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Internazionale,

Domenica 5 novembre in Sicilia si vota per eleggere il presidente della regione e i deputati dell’assemblea regionale. Gli schieramenti principali che si contendono la guida di palazzo dei Normanni sono tre. Nello Musumeci, 62 anni, ex Msi e poi An, guida una coalizione di centrodestra che comprende i partiti Forza Italia, Fratelli d’Italia, Udc e Noi con Salvini. Fabrizio Micari, 54 anni, rettore dell’università di Palermo dal 2015, è il candidato del Partito democratico, sostenuto anche dal presidente della regione, Rosario Crocetta. Giancarlo Cancelleri, 42 anni, geometra, è il candidato del Movimento 5 stelle.

Alla corsa partecipano anche Claudio Fava, 60 anni, giornalista e scrittore, sostenuto da una coalizione di sinistra, composta da Mdp, Sinistra italiana, Rifondazione comunista e Verdi. E Roberto La Rosa, 61 anni, avvocato, alla guida del movimento indipendentista Siciliani liberi.

Per tutti gli osservatori, e per gli stessi partiti che partecipano alla competizione elettorale, il voto siciliano è un passaggio fondamentale in vista delle elezioni politiche previste per marzo 2018.

I cinquestelle, dopo le inchieste a Roma e le difficoltà a Torino, cercano un rilancio proprio a partire dai risultati nell’isola: “Prima la Sicilia, poi il governo”, è stato lo slogan usato da Beppe Grillo. Il centrodestra misura la sua ritrovata unità, mentre Matteo Renzi ha provato a minimizzare: “Le elezioni siciliane non sono un test nazionale”, ha detto.

Secondo gli ultimi sondaggi, la partita è tra il candidato del centrodestra e quello dei cinquestelle. L’istituto Demos ha calcolato che Musumeci otterrebbe il 35,5 per cento delle preferenze, mentre Cancelleri il 33,2, Micari il 15,7, Fava il 13,8 e La Rosa l’1,8.

Tuttavia, c’è ancora incertezza e i candidati stanno provando a sfruttare questi ultimi giorni per convincere gli elettori. I temi più dibattuti sono astensionismo, disoccupazione, povertà, emigrazione e immigrazione.

Astensionismo

Il 5 novembre sono chiamati alle urne 4,6 milioni di siciliani, ma il 26 per cento di loro non sa che ci sono le elezioni. “È un dato che, accanto alla progressiva disaffezione dei cittadini alla politica regionale, pesa in modo significativo sulla partecipazione al voto”, dice Pietro Vento, direttore dell’istituto Demopolis che ha condotto la ricerca.

Dal 2001, il presidente della regione è eletto a suffragio diretto. In questi 16 anni, l’affluenza ha registrato alti e bassi, fino a scendere per la prima volta sotto il 50 per cento nelle elezioni del 2012.

Oggi solo il 12 per cento dei siciliani avrebbe fiducia nella regione come istituzione, mentre nel 2006 era il 33 per cento. Nel 2012, il M5s aveva capitalizzato questa disaffezione, incentrando la campagna elettorale sulla distanza dal sistema dei partiti che aveva governato fino ad allora, e diventando il partito più votato dell’isola. In questi cinque anni, intanto, nel governo guidato da Rosario Crocetta si sono alternati 59 assessori, facendo del presidente il governatore meno apprezzato in Italia.

Il centrosinistra è apparso più volte diviso nel sostegno a Crocetta, così come si era diviso nel 2010, ai tempi dell’appoggio al governo guidato da Raffaele Lombardo, fondatore del Movimento per le autonomie in seguito indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in appello per voto di scambio. Il centrodestra ha invece ritrovato l’unità dopo la spaccatura nel 2012 tra Musumeci e Gianfranco Micciché, leader storico di Forza Italia in Sicilia, che in quell’occasione decise di correre da solo.

Disoccupazione

Il lavoro è stato uno dei temi più dibattuti in questa campagna elettorale, ed è in generale un problema con cui i governi dell’isola fanno i conti da sempre. Il lavoro e, ovviamente, la mancanza di occupazione. Nel 2016 cinque regioni italiane hanno fatto registrare un tasso di disoccupazione alto più del doppio rispetto alla media dell’8,6 per cento nell’Unione europea. La Sicilia è al secondo posto in Italia per numero di disoccupati.

Povertà

Una delle conseguenze della mancanza di lavoro è un tasso di povertà tra i più alti in Italia. In Sicilia, secondo l’Istat, più della metà dei residenti – il 55,4 per cento – vive in famiglie a rischio povertà o esclusione. Nell’isola, i livelli di grave deprivazione materiale sono più che doppi rispetto alla media italiana. Mentre se si prende in considerazione la variabile del reddito, con una media di 25mila euro a famiglia la Sicilia è all’ultimo posto in Italia.

Emigrazione

Come in una specie di effetto domino, tutto questo influisce enormemente su chi decide di abbandonare l’isola. Nel 2016, i siciliani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati 11.501, il 17 per cento in più rispetto all’anno prima. In totale, sono più di 700mila: ragazzi, ragazze, donne, uomini e intere famiglie che in questi anni se ne sono andati e hanno contribuito a fare della Sicilia la prima regione in Italia per numero di iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire).

Nella lista delle venticinque città italiane con più iscritti all’Aire, la provincia di Agrigento ne conta quattro, un caso unico in Italia. Aragona è il comune italiano dove l’incidenza del numero dei residenti all’estero su quello dei residenti nel paese tocca il punto più alto: 8.491 persone su 9.463, l’89 per cento.

Se si considera che le statistiche non tengono conto di tutti quei siciliani che se ne sono andati ma non hanno cambiato residenza, si capisce che i numeri messi insieme finora non sono che la punta dell’iceberg di un problema ben più grave e profondo.

Immigrazione

Accanto ai numeri di chi se ne va, ci sono quelli di chi arriva. Secondo il ministero dell’interno, da gennaio 2017 a oggi, le persone sbarcate in Italia sono più di 111mila. La maggior parte di loro è arrivata nei porti di Catania, Augusta, Pozzallo, Lampedusa, Palermo e Trapani.

Nel 18 per cento dei casi, il loro paese d’origine è la Nigeria, il 9,5 per cento arriva dalla Guinea, il 9,4 per cento dal Bangladesh, l’8,8 per cento dalla Costa d’Avorio. A dispetto dei titoli sui mezzi d’informazione che parlano di “invasione”, la situazione negli ultimi anni è questa:

Delle 181mila persone arrivate in Italia nel 2016, in Sicilia 1.370 sono state accolte nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar); 4.498 sono finite negli 88 centri di accoglienza straordinaria (ce ne sono cinque volte di più in Lombardia, più del doppio in Campania, in Toscana e in Piemonte); 206 negli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Trapani; e 4.559 nei centri di prima accoglienza.

Nello stesso anno, le persone con permesso di soggiorno nell’isola erano 113mila, il 2,9 per cento di tutte le persone con permesso di soggiorno in Italia. Molte di loro sull’isola vivono e lavorano. Gli stranieri residenti sono infatti quasi 190mila, cioè il 3,7 per cento dei residenti siciliani.

Di fronte a questi numeri, la retorica dell’invasione si sgonfia. Eppure molti leader nazionali per sostenere i candidati locali hanno preferito mantenere il focus sull’immigrazione, invece di parlare e affrontare i numeri che raccontano una regione su cui da anni grava il rischio di fallimento.

la Repubblica

Per avere un’opinione sul divieto di pubblicare le notizie «non essenziali» contenute nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria bisogna intendersi su ciò che, qui e oggi, è davvero “essenziale”. Ferma restando l’avversione ad ogni arbitraria gogna mediatica e la necessità di non assecondare voyeurismi morbosi, sembra davvero impossibile stabilire cosa sia o non sia essenziale senza rammentare che siamo il terzo paese più corrotto d’Europa (peggio di noi solo Grecia e Bulgaria), e che (sempre secondo gli ultimi dati di Transparency Italia) la società civile e i media italiani hanno un punteggio di 42 su 100 nella stima della loro efficacia come mezzi di superamento della cultura della corruzione.

