso dei globalisti-liberali.

C’è forse qualche somiglianza con i contrasti che divisero negli anni 20-30 dello scorso secolo i fascisti da una parte dei liberali. Poi, allora, le cose evolvettero. I liberali presero le distanze, rinunciarono al liberismo, inventarono il New Deal, si appropriarono dell’interventismo statale fascista, ma lo rinnovarono radicalmente in senso democratico. Le analogie sono intriganti, ma non sono mai perfette e non vanno esagerate. Non sappiamo nemmeno come il contrasto tra globalisti e sovranisti evolverà. Potrebbe anche evolversi positivamente. I globalisti potrebbero, almeno alcuni, scoprire di aver esagerato e che l’involuzione autoritaria è troppo rischiosa. Vedremo. Come tutte le trasformazioni, anche questa è incerta.

Anche perché le resistenze non mancano. Negli anni 20-30 c’erano grandi partiti socialisti e comunisti, a volte brutalmente repressi, ma che rappresentavano un principio di resistenza. Oggi c’è resistenza, ma ha altre forme, giacché quei partiti hanno deciso di confondersi nello schieramento globalista. La resistenza attuale è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta.

Tra le forme più paradossali c’è persino il voto per i partiti populisti: che se per alcuni implica adesione, per altri è un voto di «odio». Li si vota perché non c’è di meglio, perché è il voto che reca più disturbo.

La resistenza dispersa non è una condizione inedita. Prima che nascessero i grandi partiti di massa, gli strati popolari erano classificati come classes dangereuses: erano le folle del 1789 del 1848, che i partiti socialisti promossero a classes laborieuses, dotate di un’identità e una soggettività collettiva, protagoniste di grandi cambiamenti.

È immaginabile un riorientamento analogo delle resistenze che caoticamente si manifestano di questi tempi? Non è facile. Una cosa era contrastare lo Stato e le imprese, un’altra rovesciare il mercato globale, gli evanescenti labirinti della governance sovranazionale e i bit della speculazione finanziaria. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza. Il nemico è possente, globalista o sovranista che sia. Ma è possente perché i suoi avversari sono deboli. Ma fino a un certo punto.

Le grandi mobilitazioni sociali di carattere «universalistico» apparse dal 2011 non sono un incidente. Sono manifestazioni di una rivolta collettiva che ha indossato prima le vesti degli Indignados spagnoli e greci, di Occupy, di Gezi Park, della francese Nuit Debout e che poi ha avuto qualche non secondario sbocco elettorale. La rivolta movimentista e l’esodo elettorale dai partiti tradizionali sono a volte riusciti a intrecciare protesta politica e protesta sociale. Tra le vittime del nuovo ordine (o disordine) e le oligarchie cova un conflitto che evoca le grandi retoriche rivoluzionarie: la virtù contro la corruzione, il basso contro l’alto, i produttori contro i parassiti, il «popolo» contro la «corte» (oggi la «casta»). Va da sé che è tutt’altro modo di interpretare il conflitto «basso contro alto» rispetto a quello dei populisti-sovranisti. Nessuno che abbia seguito agisce oggi al di fuori di questa frattura.

Negli Usa la campagna di Sanders è stata fatta in gran parte da attivisti di Occupy, così come la campagna pro-Corbyn nel Labour. Podemos non sarebbe nato senza gli Indignados. Syriza ha vinto le elezioni dopo un lungo ciclo di mobilitazione sociale. Il governo più progressista d’Europa, quello portoghese, è una coalizione tra il partito socialista e partiti della sinistra radicale, resa possibile da un intenso ciclo di mobilitazione anti-austerity. In Francia Mélenchon cresce nei sondaggi anche sull’onda della Nuit Debout. Altre nuove forze di sinistra avanzano in Olanda e in Belgio. La resistenza molecolare prova a coagularsi. Non ci sono quindi alibi per la sinistra italiana: non è vero che nella crisi cresce solo la destra.

Forse il problema italiano è che questo spazio è stato occupato dai grillini, o è stato loro consegnato. Oppure che l’equivoco del Pd si è dissolto solo di recente.

Ma bisogna anche imparare dagli altri. Le nuove forze di sinistra, dove conquistano consensi importanti, non sono stanchi mosaici di ceti politici di lungo corso. Spiazzano, disorientano, agiscono come outsiders, quasi come alieni. Inventano nuove forme organizzative. E soprattutto ci credono, e spiegano a coloro cui si rivolgono che le attuali ingiustizie non solo non hanno niente di naturale e di obbligato, ma sono pure superabili. Purché lo si voglia.

