loader
menu
© 2025 Eddyburg

. la Repubblica, 23 luglio 2017

In questo torrido e arido mese di luglio, i capi di stato del gruppo di Visegrad — la città ungherese dove nel 1991 si sono riuniti per la prima volta i rappresentanti dei paesi del centro ed est Europa — si sono incontrati a Budapest e hanno indirizzato una lettera-documento in tema di immigrazione al nostro governo. L’Italia, che si trova a presidiare molti chilometri di confini del territorio europeo, si è vista calare per bocca del leader ungherese Viktor Orbán, questo suggerimento che ha l’arroganza del comando: chiudere i porti e accettare le proposte dei paesi frondisti, che prevedono la gestione, con il sostegno dell’Ue, della politica di “protezione” dei confini europei, l’addestramento della guardia costiera libica, e nuovi codici di condotta delle Ong.

Il gruppo di Visegrad si prende una grande libertà di manovra rispetto sia a Bruxelles che a Roma. Al di là dell’insopportabile arroganza di questa lettera, alla quale Gentiloni ha risposto con giusta fermezza, è interessante comprendere il milieu ideologico nel quale è maturata. Una vecchia storia che torna attuale, come del resto le ideologie xenofobe e nazionaliste (per non dire fasciste).
L’Europa sta progressivamente acquistando due facce, riadattando un’antica divisione tra due concezioni della politica e dello spazio politico: una cooperativa e cosmopolita; una etnica e fondata su un’immaginaria identità nazionale pre-politica. Certo, questa distinzione non è così semplice perché ciascuna di esse ha avuto al proprio interno differenze non piccole, per cui anche le visioni cosmopolite si sono fatte strumento di politiche imperialistiche; e infine, nella dimensione nazionale vanno contemplate anche ispirazioni democratiche e repubblicane, come quella che aveva in mente il nostro Mazzini. Non quindi bianco e nero.
Tuttavia, le similitudini di famiglia ci sono; e riusciamo a riconoscere le fisionomie di un percorso di ispirazione cosmopolita e di un percorso nazionalista. Fino alla costruzione dell’Unione europea, quest’ultima è stata predominante e più familiare; quell’altra è restata dal Settecento quasi un sogno di visionari, associata all’illuminismo di Kant; il quale però non era un utopista, e aveva elaborato una teoria realistica su come fosse possibile coniugare pace e libertà: la nascita di governi costituzionali e di una politica limitata dai diritti (tra cui quello di uscire dal proprio paese e quindi di entrare in un altro) avrebbe mostrato l’utilità della pace anche a coloro che ragionavano solo per interessi e non per principi.
I trattati che da quello di Roma del 1957 si sono succeduti, hanno fatto dell’Europa un terreno di sperimentazione giuridica e politica della pace perpetua: i contraenti di quei patti hanno accettato di tenere i loro confini porosi, aperti ai beni e alle persone, distinguendo tra il principio della libertà di movimento e di lavoro dei cittadini dei paesi europei e il principio di accoglienza (che è principio di rispetto e aiuto non di inclusione politica) degli stranieri. Il patto di cooperazione, e poi via via di unione, ha cercato di tenere insieme questi due principi secondo criteri di convenienza e di umanità.
La condizione perché il compromesso tra interessi e principi regga nel tempo è che tutti coloro che accettano di sottoscrivere i trattati ne rispettino le ragioni e le norme. La condizione è che interessi e principi si limitino a vicenda, senza lasciare campo esclusivo a nessuno dei due, perché se il dispotismo della virtù distrugge la libertà, il dispotismo dell’interesse distrugge la cooperazione. Questo dosaggio è la condizione per la persistenza del patto tra interessi nazionali diversi e Paesi intenzionati a cooperare. La soluzione del problema europeo (che è il rischio di conflitti e guerre) si è mostrata possibile, e non utopistica, a questa condizione. Tale è il paradigma dell’Unione europea.
La divaricazione tra le due traiettorie che sta avvenendo sotto i nostri occhi, se non contrastata, può avere la forza di rovesciare la soluzione al problema europeo e di riportare al centro gli interessi nazionali come interessi divergenti e poco collaborativi. L’Europa degli ex imperi centrali e dell’ex impero comunista, di cui il populista Orbán si è fatto leader, è protagonista del risveglio della politica del filo spinato. Ma attenzione, non si tratta di una soluzione che mira a riportare le lancette dell’orologio a prima del 1957: questo nazionalismo populista è nato nell’Unione europea e si propone come una visione dell’Ue, alternativa a quella che aveva ispirato i fondatori.

Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia

I nuovi nazionalisti non sono così anacronistici da rivendicare nazioni isolazioniste. E per questo, Orbán, il primo leader di una democrazia populista sul territorio europeo, si candida a paladino dell’Europa: i confini dell’Ungheria sono, lo ha più volte detto, i sacri confini dell’Europa cristiana.

Così la pensano anche la Polonia e l’Austria, il paese che ha visto, trent’anni fa, il primo partito di destra xenofoba adottare una strategia populista per conquistare consensi e penetrare l’opinione pubblica. La lunga strada verso l’Europa nazionalista è cominciata proprio allora, insieme alla fine della Guerra fredda. Quella di oggi non è una scaramuccia orchestrata da alcuni leader scalpitanti, ma il segno di una sterzata verso una visione del continente che ha l’ambizione di essere nazionalista e xenofoba. In questa contingenza populista, l’Italia si trova a difendere i confini di un modello di Europa contro un altro, non semplicemente del territorio nazionale ed europeo.
Ridurre le tasse e appiattirle non significa solo tradire il principio costituzionale della proporzionalità tra reddito e contributo alla spesa pubblica, ma provocherebbe riduzione della spesa sociale e indebolimento del potere pubblico di influire sulla direzione degli investimenti.

il manifesto, 22 luglio 2017

In barba a tutte le nuovistiche pretese rottamatrici, ormai è chiaro che nella politica italiana a difettare sono proprio i progetti e che la prossima campagna elettorale sarà dominata da una idea vecchia come il cucco, quale il mantra della riduzione indiscriminata delle tasse.

Riproposto nelle forme più demagogiche anche sotto le vesti di ricorso alla flat tax, un’idea che nasce dal cuore della destra ma a cui ha occhieggiato lo stesso Renzi. Questo deficit di pensiero e di ideazione è tanto più grave a sinistra, dove esso spiega ciò che altrimenti rimarrebbe inspiegabile: il cinismo con cui da tutte le parti – sia nel Pd di Renzi, sia nei fuoriusciti di Mdp, sia nella sinistra estrema – si rinunzia a costruire una coalizione larga di centrosinistra e si punta solo a strappare qualche voto all’immediato vicino dando per scontato che le elezioni siano già perse, bastonandosi di santa ragione tra più affini invece di combattere soprattutto sul piano ideale e programmatico la destra e il movimento 5Stelle (non a caso sostenente una bandiera – il «reddito di cittadinanza», che è un sussidio flat – speculare a quella della destra).

Eppure non è in alcun modo sottovalutabile la pericolosità di una proposta come la flat tax, nell’ipotesi dell’Istituto Bruno Leoni un’aliquota unica del 25% per Irpef, Ires, Iva, sostitutive ecc, associata a un trasferimento monetario agli incapienti. Perseguire una simile ipotesi porta a due esiti entrambi estremamente negativi. Il primo è una drammatica alterazione della distribuzione del reddito, già tanto disegualitaria e squilibrata, a ulteriore favore dei ricchi e a danno dei ceti medi: Baldini e Giannini su Info La voce segnalano che una coppia di dipendenti del Nord con due figli con 40 mila euro di reddito guadagnerebbe 268 euro, mentre la stessa famiglia con reddito più che doppio (80 mila) ne guadagnerebbe quasi 9 mila.

Il secondo esito negativo è una perdita di gettito (le entrate pubbliche complessive si ridurrebbero di più di 95 miliardi di euro l’anno, lo spazio di quattro-cinque finanziarie!) di tale entità da restituire attualità al motto starving the beast, «affamare la bestia governativa», sottraendogli le risorse necessarie a finanziare servizi pubblici e prestazioni sociali. Non si deve dimenticare che l’espressione entrò in auge all’epoca di Reagan, quando nella cerchia dei consiglieri repubblicani nessuno credeva che i tagli fiscali del 1981 potessero essere finanziariamente sostenibili (e in effetti non lo furono), ma si consideravano i tagli stessi come mezzi per formare disavanzi tali da affamare il bilancio pubblico, utilizzando l’«affamamento» come leva per abbattere la spesa. Il tutto nella più classica logica ostile all’esercizio della responsabilità collettiva incarnata dalle istituzioni pubbliche: «meno tasse, meno regole, meno stato, più mercato», associando l’idea che la tassazione sia intrinsecamente dannosa alla volontà di ridurre al «minimo» il ruolo degli stati e dei governi (nella proposta dell’Istituto Leoni la perdita di gettito sarebbe finanziata per due terzi con l’abolizione delle prestazioni assistenziali esistenti – assegni familiari, indennità di accompagnamento, integrazione al minimo, pensione sociale, ecc. -, per un terzo con altri tagli di funzioni pubbliche).

Dunque, le critiche che dipingono la flat tax come «ambiziosissima» ma irrealistica o intempestiva, perché troppo costosa, sono assolutamente insufficienti e non colgono nel segno. Perché non è solo questione di promesse demagogiche irrealizzabili, né è solo questione delle risorse mancanti con cui finanziare le politiche di tagli fiscali. In gioco c’è molto di più: queste politiche sono profondamente sbagliate e tali rimarrebbero anche se ci fossero le risorse per realizzarle, sia sotto il profilo redistributivo, sia sotto il profilo dell’impatto ipotizzabile sull’economia e sulla società. In primo luogo per il disorientamento culturale che ne scaturisce: le visioni neoliberiste, di cui è figlia la flat tax, infatti, hanno fatto sì che un dibattito meditato sulla tassazione scomparisse dalla scena pubblica. L’inerzia di una riflessione pubblica sulla tassazione ha prodotto quel fenomeno generalizzato per cui le scelte di politica fiscale non sembrano più appartenere alla discriminante destra/sinistra: da entrambi i lati appare dominante un unico slogan, diminuire le tasse. Così si perde di vista che il significato e il ruolo della tassazione non sono valutabili in se stessi, ma si commisurano anche e soprattutto al livello e alla qualità dei servizi di cui una società desidera disporre, i quali a loro volta, esprimono la qualità e la natura dei «beni collettivi» e dei «legami di cittadinanza» propri di quella stessa società.

Poiché, però, il dibattito sul livello e la struttura della tassazione è centrale per il processo democratico, l’accettazione della ridefinizione della questione fiscale nei termini angusti imposti dai conservatori è particolarmente dannosa per le forze di centro-sinistra. Esse, infatti, hanno bisogno per definizione di politiche attive e di offrire servizi di alta qualità e basano la loro forza sull’estensione della cittadinanza e sull’approfondimento dei legami coesivi tra cittadini e dei legami di fiducia tra cittadini e stato, l’indebolimento dei quali è, invece, provocato dalla delegittimazione della tassazione. Se ne vedono le conseguenze, in vari paesi europei, nello scatenamento di populismi che trovano impreparate le forze di sinistra e di centrosinistra.

Queste ultimi confermano la loro vitale necessità di essere e di essere percepite, agli occhi del loro elettorato, al tempo stesso più efficienti, più eque e più capaci di sollecitare il potenziale dinamico e coesivo di una società. In definitiva, Renzi non va criticato per aver conquistato «margini di flessibilità« e voler oggi rimettere in discussione il Fiscal Compact. Va criticato per aver dissipato quei margini di flessibilità (che concretamente vogliono dire finanziamento in deficit) finanziando non spesa in investimenti produttivi ma spesa corrente, fatta di tagli fiscali, decontribuzione, regalie varie. Al contrario, quello che oggi urge è un rovesciamento di lessico, di paradigma culturale, di etica pubblica che sposti il focus – dagli incentivi indiretti, i bonus, i trasferimenti monetari quali sono anche i benefici fiscali – a un grande Piano di investimenti pubblici per un nuovo modello di sviluppo di elevata qualità e ad alta intensità di lavoro, soprattutto per i giovani la cui disoccupazione rimane scandalosamente vicina al 40%.

Benvenuta Legambiente tra gli avversari del Ceta. Ma l'accordo della globalizzazione capitalista monaccia ben più che l'agricoltura: i diritti del lavoro, la salute, la tutela dell'ambiente. La regola che vogliono è: se c'è un conflitto tra un diritto e un maggior profitto è questo che va difeso.

il manifesto, 23 luglio 2017, con riferimenti

Attenzione a sottovalutare la portata politica e le conseguenze dell’approvazione del trattato commerciale tra Canada e Unione Europea, il cosiddetto Ceta, in votazione nei prossimi giorni al Senato.

Lo dimostra, ad esempio, il modo in cui il Pd sta organizzando il voto dei suoi parlamentari, per evitare sorprese, dopo che diversi presidenti regionali, a partire da Zingaretti, Emiliano e Zaia hanno scelto di esprimere pubblicamente il loro dissenso.

Ma lo si può leggere anche dal modo con cui il Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, sta rispondendo alle critiche e provando a rilanciare un dibattito sul tema della globalizzazione e contro l’isolamento e il protezionismo. Secondo il Ministro quanto raggiunto rappresenterebbe un enorme passo avanti in termini di riduzione dei dazi sulle merci scambiate e, in ogni caso, l’essenza di un negoziato sta nel raggiungimento di un compromesso.

Il non detto è però che il compromesso è stato trovato sacrificando sul tavolo negoziale l’agricoltura italiana.

Come per il Ttip – il trattato commerciale «gemello» con gli Stati Uniti, che aveva avuto prima uno stop da parte di Francia e Germania e poi uno definitivo con l’elezione di Trump – per i negoziatori nord americani due condizioni erano pregiudiziali: l’apertura dei mercati europei ai prodotti agricoli nordamericani e la garanzia sugli investimenti delle imprese attraverso arbitrati extragiudiziali. Ha un bel dire Calenda che bisogna fidarsi della controparte, in particolare quando ha il viso rassicurante di Justin Trudeau, e di chi fa la trattativa. Perché è proprio qui l’errore, nell’idea che si possa scambiare l’azzeramento dei dazi di cui beneficeranno le Pmi italiane, di per se positivo, con l’invasione di grano che ha avuto trattamenti intensivi con glifosate, vietato in Italia, di formaggi e salumi dai nomi fintamente italiani, di carni sottoposte a trattamenti con ormoni per l’accrescimento vietati da noi.

Proprio per queste ragioni si può essere contro questo accordo. I prodotti italiani sono infatti apprezzati dal Canada alla Cina per una qualità che ha dietro la forza di un modello economico e di biodiversità, fatto da migliaia di piccole imprese dell’agroalimentare che tutelano le proprie produzioni tipiche e si stanno sempre più riconvertendo al biologico. Non capire questo e rivendicare che 41 Dop italiane (su 289) saranno garantite, è davvero miope.