In altre parole, se vogliamo cambiare abbiamo un enorme bisogno di un discorso pubblico capace di rappresentare la corruzione per quello che è: senza sconti, senza belletti, senza censure. Abbiamo bisogno di raccontarci per come siamo: con crudo realismo. E per far questo poche cose sono efficaci come le conversazioni private di chi dice la verità perché è convinto che nessuno lo ascolti. Ebbene, le intercettazioni telefoniche che arrivano ai giornali e alle televisioni rappresentano i casi rarissimi in cui il libero, franco, cinico discorso privato irrompe nel contesto controllato, edulcorato e in ultima analisi falso, del discorso pubblico. E il risultato è spesso uno choc estremo: un salutare schiaffo collettivo.
Prendiamo il caso dell’università italiana. L’università dovrebbe essere il tempio del pensiero critico, innanzitutto del pensiero critico su se stessa. Invece, da molti anni, le nostre università stanno reprimendo il loro dissenso interno, trasformandosi in scuole di conformismo. Citiamo - tra i tanti possibili - il codice etico della più antica università d’Italia (e del mondo occidentale), l’alma
mater studiorum di Bologna. Il suo articolo 19, sulla «autonomia e libertà di critica», recita così: «L’Università promuove un contesto favorevole alle occasioni di confronto e riconosce le libertà di pensiero, di opinione ed espressione, anche in forma critica, al fine di garantire la piena esplicazione della persona, fatti salvi i limiti previsti dall’articolo 15 del presente Codice». Ma a cosa mai si riferirà questo articolo 15 che limita la libertà di critica, e cioè la stessa ragione di essere di un’università? Ecco a che cosa: alla «tutela del nome e dell’immagine dell’Università». In molti altri casi, i codici etici universitari esplicitano il fatto che anche per ricercatori e professori vale il Codice di comportamento dei pubblici dipendenti, il quale stabilisce (art. 13, comma 2) che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione ». Il risultato è stato ampiamente raggiunto, purtroppo, perché il dissenso interno del mondo universitario (liquidato come un’offesa) è ormai rarefatto, sconfitto, irrilevante. E così non è cresciuto un pensiero critico radicale sulla deriva morale di troppa parte del sistema accademico.
E finisce che a dire la verità sia uno dei professori coinvolti nella pazzesca vicenda dei concorsi truccati di diritto tributario, il quale viene registrato mentre scandisce: «La logica universitaria è questa… è un mondo di merda… è un mondo di merda… quindi purtroppo è un do ut des». E ancora: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi...». E un collega: «Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti …Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando». È eloquente che l’avvocato di uno degli indagati non abbia trovato niente di meglio da dichiarare se non che l’«integrità » del suo assistito sarebbe «testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». L’unanimità omertosa viene invocata per esorcizzare i fatti emersi dal velo squarciato. Ora, chi ama l’università italiana e ne conosce la gran quantità di professori onesti e del tutto dediti alla conoscenza e agli studenti non può che gioire di questa rottura drammatica della famosa «immagine dell’università». Perché è evidente che la vera tutela dell’università, un suo riscatto, non può che passare attraverso un trauma come questo: nessuna analisi, nessuna statistica, nessuna denuncia potrebbe mai avere la forza icastica delle parole che abbiamo letto in quelle intercettazioni.
In questo, come in moltissimi altri casi, la necessaria rivoluzione culturale, quella che sola può cambiare i connotati di questo Paese, non può che essere innescata dalla capacità di dirci le cose come stanno, fino in fondo. È in questa battaglia che conoscere, leggere, meditare i passi di molte intercettazioni telefoniche diventa terribilmente, tristemente“essenziale”.

Il 27 ottobre sono state consegnate alla Camera dei Deputati le firme della campagna “Ero Straniero. L’umanità che fa bene”, a sostegno della legge di iniziativa popolare di modifica della Bossi Fini: quasi 90.000 firme, di cui più di 20.000 raccolte nei Comuni della Città Metropolitana di Milano. Il progetto di legge dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, prevede: il permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari; la reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta); la regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”; nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali; misure per l’inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo; l’uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale; garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri; l’effettiva partecipazione alla vita democratica; l’abolizione del reato di clandestinità.

il manifesto, 3 novembre 2017 «Cercare voti nel 50% che non va più a votare o spostare consensi in chi si recherà al seggio? È la scelta che dovrà fare chi lavora per una lista unica della sinistra», con postilla

Le elezioni di primavera si avvicinano. Ciononostante il dibattito sulla praticabilità e le condizioni di una lista unica a sinistra, alternativa al Pd, non decolla. O, più esattamente, tutti ne parlano ma prevalgono i tatticismi e i non detti, i silenzi sui contenuti programmatici e sul metodo per arrivarci, i ballons d’essai per un “federatore” o un leader. Se si continua così la lista unica non si farà o sarà una aggregazione di vertice assai simile a quelle ripetutamente sconfitte nel decennio scorso. Conviene dunque, come si dice, mettere i piedi nel piatto.

Nelle decine e decine di dibattiti a cui ho partecipato dopo l’assemblea del Brancaccio del 18 giugno ho incontrato migliaia di persone, prevalentemente con i capelli bianchi ma anche giovani, provenienti da forze politiche ma ancor più “cani sciolti” delusi dalla politica e dai suoi interpreti.

La richiesta è stata unanime: ci vuole una lista unica (perché separati non si va da nessuna parte e si perde tutti) e in assoluta discontinuità con il passato (perché di personalismi, di accordi di vertice, di contenuti ambigui, di riproposizione degli stessi metodi e delle stesse facce non se ne può più). E poi: se non si farà una lista rispondente a entrambi quei requisiti non andremo a votare (come nelle elezioni scorse o per la prima volta).

So bene che quel che ho toccato con mano non è un campione statistico ma credo si tratti di un sentire assai diffuso, non solo nello zoccolo duro della sinistra.

Ci sono, del resto, dati univoci che lo confermano. In un quadro generale di fuga dal voto, chi se ne allontana di più è il popolo della sinistra (o quello che un tempo era il popolo della sinistra). Nelle ultime elezioni regionali (novembre 2014-maggio 2015) la più bassa affluenza alle urne si è verificata nella rossa Emilia Romagna, dove ha votato il 37,71 per cento dei cittadini (poco più di uno su tre), e in quelle amministrative della primavera scorsa la fuga dal voto ha riguardato soprattutto roccaforti storiche della sinistra (che, non per caso, hanno smesso di essere tali).

Basta guardare Genova e La Spezia, dove, al secondo turno, ha votato rispettivamente il 42,6 per cento (al primo 48,3) e il 46,5 per cento (55,3) degli aventi diritto.

Una parte consistente degli elettori della sinistra e di quelli a cui tradizionalmente la sinistra si è rivolta (cioè chi sta peggio) non vota più o guarda altrove: al Movimento 5Stelle e alla Lega, beneficiari di un voto di rancore sociale e di vendetta nei confronti di una classe politica ritenuta, nel suo insieme, responsabile della crisi e della disuguaglianza senza freni.

Questo trend ha avuto una inversione solo nel referendum costituzionale del 4 dicembre in cui il voto ha raggiunto la percentuale del 65,47 per cento, assolutamente inedita per quel tipo di consultazione: in cifra assoluta 33.244.258 votanti, 4.250.000 in più di chi ha votato nelle tanto celebrate elezioni europee del 2014.

Ovviamente non tutto quel surplus di elettori e della connessa valanga dei No ha sposato un progetto politico di sinistra. Ma una parte consistente lo ha fatto, manifestando con quel voto la propria contestazione nei confronti di un establishment (Governo, poteri economici e finanziari, grandi giornali) vissuto come estraneo e ostile. E si è trattato di uomini e donne, soprattutto giovani, che hanno trovato – lo si è toccato con mano nella campagna referendaria – entusiasmo e motivazioni che sembravano definitivamente perdute. La loro irruzione sulla scena pubblica è il fatto nuovo che può sconvolgere gli equilibri e aprire le porte al cambiamento.

Oggi la scelta per la sinistra è, dunque, chiara: rivolgersi a quel popolo per costruire insieme un’alternativa o muoversi nello spazio stretto del 50 per cento che ancora vota cercando di spostare qualche punto percentuale (magari approfittando del cupio dissolvi di altri, come sta accadendo per il centrosinistra in Sicilia).

Per una sinistra minimamente consapevole l’opzione non può che essere la prima. Ma non basta dirlo. Occorre praticarlo con scelte esplicite di rottura e di discontinuità Anzitutto con un programma essenziale e comprensibile a tutti fondato sul protagonismo del pubblico negli investimenti e nella creazione di posti di lavoro, su una effettiva progressività fiscale, sulla messa in sicurezza del territorio, sull’abbandono delle grandi opere e l’abbattimento delle spese militari, sul ripristino delle tutele fondamentali del lavoro, sul rilancio della scuola pubblica e del welfare, sulla centralità della questione morale, su politiche di accoglienza serie e responsabili.

Con una profonda novità di metodo comprensiva di un passo indietro dei partiti (reale e non gattopardesco), della definizione partecipata e dal basso delle candidature, di una leadership collegiale e rispettosa della parità di genere, di un impegno per la riduzione delle spese della politica. Su queste basi si può e si deve costruire una lista unica.

Subito – ché il tempo è ormai poco – e senza perdersi in discussioni sulle alleanze e nella ricerca di leader più o meno improbabili. Altrimenti quel che si profila sono soltanto divisioni o ammucchiate inconcludenti e impresentabili. Se così fosse è facile prevedere che saranno (saremo) in molti a tirarsi fuori dall’ennesimo suicidio annunciato.


Pepino ha ragione, ma non la dice tutta. Non basta riferirsi ai valori, alle formule, ai protagonisti della sinistra dei secoli scorsi- e agli sfruttati da loro difesi. Ciò che occorre per raccogliere il disagio e la rabbia degli sfruttati di oggi è molto diverso da quello del passato, e ben diverse sono le sfide che deve raccogliere una forza politica che voglia svolgere nel passato la Sinistra. Ci siamo ampiamente interrogati sulla questione nell'articolo La parola Sinistra, cui rinviamo (e.s.)

il manifesto,

«Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta»

Assistiamo al progressivo svuotamento dell’Unione europea intesa come organismo politico di governo, sia di ciò che succede nei territori di sua competenza, sia dei rapporti con gli altri paesi con cui è in relazione. È la sua riduzione a pura entità contabile addetta a tradurre in prescrizioni le decisioni dell’alta finanza, senza alcuna capacità o volontà di condizionarne o prevenirne le scelte letali.