La forza dirompente di un'analisi lucida di un mondo disumano e delle direzioni del cambiamento necessario: parole di verità che il pensiero dominante, non riesce a pronunciare, neppure a sinistra. Huffington Post online, 16 aprile 2017, con riferimenti

Solo papa Francesco riesce a bucare la cinica coltre del pensiero unico che domina il discorso pubblico italiano. Si deve a lui se il popolo che disperatamente vorrebbe una sinistra può ancora ascoltare una lettura del mondo 'da sinistra'. E leggere un programma per rifarlo, questo mondo.

Come un vento potente, la voce di Francesco spazza via le miserie di una cronaca inchiodata alla farsa delle primarie Pd, a una guerra di potere che umilia il servizio pubblico, a una inchiesta nata intorno ad un regolamento di conti nel giglio magico.

E rimette al centro ciò che al centro deve stare: la "scandalosa realtà di un mondo ancora tanto segnato dal divario tra lo sterminato numero di indigenti, spesso privi dello stretto necessario, e la minuscola porzione di possidenti che detengono la massima parte della ricchezza e pretendono di determinare i destini dell'umanità. Purtroppo, a duemila anni dall'annuncio del Vangelo e dopo otto secoli dalla testimonianza di Francesco, siamo di fronte a un fenomeno di "inequità globale" e di "economia che uccide" (così la lettera che papa Francesco ha inviato al vescovo di Assisi nel giorno di Pasqua).
Ecco: qua c'è tutto. Un partito che avesse la forza di presentarsi alle elezioni italiane con questa analisi della realtà, e con il programma di rovesciarla dalle fondamenta, riuscirebbe immediatamente a riportare alle urne i milioni di italiani che da anni non ci vanno, e che solo per il referendum sulla deriva plebiscitaria del Paese hanno voluto esprimersi.

Ma non c'è traccia di una simile prospettiva.

Solo pochi giorni fa un politico che si autodefinisce "socialista" e che per questo è appena uscito dal Pd, ha detto, presentando la trasformazione di un monumento storico in un resort di "iperlusso", che "abbiamo il problema di costruire un'offerta turistica adeguata per i grandi ricchi del mondo, coloro che hanno bisogno di un'accoglienza straordinaria come quella che può essere fatta qui".

È davvero impressionante aver potuto ascoltare, nella stessa settimana e a pochi chilometri di distanza, due discorsi così paradossalmente opposti. L'uomo di governo socialista che si inchina al denaro e pensa che il nostro problema sia accogliere adeguatamente i grandi ricchi. E il sovrano di una teocrazia assoluta che denuncia con lucidità e spirito profetico che l'esistenza stessa dei grandi ricchi nega in radice ogni possibilità di vera democrazia.

Perché, come ha scritto Michel Foucault commentando un passo famoso della Politica di Aristotele: «Ecco la risposta di Aristotele (una risposta estremamente interessante, fondamentale, che entro certi limiti rischia forse di provocare un ribaltamento di tutto il pensiero politico greco): è il potere dei più poveri a caratterizzare la democrazia. E quand'anche i più poveri fossero di gran lunga i meno numerosi, è sufficiente che esercitino il potere perché si possa dire che vi è democrazia".

Finché la sinistra penserà che governare significhi oliare il binario dell'ingiustizia globale e offrire al popolo le briciole che cadono dal tavolo della mostruosa diseguaglianza che sfigura il pianeta, quella 'sinistra' sarà talmente indistinguibile dalla destra da non poter essere votata nemmeno volendo.
E al papa venuto dalla fine del mondo continuerà ad appartenere l'unica voce che annuncia incessantemente la necessità di rovesciare "la scandalosa realtà" di questo mondo.

Riferimenti
Qui potete scaricare il testo integrale della lettera di papa Francesco al vescovo di Assisi. Altri scritti di o su papa Francesco nella cartella Jorge Mario Bergoglio, in eddyburg

Ampia analisi dell'insegnamento della Scuola di Barbiana, del ruolo che ebbe sulla vita culturale dell'epoca , sugli equivoci e i fraintendimenti di molte interpretazioni e sulla sua verità e utilità.

Internazionale online, 16 aprile 2017


"A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi." Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici

Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa. L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.