Anche perché questo trattato crea un precedente in termini di dumping ambientale e indirettamente sociale, oltre che di giurisdizioni speciali per le imprese che potrà essere copiato in tutti i futuri accordi con altri Paesi.

Invece di militarizzare i propri parlamentari, per evitare sorprese nel voto, il Pd dovrebbe riconoscere il grave errore politico che ha commesso nel lasciare la trattativa in mano a Calenda. Il quale, va riconosciuto, ha svolto anche in questo caso benissimo il ruolo di avvocato di Confindustria.

Ma per dirla con le parole di Michael J. Sandel, non tutto è in vendita, ha un prezzo o può essere oggetto di trattativa. Se i nostri amici Canadesi non sono disponibili a rivedere i trattati commerciali per aumentare gli scambi con l’Europa, se non a fronte di concessioni inderogabili, chi fa politica deve saper dire dei no. Ed è anche dallo stop a trattati di questo tipo che può nascere un confronto che guardi al mondo di domani, alle regole per il movimento delle merci ma anche ai diritti delle persone, evitando di dare spago a chi soffia su venti razzisti e isolazionisti.

Riferimenti
Vedi su eddyburg, tra i numerosi articoli dedicati al tema, quelli di Marco Bersani e di Alex Zanotelli

«la Repubblica, 20 luglio 2017 (c.m.c)

L’Italia appare come il secondo Paese più razzista d’Europa. È anche il Paese più islamofobo. Del resto, secondo i dati Istat, il 40% della popolazione ritiene che le religioni “altre” da quella maggioritaria siano un pericolo e che andrebbero contenute, tanto più nel caso della religione musulmana. Del sessismo pervasivo fino alla violenza abbiamo, ahimè, documentazione quasi quotidiana. Un po’ più del 50% degli 11-17enni è oggetto di qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di coetanei almeno una volta al mese.

Non si salvano neppure le persone con disabilità, che non solo devono abituarsi a sentire nominare la propria disabilità come forma di insulto corrente, ma sono anche oggetto di aggressioni e violenze più spesso delle persone normodotate. In particolare, i minori con disabilità corrono un rischio da tre a quattro volte maggiore dei coetanei non disabili di essere trascurati dai genitori, vivere in istituto, subire violenze fisiche o sessuali e di non venir presi in considerazione da servizi e agenzie che si occupano della protezione dei minori.

Tra le violenze che si possono effettuare o subire quelle verbali non vanno sottovalutate. «Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante ». Così scriveva Tullio De Mauro nel piccolo dizionario italiano delle parole dell’odio — parole per ferire — preparato per il rapporto sull’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e i fenomeni d’odio curato dalla Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente della Camera Laura Boldrini.

In una raccomandazione del Consiglio d’Europa il discorso dell’odio è stato definito come l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo. Chiunque può diventare oggetto di questa forma di odio e per i motivi più futili: un insegnante che boccia o dà un brutto voto, un automobilista che non cede il passo, un giovane che guarda la ragazza di un altro, una ministra che fa una riforma scomoda, un personaggio pubblico che esprime un parere da cui si dissente. Ma se si appartiene a particolari gruppi sociali, se si condividono caratteri somatici o culturali minoritari nella società in cui si vive si può essere oggetto di insulto, denigrazione e incitamento all’odio solo per questo, a prescindere da ciò che si è, si è fatto e si fa.

In questi casi il discorso dell’odio si innesta spesso su fenomeni di stereotipizzazione e discriminazione. Per questo la definizione sopra ricordata comprende anche le forme che si giustificano su motivi quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale. È proprio dell’incitamento all’odio per motivi di appartenenza a un gruppo identificato come inferiore, moralmente pericoloso, nemico o semplicemente debole che si occupa il Rapporto della Commissione Jo Cox che viene presentato oggi alla Camera. Esso documenta come essere donne, omosessuali, transessuali, migranti, rom o sinti, islamici, ebrei, portatori di disabilità esponga al rischio di essere non solo discriminati sul lavoro a prescindere dalle proprie competenze, o nell’accesso all’abitazione, ma oggetto di insulti, di accuse, a seconda dei casi, di pericolosità morale o politica, di vere e proprie forme di linciaggio.

Le persone che ne sono vittime spariscono con la loro individualità, storia, esperienza, divenendo parte indistinta di un gruppo negativo e stereotipato. Il linguaggio dell’odio si alimenta, infatti, di superficialità e ignoranza. A esempio, un quarto della popolazione italiana ritiene che i rom e sinti presenti in Italia — il gruppo in assoluto più disprezzato e più discriminato — siano tra uno e due milioni, a fronte di una consistenza effettiva stimata tra 120 e 180 mila. Analogamente si ritiene che siano tutti nomadi, laddove la maggioranza è stanziale.

Queste percezioni sbagliate sono a loro volta rafforzate da una informazione che enfatizza avvenimenti e comportamenti fuori dalla norma e da politiche che si definiscono emergenziali, evocando l’immagine di un fenomeno fuori controllo e potenzialmente catastrofico. È successo con “l’emergenza nomadi” e sta succedendo ora con “l’emergenza migranti”.
Nella società contemporanea, il linguaggio dell’odio non si affida più solo alla comunicazione faccia a faccia o tramite la carta stampata. Trova un potente mezzo di diffusione sui social media, caricandosi di una forza distruttiva troppo spesso fuori controllo. I dati disponibili segnalano che sono le donne le maggiori destinatarie del discorso d’odio online, seguite a distanza da omosessuali e immigrati.

Nelle sue raccomandazioni la Commissione insiste sull’azione di autocontrollo che dovrebbero esercitare i media, non solo rispetto al linguaggio che utilizzano, ma anche rispetto alla qualità della informazione. Lo stesso autocontrollo dovrebbe essere esercitato da chi ha un ruolo pubblico, a cominciare dai politici. Altrettanto, se non più importante è l’opera di formazione che dovrebbe essere messa in atto dalle scuole, per educare al rispetto degli altri nelle loro molteplici diversità e all’uso critico delle informazioni e degli strumenti di comunicazione. Sono necessarie anche norme punitive per chi incita all’odio e al dileggio. Ma senza una azione di prevenzione rischiano di rimanere inefficaci.

o», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche». il manifesto, 20 luglio 2017

Una nuova forza di sinistra potrà nascere se saprà interpretare questo tempo, dimostrando di poter proporre un mutamento reale allo stato di cose presenti. Sarà giudicata – ed eventualmente votata – in ragione della sua capacità di definire un orizzonte ideale. Un orizzonte «sociale», se non «socialista»; «comune» se non «comunista», che si allontani dall’egoismo populista dominante.

Non sarà facile. Anzitutto, perché la paura del nuovo e le incertezze del presente portano molti – anche a sinistra – a limitarsi a resistere, adottando magari strategie di pura sopravvivenza. Ma v’è un’altra ragione che rende complesso impegnarsi per il cambiamento: esso non sarà immediato. Chi pensa di riscrivere la storia dell’ultimo quarantennio in un giorno (magari quello delle prossime elezioni) non potrà che andare incontro all’ennesima delusione.

Meglio attrezzarsi per una lunga marcia.

È questa la ragione per la quale dovremmo misurarci sulle cose, sulle idee, sulle prospettive e non invece sulle persone, sulle liste, sulle biografie personali. Ciò di cui abbiamo bisogno è un «pensiero lungo», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche.

La discussione non è iniziata bene. Il processo di definizione di una (nuova) soggettività politica mi sembra eccessivamente condizionato dai rapporti e dagli equilibri di vertice. Dei tanti piccoli vertici cui è divisa la galassia frantumata della sinistra.

Temo che limitandoci ad unire sigle e persone non andremo molto lontano. Anzi, alla fine non uniremo un bel nulla: le divisioni del passato, le incomprensioni del presente lo impediranno. Dovremmo prenderci tutti un impegno: non parliamo più di persone, ma solo di idee. Chiediamo a tutti di confrontarsi su queste, quale che sia il loro passato, per verificare se c’è un possibile futuro in comune.

Non si parte da zero. Intanto perché la storia della sinistra è certamente in una fase di confusione, ma ha anche radici profonde. Se la politica sembra aver abbandonato le ragioni della sinistra, non per questo i principi di eguaglianza, libertà e fraternità che l’innervano sono svaniti. Non basta, ovviamente, il richiamo ai grandi valori, è necessario riuscire a declinarli, renderli proposta politica concreta.

In quest’opera di traduzione di nostri ideali in un programma d’azione collettivo è alla realtà della storia che bisogna guardare. Alla Costituzione repubblicana, innanzitutto. Non certo perché la nostra «parte» (la sinistra) si possa appropriare del «tutto» (la Costituzione), ma per la semplice ragione che è dalla costituzione che si può ripartire per invertire la rotta.

Lo dimostra il recente passato. Vi sono stati due fatti di assoluto rilievo costituzionale che hanno segnalato la necessità del mutamento.

Da un lato, il rifiuto popolare della riforma costituzionale proposta del governo, dall’altro la doppia pronuncia dei giudici della Consulta sull’incostituzionalità delle leggi elettorali. Una scossa tellurica, che ha prodotto due vistose crepe nell’assetto consolidato dei poteri.

Lacerazioni che in molti – anche a sinistra – vorrebbero rapidamente ricomporre, per poi riprendere la stessa strada che ci ha condotto sin qui, eliminando solo gli eccessi che hanno determinato l’incidente di percorso. Così, gli inviti a non abbandonare il modello di democrazia maggioritaria si sprecano.

Un nuovo soggetto politico di sinistra dovrebbe, invece, assumere come prioritario il compito di dare seguito coerente alla rottura, cambiando finalmente strada, promuovendo un diverso modello di democrazia costituzionale.

Se, dunque, è la democrazia la vera posta in gioco (la sua qualità, la materialità delle sue forme istituzionali e sociali) non ci si potrà limitare a definire contenuti minimi o di sola convenienza elettorale, miope saprebbe guardare ai pur legittimi interessi delle attuali forze politiche organizzate. Bisogna essere più ambiziosi e operare in base ai valori, scegliere la direzione e poi cominciare a risalire la corrente.

Ma quale sarebbe in concreto il modello di democrazia attorno al quale costruire la soggettività della sinistra politica in Italia? Tre espressioni la potrebbero qualificare: «pluralismo», «partecipazione», «diritti fondamentali».

È il pluralismo che legittima la rivendicazione di un sistema elettorale tendenzialmente proporzionale, non invece una discussione basata sul calcolo di convenienza delle diverse forze politiche. È la partecipazione che impone di ripensare le forme dell’associazionismo politico e sociale, abbandonando le incomprensibili lotte personali che stanno dilaniando i partiti attuali.

Sono, infine, i diritti fondamentali che ci indicano da che parte stare: da quella di chi ne è privo. Il costituzionalismo democratico moderno nasce per dare un fondamento giuridico alla lotta per l’emancipazione dei soggetti storici concreti. La sinistra che è oggi alla ricerca di sé stessa potrebbe ripartire da una coraggiosa politica di salvaguardia dei diritti fondamentali e dalla indicazione dei correlati doveri di solidarietà.

Pensare in grande, tornare ai fondamentali: forse è questa la strada maestra per ritrovare il popolo della sinistra, che, alla fine, potrebbe pure convincersi che valga la pena tornare a votare.

Nel mare delle notizie che, nel loro complesso. spingono al pessimismo, abbiamo scelto due scritti, di diversa natura e radice, di Corrado Lorefice e di Marco Revelli, entrambi ripresi dal

manifesto (16 luglio 2016). Sollecitano entrambiverso la stessa domanda.

Neppure un grido si leva?
Le tragedie dei nostri anni e l’anatema per chi ha il poteree non lo esercita per abbattere la miseria e l’ingiustizia si incontrano, sullepagine del manifesto, nelle parole di un’omelia religiosa e di una cantatalaica, pronunciate la prima da Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, la secondada Marco Revelli, noto saggista e animatore sociale.
Ma una domanda sorge prepotente in chi legge quelle parole econnette quelle tragedie con l’enorme dispendio di risorse materiali e moraliprovocate dalle guerre ormai endemicamente presenti in ogni angolo del pianetae con i conseguenti impegni bellici degli Stati. Come mai non si leva alto ungrido corale contro la guerra, la sua feroce inutilità, la miseria e l’ingiustiziache provoca?
Anche ciò che una volta si chiamava Sinistra tace. Forse lanotte è già calata, e il nuovo giorno non ha la forza di sorgere. (e.s.)
LA DURAOMELIA DEL VESCOVO DI PALERMO
SULL’«ALLEANZA DEI DUE ESODI»
una sintesiredazionale delle parole del vescovo di Palermo Corrado Lorefice
Dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Loreficedurante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti emigrazioni.
«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostrotempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la piùimportante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo diessere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di unastoria gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo digettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischiadi sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani».
«L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storicaterribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare unterritorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le ideee le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso deidecenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senzail sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavorovero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».
E ancora: «Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo ela Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioniplanetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelliafricani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e diopportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghicomuni o le visioni distorte di molta politica.
La molla ultima di questo esodobiblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio digiustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senzagiustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano,mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord– gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possonosfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia– senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio cheaffama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta laguerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (odi disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone chein definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Siciliarappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto idealedell’Occidente».
Poi: «Care Palermitane, Cari Palermitani, sarebbe un graveerrore contrapporre i due esodi, quello dei nostri giovani e quello dei popolidel Sud. Chi ha una responsabilità politica ed è purtroppo miope e ignorantepuò farlo.
Noi no. Noi no.
Pensare che sia l’arrivo di tanti fratelli dal Sud del mondo atogliere il lavoro ai nostri giovani è una totale idiozia. Al contrario:l’esodo epocale dall’Africa attraverso il Mediterraneo è l’appello, esoprattutto l’opportunità che la storia ci offre, per ribaltare il perverso assettodel mondo e della sua economia; per creare nuove possibilità e nuove speranzeproprio grazie all’accoglienza e all’integrazione dei tanti che giungono e chegià oggi sono un polmone del lavoro e dello stato sociale in Italia.
L’alleanza tra i due esodi, e non la contrapposizione, è il veroorizzonte che ci può consentire un passaggio nuovo. I migranti ei giovani in Sicilia non sono reciprocamente nemici, ma sono il popolo delfuturo, il popolo della speranza».
ITALIA,
A CHE PUNTO È LA NOTTE
di Marco Revelli

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slidetombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire laprecedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella suanota annuale sulla Povertà, cidice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nelsuo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) lecose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) ela domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dallatorre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazionedella povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare.Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali:i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze diper sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili»,essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i dueinsiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente,addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, glioperai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o piùfigli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasidieci punti.
Schizzando al 26,8%. NelMezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati»,poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentualepiù del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinneroperaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sonoi working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto dilavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi nonpuò permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa,alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesamensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parteconsistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste»,quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertàassoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) equella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), conbuona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» lapropria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propriamiseria.
Se poi si considera il quadronell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non soloil numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assolutarisulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione èstata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti»sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli«operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta,drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi èritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dovesi può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sulpotere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno allagioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbesembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invecedall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e societàhanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramentidell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significanoaffatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante dellacondizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzodelle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono ineffetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà edelle condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di unparadigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce laricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto allafinanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui ilPil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in terminisociali).
Forse nel 2019 (forse!)ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo unpo’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questocircolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitivafine della notte.