A vigilare sulla obbedienza dell’Unione e degli Stati membri c’è la Bce che controlla la borsa: non il denaro che la grande finanza mette in circolazione e poi usa secondo convenienze alle quali anche la Bce si deve adeguare, come mostra il rimpolpamento delle casse delle banche svuotate dai loro amministratori; bensì il denaro che circola tra i cittadini e tra le imprese per mandare avanti le proprie attività, e che senza denaro vengono meno; ma che ormai sopravvivono sotto la minaccia di venir paralizzate, come in Grecia due anni fa.

L’UE, gli uomini e le donne che ne occupano le istituzioni, non hanno idea di come affrontare i problemi all’ordine del giorno: quello dei profughi, sia in Europa, dove continueranno ad arrivare, che nei paesi da dove fuggono. Eppure è la questione su cui l’Unione si sta sfaldando, ricostituendo i confini tra uno Stato membro e l’altro e spingendo i rispettivi governi in direzioni opposte. E sui profughi si è creata in tutti i paesi del continente anche una faglia tra accogliere e respingere che sta facendo saltare tutti i precedenti assetti politici.

Poi ci sono le guerre che l’Unione ha lasciato crescere lungo tutti i suoi confini; a volte accodandosi agli Stati uniti, a volte gestendole direttamente, a volte lasciando incancrenire la situazione, senza prendere iniziative comuni e autonome per riportarvi la pace. Con il passare del tempo, quei confini si sono allargati fino a comprendere tutti i paesi da cui provengono i profughi che ora l’Europa e il governo italiano cercano in tutti i modi di respingere.

In terzo luogo, la lotta per il clima riguarda sia gli impegni che l’Unione non sta rispettando, sia la necessità di rendere di nuovo abitabili territori da cui le popolazioni fuggono in massa, alimentando anche, ma certo non solo, il flusso dei profughi che cercano di raggiungere l’Europa.

Poi c’é la virata nazionalista e razzista in atto che sta trascinando tutto il continente in una corsa scomposta a chi promette di respingere di più e meglio i profughi. Infine il grand guignol della secessione catalana mette in evidenza quanto cittadini e cittadine europee siano insofferenti delle regole che Unione e Stati membri si sono date. Ma anche su di essa l’Unione è più muta e immobile di una mummia; e viaggia veloce verso la sua dissoluzione.

Ci vorrà un po’ perché una burocrazia abituata a gestire come feudi le istituzioni dell’Unione e una classe politica pavida e priva di visione riconoscano di occupare niente altro che un guscio vuoto, governato non da loro, ma dal cosiddetto pilota automatico inserito da Draghi a nome e per conto dell’alta finanza. Ma prima o dopo dovranno accorgersene e suscita ilarità l’idea che a restituire carne e sangue all’Unione possa essere Macron, passione di Habermas e Scalfari, ma soprattutto marionetta e beniamino dei beneficiari dello svuotamento delle istituzioni politiche europee.

Nessuno dei problemi all’ordine del giorno può essere affrontato senza misurarsi con tutti gli altri. E se il bandolo della matassa è una ineludibile quanto improbabile svolta di 360 gradi nei confronti dei profughi – perché da questo dipende l’agibilità politica necessaria ad affrontare tutto il resto – occorre prendere atto che alla base di tutto c’è la politica di austerità a cui governi nazionali e istituzioni europee continuano a essere attaccati come un’ostrica al suo guscio. È questa la vera barriera che gli Stati dell’Unione hanno eretto, a partire dal 2008, contro l’arrivo di un numero di profughi mai superiore a quello dei migranti che arrivavano ogni anno nei decenni precedenti e con i quali l’Europa aveva realizzato la ricostruzione postbellica, il «miracolo economico» e la sua trasformazione in un’economia globale: ruolo che da dieci anni sta invece perdendo.

Oggi, chiuse in una visione meschina, miope, cinica e alla fine razzista, le classi dirigenti europee hanno imboccato un vicolo cieco che decreta la morte o l’imbalsamazione dell’Unione, ma segna anche il loro irriducibile tramonto.

All’orizzonte si affaccia ormai l’ombra nera di un passato che ritorna senza nemmeno essersi cambiato gran che d’abito.

A fermarla non possono essere personaggi che hanno ridotto il progetto di Ventotene a un morto che cammina, ma solo la costruzione di un movimento di massa che, partendo dall’unificazione delle tante forze disperse oggi impegnate in iniziative di accoglienza e di inclusione dei profughi, sappia farne la leva per affrontare anche gli altri problemi: con un programma di conversione ecologica per creare milioni di posti di lavoro con cui offrire a profughi e migranti le stesse opportunità di inclusione che spettano ai milioni di disoccupati e di precari che le politiche di austerità hanno disseminato negli ultimi dieci anni.

Con una riorganizzazione delle comunità straniere – profughi e migranti sia di recente che di antica immigrazione – che ne faccia i protagonisti di un programma di pacificazione dei loro paesi di origine.

Quello che le cancellerie europee hanno dimostrato di non sapere né voler perseguire; ma anche con tanti progetti di risanamento ambientale e sociale di quei territori che riapra la prospettiva di un ritorno volontario di tutti quelli che lo desiderano: innescando così un movimento circolare fondato su una vera cooperazione, non affidata alle multinazionali né ai governi corrotti e feroci tenuti in piedi dalle cancellerie europee, ma a organizzazioni di profughi, di migranti, delle loro comunità di origine. E da una grande leva di giovani europei desiderosi di sperimentarsi in un programma di riconversione ecologica che abbracci sia i propri paesi che quelli in cui mettere alla prova il proprio impegno solidale.

Infine, con una rifondazione dell’Europa, non come federazione di Stati né di Regioni che ne scimmiottino le politiche fallimentari, bensì di municipalità. Comuni piccoli riuniti e di decentramenti di Comuni grandi legati tra di loro attraverso processi negoziali e uniche entità in cui la democrazia rappresentativa, ormai alle corde, possa essere positivamente affiancata da una democrazia partecipata di prossimità. Per riterritorializzare mercati, produzioni agricole e attività industriali, relegando progressivamente euro e mercato mondiale a ruoli sussidiari; e per riportare così democrazia e politica al loro significato originario: quello di autogoverno.

il manifesto


«Liste&alleanze. L'avvocata dell'area civica del Brancaccio: Grasso stimabile ma il metodo no, prima scriviamo il programma e poi chi lo sa incarnare davvero. Bersani e D’Alema come capi no, serve più coraggio. Ma per le candidature anche Rifondazione ricordi che le assemblee saranno democratiche e sovrane»

Il 18 novembre terranno un’assemblea nazionale «di restituzione del programma, con tavoli tematici in cui confluiranno le proposte arrivate dai territori e sulla piattaforma online. Lavoro, diseguaglianza, economia, Europa» così la spiega Anna Falcone, avvocata e capofila dell’«alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza», a sinistra chiamata sbrigativamente ’quelli del Brancaccio’, dal teatro romano dove si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno. Il numero degli iscritti al movimento ancora non c’è, spiega, «abbiamo attivato le adesioni online, per pronunciarsi sulle nostre proposte bisognerà fare un’iscrizione certificata. Ma ancora non abbiamo tirato le somme». Dopo l’assemblea quest’area confluirà – se ce ne sono le condizioni – con altre forze della sinistra in un’altra assemblea, a dicembre, per il varo di una lista unitaria. «Abbiamo chiesto che sia un’assemblea democratica, non solo confronto fra gruppi dirigenti. Bisogna dimostrare che cambiamo metodo, non solo proposta politica. Non dobbiamo rischiare di essere un’accozzaglia di sigle. Il nostro obiettivo è portare al voto almeno il 50 per cento degli elettori di sinistra che non vota più».

Avvocata, avete gelato gli entusiasmi dei vostri compagni di strada sul presidente Grasso. Non è ’il nostro programma vivente’ come lo definisce Nichi Vendola?

«Ho la massima stima di Grasso, gli riconosco un’identità di sinistra che ha speso nella sua storia precedente da servitore dello stato. Ma dopo aver perso sei mesi dietro all’indicazione della leadership di Pisapia vorrei evitare di perdere altri mesi sull’indicazione di un altro leader, Grasso o no. Non sarà un leader più o meno carismatico a riportare al voto i delusi, ma riuscire a far capire che la nostra proposta può cambiare loro la vita. Anche in parte, sul lavoro, sulle diseguaglianze fra chi vive nelle periferie del paese o in quelle sociali».

Il problema è il metodo con cui scegliere un leader, o non volete un leader?

»Intanto non vogliamo un leader indicato dai media, anche loro come la politica hanno un problema serio di scollamento dalla vita reale. Chiediamo di procedere per priorità: scriviamo un programma insieme, diamo risposte convincenti, e solo alla fine sceglieremo le migliori candidature e la migliore leadership che incarni quel programma. Invertire le priorità è segno di debolezza. Ed è debolezza cercarsi ogni volta un soggetto terzo, buono per la sua credibilità personale, a prescidere dal programma. C’è una nuova classe dirigente che emerge, una nuova generazione che dovrebbe prendersi la responsabilità di essere portavoce del progetto. Comunque a me piacerebbe una leadership diffusa».