Eppure in pochi anni, grazie a questo prete, Barbiana diventa un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia. Nasce lì, nel 1958, Esperienze pastorali, visto da molti come concreto e profetico contributo al Concilio Vaticano II, immediatamente messo all’indice dalla curia romana che, pur non vietandolo ufficialmente, ne impedisce la pubblicazione. Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai parroci militari. Un testo, pubblicato dal periodico comunista Rinascita e ricordato come L’obbedienza non è più una virtù, che porterà in tribunale don Milani e gli causerà addirittura una condanna dopo la morte.

E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, autentico livre de chevet di una generazione. “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni. Visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta. Ma visto, anche, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”.

“Noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni”, ha scritto Paola Mastrocola. E in un articolo di Sebastiano Vassalli si può leggere: “La mitica scuola di Barbiana (…) era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.

Un invito a organizzarsi


Lettera a una professoressa è dunque diventato un libro manifesto, ma non nel modo auspicato dai suoi autori. Eppure il libro è cristallino: non è, né vuole essere, un testo scritto per i ragazzi che vanno all’università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai. La lettera è un invito a organizzarsi. Perché la scuola pubblica, così come l’hanno conosciuta i ragazzi di Barbiana e non solo, è una scuola per ricchi, per i “Pierini d’Italia”. La riforma delle scuole medie del 1963 non aveva modificato questa situazione. La scuola di don Milani è una denuncia nei confronti di governi cattolici che per tutto il dopoguerra hanno occupato il ministero della pubblica istruzione (6 ministri laici su 34).

Don Milani sa bene che il suo non è un progetto di riforma ma una testimonianza, scritta in prima persona plurale, con un noi che ha nomi e cognomi. “So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, scrive alla giovane Nadia Neri in una delle sue lettere più belle, “che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. E ancora:

"La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come la vorrei io non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini."

Il suo, dunque, non è neppure un modello da imitare, come in molti ancora oggi pensano. Eppure, nella sua esemplare essenzialità, questo piccolo esperimento pedagogico che si traduce in una scuoletta di montagna e nella pubblicazione di un libro, poco più di un opuscolo, diventa la scintilla di una rivoluzione. E ancora oggi mobilita il ricordo, innesca passioni, divide e fa litigare, si fissa nella memoria collettiva come un punto di passaggio epocale quando si parla di scuola ma anche di giovani, generazioni, movimenti.

Questo perché fin da pochi mesi dopo la sua pubblicazione il libro acquista una vita completamente autonoma, Lettera a una professoressa è, infatti, il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e per questo è un libro degli anni sessanta, ma si pone anche l’obiettivo di dire basta con questo ritardo nell’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti. Per questo viene subito adottato dal movimento studentesco.

Su Lettera a una professoressa si fanno seminari in tutte le università occupate; alla Biennale di Venezia del 1968 diventa uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Gli insegnanti lo usano per sperimentare nuove forme di didattica; a Roma, all’acquedotto Claudio, don Sardelli fonda una scuola popolare ispirata all’esperienza di Barbiana. Viene definito un libro maoista. Gianni Rodari e il Movimento di cooperazione educativa gli dedicano scritti e riflessioni. Tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’educazione si confrontano con Lettera a una professoressa.

Il ruolo di maestre e maestri


In molti dimenticano che il libro riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università. La questione dell’obbligo scolastico è più di ogni altra la cartina di tornasole di ogni sistema che voglia dirsi democratico. A fine anni sessanta è ampiamente disattesa, dalle famiglie ma anche dallo stato che consente un doppio binario scolastico, per chi ha tutte le parole a casa, può fare ripetizioni, e chi non può. Lettera a una professoressa diventa il vademecum dei primi, ma per fortuna ha ricadute importantissime anche sulla vita dei secondi.

Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e stati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo.

Lettera a una professoressa va oltre tutto questo perché coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale nella quale un analfabeta, come dice un vecchio contadino alla Rai degli anni sessanta, “è cieco”. “La scuola siede tra il passato e il futuro”, scrive don Lorenzo Milani, “e deve averli presenti entrambi”.