Qualche giorno fa ho postillato un articolo di Enzo Scandurra dal titolo C'è vita a sinistra serve una lista contro i malati di realismo esprimendo il mio dissenso e riservandomi di argomentarlo. Ho impiegato qualche giorno più del previsto, e ringrazio Enzo per avermi stimolato a tentar di disporre con un po' di sistematicità cose cui riflettevo da tempo.

Credo che la chiave del dissenso sia nella parola ”sinistra”. Mi riferisco a quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, , migrazioni, disoccupazione.

1. Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento, riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, a tutelare i principi della Rivoluzione liberale laddove essi consentivano di accrescere il peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.

Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni della Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermato come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il ”comunismo”). Esso tuttavia non aveva rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel suo “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba).

In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì la sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.

Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciasse l’umanità: la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.

Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa. Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”.

2. Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure lo aveva subìto senza comprenderlo né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalismo” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).

Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamento e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperialismo fase suprema del capitalismo).

E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale). Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.

La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).

Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha accettato slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.

Ha potuto svilupparsi così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile”. Il compromesso operato dalla Commissione Bruntland, ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da parte ditutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della "vecchia sinistra" : il Neoliberalismo.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla sinistra nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là del solo sfruttamento economico.

Era divenuto potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. Come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo.

Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione


Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.

Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale, libro Primo, sezione III). E ancora: «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).

Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico. So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare)?

L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.

Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione in compagnia dei protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.

Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Ma è 'unica coerente con la mia visione delle cose.

Così come, del resto, sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che, nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita. Nella speranza che sia l’ultima volta.
14 luglio 2017 (correzioni formali 4 agosto 2017)

il manifesto, 14 luglio 2017 (c.m.c.)

I recenti dati diffusi dall’Istat sulla crescita della disoccupazione e della precarietà, specialmente fra i giovani, chiariscono come la deregolamentazione del mercato del lavoro, che imperversa da vent’anni, ha prodotto i risultati devastanti a cui assistiamo.

Già durante i “ruggenti” anni Ottanta si era tentato intaccare le tutele dei lavoratori introdotte negli anni precedenti, ma con scarsi risultati. Si dovette aspettare il crollo del comunismo, il Trattato di Maastricht e il nuovo vento liberista degli anni Novanta per giungere a risultati concreti. Il pacchetto Treu (legge 196 del 1997), che compie ora vent’anni, costituì una svolta decisiva verso la flessibilità contrattuale: il provvedimento introdusse infatti la possibilità di utilizzare il rapporto di lavoro interinale, ampliando notevolmente i margini di applicabilità del lavoro a tempo determinato.

Alla fine degli anni Novanta il dilagare di forme di lavoro subordinato mascherate da contratti di collaborazione portò alla necessità di un’ulteriore regolamentazione normativa, la legge Biagi. Da un lato delimitò l’ambito di applicazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, dall’altro allargò ulteriormente le tipologie contrattuali «atipiche». I livelli di protezione normativa del lavoro, secondo la misura che ne dà l’Ocse, si sono via via ridotti negli anni più recenti, a seguito dell’introduzione di ulteriori livelli di flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro.

Dapprima la riforma Fornero (la legge 92 del 2012) ha ridotto la possibilità di reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Da ultimo il Jobs act varato dal governo Renzi ha previsto sia una maggiore libertà nell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato, sia l’abolizione di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

I provvedimenti renziani sono il triste epilogo di una storia ventennale, segnata sia da un progressivo indebolimento della classe lavoratrice, sia, non casualmente, da una generale penalizzazione dei salari. I limiti e le contraddizioni dell’ultima stagione che abbiamo vissuto emergono con maggiore chiarezza se tentiamo un confronto con le vicende degli anni Sessanta e Settanta, quando l’allargamento dei diritti (che per il capitale sono solo “rigidità”) andava di pari passo con la crescita economica e la bassa disoccupazione.

Molti dei principi costituzionali in tema di protezione del lavoro e parità fra i sessi trovarono per la prima volta applicazione, in un contesto di espansione del reddito, stabilità dei livelli generali di occupazione e in particolare, a partire dal 1973, di crescita dell’occupazione femminile. Non mancarono certo le criticità, specialmente per i giovani e le donne, ma è anche vero che in quegli anni il tasso di disoccupazione maschile si mantenne sempre inferiore al 5%. La vivace stagione di riforme di quegli anni si aprì con la legge 1369 del 1960, che vietava l’intermediazione nelle prestazioni di lavoro. Seguì nel 1962 la legge 230, la quale fissava vincoli stringenti per la stipula di contratti a termine, stabilendo la centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La legge 7 del 1963 vietò il licenziamento per matrimonio, una pratica molto diffusa che costituiva un fattore discriminante nei confronti delle donne. La legge 604 del 1966 riconobbe il principio della giusta causa nei licenziamenti individuali, anticipando quanto stabilito dallo Statuto dei lavoratori del 1970. Dopo anni di lotte, nel 1969 si arrivò anche all’abolizione delle «gabbie salariali», i differenziali retributivi per area geografica introdotti nel 1945.

Nel 1975 i sindacati ottennero poi il totale adeguamento dei salari all’inflazione, una riduzione della differenza retributiva fra categorie e un’estensione della Cassa integrazione come ammortizzatore sociale dei licenziamenti. Nel 1977 si giunse infine a una legge che stabilì la parità fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e nella retribuzione. Un’altra epoca, si dirà. Ma lo studio del passato serve proprio a questo: a offrire termini di confronto, a dimostrare che altri scenari sono sempre possibili e a confutare i dogmi che le classi dominanti ci impongono. Come la presunta necessità di barattare i diritti in cambio dell’occupazione e del benessere economico.

«Iil manifesto, 13 luglio 2017

La leadership mediatica di Giuliano Pisapia sul progetto di (centro)sinistra prossimo venturo sta stretto alla sinistra del teatro Brancaccio che non nasconde le sue critiche. In un incontro organizzato ieri al Senato dall’associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars), presieduta da Aldo Tortorella e Vincenzo Vita, i nodi sono venuti al pettine a cominciare con l’intervento di Anna Falcone, autrice dell’appello del Brancaccio con Tomaso Montanari: «Si sta creando un dibattito che si occupa del proprio ombelico con una discussione sulle alleanze e sulla leadership – ha detto – Al Brancaccio non abbiamo delimitato un’area chiusa della società civile contro la politica ma abbiamo parlato di una politica al servizio dei cittadini. Il nostro invito al dialogo viene rigettato giorno dopo giorno. Inizio a pensare che chi non vuole discutere non ha nulla da proporre. In queste condizioni si rischia di fare un accordicchio, non una lista unitaria e una sinistra seria con un programma credibile». Pur senza nominarlo, il riferimento polemico di Falcone era Pisapia.

A Arturo Scotto, ex Sel ora in Mdp, è toccato il compito di ribadire la centralità di Pisapia nel progetto del (centro)sinistra: «È necessario costruire una sinistra che ricostruisca il campo largo del centro-sinistra senza veti a destra e a sinistra, oltre il sì e il no» ha detto, probabilmente riferendosi al fatto che Pisapia ha votato «Sì» al referendum del 4 dicembre, mentre tutta la sinistra ha votato «No» e su questo intende dare battaglia in chiave anti-Renzi e anti-Pd. «È probabile che la sua sia solo una dimensione mediatica, e che fuori non esistiamo – ha continuato Scotto – Ma bisogna fare i conti con Pisapia: esiste e determina fatti politici».

Per Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana questa prospettiva ineluttabile non è accettabile. Dopo il forum al Manifesto, Maurizio Acerbo lo ha ribadito nella discussione di ieri all’Ars che invitava a riflettere sull’«unità della sinistra»: «Falcone e Montanari hanno chiesto ai partiti di fare un passo indietro per costruire una lista di sinistra. Noi e anche Sinistra Italiana ci stiamo – sostiene il segretario di Rifondazione – Mdp dice che vuole fare il centrosinistra che è un’altra cosa. Se l’appello del Brancaccio fosse stato accolto non ci troveremmo in questa impasse, la loro risposta è stata piazza SS. Apostoli. Insisteremo per creare un’unità, ma arriverà un momento in cui il tempo si fermerà e si dovranno prendere delle decisioni».

«Non vorrei che per la preoccupazione di evitare divisioni dopo le elezioni si finisca per dividersi prima» ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Il messaggio a Pisapia è chiaro: «Non sono disponibile a seguire come l’intendenza un processo che non trovo convincente. Penso che chi si sente unito più al Pd che a noi, come ha detto Pisapia di recente, ponga un problema politico gigantesco. Dopo l’«aiutiamoli a casa loro» che Renzi ha detto sui migranti non può dirlo. Le leadership e soprattutto i programmi si costruiscono insieme».

«È in corso una battaglia politica sul senso di questa lista – hanno detto Massimo Torelli e Alfonso Gianni (Altra Europa) – Bisogna spingere al confronto sui territori per capire chi esiste e chi no in questa partita». «Su cosa chiederemo il voto? Sul fatto che siamo uniti? Non è sufficiente – ha concluso Bia Sarasini (Altra Europa) – Un progetto politico deve farsi carico della vita materiale delle persone e da questo trovare un accordo su una lista elettorale».

«C'è vita a sinistra. Breve storia del «centro» e dei suoi compromessi più o meno storici (dal Pci al Pd). Ma oggi, nel tempo di papa Francesco, esiste ancora nel paese una questione cattolica?»

il manifesto, 12 luglio 2017 con postilla

Vale a dire la questione se la nuova creatura deve subito incorporare nel proprio orizzonte l’alleanza strategica con un centro moderato, o se debba invece puntare a definire, sulla base di un programma concordato, una nuova e unitaria identità. Vorrei limitarmi a guardare alla questione con un supplemento di considerazioni storiche.

La prima è che in Italia ha a lungo dominato la vita pubblica una “questione cattolica”. Il cosiddetto centro si identificava con la Dc, con le organizzazioni sindacali e associative collaterali della Chiesa. Con la natura di questo “centro” il Pci, ha avuto un rapporto duplice: di antagonismo aperto nel Paese, di sintesi e mediazione riformatrice nel Parlamento. E’ stato questo il reale e vincente “compromesso storico” che ha consentito l’accesso dei bisogni popolari nello stato italiano e la modernizzazione del Paese. E per quasi tre decenni: dalla fine degli anni ’40 alla seconda metà degli anni ’70.

E’ stato invece il compromesso storico di Berlinguer ad avviare la confusione delle fisionomie delle forze politiche, a disinnescare il motore del conflitto, a togliere al sistema politico italiano quel dinamismo eterodosso, diverso dagli altri paesi sviluppati, che lo aveva contrassegnato fin lì.

Mi spingo a dire che il dilagare della corruzione nella vita italiana, denunciata da Berlinguer nei primi anni ’80, e periodicamente ripresa dalla stampa, trova un nuovo alimento proprio negli effetti che la politica del compromesso storico ha a livello locale. Il controllo antagonistico del Pci nella vita amministrativa viene meno e dilagano gli accordi…

La questione del centro ritorna imperiosamente con Veltroni e il Pd. Il disegno è ambizioso. Si vuole non solo immettere le forze politiche cattoliche entro un organismo unitario, ma modellare l’intero sistema politico sullo schema bipartitico delle vecchie democrazie anglo-americane. Quest’ultimo pare un progetto modernizzatore, ed è invece un tentativo velleitario e tardivo.

Il sistema bipartitico è ormai in una crisi conclamata tanto nel Regno Unito che negli Usa. I due partiti, progressisti e conservatori, conducono entrambi, nella sostanza, la stessa politica e generano una diserzione sempre più larga degli elettori dal voto. L’intrusione dell’economia e della finanza nella vita dei partiti tende a unificarne le strategie e la condotta, anche perché le campagne elettorali sono sempre più costose.

Nel paese di Gianbattista Vico l’idea di fondare una nuova storia delle culture politiche italiane, eliminandone alcune, e puntando su una loro semplificazione per via giuridico- istituzionale non ha avuto successo. Le culture politiche sono pezzi di storia della società a cui non si possono imporre schemi organizzativi pensati a tavolino. Ma il Pd non ha successo perché ripete ed anzi fa radicalmente suo lo schema del compromesso storico: immette nel suo seno l’avversario-potenziale-alleato. E questo ha due conseguenze su cui devono riflettere coloro che oggi pensano al centro sinistra avant tout. La prima è che diventa sempre più difficile e macchinosa la mediazione politica interna. Qualcuno si ricorda che cosa accadeva nel Pd quando si trattava di decidere sui diritti civili, sui temi di bioetica? Scontri e conflitti interni si tacevano solo grazie alla paralisi generale.

La seconda ragione è strategicamente più rilevante. La fusione tra forze diverse ha annacquato le reciproche alterità e ha tolto alla sinistra la forza motrice del conflitto. Se fai sbiadire la tua storia, mortifichi i principi su cui si sono formati generazioni di militanti ed elettori, non hai poi la forza di imporre all’avversario-alleato il compromesso più avanzato. Il riformismo che ne deriva è inefficace, mortifica gli interessi popolari, crea delusione, allontana militanti e cittadini dalla vita politica.

Ma oggi, come si configura il centro? Esiste ancora una questione cattolica? Anche con il pontificato di papa Francesco? Inutile chiederlo ai partiti che passano da una competizione elettorale all’altra e vivono alla giornata.

In realtà sappiamo pochissimo, oggi, sia sul piano sociale che culturale, di questo fantomatico centro.

Forse sappiamo qualcosa di più su che cosa dovrebbe essere la sinistra. E non ci sono dubbi che ad essa il suo popolo disperso e deluso, ma anche un paio di generazioni di giovani disperati, chiedono una politica radicale, di redistribuzione della ricchezza del Paese, di investimenti pubblici, di difesa del territorio, di potenziamento degli istituti della formazione e della ricerca.

Ce lo confermano i relativi successi di Sanders e Corbyn, della sinistra in Portogallo, quello di Podemos e perfino quello di Syriza nella sinistra greca, schiacciato poi dall’arroganza delle potenze finanziarie europee.

Una politica radicale (spunti concreti in questo senso si sono sentiti anche in bocca a Bersani a Santi Apostoli) è quella che può ambire a un successo elettorale a due cifre. Privilegiare le alleanze rispetto al programma probabilmente non scongiurerà la sconfitta elettorale – assillo troppo esclusivo di tanti attori in campo – e farà fallire il progetto di più lunga lena dell’unità della sinistra.

postilla
Bevilacqua confonde due diversi momenti della proposta politica di Enrico Berlinguer. Quello del "compromesso storico", che tutto era ma non un accordo con la Dc (sebbene avesse bisogno di una "spalla "all'interno della Dc, come negli altri settori del variegato mondo cattolico). E il successivo momento della "solidarietà nazionale", nel cui prodursi si aggirarono molti avversari del compromesso storico, interni al Pci, ma anche espressione di interessi stranieri.

