«È lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso».
il manifesto, 2 settembre 2017 (c.m.c.)
Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare a ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C..
Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove e il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.
Ma che significa annullare un debito? Significa dare il via a un processo di indagine (audit) indipendente sul debito pubblico per verificare nel dettaglio come, da chi e con chi è stato contratto, per quali obiettivi e interessi e con quali conseguenze per le condizioni di vita degli abitanti.
Significa, in altri termini, dire al Ministro dell’Economia Padoan che la nuova stagione delle privatizzazioni che intende aprire per abbattere il debito – una superholding in cui far confluire tutte le partecipazioni dello Stato sotto il cappello di Cassa Depositi e Prestiti, per poi privatizzare il 50% di quest’ultima – è una trappola a cui non vogliamo più sottostare, perché ciò che va rimessa in discussione è la legittimità stessa del debito.
La sola idea di un percorso di questo tipo fa inorridire le grandi lobby dei poteri finanziari, le quali – nel più classico stile degli usurai – sono meno interessate all’effettivo saldo di quanto «dovuto», che non al mantenimento della catena che lo stesso pone alle rivendicazioni di reddito, beni e servizi delle popolazioni.
Ma è un passaggio obbligato se si vuole uscire definitivamente dal cappio delle politiche liberiste.
D’altronde, è di nuovo la storia a dimostrare come, quando è stato ritenuto necessario per superiori interessi geopolitici, il debito sia stato cancellato con un semplice tratto di penna dagli stessi creditori: è stato così per la Germania nel 1953, quando la necessità di una Germania Ovest economicamente forte di fronte all’Urss e ai suoi alleati ha permesso la quasi totale cancellazione degli ingenti debiti post seconda guerra mondiale; ed è stato così per l’Iraq nel 2004, quando le nuove autorità, designate dalle forze di occupazione, beneficiarono di una riduzione del debito bilaterale (dovuto ad altri Stati) nell’ordine dell’80%.
Ma è d’altronde lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso, altrimenti non si capirebbe l’esistenza dello spread fra un paese e l’altro. Perché delle due l’una: o si dichiara impossibile il mancato pagamento e allora il denaro dovrebbe essere prestato a tutti allo stesso tasso d’interesse o si presta il denaro a tassi differenti perché si prevede la possibilità del non pagamento, che dunque può avvenire, come affermato nel 1999 dal Consiglio dei diritti dell’uomo, ogniqualvolta. «l’esercizio dei diritti fondamentali della popolazione dei paesi debitori all’alimentazione, all’abitazione, al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e a un ambiente salubre non possono essere subordinati all’applicazione di politiche di aggiustamento strutturale e di riforme economiche legate al debito».
Si tratta in buona sostanza di dire a chiare lettere che le nostre vite vengono prima del debito, i nostri diritti prima dei profitti e il «comune» prima della proprietà.
È quello che si appresta a mettere in campo Cadtm Italia nei prossimi mesi.
«Si tratta di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali».
la Repubblica, 30 agosto 2017 (c.m.c)
Con il completamento dell’ultimo passaggio, anche l’Italia avrà finalmente un embrione di reddito minimo per i poveri a livello nazionale. Per chi si batte da decenni — fin dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986 — perché questo avvenisse, è sicuramente una buona notizia. L’esistenza di una rete di protezione di ultima istanza è un pezzo importante del sistema di welfare, che ne qualifica il carattere solidaristico e non solo di assicurazione contro i rischi. È anche importante che accanto al sostegno al reddito siano previste attività diversificate di integrazione sociale, che vedano coinvolti più attori locali: dalla formazione all’accompagnamento al lavoro, ai servizi di riabilitazione, al sostegno alla partecipazione sociale.
Anzi, sarà opportuno che non ci si limiti a coinvolgere solo le associazioni di volontariato e di terzo settore, come si tende a fare quando si tratta di poveri, ma anche le agenzie del lavoro e le associazioni datoriali. Si tratta tuttavia di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali. Il primo limite, da cui derivano in larga misura gli altri, è il sotto-finanziamento.
Anche se raggiungesse i due miliardi per il prossimo anno, come sembrerebbe da alcune fonti (ma altre danno una cifra inferiore), non servirebbe a coprire tutti i quattro milioni e 598 mila poveri assoluti stimati in Italia, e neppure tutto il milione e 131 mila minori al loro interno, nonostante le famiglie con minori siano nel gruppo identificato come il target prioritario della misura. Proprio per questo, almeno per ora, la soglia Isee che dà accesso al Reddito di inclusione è stata fissata a un livello più basso (6000 euro) di quello che individua la povertà assoluta e l’importo massimo erogabile per famiglie molto numerose non supera quello della pensione sociale, nonostante questo sia stato pensato per rispondere ai bisogni di un anziano solo, non di una famiglia numerosa. È per lo meno curioso che venga fissato questo criterio proprio mentre, su altri tavoli, ancora una volta ci si preoccupa di integrare le pensioni sociali ed anche quelle minime.
La combinazione di soglie di Isee e importi del sussidio molto bassi rende altamente probabile che vengano selezionati i casi non solo di povertà più estrema, ma che hanno più difficoltà ad uscire dalla povertà tramite l’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate. Questo rischio è rafforzato dai criteri aggiuntivi introdotti per accedere prioritariamente al sostegno, ovvero le caratteristiche della famiglia: presenza di minori, di donne incinte, di ultracinquantacinquenni disoccupati di lungo periodo e non beneficiari di Naspi, disabile. Chi è giovane o comunque ha meno di cinquantacinque anni, non ha figli minori, non è incinta, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, o anche se sta peggio. Escluse sono anche, a parità di Isee, le famiglie in cui anche un solo componente fruisca del Naspi o abbia una occupazione, in contraddizione con l’obiettivo di incentivare i beneficiari a trovare una occupazione.
Alla luce di questa individuazione restrittiva dei beneficiari, che rende il Rei poco universalistico e tendenzialmente categoriale, tanto più assurda appare la norma che fissa in 18 mesi il periodo massimo di godimento del sussidio. Innanzitutto perché logica vorrebbe che, così come avviene nella maggior parte dei paesi, il sostegno si dà finché il bisogno persiste. Si possono, anzi devono, fare controlli periodici sulla partecipazione dei beneficiari alle attività proposte e sulla loro effettiva disponibilità ad impegnarsi. Ma se, nonostante tutto l’impegno e la disponibilità, non si è trovata una via di uscita, perdere il sostegno significa ritornare al punto di partenza.
Difficile che nei sei mesi di attesa obbligatoria prima di poter fare di nuovo domanda di sostegno la situazione migliori. Anzi il rischio è che si interrompano percorsi potenzialmente virtuosi. In secondo luogo, è ampiamente noto che sono le persone con meno difficoltà personali e famigliari ad uscire più velocemente dall’assistenza. Chi ha più difficoltà richiede più tempo.
Perché questo embrione di sostegno ai poveri diventi davvero un pilastro del welfare, dove si combinano protezione e abilitazione, riconoscimento di diritti e di responsabilità, occorrerà correggere al più presto questi ed altri limiti che ne vincolano pesantemente la portata. Lo strumento per farlo è il piano nazionale contro la povertà, che prevede uno strumento di pianificazione triennale. Secondo gli estensori del provvedimento, questo dovrà gradualmente ampliare la platea dei beneficiari, l’importo del Reddito di inclusione, il massimale del beneficio e il limite mensile di prelievo in contanti, oggi limitato solo al 50 per cento dell’importo, mentre il resto è vincolato all’acquisto di determinati beni. Sarà importante che questa pianificazione avvenga ascoltando chi lavora sul territorio e chi conosce le esperienze consolidate di altri paesi. Ed anche che si coordini con gli altri tavoli in cui si discute di distribuzione di risorse scarse.
Dalla decisione sulla prossima legge elettorale scaturirà il parlamento che potrà modificare la costituzione. Non è all'attuale "Parlamento dei nominati" che possiamo lasciare questa decisione.
il manifesto, 24 agosto 2017
La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.
Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.
È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.
La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più.
Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.
Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.
*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale
comune-info.net, 23 agosto 2017 (p.d.)
“Lavoro” è parola magica, ripetuta da tutti: si esce dalla crisi se aumenta l’occupazione non tanto per amore del lavoro o dei lavoratori ma perché solo così i lavoratori, cioè praticamente la totalità dei cittadini di un paese, possono guadagnare del denaro che possono spendere per comprare merci e servizi prodotti da altro lavoro. Il fine del lavoro è infatti produrre merci e servizi. Cioè, sostanzialmente, merci, perché anche i servizi sono resi possibili da qualche ”cosa” prodotta, venduta o acquistata per denaro. Il principale servizio, la vita quotidiana, è reso possibile perché qualcuno produce, col proprio lavoro, ferro, alluminio, bevande, patate, carne, plastica, carrelli della spesa, e trasporta, carica e scarica verdura e maiali.
Il servizio mobilità, la possibilità di andare al lavoro o in vacanza, è assicurato da quei tanti chili di acciaio, plastica, gomma, alluminio, eccetera che si chiama automobile che si muove soltanto se viene alimentata con un prodotto della raffinazione del petrolio. Il servizio illusione è reso possibile dalla raffinata rete telematica che alimenta le sale giochi, le macchine da poker e dalle persone che raccolgono o convogliano scommesse. Tutto lavoro. A rigore, anche i servizi evasione e prostituzione sono resi possibili dal lavoro di chi produce e vende stupefacenti, o accompagna le ragazze al posto “di lavoro” sulla strada. Ciascuna società scoraggia alcuni lavori perché producono merci e servizi eticamente sconsigliabili e ne incoraggia altri.
Mi piacerebbe che i responsabili dell’economia spiegassero quali merci e servizi intendono aumentare o scoraggiare per aumentare l’occupazione. Perché è vero che il capitale necessario per avviare la produzione di merci e servizi, in una società di libero mercato, è fornito dai capitalisti privati che si aspettano un giusto compenso – “to turn an honest penny”, come scriveva Marx – sotto forma di un profitto che gli consenta di avviare la produzione di altri merci e servizi, ma in realtà nelle società a libero mercato i capitalisti privati producono merci e servizi attraverso soldi pubblici, direttamente o indirettamente: sotto forma di prestiti, concessioni, incentivi. Badate bene che in questo ragionamento faccio finta che non esista corruzione. Sarebbe quindi bene che i governanti spiegassero chiaramente come intendono spendere pubblico denaro per produrre che cosa. Un solo esempio: ci sono merci e servizi che non “servono” più, che hanno saturato il mercato (penso all’automobile e a certi settori dell’arredamento). Le fabbriche chiudono, i lavoratori vengono licenziati; per assicurare occupazione a tali lavoratori ha senso continuare a produrre le stesse merci e servizi o occorre incentivare investimenti in altre produzioni ?
A mio modesto parere la salvezza dei lavoratori, ma anche dei capitalisti,andrebbe cercata nell’identificare dei bisogni, anzi delle gerarchie di bisogni da quelli urgenti e indilazionabili (cibo, abitazioni, acqua, salute, mobilità, istruzione) a quelli che possono essere considerati secondari. Uno dei settori che “tirano” sembra essere quello dell’edilizia consistente nella moltiplicazione di case e edifici che spesso restano non occupati anche dopo anni o che vengono occupati poche settimane o pochi giorni all’anno. Nello stesso tempo milioni di immigrati, del cui lavoro abbiamo disperatamente bisogno spesso sfruttandolo, vivono spesso in condizioni disumane senza che nessuno pensi a una edilizia popolare per loro.
All’alba della rivoluzione bolscevica i nuovi dirigenti, davanti ad un paese devastato dalla guerra, dalla carestia e dalla miseria, istituirono un ufficio per la pianificazione il quale aveva il compito di identificare quanto grano sarebbe stato necessario produrre, quante macchine sarebbero state necessarie per produrlo, quanto acciaio sarebbe stato necessario per tali macchine, quanti lavoratori sarebbero stati necessari per grano, macchine e acciaio. E così via. Roosevelt istituì un simile ufficio, per inciso impiegando il giovane Leontief che aveva lavorato nell’Unione Sovietica alla prima pianificazione. Oddio, anche in Italia esiste un ministero della programmazione economica che però ha programmato sempre quello che faceva comodo al grande e piccolo capitale e non ai lavoratori.
Da qui l’attuale crisi. Non so se vorranno farlo l’attuale o qualsiasi futuro governo, le organizzazioni di industriali, commercianti, agricoltori, i sindacati, o se vorrà cimentarcisi qualche gruppo di persone attente al futuro. Ma forse sarebbe utile interrogarsi su quello che viene oggi prodotto, importato ed esportato, su quali bisogni di merci e servizi sono soddisfatti e da soddisfare, quale sarà la situazione fra, diciamo, cinque anni. È vero che il mercato è globalizzato, come si dice, che non si possono impedire le importazioni nella speranza che ad esse corrispondano delle esportazioni, ma in realtà tutti o governi usano i propri poteri per decidere che cosa “ritengono” utile o inutile, spesso commettendo errori che si rivelano dopo qualche tempo e soldi e lavoro dissipati. Si pensi, solo per fare qualche esempio di ieri e di oggi, al ponte sullo stretto di Messina, all’alta velocità, alle centrali nucleari, al “Mose” di Venezia.
E non tocco i costi ambientali (che sono poi costi monetari, di pubblico denaro, cioè di soldi sottratti ai lavoratori) che molti errori di “programmazione” comportano sotto forma di inquinamento, di erosione del suolo, di frane e alluvioni. Si pensi alle cose “non fatte” come la difesa del suolo contro l’erosione, la regolazione del corso dei fiumi e torrenti, la bonifica delle zone inquinate, il corretto smaltimento dei 150 milioni di tonnellate di rifiuti solidi prodotti ogni anno dalla nostra “società dei consumi”.
Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo.
Premessa
La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.
Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.
UNA TESI
di Edoardo Salzano
Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.
Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, sviluppismo, migrazioni, disoccupazione
1.Globalizzazione capitalista
La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, i principi della Rivoluzione liberale dove essi consentivano il maggior peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.
Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni delle Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermata come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il”comunismo”). Esso tuttavia non aveva “rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba)
In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì. sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.
Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciava l’umanità:la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.
Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa.
Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”
2. Sviluppismo
Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure aveva subìto senza comprendere né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalism” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).
Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamene e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperalismo fase suprema del capitalismo).
E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale) Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.
La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).
Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha inventato a slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.
È nata così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile. Il camuffamento operato dalla Commissione Bruntland, che ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da tutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della “vecchia sinistra: il Neoliberalism.
3. Migrazioni
Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla “ sinistra” nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là dello sfruttamento economico: potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo
Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.
4. Disoccupazione
Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.
Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale , libro Primo, sezione III); «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).
Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, Possiamo parlare di “comunismo”? non so. mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.
Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avvviene nel sistema capitalistico.
So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.
5. Una Sinistra inutile?
La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare?)
L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.
Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione con i protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.
Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna e Tomaso sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Così come, del resto. sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita.nella spernza che sia l’ultima volta.
Edoardo Salzano, 14 luglio 2017
UN DIALOGO
tra Enzo Scandurra e
Edoardo Salzano
Enzo a Eddy 17 luglio 2017
Caro Eddy,
rispondo solo ora alla tua lucidissima replica al mio articolo: “c’è vita a sinistra….”, perché sono in vacanza in un luogo da dove è difficile leggere la posta e, ancor più, spedirla. Ti scrivo in forma privata ma lascio a te la decisione di pubblicarla senza alcuna riserva, se la ritenessi utile al dibattito in corso.
Inutile dirti che concordo in tutto con la tua lunga analisi politica delle sventurate vicende della sinistra. Il mio, consentimi questa difesa, era un appello fatto con l’ottimismo della volontà. La tua replica è fatta con il (legittimo) pessimismo della ragione. Siamo entrambi, dunque, inseriti perfettamente nell’ossimoro gramsciano.
Ora io penso che nella storia vanno colte le occasioni che si presentano e che, una volta passate, rischiano di non presentarsi più o tra molti, troppi anni. Le condizioni favorevoli a un cambiamento (ovvero alla formazione di una vera sinistra) sono:
- La debolezza politica della “proposta” renziana che stenta ormai a tenere uniti anche i più fedeli seguaci, già stanchi della sua pomposa retorica;
- Lo spostamento fuori campo di Bersani, D’Alema e altri
- Il carisma di cui gode ancora Pisapia
- La novità della proposta Falcone-Montanari,
- L’avvitamento su posizioni di destra del Movimento 5 stelle: hanno smesso di credere nella politica e nel cambiamento e, non ultimo, lo sconcerto per l’inettitudine della gestione della Capitale da parte del Sindaco Raggi.
Se non ora, quando? Mi riferisco alla costruzione di una vera sinistra. Tu dici: perché credere in coloro che ci hanno traditi o, almeno, hanno tradito lo spirito di una sinistra (con riferimento a Bersani, ecc.)? Concordo con te, ma ripeto quello che ho già detto nell’articolo: le cattedrali si costruivano con le pietre che erano in terra. E questo noi abbiamo, altro non è dato o, almeno, la congiuntura storica non offre. L’anomalia della condizione italiana è che il cambiamento non può – per il momento – che essere innescato dall’alto, nella speranza che, dal basso, nel tempo, nasca un vero movimento che non si riduca semplicemente al dissenso o alla protesta, pur legittima. Solo allora assisteremo alla nascita di nuovi leader. Tu dici che questo assemblaggio, che dovrebbe costituire la vera sinistra, è diviso anche su questioni di fondo. Sì, diciamolo con franchezza, lo è e niente fa pensare, a breve termine, che non lo sarà più anche dopo. E del resto, dovremmo forse aspettare che una destra barbara salga al potere per sciogliere i tormenti della sinistra? Io ribadisco, non ignorando le tue giuste critiche, la convinzione che la congiuntura storico-politica è favorevole. Spetta a noi saperla cogliere.
Con ciò ti rinnovo, nell’apparente dissenso, tutta la mia stima e il mio affetto, Enzo
Eddy a Enzo 19 luglio 2017
Caro Enzo, ti ringrazio molto di proseguire questo dialogo e continuare ad aiutarmi pensare dialogando . Forse stiamo soltanto facendo una piccola testimonianza di democrazia…
Tu continui a pensare che i ruderi del passato non siano solo materiali per comprendere la nostra storia, ma anche pietre con cui costruire le cattedrali del futuro. E credi ancora nella possibilità di costruire qualcosa di nuovo innescandolo “dall’alto”. Io no.
Per scendere al concreto (si fa per dire) io vedo i residui della sinistra come profondamente intrisi, ancora oggi, da due elementi pestiferi poichè impediscono di comprendere il presente e progettare un futuro umano: la “credenza dello sviluppo” e la convinzione che il capitalismo non sia superabile. Non è, questo, un rimprovero che faccio ai D’Alema e ai Bersani del passato, ma a quelli di oggi.
Questo sul piano degli elementi di fondo. Sul piano elettorale sono altrettanto convinto che il bacino elettorale costituito dagli astenuti sia irraggiungibile agitando i nomi e le bandiere della sinistra trascorsa.
Non sono ancora sicuro che non sia necessario raggiungere il fondo dell’abisso («che una destra barbara salga al potere», come dici) per risalire. Del resto non vedo una grande differenza, a parte i modi, tra ciò che si agita nel complesso cuore-cervello-pancia di Minniti e quello di Salvini
E poi, che cosa significa oggi “una vera sinistra”? Se cerco di rispondere individuando un’analogia posso risponderti che la sinistra di oggi sarebbe (o sarà) quella che difende gli sfruttati di oggi. Ma se ragiono su quello che ho imparato dell’oggi in cui viviamo mi accorgo che oggi noi, il mondo della vecchia sinistra, apparteniamo, e da tempo, alla semisfera degli sfruttati, non a quella degli sfruttatori. Gli sfruttati di oggi sono quelli che giacciono al fondo del Mediterraneo, e gli altri bruciano nei loro deserti in attesa di raggiungerli.
Abbattere il capitalismo e costruire una nuova economia in una nuova società. Questo è forse il compito storico che ci spetterebbe. Lo sviluppismo è la cecità che ci impedisce di comprenderlo.
Per onestà e sincerità devo aggiungere che non sono sicuro che i nocchieri del piccolo vascello che si chiama “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” condividano interamente le mie posizioni. Ma sono certo che non esprimano semplicemente al dissenso o protesta, ma qualcosa di più. Mi sembra che questa frase del loro appello dica molto in proposito:
«La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta».
Ciao Enzo, alla prossima(poi, se sei d’accordo, inserirò su eddyburg tutto il dialogo)
Enzo a Eddy 20 luglio 2017-
leggo e rileggo le obiezioni che tu muovi al mio “ottimismo della volontà”. Cerco di trovare nella tua replica un errore, qualcosa che mi dica: “Ecco, qui Eddy sbaglia!” Ma non lo trovo. Anzi, a volte io stesso aggiungerei al tuo “pessimismo della ragione” ulteriori elementi e considerazioni.