Scrive Oronzo Parlangeli, filologo, nel lontano 1969: "È colpevole e stupida l’omertà di chi fa dipendere la propria fama dalla percentuale, o dalla massa, dei promossi e non invece dal livello della preparazione dei promossi. Coloro i quali bocciano solo per il gusto di bocciare sono criminali pericolosi e sadici, ma altrettanto pericolosi sono coloro i quali (o per far carriera o per pecoronismo gerarchico o per smania di passar per novatores) promuovono tutti e pretendono che tutti siano promossi: anche per costoro dovrebbe esserci un’azione penale o il manicomio. "
Eppure i ragazzi della scuola di Barbiana hanno scritto: "Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata (…) Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere”. Il fatto, continua il filologo, è che abbiamo confuso il sacrosanto diritto allo studio con lo stupido diritto alla laurea. Persino la rivolta degli studenti che era e dovrebbe essere generosa contestazione giovanile contro le ipocrisie e i vaniloqui, rischia di adulterarsi o si è già adulterata in uguali ipocrisie e vaniloqui (anche se di segno contrario) e in una perniciosa ricerca del diciotto, quale… minimo sindacale garantito. E i riformatori politici, che già tremavano sotto l’impeto della violenta, ma sacrosanta protesta di chi non è integrato nel sistema (e perciò dice ciò che pensa), ebbene, possono tornare a baloccarsi con esiziali alchimie partitocratiche.

Amen. Bastano queste poche righe per raccontare l’impatto del libro, i suoi fraintendimenti, lo svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, la strumentale sovrapposizione delle sue tesi con quelle di una parte del movimento studentesco. Oggi la sua rilettura viene fatta in nome dell’antisessantottismo e assume una funzione antidemocratica. I primi a mettere in discussione l’utilità della lettera sono stati proprio i professori “democratici” che l’hanno letta e usata per anni: letta, usata e non capita. Nel 1978 un articolo sul manifesto pone il problema: come comportarsi con i ragazzi del 1977? Bisogna bocciarli. Quindi don Milani aveva torto…

Consapevole di queste strumentalizzazioni, nel 1982 padre Ernesto Balducci si chiede: “Ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. E ancora: “Il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello stato di diritto, la scuola di stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori”.

Ma, aggiunge, la contrapposizione fittizia creatasi tra l’umanità della scuola di Barbiana e la disumanità della scuola istituzionale è una balla, la riforma del 1974 risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica: “Ecco perché la scuola di Barbiana, se vezzeggiata come un modello ideale, può favorire inerzie utopistiche o fughe nel privato. Essa non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni”.

Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto: "Parlare o scrivere di don Milani è estremamente difficile. C’è il pericolo di appiattirne l’immagine, di semplificarne i contorni, assimilandolo frettolosamente all’una o all’altra delle grandi contrapposizioni che segnavano allora, e in parte segnano ancora oggi, la società italiana."

Appiattirne l’immagine, semplificarne i contorni per ridurlo a fenomeno comprensibile, catalogabile, replicabile. Come poi, puntualmente, è stato fatto, e continua ad essere fatto.

Viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo quando scrive Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.

Lui, invece, sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento. Al fine di sentirsi ognuno responsabile di tutto, come è scritto nella Lettera ai giudici: "Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’“.

Viene in mente, pensando a Lorenzo Milani, quello che scrive Alex Langer di Ivan Illich: “Qualcuno ne rimane deluso e lo trova ‘poco organico’, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo”. E allora il tentativo di renderlo sistematico, comprensibile, di decifrarlo, e farlo diventare di volta in volta un marxista in nuce, un proto sessantottino, la voce profetica della rivolta, ma anche appunto l’istigatore di risentimento sociale, l’invidioso, lo sciatto. L’icona, il martire, il folle, il presuntuoso, il più grande intellettuale italiano del novecento. Che fatica.

A don Milani invece dobbiamo molto, moltissimo, in termini di categorie analitiche, negli anni della “buona scuola”, del ritorno alla bocciatura, della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti (oggi si chiama meritocrazia), in termini di contributo alla riflessione, di contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili.

Nessuna nostalgia


Tornare a don Milani, a Lettera a una professoressa e ai ragazzi di Barbiana ha un senso niente affatto nostalgico. Ben poco di affascinante c’è nella figura di un prete, burbero e autoritario, borghese e anti intellettuale, profondamente critico nei confronti della scuola pubblica. Ma non si tratta di questo. Nessuno oggi vuole fare l’errore di chi salì a Barbiana nel 1967 con la Lettera ai giudici in una mano e Herbert Marcuse nell’altra, sperando di trovare un guru, inventandosi di averlo trovato. Scoprendo in Lettera a una professoressa il viatico per la rivoluzione.

Bisogna rileggere Lettera a una professoressa a partire dalle proprie domande e dalle proprie esperienze, inserendola però all’interno di un contesto troppo spesso messo in ombra, da una lettura miope della figura di don Milani, essendo la sua eredità assolutamente non mediata dalla sua voce, ma solo da quella dei suoi eredi. Don Milani è morto infatti a 44 anni nel giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia.