Controllo, omologazione, appiattimento, rimbecillimento: se gli organi di informazione perdono la loro indipendenza.

il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017 (p.d.)


Di seguito l’intervento tenuto ieri (martedì 11 luglio) da Barbara Spinelli nel corso di un’audizione su “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”organizzata a Bruxelles dalla Commissione Libertà civili,giustizia e affari interni del Parlamento europeo (LIBE) e presieduta dal presidente LIBE Claude Moraes. Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola in qualità di Relatore del nuovo Rapporto del Parlamento europeo “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”.

Il mio sguardo sulla libertà dei media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella relazione presentata da questa Commissione nel 2013. Mi limiterò a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire.
Primo punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia stessa. Alcuni parlano di "post-verità", e nel mirino ci sono soprattutto internet e i social network. C'è una buona dose di malafede in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e interattivo di informazione, che tende a condannare all'irrilevanza i giornali mainstream. Di qui un'offensiva contro questo strumento, e una serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo, imbrigliarlo. L'offensiva ricorda per molti versi la reazione all'invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le proprie degenerazioni. Per molti versi è un'offensiva che ricorda la polemica ottocentesca contro il suffragio universale: "troppa democrazia uccide la democrazia". Quand'anche alcuni di questi timori fossero giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti sospetti o screditati.
Secondo punto: l'estendersi di alcuni fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze della politica e di grandi concentrazioni di interesse nell'informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di autocensura. Lo studio pubblicato nell'aprile scorso dal Consiglio d'Europa – "Giornalisti sotto pressione" – mette in risalto l'estendersi di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera l'auto censura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche, editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La vera radice delle fake news come dell'autocensura viene occultata ed è a mio parere il group think, che possiamo descrivere come espressione di un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò questo termine negli anni '50, si tratta di una "filosofia dichiarata e articolata che considera i valori del gruppo" – quale esso sia – " non solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti". La parola è meno moderna di fake news ma più precisa.
Terzo punto, importante nelle democrazie dell'Unione: il cosiddetto dilemma di Copenaghen. I Paesi candidati all'adesione devono rispettare le norme sulla libertà di espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione dei diritti dell'uomo (rispettivamente gli articoli 11 e 10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei media.
Quarto punto:i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente, ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet. Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.
Quinto punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se aumentano l'autocensura e l'interferenza arbitraria nel lavoro di giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori. Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un lavoro dignitoso.
Infine, sesto punto:i rimedi. Abbiamo gli articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi riferisco alla relazione In't Veld, che il Parlamento ha approvato nell'ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici previste dai Trattati come l'articolo 7, chiamato "opzione nucleare" perché applicabile solo all'unanimità e quindi praticamente inutilizzabile.

«Il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’isolamento di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche"».

la Repubblica, 12 luglio 2017 (c.m.c.)

Il fascismo non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria.

Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.

La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.

Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono.

Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.

Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.

Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.

Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.

In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individua-listica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie.

Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.

Una politica di destra, una cultura di destra, un vocabolario di destra. Questo è Renzi. Allora, per qualsivoglia sinistra si voglia vedere o sperare in Italia, Renzi e la sua corte non sono utilizzabili neppure per una politica di "centrosinistra". il

manifesto, 9 luglio 2017

Nella sua cruda parafrasi della slide di Renzi sui migranti da «aiutare a casa loro», Roberto Saviano ha detto una terribile verità: il Pd non solo guarda a destra, e fa politiche di destra. Ma parla con un linguaggio di destra: peggio, è parlato da una cultura di destra.

E d’altra parte: considerare i lavoratori alla stregua di merce (Jobs act), la scuola come un’azienda (Buona Scuola), la cementificazione come l’unico sviluppo possibile (lo Sblocca Italia), il patrimonio culturale come un supermercato (riforme Franceschini), scrivere una riforma costituzionale che intendeva diminuire gli spazi di democrazia e partecipazione, approvare una legge sulla tortura concepita per non punire la tortura di Stato. Cos’è, tutto questo, se non l’attuazione concreta di una cultura di destra?

Ma qua c’è di più.

«Aiutarli a casa loro» non solo è orrendamente ipocrita sul piano dei fatti perché facciamo tutto il contrario: dal mercato italiano delle armi di cui parla Saviano (aiutamoli a spararsi a casa loro) fino alla dolosa incapacità di invertire la marcia di una politica energetica che produce riscaldamento globale, e dunque la desertificazione che contribuisce ad innescare la migrazione di massa.

Ma quello slogan è soprattutto devastante sul piano simbolico e culturale. Perché contraddice radicalmente il principio stesso dello ius soli (una legge di sinistra che non a caso arranca alla fine della legislatura, mentre tutte le riforme di destra che ho elencato sono andate speditissime alla meta) contrapponendo «casa» a «casa».

«Questa è casa nostra», intende dire Matteo Renzi: e «padroni in casa nostra» è uno degli slogan più diffusi non solo nel vocabolario della Lega di Salvini (come si è ampiamente notato in queste ore), ma anche in quello delle peggiori destre xenofobe dell’est europeo. E se dobbiamo aiutarli a «casa loro» è perché ci rimangano; e perché questa «casa» rimanga nostra: senza confusioni, incontri, meticciato. Ognuno a casa propria.

Qua non si tratta di politiche: si tratta di visione del mondo, di concezione del futuro. O meglio di una non-visione del mondo, di una non-concezione del futuro: della scelta disperata di chiudere rabbiosamente gli occhi di fronte a una realtà ineludibile che non si riesce ad accettare. Perché non ci sono, né ci potranno mai più essere, «case» recintate, nostre, esclusive.

E invece quel «noi» opposto a quel «loro» è la chiave del discorso con cui Renzi parla alla pancia del Paese usando la lingua e la cultura di Salvini.

Ora, come si fa a trovare un terreno comune con questo modo di pensare, con questa mentalità, vorrei dire con questa antropologia? In queste condizioni come si fa a continuare a parlare di «centrosinistra»?

Se le parole hanno un senso, oggi in Italia l’unico «centro» con cui comporre un «centrosinistra» è questo Pd che ha rieletto trionfalmente Renzi, il quale è portatore della cultura che abbiamo appena descritto. Una cultura di destra.

Il fatto che il Pd faccia politiche di destra e sia intriso di una cultura di destra non basta per dire, come invece ho detto aprendo l’assemblea del Brancaccio, che il Pd sia da considerare un partito di destra? Può darsi: ma certo non è nemmeno più un «centro» con cui poter costruire un centrosinistra che non sia solo una macchina per il potere, una scala per raggiungere il governo inteso come fine ultimo. Se ce ne fosse stato ancora bisogno, la slide sull’«aiutiamoli a casa loro» dimostra che in questo tempo la casa politica del Pd non può essere la stessa di una sinistra, comunque la si voglia intendere.

C’è una via alternativa: più lunga, più erta e certo non capace di portare subito al governo. È quella che si potrebbe imboccare se ciò che esiste a sinistra del Pd sarà capace di unirsi, e di parlare un linguaggio tanto diverso e credibile da coinvolgere molti di coloro che non votano più. E che non votano perché pensano che una sinistra che pur di tornare al governo è disposta ad allearsi con chi pensa e parla come Salvini non potrà mai costruire eguaglianza e inclusione.

la Repubblica, 9 luglio 2017 (i.b.)

Chioggia - Il cartello all'ingresso del parcheggio parla subito chiaro. "Zona antidemocratica e a regime. Non rompete i c...". Ma è niente rispetto a quello che si vedrà e si sentirà più avanti, sotto gli ombrelloni, tra "camere a gas", inni al Duce e al regime fascista, scritte sessiste. Lungo il sentiero di traversine in legno che porta verso la spiaggia altri cartelli avvisano i bagnanti: "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità"; "difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!"; "servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". Poi - prima della frase di Ezra Pound ("Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui") - un'insegna indica i servizi igienici: "Questi sono i gabinetti per lui, per lei, per lesbiche e gay".

Benvenuti alla "Playa Punta Canna" di Chioggia, lido balneare da 650 lettini tra le ultime dune di Sottomarina verso la foce del Brenta. La spiaggia del Duce. Altro che stabilimenti marini ai tempi del Ventennio: in questo vasto pezzo di arenile, se possibile, il fascistissimo titolare Gianni Scarpa, 64 anni, da Mirano, bandana nera e ufficio straboccante di gadget mussoliniani con tanto di cannone che spunta da una finestrella, è riuscito a fare persino meglio. "Qui valgono le mie regole", mette in chiaro. Già.

Intanto questa mattina - dopo la denuncia di Repubblica - sulla spiaggia fascista sono arrivati agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi. Ma torniamo alle "regole". La polizia ha acquisito gli audio e le foto pubblicate da Repubblica.

All'inizio il "comandamento" di "Punta Canna" era "niente bambini e buzzurri" (in effetti di bambini non se ne vedono). Poi per la gioia dei clienti - la maggior parte giovani "di area", palestrati e tatuati anche con simboli runici, aquile, croci celtiche - si è aggiunto molto altro. "La legge della giustizia nasce dalla canna del fucile", ammonisce l'ennesima scritta choc. Di fronte c'è l'angolo doccia col nebulizzatore, protetto da una cinta di canne.

Sta di fronte alla cabina bianca dove il cartello sulla porta dice "camera a gas, vietato entrare". Lo slogan è parte di un crescendo. A destra, prima del bar e lungo il sentiero che porta alla spiaggia, su un pannello di legno è stampata in bella vista la "summa" del lido, il pantheon del proprietario. Sì, insomma: le sue regole. Diversi poster di Benito Mussolini e di saluti romani ("questo è più di un saluto, uno stile di vita"; "questo è il mio saluto, se non ti piace me ne frego"); la foto di un bambino che dice: "Nonno Benito, per un'Italia onesta e pulita torna in vita". Un corollario sfacciatamente nostalgico e apologetico.

Elementi d'arredo alla cui vista i numerosi clienti del lido sono talmente abituati che nessuno - tranne qualche nuovo avventore - ci fa più caso. Il motivo lo capisci appena prendi posto sui lettini (650 di cui 70 coperti da tende bianche tipo gazebo) tutti occupati. Ogni mezz'ora, o comunque quando ne ha voglia, il titolare della spiaggia "intrattiene" i bagnanti alla sua maniera: con delle "comunicazioni" diffuse dagli altoparlanti, dei mini comizi da spiaggia. Che non imbarazzano nessuno perché evidentemente condivisi dai clienti. Inni al regime e insulti alla democrazia ("mi fa schifo"), intemerate contro Papa Francesco ("Lui vuole costruire ponti e non muri? Gliene costruiamo uno noi da Roma a Buenos Aires, così lo rispediamo da dove è venuto"), lotta senza frontiere alla "sporcizia umana del mondo, che è il 50% e qui dentro per fortuna non entra", "tossici da sterminare".

Ieri, sabato pomeriggio, l'imprenditore balneare del "me ne frego" ha dato il meglio di sé sotto il sole delle tre e un quarto. Sentitelo. "Sono molto contento di avere una clientela esemplare. Guardatevi in giro, oggi siete 650, non c'è una cicca, non c'è una salvietta a terra. A me la gente maleducata mi fa schifo...a me la gente sporca mi fa schifo...A me la democrazia mi fa schifo...Io sono totalmente antidemocratico e sono per il regime. Ma non potendolo esercitare fuori da casa mia, lo esercito a casa mia. A casa mia si vive in totale regime... qui è casa mia e di conseguenza si vive a regime". Gianni Scarpa plaude ancora ai suoi clienti esaltandone il comportamento. Poi dalle casse spara un attacco modello Duterte. "Voi sapete che io sono per lo sterminio totale dei tossici (alcuni bagnanti sorridono). Di conseguenza penso che è meglio che girino molto al largo da qui. Chi viene qui sa come la penso io... se vuole viene se vuole non viene e io me ne frego... Perché qui dentro voglio gente educata ".

L'iter della legge e il commento di Luigi Manconi nell'articolo di C. Torrisi e A. Zitelli. In quello di Valerio Onida le ragioni per le quali chi ha tenacemente voluto per trent'anni che anche l'Italia avesse una legge contro la tortura di Stato ha dovuto votare contro. valigiablu.it Corriere della Sera, 6 e 9 luglio 2017


valigiablu.it, 6 luglio 2017
REATO DI TORTURA IN ITALIA

“UN TESTO PROVOCATORIO E INACCETTABILE.
UNA LEGGE TRUFFA”
di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli


Il reato di tortura è legge. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente mercoledì 5 luglio il provvedimento, con il voto favorevole, tra gli altri, di Partito Democratico e Alternativa Popolare. Movimento 5 stelle, Sinistra Italiana e Mdp si sono astenuti, mentre Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno votato contro.
Quella dell'introduzione del reato di tortura in Italia è una storia lunga trent'anni. Il 3 novembre del 1988 con la legge 498 il nostro paese ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti del 1984 (CAT). Il documento delle Nazioni Unite per la prima volta sanciva che ogni Stato aderente avrebbe dovuto prendere «provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari» efficaci per «impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione», nonché provvedere «affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale». Nonostante queste previsioni, in Italia nessuno delle decine di disegni di legge sul tema che si sono susseguiti a partire dal 1989 è riuscito a essere approvato (per molti l'esame non è mai iniziato).
Il 26 giugno scorso è arrivato in quarta lettura alla Camera dei deputati il provvedimento che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il testo è stato presentato nel 2013, ha avuto un iter piuttosto tormentato e ha subito numerose modifiche. A metà maggio c’è stata l’approvazione del Senato (con voto favorevole tra gli altri di Pd e M5S), accompagnata dalle critiche delle associazioni per i diritti umani e dello stesso promotore della prima proposta del disegno di legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, che ha parlato di «stravolgimento» del testo originario.
I richiami e le condanne internazionali all’Italia