Intanto di voi ’civici’ in prima fila siete sempre e solo in due, lei e il professore Montanari. Le vostra ’leadership diffusa’ quando arriverà?
«Dopo l’assemblea del 18 novembre. Ma guardi che la stragrande maggioranza dei nostri incontri in giro per l’Italia si svolgono senza di noi».

Un leader della lista comunque dovrete sceglierlo. Il Rosatellum prevede che sia indicato il «capo della forza politica».
«Chi incarna un programma dev’essere coerente con quello. Se scegliamo prima il leader svuotiamo di significato e di forza il programma. In una società quotata prima si sceglie la nuova mission e poi l’amministratore delegato giusto per la mission».

Ai tempi di Pisapia eravate contro un leader che aveva votato sì al referendum. Non va bene neanche chi è stato nel Pd?
«Ci mancherebbe altro. Vogliamo costruire un campo largo e non facciamo liste di proscrizione. Se parla di Grasso, ripeto, è persona stimabilissima. Ma oltre al metodo c’è un problema di coraggio. Grasso è rassicurante perché ha servito lo stato. Ma gli italiani non ci chiedono di essere rassicurati, ci chiedono di essere coraggiosi. Se la leadership fosse nelle mani dei cittadini sono sicura che farebbero una scelta più coraggiosa».

Per Rifondazione, che partecipa alle vostre assemblee, ministri e esponenti dei governi del fu centrosinistra devono restare fuori dalle liste. Tradotto: no a Bersani, D’Alema. E altri. La pensa così anche lei?
«Certo non possono essere leader. Ma per le candidature invito tutti, anche Rifondazione, a ricordare che le assemblee saranno democratiche e sovrane. Si converge su un programma, e tutto il resto arriverà in coerenza. Non credo che ci voterebbero se dicessimo: abbiamo un programma radicale, innovativo e coraggioso, alla Corbyn, alla Sanders, ma un leader della stagione dei governi precedenti. A Rifondazione ricordo anche di non iniziare dai veti che dividono. Abbiamo un obiettivo preciso: andare in parlamento per evitare che i suoi due terzi possano cambiare la Costituzione. Per questo dobbiamo far eleggere una seria rappresentanza di una nuova sinistra.».

Davvero avete frenato la convergenza con Mdp per le offerte tattiche di dialogo di Speranza a Renzi?
«C’è una parte di Mdp che continua a pensare in maniera ossessiva all’elettorato del Pd e fa passi comprensibili in quel mondo, volti a raccogliere l’elettorato in fuga dal Pd. Ma è una cosa incomprensibile all’esterno. L’elettorato in fuga dal Pd ci voterà non per i tatticismi e le stoccatine ma per un programma coraggioso, magari anche più di quello di Italia bene comune».

E ora con Mdp vi siete chiariti?
«È un problema che deve chiarire Mdp al suo interno e con la sua base. Che viene alle nostre assemblee ed ha le idee chiare. Non capisco le timidezze dei dirigenti».

La democrazia non è il popolo che deve decidere. “La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”.

(segue)

La democrazia non è il popolo che deve decidere. “la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”. Così Eugenio Scalfari su la Repubblica del 15 ottobre, aggiungendo che nessuno in Italia, purtroppo, la pensa come lui. Rassicuriamo Scalfari: se in Italia coloro che la pensano come lui non osano manifestarsi, in campo internazionale questa idea trova molti proseliti tra sociologi, economisti e politologi: viene chiamata “tecnocrazia” e non è molto diversa dall’aristocrazia, il governo dei filosofi-guardiani teorizzato da Platone, a parte il non trascurabile particolare di essere iscritta nel capitalismo finanziario. In questa linea, La rinascita delle città stato, libro dello stratega geopolitico Parag Khanna, il cui titolo originale, più esplicativo, è Technocracy in America.

Sostiene l’autore che la democrazia è un sistema politico datato, ormai del tutto inefficiente per affrontare le sfide del mondo contemporaneo. Propone, quindi, che al posto di una sgangherata democrazia subentri la “tecnocrazia”, una post democrazia che “ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare il massimo vantaggio inclusivo per la società) che meritocratica”. Segue un elenco dei vantaggi della tecnocrazia che “diventa una forma di salvezza dopo che una società si rende conto che la democrazia non garantisce il successo di un paese”. Tecnocrazia il cui verticismo dovrebbe essere temperato da un continuo feedback da parte dei cittadini, mediante referendum o altre forme di consultazione.

Ma quale è il significato di tecnocrazia? L’autore oscilla tra un’accezione minimale, un efficiente apparato amministrativo e burocratico al servizio della politica - ma questa non è tecnocrazia - e un significato pieno, come potere conferito e amministrato da tecnici. Esempio del primo significato è la Svizzera, citata come paese modello, mentre il secondo si materializza nella “città-stato” di Singapore, dove si è consolidata una vera tecnocrazia, ciò che implica un partito unico e un governo che si tramanda da padre in figlio.

Quattro sono le principali obiezioni che si possono opporre al politologo indiano. La prima è che non è chiaro il processo di selezione dei tecnocrati. Bene la meritocrazia, ma chi gestisce il tutto? La seconda è che ogni forma di potere tende ad autoperpetuarsi: obiettivo ultimo del potere è il potere stesso, a prescindere dalle buone intenzioni e dagli obiettivi iniziali - lo stanno a dimostrare, nella storia, le innumerevoli tecnocrazie militari che si sono trasformate in dittature. La terza obiezione è che la tecnocrazia di Parag Khanna, definita come “un governo efficiente al servizio dei cittadini”, trascura il fatto che nel mondo capitalistico i cittadini non sono un’entità omogenea, tanto più nella società americana in cui le differenze di censo e di opportunità sono gigantesche e tendono ad approfondirsi: al servizio dei cittadini o del popolo è uno slogan che occulta ogni differenza di classe o di luogo. Infine, il libro ignora completamene lo sfondo in cui opera qualsiasi governo - democratico o tecnocratico che sia - la globalizzazione del capitalismo finanziario che ha indebolito i poteri economici degli stati e ora ne sta assumendo altri, come quelli giudiziari nelle controversie sui grandi trattati commerciali.

Il tutto in una visione del mondo che assegna a ogni stato il compito di combattere una tenzone mondiale per attrarre nel proprio territorio più investimenti finanziari possibili a scapito dei concorrenti. Si capisce perciò che il paese scelto come modello dall’autore sia la “città stato” di Singapore (qui le dimensioni ridotte giocano un ruolo a favore) dove in pochi decenni una nazione arretrata si è trasformata nel paradigma di “tecnocrazia diretta” di maggior successo; dove il primo ministro Lee Kuan Yew, morto nel 2015 con successione filiale, ha “deciso di plasmare la pianificazione strategica sul modello Shell” (si spera senza ripeterne i disastri ambientali) e affida il surplus di bilancio a un proprio fondo sovrano. In linea, anche l’ammirazione per il capitalismo statale del regime cinese, regolato da un governo tecno-politico senza democrazia, mentre appare del tutto fuori luogo il riferimento alla Svizzera.

Libro allora da buttare? Tutt’altro, per almeno tre buoni motivi. Il primo è l’analisi dei guasti e delle degenerazioni della democrazia americana, documentata dettagliatamente e spietatamente. L’autore ne lamenta corruzione e inefficienza, noi lamentiamo che questa democrazia ha portato all’elezione presidenziale di Donald Trump e a un’accelerazione verso i più grandi disastri ecologici e sociali, oltre che verso la guerra. Il secondo motivo che ci riguarda da vicino è la strategia seguita da Singapore per vincere la battaglia nella concorrenza mondiale del capitale. Il maggiore investimento di Singapore è nel capitale umano, sia mettendo a disposizione degli studenti più bravi migliaia di ricche borse di studio per frequentare quotate università straniere, sia attirando i migliori esperti nei rami delle comunicazioni e delle tecnologie avanzate: l’istruzione è la priorità nazionale. Il terzo motivo è la profonda conoscenza di cosa significhi una governance efficiente (che non postula necessariamente una tecnocrazia) in una competizione in cui entrano in sinergia le risorse e il know how del capitalismo più avanzato con apparati amministrativi ben preparati. Una illustrazione che consente di misurare tutta l ‘arretratezza culturale della nostra classe dirigente, pervicacemente ancorata alle grandi opere infrastrutturali come motori di uno sviluppo vecchio di trenta anni.

In sintesi: democrazia in dosi minimali e consenso affidato a ricorrenti consultazioni, piani strategici proiettati nel futuro e non di corto respiro, enormi investimenti nel capitale umano. Ma tutto ciò si può fare anche in un regime democratico? La tesi dell’autore, che qui si rivolge soprattutto alla democrazia statunitense, è che la concorrenza elettorale, sempre più condizionata dai finanziatori che a loro volta condizioneranno le future scelte politiche, porti in sé i germi di un progressivo decadimento delle forme di governo: negli accordi sottobanco, nei veti strumentali, nelle spese inutili, in un mix di inefficienza e corruzione. L’alternativa, se non si vuole l’uomo forte, è una governance tecnocratica in cui la democrazia si esplichi in forme di consultazione e di costruzione di consenso on line (notiamo per inciso che questa è la scelta inconsapevole del movimento 5 stelle quando pensa a un governo di tecnici votato via internet).