Si tratta, come suggerisce don Luis Corzo, di riprendere in mano Lettera a una professoressa e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.

Crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Un’intervista di Antonello Caporale a un teologo sui generis, Vito Mancuso: un discorso fuori dai cori, sulla Chiesa cattolica oggi, papa Bergoglio la guerra e l’Islam Una visione poco dialettica dello scontro tra due culture.

Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2017

«Vito Mancuso Il teologo e scrittore dopo il lancio della MOAB (Mother Of All Bombs): “Neanche Bergoglio ha il coraggio di chiedere al mondo di cambiare”»

Domani è Pasqua, è la Resurrezione. Domenica scorsa ci siamo scambiati il ramoscello d’ulivo: il segno della pace. Due giorni fa – solo per ricordare l’ultimo atto della più sanguinosa stagione bellica che interseca quella drammatica della migrazione secolare – Donald Trump ha ordinato lo sganciamento della più devastante bomba non atomica, la MOAB. E ieri Marine Le Pen ha ingiunto al Papa di non “immischiarsi”, di non aprire bocca sul tema dell’immigrazione.

C’è ancora religione? L’irrilevanza sociale della fede nei Paesi con i più alti standard di vita è anche questione civile? Così risponde Vito Mancuso, teologo.
«Questo pomeriggio alle tre (ieri per chi legge ndr) si commemora la morte di Cristo. Un tempo suonavano le campane, si spogliavano gli altari. È il giorno del digiuno. Oggi lei sente un cambio nella vita quotidiana? Tutto è come sempre”.

Non c’è più religione, questo vuol dire?
«La religio ha radice lessicale profonda. Significa legame. Religio come grande legame sociale. Romolo fonda Roma ma è Numa Pompilio, grazie alla religione, a costruire la sua identità. Perdere la fede significa far vacillare l’identità e dunque mettere in crisi la natura della propria civiltà. La religione ci permette di individuare un bene superiore, un bene comune che sopravanza quello dei singoli. Ci tiene stretti dentro quella cornice generale. Invece oggi siamo messi così.»

Il cattolicesimo diviene burocrazia, la preghiera un rito, la parola del Papa pura consolazione.
«Sì, fu un’illusione già di Giovanni Paolo II di immaginare che pesare all’interno dei movimenti potesse significare cambiare i rapporti di forza. Rischiamo di essere una religione senza popolo.

Eppure Francesco è amato, ascolta gli ultimi, continua a pronunciare messaggi rivoluzionari.
«Un grande generale ha bisogno di un grande esercito. Invece il Papa è solo, la Curia cos’è? Dov’è?

La Chiesa cattolica è irrimediabilmente sfigurata da una classe dirigente, chiamiamola così, non all’altezza?
«Senta: laddove i preti sono sull’altare riescono a muovere le comunità. A Bologna il nuovo vescovo, un bergogliano, sta rivoluzionando il rapporto della città con la sua Chiesa. Invece altrove è tutto un rito stanco. »

È responsabilità del Papa non riuscire a mutare il volto della sua Curia e la sua reputazione?
«Certo che sì. Come può chiedere al mondo di cambiare se non se la sente di affrontare la crisi di fiducia che esiste dentro il suo piccolissimo Stato? Oramai sono passati quattro anni dalla sua elezione. Il Papa ha il potere di fare ciò che ancora non fa.»

Perché non lo fa?
«Perché non se la sente, perché teme forse di andare troppo al di là. Ma in questo modo, la fede
 perde quella
capacità di attrarre. Prima mi
parlava di Trump
e della sua superbomba. Quando
ho conosciuto la
notizia non ho avuto
un sussulto di stupore. Purtroppo me lo aspettavo. Ma come reggere all’urto di queste personalità così enormemente pericolose se l’Occidente si presenta smarrito? E come pensa la società di superare la crisi
che la sta scon-
volgendo se
non c’è un simbolo, un mo-dello a cui far
riferimento? I
giovani, come
dice il titolo
del bel libro di
Michele Serra, restano
sdraiati sul divano. Non
hanno niente
in cui credere, e nulla a cui somigliare. Assenti, semplicemente così.»

Papa Francesco è accusato di assumere atteggiamenti populisti. Un’esibizione di povertà, un grande teatro.

«Di populismo fu accusato anche Giovanni Paolo II. Ma indicare un’idea a una massa enorme di persone con un messaggio breve è un’opera gigantesca. Sono popolari, altro che!»

Però l’esercito, cioè la Curia...
«È quello che è.»