La mancanza di un reato specifico nel nostro ordinamento è stata più volte richiamata a livello internazionale. Lo scorso 22 giugno la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia, definendo le sue leggi «inadeguate» a punire e prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell'ordine. La sentenza è stata pronunciata in seguito al ricorso presentato da 42 persone che la notte tra il 20 e il 21 luglio 2001 si trovavano all'interno della scuola Diaz di Genova quando ci fu la violenta irruzione della polizia. Una condanna analoga era stata già emessa dalla Corte di Strasburgo nel 2015, con la decisione sul caso di Arnaldo Cestaro, un manifestante sessantenne all'epoca del G8 del 2001 e anche lui vittima del pestaggio da parte delle forze dell'ordine nella scuola sede del Genova Social Forum. In quell'occasione, la Corte ha ritenuto che «i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia» dovessero essere «qualificati come 'tortura'», ma che Cestaro non avrebbe potuto ottenere giustizia nel proprio paese, poiché non è previsto il reato.
Per questa ragione i giudici hanno stabilito la necessità che l’ordinamento italiano si doti di strumenti giuridici adeguati. Due anni dopo, a marzo di quest'anno, il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha ritenuto insufficienti le misure prese fino a questo momento dall'Italia per dare esecuzione alla sentenza della Corte europea sul caso Cestaro. L'organismo ha notato «con preoccupazione» che «la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani». Nella stessa direzione vanno anche raccomandazioni del Comitato ONU contro la tortura e di quello analogo del Consiglio d’Europa. Anche nelle osservazioni conclusive dell'ultima sessione del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite dello scorso marzo viene espressa apprensione per il fatto che «il reato di tortura non sia stato ancora inserito nel codice penale» italiano. Un passo che secondo il Comitato va fatto «senza ulteriore ritardo».
Il percorso del disegno di legge in Parlamento
Il lungo percorso di questo disegno di legge in Parlamento, dalla sua versione originaria a quella di oggi, è stato caratterizzato da continue modifiche al testo, apportate dalla maggioranza nel corso delle votazioni tra Camera e Senato, con le conseguenti critiche da parte di coloro che, pur favorevoli all’introduzione del reato di tortura, ritenevano che i cambiamenti depotenziassero il testo originario, tanto da rischiare di renderlo inutile.
Cosa prevedeva il testo presentato da Manconi
Nel marzo del 2013, Luigi Manconi, insieme ad altri 2 senatori, presentò un disegno di legge che prevedeva l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Il testo, “elaborato dalle associazioni Antigone e da A Buon Diritto, e fortemente voluta da Amnesty International”, puntava così a colmare la mancanza di questo reato nell’ordinamento giuridico italiano. Il Ddl (composto da quattro articoli) si rifaceva alla definizione di tortura della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984: «(...) qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
Il reato di tortura veniva pertanto riconosciuto come un “delitto proprio” – cioè commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio – e non era quindi inteso come un reato comune. L’articolo 1 prevedeva la reclusione da quattro a dieci anni per il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali” per ottenere informazioni o confessioni, per punirla, intimorirla o per discriminarla. La pena aumentava se c’erano anche lesioni personali e raddoppiava con la morte della persona sottoposta a tortura. Erano previsti inoltre gli stessi anni di reclusione per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri a commettere il fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente”.
Come è poi cambiata la proposta di legge

Il disegno di legge viene approvato con modifiche una prima volta, circa un anno dopo, nel 2014, da parte del Senato. Nel nuovo testo di legge (composto da 6 articoli), il reato di tortura passa da “proprio” a generico, con una pena prevista da 3 a 10 anni. Commettere il fatto da parte di un pubblico ufficiale da elemento costitutivo del reato passa così ad aggravante: con una reclusione in carcere da 5 a 12 anni (da 6 mesi a 3 anni per l’istigazione). Le pene, inoltre, vengono aumentate in caso di lesione personale. Se poi la tortura provoca la morte della vittima, sono previsti 30 anni. Per il colpevole che uccide volontariamente una persona, torturandola, c’è l’ergastolo.
Ad aprile del 2015, il provvedimento arriva per la seconda votazione alla Camera. L’aula lo approva, anche questa volta con modifiche. Oltre a cambiare l’entità delle pene previste (in alcuni casi aumentadole), nel nuovo testo si aggiunge che il reato di tortura si applica – sia nel caso generico, che nell’aggravante commessa da un pubblico ufficiale – se la sofferenza patita dalla vittima è ulteriore “rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Tre mesi dopo la Commissione Giustizia del Senato apporta nuovi cambiamenti al testo. Per configurarsi il reato di tortura le violenze e le minacce devono essere “reiterate” e il colpevole deve aver agito “con crudeltà” e aver cagionato oltre a sofferenze fisiche anche “un verificabile trauma psichico”. Il requisito delle condotte “reiterate” è stato poi cancellato dall’aula del Senato pochi giorni dopo.
Lo scorso 17 maggio, l’aula del Senato approva per la terza volta il provvedimento, circoscrivendo ulteriormente la configurazione del reato (che resta comune). Nel testo viene aggiunto che affinché ci sia tortura, il fatto deve essere commesso mediante “più condotte” o attraverso “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Vengono poi ridotti gli anni di carcere previsti per l’istigazione alla tortura da parte di un pubblico ufficiale (passando da “uno a sei anni” a “sei mesi a tre anni”) e specificato che il fatto deve avvenire con modalità concretamente idonee all’istigazione della tortura. La nuova formulazione del reato è quindi questa: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».
In un dossier del servizio studi della Camera viene specificato che il testo votato al Senato (e ora arrivato alla Camera per la quarta votazione) “dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l'applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”. Una differenza dovuta al fatto che, si legge ancora nel documento, nella Convenzione ONU “la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica”.
Per questo nella Convenzione il reato non può essere comune, ma viene ritenuto “proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere, quindi nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza”.

Chi si oppone al disegno di legge

I continui ritardi e rinvii cui è stato sottoposto il disegno di legge sul reato di tortura dipendono principalmente dall’ostruzionismo di diverse parti politiche, secondo le quali il Ddl sarebbe nocivo per le forze dell'ordine e ne limiterebbe l’operato. Di questa opinione, ad esempio, è il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che a luglio del 2016 – quando era titolare del Viminale – ha di fatto bloccato l'esame della legge, per scongiurare «ogni possibile fraintendimento riguardo l'uso legittimo della forza da parte delle forze dell’ordine». Lo stop è arrivato in seguito a una richiesta congiunta da parte di sigle sindacali di polizia e carabinieri per ottenere modifiche a un testo che avrebbe esposto «tutti gli operatori a denunce strumentali da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti» e rischiato di «legare le mani alle forze dell’ordine».
Lo scorso maggio Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha dichiarato di non aver partecipato al voto sul provvedimento perché preoccupato dell’«uso strumentale» che si potrebbe fare di queste norme; mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha detto che «punire ogni forma di tortura è sacrosanto, ma non è quello che fa il ddl», che avrebbe invece «un solo scopo: intimidire il personale del comparto difesa-sicurezza e impedirgli di lavorare». Su posizioni analoghe anche la Lega Nord (che ha votato contro il provvedimento al Senato e ha promesso battaglia alla Camera): «Idiozie come questa legge espongono le forze dell'ordine al ricatto dei delinquenti», aveva dichiarato nel 2015 il segretario Matteo Salvini partecipando al “No T-Day”, sit in davanti Montecitorio per protestare contro l'introduzione del reato organizzato dal sindacato autonomo di polizia (Sap).

Le critiche al disegno di legge
Il giorno dopo il passaggio al Senato, Luigi Manconi ha scritto sul Manifesto un articolo in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione di astenersi dal voto del Ddl: «Ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa». In effetti, come abbiamo ricostruito, il disegno di legge che il parlamento si appresta ad approvare è molto diverso rispetto a quello depositato quattro anni fa e presenta diversi punti critici. A differenza di quanto previsto dalla Convenzione del 1984, innanzitutto, la tortura non viene configurata come “reato proprio” ma come “delitto comune”, che può essere compiuto da chiunque si trovi a esercitare una qualche forma di «vigilanza, controllo, cura o assistenza».
Questo inquadramento è stato difeso dal relatore di maggioranza della legge, Franco Vazio: «Il reato comune è più ampio, se fosse il contrario mi verrebbe da dire che non sarebbero ricompresi atti di tortura non del pubblico ufficiale. Nel nostro caso, invece, il reato è comune e nel caso in cui venisse compiuto dal pubblico ufficiale subisce un particolare aggravamento di pena. (...) Abbiamo costruito cioè un testo capace di cogliere tutte le sfaccettature».
Secondo Manconi, però, definire la tortura un “reato comune” snatura l'essenza stessa di un delitto che non è «misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola 'legalmente' è cruciale». La tortura, insomma, «nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla. La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba».
Questa posizione è condivisa anche dall'Unione Camere Penali Italiane, secondo cui «l’aver voluto insistere sulla sua qualificazione come reato comune, anziché proprio, prevedendo solo una circostanza aggravante (almeno nell’intento del legislatore) nel caso in cui dei fatti si renda responsabile un soggetto pubblico (bilanciabile con le attenuanti), ha comportato un vero e proprio stravolgimento dell’assetto, per così dire 'naturale' della fattispecie».
Un gruppo di magistrati che si è occupato dei processi per i fatti del G8 di Genova ha scritto una lettera alla presidente della Camera dei deputati, denunciando come la configurazione di “reato comune” possa avere delle conseguenze anche sul raggio d'applicabilità della legge a fatti riconosciuti come tortura in sede europea, come l'irruzione alla scuola Diaz: La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della 'minorata difesa'.
Il Ddl prevede che per essere qualificato come tortura il delitto debba aver causato "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico". Le violenze e minacce, inoltre, devono essere state perpetrate "con crudeltà" e si deve trattare di un atto compiuto attraverso "più condotte" o che comporta un "trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Il campo è poi ulteriormente ristretto, specificando che la legge non è applicabile nel caso "di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti".
Anche questi aspetti, frutto delle modifiche cui è stato sottoposto il disegno di legge, sono stati duramente criticati da Manconi, secondo cui «così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica». Ad esempio, la richiesta di più condotte implica per il senatore che «il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di waterboarding, ndr cioè la simulazione d'annegamento) potrebbe non essere punito»; mentre il fatto che il trauma psichico debba essere verificabile «significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».
La previsione di un “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, secondo il relatore di minoranza del Ddl Vittorio Ferraresi (M5s) «vuol dire tutto e niente» perché, così come per le “più condotte”, «si dovrà vedere la giurisprudenza e si dovrà vedere sia l’interpretazione dei giudici sia poi l’applicazione». Molte volte, ha aggiunto, «in luoghi come le carceri è già impossibile tirare fuori qualche informazione e qualche prova, figuriamoci con questa scritta se si potrà andare a vedere veramente se il trattamento è inumano o se c’è la crudeltà o non c’è. Stiamo parlando veramente di un livello di difficoltà di accertamento di un reato così grave, che lascia il tempo che trova».
Nella lettera alla presidente Boldrini, i magistrati del G8 di Genova lamentano che «se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata applicata la normativa oggi in discussione» non avrebbero potuto chiamare in causa nemmeno l'agire «con crudeltà» previsto dal ddl: «secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali».
Quelle riferite dai magistrati sarebbero però, secondo il relatore Vazio, preoccupazioni eccessive: «Se entriamo nella logica della Diaz - non conosco i fatti e rispetto il parere del pubblico ministero - mi sentirei di dire che quei fatti vi rientrano pienamente. I giornali riferirono di attività di particolare crudeltà che hanno cagionato certamente 'acute sofferenze fisiche'. Ipotizziamo però che non ci siano le caratteristiche. Beh rimangono i reati per i quali si possono punire quelle persone che hanno commesso fatti di violenza, minacce, percosse o arresti illegittimi».
Queste ultime sono proprio le fattispecie che fino a questo momento sono state utilizzate nei processi in mancanza del reato di tortura in episodi come quelli della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto o del carcere di Asti, con il risultato di una pressoché generalizzata impunità, anche per via dei tempi di prescrizione brevi dei reati che sono stati ascritti ai colpevoli. E proprio sul tema della prescrizione del reato, infine, il Ddl non prevede nulla. Nel passaggio alla Camera è stata eliminata la previsione del raddoppio dei termini, nonostante sia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la stessa Convenzione di New York prevedano l'imprescrittibilità per la tortura. Interpellato su questo punto, Vazio ha risposto: «Non stiamo parlando di un reato come la corruzione, che è difficile da scoprire perché colui che ha subito il reato non ha interesse a denunciarlo».
Molto spesso, invece, accade l'esatto contrario. Come spiega l'avvocato Michele Passione, autore di uno dei saggi contenuti nel libro Per uno Stato che non tortura, «l'emersione delle notizie di reato è molto complicata. Perché se una persona è detenuta in un qualunque luogo di privazione della libertà personale, far emergere fintanto che la sua condizione di detenzione permane quello che gli è accaduto è molto complicato. Si ha il timore di essere esposti a ritorsioni, e nel frattempo il tempo scorre. Poi le indagini sono molto complicate perché c'è una protezione che viene fatta attorno a queste vicende per questioni che sono spesso subculturali prima ancora che di altro tipo. E quindi la prescrizione è un approdo molto facile».
Per il senatore Manconi, dunque, l’approvazione di questo Ddl tortura «significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate». Un appello sottoscritto da cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, magistrati e avvocati, ha definito inoltre il Ddl approvato dal Senato una «legge truffa», un «testo provocatorio e inaccettabile». Se la Camera lo approvasse, «l’Italia avrebbe una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti; avremmo cioè una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi», si legge nella petizione firmata, tra gli altri, anche dalle vittime del G8 Arnaldo Cestaro e Lorenzo Guadagnucci, e da Ilaria Cucchi.
Le associazioni per i diritti umani condividono le stesse preoccupazioni. Secondo Amnesty International Italia e Associazione Antigone si tratta di un testo «impresentabile» e «limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura».
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International, in un’intervista a Radio Radicale ha ribadito a fine giugno che la legge non è adeguata, ma ha aggiunto di ritenere «che comunque il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, al silenzio del codice penale sulla tortura, introducendo una legge che non sarà applicabile in tutti i casi ma lo sarà sicuramente in alcuni, rappresenti un piccolo, un piccolissimo passo avanti». Il 16 giugno scorso, il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, a quelli delle relative commissioni Giustizia e a Luigi Manconi, ha sollecitato il Parlamento italiano ad adottare una legge sulla tortura «pienamente conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani». Muižnieks ha ravvisato come alcuni aspetti del Ddl siano «disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura». Per questa ragione il commissario ha espresso «preoccupazione» per il fatto che una tale legislazione possa creare «situazioni in cui episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo pertanto a possibili scappatoie di impunità».

Corriere della Sera, 9 luglio 2017

LA LEGGE SULLA TORTURA

E I VINCOLI DA RISPETTARE
di Valerio Onida

Caro Direttore, è stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni!

Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha «messo in mora» l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che «è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili». E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito «l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura».

Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea?

Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: «Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»: esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze «derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». Dunque si tratta di un tipico «delitto di Stato».

La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a «chiunque», quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio».

Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte «tipiche» da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze).

Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se «il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Perché «più condotte» e non ne basta una? Secondo la Convenzione, è tortura «qualsiasi atto» intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta «un trattamento inumano e degradante», sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» senza però comportare un «trattamento inumano e degradante»? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere «verificabile»? Un atto che cagioni «acute sofferenze psichiche» non è tortura se il trauma psichico non è «verificabile»?

Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali «scappatoie» di impunità.

Si è temuto forse di far apparire una «volontà punitiva» nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una «volontà punitiva» ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità .


APPELLO DEL BRANCACCIO
18 giugno 2017
di Anna Falcone e Tomaso Montanari

La scandalosa realtàdi questo mondo è un’economia che uccide: E’ pensabile trasporre questa veritàin un programma politico coraggioso e innovativo? Noi pensiamo che non ci siaaltra scelta.
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è deciderequale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, macome far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragiledi questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sonoscivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuroe di prospettive.
La parte di tutti coloro che da anni non votano perché noncredono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana:coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario;coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti opensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: ladiseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano surisorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide:queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciateda un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso einnovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primopasso di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloroche vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politiconuovo, in cui il voto delle persone torni a contare.
Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesimalegge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”.Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e ilPartito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche enell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almenonon mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progettocondiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra,aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Unprogetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso èandato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quellaCostituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e nonlimitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita sivinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che ilpunto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classepolitica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politichedi destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni alpotere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: unprogetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioniinnovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e noncontrollato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia,anzi, la continuazione.
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership emetta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o aun reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione.
Un progetto che costruisca il futuro sull’economia dellaconoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, nonsull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonioculturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti iproblemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendoequità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive.
Un simile progetto, e una lista unitaria, non sicostruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto,che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, eche si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico,programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma siagià scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nelpiù importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono egualidavanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, direligione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compitodella Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono ilpieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ilavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art.3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, chevogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma chevogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamocandidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché lecandidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui glischemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, eimmutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – atitolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitatidi cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unicaadeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dalpopolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutticoloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questoprocesso.

«Keynes offre una soluzione per sfruttare le risorse inutilizzate fino a quando la domanda del mercato non si riprende».

Vocidall'estero online, 6 luglio 2017 (c.m.c.)

Pubblichiamo oggi la traduzione di un altro articolo della rivista European House of Cards. Joachim Starbatty dà una lettura keynesiana dell’eurocrisi. Secondo Keynes, per paesi come quelli dell’europeriferia, la soluzione è semplice: stimolare la domanda con spesa governativa e svalutare la moneta per recuperare competitività. Il problema è che questo è impossibile, perché il “core” dell’eurozona li ha legati con un cambio fisso. È il cambio fisso il vero ostacolo alla ripresa economica in Europa. Purtroppo, nonostante questo semplice dato sia sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, continua a essere negato per non turbare il “sogno di un’Unione Europea sempre più stretta”.

La soluzione di J.M. Keynes – un aumento della spesa governativa in grado di stimolare la ripresa economica durante una recessione – viene spesso proposta come soluzione per i paesi troppo indebitati del Sud dell’eurozona. Ma per i paesi della periferia dell’eurozona, questo approccio non rappresenta un cammino credibile verso la ripresa economica.

Nel suo libro epocale La teoria generale dell’occupazione, degli interessi e della moneta (1936) Keynes dimostrò che la capacità produttiva inutilizzata e i lavoratori potrebbero essere rimessi in opera grazie alla spesa del governo. Quello che non discuteva era la competitività, che è al cuore del problema che devono affrontare le economie dei paesi dell’eurozona in crisi. La spesa a deficit deve essere intesa come un ponte: Keynes offre una soluzione per sfruttare le risorse inutilizzate fino a quando la domanda del mercato non si riprende.

Tuttavia, la spesa governativa non produrrà un’efficiente allocazione dei fattori di produzione, quando non ce ne era fin dal principio. In altre parole, non può risolvere il problema della mancanza di competitività economica di base. Inoltre, una spesa pubblica su larga scala richiederebbe altro debito pubblico, che per molti paesi sarebbe insostenibile. Nella Teoria generale di Keynes, tuttavia, troviamo un suggerimento: un’economia può uscire dal suo problema di disoccupazione manipolando il tasso di cambio. Un governo che deve affrontare un’alta disoccupazione può stimolare l’occupazione svalutando la moneta, cosa che si traduce in esportare più beni e importare occupazione.

Di conseguenza, i suoi partner commerciali importeranno più beni ed esporteranno occupazione. È la strategia indicata come “Beggar-my-neighbour (Frega il vicino)”. Ed è quello che sta avvenendo nell’eurozona. Il principale problema dell’unione monetaria è un rapporto di prezzi relativi falsato: il valore dell’euro è troppo basso per la Germania e troppo alto per i paesi della periferia, In Germania, il surplus della bilancia di pagamenti è aumentato dall’1% del 2000 all’oltre 8% attuale e la disoccupazione è scesa dall’11% del 2005 al 5% attuale, mentre la disoccupazione della periferia del Sud è quasi raddoppiata. Questa è una chiara prova empirica della politica “frega il vicino”. È comprensibile che gli esportatori tedeschi siano soddisfatti dell’euro-regime; ma è incomprensibile che i governi della periferia europea aderiscano a un sistema monetario che sta distruggendo i loro Paesi.Per loro c’è una sola possibilità di tornare alla prosperità economica: una consistente svalutazione di una nuova valuta nazionale.

In alcuni casi, sarà necessaria una ristrutturazione del debito. Il governo tedesco naturalmente è consapevole dei prezzi relativi truccati e impone ai governi della periferia europea una svalutazione interna, basata su un abbassamento dei salari guidato dall’alta disoccupazione, dalle politiche di austerità e dall’import in caduta. Possiamo imparare in dettaglio da Keynes quello che succede ai governi che seguono le ricette della cancelliera Angela Merkel. Nel suo Trattato sulla riforma monetaria (1923), Keynes criticava aspramente le politiche deflazionistiche della Francia, messe in atto per difendere un Franco sopravvalutato. Dopo la Grande Depressione, l’Inghilterra e gli USA seguirono i suoi consigli e abbandonarono il Gold Standard: la sterlina inglese e il dollaro americano si svalutarono, e i due Paesi divennero più competitivi della Francia.

Il governo francese dovette decidere se svalutare a sua volta, o perseguire una politica deflazionistica di tagli alla spesa per riottenere competitività. Keynes osservò che «nemmeno un politico completamente incosciente applicherebbe una politica finalizzata al dimezzamento dei salari, al raddoppio del debito pubblico e alla riduzione drastica dei prezzi delle esportazioni». Vi suona familiare? La Troika e i politici dei Paesi creditori europei hanno adottato proprio questa politica, per sei anni. E così, anche se un aumento della spesa governativa non può risolvere la crisi, il taglio della spesa, delle pensioni e dei salari non farà altro che aggravarla.

Keynes ha dedicato un intero capitolo del suo Trattato a questo problema: se una nazione debba perseguire politiche deflazionistiche o svalutare la sua moneta. Ed è giunto a una chiara conclusione: la politica giusta per le nazioni è svalutare, e raggiungere un valore della moneta adeguato al commercio e ai salari. Di conseguenza i Paesi dovrebbero perseguire una svalutazione esterna, cioè un adeguamento del loro tasso di cambio, anziché una svalutazione interna, realizzata attraverso tagli salariali. Se Keynes fosse vissuto oggi, raccomanderebbe la Grexit e l’uscita dall’euro degli altri paesi che si trovano in crisi economica. Il ritorno alle valute nazionali restituirebbe ai singoli paesi il Controllo della loro politica monetaria, che potrebbe finalmente allinearsi alle esigenze di ciascuna economia nazionale. Era fatale che intrappolare Germania e Grecia insieme in un’unica politica monetaria avrebbe avuto conseguenze disastrose. La situazione attuale non è una sorpresa, ma una conseguenza logica dell’Unione Monetaria Europea.

Perché l’élite politica dell’Unione europea rifiuta perfino di prendere in considerazione anche solo la possibilità che un paese esca dall’eurozona, per non parlare di sviluppare un quadro giuridico – di cui ci sarebbe bisogno già da molto tempo – per un simile evento? L’unica risposta è che l’euro è ormai una questione ideologica. L’euro è il simbolo di un’unione sempre più stretta. Per questo è considerato “politicamente scorretto” nel giro delle istituzioni europee mettere in discussione la forma attuale dell’Euro, nonostante gli enormi costi sociali che infligge all’Europa meridionale.

Corriere della sera /economia, 4 luglio 2017, con postilla

La chiusura delle frontiere ai cittadini extracomunitari fino al 2040 potrebbe costare alle casse dell’Inps 38 miliardi. È quanto emerge da una simulazione presentata oggi dal presidente Inps, Tito Boeri, secondo il quale con la chiusura delle frontiere agli immigrati fino al 2040 avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati «con un saldo netto negativo di 38 miliardi». Insomma, «una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Secondo Boeri «una classe dirigente all’altezza deve avere il coraggio di dire la verità agli italiani: abbiamo bisogno di un numero crescente di immigrati per tenere in piedi il nostro sistema di protezione sociale».
L’Inps ha eseguito una simulazione dell’evoluzione da qui al 2040 della spesa sociale e delle entrate contributive nel caso in cui i flussi di entrata di contribuenti extra-comunitari dovessero azzerarsi: «Nei prossimi 22 anni avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps». Gli immigrati che arrivano in Italia sono sempre più giovani e rappresentano 150mila contribuenti in più ogni anno; molti - spiega Boeri - lasciano il nostro Paese prima di maturare i requisiti per la pensione e ci regalano i loro contributi: «Nostre stime prudenziali sono ad oggi di circa un punto di Pil». «Abbiamo perciò bisogno di più immigrati - è la conclusione di Boeri - Impedire loro di avere un permesso di soggiorno quando sono in Italia è la strada sbagliata perché li costringe al lavoro nero e li spinge nelle mani della criminalità».

Più giovani, più contributi. Ma il saldo...

«Gli immigrati che arrivano da noi siano sempre più giovani: la quota degli under 25 che cominciano a contribuire all’Inps è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015. In termini assoluti si tratta di 150.000 contribuenti in più ogni anno». In questo modo ha spiegato il presidente: «Compensano il calo delle nascite nel nostro Paese, la minaccia più grave alla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, che è attrezzato per reggere ad un aumento della longevità, ma che sarebbe messo in seria difficoltà da ulteriori riduzioni delle coorti in ingresso nei registri dei contribuenti rispetto agli scenari demografici di lungo periodo».

Nel 2016, secondo dati di preconsuntivo, il saldo finanziario dell’Inps è stato negativo per 180 milioni di euro, contro i +1.434 milioni del 2015. Il patrimonio netto è passato da 5.870 milioni a 254 e l’avanzo di amministrazione da 36.792 a 36.612 milioni. Nel presentare il Rapporto annuale, il presidente ha fatto notare che i «disavanzi contabili dell’Inps offrono una rappresentazione fuorviante delle sostenibilità del nostro sistema previdenziale né offrono informazioni aggiuntive sullo stato dei conti pubblici nel loro complesso, perché le stime del disavanzo e del debito pubblico dell’Italia non cambierebbero ripianando i debiti dell’Inps nei confronti dello Stato. Per azzerare questo debito dell’Inps e riportare il suo stato patrimoniale ampiamente in territorio positivo, basterebbe infatti trasformare le anticipazioni in trasferimenti a titolo definitivo, come già avvenuto nel 1998, nel 2011 e nel 2013. Il tutto senza alcun aggravio per il disavanzo e il debito pubblico».

Salario minimo

Il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani», dice ancora Boeri presentando la Relazione al Rapporto annuale dell’Istituto a proposito della discussione sul possibile stop nel 2019 all’adeguamento dell’età di uscita, spiegando che i costi si «scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». Sarebbe meglio - spiega - fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile.
Secondo il presidente è anche arrivato il momento per l’introduzione del salario minimo nel nostro ordinamento. «Avremmo il duplice vantaggio - dice - di favorire il decentramento della contrattazione e di offrire uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente nucleo di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione». Boeri afferma che «le premesse ci sono» ricordando che il nuovo contratto di prestazione occasionale fissa una retribuzione minima oraria. «Di qui il passo è breve - conclude - per introdurre il salario minimo».

Effetto articolo 18

Sul Jobs Act Boeri pensa che: «Quello che il contratto a tutele crescenti sembra avere fatto è rimuovere il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti (ex art 18 dello Statuto dei lavoratori, ndr). I nostri studi, nell’ambito del programma VisitInps Scholars dimostrano — ha spiegato il presidente — che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8mila al mese di fine 2014, siamo passati alle 12mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Boeri ha inoltre precisato che «gli incentivi fiscali non sembrano avere avuto alcun ruolo in questo contesto, come era legittimo attendersi dato che la decontribuzione era la stessa sopra e sotto la soglia».

Male il congedo di paternità. E il reddito delle donne...
«Il congedo di paternità obbligatorio non è stato in gran parte applicato. Due terzi dei neopadri non hanno preso neanche il giorno obbligatorio nel 2015, l’anno in cui questa misura è stata maggiormente adottata. Se l’obiettivo di questa legge era quello di stimolare una maggiore condivisione degli oneri per la cura dei figli e di cambiare le percezioni di datori di lavoro restii ad assumere le donne in età fertile, il risultato è stato molto deludente», ha spiegato Boeri. «Impensabile cambiare attitudini - continua - se non si introducono sanzioni per le imprese che violano la legge e se non si va al di là di uno o due giorni di congedo di paternità obbligatorio. Il cambiamento culturale e nelle norme sociali che il congedo di paternità vuole favorire non può essere incoraggiato con un congedo simbolico».

Sul fronte maternità, invece, «Il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisce un calo molto accentuato (-35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio), soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non-occupazione. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite (-20% nel Nord del paese)». I costi della genitorialità potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l’infanzia, «ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità», conclude Boeri.

postilla
Forse il saldo negativo delle entrate che si avrebbe con la chiusura delle frontiere aiuterà a far cambiare idea ai governanti. Ben vengano tutti i punti di vista che contribuiscono a comprendere la stoltezza di questa manovra. Ma non bisogna dimenticare che la ragione prima e fondamentale per combattere le attuali politiche di contenimento e respingimento dei migranti deve rimanere la difesa di tutti gli esseri umani, al di là e al di qua delle frontiere, nonché la salvaguardia dei principi elementari della nostra civiltà.

«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l'antagonismo anche duro. Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi. Pisapia? Un progetto perdente».

MicroMega online, 5 luglio 2017 (c.m.c.)

E' ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. «E' la mia contraddizione personale» ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell'associazionismo diffuso nel Paese. Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l'unico motore per un cambiamento possibile: »Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa». Non a caso, questo weekend sarà a L'Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su "Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

In Italia, ma potremmo dire in Europa, cresce la disaffezione nei confronti della politica. Una crisi della rappresentanza forte a tal punto che ormai vota meno di una persona su due, intanto aumenta la disuguaglianza e il potere economico è nelle ferree mani dell'establishment. Viviamo una fase di crisi democratica o di post-democrazia?
«In tutto l'Occidente assistiamo ad un distaccamento tra la gran parte della popolazione e le classi dirigenti. E ciò, attenzione, non è causa delle tendenze epocali degli ultimi anni – il boom economico di Cina e India, le nuove tecnologie o l'emergenza migranti – bensì delle politiche sbagliate adottate per fronteggiare tali tematiche. E' diverso. Sono stati commessi due errori gravi. Anzitutto l'apertura al made in China, che ha fatto diventare più competitivo il mercato, ha portato vantaggi solo per le classi sociali abbienti mentre le più deboli sono state penalizzate. Di fronte a tale problema bisognava intervenire rafforzando lo Stato sociale, invece si è andati nella direzione opposta e dal 1985 ad oggi si è deciso coscientemente di indebolire il welfare lasciando soli i lavoratori».