Noi, in Italia, abbiamo tecnocrati che hanno dato pessima prova di sé. Per fortuna ci teniamo la nostra democrazia ammaccata, anche se tutte le recenti disposizioni legislative sono mirate a ridurre la sovranità del popolo, valga la recentissima legge elettorale. Abbiamo un parlamento inefficiente e espropriato delle proprie funzioni. Investiamo in ricerca, istruzione, università, preparazione dei giovani e dei licenziati, meno della metà degli altri paesi europei e una frazione rispetto a Singapore, fatte le debite proporzioni. Siamo governati non da una “tecnocrazia”, ma da una “castocrazia”, fatta da politici attenti solo a carriera e privilegi, da lobbisti spregiudicati quando non corruttori, da anziani banchieri e da costruttori garantiti dallo stato (a favore delle banche e qui il cerchio si chiude). Ovvio che la “castocrazia” italiana, non sappia disegnare altri orizzonti di sviluppo se non quello delle infrastrutture inutili o dannose, il cemento al posto del cervello. E poiché tutto questo ha un costo, i politici continuano a mettere sul tavolo un patrimonio che non è loro, ma di tutti: territorio, ambiente, paesaggio.

la Repubblica

Per Walter Benjamin la capitale dell’Europa era Parigi; per l’ironico e ostinato Robert Menasse dovrà essere Bruxelles. In questo modo il vincitore del Deutscher Buchpreis (premio letterario tedesco) formula un’esile speranza, temperata da una storiella divertente su una serata trascorsa con un giornalista tedesco in un fumoso caffè della capitale belga. Menasse racconta che il giornalista, dopo aver redatto un articolo per il suo giornale di Francoforte dalla lontana galassia di Bruxelles, se lo vide rimandato indietro con un’annotazione: «Non raccontare cose così complicate. Scrivi solo quanto costerà di nuovo a noi tedeschi».

Lo scarso interesse che i nostri politici, manager e giornalisti mostrano per la costruzione di un’Europa capace di iniziativa politica non potrebbe essere illustrato meglio. Da anni ormai una stampa timida e deferente corre in aiuto della classe politica tedesca, facendo di tutto per non tediare l’opinione pubblica col tema dell’Europa. La tendenza a infantilizzare il pubblico si è manifestata nel modo più evidente in campagna elettorale, con la rigorosa limitazione dei temi ammessi all’unico dibattito televisivo tra Merkel e Schulz. Del resto, già per tutto il decennio dell’ancora irrisolta crisi finanziaria, alla cancelliera e al suo ministro delle Finanze è sempre stato consentito di presentarsi, in stridente contrasto con i fatti, come veri “europei”.