L’atrofia della Chiesa produrrà scompensi anche geopolitici?
«Il declino di una religione è segnato dal declino demografico di chi la professa. I segni ci sono tutti. E la forza interiore di una civiltà, la sua capacità di costruire stili di vita condivisi produce anche la forza della resistenza. Quando perdi l’identità perdi anche la tua civiltà.»
Sta dicendo che l’Islam vincerà.

«La storia insegna. Mettiamo da parte i fanatismi e le devianze che esso produce e diciamoci la verità: l’Islam sta vincendo la partita.»

Biografia
Vito Mancuso Dottore in Teologia sistematica, ha studiato tra Milano, Napoli e Roma. Nel 1986 è stato ordinato sacerdote nel Duomo
di Milano: l’anno dopo ha chiesto però di essere dispensato. Oggi è sposato
e ha due figli. A favore di contraccezione e fecondazione assistita, non accetta alcuni dogmi cattolici: l’origine dell’anima,
il peccato originale 
e la dannazione dell’Inferno

«». Internazionale online, 14 aprile 2017 (c.m.c.)

La primavera non è una stagione adatta all’austerità, come cantava l’artista greca Léna Plátonos negli anni ottanta. Malgrado le decisioni della troika, il crollo delle istituzioni democratiche, il ritorno dell’estetica fascista e la progressiva trasformazione dei campi profughi in campi di concentramento, ad Atene torna la primavera, e non è certo una stagione adatta all’austerità.

Il sole non si arrende ai tagli al bilancio pubblico. Gli uccelli non capiscono niente dell’aumento dei tassi d’interesse, della chiusura delle biblioteche e dei musei pubblici, delle centinaia di opere chiuse in cantina e che non saranno più mostrate ai visitatori, dell’incapacità delle strutture sanitarie pubbliche di curare i malati cronici e i sieropositivi, dell’assenza di servizi medici e scolastici per i migranti e così via.

Di tutto questo, né il sole di aprile né gli uccelli del monte Licabetto vogliono sentir parlare. In queste condizioni, cosa significa organizzare ad Atene una mostra che fino a oggi si è sempre tenuta a Kassel, in Germania? Ostinarsi a credere che la primavera non sia una stagione adatta all’austerità e che il sole brilli per tutti. O forse, piegarsi alle nuove condizioni del cambiamento climatico e accettare, come diceva Jean-François Lyotard, che anche il sole invecchi.

Tutte le forme di esclusione

La prima mostra Documenta, organizzata a Kassel nel 1955 da Arnold Bode, aveva come obiettivo quello di mostrare le opere di artisti d’avanguardia, esclusi dal regime nazista. Bode voleva riconfigurare la cultura pubblica europea in un continente devastato dalla guerra. La quattordicesima edizione si svolge con un analogo senso d’urgenza. Siamo in un contesto di guerra economica e politica. Una guerra delle classi dirigenti contro la popolazione mondiale, del capitalismo globale contro la vita, delle nazioni contro i corpi e le innumerevoli minoranze.

La crisi dei mutui subprime del 2008 è servita a giustificare una ristrutturazione politica e morale del capitalismo globale come mai era accaduto dagli anni trenta. La Grecia si è trasformata in un significante dal denso valore politico, che sintetizza tutte le forme d’esclusione prodotte dalla nuova egemonia finanziaria: riduzione dei diritti democratici, criminalizzazione della povertà, rifiuto delle migrazioni, patologizzazione di ogni forma di dissidenza.

Per questo la ricerca che ha preceduto la mostra si è svolta soprattutto a partire da Atene. Per mesi, centinaia di artisti, scrittori e intellettuali che contribuiscono a Documenta 14 sono venuti qui. Ed è per questa ragione che la mostra è stata inaugurata l’8 aprile ad Atene e si sposterà a Kassel solo il 10 giugno. Durante la fase di preparazione nella capitale greca, è stato fondamentale vivere il fallimento democratico rappresentato dal referendum dell’oxi (no) del 5 luglio 2015. Quando il governo greco si è rifiutato di accettare la decisione della cittadinanza, il parlamento è apparso come un’istituzione in rovina, vuoto, incapace di rappresentare il popolo.

Nello stesso momento piazza Sintagma e le vie d’Atene si sono riempite per giorni di voci e di corpi. La strada è diventata il parlamento. Da lì è nata l’idea del programma pubblico di Documenta 14: il Parlamento dei corpi. Dal settembre 2016 abbiamo aperto uno spazio di discussione nel parco Eleftherias, dove artisti, critici, attivisti, ballerini, autori e altre persone si ritrovano per concepire la ricostruzione della sfera pubblica in un contesto di democrazia (e non di economia di mercato) in crisi.