Qual è il secondo errore commesso?
«I cittadini sono stati trasformati in votanti/consumatori. Chiamati in causa solo per formare il Parlamento, ogni cinque anni, ma per il resto non vengono coinvolti nella res publica. Assistiamo alla chiusura degli spazi di partecipazione e democrazia quando invece la fase chiederebbe di ampliarli».

Lo scontro ormai è tra popolo vs elite o è una semplice banalizzazione populista?
«Detta così si rasenta l'errore, perché i redditi medi e medio-alti che beneficiano della globalizzazione sono cospicui. Non si tratta di una semplice élite. Preferisco parlare di faglie presenti in seno al popolo, due faglie, secondo me, "di classe": da un lato gli esclusi, i precari, i lavoratori subordinati; dall'altra le borghesie e l'intellighenzia del Paese. Possiamo pensarle anche in termini di faglie territoriali – da un lato la città, dall'altra la campagna – o allo storico conflitto tra centro e periferia. Il popolo sta da entrambe le parti ma ne esiste uno (maggioritario) perdente e l'altro (minoritario) vincente».

In questa Europa esiste un problema di sovranità perduta?
«Il recupero della sovranità nazionale è un imbroglio di chi vuole sfruttare le faglie per farsi dare pieno mandato, per i propri interessi, scaricando le responsabilità della crisi sociale sulle aperture di mercato e delle frontiere, foraggiando così la guerra tra poveri. Soprattutto le destre populiste hanno assunto tali posizioni; però, com'è nella tradizione del movimento operaio, anche a sinistra sta prendendo piede questa infausta linea del ritorno al nazionalismo. Se ci riflettiamo, durante la Prima guerra mondiale, i socialisti si divisero e una cospicua parte appoggiò l'intervento bellico. La classe operaia - che esiste ancora e nella quale includo il precario o il lavoratore subordinato di Eataly - non si deve far ingannare: la soluzione non passa per la chiusura delle frontiere, ma per una nuova attivazione sociale. In Italia e in Europa».

La partecipazione civica è la risposta dal basso all'antipolitica?
«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli, perché in questo periodo storico è necessario l'antagonismo, anche duro. C’è un pezzo di popolo che non ha chance di rappresentanza politica pur avendo all'interno intelligenze collettive. Dato che i partiti tradizionali non riescono più a dar voce ai soggetti esclusi, vanno costruiti nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese».

Per mesi ha provato a riformare il partito del Pd, adesso invece parla di centralità della società civile. Ha cambiato idea?
«Siamo in una fase di ricerca. Continuo a pensare che ad un certo punto servirà un partito capace di rappresentare gli esclusi: un soggetto collettivo che riunisca pezzi di classi diversi, cittadini rurali – il 30 per cento della popolazione in Europa – con operai e borghesia illuminata. Quindi ritengo sia ancora fondamentale l'idea di un partito moderno, ma ad oggi non lo intravedo sullo scenario politico. Nel Pd non sono capace di vedere per ora margini di recupero. In questo momento preferisco focalizzare il mio impegno politico nella società civile dove vedo molto impegno e le esperienze migliori».

Crede in forme di democrazia diretta?
Bisogna dare sempre più strumenti di potere alle persone esterne ai Palazzi, ma senza nuove norme non esistono oggi i mezzi per conquistare peso sul campo. Inoltre, penso sia indispensabile un rafforzamento del welfare con agevolazioni su reddito e nuova mobilità.

Matteo Renzi, dopo la recente sconfitta alle amministrative, non sembra in grado di fare autocritica... che ne pensa?
«Quando alle ultime elezioni nella ricca Emilia Romagna scopriamo che ad aver votato è soltanto il 40 per cento degli aventi diritto, significa che siamo di fronte ad un fallimento. Una crisi incredibile della rappresentanza in cui tutti si dovrebbero sentire coinvolti e invece... non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire».

Dando per scontato che non ha sostenuto Renzi alle primarie, ha votato Orlando o Emiliano?
«Ho votato Orlando, perché ho ritrovato in lui un modo di agire giusto. Da ministro, quando è intervenuto sulle carceri non si è messo nelle mani degli “esperti” ma prima ha coinvolto le organizzazioni che da anni lavorano nei penitenziari e con i detenuti. La partecipazione non è un mero strumento per il consenso; bensì serve per capire cosa fare e come legiferare in quel campo. La vera partecipazione consiste nella raccolta di conoscenze».

Che destino intravede per il Pd?
«Non lo so, ci sono tanti Pd nel Pd. Alcune esperienze sono virtuose, penso a Parma, dove hanno perso bene contro Pizzarotti. Ma nel partito purtroppo ci sono pure persone che sono lì soltanto per avere un posto di lavoro. Io, dall'interno, ho provato a cambiare le cose, ma evidentemente non sono riuscito a spostare l'ago della bilancia. C'è un’assenza assoluta di visione ed organizzazione; nel Pd manca una rigenerazione culturale».

Si può considerare ancora un partito di sinistra?
«Su alcuni temi civili lo è. Mi riferisco alla proposta sullo ius soli o alle unioni civili. Diciamo che non è un partito di destra».

Pensa che dal sociale possa nascere un nuovo soggetto politico?
«Manca un'organizzazione complessiva, questo è il vero limite: si rischia che restino mille fiori, non in relazione tra loro. Molte organizzazioni svolgono un lavoro meritorio con competenza e concretezza, ma sono settoriali».

Insomma, non c'è nessuno che possa rappresentare i tanti esclusi e gli indignati del Paese?

«Ho rispetto per chi ha tentato in passato questa via, come per Maurizio Landini. O chi ci prova oggi, penso a Pisapia. Ma temo siano tentativi perdenti. I tempi sono lunghi. I giovani sono restii ad un nuovo soggetto, la disillusione soprattutto a sinistra è troppa. Troppi fallimenti nel recente passato. Non credono più al cambiamento politico, almeno finché il quadro resterà questo. In questo momento guardo con interesse ad alcune campagne come quella dell'Alleanza contro la povertà (Caritas, Acli etc) sul reddito di inclusione sociale. Sono mobilitazioni proficue e dal basso si possono ottenere risultati».

Barca, non si è pentito di aver perso il treno? In molti hanno sognato intorno alla sua figura la nascita di un nuovo centrosinistra. Potesse tornare indietro, rifarebbe ogni singola scelta?
«Non ho rimpianti. Non avevo il potere e gli strumenti per far cambiare rotta al Pd. Adesso vivo una contraddizione personale: il mio impegno è nella cittadinanza attiva, sono convinto che da lì possano nascere proposte politiche interessanti, poi nella democrazia rappresentativa voto Pd per non regalare il Paese a Salvini o Meloni».

Di Beppe Grillo invece ha paura?

«Io non ho paura nemmeno di Salvini e Meloni. Come non ho paura di Donald Trump; quell'elezione dimostra che la borghesia di sinistra o di destra delle città viene sconfitta al voto dalla massa di esclusi che vive nelle periferie e in campagna o fa parte dei ceti meno abbienti. Una logica conseguenza. Ripeto, ci vuole tempo per cambiare le cose, intanto punto a far dialogare le tante esperienze sociali».

Al Festival sulla partecipazione sarà anche moderatore di un dibattito tra Roberta Lombardi (M5s) e Alfio Mastropaolo (professore di Democrazia e Partecipazione Politica all'università di Torino) dal titolo: "Serve il finanziamento pubblico ai partiti?". Ci sarà da divertirsi?
«Sono orgoglioso che a L'Aquila ci sia un tale dibattito, immaginato dall’Associazione Etica ed economia. Noi abbiamo perso l'abitudine al confronto acceso, ragionevole ed aperto. Si tende sempre a ridicolizzare ed esultare l'avversario parlando a dibattiti senza contradditorio. Si sono ridotti i luoghi di confronto. Il Festival della Partecipazione, in tal senso, va in controtendenza. Abbiamo già sperimentato il formato in tre confronti romani. E ci siamo accorti, rilevando le opinioni prima e dopo il dialogo, che le persone sono pronte a cambiare opinione. E’ questa capacità di cambiare idea o di trovare punti di convergenza che rende la partecipazione uno strumento operativo».

La denuncia del portavoce del sindacato USB del taglio di fondi che costringerà' al licenziamento e all'inattività' dei dipendenti dell’ISPRA.

La Stampa attualità, 30 giugno 2017 (m.c.g.)

Le ultime settimane hanno visto le tematiche ambientali ritornare sulle prime pagine dei giornali per le importanti dichiarazioni di politici, italiani e esteri, che hanno confermato l’impegno e la determinazione nella lotta ai cambiamenti climatici e nella salvaguardia dell’ambiente. Qualche giorno prima del G7 Ambiente di Bologna, occasione colta dal ministro Gian Luca Galletti e dal Premier Paolo Gentiloni per ribadire l’adesione al fronte unito contro le scellerate prese di posizione dell’amministrazione Trump, succedeva, però, che ricercatori e tecnologi dell’ISPRA organizzati da USB, insieme ai tecnici e al personale amministrativo, entrassero in occupazione.

L’ISPRA, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale, nasce nel 2008 quale risultante dello scioglimento di due istituti di ricerca (l’ICRAM sul mare e l’INFS sulla fauna selvatica) e dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i Servizi Tecnici (APAT). L’ISPRA è un Ente Pubblico di Ricerca “vigilato” dal MATTM, in pratica il suo “braccio tecnico”. È il principale ente pubblico di riferimento per le tematiche ambientali nel nostro Paese e svolge anche attività di ricerca funzionale all’implementazione dei numerosi compiti attribuitigli per legge e garantisce il supporto tecnico-scientifico alle istituzioni. Un Ente cosiddetto “strumentale” alle azioni del Ministero in tema di politiche ambientali. Nel panorama degli Enti Pubblici di ricerca “strumentali” ritroviamo, ad esempio, l’Istituto Superiore di Sanità o l’ISTAT, vigilati rispettivamente dal Ministero della Salute e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Ci sarebbe da aspettarsi, pertanto, un’attenzione particolare del Ministro di riferimento Galletti e del governo, invece no perché l’ISPRA è stato ridotto al collasso economico. I numeri parlano chiaro: meno 13 milioni di euro al contributo ordinario dell’Ente da parte dello Stato operati in ragione della razionalizzazione della spesa; meno 43% registrato per i fondi esterni; un disavanzo di bilancio di 6,3 milioni di euro, come dichiarato pubblicamente dallo stesso direttore generale nonché presidente incaricato dott. Stefano Laporta; una contrazione delle unità di personale scese dalle 1650 del 2008 alle attuali 1200, compresi i precari, a fronte di sempre più numerosi e gravosi compiti attribuiti per legge “senza ulteriori aggravi per il bilancio dello Stato”. Le conseguenze immediate saranno il blocco delle attività per mancanza di fondi e il licenziamento di precari storici.

Ebbene, nonostante sia nelle prerogative del Ministero dell’Ambiente intervenire fattivamente, con integrazioni al contributo annuale elargito dal MEF, questo non ha mai voluto effettuare ulteriori passaggi stabili di finanziamento, se non per piccole attività aggiuntive, preferendo invece la ben più costosa società privata Sogesid. La Sogesid è una società in House del ministero dell’ambiente, oggetto di attenzione della procura e di numerose interrogazioni parlamentari, nata sotto la Prestigiacomo e, di fatto, un doppione dell’ISPRA. Lo stato preferisce attingere a privati, spendendo anche più soldi e con procedure privatistiche che fanno nascere dubbi anche ai procuratori.

Dal 22 maggio, sacrificando salario, ferie e famiglia, un gruppo nutrito di lavoratori sta cercando di denunciare agli Italiani la reale situazione della politica ambientale italiana che non trova rispondenza con le belle parole proferite dal ministro Gian Luca Galletti e dal Presidente Gentiloni. La politica distratta quando non ostile ci ha ridotto al collasso economico. Se non si agirà rapidamente da luglio, come peraltro dichiarato pubblicamente dallo stesso Stefano Laporta, i 1200 dipendenti dell’ISPRA saranno costretti alla inattività per mancanza di fondi; circa un centinaio di precari storici, con anzianità di servizio fino a 17 anni, saranno licenziati. Licenziati nonostante l’art. 20 del d.lgs 75/2017, il Testo Unico della Pubblica Amministrazione voluto dalla ministra Madia, li consideri stabilizzabili. Ma non ci sono soldi. E l’Italia si concede di sperperare un patrimonio di conoscenza e professionalità.

Ne conseguirebbe che i controlli dei grandi impianti industriali, come l’ILVA di Taranto, gli adempimenti del protocollo di Kyoto e degli accordi di Parigi, le attività nelle zone terremotate e dello studio del territorio (cartografia geologica e naturalistica, studio e difesa della biodiversità), i controlli e le valutazioni ambientali (rifiuti, istruttorie VIA/VAS, piattaforme off-shore), le certificazioni di qualità ambientale Emas e Ecolabel, la gestione delle emergenze ambientali, l’accertamento del danno ambientale, la supervisione agli interventi di ripristino dei fondali dell’Isola del Giglio colpiti dal naufragio della Costa Concordia, i monitoraggi (qualità dell’aria e delle acque marino-costiere), le attività di laboratorio, per citare solo alcuni degli ambiti di attività dell’istituto, e la “ricerca finalizzata” alla protezione ambientale, subiranno uno stop. A rischiare il collasso sarebbe anche il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale (ex L.132/2016) che ha l’ambizione (senza stanziamento di fondi) di mettere a rete ISPRA e le Agenzie Regionali così da garantire controlli e monitoraggi adeguati in tutto il territorio nazionale. Un po’ il parallelo dei LEA della Lorenzin applicati all’ambiente.

Il messaggio d’allarme che vogliamo dare va oltre la richiesta del legittimo riconoscimento dei precari alla stabilizzazione. Numeroso è il personale di ruolo, incluso me, che partecipa alla lotta. Siamo stanchi di lavorare in un istituto in agonia sin dalla sua istituzione, 8 anni fa, e che non decolla mai. Bastano pochi soldi per rilanciare ISPRA e SNPA. La parte carente è la volontà politica. Lottiamo e occupiamo dal 22 maggio anche e soprattutto da cittadini che aspirano a che siano enti pubblici in prima linea a garantire la tutela ambientale e non società private come SOGESID. L’occupazione è luogo di lotta e crescita personale e con determinazione presidiamo 24 ore su 24, sacrificando ferie, salario e famiglia, per mandare un messaggio che spero venga colto: il nostro Paese ha bisogno dell’ISPRA, ovvero di un istituto terzo e indipendente che supporti i decisori politici per una corretta e utile azione di prevenzione, controllo, gestione del territorio e delle emergenze ambientali. Anche facendo ricerca applicata e funzionale a migliorare il conseguimento degli obiettivi istituzionali.