Siamo una specie dannata, un incidente biologico, l’unica specie che si accanisce contro la natura considerata altro da noi. Il Mito di Prometeo, il fuoco salvifico della tecnica, continua a vivere nel nostro Occidente: fa proseliti, arruola giovani, ingrossa ogni giorno il suo esercito minaccioso. Siamo molecolarmente assuefatti all’idea di uno Sviluppo che infine ci salvi, a quella che una Tecnica possa risolvere per sempre i nostri problemi, nel mentre continuiamo imperterriti nella nostra opera di devastazione sociale e ambientale.
Eppure, ieri mattina ho sentito Vezio, emozionato all’idea che il progetto Bagnoli riparta. Ho sentito, e non è la prima volta, un amore incontenibile in lui, per Napoli, per Bagnoli, per la possibilità di un progetto di riscatto; un riscatto che quella città meriterebbe dopo essere stata profanata e, ancora oggi, vilipesa da giornalisti stranieri incompetenti. Quel suo amore mi ha contagiato, così che ho di nuovo pensato: “Eddy sbaglia, una possibilità ci deve essere ancora, c’è ancora”.
Ma poi la cronaca quotidiana degli avvenimenti - quanto morti affogati oggi? -, mi riporta alla nostra condizione di miseria sociale, all’indifferenza e all’apatia di un Europa che è solo un’immagine sbiadita di quella culla di civiltà che è stata nei tempi (ma non è in questa terra che sono nati Goethe, Shakespeare, San Francesco, Leopardi?), a quel mare tra le terre che è stato un ponte tra Occidente e Oriente, luogo dove è nata la civiltà che era frutto di ibridazione come ci ricorda Braudel, e oggi cimitero di vite miserabili, senza nome, di bambini che del mondo hanno conosciuto solo le sofferenze e le privazioni. E penso, come Cesare Pavese, che ogni guerra è una guerra civile, perché guerra tra umani contro altri umani.
Le statistiche ci dicono il numero di morti che non ha raggiunto quelle terre da dove sono partiti i colonizzatori a depredare le loro risorse. Ma ogni vita, ogni singola vita, chiede ascolto e pietà. Che ne sappiamo di loro? Solo numeri, cifre, statistiche. Cosa pensavano durante quel viaggio mai terminato sui barconi della morte? Quali amori hanno lasciato nelle loro terre e quali speranze coltivavano? Per loro il Mediterraneo non è stato un ponte, ma una bara. Noi non sappiamo nulla di loro, se non che sono i nostri nemici, che attentano il nostro effimero benessere, i nostri mercati di merci corrotte.
Tu, Vezio, io dopo di voi, altri ancora dopo di noi, hanno coltivato la speranza, e la passione, che buoni progetti potessero rendere accoglienti le nostre città, renderle più vivibili, più a misura d’uomo. E ogni giorno scopriamo che leggi ingiuste e mosse dal mito del mercato e dello sviluppo, distruggono territori, devastano paesaggi, mercificano bellezze. Venezia, come Firenze, come Roma, città stuprate, involgarite, dove la bellezza, come diceva Camus, si è ritirata, si è nascosta, in attesa di essere ricercata, semmai qualcuno se ne ricorderà di farlo.
Non vado oltre; come vedi non riesco a trovare in quel che dici l’”errore”. Ma coltivo un sogno, quel sogno che ha sempre animato la sinistra, che ha prodotto passioni, sacrifici di vite umane, agitato masse, e che non ha mai smesso di far girare il mondo.
Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:
«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.
Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.
Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.
Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…
«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo.
Enzo a Eddy, 11 agosto 2017
Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.
In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.
Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.
Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.
Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.
Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:
«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.
Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.
Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.
Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…
«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo. Ma per stasera basta. A presto, carissimo Enzo
11 agosto 2017 Enzo a Eddy
Che dire? Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.
In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.
Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.
Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.
Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.
20 agosto 2017 Eddy a Enzo
La folla c’è, Enzo, ma non sa di esserlo. È la massa crescente degli “sfruttati dallo Sviluppo”, dalla quale quali emerge, per ora, solo l’aggressione del terrorismo…
file scaricabile qui

vocidall'estero.it, online, 18 agosto 2017 (c.m.c)
«Proponiamo la traduzione integrale di un capitolo tratto dal Skin in the Game, l’ultimo libro di Nassim Nicholas Taleb. Con tipica irriverenza e lucidità, Taleb propone un’interpretazione provocatoria e contro-intuitiva delle dinamiche che regolano i comportamenti sociali: a determinate condizioni, i cambiamenti sociali, ben lungi dall’essere causati dalle azioni della maggioranza, sono il frutto dell’ostinata volontà di una minoranza intollerante. In quest’ottica le attuali retoriche di accoglienza, integrazione e tolleranza acquistano un significato inquietante e tendenzialmente auto-distruttivo. Come sempre il messaggio, però, può anche essere visto dalla prospettiva opposta: la consapevolezza di avere una “posta in gioco” nel cambiamento sociale potrebbe portare anche una minoranza virtuosa, purché motivata e determinata, a contrastare l’apparentemente inevitabile declino sociale, economico e culturale».
Perché gli europei mangeranno Halal — Perché non è obbligatorio fumare nella zona fumatori — Le preferenze alimentari al funerale del re saudita–Come impedire ad un amico di ammazzarsi di lavoro – La conversione di Omar Sharif — Come causare un crack dei mercati
Per gettar luce sul funzionamento dei sistemi complessi, inizierei col portare qualche esempio. Se una minoranza intransigente – una minoranza di un certo tipo – raggiunge un livello percentuale anche minimo, diciamo il tre o quattro per cento della popolazione totale, l’intera popolazione dovrà sottostare alle sue preferenze. Inoltre, il dominio della minoranza causa una distorsione ottica: un osservatore sprovveduto potrebbe ritenere che le scelte e preferenze corrispondano a quelle della maggioranza. Se sembra assurdo, è perché le nostre percezioni scientifiche non sono calibrate per comprendere i sistemi complessi (inutile rifarsi a convinzioni scientifiche o accademiche e alle prime impressioni; nei sistemi complessi queste falliscono, e qualsiasi razionalizzazione, tranne la saggezza delle nonne, è destinata a fallire).
L’idea che sta alla base dei sistemi complessi è che l’insieme si comporta in modo non deducibile dalle sue componenti. Le interazioni sono più importanti della natura di ciascuna unità. Studiare le formiche prese singolarmente non potrà mai (e per situazioni di questo tipo si può tranquillamente dire “mai” senza tema di smentita) dare un quadro d’insieme sul funzionamento di una colonia di formiche. Per questo, è necessario studiare una colonia di formiche come una colonia di formiche, né più, né meno, e non come una collezione di formiche. Si ha così una qualità “emergente” del tutto, per la quale le parti e il tutto differiscono, perché ciò che conta è l’interazione tra queste parti. E l’interazione può obbedire a regole molto semplici. La regola discussa in questo capitolo è la regola della minoranza.
La regola della minoranza spiega come sia sufficiente un piccolo gruppo di persone virtuose ed intolleranti che non abbiano niente da perdere, e che abbiano coraggio, perché la società funzioni secondo le loro preferenze.
Questa spiegazione della complessità mi è venuta, inaspettatamente, durante una grigliata all’aperto offerta dal New England Complex Systems Institute. Mentre gli organizzatori apparecchiavano i tavoli e sistemavano le bevande, un mio amico molto osservante, che mangia soltanto Kosher, si avvicinò per salutarmi. Gli offrii un bicchiere di quel liquido giallo zuccherato con aggiunta di acido citrico altrimenti noto come limonata, nella quasi certezza che l’avrebbe rifiutato per via delle sue regole alimentari. Ma così non fu. Accettò e bevve il liquido detto limonata, ed un altro osservante Kosher commentò: “Tanto, tutte le bevande sono Kosher qui”. Diedi un’occhiata al cartone di limonata. In piccolo, stampigliato, c’era un simbolo, una U racchiusa in un cerchio, ad indicare che era Kosher. Il simbolo può essere facilmente identificato dagli interessati, che vanno espressamente a cercare questa minuscola stampigliatura. Tutti gli altri, incluso me, avevamo passato tutti questi anni a bere bevande Kosher senza rendercene conto.
Delinquenti allergici alle noccioline
Allora mi venne una strana idea. La popolazione Kosher rappresenta meno di tre decimi di punto percentuale dei residenti negli Stati Uniti. Nonostante questo, quasi tutte le bevande in commercio sono Kosher. Perché? Semplicemente perché produrre esclusivamente Kosher permette a produttori, distributori e ristoratori di non dover distinguere tra bevande Kosher e non-Kosher con etichette speciali, scaffali separati, inventari separati, magazzini differenti. E la discriminante di tutto ciò è questa:
Chi segue le regole Kosher (o Halal) non mangerà cibo non Kosher (o non Halal), ma chi non segue le regole Kosher può comunque consumare alimenti Kosher.Oppure, trasposto in altri ambiti:Un disabile non userà mai i bagni regolari ma un non-disabile può usare il bagno per i disabili.
Chiaro, a volte nei fatti si esita ad usare un bagno con il simbolo per disabili a causa di una certa confusione – si scambia questa regola con quella dei parcheggi, credendo che l’uso del bagno sia riservato esclusivamente ai disabili.
Chi ha un’allergia alle noccioline non può mangiare prodotti che siano entrati in contatto con arachidi, ma chi non ha questa allergia può tranquillamente mangiare cibi senza traccia di arachidi. Il che spiega perché sia così difficile trovare noccioline in aereo e perché le noccioline siano vietate nelle scuole (contribuendo così ad aumentare il numero di persone con allergie da noccioline, dato che una delle cause di queste allergie è la ridotta esposizione).
Applichiamo ora la regola in ambiti in cui la cosa diventa divertente:
Una persona onesta non commetterà mai atti criminali, ma un criminale può sempre agire legalmente.Chiamiamo la minoranza il gruppo intransigente, e la maggioranza quello flessibile. E la regola è quella della asimmetria nelle scelte.
Una volta ho fatto uno scherzo ad un amico. Anni fa, quando i produttori di tabacco nascondevano e minimizzavano le prove dei danni causati da fumo passivo, i ristoranti di New York avevano aree fumatori e non-fumatori (persino gli aerei, incredibilmente, avevano un’area fumatori). Un giorno andai a pranzo con un amico che era in visita dall’Europa: il ristorante aveva tavoli liberi solo nella zona fumatori. Io riuscii a convincere il mio amico che dovevamo comprare delle sigarette perché per stare nella zona fumatori si doveva fumare. E lui si conformò.
E ancora. Innanzi tutto conta parecchio la geografia del territorio, la sua organizzazione dello spazio; è molto diverso se gli intransigenti vivono tutti insieme o se sono distribuiti in mezzo al resto della popolazione. Se i seguaci della regola di minoranza vivessero in un ghetto, con la loro piccola economia separata, la regola della minoranza non si applicherebbe. Ma se la popolazione è distribuita nello spazio, se ad esempio la percentuale di tale minoranza in un quartiere equivale a quella nel villaggio, quella nel villaggio equivale a quella della provincia, quella della provincia a quella della regione, e quella della regione è la stessa che in tutto il paese, allora la maggioranza (flessibile) dovrà sottostare alla regola della minoranza.
Inoltre, anche la struttura dei costi ha la sua importanza. Nel nostro primo esempio, si dà il caso che produrre limonata conforme alle regole Kosher non cambi molto il prezzo, almeno non abbastanza da giustificare inventari separati. Ma se la produzione di limonata Kosher costasse molto di più, la regola si indebolirebbe in una qualche proporzione non-lineare con la differenza di prezzo. Se produrre cibi Kosher costasse 10 volte tanto, la regola della minoranza non si applicherebbe, tranne forse in qualche quartiere molto ricco.
Anche i musulmani hanno il loro tipo di regole Kosher, ma queste sono più limitate e si applicano solo alla carne. Musulmani ed ebrei hanno infatti le stesse regole di macellazione (tutto ciò che è Kosher è anche Halal per i musulmani, o almeno così era nei secoli scorsi, ma non è sempre vero il contrario). Si noti come queste regole di macellazione siano motivate dalla posta in gioco, e tramandate da pratiche greche e semitiche del Mediterraneo Orientale, in base alle quali le divinità erano venerate solo investendoci qualcosa, come sacrificare animali alla divinità per poi mangiarne i resti. Gli dei non amano le cerimonie a buon mercato.
Ora si consideri questa manifestazione della dittatura della minoranza. Nel Regno Unito, dove la popolazione musulmana (praticante) è solo il tre o quattro per cento, gran parte della carne è Halal. Quasi il settanta per cento delle importazioni di agnello dalla Nuova Zelanda sono Halal. Circa il dieci per cento dei negozi della catena Subway sono Halal (cioè, non servono carne di maiale), nonostante le significative perdite commerciali derivanti dal non poter servire prosciutto. Lo stesso vale in Sudafrica, dove, con la stessa proporzione di musulmani, una quantità sproporzionata di polli sono certificati come Halal. Tuttavia, in UK e in altri paesi cristiani, Halal non è un concetto abbastanza neutro da diffondersi molto, poiché la gente potrebbe ribellarsi se costretta a seguire regole religiose estranee. Ad esempio Al-Akhtal, poeta arabo cristiano del VII secolo, ribadì la scelta di non consumare mai carne Halal in un noto poema provocatorio in cui si vantava del suo Cristianesimo: “Io non mangio carne sacrificale”. (Al-Akhtal si riferiva alla tipica reazione cristiana di tre o quattro secoli prima — i cristiani in epoca pagana venivano torturati obbligandoli a mangiare carne sacrificale, che per loro era sacrilegio. Diversi martiri cristiani morivano di fame.)
Ci si può attendere lo stesso rifiuto delle regole religiose in Occidente, man mano che la popolazione musulmana va crescendo.
Quindi la regola della minoranza potrebbe portare a una maggiore proporzione di alimenti Halal nei negozi rispetto a quanto giustificato dalla proporzione dei consumatori Halal nella popolazione, ma solo fino ad un certo punto, perché alcuni potrebbero sviluppare un’avversione al cibo musulmano. Per certe regole Kashrut (concernenti i cibi Kosher, N.d.T.) senza connotazioni religiose, la percentuale può tranquillamente avvicinarsi al 100%. Negli USA e in Europa i produttori di cibo “biologico” vendono sempre di più proprio grazie ad un’applicazione della regola della minoranza, e perché i prodotti ordinari non etichettati come tali sono spesso percepiti come contenenti pesticidi, erbicidi ed organismi transgenici geneticamente modificati, “OGM”, che secondo alcuni presentano rischi sconosciuti. (In questo contesto OGM si riferisce al cibo transgenico, ottenuto trasferendo geni da un organismo o una specie estranea). Oppure la preferenza può essere dettata da motivi esistenziali, da un atteggiamento di prudenza, o da un’inclinazione (in stile Burke) verso i valori della tradizione – c’è chi preferisce non discostarsi troppo e troppo velocemente da ciò che mangiavano i nonni. L’etichettatura “biologico” è un modo per indicare che quell’alimento non contiene OGM.
Spingendo per gli alimenti geneticamente modificati con mezzi che andavano dalle lobby, alle mazzette ai politici, fino alla palese propaganda scientifica (con campagne diffamatorie contro individui come il sottoscritto), le grandi aziende agricole si illudevano ingenuamente che bastasse avere la maggioranza dalla loro parte. Niente di più sbagliato. Come dicevo, il tipico ragionamento aridamente “scientifico” è troppo poco sofisticato per questo genere di decisioni.
Teniamo presente che chi mangia OGM transgenici può mangiare anche non-OGM, ma non il contrario. Quindi basta che ci sia una piccola parte, non più del 5%, di popolazione che non mangia gli OGM, distribuita uniformemente nello spazio, per far sì che l’intera popolazione finisca con il consumare non-OGM. In che modo? Supponiamo che si debba organizzare un evento aziendale, un matrimonio, o una grande festa per celebrare la caduta del regime saudita, o il fallimento della banca di investimenti speculativi Goldman Sachs, o la pubblica umiliazione di Ray Kotcher, il presidente di Ketchum, l’agenzia di pubbliche relazioni specializzata nel diffamare scienziati e informatori scientifici in nome e per conto delle grandi multinazionali. C’è forse bisogno di mandare questionari per chiedere agli invitati se mangiano o no OGM transgenici e prenotare se è il caso pasti speciali? No. Basta ordinare tutto non-OGM, a meno che la differenza di prezzo non sia significativa. E la differenza di prezzo sembra essere irrilevante, perché il prezzo degli alimentari (freschi) in America è determinato in gran parte (fino all’80 o 90%) dalla distribuzione e stoccaggio, non dal costo di produzione agricola. E dato che la domanda di alimenti biologici (o designati come “naturali”) da parte della minoranza è in continua crescita, i costi di distribuzione diminuiscono e la regola della minoranza finisce con l’accelerare anche questo effetto.
Le grandi imprese agricole industriali non hanno capito che, in questo gioco, per vincere non basta avere più punti dell’avversario, ma bisogna avere il 97% dei punti totali. Ancora una volta, stupisce che a queste grandi aziende, capaci di spendere milioni di dollari in campagne di ricerca e diffamazione, con centinaia di scienziati convinti di essere più intelligenti del resto della popolazione, sia potuto sfuggire un concetto talmente elementare come le scelte asimmetriche.
Un altro esempio: non si pensi che la diffusione di auto con il cambio automatico [negli USA, N.d.T.] sia dovuta necessariamente al fatto che la maggioranza preferisce guidare automatico; potrebbe essere semplicemente il caso che chi sa guidare con il cambio manuale può sempre guidare con quello automatico, ma non il contrario [1].
Il metodo di analisi qui utilizzato è noto come gruppo di rinormalizzazione, un potente apparato matematico che in fisica teorica permette di studiare i cambiamenti nel tempo. Vediamo di che si tratta – senza usare le formule.
Gruppo di rinormalizzazione
La figura in alto mostra quattro riquadri che presentano la cosiddetta auto-similarità frattalica. Ciascun riquadro contiene quattro riquadri più piccoli. Ciascuno dei quattro riquadri contiene quattro riquadri, e così via, verso l’alto e verso il basso fino a raggiungere un certo livello. I due colori rappresentano: il giallo la scelta maggioritaria, il rosa quella minoritaria.
Immaginiamo che l’unità più piccola contenga quattro persone, una famiglia. Uno di questi è la minoranza intransigente e mangia solo alimenti no-OGM (inclusi quelli biologici). Il suo riquadro sarà in rosa mentre gli altri sono gialli. Con la “prima rinormalizzazione”, la figlia testarda riesce ad imporre le sue regole a tutti e quattro, ed il riquadro-famiglia diventa interamente rosa, ovvero tutti sceglieranno no-OGM. Nel terzo passaggio, la famiglia è invitata ad una grigliata cui partecipano altre tre famiglie. Poiché l’ospite sa che loro mangiano solo no-OGM, cucinerà esclusivamente biologico. Lo spaccio alimentare del quartiere, rendendosi conto che i suoi clienti ormai chiedono solo no-OGM, inizierà a vendere solo cibi no-OGM per semplificarsi la vita, il che avrà un impatto sul distributore locale, e così via di rinormalizzazione in rinormalizzazione.
Per caso, il giorno prima del barbecue di Boston, mi trovavo a zonzo per New York, e passai dall’ufficio di un amico cui volevo impedire di lavorare, ossia, svolgere quell’attività che, se abusata, causa perdita di lucidità mentale, nonché cattiva postura e perdita di definizione dei connotati facciali. Il fisico francese Serge Galam si trovava anche lui per caso di passaggio, e aveva deciso di bighellonare un po’ nell’ufficio del mio amico. Galam era stato il primo ad applicare le tecniche di rinormalizzazione alle scienze sociali e politiche; il suo nome non mi era nuovo perché si trattava dell’autore del più importante libro sull’argomento, che da mesi giaceva in una scatola di Amazon mai aperta nella mia cantina. Mi illustrò dunque le sue ricerche e mi mostrò un modello computerizzato di elezioni, in base al quale basta che una minoranza superi un certo livello perché le sue preferenze prevalgano.