Una delle difficoltà (e delle bellezze) dell’organizzare questa mostra è stata la decisione del suo direttore artistico, Adam Szymczyk, di collaborare in maniera quasi esclusiva con delle istituzioni pubbliche. In tempo di guerra, l’interlocutore non potevano essere né l’establishment, né le gallerie, né il mercato dell’arte. Al contrario, la mostra va intesa come un servizio pubblico, un antidoto all’austerità economica, politica e morale.

Persone non-documentate

Durante una mostra internazionale come Documenta, tutti vogliono conoscere la lista degli artisti con le rispettive nazionalità, la proporzione di greci e tedeschi, di uomini e di donne. Ma chi può dichiararsi oggi cittadino di un paese? Sono lo statuto del “documento” e il suo processo di legittimazione che vengono rimessi in questione. Mentre nella mappa geopolitica si moltiplicano le crepe, entriamo in un’era nella quale il nome e la cittadinanza hanno smesso di essere delle condizioni banali per diventare dei privilegi, nella quale il sesso e il genere hanno smesso di essere delle designazioni evidenti per trasformarsi in stigmate o in manifesti.

Alcuni degli artisti e curatori di questa mostra hanno perso un giorno un nome o ne hanno acquisito un altro al fine di modificare le loro condizioni di sopravvivenza. Altri hanno cambiato più volte il loro status di cittadinanza oppure aspettano che sia concesso loro, o meno, il diritto d’asilo. Come chiamarli, allora? Come considerarli? Come siriani, afgani, ugandesi, canadesi, tedeschi o come semplici numeri su una lista d’attesa? Sono greche o tedesche, le centinaia di artisti greci che emigrano alla ricerca di migliori condizioni di vita a Berlino? E lo stesso vale per le statistiche di uguaglianza tra i sessi. In quale categoria includere le persone trans e intersessuali? Non-documentate.

Documenta 14 si svolge su un terreno epistemologico che si sta sgretolando. Il sacrificio economico e politico al quale è sottoposta dal 2008 la Grecia non è altro che il prologo a un più ampio processo di distruzione della democrazia, che si estende a tutta l’Europa.

Da quando abbiamo cominciato a preparare questa edizione di Documenta, nel 2014, siamo stati testimoni di questa progressiva demolizione che impregna ormai tutte le istituzioni culturali: il rifiuto dei rifugiati, il conflitto militare in Ucraina, il ripiegamento identitario dei paesi europei, la svolta ultraconservatrice dell’Ungheria, della Polonia, della Turchia, ma anche l’elezione di Trump, la Brexit e via dicendo.

Il pianeta sta dando vita a un dispositivo di “controriforma” che cerca di ristabilire la supremazia bianca maschile e di disfare le conquiste democratiche che i movimenti operai, anticoloniali, indigeni, femministi e simili erano riusciti a ottenere nel corso degli ultimi due secoli.

Una modalità inedita di neoliberismo e neonazionalismo disegna nuove frontiere e costruisce nuovi muri. In queste condizioni la mostra, nei suoi diversi modi di costruire uno spazio pubblico di visibilità e di enunciazione, deve diventare una piattaforma d’attivismo culturale. Un processo nomade di cooperazione collettiva, senza identità e senza nazionalità. Kassel travestita da Atene. Atene che muta in Kassel.

Le condizioni di vita dei sans papiers e dei senza terra, degli spostamenti progressivi, delle migrazioni e della traduzione ci obbligano a superare la narrazione etnocentrica della storia occidentale contemporanea e ad aprire nuove forme di azione democratica. Documenta è in transito. Ispirandosi a metodi della pedagogia sperimentale, decoloniale, femminista e queer, che rimettono in discussione le condizioni nelle quali alcuni soggetti politici si rendono visibili, questa mostra si afferma come apolide, con un doppio significato: interroga il legame con la patria, ma anche con la genealogia coloniale e patriarcale che ha costruito il museo dell’occidente, e che oggi desidera distruggere l’Europa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

». il manifesto, 14 aprile 2017 (c.m.c.)