A chi ci dice che con la nostra protesta rischiamo di passare dalla ragione al torto, rispondiamo che l’aver ragione è un concetto che non può e non deve rimanere astratto. Noi vogliamo passare dal semplice avere ragione a prenderci questa ragione ed applicarla nel nostro lavoro al servizio dei cittadini. La saggezza popolare e la storia raccontano che i mali estremi si guariscono con estremi rimedi. Questo è il nostro estremismo.

il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)

Meno di duecento voti favorevoli (198), vale a dire meno di un terzo della camera dei deputati, sono bastati ieri sera a far entrare con trent’anni di ritardo il reato di tortura nel codice penale italiano. La ragione di tanto scarso entusiasmo è che la legge delude quasi tutte le attese, tanto da essere stata criticata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, da una lunga schiera di giuristi e persino dai magistrati che hanno portato in tribunale le forze dell’ordine per le violenze del G8 di Genova. La «informe creatura giuridica» approvata ieri (secondo la definizione di uno dei tanti appelli al parlamento perché correggesse la legge, tutti inascoltati) secondo i giudici genovesi non sarebbe stata applicabile neanche alla «macelleria messicana» della scuola Diaz.

Di fronte a un testo del genere, frutto di successivi compromessi al ribasso voluti dal Pd, soprattutto nell’ultimo passaggio al senato durato due anni, i sostenitori dell’introduzione del reato di tortura fuori dal parlamento si sono divisi tra chi apprezza comunque il passo in avanti (Amnesty Italia) e chi lo ritiene al contrario un passo falso, controproducente (A buon diritto, associazione Cucchi, comitato verità e giustizia per Genova). In parlamento ha votato a favore praticamente solo il Pd (gli alfaniani di Ap in teoria erano della partita, ma si sono presentati solo in 4 su 24); i democratici hanno registrato comunque il 40% di assenze. Segno di un forte malcontento, espresso giorni fa in un’intervista dal presidente del partito Orfini – «legge inutile, meglio non approvarla» – e in aula solo dalla deputata Giuditta Pini. Si sono astenuti i 5 Stelle, che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno, e infatti al senato sull’identico testo avevano votato a favore, Mdp che parla di «legge debole», i centristi di maggioranza del gruppo Civici e innovatori e anche Sinistra italiana che è assai più critica: «Abbiamo confezionato il reato impossibile per il retropensiero di alcuni che in questi tempi di terrorismo un po’ di tortura possa tornare utile», ha detto il deputato Daniele Farina. Mentre è noto che il senatore del Pd Luigi Manconi, che ha presentato il progetto di legge originario nel primo giorno della legislatura, ha parlato di un provvedimento «completamente stravolto». Contraria tutta la destra, che vede nella legge una minaccia alla libertà di azione delle forze di polizia. Con argomenti come quelli del «fratello d’Italia» Cirielli: «Il poliziotto che di fronte a uno stupratore o a un autonomo perde la pazienza e lascia partire qualche schiaffo o qualche calcio rischia più dei delinquenti».

Difficile però che si possa applicare a casi del genere – «meno di un occhio pesto», per citare sempre Cirielli – il reato di tortura. Perché così com’è stato approvato definitivamente ieri non è più un reato proprio del pubblico ufficiale ma un «delitto comune» che può essere compiuto da chiunque si trovi nelle condizioni di esercitare «vigilanza, controllo, cura o assistenza» nei confronti della vittima. È forse la peggiore novità imposta nel passaggio in senato, rispetto al testo già approvato dalla camera nel 2015. Le altre, tutte negative, sono la previsione che le violenze e le minacce debbano essere «gravi» (un po’ come dovevano essere «particolarmente efferate» le sevizie escluse dall’amnistia del ’46) «ovvero agendo con crudeltà», una circostanza difficile da dimostrare per i pm. Perché si verifichi tortura è adesso richiesto che siano commesse «più condotte», sembrerebbe cioè non bastare un singolo episodio e neanche un episodio reiterato della stessa natura. L’azione del pubblico ufficiale è adesso sempre giustificata «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti». Infine è necessario che l’azione del torturatore cagioni sulla vittima «un verificabile trauma psichico», sempre difficile da provare soprattutto a distanza dai fatti (quando in genere si arriva al processo).

Le pene sono alte, al massimo dieci anni aumentati a dodici nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale, ma la prescrizione non è del tutto scongiurata. Mentre è addirittura prevista la pena fissa, solo massima, di trent’anni e dell’ergastolo nel caso in cui dalla tortura derivi la morte, accidentale o intenzionale. «Tutti questi requisiti rendono difficile l’applicazione della nuova norma», ha spiegato il presidente della prima commissione, il centrista Mazziotti. D’altra parte nella legge è rimasto il divieto di espulsione dello straniero quando ci sono fondati motivi di ritenere che rischi di essere torturato, anche sulla base delle violazioni sistematiche dei diritti umani nel suo stato di origine. Ma 33 anni dopo la Convenzione dell’Onu e 29 anni dopo la legge italiana che la recepiva (al governo c’era Ciricaco De Mita), il nostro paese per adottare il reato di tortura ha avuto bisogno di snaturarlo.

Non è raggruppando in un cartello elettorale tutti gli antirenziani di "sinistra" che si costruirà una formazione politica all'altezza delle sfide di oggi, quale quella lanciata al Bracaccio da Falcone eMontanari Huffington Post, 3 luglio 2017 (c.m.c)

.

La domanda è: la manifestazione di Santi Apostoli ha resuscitato il desiderio di votare in chi fa parte di una sinistra senza casa, in chi magari il 4 dicembre è andato ai seggi per dire No, ma non sa ora dove guardare? Per quel che vale, come membro di quella categoria rispondo di no.

Intendiamoci, in quella piazza romana c’erano tantissime brave persone: a partire da Pier Luigi Bersani. Persone di sinistra: cioè intenzionate a cambiare lo stato delle cose, e a cambiarlo in direzione dell’eguaglianza, dell’inclusione e della giustizia sociale.Ma i discorsi, il tono politico, il filo conduttore della manifestazione e soprattutto la reticente conclusione di Giuliano Pisapia sono apparsi autoreferenziali, chiusi: a tratti ombelicali. Rivolti al passato, e non al futuro.

L’analisi della realtà condivisa da coloro che hanno parlato è sembrata la seguente: «il problema della Sinistra, e del Paese, è Matteo Renzi». Il fatto che quel nome non sia quasi stato pronunciato non ha fatto che aumentare la sua centralità, da fatale convitato di pietra: un gigantesco “rimosso” che tornava fuori ad ogni frase. La versione dei fatti è stata grosso modo questa: «la stagione del centrosinistra è indiscutibile, l’Ulivo è ancora la stella polare. Poi è arrivato Renzi e tutto si è rovinato. Ma se riusciamo a neutralizzarlo possiamo tornare indietro, come se non ci fosse mai stato».

Ora, non sarò io a minimizzare la portata eversiva della presenza di Renzi nella sinistra, e in generale nella politica, italiana. Credo, anzi, di essere stato tra i primissimi a denunciarne l’estrema pericolosità. Ma oggi ­– mentre Renzi galoppa senza freni verso un definitivo suicidio politico, trascinandosi dietro il Partito Democratico – sarebbe irresponsabile non chiedersi come siamo arrivati a lui. Non possiamo raccontarci che è venuto fuori come un fungo, senza radici e senza ragioni. Non possiamo nasconderci che Renzi è il più grave sintomo di una malattia degenerativa della sinistra, ma non ne è la causa.

Dalla classe dirigente del centrosinistra, cioè da coloro le cui scelte politiche hanno generato un Renzi, ci si aspetta dunque un’analisi profonda, e profondamente autocritica. Tanto più se hanno votato fino a ieri tutte le leggi renziane, magari arrivando a votare sì anche alla disastrosa riforma costituzionale. Sia chiaro: non si pretende un’abiura, non si chiedono delle scuse, ma questa inquietante rimozione rischia di preludere ad una coazione a ripetere che non possiamo permetterci.

Per intendersi, con un singolo brutale esempio: se oggi il ministro degli Interni del governo Gentiloni (governo sostenuto dalla fiducia dei parlamentari che da settembre si riuniranno nel gruppo di Insieme) minaccia di chiudere i porti italiani in faccia ai migranti non lo si deve ad una mutazione genetica renziana, ma ad un processo di smontaggio dell’identità della classe dirigente di sinistra che parte ben prima di Renzi, e minaccia di continuare ben dopo di lui.

Sul piano della tattica politica, tutto questo si traduce nella formula esibita dal ministro Andrea Orlando, non per caso presente dietro il palco di Santi Apostoli: «questa piazza non è alternativa al Pd». E Massimo D’Alema ha chiarito, con la consueta intelligenza: «parleremo dell’alleanza di governo con il Pd solo dopo il voto». E dunque è ormai chiaro: questo centrosinistra che si autodefinisce “di governo”, per tornare al governo avrà bisogno del Pd. Di un Pd senza Renzi, o con Renzi nell’angolo: questa è la scommessa di Santi Apostoli.

Ammettiamo che il gioco riesca: un simile governo non sarebbe quello che è già il governo Gentiloni (Lotti e Boschi a parte)? In concreto cosa cambierebbe? Un tale governo di centrosinistra senza Renzi fermerebbe il Tav in Val di Susa e l’Autostrada Tirrenica, bloccherebbe le privatizzazioni e le alienazioni del demanio, cancellerebbe la scellerata riforma Franceschini dei Beni Culturali, abrogherebbe la Buona Scuola, farebbe davvero (e non solo studierebbe, come ha detto Pisapia) una seria tassa patrimoniale, attuerebbe una progressività fiscale e la gratuità del diritto allo studio, ricostruirebbe i diritti dei lavoratori? Niente, nei discorsi di Santi Apostoli, permette di predire una simile “inversione a u” rispetto alle rotte degli ultimi vent’anni – e ho trovato francamente indegno il tentativo di Gad Lerner di arruolare Stefano Rodotà tra i sostenitori di un progetto così poco interessato al futuro.

Dunque non c’è ormai più speranza di costruire una sinistra unita, che sia davvero sinistra, e davvero unita? Io credo che, malgrado tutto, questa speranza ci sia ancora. Credo che ci debba essere. Perché sarebbe drammatico rassegnarci fin da ora a due percorsi paralleli e alternativi, anzi tra loro ostili: uno che guarda all’elettorato Pd, l’altro che guarda all’Italia dei sommersi e dei senza politica.

Ma c’è un solo modo di provare a tenere insieme queste due strade: aprire finalmente un confronto vero: sulle cose. E non sulla fuffa mediatica: leadership, alleanze, candidature. In uno dei pochi passaggi davvero chiari del suo discorso, Giuliano Pisapia ha detto che è stato un errore sopprimere l’articolo 18: ebbene, partiamo da lì, e vediamo fin dove si può arrivare. È per questo che lo avevamo invitato a parlare al Brancaccio (dove non è voluto venire), è per questo che gli avevamo chiesto di parlare a Santi Apostoli (ricevendo un diniego). Pazienza, acqua passata: iniziamo da domani, proviamoci senza rancore.

Lo so: è evidente che il paternalismo compassionevole di Pisapia, o il genuino revival (e lo dico con grande rispetto, e simpatia) di Bersani non bastano a costruire una sinistra nuova. Ma possono invece essere una parte di una casa comune ben più grande e ambiziosa di quella presentata a Santi Apostoli. Sarebbe certo velleitario anche solo pensarlo se lì fosse nato un colosso autosufficiente. Ma guardiamoci in faccia: il soggetto politico nato il primo luglio (Insieme, o come si chiamerà), non viene accreditato, nei sondaggi, per più di un 3-4%.

D’altra parte, il percorso che è iniziato al Brancaccio ha già ottenuto la disponibilità di Sinistra Italiana (pesata più o meno per un 3%), di Rifondazione Comunista (circa all’1%), di Possibile (circa allo 0,6 %) e di molte altre forze. Non c’è dunque pericolo di alcuna egemonia prescritta: c’è invece la possibilità che queste formazioni camminino insieme.

Ma soprattutto c’è la vitale necessità che queste piccole forze immaginino se stesse come una parte di una cosa molto più grande. Che esse accettino, cioè, di costruire una vera alleanza con i cittadini: cioè con quelle forze civiche che ormai passano alla larga dalla politica e dalle urne. L’esempio di Padova ci dice che se questa alleanza funziona, si può superare il 20%: a patto di cambiare linguaggio, di uscire dall’autoreferenzialità di riti comprensibili solo ai notisti politici. Ci vuole una politica nuova: un linguaggio, un forza, un entusiasmo capaci di far ricircolare il sangue nelle vene di questa povera democrazia in declino: e per capire cosa intendo si può confrontare il discorso di Pisapia con quello pronunciato qualche giorno fa da Corbyn davanti ai giovani riuniti a Glastonbury.

Per questo Insieme deve accettare l’idea di partecipare ad un insieme più grande. E una simile lista civica nazionale di sinistra non può nascere ponendosi il problema del governo, o dell’alleanza con il centro (leggi Pd), ma cercando invece di costruire prima di tutto se stessa, strutturandosi intorno ad alcuni grandi principi fondamentali. Non è affatto difficile: ricevo molte mail da militanti di Articolo Uno che chiedono di partecipare alle assemblee che, sul solco del Brancaccio, si stanno autoconvocando in tutta Italia, ennesimo segno che la base è molto, ma molto, più unita delle varie dirigenze in campo.

In conclusione: se la forza battezzata in Piazza Santi Apostoli pensa se stessa come un punto di arrivo, è finita prima di cominciare. Può essere invece davvero importante se pensa se stessa come il pezzo di un processo, di un percorso più grande e più largo. Un percorso vero: senza un destino già scritto, senza leader autoconsacrati e alleanze stabilite a priori. Un processo che si snodi intorno alla costruzione partecipata di un progetto culturale, civile e politico la cui bussola siano eguaglianza, inclusione, partecipazione.

Proviamoci: è questione di umiltà, generosità, lungimiranza, coraggio. E il momento è ora.

Recensione al libro di Revelli, che chiarisce i significati e le ambiguità' del termine populismo, e illustra i vari populismi di oggi.

Il Sole 24ore, 1 luglio 2017 (i.b.)

Il termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?

Il libro di Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania e Italia).

Tra i tanti «populismi» individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato, dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una «malattia infantile» del ciclo democratico).

Quello attuale è, invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto “ascensore sociale”».

La lotta di classe “orizzontale” si è, così, trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato, buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti «homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario, «purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood, famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».

Specie nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson. Nell’iniziare l’age of commonman, 1830-1840 (quella che Tocqueville aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i potenti più potenti».

Nel 1892 viene poi fondato il National People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale, e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano irobber barons».

Con il senno di poi, non era difficile capire le ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi».

Coloro che si avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor, direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai radar dei media».

Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in relazione alla Brexit, alla Germaniafelix – che ha «le sue zone d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.

Nel nostro paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti governi.

Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un «cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione, specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di governo». Un populismo «dall’alto».

Si può, in conclusione, curare questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?

© 2025 Eddyburg