Nelle analisi politiche esiste dunque la stessa illusoria convinzione, diffusa dagli “scienziati” politici: si pensa che se un determinato partito di estrema destra o sinistra ha, poniamo caso, il sostegno del 10% della popolazione, ne consegue che il suo candidato otterrà il 10% dei voti. No: gli elettori di riferimento devono essere classificati come “inflessibili” e voteranno sempre per la loro parte. Ma alcuni elettori flessibili possono anche votare per i partiti estremisti, esattamente come chi non osserva l’alimentazione Kosher può mangiare Kosher, e questi sono gli elettori su cui ci si deve concentrare perché possono gonfiare il numero di voti per un partito o l’altro. Il modello di Galan produceva una miriade di effetti contro-intuitivi per le scienze politiche – e le sue previsioni risultavano molto più vicine alla realtà di quanto lo sia un’interpretazione ingenua.
Il veto
Quando una persona è in grado di pilotare le scelte di un gruppo di rinormalizzazione, questo si chiama l’effetto “veto”. Rory Sutherland suggerisce che sia questo il motivo per cui certe catene di fast-food, come McDonald, hanno successo, nonostante la scarsa qualità dei loro prodotti, perché in un certo gruppo socio-economico non vi sono obiezioni a frequentarlo – e solo per una piccola parte di quel gruppo. Per dirla in termini tecnici, si tratta della migliore tra le peggiori ipotesi di divergenza dalle aspettative: quando la media e la varianza sono basse.
Quando ci sono poche scelte, il McDonald sembra l’opzione più sicura. Ed è un’opzione sicura anche in posti poco raccomandabili, con pochi clienti abituali, in cui la varianza del cibo rispetto alle aspettative può essere significativa – sto scrivendo queste righe alla stazione centrale di Milano e, per quanto possa essere offensivo per un visitatore che venga da lontano, il McDonald è uno dei pochi ristoranti frequentabili qui. Sembrerà strano, ma ci vanno anche gli italiani che cercano di salvarsi dai cibi più a rischio.
Lo stesso vale per la pizza: è un tipo di cibo comunemente accettato e, tranne che non ci si trovi in un ristorante di lusso, non c’è nulla di male ad ordinarla.
Rory mi scrisse anche a proposito dell’asimmetria birra-vino e di come questo influenza le scelte ai ricevimenti: “Se la percentuale di donne invitate supera il 10%, non è più possibile servire soltanto birra. Ma la maggior parte degli uomini beve anche vino. Quindi, se si serve solo vino, basta un solo set di bicchieri — il donatore universale, per usare la terminologia dei gruppi sanguigni.”
La strategia del miglior limite inferiore è la stessa adottata dai Cazari per scegliere tra Islam, Giudaismo e Cristianesimo. Narra la leggenda che tre delegazioni di alto livello (vescovi, rabbini e sceicchi) cercarono di convertirli. Ai cristiani venne chiesto: se doveste scegliere tra Giudaismo e Islam, quale preferireste? Il Giudaismo, risposero questi. Poi fu chiesto ai musulmani: quale delle due, Cristianesimo o Giudaismo. Il Giudaismo, dissero i musulmani. Era dunque il Giudaismo, e la tribù si convertì.
Lingua Franca
Se ad un meeting che si svolge in Germania, in un’austera sala conferenze in stile teutonico di un’azienda sufficientemente internazionale o quantomeno europea, uno dei presenti non capisce il tedesco, l’intero meeting si terrà in…inglese, o almeno nell’inglese sgangherato parlato nelle aziende di tutto il mondo. Così si riesce ad oltraggiare sia gli antenati teutonici che la lingua inglese[2]. Tutto cominciò con la regola asimmetrica per cui coloro che non sono di madrelingua inglese parlano (male) l’inglese, ma il contrario (che gli anglofoni parlino altre lingue) è meno probabile. Il francese in passato era la lingua della diplomazia usata dai funzionari, che generalmente erano di estrazione aristocratica – mentre i loro connazionali più rozzi, occupandosi di commercio, si affidavano all’inglese. Nella rivalità tra le due lingue, l’inglese risultò vincitore man mano che il commercio acquisì prevalenza nella vita moderna; questa vittoria non ha nulla a che fare con il prestigio della Francia o gli sforzi dei loro funzionari nella promozione della loro più o meno gradevole ed ortograficamente coerente lingua latina rispetto a quella ortograficamente più confusa dei polpettoni d’oltre Manica.
Si può dunque intuire in che modo l’emergere di una lingua franca possa rispondere alle regole della minoranza – e questo è un aspetto che i linguisti ignorano. L’aramaico è una lingua semitica che soppiantò il canaita (ossia, l’ebraico-fenicio) nel Levante, e somiglia all’arabo; era la lingua parlata da Gesù Cristo. Il motivo per cui riuscì a prevalere nel Levante e in Egitto non è una particolare potenza imperiale semitica o il fatto che hanno una forma del naso interessante. Furono i Persiani – che parlano una lingua indoeuropea – a diffondere l’aramaico, la lingua di assiri, siriani e babilonesi. I Persiani insegnarono agli egiziani una lingua che non era la loro.
Semplicemente, quando i Persiani invasero Babilonia, lì trovarono un’amministrazione con scribi che erano in grado di usare solo l’aramaico e non conoscevano il persiano, quindi l’aramaico divenne la lingua ufficiale. Se un segretario è capace di scrivere sotto dettatura solo in aramaico, gli si deve parlare aramaico. Ciò portò alla stranezza per cui l’aramaico si è diffuso fino in Mongolia, perché i registri di stato erano scritti in siriaco (un dialetto orientale dell’aramaico). Secoli dopo la storia si replicò al contrario, con gli arabi che usarono il greco nei loro primi governi del VII e VIII secolo. Infatti, durante l’epoca ellenistica, il greco aveva soppiantato l’aramaico quale lingua franca nel Levante, e gli scribi di Damasco tenevano i loro registri in greco. Ma non furono i Greci a diffondere il greco in tutto il Mediterraneo – non fu Alessandro (che comunque non era greco ma macedone e parlava un dialetto greco differente) a causare l’immediata e profonda ellenizzazione. Furono i Romani ad accelerare la diffusione del greco, che veniva usato nelle loro amministrazioni in tutto l’Impero orientale.
Un mio amico franco-canadese di Montreal, Jean-Louis Rheault, si lamentò una volta con me a proposito della perdita della lingua dei franco-canadesi fuori dai confini delle province. Disse queste parole: “In Canada, per bilingue si intende anglofono, e per “francofono” si intende bilingue.”
La strada a senso unico delle religioni
Allo stesso modo, la diffusione dell’Islam in Medio Oriente, dove il Cristianesimo era fortemente radicato (essendo nato lì) può essere attribuita a due semplici asimmetrie. In origine, i sovrani islamici non erano particolarmente interessati a convertire i Cristiani, dato che questi pagavano le tasse – il proselitismo dell’Islam non si rivolgeva alle cosiddette “genti del libro”, cioè individui di credo abramitico. In realtà, i miei antenati, che sopravvissero per tredici secoli sotto il dominio musulmano, trovavano vantaggioso non essere musulmani: in particolare, così evitavano la coscrizione obbligatoria.
Le due regole asimmetriche erano le seguenti. Primo, se un uomo non-musulmano sotto dominazione islamica sposa una donna musulmana, deve convertirsi all’Islam – e se uno dei genitori è musulmano, il figlio sarà musulmano[3]. Secondo, essere musulmani è irreversibile, e l’apostasia è il crimine più grave per la religione, punito con la morte. Il famoso attore egiziano Omar Sharif, nato Mikhael Demetri Shalhoub, era di origine cristiana libanese. Si convertì all’Islam per sposare una famosa attrice egiziana e dovette cambiare il nome con uno arabo. Più tardi divorziò, ma non tornò alla religione dei suoi antenati.
Con queste due regole asimmetriche è possibile fare delle semplici simulazioni e vedere come un piccolo gruppo islamico che occupi l’Egitto cristiano (Copto) possa, nel corso dei secoli, portare i Copti a diventare un’esigua minoranza. Basta soltanto una piccola percentuale di matrimoni interconfessionali. Si spiega egualmente perché il Giudaismo non si diffonda e tenda a restare in una minoranza, dato che questa religione segue la regola opposta: la madre deve essere ebrea, e i matrimoni interconfessionali abbandonano la comunità. Un’asimmetria ancora più estrema di quella del Giudaismo spiega la diminuzione in Medio Oriente di tre religioni gnostiche: i Drusi, gli Yazidi e i Mandei (le religioni gnostiche sono quelle in cui i misteri e la conoscenza sono tipicamente accessibili soltanto ad una minoranza di anziani, mentre il resto della comunità è all’oscuro delle questioni religiose). A differenza dell’Islam, dove uno qualsiasi dei genitori deve essere musulmano, e del Giudaismo, dove almeno la madre deve avere quella religione, queste tre religioni richiedono che entrambi i genitori siano della stessa fede, altrimenti la persona viene esclusa dalla comunità.
L’Egitto ha un territorio pianeggiante. La popolazione è distribuita in maniera omogenea, il che permette la rinormalizzazione (cioè permette la prevalenza della regola delle asimmetrie) – come spiegato precedentemente in questo capitolo, perché le regole Kosher diventino prevalenti è necessario che gli ebrei siano distribuiti abbastanza uniformemente nel paese. Ma in posti come il Libano, la Galilea e il nord della Siria, dove il territorio è montagnoso, cristiani e altri musulmani non sunniti sono rimasti isolati. Se i cristiani non vengono in contatto con i musulmani, non vi sono matrimoni interconfessionali.
I Copti d’Egitto hanno anche avuto un altro problema: l’irreversibilità delle conversioni islamiche. Molti Copti si convertirono all’Islam durante il dominio islamico quando si trattava di una procedura puramente burocratica, per poter accedere a determinate professioni o per risolvere un problema che richiedesse la giurisprudenza islamica. Non c’è bisogno di credere, perché l’Islam non è fondamentalmente diverso dal Cristianesimo Ortodosso. Con il passar del tempo una famiglia cristiana o ebrea convertita per convenienza diventa convertita sul serio, e un paio di generazioni più tardi i discendenti dimenticano che quello dei propri antenati era solo un accomodamento.
Quindi l’arma vincente dell’Islam è stata il suo essere più intollerante del Cristianesimo, il quale a sua volta si era imposto grazie alla sua intolleranza. Infatti, prima della nascita dell’Islam, la diffusione del Cristianesimo nell’Impero Romano si può considerare dovuta….alla cieca intolleranza dei cristiani, l’incondizionata, aggressiva resistenza del loro proselitismo. I pagani romani inizialmente tolleravano il Cristianesimo, era nella loro tradizione condividere le divinità con gli altri popoli dell’impero. Ma poi iniziarono a chiedersi perché questi Nazareni non fossero disposti a fare cambio con le loro divinità e ad inserire il loro Gesù nel pantheon romano in cambio di altri dei. Forse i nostri dei non valgono abbastanza per loro? Ma i cristiani erano intolleranti verso il paganesimo romano. Le “persecuzioni” dei cristiani furono causate molto più dall’intolleranza dei cristiani verso il pantheon e gli dei locali che non il contrario. Noi però leggiamo la storia scritta dai cristiani, non dai greco-romani. [4]
Non sappiamo abbastanza del lato dei Romani durante l’ascesa del Cristianesimo, perché il dibattito è stato monopolizzato dall’agiografia: ad esempio, conosciamo la storia di Santa Caterina martire, che continuò a convertire i suoi carcerieri finché non fu decapitata, se non che…probabilmente non è mai esistita. Esistono un’infinità di storie di martiri e santi cristiani – ma quasi nulla sull’altra parte, gli eroi pagani. Gli unici documenti che abbiamo sono quelli sul ritorno al Cristianesimo durante l’apostasia dell’imperatore Giuliano e gli scritti del suo seguito di pagani greco-siriani, come Libanio Antioco. Giuliano aveva inutilmente tentato di ritornare all’antico paganesimo, ma era come cercare di mantenere un pallone sott’acqua. E ciò non perché, come ritengono gli storici erroneamente, la maggioranza fosse pagana: ma perché la fazione cristiana era troppo intransigente. Il Cristianesimo poteva contare su menti brillanti come Gregorio Nazianzeno e San Basilio, ma nessuno che potesse paragonarsi, o almeno avvicinarsi, al grande oratore Libanio. (La mia ipotesi euristica è che più una mente è pagana, più è intelligente, con maggiori capacità di comprendere sfumature ed ambiguità. Religioni puramente monoteistiche come il Protestantesimo, il Salafismo o l’ateismo fondamentalista, riescono a soddisfare solo le menti capaci di ragionamenti letterali e mediocri, incapaci di tollerare le ambiguità.)
Si evidenzia infatti nella storia delle “religioni” mediterranee, o piuttosto dei rituali e sistemi di comportamento e di credenze, una cesura storica operata dagli intolleranti, che ha effettivamente portato a ciò che viene comunemente inteso come religioni. Il Giudaismo avrebbe potuto quasi estinguersi a causa della regola di successione materna e il suo confinamento su base tribale, ma il Cristianesimo poté imporsi, e lo stesso vale per l’Islam. E poi, quale Islam? Ne esistono molte varietà, e il risultato finale è molto diverso dalle versioni precedenti. Perché lo stesso Islam ha finito con l’essere monopolizzato dai puristi (nella sua parte sunnita), semplicemente perché questi erano più intolleranti degli altri: i Wahabbiti, fondatori dell’Arabia Saudita, erano quelli che distruggevano i templi, per imporre le regole più intolleranti, imitati recentemente dall’”ISIS” (l’Islamic State of Iraq and Syria/il Levante). Ogni derivazione successiva dell’Islam sunnita sembra essere concepita per compiacere il suo ramo più intollerante.
Imporre la virtù
Questa idea di unilateralità aiuta a sfatare un certo numero di altri equivoci. Perché i libri vengono messi all’indice? Certamente non perché offendono la gente comune – la maggior parte di loro è passiva e disinteressata, o non abbastanza motivata da richiederne la censura. Sembra piuttosto, sulla base delle esperienze passate, che bastino pochissimi (ma motivati) attivisti per censurare un libro, o includere certe persone in una lista nera. Il grande filosofo razionalista Bertrand Russell perse la sua cattedra alla City University of New York a causa di una lettera scritta da una madre furiosa – e ostinata – per il fatto che sua figlia potesse trovarsi nella stessa aula con una persona dallo stile di vita dissoluto e dalle idee sovversive. [5]
Lo stesso vale per i proibizionismi – almeno negli Stati Uniti il proibizionismo dell’alcool ha originato una serie di storie di mafia davvero appassionanti.
Non illudiamoci che la formazione dei valori morali di una società avvenga come evoluzione del consenso. No, sono i più intolleranti ad imporre la virtù agli altri, proprio in base alla loro intolleranza. Lo stesso vale per i diritti civili.
Esempio questo perfetto per capire come i meccanismi della religione e della trasmissione di regole morali obbediscano alle stesse dinamiche di rinormalizzazione delle regole alimentari – e per mostrare che il senso morale comune non è altro che un’imposizione da parte di una minoranza. Abbiamo visto in precedenza l’asimmetria tra l’osservanza e l’infrazione delle regole: chi rispetta le leggi ( o le regole) seguirà sempre le regole, ma un delinquente, o una persona con una serie di principi più permissivi, non infrangeranno sempre tutte le regole. Analogamente si è discusso l’effetto fortemente asimmetrico delle regole alimentari Halal. Uniamo adesso i due concetti. In arabo classico, la parola Halal ha un suo contrario: Haram. La violazione di disposizioni legali e morali – di qualsiasi tipo – è Haram. La stessa interdizione disciplina sia l’alimentazione che tutti gli altri comportamenti umani, come giacere con la donna altrui, prestare ad usura (senza condividere il rischio del debitore) o uccidere il proprio latifondista per diletto. Haram è Haram, ed è una regola asimmetrica.
Da ciò consegue che, perché una regola morale si affermi, una minoranza intransigente di individui sparsi geograficamente è sufficiente a determinare le norme prevalenti in una società. La cattiva notizia è che chi osservi l’umanità in aggregato potrebbe erroneamente arrivare alla conclusione che il genere umano si stia spontaneamente evolvendo per essere migliore, più morale, più amabile, con un alito più profumato, quando invece questo vale solo per una piccola parte dell’umanità.
La persistenza della regola della minoranza, una tesi probabilistica
Una tesi probabilistica che conferma la prevalenza della regola della minoranza nel dettare i valori sociali è la seguente. Dall’osservazione di diverse società e della loro storia si evidenzia come siano sempre le stesse regole morali generali ad affermarsi, con alcune varianti non significative: non rubare (quanto meno, non dalla stessa tribù); non adescare gli orfani per il tuo piacere; non picchiare gratuitamente il primo venuto per allenarti, usa invece i sacchi da boxe (tranne se sei spartano, ma anche in quel caso sei autorizzato a uccidere solo un numero finito di iloti per allenarti), ed altre interdizioni di questo genere. Si nota anche che con il passare del tempo queste regole si evolvono per diventare sempre più universali, espandendosi in territori sempre più vasti, fino ad includere progressivamente gli schiavi, le altre tribù, le altre specie (gli animali, gli economisti), ecc. Ed una delle proprietà salienti di queste regole è il loro essere “o nero o bianco”, binarie, discrete, non ammettere gradazioni. Non è possibile rubare “un pochino” o uccidere “con moderazione”. Non è possibile osservare il Kosher e mangiare “solo un pezzettino” di maiale alla grigliata domenicale.
Per questo è molto più probabile che questi valori provengano da una minoranza che non dalla maggioranza. Perché? Consideriamo queste due tesi:
Paradossalmente, applicando la regola della minoranza i risultati sono molto più costanti—la varianza dei risultati è minore e la regola è più suscettibile di affermarsi indipendentemente tra la popolazione.
Ciò che emerge dalla regola della minoranza sarà probabilmente o bianco o nero.
Un esempio. Immaginiamo che un malvagio voglia avvelenare una collettività aggiungendo delle sostanze alle lattine di soda. Ha due possibilità. La prima è il cianide, che segue la regola della minoranza: una goccia di veleno (oltre una certa soglia) rende velenosa la totalità del liquido. La seconda è un veleno che funzioni solo se è prevalente, che richiederebbe l’aggiunta di oltre metà di liquido velenoso per essere efficacemente mortale. Consideriamo adesso il problema inverso, in cui un gruppo di persone dopo aver cenato assieme muoiano tutte misteriosamente, e se ne debbano investigare le cause. Lo Sherlock Holmes del caso concluderebbe che una condizione per cui tutte le persone che hanno consumato la soda sono state ammazzate, è che il nostro malvagio abbia optato per la prima ipotesi, non per la seconda. In altre parole, la regola della maggioranza presenta ampie fluttuazioni sulla media, con un’alta percentuale di sopravvivenza.
Il carattere o-bianco-o-nero di tali regole sociali si può spiegare anche così. È come se, a certe condizioni, mescolando il bianco con il blu scuro in varie proporzioni il risultato non sia diverse gradazioni di celeste, ma sempre il blu scuro. A queste condizioni è infinitamente più probabile che il colore prodotto sia blu scuro che non con altre regole che permettano altre gradazioni di blu.
Il paradosso di Popper
Una volta mi trovai ad un ricevimento con tanti tavoli, la tipica situazione in cui si deve scegliere tra il risotto vegetariano e il menù non-vegetariano, quando notai che al mio vicino era stato servito il pasto (incluse le posate) in un vassoio simile a quello dei pasti in aereo. I piatti erano avvolti in carta stagnola. Si trattava evidentemente di un ultra-Kosher. Tuttavia, questi non appariva contrariato dal fatto di condividere il tavolo con mangiatori di prosciutto che, per di più, combinavano burro e carne nello stesso piatto. Lui voleva soltanto essere libero di seguire le sue preferenze.
Per gli ebrei e per minoranze islamiche come gli Shiiti, i Sufi, e religioni simili come i Drusi e gli Alawiti, l’obiettivo è di essere lasciati in pace nel seguire le loro preferenze alimentari – con rare eccezioni storiche qua e là. Ma se il mio vicino fosse stato un Salafita Sunnita, avrebbe preteso che l’intera sala fosse Halal. O forse l’intero palazzo. O l’intera città. Magari l’intero paese. Possibilmente l’intero pianeta. Infatti, data la totale assenza di separazione tra chiesa e stato, e tra sacro e profano, in quel caso Haram (il contrario di Halal) significa letteralmente illegale. L’intera sala sarebbe stata fuori legge.
Mentre scrivo queste righe, si discute se la libertà dell’Occidente può essere minacciata dalle politiche invasive necessarie per combattere i fondamentalisti salafiti.
In altre parole, può la democrazia – che per definizione è la regola della maggioranza – tollerare i suoi nemici? La domanda da porsi è: “Siete d’accordo sull’opportunità di negare la libertà di parola a qualsiasi partito politico che abbia tra i suoi obiettivi l’abolizione della libertà di parola?” Oppure, andando oltre, “Può una società che ha scelto la tolleranza essere intollerante con gli intolleranti?”