Adesso compare sulla ribalta un politico come Emmanuel Macron, pieno di riguardi verso la cancelliera (ormai indebolita e incalzata dal suo stesso partito), ma capace di sollevare il velo sul compiaciuto autoinganno. Le menti “realiste” delle grandi testate tedesche sembrano temere le parole del presidente francese perché potrebbero aprire gli occhi al loro pubblico, mostrando che il re, con il suo robusto nazionalismo economico, è nudo. Nei primi capitoli di un recente libro con il sottotitolo Come la Germania mette a rischio un’amicizia, Georg Blume raccoglie una triste documentazione sul nuovo tono altezzoso della stampa e della politica tedesche nei confronti della Francia e dei francesi. I commenti su Macron oscillano tra indifferenza, arroganza e fuoco di sbarramento preventivo. E a parte un titolo dello Spiegel, anche la risonanza dell’ultimo così importante discorso del presidente francese (pronunciato il 26 settembre scorso alla Sorbona, e in cui Macron rilancia un’idea forte di Europa «sovrana, unita e democratica »,ndr) è stata scarsa o nulla.
Con questa materia, adatta per scrivere una commedia, la prossima coalizione di governo “Giamaica” (dai tre colori di Cdu, Fdp e Verdi) potrebbe imbastire una vera e propria tragedia, se, ad esempio, un ministro delle Finanze quale Christian Lindner divenisse l’esecutore testamentario di Schäuble. In un “non paper” scritto per l’Eurogruppo, il dimissionario ministro delle Finanze ha ideato un programma fatto apposta per bloccare ogni compromesso col presidente francese. Schäuble lega la creazione di un fondo monetario europeo alle sue idee ordoliberali volte a prevenire ogni temuta partecipazione democratica. In tal modo l’intero ordine economico-finanziario sarebbe sottratto alle decisioni politiche e rimarrebbe prerogativa di un’amministrazione tecnocratica.
Con questo sfogo potrei anche chiudere il mio discorso. Ma la situazione è troppo seria. Il prossimo governo tedesco dovrà raccogliere (sempre che qualcuno ne abbia voglia) la palla lanciatagli dal presidente francese e che sta ora dalla sua parte del campo. Basterebbe una politica del rinvio per sprecare un’occasione storica unica.
Raramente le contingenze storiche hanno creato una situazione così chiara come nel caso dell’ascesa al potere di questa personalità così fascinosa, forse irritante, ma in ogni caso fuori dal comune. Nessuno si sarebbe potuto aspettare che un ministro del governo Hollande, senza appartenenza di partito, potesse creare da solo, in modo apparentemente egocentrico, un movimento politico capace di capovolgere l’intero sistema dei partiti. Sembrava un’impresa contraria a ogni buon senso demoscopico.
Eppure una persona sola, senza seguito, è riuscita ad ottenere la maggioranza dei voti nel breve spazio di una campagna elettorale di coraggioso confronto, incentrata sull’approfondimento della collaborazione europea e opposta al crescente populismo di destra sostenuto da un francese su tre. Era davvero improbabile che un uomo come Macron potesse diventare presidente di un paese come la Francia, con una popolazione da sempre più euroscettica di quella lussemburghese, belga, tedesca, italiana, spagnola o portoghese.
Osservando le cose obiettivamente, però, è altrettanto improbabile che il prossimo governo tedesco abbia la lungimiranza di trovare una risposta costruttiva alla domanda posta da Macron. Per me sarebbe un sollievo se riuscisse almeno a riconoscere la rilevanza della questione. È già abbastanza difficile che un governo di coalizione segnato da tensioni interne abbia la volontà di rivedere le due scelte strategiche imposte da Angela Merkel all’inizio della crisi finanziaria: l’approccio intergovernativo, che assicura alla Germania un ruolo guida nel Consiglio europeo, e la politica dell’austerità, che la Germania ha potuto imporre ai Paesi del Sud dell’Unione, grazie a questa supremazia, assicurandosi vantaggi sproporzionati.
Ed è ancora più improbabile che questa cancelliera non adduca la scusa dell’indebolimento della sua posizione politica interna per spiegare al fascinoso contraente che purtroppo non può far propria la sua compiuta prospettiva di riforma. Del resto, le prospettive le sono state sempre estranee. Per altro verso – ed è questa la questione su cui mi interrogo – può questa personalità politica (che non ho mai conosciuto personalmente), figlia di un pastore protestante, così accorta e coscienziosa, finora favorita dal successo ma anche riflessiva, può essa avere un interesse a finire i sedici anni di cancellierato in questo ruolo inglorioso? Vuole davvero lasciare la scena politica dopo quattro anni di esitazioni ed erosione del potere? O saprà mostrare una vera statura e saltare oltre la propria ombra, a dispetto di tutti coloro che già speculano sul suo declino?
Anche lei sa che l’unione monetaria europea è d’interesse vitale per la Germania e che, sul lungo periodo, essa non può essere stabilizzata finché si approfondiscono le forti differenze tra le divergenti economie del Nord e del Sud dell’Europa in termini di reddito, tasso di disoccupazione e debito pubblico. In Germania, lo spettro dell’“unione di trasferimento” offusca lo sguardo su questa dinamica distruttiva. È possibile porvi rimedio solo se si crea una concorrenza davvero equa oltre le frontiere nazionali, e se si persegue una politica di contrasto alla crescente desolidarizzazione sia tra le popolazioni nazionali sia all’interno delle varie nazioni. Basti pensare alla disoccupazione giovanile. Macron non si limita a concepire una visione. Egli richiede concretamente che l’Eurozona vada avanti nell’armonizzare le imposte sulle imprese, in un’efficace tassazione delle transazioni finanziarie, nella graduale convergenza dei differenti regimi di politica sociale, nella costituzione di un pubblico ministero europeo per le regole del commercio internazionale, eccetera.
D’altra parte, non sono queste singole proposte, già note da tempo, a distinguere da tutto ciò a cui siamo abituati il comportamento, le iniziative e i discorsi di questo politico. Ciò che colpisce sono tre tratti caratteristici: - il coraggio nella costruzione politica; - l’impegno dichiarato di voler trasformare il progetto elitario europeo in un’auto-legislazione democratica dei cittadini; - il modo convincente di porsi di una persona che ha fiducia nella forza della parola che articola il pensiero.
Con una scelta lessicale molto francese, il 26 settembre scorso, il presidente si è rivolto a un pubblico studentesco, ma anche alla classe politica tedesca, evocando ripetutamente quella “sovranità” che oggi non può più essere garantita dallo Stato nazionale, ma solo dall’Europa. In un mondo a soqquadro, solo con la protezione e la forza dell’Europa unita i suoi cittadini possono difendere i propri comuni interessi e valori. Macron fa valere la sovranità “autentica” contro quella chimerica dei “sovranisti” francesi, denuncia il gioco indegno dei governi che a casa prendono le distanze dalle leggi che essi stessi votano a Bruxelles, e non teme di invocare la rifondazione di un’Europa capace di agire sia al proprio interno che verso l’esterno.
Con “sovranità” si intende questo rafforzato potere che i cittadini europei danno a se stessi. Quali passaggi da compiere verso un’istituzionalizzazione della capacità di iniziativa politica comune, Macron indica una collaborazione più stretta nell’Eurozona a partire da un bilancio comune. La proposta cruciale e dibattuta è la seguente: «Un (tale) bilancio può andare di pari passo solamente con una guida politica forte, un ministro comune e un controllo parlamentare esigente a livello europeo. Soltanto la zona euro con una moneta internazionale forte può fornire all’Europa il quadro di una potenza economica mondiale».
Con la pretesa di intervenire politicamente sui problemi di una società mondiale che cresce sempre più interdipendente, Macron si distingue, come solo pochi altri, dal ceto dei funzionari politici cronicamente non all’altezza dei problemi, opportunisticamente omologati e ridotti alla politica del giorno per giorno. Non si crede ai propri occhi: c’è davvero ancora qualcuno che vuole modificare lo status quo? Esiste ancora chi ha il coraggio sconveniente di opporsi alla coscienza fatalista dei fellahin ciecamente subalterni alla presunta forza coercitiva degli imperativi sistemici di un ordine economico mondiale personificato da organizzazioni internazionali distaccate e altezzose? Se ho bencompreso, Macron fa valere un interesse che, sino ad oggi, nei nostri sistemi partitici, stretti tra il neoliberalismo ordinario del “centro”, l’anticapitalismo appagato dei nazionalisti di sinistra e la stantia ideologia identitaria dei populisti di desta, non è stato sufficientemente analizzato né, di conseguenza, rappresentato. Una parte dell’insuccesso dei socialdemocratici è dovuto al fatto che la loro politica, in linea di principio aperta alla globalizzazione, propulsiva sui temi europei e, al contempo, attenta ai danni e alle distruzioni sociali provocate da un capitalismo sfrenato; questa politica, che coerentemente spinge per una necessaria riregolazione trasnazionale dei mercati, nonostante gli sforzi di Sigmar Gabriel non ha acquisito un profilo riconoscibile. Lo spazio di azione per attuare una tale politica, Gabriel avrebbe potuto ottenerlo solo come ministro delle finanze di una rinnovata Große Koalition, bendisposta nei confronti di Macron.
La seconda circostanza che distingue Macron dalle altre figure è la rottura di un tacito consenso. Sinora, la classe politica ha dato per scontato che l’Europa dei cittadini fosse un costrutto troppo complesso e la finalité – lo scopo dell’Unione europea – una questione troppo complicata perché i cittadini potessero occuparsene direttamente. Le attività correnti della politica di Bruxelles sono cosa per esperti o, semmai, per lobbisti ben informati, mentre i capi di governo sono impegnati a rimandare o eludere i problemi più gravi tra gli interessi nazionali in conflitto. Ma, soprattutto, i partiti politici sono unanimi nella volontà di evitare i temi europei nelle elezioni nazionali, a meno che non si presenti l’occasione di addossare ai burocrati di Bruxelles i problemi domestici. E ora Macron vuole fare piazza pulita di questa mauvaise foi. Un tabù lo ha già infranto mettendo al centro della campagna elettorale la riforma europea, e persino vincendo, un anno dopo la Brexit, questa offensiva contro «le passioni tristi dell’Europa».
È nota la formula secondo la quale la democrazia è l’essenza del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità. Non sono in grado di giudicare l’attuazione delle riforme politiche annunciate in Francia. Si dovrà vedere se egli manterrà la promessa “social-liberale” di assicurare il difficile equilibro tra la giustizia sociale e la produttività economica. Come uomo di sinistra non sono un “macroniano” – sempre che esista qualcosa del genere. Ma il modo in cui egli parla dell’Europa fa la differenza. Macron chiede considerazione per i padri fondatori che hanno creato un’Europa senza popolazione perché allora erano esponenti di un’avanguardia illuminata.
Lui però adesso vuole fare di quel progetto elitario un progetto di cittadinanza e, contro i governi nazionali che nel Consiglio europeo si bloccano a vicenda, chiede che si compiano dei passi chiari verso l’autodeterminazione democratica dei cittadini europei. Così egli rivendica per le elezioni non solo un diritto di voto, ma anche la designazione di candidati appartenenti a liste transnazionali. Ciò favorirebbe, in effetti, la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non può divenire un luogo in cui gli interessi sociali possono essere generalizzati e valorizzati oltre i meri confini nazionali.
Se vogliamo valutare correttamente l’importanza di Emmanuel Macron è necessario considerare anche un terzo aspetto, una qualità personale: sa parlare. Non si tratta solo di un politico che riesce a guadagnarsi l’attenzione, la stima e il potere grazie alla capacità retorica e a una certa sensibilità verso la parola scritta. È piuttosto la scelta precisa delle frasi ispiratrici e la forza di articolazione del discorso a conferire allo stesso pensiero politico acume analitico e una prospettiva lungimirante. Da noi, Norbert Lammert è stato l’ultimo a richiamare alla memoria i dibattiti al Bundestag di Gustav Heinemann, Adolf Arndt e Fritz Erler agli albori della Repubblica federale. Naturalmente la qualità della professione del politico non si misura dal talento oratorio. Tuttavia, i discorsi possono cambiare la percezione della politica nella sfera pubblica, elevarne il livello e ampliare l’orizzonte del dibattito pubblico, migliorando inoltre la qualità non solo dei processi di formazione della volontà politica, ma anche dello stesso agire politico.
In un mondo dove l’assenza di forma dei talk show diventa il metro di riferimento per la complessità e lo spazio del pensiero politico pubblicamente ammesso, Macron si distingue per lo stile dei suoi interventi. A quanto pare ci manca la capacità di percepire tali qualità, e di collocare il quando e il dove di un discorso. Ad esempio, quello tenuto di recente da Macron al Municipio di Parigi in occasione delle celebrazioni per la Riforma è interessante non solo nel contenuto. Si è trattato di un abile tentativo di utilizzare lo sguardo retrospettivo sulla storia delle lotte confessionali in Francia per adattare una dottrina di Stato – il severo laicismo francese – alle istanze di una società pluralistica. Ma l’occasione e l’argomento del discorso erano anche un gesto di apertura verso la cultura protestante del Paese confinante – e verso la collega di confessione evangelica a Berlino. Naturalmente, la pretesa e lo stile con cui viene rappresentato il potere dello Stato ci sono divenuti estranei, al più tardi dallo sguardo nostalgico di Carl Schmitt sul contro-illuminismo francese del XIX secolo. Può darsi che ci manchi quel senso della gravitas di una vita nel palazzo dell’Eliseo che Macron onora nel colloquio avuto con loSpiegel. Ma la conoscenza più intima della filosofia hegeliana della storia, con cui reagisce alla domanda su Napoleone come «spirito del mondo a cavallo», è comunque di grande effetto.
Questo articolo è apparso su Der Spiegel del 21 ottobre 2017 © Jurgen Habermas Traduzione di Walter Privitera e Fiorenza Ratti

il manifesto


L’ITALIA CONDANNATA PER TORTURA
NELLE CARCERI DI BOLZANETO E ASTI
di Eleonora Martini

«La Corte europea dei diritti dell’uomo ordina risarcimenti per oltre 4 milioni di euro. È la prima sentenza che riconosce il reato commesso in una "regolare" prigione italiana»
Due condanne in un solo giorno provenienti da Strasburgo confermano ancora una volta l’uso della tortura nelle carceri italiane, reato per il quale lo Stato non ha mai chiesto scusa alle vittime e non ha mai punito i responsabili (ma non li ha neppure sospesi durante l’inchiesta e il processo, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo).

Sono 63 in totale le persone che, da recluse, hanno subito violenze fisiche e psicologiche da parte di autorità di polizia: due durante la detenzione nel carcere di Asti nel 2014, quando vennero sottoposte a maltrattamenti di vario tipo da parte di cinque agenti penitenziari, e 61 a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova. A tutti loro la Cedu ha riconosciuto ieri un indennizzo che va dai 10 mila agli 88 mila euro a testa (a seconda delle gravità delle violenze subite e della «conciliazione amichevole» eventualmente già pattuita con il governo italiano), condannando così Roma al pagamento complessivo di 4 milioni e 10 mila euro per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

«A giudizio della corte, i giudici nazionali hanno fatto un vero e proprio sforzo per stabilire i fatti e individuare i responsabili», scrive la Cedu, ma a causa della lacuna normativa di allora i torturatori sono rimasti impuniti. Il problema, sul quale i giudici di Strasburgo ovviamente non si soffermano ma che viene sottolineato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, è che il reato di tortura rischia di rimanere impunito in alcuni casi anche in futuro, perché la legge entrata in vigore il 18 luglio scorso che introduce finalmente quella fattispecie di reato nell’ordinamento italiano è volutamente contorta e difficilmente applicabile.