La paga arriva puntuale ogni 5 del mese: il presidente dell’associazione di volontariato Avaca entra in biblioteca, prende posto a una delle scrivanie dei dipendenti pubblici – che gli fa spazio: siamo all’ufficio Servizi – ritira gli scontrini dei volontari e consegna a ciascuno di loro un assegno di 400 euro. Per 20 ore alla settimana, solo 15 giorni di ferie all’anno, niente malattia, maternità, contributi e copertura infortuni. Alla Biblioteca nazionale di Roma funziona così: 22 addetti alla catalogazione, ai prestiti, alle sale, ai rapporti con il pubblico non hanno un contratto, ma sono sottoposti a turni e svolgono le stesse mansioni dei 130 dipendenti effettivi. Sono gli «scontrinisti», e il modo in cui vengono sfruttati da un pezzo del nostro Stato urla vendetta.

La biblioteca nazionale dipende dal ministero dei Beni culturali, e fa acqua da tutte le parti. Il servizio agli utenti è costantemente a rischio, e carente, per una mancanza strutturale di organico, tappata alla bell’e meglio dai «volontari»: alcuni di loro lavorano retribuiti a scontrino da 13 anni, altri da sette o cinque, senza che sia mai cambiato nulla. Le recenti denunce – una conferenza stampa della Cgil, un articolo del manifesto, un servizio della trasmissione di Rai 2 Nemo – hanno aperto uno squarcio su una situazione totalmente surreale.

Federica, 32 anni, scontrinista alla Nazionale da cinque, è la lavoratrice che ha scoperchiato il vaso di Pandora della Biblioteca, raccontando la sua storia a una delle prime iniziative pubbliche della Cgil per i referendum su voucher e appalti: «Noi andiamo ben oltre i voucher – spiega – La nostra paga, di massimo 400 euro al mese per 20 ore settimanali, ci viene erogata solo se presentiamo gli scontrini delle spese alimentari degli ultimi 30 giorni. Ogni singolo buono non può superare i 30 euro, e a volte – pur di arrivare ai 400 euro – portiamo anche scontrini dei dipendenti della biblioteca o di nostri familiari. L’associazione Avaca, che ha una convenzione con il ministero dei Beni culturali e che ci retribuisce, annulla qualche scontrino: in questo caso il valore ci viene decurtato il mese successivo. Capita che ci chieda anche di raccogliere più di 400 euro di scontrini: fino a 500 o 600, se li troviamo. Non sappiamo poi cosa se ne facciano».

Federica racconta che i nomi dei volontari vengono inseriti nel piano turni, accanto a quelli dei dipendenti, e che è l’ufficio Servizi della Biblioteca a gestire gli uni e gli altri. «Prima delle recenti denunce pubbliche, capitava spesso che i volontari coprissero da soli intere sale o il magazzino, ma ora stanno sempre attenti ad accoppiarli ad almeno un dipendente. Lo stesso per i fogli firma di entrata e uscita: in passato era segnato anche il nostro turno, dopo gli articoli e i servizi tv è stato rimosso».

Foglio firme che i «volontari» della Biblioteca nazionale hanno dovuto «trafugare», come dei carbonari, per poterlo fotocopiare e avere una prova certificata della loro presenza quotidiana in Biblioteca: «Viene timbrato dalla dirigenza della Nazionale e trattenuto dall’Avaca. Abbiamo richiesto di fare delle copie ma ci è sempre stato negato».

Idem per lo statuto e gli altri documenti relativi all’associazione, che i volontari scontrinisti non riescono ad avere dal presidente: «Stiamo cercando di accedere attraverso le registrazioni pubbliche. Non abbiamo un contratto individuale, solo la tessera cartacea di iscrizione: paghiamo 25 euro l’anno. In biblioteca non entriamo con badge magnetici ma con un tesserino cartaceo, evitando i tornelli, come accade per i dipendenti».

Veri e propri «fantasmi», che si fa di tutto per rimuovere, ma tanto utili per coprire i turni dei dipendenti, specie in estate e per le festività. «Abbiamo solo 10-15 giorni di ferie l’anno – ripete Federica – Per Natale e Capodanno massimo due o tre giorni. Tappiamo i buchi, anche la vigilanza ai cancelli. Noi ci siamo sempre». Ma chi li obbliga a fare le quattro ore giornaliere, se sono soltanto dei «volontari»?

«Non ce lo chiede l’associazione, che non si occupa direttamente dei turni e compare solo al momento della paga – conclude la lavoratrice – Ma sì, la Biblioteca fa affidamento sul nostro lavoro e ci inserisce costantemente nei turni. Noi speriamo un giorno di venire regolarizzati, per questo in otto abbiamo avviato una vertenza con la Cgil».

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