Questa è l’incoerenza della Costituzione americana denunciata da Kurt Gödel (gran maestro del rigore logico) quando si presentò all’esame per la cittadinanza. Leggenda vuole che Gödel abbia iniziato a contestare l’esaminatore e che Einstein, che era suo testimone, sia dovuto intervenire per salvarlo.Ho già scritto in precedenza di come persone carenti nella logica mi chiedano spesso se sia necessario essere “scettici sullo scetticismo”; in questi casi rispondo come fece Popper quando gli chiesero se fosse possibile “falsificare la falsificazione”.
Questi punti possono essere chiariti con la regola della minoranza. Sì, una minoranza intollerante può controllare e distruggere la democrazia. Anzi, come abbiamo visto, se le si dà corda alla fine distruggerà l’intero pianeta.
Quindi, con determinate minoranze intolleranti è necessario essere intolleranti. Non è ammissibile utilizzare “valori americani” o “principi occidentali” quando si ha a che fare con il Salafismo intollerante (che disconosce agli altri il diritto di avere la propria religione). L’Occidente è attualmente sulla via del suicidio.
L’irriverenza dei mercati e della scienza
Passiamo adesso al mercato. Possiamo affermare che il mercato non è la somma dei suoi partecipanti, ma che le variazioni di prezzo riflettono le azioni degli acquirenti e venditori più motivati. Sì, è il più motivato a comandare. Questa è una cosa che solo i trader capiscono: perché un prezzo può crollare del 10% a causa di un singolo venditore. Basta solo che sia un venditore intransigente. I mercati reagiscono in maniera sproporzionata rispetto all’impeto iniziale. Il mercato azionario globale rappresenta attualmente oltre trentamila miliardi di dollari, ma nel 2008 una singola transazione di soli cinquanta miliardi, meno di due decimi percentuali del totale, scatenò un crollo di quasi il dieci percento, causando perdite per circa tremila miliardi. Si trattava di una transazione avviata dalla banca parigina Société Générale, che aveva scoperto una truffa da parte di un trader disonesto e tentava di annullare così l’acquisto. Perché i mercati reagirono in modo così esagerato? Perché la transazione era unilaterale – rigida – ossia esisteva la volontà di vendere, ma non la possibilità di far cambiare idea a qualcuno. Il mio motto è:
Il mercato è come un grande cinema con un piccolo ingresso.
E il modo migliore per scovare un idiota (come il tipico giornalista economico) è vedere se la sua attenzione è focalizzata sulle dimensioni della porta o su quelle della sala. Se qualcuno, mettiamo, grida “al fuoco!” in un cinema, il panico si scatena proprio perché chi vuole uscire non ha nessuna intenzione di stare tranquillo, esattamente con la stessa intransigenza vista nel caso delle regole Kosher.
La scienza funziona in modo analogo. In un’altra occasione spiegherò perché la regola della minoranza è alla base dell’approccio di Popper alla scienza. Ma per adesso occupiamoci dell’assai più divertente Feynman. Che t’importa di cosa dice la gente? è il titolo di una raccolta di aneddoti del grande Richard Feynman, lo scienziato più insolente e irriverente dei suoi tempi. Come il titolo del libro suggerisce, Feynman illustra la sua idea della fondamentale irriverenza della scienza, che si comporta in modo analogo all’asimmetria Kosher. In che modo? La scienza non è la somma di ciò che pensano gli scienziati ma, proprio come il mercato, un processo fortemente asimmetrico. Quando un’ipotesi viene falsificata, da quel momento è falsa (questo almeno è il modus operandi della scienza, per adesso mettiamo da parte discipline come le scienze economiche o politiche, che sono poco più che pompose forme di svago). Se la scienza si basasse sul consenso della maggioranza staremmo ancora al Medio Evo, ed Einstein sarebbe finito laddove aveva iniziato, da impiegato dell’ufficio brevetti con degli strani, inutili hobby.
Alessandro diceva che era meglio avere un esercito di pecore guidate da un leone che un esercito di leoni guidati da una pecora. Alessandro (o senza dubbio chi inventò questo proverbio plausibilmente apocrifo) aveva capito il potere di una minoranza attiva, intollerante e coraggiosa. Annibale terrorizzò Roma per oltre quindici anni con un piccolo esercito di mercenari, vincendo ventidue battaglie contro i Romani, nelle quali questi ultimi avevano sempre la superiorità numerica. Si ispirava ad una versione dello stesso proverbio. Durante la battaglia di Canne, a Giscone che lamentava il fatto che i Cartaginesi fossero molto meno numerosi dei Romani, rispose: “Una sola cosa vale più del loro numero…fra tutti loro non c’è un solo uomo che si chiami Giscone.[6]”[i]
Unus sed leo: ne basta uno, ma che sia un leone.
Il vantaggio dato dal coraggio ostinato non vale solo negli affari militari. Tutto lo sviluppo della società, sia economico che morale, nasce da un piccolo gruppo di persone. Chiudo qui questo capitolo sull’importanza delle forze in gioco nelle condizioni della società. Una società non si evolve attraverso il consenso, con votazioni, maggioranze, comitati, riunioni prolisse, conferenze accademiche, e sondaggi; per spostare in modo significativo l’ago della bilancia sono sufficienti pochi individui molto motivati. Basta che esista, da qualche parte, una regola asimmetrica. E l’asimmetria è presente praticamente ovunque.
Note
[1] Grazie ad Amir-Reza Amini.
[2] Grazie ad Arnie Schwarzvogel.
[3] Vi sono minime varianti nelle diverse regioni e sette islamiche. La regola originale è che se una donna musulmana sposa un uomo non musulmano, l’uomo deve convertirsi. In pratica, in molti paesi devono farlo entrambi.
[4] I vari culti esistenti nel mondo Romano erano considerati, dal popolo, egualmente veri; dal filosofo, egualmente falsi; dal magistrati, egualmente utili. La tolleranza produceva dunque non soltanto la comprensione reciproca, ma anche la pace religiosa. Gibbon
[5] “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di persone attente e impegnate possa cambiare il mondo. In realtà sono sempre e solo stati loro a cambiarlo.” — Margaret Mead
[6] I Cartaginesi presentano una penuria nelle varietà onomastiche: la frequenza dei nomi Amilcare e Asdrubale tende a confondere gli storici. Così come esistono una miriade di Gisconi, tra cui uno dei personaggi del Salambo di Flaubert.
[i] https://books.google.com/books?id=VzMGAAAAQAAJ&pg=PA269&lpg=PA269&dq=gisco+battle+of+cannae&source=bl&ots=2ybmCD6EaT&sig=lqU71NF46YOpnOSXDfZUsQco2O0&hl=en&sa=X&ved=0CC4Q6AEwAmoVChMI7vnU8-2tyAIVRjw-Ch3DhQkM#v=onepage&q=gisco%20battle%20of%20cannae&f=false

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». il manifesto,
La globalizzazione ha seminato speranze e creato possibilità. Lo ha fatto nei paesi sviluppati (apertura dei mercati, importazioni a basso prezzo, possibilità di esportare e di produrre). Lo ha fatto nei più grandi paesi arretrati (afflusso di capitali, possibilità enormi di produrre ed esportare…). Insieme a merci e capitali si sono mosse anche persone (dall’est all’ovest dell’Europa, dai paesi asiatici verso l’Europa, dal sud al nord delle Americhe). Oggi questa fase espansiva si è arrestata.
Nei paesi avanzati le speranze si sono tramutate in paure (perdita di lavoro, incertezze sul futuro, abbassamento dei salari) alimentando un bisogno di protezione ed una tendenza a chiudersi. Nei paesi arretrati si è consolidata un’area dei paesi fermi che hanno visto peggiorare le condizioni di vita dei loro popoli (guerre, condizioni climatiche….) ai quali non rimane che la speranza di una fuga disperata verso i paesi ricchi. La coincidenza temporale tra queste due opposte spinte determina quella che possiamo chiamare la grande contraddizione dei nostri tempi.
Come governare una situazione così complessa? Ci vorrebbe un governo mondiale capace di varare un progetto di riequilibrio e di governo dei processi. Ci vorrebbe una grande ondata di solidarietà e l’assunzione del tema della redistribuzione come necessità storica di fronte alla grande stagnazione. La chiesa e Papa Francesco predicano e praticano con le loro missioni ed opere caritatevoli – sono le loro forme di azione – accoglienza e solidarietà. Due parole che appartenevano alla sinistra. Ma la sinistra di oggi sembra non avere le parole adatte per fronteggiare la grande contraddizione. Non le ha perché per la sinistra non è sufficiente dire parole giuste. Le parole non possono essere prediche, ma debbono essere strumenti di azione, strumenti che convincono, trascinano, impegnano a lottare per cambiare.
Le parole della sinistra dovrebbero unire i poveri dei paesi ricchi con quelli che arrivano dai paesi poveri. Ma questo non avviene e la sinistra appare debole quando apprezza e fa proprie le giuste parole della Chiesa ed appare succube quando finisce per accodarsi alle parole della destra. Nel frattempo la destra con le sue parole che seminano paure ed odio fa opinione, alimenta chiusure, esplosioni di razzismo.
Che fare allora? Non ci resta che sentirci impotenti e tagliati fuori dal corso degli eventi e della storia? Le risorse ci sono. Nelle tante forze giovanili ed impegnate nei movimenti per l’accoglienza, sono nelle tante persone che sanno cosa significano razzismo ed esclusione. Ma l’insieme di queste forze non riesce a fare massa critica, a creare opinione diffusa, a mobilitare. Il fatto che la sinistra tutta abbia più consensi nelle aree centrali e meno in quelle periferiche parla da solo e spiega perché essa non riesce a legare il disagio degli italiani a quello degli immigrati.
Ma pensiamoci bene. Anche quelli che urlano contro i migranti e magari vivono in periferie desolate, senza lavoro e senza servizi, sono dei fuggitivi: sfuggono dai problemi che li assillano, riversando le colpe sui poveri che arrivano invece di lottare e semmai di unirsi a loro. E così gli ultimi si dividono, si contrappongono, si disarticolano. Ma non è colpa loro se questo accade. Chi dovrebbe fare questo, proporlo, organizzarlo se non la sinistra? Ecco allora il problema. La sinistra non può oscillare tra l’accogliere in nome della solidarietà gli ultimi che arrivano senza mettersi in regola con gli ultimi che stanno tra noi. Né può pensare di affrontare il problema sposando la linea dura per recuperare consensi. Su questo terreno vincerà la destra, perché l’ha detto per prima ed è più credibile.
Quando parliamo di sinistra del futuro dovremmo parlare di queste difficoltà ad unire i tanti fuggitivi, interni ed esterni, in una grande battaglia per una più equa distribuzione, intanto, di quello che c’è, dei redditi, del lavoro, dei poteri. Altrimenti mentre noi parliamo di sinistra del futuro rischiamo di assistere al ritorno del passato, del razzismo, dei nazionalismi, della guerre.
Ps. Mi ha stimolato a scrivere questo articolo la lettera al manifesto di Mauro Polidori di Acilia che ci invita a guardare alle periferie urbane ed anche, aggiungo, ai piccoli centri, dove una informazione tutta centrata sui migranti nasconde la crisi da abbandono che essi vivono.
Vedi su eddyburg l'articolo La parola "sinistra" di Edoardo Salzano
Se nella "civile" Romagna accade anche questo, e «i passeggeri scendono» senza reagire, vuol idre proprio che gli abitanti della Penisola meritano il peggio.
la Repubblica, 18 agosto 2017
«Rimini, la donna, di origini senegalesi, incinta di sei mesi, derubata del cellulare da una coppia e poi colpita a calci e pugni. Arrestati i due ragazzi, lei 19 anni, lui 22. Il pm: “Chiederò l’aggravante per odio razziale”»
Si chiama Barry, ha 39 anni ed è incinta di sei mesi. La sua colpa, mercoledì sera, è stata quella di essere nera e di avere un cellulare in borsa. «Tutti i passeggeri sono rimasti al loro posto, soltanto l’autista mi ha aiutata. Io pensavo a difendere il mio bambino», ha detto la donna di origini senegalesi alla polizia dopo essere stata rapinata, insultata, picchiata con calci e pugni e buttata a terra da una coppia di ragazzi italiani – 19 anni lei, 22 lui – su un autobus di Rimini.
I giovani le hanno gridato «negra di m.», «torna al tuo Paese». La ragazzina le urlava «ti faccio abortire», mentre badava a suo figlio di tre mesi. Entrambi sono stati arrestati con l’accusa di rapina, oggi davanti al giudice il pm Davide Ercolani chiederà l’aggravante dell’odio razziale. La vittima è finita in ospedale spaventata e sotto shock. Un’altra storia di razzismo in Romagna, dopo che a marzo un nigeriano è stato accoltellato e travolto in auto davanti a un supermercato.
Mercoledì sera Barry, che è regolare e da tempo vive a Rimini con la famiglia, è sull’autobus numero 11 che da Rimini porta a Riccione. Si accorge che un giovane, dietro di lei, ha infilato la mano nella sua borsa e ha preso il cellulare. «Ridammelo », gli dice. Il ragazzo, Gabriele Miele, originario della provincia di Caserta, le butta il telefono in mezzo alle gambe e comincia a urlare insulti razzisti. La sua ragazza, Alessia Mucci, di Ancona, rincara. Non solo la violenza verbale, è scritto sulla denuncia in mano ai pm, ma pure quella fisica: Gabriele la colpisce con calci e pugni «in varie parti del corpo». Barry si difende come può, pensa solo al figlio che aspetta, è terrorizzata.
Quando le cose si mettono male l’autobus si ferma, l’autista apre le porte, i passeggeri scendono e la donna incinta viene spinta e fatta cadere a terra. Qualcuno chiama la polizia, la coppietta non smette di insultare Barry nemmeno davanti agli agenti. Vengono sentiti dei testimoni. Una, in particolare, conferma di aver visto scendere dall’autobus due donne e che quella nera è stata fatta cadere. Ha confermato che la senegalese si lamentava per riavere il proprio telefonino, rubato sull’autobus. Vicino alle porte del mezzo pubblico, gli agenti hanno trovato a terra il cellulare, un portamonete e la borsa della donna aggredita.
Il 22enne è stato portato in carcere, la 19enne è finita ai domiciliari perché ha il bambino. Oggi il gip deciderà se convalidare l’arresto. «Il reato è di rapina pluriaggravata impropria, perché era nata come un furto, ma contesterò anche l’aggravante della discriminazione razziale », dice il pm della procura di Rimini Davide Ercolani. «C’è stato odio». La donna, soccorsa dal 118, è stata portata in ospedale in stato di shock ma è stata dimessa con una prognosi di 15 giorni. Il bambino che aspetta non dovrebbe correre alcun rischio.
il manifesto, 18 agosto 2017
Sono solidale, ma. Dopo l’annuncio della presidente della Camera Laura Boldrini di voler procedere alla denuncia di chi la riempie di insulti di speciale ferocia sessista sul web, questo è l’esercizio più diffuso, tra politici e opinionisti. Solidarietà ma di malavoglia. L’elenco dei perché, fa cadere le braccia.
Quasi di più degli auguri di stupro di gruppo, magari da parte di immigrati, e altro, tutti insulti pesantemente sessuali, i peggiori che si possano rivolgere a una donna. E che lei stessa, con coraggio e con sfida, ha ripreso, e ripubblicato, nel suo twitt. E si fa perfino sfoggio di cultura (Nicola Porro su Il Giornale), si scomoda la strega a propria insaputa descritta da Thomas Mann nelle pagine del Doktor Faustus, per dire che se lo va a cercare, tutto questo odio. Che lei non è consapevole di se stessa. Insomma, lo stereotipo della “maestrina”, di chi pretende di guidare e non è capace, l’insopportabilità di una donna che dirige, esercita il proprio ruolo, manifesta le proprie opinioni. Esercizio di misoginia al massimo livello, espressione del maschilismo politico italiano mai venuto meno, fin dai tempi della Costituente.
E mentre ribadisco qui tutta la solidarietà senza se e senza ma a Laura Boldrini, Presidente della Camera, istituzione della Repubblica – è inconcepibile che venga tollerato e alla fine giustificato che una donna che fa politica debba subire simili attacchi – rimane un mistero da sciogliere. Perché questi attacchi convergenti?
Laura Boldrini è una donna pubblica. Non solo, è una donna pubblica che dal 2013 è stata eletta dalla Camera dei deputati a propria presidente. Sono questi i dati reali da tenere presente, per comprendere l’accanimento e la violenza degli attacchi che le sono rivolti. Via web e non solo. Tv, carta stampata, manifestazioni non si risparmiano. È sotto un tendone a Soncino, in provincia di Cremona, che nell’ottobre 2016 Matteo Salvini, il capofila dei suoi detrattori, presentò una bambola gonfiabile come una sua sosia. Prima di essere eletta Presidente della Camera, terza in Italia ad avere questo ruolo, dopo Nilde Jotti nel 1979 e Irene Pivetti nel 1984, Laura Boldrini era già nota, spesso in tv per il suo lavoro, come responsabile della comunicazione dell’Uhncr, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati. C’è da supporre che già allora in tanti non fossero d’accordo con lei. Ma è solo da quando è entrata, eletta da Sel, a far parte dell’odiata casta, e poi, eletta presidente, ha deciso di mettere se stessa, la propria posizione pubblica, a sostegno della causa delle donne, che si è scatenato il livore.
Si è dichiarata donna e ha preteso di essere riconosciuta come tale. Non un neutro presidente, ma “la” presidente. E tutto quello che ne segue. Motivo di odio costante, per chiunque, nonostante le nuove norme per la lingua italiana dell’Accademia della Crusca. Insieme all’impegno contro il femminicidio, la riscrittura della storia comune facendo emergere anche nei simboli parlamentari la fondamentale presenza delle donne in politica. L’altra colpa è non avere mai dimenticato la propria storia e il proprio impegno, il sostegno ai migranti. La miscela è esplosiva e imperdonabile, in questa estate 2017.
L’obiezione, sempre pronta, è: lei è la presidente, non sono d’accordo con le sue opinioni, e voglio poterlo dire. Ecco, queste sono critiche politiche, benvenute in democrazia e dialettica parlamentare. Richiedono argomenti, discussioni, riflessioni. Cosa c’entra con quello che twitta Rosangela Federici, sì, una donna: «Io la tua presidente della camera la farei i* dai suoi amici clandestini che protegge tanto»?
Sessismo violento, cieco, impastato di razzismo, che attacca la donna importante, proprio in quanto donna. La vuole ricondurre all’ordine, sottoporla al dominio dei maschi a cui si sottrae. Il web, è ovvio, rende tutto più evidente e insopportabile, a mio parere esaspera ma non è la causa. Il punto è che questi sentimenti – mi sembra eccessivo chiamarli pensieri – esistono. È necessario guardarli, stabilire un limite. Per questo sono grata a Laura Boldrini, al coraggio delle sue denunce, #iostoconLaura.
In Italia e in tutto Europa è la perdita di socialità (insieme a quella di umanità) a essere il vero problema. Perciò l'Europa «va rifondata alle radici: con un nuovo "manifesto di Ventotene" che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.
il manifesto, 15 agosto 2017
Codice Minniti. Bisognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia o quello che viene spacciato per tale è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini.
La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato...
Dunque non è Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). E’ una grande presa in giro degli italiani ed è un crudele abbandono di migliaia e migliaia di persone in balia di veri e propri carnefici di cui la magistratura non sembra volersi accorgere in vista, perché di questo si tratta, delle prossime elezioni. Ma il prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo governo, ma anche del suo passaggio su questa Terra, resterà per decenni non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile?
Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc.
Quegli sgomberi non sono i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise: una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della «legalità»: cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Labas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri.
Quella desertificazione sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine: si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà.
E’ in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno persino Repubblica e una parte dei 5stelle comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel «aiutiamoli a casa loro» che vuol solo dire «facciamoli morire lontano da qui». Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo «manifesto di Ventotene» che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.
« ». la Repubblica
I cori globali contro i suprematisti bianchi sono giustificati e legittimi. Ma hanno vita breve se non lasciano subito il posto a un’analisi sociale che faccia comprendere la rivolta di Charlottesville, in Virginia, dove un uomo ha lanciato l’auto contro persone che manifestavano pacificamente contro l’ideologia della supremazia bianca. Il razzismo, nel Sud degli Stati Uniti soprattutto, è stato allevato dalla questione sociale: disoccupazione, salari bassi, assenza di previdenza e assistenza — insomma il lavoro operaio bianco, sottopagato, sfruttato e spesso assente.