Anche se il ministro Orlando un paio di giorni fa si è detto convinto che la nuova legge abbia recepito le direttive della Cedu contenute nella sentenza Cestaro del 2015 e ha spiegato che comunque il testo ha bisogno di essere applicato per verificare eventuali «elementi di fragilità normativa», caso in cui, ha detto, «non escludiamo una riflessione».

Dopo la condanna del giugno scorso per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz, i giudici di Strasburgo riconoscono ad altre 61 persone, alcune delle quali arrestate proprio durante quell’irruzione, il diritto ad essere risarcite per le violenze subite «dagli ufficiali di polizia e dal personale medico» a Bolzaneto, una delle due caserme, insieme a Forte San Giuliano, adibite a centri temporanei di detenzione dei manifestanti “rastrellati”. Per due giorni, le vittime vennero «aggredite, picchiate, spruzzate con gas irritanti, subirono la distruzione degli effetti personali e altri maltrattamenti – ricorda la Corte – Mai avrebbero ricevuto adeguate cure per le ferite riportate, e la violenza sarebbe continuata anche durante le visite mediche», oltre a non aver potuto contattare familiari, avvocati e consolati.

Per questi fatti «la procura di Genova indagò 145 tra poliziotti e medici, di cui 15 vennero poi condannati a pene tra i 9 mesi e i 5 anni di reclusione». Ricorda la Corte che successivamente «dieci di loro hanno beneficiato di una grazia, tre di una completa remissione della pena detentiva e due di una remissione di 3 anni; quasi tutti i delitti sono stati prescritti».

Undici dei ricorrenti davanti alla Cedu hanno già accettato di ricevere dal governo italiano 45 mila euro per una «conciliazione amichevole» e perciò hanno diritto ad un risarcimento minore. Ma a nessuna delle tante vittime dei torturatori di Genova, sottolinea Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum del 2001, «a 16 anni dai fatti, dopo varie condanne italiane e internazionali, non è ancora arrivata alcuna parola di scusa a nome dello Stato da parte dei suoi massimi rappresentanti, primi tra tutti il presidente della Repubblica. Una vergogna nella vergogna».

Forse perfino più importante e incisiva è la seconda sentenza emessa ieri dalla Cedu, perché è la prima volta che viene riconosciuta la tortura in un “regolare” carcere italiano e l’Italia viene condannata sia per il delitto in sé «(aspetto sostanziale») che per quanto riguarda la risposta delle autorità nazionali (aspetto procedurale)».

In questo caso, il governo dovrà risarcire con 88 mila euro ciascuno, due detenuti del carcere di Asti o i loro familiari (i torinesi Andrea Cirino e Claudio Renne, quest’ultimo morto in una cella a Torino nel gennaio scorso), per le torture subite nel dicembre 2014 da cinque poliziotti penitenziari, tutti assolti dal tribunale di Asti per mancanza di reato specifico. E perché «malgrado le sanzioni disciplinari imposte», ritenute dalla Cedu, «non sufficienti», gli agenti «non sono stati sospesi durante l’inchiesta o il processo».

Due sentenze che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, considera «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia».

BOLZANETO E ASTI,
LA TORTURA È NELLE CARCERI
di Patrizio Gonnella

«Stop all’impunità. La legge non basta contro i torturatori»
Oltre 4 milioni di euro di risarcimenti e l’ennesima brutta figura internazionale. A 16 anni di distanza dal G8 di Genova, dopo le sentenze sulla Diaz, e 13 anni da quanto accaduto nella prigione di Asti, arrivano altre due condanne da Strasburgo, le ennesime, per tortura. Non una parola qualunque ma tortura. Stavolta, tuttavia, ci sono alcune sostanziali differenze rispetto al passato nella decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In primo luogo le condanne sono state due, per due fatti ben diversi tra loro. Da una parte ci sono le vicende del G8 di Genova e della caserma di Bolzaneto. Già in passato per le torture e le violenze avvenute nel luglio 2001 l’Italia era stata condannata dalla Corte di Strasburgo, sia per gli episodi della scuola Diaz che proprio per quanto avvenne a Bolzaneto. Dall’altro le brutalità commesse nelle prigioni di Asti nel 2004.

Ciò che accomuna tuttavia i due casi è che riguarda delle prigioni. Nel caso di Bolzaneto un carcere improvvisato. Nel caso di Asti una galera vera e propria (per la prima volta l’Italia viene condannata per tortura in un carcere). Prigioni dove sono avvenute violenze brutali, minacce fasciste, fino allo scalpo verificatosi nella sezione di isolamento del carcere piemontese.

La seconda novità rispetto al passato è l’entità dei risarcimenti alle vittime che superano di gran lunga quelli a cui finora la Corte di Strasburgo ci aveva abituato, arrivando in alcuni casi a riconoscere fino ad 85 mila euro ad un singolo ricorrente.

Al di là della cronaca dei fatti, tuttavia, la doppia sentenza di oggi fotografa ancora una volta il clima di impunità che si era strutturato in Italia. Per lunghi anni nel nostro paese non c’è stato modo di avere giustizia e, ancora una volta, abbiamo dovuto aspettare una decisione europea.

Ora l’Italia da qualche mese ha una legge e il termine tortura è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di dire già all’indomani dell’approvazione, il testo è molto lontano da quello della Convenzione delle Nazioni Unite che era quello che chiedevamo.

Altro elemento di queste sentenze che non può essere tralasciato è quello dell’impunità per gli autori delle violenze. Alcuni dei responsabili degli episodi oggi giudicati come tortura dalla Corte Europea sono ancora in servizio e a rispondere dei loro atti criminosi sarà solamente lo stato italiano dal punto di vista pecuniario.

Nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Antigone ha presentato un rapporto indipendente sulla situazione del Paese sul quale vedremo come risponderanno le autorità italiane dopo questa ennesima condanna. In ogni caso, quello che oggi chiediamo è: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo Stato si costituisca parte civile; che vengano assunti tutti i provvedimenti amministrativi del caso contro gli autori delle violenze; che venga istituito un fondo per il risarcimento delle vittime di tortura.

il manifesto,

La legge Rosato interrompe la serie delle leggi a impianto proporzionale con forti correttivi maggioritari dichiarate parzialmente incostituzionali dalla Consulta (l’Italicum, mai utilizzato, e il Porcellum, con il quale si è votato nel 2006, nel 2008 e nel 2013).

Si torna a un sistema misto, come quello della prima riforma elettorale della Repubblica, la legge Mattarella del 1993 (con la quale si è votato l’anno successivo e poi ancora nel 1996 e 2001). Ma adesso la proporzione tra i seggi assegnati con l’uninominale maggioritario e i seggi assegnati con il sistema proporzionale è quasi rovesciata. Nella riforma del 1993 i seggi uninominali erano il 75% e quelli del proporzionale il 25%. Con il «Rosatellum» i seggi assegnati con l’uninominale sono poco meno del 37%, proporzionali tutti gli altri. Nel dettaglio, alla camera si assegnano 232 seggi con l’uninominale – chi prende anche un solo voto in più conquista il seggio – al senato 116. Il resto dei seggi sono assegnati con il sistema proporzionale, 398 alla camera (di cui 12 all’estero) e 199 al senato (di cui 6 all’estero).

A differenza del vecchio Mattarellum e degli altri sistemi misti utilizzati nel mondo, la nuova legge elettorale italiana non prevede la possibilità di voto disgiunto. Si può esprimere un solo voto, che dalla lista proporzionale si estende automaticamente al candidato nel collegio uninominale, o che si estende – vedremo successivamente secondo quale complicato calcolo – dal candidato nel collegio a una delle liste che lo sostengono. L’elettore può esprimere due voti, ma solo se sceglie una lista collegata al candidato dell’uninominale; se il secondo segno è tracciato al di fuori dello stesso rettangolo la scheda viene invalidata.

Non era così con il Mattarellum, che prevedeva due schede per l’elezione dei deputati, una per scegliere il candidato nel collegio e un’altra per votare una qualsiasi delle liste in gara nella parte proporzionale. Non è così nel sistema tedesco che prevede due voti sulla stessa scheda; il secondo voto, per la parte proporzionale, decide il numero di seggi che vanno a ciascuna lista ed è libero: l’elettore può scegliere anche un partito che non sostiene il candidato prescelto nell’uninominale.

La nuova legge prevede le coalizioni, i candidati nel collegio uninominale possono essere sostenuti da un solo partito o da un insieme di liste. In questo secondo caso hanno naturalmente più possibilità di arrivare primi e conquistare il seggio. Le coalizioni però devono essere identiche su tutto il territorio nazionale (con il Mattarellum non era così, infatti Berlusconi nel 1994 si presentò in alleanza con la Lega al nord e con gli ex missini di Fini al sud). Le coalizioni non devono presentare un simbolo comune per accompagnare i candidati nei collegi (come fu ad esempio l’Ulivo), né un programma comune. È rimasto solo l’obbligo per le singole liste di presentare un programma e indicare il capo della forza politica.