È una storia vecchia quanto l’America industriale, a partire dalla ricostruzione dopo la Guerra civile. Sviluppo industriale e liberazione degli schiavi sono andati insieme. Il movimento “ Knights of Labor” di fine Ottocento fu tra quelli che diedero vita al People’s Party, additato a esempio di buon populismo. Ma il romanzo sentimentale dei buoni lavoratori ha spesso celato il fatto che il populismo era indirizzato anche contro immigrati e neri. Per i lavoratori bianchi, ungheresi, italiani o irlandesi, i neri ex-schiavi non erano poi così buoni, erano “pecore nere” che gli industriali usavano per tenere bassi i salari e rompere gli scioperi. Razzismo e questione sociale sono alle radici di un’America che le rappresentazioni edulcorate di noi europei ignorano.
Eppure, sono queste le molle che hanno fatto il bene e il male della democrazia del mondo nuovo. Il male del razzismo, che esplode a intervalli regolari e non è mai stato debellato; il male del confederalismo dietro il quale ancora oggi i bianchi suprematisti degli Stati del Sud marciano, incappucciati o non, con le fiaccole dei cercatori di neri, come in Alabama, che accoglie i visitatori con la scritta “ We dared” (abbiamo osato). Ma sono state anche le molle del bene, le politiche di giustizia distributiva iniziate con il New Deal sono state pensate anche con l’intenzione di produrre un esito virtuoso: debellare il razzismo. Se non che hanno usato meccanismi con esiti opposti.
Perché, racconta Ira Katznelson nei suoi studi sul New Deal e il razzismo, i democratici del Sud approntarono politiche sociali e occupazionali per rafforzare i lavoratori bianchi ed escludere i neri; per dare potere ai burocrati ostili all’emancipazione dei neri; per impedire che il linguaggio di anti-discriminazione entrasse nei programmi di welfare. Le politiche sociali legate al lavoro sono state volte a sostenere la manodopera bianca: in questo modo si pensava di rendere blando il razzismo.
Fu l’arruolamento dei neri insieme ai bianchi nella Seconda guerra mondiale che introdusse mutamenti in senso universalistico e inclusivo. Il G.I. Bill del 1944, pensato per aiutare i veterani bianchi a comperare casa e studiare, venne esteso anche ai veterani neri. La guerra mise fine alla giustificazione della segregazione nelle politiche sociali. Il lascito delle lotte per i diritti civili negli Anni ‘60 si materializzò nelle politiche di Jonhson, continuate da Nixon. Il razzismo si vestì di nuovi abiti, diventando reazione contro i diritti civili. E nonostante la retorica patriottica dei presidenti più recenti, il razzismo ha preso nuovo vigore in relazione soprattutto alle politiche pubbliche. Qui comincia la storia di questi giorni.
È un tema scottante e difficile da articolare senza essere accusati di razzismo indiretto. Ma deve essere affrontato perché l’ideologia white supremacist che ha armato il fanatico di Charlottesville trova linfa vitale nell’idea che le politiche federali di redistribuzione siano state pilotate da una giustizia al contrario, che per facilitare la formazione di una middle class nera si siano adottate scelte che con la crisi economica mostrano la loro limitatezza, e che provocatoriamente ora sono i bianchi a richiedere.
Provocatoriamente, ma non tanto. Le minoranze da metà Anni ‘70 hanno beneficiato di queste politiche che hanno consentito assunzioni negli uffici pubblici e privati e ammissioni ai college, grazie a clausole per cui, in alcuni casi, a parità di merito venivano agevolati candidati appartenenti a minoranze. Questa politica ha avuto un impatto notevole, e cambiato la faccia delle istituzioni che sono diventate più pluraliste.
L’esito negativo di queste politiche sulla mentalità è tra i fattori che spiegano il white supremacism. Aiutare chi ingiustamente è stato escluso (per ragioni di schiavitù o di subordinazione di genere) con politiche che violano l’imparzialità ha i suoi costi. Una società ingiusta come era quella americana alla fine della Seconda guerra poteva difficilmente essere migliorata con politiche basate sull’imparzialità. Sarebbe stato opportuno sfoderare un altro tipo di coraggio, adottare politiche sociali universalistiche con interventi statali diretti a riqualificare le scuole pubbliche per poter aggredire l’ingiustizia all’origine, senza prestare il fianco alle prevedibili critiche dei bianchi. Sarebbe stata una scelta di più lungo respiro, ma troppo socialdemocratica per essere accettata dalla cultura politica Americana, liberal e non.
L’affirmative action è stata la politica di giustizia targata liberal. Ha prodotto inclusione (certo a macchia di leopardo, più al Nord che al Sud) ma ha sedimentato nel frattempo risentimento e rabbia contro i “beneficiari” di privilegi perché neri. E da quel risentimento si deve partire, oggi, per comprendere il carattere del nuovo razzismo, che è anche razzismo di reazione: dei diseredati e non benestanti bianchi contro gli ancora più diseredati e poverissimi neri.
Poveri contro poveri, ma nel nome della razza mai della classe. E un nero assunto contro mille che mendicano basta a soffiare sul fuoco della rabbia dei lavoratori bianchi traditi da Washington: ecco la lotta per mantenere in un parco pubblico di Charlottesville la statua del generale Lee, il simbolo dell’esercito dei sudisti nella Guerra civile. Aveva ragione Tocqueville a pensare che la schiavitù avrebbe lasciato, come una piaga, un segno indelebile sul futuro della democrazia americana, anche qualora i neri fossero stati liberati dalle catene e dichiarati cittadini. Combattere in guerra li avrebbe aiutati, ma oggi la Seconda guerra è solo un lontano ricordo.
«i». il manifesto, 9 agosto 2017
Da sedici anni, l’8 agosto è la giornata nazionale del sacrificio del lavoratore italiano nel mondo. La data è quella della strage più grande, l’incendio nella miniera di Marcinelle nel Belgio centrale dove nel 1956 persero la vita 136 minatori italiani; Sergio Mattarella ha ricordato come ogni anno questo giorno.
«Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione – ha detto tra l’altro il presidente, in un breve comunicato evidentemente preparato come sempre con qualche giorno di anticipo – hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza. È un motivo di riflessione – ha aggiunto – verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione europea».
Un richiamo alla solidarietà e alla condivisione europea per nulla clamoroso, pienamente nel solco di diversi interventi del capo dello stato sul tema dell’immigrazione. Troppo forzato sarebbe vederci una correzione della linea dura, o quanto meno rigorosa, appoggiata appena lunedì sera nel comunicato informale con il quale il Quirinale si era schierato al fianco del ministro Minniti. Casomai è quella mossa, che ha preso la forma di una nota di «ambienti del Quirinale», che rappresenta qualcosa di assai inconsueto per il presidente Mattarella. Non solo per la formula ma anche per il deciso intervento nel merito di una discussione interna al governo. Intervento c’è da supporre richiesto al Colle, magari con l’argomento che bisognava evitare il rischio di offrire all’estero l’immagine di un esecutivo diviso sul tema immigrazione.
Le poche parole di Mattarella sono bastate però per offrire a Salvini l’occasione per la sua polemica quotidiana, che sempre più deve diventare insulto per guadagnare visibilità (una delle occasioni, di un’altra leggete qui sotto). «Mattarella si vergogni – riesce a dire il leghista – perché paragona gli italiani emigrati (e morti) ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino».
Segue grande sforzo agostano del Pd e di un po’ di altri rappresentanti politici per difendere il capo dello stato dalla stupidaggine del segretario della Lega. «Si vergogni lui», dicono più o meno tutti senza troppa fantasia, «insopportabile e cinico». Mentre un deputato appena passato al Pd, Gianfranco Librandi (eletto con Monti dopo trascorsi berlusconiani), nota giustamente che «la Lega è nata contro i “terroni” che andavano al nord a lavorare esattamente come i nostri connazionali di Marcinelle, che dal sud Italia si sono mossi per andare nelle miniere del Belgio e anche lì sicuramente c’era un Salvini che li chiamava “clandestini mantenuti”». Quei lavoratori italiani che, secondo le parole di Mattarella, «hanno contribuito a edificare un continente capace di lasciarsi alle spalle le devastazioni della seconda guerra mondiale e di offrire alle generazioni più giovani un futuro di pace, di crescita economica, di maggiore equità sociale».
il manifesto, 4 agosto 20017
«Immigrati clandestini» e «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina»: in quattro minuti di conferenza stampa,
il Procuratore della Repubblica di Trapani parla dei migranti trasbordati dai barconi sulle navi delle Ong in mare aperto senza mai usare la parola «persone», «esseri umani», «donne e bambini in fuga», «profughi», «richiedenti asilo».
Nel linguaggio burocratico sono tutti «soggetti» o «immigrati clandestini» e questo linguaggio disumanizzante e dissacrante (perché ogni essere umano è sakros, cioè unico e inviolabile) apre la strada alla deformazione della pubblica opinione, che di fronte agli «uomini di legge» che additano i «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina» correrà a chiudere porte, coscienze, cuori e senso critico.
Il cattivo uso del linguaggio, troppo sottovalutato, è una parte importante del problema.E per «cattivo» intendo esattamente ed etimologicamente «prigioniero» del proprio pregiudizio, che replicato dai media e rimbalzato di bocca in bocca diventa stereotipato «linguaggio comune».
Ma in questo caso il cattivo uso del linguaggio disegna anche la scenografia del cattivo uso del diritto.
Se è vero (ed è vero) che il salvataggio di vite umane in mare è un preciso dovere giuridico, se è vero che la stessa fattispecie di reato (articolo 12 Testo Unico Immigrazione) esclude la rilevanza penale di chi abbia agito per salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (è lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice penale), allora dove sta il reato e, soprattutto, chi è il criminale?
Colui che trasbordando un gommone carico all’inverosimile di esseri umani evita che si ribalti facendo affogare in mare le persone trasportate? O colui che aspetta che il gommone si spinga oltre, in mare aperto, si ribalti, consegni al mare le vite dei trasportati e solo allora, codice Minniti alla mano, intervenga?
E non è forse doveroso dubitare della legittimità di una missione militare dell’Italia che supporta i libici nel respingimento dei migranti, restituendoli ai campi di concentramento dove si perpetrano violenze, torture e stupri e rimettendoli nelle mani dei trafficanti di esseri umani? Contro il principio di non refoulement della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati (che del resto la Libia non ha ratificato, ma l’Italia invece sì) e contro l’articolo . 10 della nostra Costituzione che garantisce il diritto di asilo?
Lo dico con pacatezza e rispetto ma lo dico, perché è un mio preciso dovere etico, giuridico e politico dirlo: l’uso della forza del diritto contro i diritti fondamentali delle persone e l’esercizio dell’azione penale senza conoscenza approfondita e meditata del complesso sistema dei diritti umani e dei processi migratori contro gli operatori, singoli o organizzati, di solidarietà fa il paio con la cattiva politica dei decreti Minniti-Orlando che introducono il diritto diseguale, il diritto su base etnica, l’apartheid giudiziaria.E iniziano a disegnare i contorni di uno stato autoritario».
«Gridiamo “Siamo tutti Charlie!” ad ogni nuova strage terroristica nella nostra Europa, ma ci facciamo passare sotto gli occhi i morti ammazzati a Kabul e Aleppo o annegati nelle acque del Mediterraneo».
il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2017 (p.d.)
Una settimana fa un attacco terroristico ha ucciso 37 civili, e ne ha feriti più di 40. A Kabul. Alcuni ne avranno letto, ad altri, anche coscienziosi e ben informati, sarà sfuggito. Certo la reazione, in Italia come in Gran Bretagna e nel resto dell’occidente, è stata ben diversa rispetto all’angoscia e all’attenzione spasmodica riservata agli attacchi di Londra o Manchester. Ogni volta è lo stesso: siamo tutti Charlie, ma facciamo un po’più fatica ad essere Kabul, o Aleppo. Come se le vite non contassero tutte allo stesso modo.
Tra chi si è preso la briga di leggere il primo paragrafo di questo articolo, possiamo identificare due categorie. Da un lato quelli che annuiscono energicamente: due pesi e due misure, l’ipocrisia dell’occidente e via discorrendo. Dall’altro quelli che scuotono il capo con qualche impazienza: non capisci che è diverso se succede in Europa? che non ci si può far carico di tutti i problemi del mondo? che alla fine si ammazzano tra di loro? Eccetera eccetera. Questa seconda categoria coincide in parte con quelli che pensano che i morti nel Mediterraneo non siano affar nostro, e un suo nutrito sottogruppo sbraita che questa gente viene qui per rubare o per farsi saltar per aria (semplifico).
La prima categoria la pensa in modo radicalmente opposto, naturalmente, e tuttavia, anche tra questi, la maggioranza ha dedicato ai fatti di Kabul (o di Aleppo, o del Sudan) una frazione dell’attenzione e del cordoglio dedicato a Manchester, a Nizza o a Parigi. Persuasione politica, analisi geopolitica, credo religioso, convincimenti morali fanno una qualche differenza, ma non tutta la differenza.
Non è un fenomeno nuovo. Se n’era già accorto Aristotele, che notava nella Retorica che la compassione (così come l’invidia) la si prova per chi conosciamo, o per chi è simile a noi per età, carattere, costumi e cultura, nascita o condizione sociale. Perché la compassione è legata alla paura – alla paura che possa succedere a noi. Per questo si prova compassione per ciò che è vicino, mentre ciò che è lontano – ciò che è alieno – non ha lo stesso effetto. Aristotele descrive, non giudica: così stanno le cose, e basta.
In un magnifico saggio del 1994, Carlo Ginzburg esplorava queste dinamiche tracciando la genealogia culturale di una figura immaginaria, quella di un ipotetico mandarino cinese. Questo povero mandarino, in vari scritti di Diderot, di Adam Smith, di Chateaubriand e di Balzac, veniva introdotto soltanto per morire nell’indifferenza, o per volontà, di un altrettanto ipotetico europeo desensibilizzato dalla distanza. Nella versione più catastrofica, Adam Smith immagina che la Cina “con i suoi abitanti, venga improvvisamente inghiottito da un terremoto”. Per Smith, ogni europeo compassionevole ne sarebbe certo rimasto scosso, ma “se dovesse perdere un mignolo, stanotte non dormirebbe; mentre ronferà pacificamente sulla rovina di un centinaio di milioni di fratelli, purché non li abbia mai visti”.
E non si tratta certo solo di distanza effettiva. Per lo stesso principio, notava Diderot, “proviamo compassione per un cavallo che soffre, e schiacciamo una formica senza farci scrupolo alcuno”. In alcune versioni lo sventurato mandarino viene addirittura ucciso a distanza da un francese, con un solo cenno del capo. La domanda è se la distanza attenui la compassione e il senso di responsabilità morale a tal punto da rendere contemplabile anche l’omicidio.
Ginzburg, da storico (e a differenza di tanta filosofia morale), non pare giudicare. Nota piuttosto quanto queste dinamiche siano rilevanti oggi: “Sappiamo che il guadagno di alcuni può provocare, più o meno direttamente, le sofferenze di altri esseri umani lontanissimi, costretti alla miseria, alla denutrizione o addirittura alla morte… il mandarino cinese può essere ucciso semplicemente pigiando un bottone”. Osserva poi che “il progresso burocratico [ha creato] la possibilità di trattare grandi quantità di individui come se fossero puri numeri: un altro modo molto efficace di considerarli a distanza”, come le formiche di Diderot.
Assolviamoci pure per la nostra indifferenza verso chi è diverso e lontano, constatiamo pure, realisticamente, che non può essere altrimenti, che le nostre responsabilità di italiani, di europei non possono estendersi egualmente all’intero globo terraqueo, per quanto interconnesso. Nel mentre, però, è forse il caso di tenere a mente che nel nostro mondo di oscene diseguaglianze i mandarini, o le formiche, non sono solo gli altri – gli immigrati sui barconi, i richiedenti asilo visualizzati per cifre, i poveracci laggiù in Africa o in Afghanistan.
Sempre più spesso mandarini (o formiche) siamo anche noi. Perché la nostra vita non ha davvero nulla in comune con le esistenze dorate di quella micro-élite finanziaria che, complice la politica, decide per tutti noi, senza identificazione, senza compassione. Mandarini sono allora non solo le vittime di Kabul, o i migranti che affogano nel Mediterraneo. Sono anche quei 35 milioni di americani a cui Trump vuole togliere l’assistenza. Mandarini sono i disoccupati italiani senza futuro nascosti nelle tabelle ministeriali. Mandarini sono quei britannici che i tagli targati Tories hanno fatto sprofondare sotto la soglia di povertà. In questo non siamo poi così lontani nell’essere alla mercé di chi, simpatia per noi,davvero non ne prova alcuna.

«e»
. Internazionale online, 29
Come si misura la malvagità umana? A volte è fin troppo facile. Quest’estate le città britanniche devono fare i conti con le conseguenze di diversi attentati terroristici ed episodi di razzismo. L’attentato di Manchester. Gli omicidi sul ponte di Westminster. L’orrore del London Bridge. L’attentato contro le persone che si trovavano fuori dalla moschea di Finsbury Park nella parte nord di Londra e in altre moschee. O gli uomini non identificati che sono ancora a piede libero nella capitale dopo aver spruzzato acido sui visi dei passanti, sfigurandoli.
Nel Regno Unito la resilienza che mostriamo di fronte a questi episodi è encomiabile. Tornando a Londra dopo aver passato un po’ di tempo fuori, mi sono sentita rinfrancata da un numero del magazine del London Evening Standard che celebrava le persone comuni che si erano fatte avanti per dare il loro aiuto dopo queste atrocità. I paramedici che hanno lavorato per tutta la notte. Il cuoco romeno che ha nascosto le persone nella sua panetteria. Il tifoso di calcio che si è scagliato sui terroristi del London Bridge urlando: “Fottetevi, forza Milwall!”. Lo studente che ha ospitato il coordinatore che organizzava l’assistenza alle vittime dell’inferno scatenatosi alla Grenfell Tower e alle loro famiglie.
Fermi tutti. Aspettate un secondo. Uno di questi episodi non è uguali agli altri. Il disastro della Grenfell Tower, nel quale sono morte almeno ottanta persone, non è stato un attacco terroristico o un atto doloso. È semmai il risultato di anni di decisioni sciagurate prese dagli amministratori di condominio e di investimenti inesistenti per le case popolari.
Il 14 giugno intere famiglie sono bruciate vive nelle loro case, in parte perché, a quanto pare, il Royal Borough of Kensington and Chelsea non ha voluto pagare le cinquemila sterline necessarie per i rivestimenti antincendio. Né è stato in grado di trovare i soldi, nonostante il bilancio positivo, per installare un efficace sistema di valvole antincendio all’interno di un edificio che stava andando in malora.
Kensington and Chelsea è un municipio governato dai conservatori che, per quanto riguarda il denaro investito, s’interessa poco o nulla ai cittadini più poveri che difficilmente voteranno per loro. Nel 2014, mentre ai residenti della Grenfell Tower erano negate semplici operazioni di manutenzione, gli amministratori hanno concesso delle riduzioni di cento sterline ai contribuenti più ricchi, sbandierando i risultati ottenuti nel “garantire costantemente una maggiore efficienza migliorando i servizi”. Questa efficienza aveva dei nomi, dei genitori e dei figli.
Si tratta di una stortura morale assoluta. Una stortura che nega le proprie responsabilità, fino a quando questa negazione finisce per prendere fuoco. Prendendo a prestito un’espressione di Friedrich Engels, John McDonnell ha descritto il disastro della Grenfell Tower come un “omicidio sociale”. Il cancelliere ombra ed ex voce critica della sinistra parlamentare non è mai stato famoso per la cautela delle sue dichiarazioni.
Naturalmente la stampa conservatrice ha fatto a gara per condannare McDonell, non perché avesse torto ma per la sua mancanza di discrezione. “In questo paese c’è una lunga tradizione di omicidi sociali”, ha detto, “nei quali le decisioni vengono prese senza curarsi delle conseguenze… E per questo motivo molte persone hanno sofferto”.
“È difficile negare la realtà di queste sofferenze quando non è ancora stato concluso il conto dei morti in questo cimitero a forma di torre che appare oggi come una ferita nello skyline londinese”. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, “la triste verità è che le azioni peggiori sono commesse da persone che non si decidono mai a essere buone o cattive”.
L’austerità di mercato non è meno brutale per il fatto che non produce vittime. Si tratta di un’ideologia calcolatrice, che misura il valore umano in denaro ed effettua tagli che colpiscono, anche se indirettamente, la vita delle persone. Redistribuire grandi somme di denaro dai poveri ai ricchi non è solo un’infrazione morale astratta: è qualcosa che uccide. Accorcia vite umane e ne peggiora milioni di altre.
Solitamente lo fa in una maniera mostruosamente flemmatica: il pensionato che muore prima per una malattia curabile, gli adolescenti che smettono di studiare, i disabili che vengono abbandonati mentre soffrono per le loro malattie fisiche e mentali senza avere qualcuno che si occupi di loro, le migliaia di persone morte mentre erano nelle liste d’attesa di sussidi che avevano pieno diritto di ricevere, i genitori il cui orgoglio va in frantumi nel vedere i loro bambini andare a scuola affamati.
Noi cittadini non siamo spinti a misurare il costo umano dell’austerità in questo modo, anche se esistono molte persone in oscuri uffici che fanno esattamente questo genere di calcoli. Quest’anno, quando i ricercatori del Journal of the Royal Society of Medicine hanno affermato che i costanti tagli al servizio sanitario potrebbero essere all’origine di quasi trentamila “morti supplementari” in Inghilterra e in Galles nel 2015, il governo ha denunciato un “trionfo dei pregiudizi personali sulla ricerca”. Comunque la si voglia vedere, si tratta di una risposta odiosa e arrogante di fronte a trentamila nuove morti.
La malvagità del mercato
Esiste un tipo di malvagità per cui un individuo permette agli angoli più oscuri della sua mente di fargli conficcare una lama nel ventre di un passante o di mettere una bomba in mezzo a una folla di ragazze adolescenti. Questa forma di mostruosità è tanto facilmente individuabile quanto fortunatamente rara, anche se meno rara di quanto fosse in periodi meno febbrili di quello attuale.
Ma esiste un’altra forma di malvagità di cui raramente parla la stampa. È quella che emerge quando qualcuno si siede con una calcolatrice in mano e calcola quanto costerebbe proteggere e nutrire la vita umana, deduce questa cifra dal costo di una riduzione fiscale per dei proprietari immobiliari o di una bella serata all’opera, e poi stabilisce una cifra. È una forma di malvagità ordinaria, diventata ormai di routine e automatizzata negli anni dell’austerità. È una forma di malvagità che, secondo le parole dello scrittore Terry Pratchett, “comincia quando cominci a trattare le persone come cose”.
Il disastro della Grenfell Tower è l’infernale prova delle conseguenza di questa spietatezza fiscale, che nessuno può ignorare. Chi dice che la cosa non era prevedibile è stato smentito dalle vittime.
L’associazione dei residenti aveva scritto sul proprio sito web, dopo aver implorato per anni i direttori di condominio di migliorare le loro condizioni di vita: “È un pensiero davvero terrificante ma il Grenfell Action Group crede fermamente che solo un evento catastrofico sia in grado di mostrare pubblicamente l’inettitudine e l’incompetenza dei nostri padroni di casa”.
Questo catastrofico evento è arrivato. La consueta risposta dei britannici alla tragedia, una dignità coraggiosa e composta, è stavolta inappropriata. Quando cominceranno le indagini sulla Grenfell Tower, ad agosto, è importante che ogni cittadino esiga delle risposte e che chiami questa farsa con il suo nome: omicidio organizzato.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è apparso sulla rivista britannica New Statesman.
C'è poco da meravigliarsi. Con la vittoria nel neoliberismo i pilastri della difesa del lavoro sono stati sgretolati. Gli anziani li ricordano: potere dei lavoratori, lotta, contrattazione, solidarietà. Chi pagherà saranno i giovani, se non comprenderanno e si ribelleranno.
Micromega online, 24 luglio 2017
Due proposte di legge
La Commissione Affari costituzionali della Camera ha da poco iniziato l’esame di due proposte di modifica dell’articolo 38 della Costituzione, nella parte in cui menziona il diritto alla pensione e precisa che alla sua attuazione “provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Con la prima proposta, sottoscritta da parlamentari di maggioranza e opposizione, dal Pd ai Fratelli d’Italia, si vuole puntualizzare che il diritto alla pensione si attua “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”1. La seconda proposta è stata presentata da deputati del Pd e ha un contenuto simile: vuole precisare che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”2.
Molti hanno accolto con entusiasmo il richiamo alla solidarietà tra generazioni, considerato una novità positiva per i pensionati di domani. Proprio su questo aspetto deve avere insistito una velina a cui evidentemente si deve un titolo molto gettonato dalle testate, che hanno sbrigativamente parlato di “norma salva-giovani”. Sono però mancate analisi più approfondite su una vicenda di notevole portata e impatto, tutto sommato passata sotto silenzio.
Basta però leggere le relazioni introduttive alle proposte di modifica della Costituzione per rendersi conto della loro portata eversiva: l’obiettivo è la “rimodulazione della spesa pensionistica nella direzione di una maggiore sostenibilità”, ovvero, tanto per incominciare, il taglio delle pensioni di oggi, estorto con la promessa di una garanzia delle pensioni di domani (evidentemente contenute per rendere possibili quelle di dopodomani).
A irritare sono le motivazioni per cui occorrerebbe rimodulare la spesa pensionistica, che pure muovono da una premessa incontestabile, seguita però da conclusioni surreali. Si dice infatti che “non si può considerare equo un Paese nel quale il sistema pensionistico discrimina fra pensionati di generazioni diverse”3, ma questo non porta a immaginare politiche tese a incidere positivamente sulle pensioni future: politiche per il lavoro di qualità, che contrastino la precarietà e l’abbattimento dei salari, unite a un piano di investimenti per affrontare la piaga della disoccupazione giovanile. Tutto il contrario: non si mettono in discussione la cancellazione dei diritti dei lavoratori e l’austerità, che anzi una retorica truffaldina presenta, contro ogni evidenza, come il presupposto per una ripresa economica e dell’occupazione. Si giunge così alla conclusione che, se non si vuole discriminare tra chi ha di più e chi avrà di meno, non resta che lasciare le cose come stanno per chi ha di meno, e nel contempo togliere a chi ha di più.
E si badi che non si tratta qui di colpire i cosiddetti pensionati d’oro, ma semplicemente chi ha ottenuto il dovuto con sistemi di calcolo che i fautori della riforma costituzionale reputano ora “abbastanza generosi”4. Sistemi che da molti anni a questa parte hanno però consentito la sopravvivenza a tanti giovani e meno giovani, che sono stati costretti a ricorrere alle pensioni dei genitori per far fronte alla disoccupazione, a salari da fame, e soprattutto a uno Stato sociale oramai in disarmo.
Analisi economica del diritto costituzionale
Le proposte di riforma appena viste vanno lette in un tutt’uno con altre riforme o proposte di riforma che si sono succedute nel tempo e che hanno inteso mutare profondamente i caratteri della Costituzione.
Quest’ultima si fonda sull’idea che l’uguaglianza deve essere promossa contro il funzionamento del mercato: solo se controllata e indirizzata dai pubblici poteri l’iniziativa economica privata persegue “fini sociali” (art. 41), mentre se viene lasciata libera si trasforma in uno strumento di sopraffazione e sfruttamento. Tutto l’opposto di quanto sostiene l’ortodossia neoliberale, ovvero che l’iniziativa privata persegue fini sociali in quanto viene lasciata libera, se i pubblici poteri rinunciano a indirizzarla. Come si sa è in quest’ultimo senso che spinge l’Unione europea, che chiede ai Paesi membri di disciplinare i mercati non per contrastarli, ma per assecondarli: per assicurare il funzionamento della concorrenza, ovvero per tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato. Con il risultato che l’inclusione sociale viene ridotta a inclusione nel mercato, ritenuto lo strumento più adatto a redistribuire risorse, molto più della regolamentazione pubblica, fonte di inefficienza.
Queste convinzioni, un punto fermo dell’ortodossia neoliberale, si devono in particolare alla teoria della scelta pubblica, per cui la politica, prima ancora della democrazia, è fonte di corruzione e deve pertanto ritirarsi dall’arena economica. Non è un caso se proprio in tale ambito si è elabora l’analisi economica del diritto costituzionale (constitutional economics), una disciplina complessivamente tesa a rendere resistenti le regole destinate a riservare ai pubblici poteri il ruolo di meri custodi del principio di concorrenza. Il che avviene nel momento in cui si conferisce rango costituzionale a quelle regole, ovvero se si inseriscono nelle Carte fondamentali disposizioni ricavate dal principio per cui lo Stato deve assecondare il mercato5. Magari, per quanto riguarda il tema delle pensioni, limitando la spesa pubblica per favorire così la privatizzazione del sistema, affermando oltretutto che lo si fa per i giovani.
Non stupisce allora se, tra le proposte elaborate dai cultori di questa disciplina, spicca l’inserimento a livello costituzionale del principio del pareggio di bilancio, o sue varianti, che in area europea è stato sponsorizzato dal noto Fiscal compact, e in Italia realizzato con la riforma dell’art. 81 della Carta fondamentale: dove si dice ora che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. Il che equivale a mettere fuori legge i tentativi di tenere insieme crescita economica e piena occupazione, l’unica vera ricetta “salva-giovani”, e più in generale rovesciare il principio fondativo della cultura costituzionale italiana: quello per cui l’economia viene sottomessa alla politica, e quindi il mercato viene subordinato alla partecipazione democratica.
Solidarietà tra generazioni, neoliberalismo e beni comuni
Per molti aspetti l’inserimento in Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio ha già determinato un forte snaturamento della Carta fondamentale, mettendo oltretutto in luce come non vi sia un significativo scarto politico tra l’equilibrio e il pareggio di bilancio. È quanto si ricava da alcune sentenze della Corte costituzionale che si sono misurate con il principio, e hanno nel contempo affrontato il tema della solidarietà tra le generazione.
In particolare una decisione ha salvato alcune previsioni contenute in una legge attuativa “del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione” (si badi pareggio e non equilibrio)6, affermando che il principio vincola i cittadini meno giovani, chiamati a sacrificarsi per i cittadini più giovani: “sostenibilità del debito pubblico implica una responsabilità” che “non è solo delle istituzioni ma anche di ciascun cittadino nei confronti degli altri, ivi compresi quelli delle generazioni future”7. In un’altra decisone, che ha salvato i limiti alle assunzioni nella pubblica amministrazione concepiti come misure di austerità, il fine del ricambio generazionale viene invocato come movente per gli sforzi volti a perseguire l’equilibrio di bilancio8. Più recentemente si sono precisati i fondamenti per la “mutualità intergenerazionale” in materia pensionistica, e si è tra l’altro menzionata la disposizione costituzionale in cui si chiede di adempiere ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2)9.
A ben vedere non tutte le decisioni della Corte ricalcano questo schema, ovvero utilizzano la solidarietà tra generazioni come espediente buono a promuovere l’osservanza dell’ortodossia neoliberale imposta da Bruxelles: per giustificare, nel nome di una parità di trattamento incentrata su un minimo comun denominatore, la compressione certa di diritti alle generazioni presenti a beneficio ipotetico delle generazioni future. Una decisione ha ad esempio dichiarato l’incostituzionalità del blocco della rivalutazione automatica delle pensioni di importo superiore ai 1200 Euro, deciso come misura di austerità in linea con le richieste europee. Il blocco contrasta infatti con il diritto dei lavoratori a mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di vecchiaia (art. 38 Cost.) e, posto che la pensione costituisce una retribuzione differita, con il diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.)10. Più recentemente, a proposito del diritto all’educazione e all’avviamento professionale dei disabili, diritto menzionato nella medesima disposizione in cui si parla di diritto alla pensione, si è affermato che il bilancio deve piegarsi ai diritti e non viceversa: “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”11.
Ciò detto, la solidarietà tra generazioni non costituisce necessariamente un principio tipico dell’ortodossia neoliberale. Questa non ne ha la paternità: se ne è appropriata snaturando la valenza riconosciuta al principio nei contesti in cui ha una tradizione più nobile.
In particolare la cultura dei beni comuni si fonda esattamente su questa forma di solidarietà, in nome della quale si definiscono i limiti allo sfruttamento del bene: questo deve essere utilizzato in modo tale che siano conservate intatte tutte le sue funzioni. È ad esempio la possibilità per le generazioni future di fruire di un ambiente salubre a indicare per il tempo presente i limiti allo sfruttamento ambientale. Giacché è il suo valore d’uso che occorre conservare, e anzi proteggere da chi vede solo il suo valore di scambio: da chi esclude per appropriarsi del bene, per tutelare invece chi esclude per favorire i libero accesso al bene.
Competizione fiscale
I progetti di riforma della disciplina costituzionale del diritto alla pensione non hanno evidentemente nulla che vedere con tutto questo. Il fine ultimo non è tanto la sostenibilità del diritto in un contesto di risorse complessivamente calanti, bensì in una situazione nella quale si sceglie deliberatamente di diminuire la spesa sociale in omaggio a un progetto politico ben preciso. Il progetto neoliberale, che vuole affossare i diritti sociali sul presupposto che occorra riconoscerli solo se vi è sostenibilità finanziaria. Come se solo i diritti sociali avessero un costo, e non lo avessero invece le libertà indispensabili a far funzionare il mercato concorrenziale: idea tanto diffusa quanto infondata, dal momento che quelle libertà presuppongo quantomeno l’esistenza di un oneroso apparato di pubblica sicurezza e un sistema di tribunali altrettanto oneroso.
Non solo. Tra le libertà valorizzate dall’ortodossia neoliberale svetta quella relativa alla circolazione dei capitali, che costringe gli Stati a ingaggiare una drammatica competizione per attrarre o trattenere il maggior numero di investitori. Se i capitali circolano liberamente gli Stati sono cioè portati a comprimere i salari e i diritti dei lavoratori, e ovviamente ad abbattere la pressione fiscale sulle imprese: come da ultimo con la riduzione dell’aliquota proporzionale Ires dal 27,5% al 24% realizzata dalla legge di stabilità 201612. Il tutto alla base di una spirale perversa: la diminuzione del gettito fiscale, sempre crescente per effetto della competizione tra Stati, impone di limitare la spesa sociale, che avrebbe però bisogno di crescere anch’essa a causa della compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Di qui una serie di scelte obbligate come, per tornare al nostro tema, la diminuzione della spesa pensionistica, che come si vede costituisce il frutto di scelte politiche e non un accidente determinato da fattori naturali: come vogliono far credere coloro i quali si concentrano sul prolungamento della vita media (peraltro ora insidiato dalla diffusione della povertà).
È però questo il ruolo che l’ortodossia neoliberale affida allo Stato. Non tanto di arretrare per lasciare spazio ai mercati, ma di attivarsi per sostenere i mercati, per prevenire il loro fallimento e soprattutto per socializzare le perdite che ne derivano. Se del caso sacrificando la democrazia e persino la politica, per sterilizzare così il conflitto sociale e renderlo incapace di condizionare l’ordine costituito. Anche questa è una finalità riconducibile alla proposta di costituzionalizzare la solidarietà tra generazioni come limite al diritto alla pensione, che se approvata infliggerebbe il colpo di grazia a quella che da tempo non è più “la Costituzione più bella del mondo”.
NOTE
1 Proposta di legge costituzionale n. 3478 Modifica all'articolo 38 della Costituzione per assicurare l'equità intergenerazionale nei trattamenti previdenziali e assistenziali.
2 Proposta di legge costituzionale n. 3858 Modifica all'articolo 38 della Costituzione per assicurare l'equità e la sostenibilità dei trattamenti previdenziali.
3 Proposta di legge costituzionale n. 3478, www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0050960.pdf.
4 Relazione alla proposta di legge costituzionale n. 3858, www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0048830.pdf.
5 Cfr. J.M. Buchanam, Constitutional Economics, in J. Eatwell, M. Milgate e P. Newman (a cura di), The World of Economics, London e Basingstoke, Macmillan Press Limited, 1991, p. 134 ss.
6 Legge 24 dicembre 2012 n. 243.
7 Sentenza 10 aprile 2014 n. 88
8 Sentenza 28 marzo 2014 n. 60.
9 Sentenza 13 luglio 2016 n. 173.
10 Sentenza 10 marzo 2015 n. 70.
11 Sentenza 16 dicembre 2016 n. 275.
12 Art. 1 comma 61 Legge 28 dicembre 2015 n. 208 (legge di stabilità 2016).
«L' Unione ancora più indebolita, sciolta in una sorta di Europa “liquida” in cui ognuno pensa al vantaggio individuale. Preoccupati solo di curare il proprio giardino nell’incapacità di amministrare l’intero parco».
la Repubblica, 28 luglio 2017 (c.m.c.)
Ci sono due parole che descrivono bene la crisi che sta vivendo l’Unione europea: interesse nazionale. Lo scontro tra Francia e Italia sull’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri ha rispolverato un concetto che negli ultimi quindici anni era stato emarginato. O almeno la classe dirigente del Vecchio continente aveva iniziato a utilizzare con pudore, se non con un vero e proprio senso di vergogna.
Ecco, quel muro, anche solo psicologico, è stato abbattuto. E le macerie si riverseranno su un futuro che rischia di essere ben più appannato del presente che stiamo vivendo. Con un’Unione ancora più indebolita, sciolta in una sorta di Europa “liquida” in cui ognuno pensa al vantaggio individuale. Preoccupati solo di curare il proprio giardino nell’incapacità di amministrare l’intero parco.
Il presidente francese Macron ha vinto le elezioni presentandosi anche come il “campione” di un nuovo europeismo. Ha marcato la campagna elettorale affrontando a viso aperto il populismo di Le Pen. Ha persino organizzato la sua cerimonia di insediamento facendo suonare l’Inno alla Gioia di Beethoven, ossia l’inno ufficiale della Ue.
Eppure molti degli atti concreti realizzati in questi mesi costituiscono una vera e propria inversione di tendenza. Del resto si tratta di una retromarcia che non è stata innestata solo da Parigi. È ormai chiaro che l’interesse nazionale sta prevalendo in quasi tutta Europa. Se l’Eliseo annuncia la nazionalizzazione dei cantieri Stx con il ministro dell’Economia Le Maire che dichiara pubblicamente « difendiamo i nostri interessi», in Spagna le procedure di acquisto di Abertis da parte di Atlantia sono costellate da una serie di ostacoli e condizioni che fanno perno proprio su una sorta di neoprotezionismo. Tutto a dispetto dei principi comunitari che consentono di vietare le acquisizioni straniere solo in caso di minaccia per «la sicurezza pubblica o l’ordine pubblico». E certo non sembrano i casi trattati in questi giorni.
Il punto, ormai, è che si sta mettendo sullo stesso piano la difesa della specificità europea e quella dei singoli partner dell’Ue. All’inizio dell’anno i ministri dell’Economia di Italia, Francia e Germania avevano chiesto alla Commissione di Bruxelles di rivedere le regole per gli investimenti stranieri nell’Unione. Un tentativo di difendersi soprattutto dall’aggressività imprenditoriale asiatica. Un modo per tutelare il nostro know how. E per porre il tema della reciprocità a paesi che concepiscono il capitalismo solo senza regole. Ma quella preoccupazione adesso si sta trasformando in una malattia endogena capace di infettare le radici dell’Unione europea. Soprattutto di minare alla base gli ideali sui quali è stata edificata l’Ue. Non è infatti un caso che la sfida intrapresa da questo egoismo nazionalista 2.0 non si concentri solo sulle partite industriali e finanziarie. Ormai si sta trasferendo anche sui grandi temi che assillano tutti i paesi. Basti pensare all’enorme questione dei migranti.
La soluzione adottata nell’ultimo anno è stata sostanzialmente solo quella di sigillare i confini a nord di Italia a Grecia. Senza alcuna effettiva cooperazione. Come se una volta chiuse le frontiere, il problema potesse essere risolto solo da uno o da un paio di Paesi direttamente toccati dall’ondata migratoria. Chiudendo così gli occhi e facendo finta di non vedere. Riservandosi magari la possibilità di intervenire unilateralmente nel caso in cui si offrisse l’occasione di mettere la mano su qualche interesse economico come può essere il petrolio libico.
È lo stesso spirito e lo stesso sentimento che ha portato la Gran Bretagna a votare a favore della Brexit. Sono due facce della stessa medaglia. Che, però, può rapidamente rivelarsi una patacca. Il prezzo di queste scelte, infatti, le paga solo la costruzione dell’Ue. L’Unione ha già segnato il passo sul completamento del suo percorso. Non esiste una politica di difesa comune, non esiste un fisco comune, non si condividono i rischi né le opportunità. Resta solo la moneta unica. Ma è ormai evidente che un’Europa solo monetaria non è più sufficiente.
La rincorsa verso gli slogan del populismo demagogico che ancora vengono urlati nel Vecchio Continente può sortire un solo effetto: assestare un ulteriore colpo a un’Europa già malata. Macron probabilmente volge lo sguardo al passato quando pensa alla “grandeur” francese. Picasso diceva: « Dipingo ciò che penso, non ciò che vedo». Era però un artista. Chi ha responsabilità istituzionali deve essere consapevole della realtà. E anche Parigi è troppo piccola per affrontare in solitudine le sfide globali. Il leader francese non può nemmeno pensare, come diceva De Gaulle, che « l’intendenza seguirà ». In questa Europa nessuno da solo ha la forza di farsi seguire. Tutti, semmai, hanno la possibilità di far pericolosamente tornare indietro le lancette dell’orologio.
La vittoria del referendum del 4 dicembre ha bloccato solo una delle strade tentate per stravolgere la Costituzione. Altre manovre sono in corso, a partire dalla legge elettorale.
il Fatto quotidiano, 27 luglio 2017, con postilla
La vittoria del No non basta ad impedire nuovi tentativi di stravolgimento della Costituzione. Abbassare la guardia sarebbe un errore, come sottovalutare la forza e la determinazione delle potenti forze che in Italia e all’estero hanno spinto Renzi a tentare di deformare la Costituzione. La proposta di Renzi – bocciata il 4 dicembre 2016 – è solo la forma che ha assunto in Italia una scelta politica e istituzionale autoritaria e accentratrice. Panebianco ha proposto che le future modifiche debbano riguardare tutta la Costituzione, principi compresi, non più solo la parte istituzionale. Del resto il tentativo di modificare il patto costituzionale uscito dalla Resistenza e dall’intesa tra le forze fondamentali dell’epoca ha radici antiche.
Né è casuale che l’Istituto Leoni rilanci la flat tax, con il conseguente stravolgimento della progressività e dell’universalità dei diritti sociali, cambiando di fatto la prima parte della Costituzione. Le dichiarazioni fatte durante la campagna referendaria che la prima parte della Costituzione non era in discussione celavano in realtà il boccone più ambito, da affrontare una volta risolto il problema dei meccanismi decisionali in senso autoritario. Del resto nel mondo ci sono tendenze autoritarie: dalla simpatia delle grandi corporation per i regimi non democratici, fino alle derive autoritarie in Turchia, in Ungheria con il bavaglio alla stampa, in Polonia con l’attacco all’autonomia della magistratura. La pressione è contro le procedure democratiche, viste come inutili pastoie che ritardano le decisioni delle corporation e dei gruppi di potere. Il pensiero stesso è semplificato e primordiale e la società che prefigura è autoritaria, anzitutto sotto il profilo culturale. È già accaduto negli Usa, la destra ha preparato gli stravolgimenti partendo dal piano culturale, con l’obiettivo di trasformare un nuovo pensiero dominante in unico, talora in un dogma di Stato. Qualcosa del genere sta accadendo anche in Italia, la destra è all’attacco di principi fondamentali, la reazione è debolissima. La responsabilità politica e culturale del gruppo dirigente a trazione renziana è di avere buttato alle ortiche i valori della sinistra, una rottamazione dei principi. Pensiamo al fisco: la progressività del prelievo è stata abbandonata e sulla casa sono state tolte le tasse ai ricchi; sono stati approvati condoni a raffica, ora in proroga, con le stesse motivazioni di Tremonti. Sinistra e destra hanno sempre avuto un confine: il no, di principio, ai condoni. Questo argine è stato fatto saltare. Dove stanno ora le differenze? Ora è in preparazione un altro stravolgimento costituzionale e questa volta l’attacco riguarderà insieme meccanismi decisionali e principi, cioè i diritti fondamentali delle persone: lavoro, diritti, sanità, stato sociale. Per respingere questo tentativo il primo appuntamento è la legge elettorale, che non a caso nel disegno renziano era tutt’uno con le modifiche costituzionali. Il prossimo parlamento avrà un ruolo importante per respingere questi tentativi. Non si può che concordare con Onida: “Rinnegare i principi non vorrebbe dire rivedere la Costituzione ma stravolgerne i principi supremi… un salto indietro di due secoli”. Un parlamento eletto con i residui di Porcellum e Italicum, composto da nominati dai capipartito e non da eletti dai cittadini sarebbe subalterno ai poteri dominanti. Un parlamento rappresentativo, che risponde agli elettori, potrebbe impedire lo stravolgimento dell’assetto costituzionale, perfino imporne l’attuazione.
La nuova legge elettorale sarà uno spartiacque. Questo è drammaticamente sottovalutato. Troppi continuano a credere che una modalità elettorale vale l’altra. Non è così. Una legge elettorale che consenta di eleggere un parlamento rappresentativo, consapevole del suo ruolo, sarà decisiva per garantire la Costituzione. Altrimenti la destra rilancerà il presidenzialismo.
Il comitato per il No ha il merito di avere dato legittimità culturale e politica al No contro la deformazione costituzionale, impedendo il monopolio della destra. Ma anche a sinistra occorre chiarezza. Il No non è una linea del passato. Il 4 dicembre non basta ad impedire nuovi tentativi e la legge elettorale ancora non c’è. Sì e No non sono sullo stesso piano. Il Sì avrebbe fornito al gruppo di potere renziano le credenziali presso le forze che vogliono il cambiamento ad ogni costo della nostra Costituzione in modo che una minoranza di elettori diventi maggioranza comunque. Il No ha bloccato questo percorso.
Ora il tentativo riparte.
Il 2 ottobre, come l’11 gennaio 2016, lanceremo un’iniziativa per avviare una campagna nel Paese per impedire che la legge elettorale venga sequestrata dai capi partito, come hanno già fatto con il Porcellum e poi con l’Italicum, con l’obiettivo di consentire agli elettori di decidere chi li deve rappresentare.
postilla
Il potente gruppo finanziario JP Morgan, leader indiscusso del capitalismo globalizzato, minacciò l'allora presidente della Repubblica di sfracelli se la de-costituzione di Renzi non fosse passata. Vedi in proposito, su eddyburg: Il giudizio universale di JP Morgan, di Barbara Spinelli, Eddytoriale n 171, di EddyburgIo dico No ai ladri di sovranità, di Tomaso Montanari
manifesto, 27 luglio 2017
Ancora una volta per capire la crisi libica e dintorni, ricorriamo ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e della Libia.
Gentiloni ha ricevuto Fajez al Sarraj di ritorno dal vertice con Haftar promosso da Macron a e ha comunicato che il leader di Tripoli «ha chiesto aiuto navale italiano in acque libiche contro i trafficanti di esseri umani»; ora la proposta «viene valutata con il ministro della Difesa». Che significa?
«Sembra un nuovo intervento militare, una nuova avventura italiana. Comunicato appena dopo il vertice voluto da Macron. Una specie di guerra d’immagine. Ma pericolosa, Non a caso è stato subito apprezzato dalla destra italiana che da tempo vuole schierare le cannoniere. Certo non è chiaro: si tratta di una sorta di blocco navale in acque libiche, solo della Tripolitania, quasi una sostituzione italiana dell’inutile e corrotta guardia costiera libica? Oppure in acque internazionali? Comunque sulla pelle dei profughi che a quel punto sarebbero sequestrati, dopo l’eventuale cattura dei “trafficanti” e rispediti nelle prigioni libiche o nella disperazione africana. Senza escludere il rischio di come avviene un blocco navale: dovremmo ricordarcelo come Italia: nel 1997 affondammo la barcarola albanese Kater I Rades con una corvetta della Marina e morirono 108 persone».
Qual è il suo giudizio sul vertice di Parigi promosso dal presidente francese?
«È come se Macron avesse voluto ricucire, ma solo recitandolo, l’affronto di Sarkozy che, nel marzo 2011 guidò la guerra a Gheddafi forzando la mano a tutti, a cominciare dall’Italia fino agli Stati uniti, un fatto che almeno Obama ha riconosciuto come un tragico errore. Uno strappo tra l’altro costato 30 mila miliardi di dollari in distruzioni di città, fabbriche, infrastrutture, secondo la valutazione fatta dalle Nazioni unite.
«Attenzione, si tratta di una svolta d’immagine. Macron si muove con l’atteggiamento da piccolo Napoleone, sopravanza l’Italia con un summit realizzato quasi di nascosto e sfotte perfino quando si sente in obbligo di ringraziare «il mio amico Gentiloni». La sua riparazione serve in sostanza ad imporre il primato della Total in terra libica.
«Se avesse voluto riabilitare davvero la Francia perlomeno doveva annunciarsi come un giovane convinto europeista che ammette gli errori francesi in Africa. Invece paradossalmente si fa forte dei disastri compiuti dai presidenti francesi precedenti e ancora una volta del controllo assoluto che Parigi ha dei paesi della fascia del Sahel, tra cui Niger, Mali, Ciad dei quali controlla economia e valuta con il franco locale Cfa, l’acronimo vuol dire che quei Paesi appartengono alla Communauté Financière Africaine. Il colonialismo sta sempre lì. Ora per il ministro Minniti, il Niger diventa la frontiera sud, il muro da difendere, dell’Europa».
Eppure Sarraj e Haftar si sono stretti la mano per un cessate il fuoco, l’ipotesi di un governo unitario di transizione, elezioni nella primavera del 2018…
«Ma se si legge bene, sono gli stessi contenuti dell’incontro tra i due di Abu Dhabi nel maggio scorso. Sui quali Macron ha messo il cappello. Un vertice quello la la mediazione degli Emirati, in realtà schierati con il generale Khalifa Haftar che fa il lavoro sporco per la stessa Francia, l’Egitto e la Russia. Dietro Fajez al Sarraj c’è il riconoscimento dell’Onu e l’Italia, che lo ha insediato con la Marina militare – e quello nemmeno c’informa che va da Macron. Ma il «nostro» leader vive sotto assedio, non controlla a pieno nemmeno la città di Tripoli; tanto meno la Tripolitania divisa tra milizie in parte schierate con Tripoli, come quelle di Misurata che ricattano costantemente Sarraj, in parte con il precedente governo islamista di Khalifa al-Ghweil; ci sono poi l’enclave armata di Zintane che ha detenuto e liberato Seif Al Islam, il figlio di Gheddafi; il Fezzan delle tribù e dei clan e la Cirenaica di Haftar, ancora alle prese con il tentativo di ricostituzione delle milizie jihadiste, a Derna e Bani Walid dopo la sconfitta di Sirte. Dappertutto centinaia di milizie armate.
«Questo elenco per dire che proprio l’ultimo capitolo dell’accordo di Abu Dhabi – «risolvere il nodo delle milizie» – è fallito facendo fallire tutto il resto. Perché parliamo di controllo del territorio che non c’è. Lo sa bene il generale Haftar che avanza e occupa i decisivi pozzi petroliferi. Non a caso su di lui si spostano ormai le simpatie internazionali, comprese quelle dell’Italia. La pace nella Libia somalizzata dall’intervento militare occidentale, che ha mandato in frantumi un lavorìo di 42 anni per tenerla insieme, non può avere come interlocutori soltanto due protagonisti. Le forze in campo sono molte di più. A cominciare da quelle internazionali, perché la Libia è diventata il cuore del neocolonialismo mondiale.
«Nel cuore della miglior tradizione europea non c’è nessuna millanteria delle origini, c’è la ricerca della verità, l’incessante indagine conoscitiva. C’è il dubbio ed è da questo cuore che partono le istanze di dignità umana e di giustizia che percorrono la storia europea».
Il Fatto Quotidiano online, 26 luglio 2017 (c.m.c.)
L’Europa sta cercando la propria anima, e non sa bene dove trovarla. Ha senso girare la domanda a chi pratica le scienze storiche? Dipende. Troppo spesso gli intellettuali sbandierano slogan improbabili, come la pretesa continuità della storia europea da Omero ai nostri giorni; troppo spesso la retorica corrente fa leva su parole logore e vacue come “radici” o “identità”.
Alla base di queste prediche a vuoto c’è un colossale equivoco, l’idea che un’immagine monolitica dell’Europa sempre uguale a se stessa la rafforzi sulla scena “globale” del mondo di oggi. È vero il contrario: per secoli abbiamo coltivato un’idea di Europa eterna e immutabile, bandiera di un eurocentrismo che rivendicando la superiorità su ogni altra civiltà mirasse a legittimare ieri il più brutale colonialismo, oggi l’egemonia dell’Occidente. Quel tempo è finito per sempre, quell’idea di Europa ha generato formidabili anticorpi che l’hanno ridotta in polvere. Per non dire delle “radici cristiane”, formula che vuol chiudere l’Europa entro un muro. Ma se neghiamo tali artificiose continuità, che cosa resta dell’Europa?
Un netto bivio tra continuità e discontinuità non ha senso. Nel cuore della miglior tradizione europea non c’è nessuna millanteria delle origini, c’è la ricerca della verità, l’incessante indagine conoscitiva. C’è il dubbio, l’ideale socratico della “vita esaminata” (al fine di intendere da quali motivazioni sia mosso il nostro agire), ed è da questo cuore che partono le istanze di dignità umana e di giustizia che percorrono la storia europea. Perciò dobbiamo concentrare lo sguardo sui termini di passaggio, sulle fratture interne alla storia d’Europa.
Fratture che sono anche cerniere, ponti di comunicazione fra culture diverse. Leggere la storia culturale europea come perpetuo alternarsi di continuità e discontinuità, mescolarsi di civiltà, lingue, religioni. Incontri e scontri, anche violenti, che hanno costruito nei secoli il nostro Dna. Il suo vanto non è nella “radice unica”, ma nella sua ramificatissima, feconda pluralità. Nella sola Italia contiamo etruschi e greci, fenici e celti, sardi e italici, romani e liguri, longobardi e arabi, francesi e catalani, slavi e veneti, austriaci e spagnoli, “pagani” e cristiani, musulmani, ebrei. E molto altro ancora. È nelle pieghe, nelle suture e nei conflitti fra l’una e l’altra di queste componenti che dobbiamo cercare un’idea di Europa che sia vincente sulla scena globale del mondo.
Due concetti-chiave della storia culturale europea, quello di “classico” e quello di “Rinascimento”, mostrano quanto essa sia ricca e feconda, se solo rinuncia a una concezione angustamente identitaria. Il Rinascimento fu lo sforzo di far rinascere l’antichità classica, cioè di sanare una ferita, di gettare un ponte su una discontinuità. Ma di rinascimenti ce n’è stato solo uno, o tanti? Le molte ‘rinascenze’ al tempo di Carlo Magno o di Federico II, a Reims o a Padova o a Bisanzio, rivelano una sequenza segmentata e sofferta, non una pacifica continuità.
Ed è possibile, anzi necessario, chiederci se altre civiltà lontane dall’Europa non abbiano avuto un qualche loro rinascimento (lo ha fatto un grande antropologo, Jack Goody, nel suo Rinascimenti: uno o molti?, pubblicato in Italia da Donzelli). Quanto alla classicità greco-romana, essa non coincide affatto con l’Europa, anzi il suo spazio culturale ha avuto un orizzonte mediterraneo, esteso verso Sud e verso Oriente più che verso Nord. La stessa categoria di “classico” ha un ambito di applicazione enormemente più vasto dell’Europa, perché si presta a orientare lo sguardo e i comportamenti, a costruire sistemi di valori, gerarchie, preferenze, gusti, anche nella cultura araba, cinese, persiana, indiana.
Dobbiamo ripensare la classicità greco-romana attraverso il filtro di un’assidua comparazione con elaborazioni culturali affini, anche in orizzonti assai lontani dall’Europa. Non dobbiamo considerare i “nostri” Antichi come provvidenzialmente identici a noi stessi, ma anzi riconoscere la loro radicale alterità; e quando vi troviamo frammenti di un’identità che è ancora la nostra (per esempio in una moltitudine di parole greche, da ‘nostalgia’ a ‘democrazia’), dobbiamo guardarle più da vicino : quanto diversa dalla nostra la democrazia ateniese, dove le donne non votavano e non si metteva in discussione la schiavitù!
Eppure, abbiamo ancora molto da imparare dall’idea di cittadinanza come fu elaborata nella polis antica. Se consideriamo il classico come spola tra l’identico e il diverso, come esercizio della mente e della moralità che ci spinge al confronto con altre culture, anche la civiltà greco-romana potrà valere come chiave d’accesso alla molteplicità culturale del mondo contemporaneo: una piattaforma conoscitiva efficace solo se spogliata di ogni pretesa di unicità, e fecondata dalla comparazione.
Ogni tempo ha la sua Europa. Ma l’Europa di oggi conserva l’impulso a cercare la verità delle cose, la memoria di sé che induca al confronto, l’incessante interrogarsi sulla natura della nostra memoria culturale? C’è da dubitarne. Nelle istituzioni europee non regna la cultura, non regna il dubbio, non regna la dignità umana né la giustizia sociale. Regna un riduzionismo tecnocratico, di natura sostanzialmente autoritaria e antidemocratica, secondo cui al mercato, e ad esso solo, spetta regolare la società in tutti i suoi aspetti. Sembra esaurito il notevolissimo impulso ideale che fra le rovine della seconda guerra mondiale innescò il processo che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Europea. Essa avrebbe dovuto partire dalla coscienza di sé per costruire un modello di convivenza che segnasse un suo nuovo ruolo nel mondo.
Quegli ideali si sono inariditi, e l’Europa a cui si pensa oggi non è quella dei suoi cittadini, della sua storia, della sua cultura, ma quella dei Trattati, dove il ruolo della memoria storica è marginale, come lo è l’equità sociale; è l’Europa dei mercati, prona a una logica di globalizzazione che implica la metamorfosi del cittadino in consumatore. In un tal contesto non vi sarà mai un vero patriottismo europeo: perché la patria ha un’anima, il mercato no. Rispetto all’Europa dei mercati, l’Europa della cultura è (per usare una metafora cara a Benjamin) come il mendicante che bussa alla porta. Avrà con sé un messaggio, o forse addirittura l’anima dell’Europa che andiamo cercando? Non lo sapremo mai, se quella porta non verrà aperta. Ma perché si apra, dobbiamo bussare più forte, dobbiamo alzare la voce.
«La tentazione autoritaria sarà sconfitta se quei popoli vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva».
Internazionale online 26 luglio 2017 (c.m.c.)
Dopo la Brexit si parlerà di una “Polexit” per la Polonia, o direttamente di una “Estexit” per l’eventuale scissione tra i vecchi paesi membri dell’Unione europea e quelli nuovi dell’Europa centrale e orientale?
La decisione presa il 24 luglio dal presidente polacco Andrzej Duda di apporre il veto su due delle tre riforme del sistema giudiziario proposte dal governo di Varsavia e adottate dal parlamento, allontana per il momento questa minaccia. Si tratta però soltanto di una tregua, una battaglia vinta nella guerra dell’autoritarismo combattuta in seno stesso all’Unione europea.
Il presidente Duda, al quale fino a oggi nessuno aveva attribuito una simile forza di carattere, ha detto di essere stato colpito dalle parole di Irena Zofia Romaszewska, 77 anni, anziana intellettuale associata all’epopea di Solidarność nell’era comunista. Essendo già vissuta in un’epoca in cui tutti i poteri erano nelle mani dei procuratori, gli avrebbe detto, non aveva voglia di riviverla. Ed era proprio questo il punto della riforma della giustizia: la fine di una separazione dei poteri e il controllo della politica sulla nomina dei giudici.
Il capo di stato polacco non è stato influenzato soltanto da questa figura storica della dissidenza, ma anche e soprattutto dalla mobilitazione dei giovani che hanno invaso le strade e le piazze di Varsavia per difendere lo stato di diritto e i valori europei.
Se lunedì scorso, con il colpo di scena che ha costretto il potere a fare un passo indietro, c’è stata una vittoria, questa va attribuita soprattutto alla mobilitazione di massa in piena estate della società civile polacca e soprattutto dei più giovani che, secondo tutti i sondaggi, sono in maggioranza legati ai valori europei e hanno una maggiore apertura mentale.
Sarebbe tuttavia bene non farsi illusioni: non per questo in Europa centrale si fermerà l’ondata illiberale partita dall’Ungheria di Viktor Orbán e ripresa dalla Polonia di Jarosław Kaczyński. Corrisponde a una visione del mondo nazionalista, sciovinista ed esclusivista che ha trovato un’ampia eco in una fase di sconvolgimenti e incertezze e che ha fatto della figura del migrante il capro espiatorio di tutti i mali e del liberalismo politico dell’Europa occidentale un simbolo di debolezza e di rinuncia.
Tanto la Polonia quanto l’Ungheria non sono del tutto convertite a questa visione, e lo testimonia il sussulto di resistenza messo in campo dalla società civile a ogni tappa di questa erosione democratica attuata metodicamente dai due governi.
La questione, aperta da tempo e ancora senza una risposta davvero convincente, riguarda la reazione della stessa Unione europea. Per la prima volta la Commissione europea ha messo in guardia la Polonia dopo il voto di tre riforme della giustizia e ha di certo tirato un gran sospiro di sollievo all’annuncio del veto presidenziale su due di esse.
Bruxelles temeva di dover passare alla fase successiva in caso di approvazione delle riforme. Il famoso articolo 7 del trattato di Lisbona, la “bomba atomica” degli statuti dell’Unione europea, prevede la sospensione dei diritti di voto di uno stato membro in caso di violazione flagrante dei suoi princìpi fondatori. Per sanzionare uno stato serve però l’unanimità, di fatto impossibile dato il sostegno evidente dell’Ungheria alla Polonia di oggi.
Per screditare una minaccia non c’è niente di meglio che agitarla senza avere gli strumenti per applicarla. Tanto più che alcuni dirigenti del Pis, il partito di Jarosław Kaczyński, hanno ammesso di volere usare le minacce europee per scatenare un’ondata di reazioni nazionaliste e non hanno esitato a paragonare la Bruxelles di oggi alla Mosca di ieri.
I principali attori dell’Ue hanno l’imperativo di ridefinire il loro comportamento, la loro strategia e i loro discorsi di fronte alle tentazioni autoritarie di alcuni stati. Non possono restare in silenzio né continuare ad agitare minacce senza futuro. L’urgenza riguarda in particolare la cancelliera tedesca Angela Merkel, la personalità più forte del Partito popolare europeo (Ppe), l’alleanza di partiti di destra nel parlamento europeo che annovera tra i suoi membri il partito Fidesz di Viktor Orbán. Una parte della destra tedesca è compiacente nei riguardi del presidente ungherese, ma la cancelliera non può permetterselo.
È però soprattutto alle società civili dei “Peco”, i paesi dell’Europa centrale e orientale nel gergo di Bruxelles, che l’Unione deve parlare. Si è vista la bandiera blu stellata dell’Europa fungere da elemento di convergenza per i manifestanti anticorruzione di Bucarest e per gli oppositori del controllo politico sulla giustizia in Polonia.
È in corso una battaglia sorda nel settore dell’informazione. In Polonia come in Ungheria, i poteri politici continuano a rafforzare il controllo sui mezzi di informazione, ovviamente su quelli pubblici, e questo emerge dal tono dei telegiornali, ma anche su quelli privati, con la partecipazione di “amici” del potere o il soffocamento di mezzi di comunicazione indipendenti, privati degli introiti pubblicitari.
L’obiettivo, come in tutti i paesi autoritari che si rispettino (per esempio la Turchia di Erdoğan oggi) è quello di limitare il più possibile le voci critiche e dissidenti per dare libero sfogo alla propaganda governativa. Così le opinioni pubbliche finiranno per trovare “normali” i provvedimenti arbitrari antimigranti, gli ostacoli allo stato di diritto, i limiti imposti alla libertà di espressione, di riunione, di manifestazione.
La visione del mondo espressa dai leader di questa “tentazione autoritaria” è rafforzata dalle influenze extraeuropee. Nelle ultime settimane abbiamo visto Donald Trump interrogarsi, in un discorso magniloquente pronunciato a Varsavia, sulla “volontà di sopravvivere” dell’Europa; e Benyamin Netanyahu incitare i leader del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) riuniti a Budapest a ribellarsi a Bruxelles, rievocando in un discorso a porte chiuse ritrasmesso da un microfono malauguratamente rimasto aperto la figura del “barbaro” alle nostre porte.
Questa tentazione può e deve essere contenuta. A farlo però saranno innanzitutto i popoli di quegli stessi paesi, se vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva, l’antitesi del mostro burocratico, intrusivo e accentratore descritto dai loro leader.
È soprattutto ridando vita al progetto europeo che si eviterà una Estexit, che non è desiderabile né oggi né in futuro, perché condannerebbe i popoli dell’Europa centrale e orientale a restare in un vicolo cieco senza futuro sotto il controllo di leader populisti. Il tempo non è molto, ma i giovani polacchi che hanno fatto arretrare la minaccia illiberale in questi ultimi giorni hanno mostrato di crederci: tocca al resto dell’Europa non deluderli.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale francese L’Obs.
Roberto Ceccarelli intervista Andrea Fumagalli, economista all'università di Pavia, sul senso antropologico del lavoro, una merce sempre più disprezzata dal capitalismo.
il manifesto, 26 luglio 2017
«Indagine Ue su occupazione e sviluppi sociali 2017. "Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà"»
A cosa è dovuta questa crescita?
«All’aumento dell’età pensionabile, del lavoro degli over 50, del part-time involontario e della precarietà. Il dato complessivo di 234 milioni di persone al lavoro va analizzato in dettaglio. Se guardiano i dati relativi alle unità di lavoro equivalenti, ovvero la quantità di lavoro richiesta dalle imprese, questa cresce a un saggio inferiore rispetto alla crescita degli addetti. Il che significa che la quantità di lavoro resta ancora stagnante, ma aumenta la quota dei precari a scapito dei posti fissi si ha un aumento delle persone occupate ma con un livello reddituale peggiorato. In pratica il lavoro stabile viene sostituito dal lavoro precario.
Mentre in Europa la quota dei Neet diminuisce, in Italia continuano a crescere. Come si spiega questa differenza?
«In Italia il numero dei Neet (Not Engaged Education Employenent Training) è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. In Italia la quota dei cosiddetti scoraggiati, cioè coloro che non fanno nessuna ricerca di lavoro nel periodo della rilevazione, e quindi non vengono contabilizzati nei disoccupati veri e propri, è di gran lunga superiore alla media europea. Teniamo presente che gli scoraggiati sono sopratutto giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio. Una recente ricerca del progetto europeo «Pie news-commonsfare.net» ha evidenziato che i giovani precari sotto i 25-26 anni non cercano effettivamente lavoro. Sono quelli che possiamo chiamare precari di seconda generazione che vivono di «lavoretti» nella «gig economy». Non vedono più nel lavoro la principale forma di realizzazione. Il loro è un rifiuto individuale del lavoro che non assume una dimensione collettiva.
Nel nostro paese si registra anche un aumento record del lavoro autonomo. Per tradizione, siamo sempre stati un paese con tante partite Iva. Oggi la partita iva è un modo per sfuggire alla precarietà o di essere diversamente precari?
«In Italia la quota di lavoratori non subordinati, detti autonomi, è pari al 23%. Buona parte è composta da partita Iva, in parte sono lavoratori individuali per conto terzi che svolgono prevalentemente un lavoro eterodiretto che spesso è l’unica possibilità immediata per avere un minimo di reddito intermittente. Quest’ultima è una forma di precarietà che ha una storia strutturale nel nostro paese.
Cosa dire ai giovani che non avranno una pensione degna?
«Le riforme pensionistiche in Italia con il passaggio al sistema contributivo hanno risolto il problema della sostenibilità economica della spesa previdenziale, ma hanno innescato una bomba sociale. In presenza di elevata precarietà lavorativa, i contributi versati non permetteranno a molti di godere di un livello di pensione superiore alla povertà relativa. Saranno costretti a lavorare finché moriranno, oppure a sperare di morire prima di andare in pensione. Questo obbligherà, a partire dal 2030, quando il sistema contributivo andrà a regime, a un intervento di sostegno al reddito per coloro che si troveranno in una situazione di povertà.
Come si spiega il boom della povertà nel nostro paese, unico caso in Europa con Romania e Estonia?
«La povertà non riguarda più solo coloro che sono fuori dal mercato del lavoro: i disoccupati e i pensionati con basso reddito. Riguarda sempre più anche coloro che sono all’interno del mercato del lavoro. Questa è la quota di poveri che aumenta di più. Per l’Istat il dato preoccupante è quello degli «operai e assimilati» che hanno un rapporto di lavoro continuato. L’incidenza della povertà sfiora il 20%, uno su cinque, contro il 33% dei disoccupati. Ciò vuol dire che il lieve incremento occupazionale in corso si coniuga con l’ampliamento della «trappola della precarietà» i cui effetti sulla dinamica della domanda e della polarizzazione dei redditi sono ormai evidenti.
Basterà il reddito di inclusione contro la povertà voluto dal governo?
«Assolutamente no. Il reddito di inclusione, finanziato con 700 milioni che saliranno a 1 miliardo e 400 nel 2018 è sottoposto a tali vincoli di accesso da far sì che solo meno del 20 per cento delle famiglie in povertà assoluta potranno goderne.
Il governo promette di aumentare i fondi…
«È difficile che tale promessa possa essere mantenuta nei vincoli di bilancio se il governo decide in modo prioritario di spendere quasi 10 miliardi di euro per vari salvataggi bancari. Bankitalia stima che tale decisione farà aumentare dell’1 per cento il rapporto debito/Pil.
La commissaria Ue all’occupazione Thyssen sostiene che l’Europa è per il reddito minimo, ma lascia ai singoli paesi la possibilità di adottare il reddito di cittadinanza. Qual è la soluzione migliore?
«La discussione sulla scelta tra reddito minimo e di cittadinanza è malposta. Il vero discrimine non è l’universalità ma l’incondizionalità: un reddito dato senza nessuna contropartita. Sarebbe più utile erogare un reddito di base pari alla soglia di povertà relativa di 780 euro al mese partendo da coloro che si trovano al di sotto di questa soglia a livello individuale con un esborso di 15 miliardi netti annui più i 9 miliardi già stanziati per gli ammortizzatori sociali. Con l’accortezza di specificare che tale reddito dev’essere il più incondizionato possibile.
In Italia non c’è né l’uno, né l’altro…
«Nel nostro paese qualsiasi proposta di legge sul reddito minimo, o di base, dev’essere accompagnata da una proposta di salario minimo orario per i non contrattualizzati. Per evitare il rischio di un effetto sostituzione tra il salario e il reddito.
Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
«La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.

«. MicroMega, 24 luglio 2017 (c.m.c)
L’analisi di Massimo Giannini sulla sinistra divisa e minoritaria è, come sempre, impietosamente lucida. Eppure credo che non sia l’unica lettura possibile.
Essa appare, ed è, realistica, se diamo per scontato, come sempre si fa, un dato di fondo: e cioè che i rapporti di forza tra destra, sinistra e pentastellati siano, sul breve periodo, stabili. Ma se proviamo a pensare che cambi la base elettorale attiva, anche questo scenario può cambiare. In altre parole, Giannini fa quello che fanno i leaders di tutti i partiti: dà per scontato che continuerà a votare circa la metà del Paese. E che l’altra metà sia sostanzialmente perduta alla vita della democrazia italiana.
Quello che Anna Falcone ed io abbiamo provato a proporre è di cambiare occhiali: e di provare a svegliare quest’altra metà del Paese. Perché noi due, che non siamo politici, né tantomeno leaders? Perché durante la campagna referendaria del No abbiamo visto con i nostri occhi questa altra Italia, quella che non vota: l’abbiamo vista partecipare a riunioni e assemblee. E poi il 4 dicembre l’abbiamo ritrovata nelle urne.
Ovviamente non tutta la valanga dei No era di sinistra: ma una parte lo era, eccome. Voti di giovani senza più fiducia. Voti di sommersi che sentono di non avere alcun interesse a sommarsi a quelli, ben più pesanti, dei salvati. Un elettorato potenzialmente di sinistra comprese allora che si combatteva una battaglia decisiva per la partecipazione e la rappresentanza degli ultimi: un elettorato che, se tornasse a votare, potrebbe sconvolgere gli equilibri. E, allora, perché non pensare che accanto al realismo dello stato delle cose possa esserci anche un altro realismo, quello di chi vuole provare a modificarla, la realtà? Antonio Gramsci ha scritto che l’idolo più difficile da abbattere è la credenza che tutto ciò che esiste, sia naturale che esista così.
La proposta del Brancaccio è provare ad abbattere quell’idolo, costruendo una lista unitaria della Sinistra non intesa come somma dei pezzetti già noti, ma come una realtà nuova, capace di coinvolgere e rendere protagonista quest’altro mondo. Per questo non ha molto senso parlare – come fa Giannini – di ‘montanariani’ o ‘falconiani’: non abbiamo alcuna intenzione di costruire l’ennesima listina da zero virgola, e non lo faremo. Se sarà evidente che non ci sono le condizioni per una lista unica davvero profondamente innovativa (che è l’obiettivo esplicito che abbiamo indicato), il percorso continuerà come costruzione (lenta, paziente e speriamo feconda) di uno spazio politico nuovo, ma non contribuirà ad aumentare la frammentazione elettorale.
Se l’obiettivo è questo, allora forse si capisce che le categorie da usare non sono più la ‘purezza’, l’‘identità’, o il ‘rancore’. La questione è molto più pragmatica: bisogna parlare un’altra lingua, cercare altri interlocutori, abbattere le pareti della stanza chiusa dove si gioca l’asfittica partita autoreferenziale che tiene lontana dalla politica metà del Paese. Giuliano Pisapia dice di sentirsi a casa nel Pd, e Giannini scrive che egli abbraccia la Boschi perché sa di appartenere alla stessa famiglia politica della sottosegretaria. Io, invece, credo che sia un errore: non perché il Pd o la Boschi siano il male, ma perché credo che chi vuole costruire la sinistra nuova debba stare da un’altra parte.
La casa dei sommersi non può essere la stessa casa di chi ha contribuito a sommergerli. Il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione di un Paese terribilmente diseguale e ingiusto: se vogliamo parlare alle vittime di questa diseguaglianza, di questa ingiustizia, dobbiamo cercare un’altra casa. E un’altra famiglia: perché difficilmente i milioni di giovani che hanno votato No, e che ora probabilmente si asterranno, si sentono della stessa famiglia della Boschi. Essi, insieme ad altri milioni di elettori, quando vedono la Boschi, pensano invece a un intreccio, appunto familistico, tra potere e banche: lontano mille miglia da ogni idea di giustizia o inclusione.
Insomma, accanto al realismo un po’ cinico che spinge alle alleanze dentro l’eterno recinto, c’è anche un realismo (forse più lungimirante) che spinge a uscire dal recinto. Una via che non porta subito al governo. Ma l’unica via per costruire una sinistra capace di cambiare lo stato delle cose.
L'Italia ripudia la guerra, solo sulla Carta, ma non i lauti profitti che essa genera.
ytali, 24 luglio 2017 (p.d.)
E due. Appena pochi mesi dopo l’incontro a Riyadh della ministra della difesa italiana, Roberta Pinotti, con il suo omologo saudita, ora è stata la volta del ministro degli esteri della stessa Arabia Saudita, Adel al-Jubeir, che è stato ricevuto con tutti gli onori alla Farnesina dal suo omologo italiano, Angelino Alfano. Perché così frequenti incontri? Qual è la materia tanto interessante (e riservata: i comunicati dei due vis-à-vis si sono limitati all’annuncio e alla ovvia “cordialità”) da motivare questi insistiti rapporti? ytali un sospetto ce l’ha, e lo già manifestato più volte ancora prima della visita di Pinotti nella capitale saudita. E cioè che tanto reciproco interessamento possa avere per tema non solo i pur intensi rapporti economici (l’Italia è tra i maggiori esportatori nel paese mediorientale) ma, specificamente, gli enormi quantitativi di micidiali bombe MK82 che, con impressionante e sempre maggiore frequenza, partono dalla Sardegna, via navi-container, e sbarcano nei porti dell’Arabia.
Da qui i carichi vengono trasferiti negli aeroporti militari da dove i bombardieri della Royal Saudi Air Force partono per i raid sullo Yemen, dov’è sempre in corso una terribile guerra civile alimentata dalla coalizione a guida saudita impegnata a restaurare il governo di Hadi, deposto da una fazione avversa. Così vengono seminati morte e distruzioni che, secondo l’Alto commissariato per le Nazioni Unite per i diritti umani, i sauditi&alleati “hanno causato il doppio delle vittime civili rispetto a tutte le altre forze messe insieme, e quasi tutte in conseguenza degli attacchi aerei” partiti da Riyadh. (In uno dei bombardamenti del settembre scorso è stata anche colpita “per errore” una fabbrica italiana: “Utilizzano bomba italiane per bombardare italiani”, com’è stato detto nel successivo ottobre quando per l’unica volta la ministra Pinotti ha risposto alla Camera a un nugolo di interrogazioni sul vergognoso traffico di queste armi micidiali).
Si è detto che sono bombe italiane. Già, perché – lo ripetiamo per l’ennesima volta – le MK82 recano alcuni codici chiarissimi tra cui quelli delle due aziende italiane che le hanno prodotte: la Ims spa di Vicenza (che fabbrica gli involucri) e la Rwm-Italia spa di Domusnovas, in Sardegna, che fornisce gli esplosivi e gli inneschi per rendere “attivi” gli ordigni. E questa Rwm-Italia altra non è che una “figlia” (pur formalmente italiana) del gruppo tedesco Rwm. Ma il governo tedesco si guarda bene da intestarsi la fabbricazione delle bombe, e rispetta almeno formalmente i dettati dell’Onu e della Ue: tant’è che delega il lavoro sporco ma assai redditizio all’Italia, e così non compromette il proprio nome in un’operazione che viola le solenni raccomandazioni internazionali di non fornire armamenti di alcun genere alle parti in conflitto nello Yemen.
E Pinotti aveva confermato tutto questo. Primo: “La Rwm ha esportato [bombe] in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente”. Secondo: “Le richieste [di esportazione] delle imprese italiane sono gestite dall’Unità per le autorizzazioni di materiale di armamento, Uama”, organo interministeriale Difesa-Esteri. Alt, per un momento. L’Uama è gestita in accordo tra Difesa ed Esteri? Ecco un punto-chiave, ecco come e perché viene avvalorato il sospetto (non solo di ytali ma, sin dall’inizio di questa storiaccia, da Famiglia Cristiana che per prima aveva pubblicato nell’autunno scorso la foto inequivocabile di uno di questi ordigni) sul motivo, almeno parallelo ad altri, dell’incontro dei governanti sauditi prima con la ministra della difesa e poi con il ministro degli esteri. Quale coincidenza, proprio i responsabili dei due dicasteri impegnati nell’Uama… Né solo questa, di coincidenza. La più grave è che proprio alla vigilia del cordiale incontro alla Farnesina, era avvenuta un’altra, ennesima spedizione delle solite MK82 – la settima o l’ottava spedizione? Se ne è perso il conto, anche perché non di tutte queste spedizioni si ha notizia dai portuali, dalle soffiate “anonime”, dalle indagini di un parlamentare sardo – dalla Sardegna verso Riyadh.
Questa volta tre tir anonimi, senza cioè intestazione della ditta di trasporto, e con l’insolita scorta di gipponi dei carabinieri e dei vigili del fuoco (quindi non bombe “inerti” come quella volta alla Camera volle sostenere la ministra Pinotti, ma bombe di cui era ammessa la pericolosità dallo stesso tipo di scorta), sono partiti da Domusnovas, all’estremo sud dell’isola, hanno percorso ben 270 chilometri lungo la statale 131 e la diramazione centrale nuorese sino a raggiungere, all’estremo nord della Sardegna, il porto industriale di Olbia per scaricare su di un cargo civile, italiano (della Moby), centinaia e centinaia di ordigni. Il cargo ha quindi attraversato il braccio tirrenico sino a Piombino dove le bombe sono state trasferite su altro mercantile, battente bandiera non italiana, che si è diretto a Riyadh.
Attenzione, per cercare di tacitare l’operazione, e a differenza di quanto era sin qui accaduto, il trasbordo del micidiale carico non è stato effettuato nel porto-canale di Cagliari (cioè vicino al Sulcis, sede della Rwm-Italia, e quindi sotto gli occhi e gli obiettivi fotografici di molti testimoni) ma all’altro capo dell’isola: quasi un agire da clandestini, in un angolo del porto più marginale della Sardegna, e questo per realizzare l’ennesima vendita di bombe ad uno stato in guerra guerreggiata con una fazione dello Yemen. Questa volta l’on. Mauro Pili, gruppo misto, ex presidente della regione Sardegna, ha segnalato alla Procura di Tempio tutta la dinamica dell’operazione, sottolineandone non solo tutta la sospetta irritualità ma soprattutto la sin troppo manifesta copertura di forze dello Stato: carabinieri, e quindi con l’ovvia autorizzazione della Difesa; e vigili del fuoco, corpo che dipende degli Interni che non possono non essere stati allertati e consenzienti.
E dire che il Parlamento europeo ha approvato qualche mese fa a larga maggioranza un emendamento (di socialisti, sinistra, verdi e liberali) ad una risoluzione che sottolinea la necessità e l’urgenza di porre fine alla guerra nello Yemen. Questo emendamento impegna l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, a lanciare una iniziativa volta a imporre a tutti i paesi comunitari un “severissimo” (l’aggettivo è testuale) embargo di armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Nessun dubbio che l’iniziativa sia stata lanciata. Ma nessun dubbio anche, sul fatto che, per quanto riguarda l’Italia, tanto la ministra della Difesa quanto il ministro degli Esteri – nella loro qualità di corresponsabili dell’Unità per le autorizzazioni di materiale di armamento – non abbiamo raccolto il “severissimo” richiamo di Mogherini.