Si tratta in tutta evidenza di coalizioni destinate a durare solo il tempo delle elezioni. È vero che essendo i parlamentari liberi di votare o meno la fiducia a un governo (divieto di mandato imperativo) la rottura non si può escludere neanche con leggi più vincolanti – e infatti la coalizione Italia bene comune tra Pd e Sel si è rotta pochi mesi dopo le ultime elezioni. Ma adesso la coalizione non deve presentare neanche un programma comune; in teoria i programmi delle liste che sostengono lo stesso candidato nel collegio potrebbe essere persino opposti (ad esempio: Lega per uscire dall’euro, Forza Italia per restarci).

È rimasta però l’indicazione del capo del partito, da una parte una previsione extra costituzionale (nel nostro sistema parlamentare è il presidente della Repubblica che sceglie a chi dare l’incarico per formare il governo), dall’altra un’indicazione inutile, visto che con questa legge e questo quadro politico le alleanze per il governo si faranno in parlamento. Rompendo le coalizioni. Sono tre le soglie previste da questa legge, due sono soglie di sbarramento al di sotto delle quali non si ha diritto all’assegnazione di seggi: il 3% per le liste singole e il 10% per le coalizioni.

Le soglie sono calcolate a livello nazionale, anche (ed è la prima volta nella storia elettorale italiana) per il senato. Alle coalizioni che raggiungono il 10% e hanno al loro interno almeno una lista che supera il 3% vengono riconosciuti anche i voti di quelle liste che non hanno superato lo sbarramento ma hanno raggiunto almeno (è la terza soglia) l’1% dei voti validi. Il sistema incoraggia la presentazione di micro liste che non possono aspirare al 3% ma possono arrivare all’1%. (esempio: Mastella rimette in piedi l’Udeur). La loro funzione è quella di regalare i voti al resto della coalizione, in particolare ai partiti maggiori.

Queste micro liste non avranno loro eletti, ma è prevedibile che vengano altrimenti ricompensate dagli alleati maggiori. La soglia di sbarramento nazionale per il senato è in apparente contraddizione con l’articolo 57 della Costituzione secondo il quale «il senato della Repubblica è eletto a base regionale».

Il caso dei voti delle micro liste trasferiti agli alleati maggiori non è l’unico in cui la legge Rosato prevede una sorta di interpretazione della volontà dell’elettore. Accade anche per le schede in cui l’elettore traccia un segno solo sul candidato di una coalizione all’uninominale.

In assenza di indicazione della lista, quel voto per la parte proporzionale viene diviso tra tutte le liste della coalizione in proporzione alla quantità di voti diretti che quelle liste hanno raccolto. Oltre a introdurre il voto decimale e a rendere complicato lo spoglio delle schede, questo sistema forza la volontà dell’elettore (che, ricordiamolo, senza voto disgiunto non è libero di scegliere una lista fuori dalla coalizione) e regala un consenso superiore a quello reale ai partiti maggiori. Lo stesso accade con i voti delle micro liste.

Questo non è senza conseguenze, perché può accadere che in un collegio proporzionale un partito risulti troppo votato.

I seggi nella parte proporzionale si assegnano sulla base di liste bloccate di quattro candidati. Dopo la sentenza della Corte costituzionale contro il Porcellum, si è diffusa la convinzione che le liste bloccate non sono incostituzionali purché siano corte e i candidati riconoscibili dall’elettore. Quattro nomi si prestano sicuramente a essere riconosciuti anche perché possono essere (e lo saranno) stampati sulla scheda.

È però previsto – è stato aggiunto al testo base in commissione alla camera – che i candidati nel collegio uninominale possano essere candidati anche altre cinque volte nei collegi plurinominali. Sono i «pluricandidati». Proprio questa ultima previsione, di garanzia per i candidati «blindati», contribuirà al fenomeno delle liste «incapienti». I listini, cioè, che sono rimasti corti anche se in ogni collegio plurinominale si assegneranno fino al doppio dei seggi (otto rispetto a quattro candidati per partito), potrebbero non bastare in caso di candidati eletti anche in altri collegi e in caso di liste gonfiate dai voti regalati dai micro partiti.

E se il listino non basta, è previsto un complicato meccanismo di recupero del seggio che passa dal salvataggio del candidato sconfitto nell’uninominale (alla faccia del principio maggioritario) alla promozione dei primi esclusi in altri collegi della stessa circoscrizione o di un’altra circoscrizione, fino addirittura allo spostamento dei voti su altre liste alleate.

E così i listini corti finiscono per ottenere l’effetto opposto alla riconoscibilità degli eletti, nascondendo all’elettore i reali destinatari del loro voto. Non solo è esclusa la possibilità di votare in maniera disgiunta, ma non è previsto nemmeno lo scorporo dei voti che c’era invece nel Mattarellum per il senato.

Lo scorporo è quel sistema che, sottraendo dal totale dei voti della lista i voti del candidato collegato vincitore nel collegio, impedisce al voto di chi ha scelto il candidato vincente nel collegio di pesare due volte, anche cioè per la quota proporzionale. Nel caso in cui l’elettore tracci il segno solo sul candidato all’uninominale di una coalizione, il voto proporzionale si distribuisce a pioggia su tutte le liste che lo sostengono sulla base di un meccanismo simile all’8 per mille nella dichiarazione dei redditi. Il voto cioè viene diviso in parti decimali e assegnato alle liste proporzionalmente ai consensi diretti che queste hanno ricevuto.

Forza Italia e Pd, che immaginano di concentrare la campagna elettorale sui candidati nei collegi, non hanno voluto lo scorporo per danneggiare le liste che hanno candidati con meno chance di vincere nelle sfide maggioritarie. Tutta la legge è impostata perché possa funzionare la campagna per il voto utile. Utile cioè a vincere anche con uno scarto minimo nel collegio. Questi voti «carpiti» dal candidato si trasferiscono poi o direttamente (con un secondo segno) o indirettamente (con il meccanismo «8 per mille») sulle liste.

Mentre non è chiaro se potrà essere considerata valida la scheda in cui risulti tracciato un solo segno grande, a comprendere tutto il rettangolo della coalizione: candidato nel collegio e tutte le liste.

Saranno molti i casi di schede contestate e sarà complicato e lento il conteggio. Ma soprattutto non è detto che i piani di chi punta sul voto utile vadano a segno. Perché nella scheda facsimile si può vedere come il nome del candidato nel collegio risulti assai piccolo – non è previsto per lui un simbolo di coalizione. Dunque i simboli delle liste saranno visivamente prevalenti, soprattutto nel caso delle liste che correranno da sole, fuori dalle coalizioni e senza alleati. Come il Movimento 5 Stelle.

Roverè Veronese è un comune montano di poco più di duemila abitanti, con un'economia agricola, turistica, e legata alla trasformazione del latte. È anche uno dei paesi che rivendicano la nascita di Bertoldo, paradigmatico contadino furbo. Ma soprattutto, Roverè è il luogo dove all'ultimo referendum sulla cosiddetta «autonomia», fortemente voluto dalla Lega Nord trascinandosi appresso quasi tutti gli altri, si è stabilito il record assoluto di votanti, col 76% degli aventi diritto che si è recato ai seggi, conquistandosi il titolo di capitale morale della «Repubblica Autonoma dello Zaiastan». Un territorio forse immaginifico e immaginario, questo dello Zaiastan, ma che come osservano molti analisti dei flussi elettorali si può anche fisicamente articolare su una mappa geografica seguendo determinati contorni e schivandone accuratamente altri. Il percorso logico dei vari approcci delle discipline sociali e politiche classiche al territorio ha però una caratteristica (forse una virtù, da quello specifico punto di vista) nel suo disegnare mappe, ed è una sostanziale a-spazialità. Vale a dire una tendenza prevalente a proiettare su un territorio tabula rasa qualche informazione semplice, che siano opinioni o fatti socioeconomici, e a volte poi provare a confrontarli e sovrapporli ad altri. Il che va benissimo ma spesso prescinde per sua natura dalla complessità spaziale che definisce luoghi e identità.

E se non altro rallenta, in questo lento e sostanzialmente casuale accumularsi di approssimazioni successive che vogliono essere analitiche e quantificabili, l'acquisizione del dato di sintesi, noto là dove questi processi o sono più sedimentati, o semplicemente hanno avuto un approccio meno disarticolato: non esistono in realtà degli specifici Zaiastan o territori dominati da qualche divinità politica con poteri spirituali e temporali magici, ma molto semplicemente dei territori fisici e socioeconomici che regolarmente orientano i propri consensi verso una certa offerta politica. Detto ancor più terra terra e in linguaggio volutamente brutale: l'idiotismo della vita rustica vota conservatore, l'aria della città rende liberi di votare progressista. E tutto questo, precisiamo, spesso indipendentemente da chi propone quelle istanze, vale a dire dal colore della bandiera che sta occasionalmente sventolando, destra, sinistra, centro, libertà, solidarietà, sussidiarietà e via dicendo. Capita però che l'intuizione di questo abbastanza inafferrabile cocktail si focalizzi su un simbolo, ed è allora che scattano al tempo stesso l'altra intuizione (proiettare sul territorio) e la confusione (inventarsi il Regno del Celeste o analoghi).

Caratteri del «contado» politologico: né densità né addetti agricoli
(skyline di Buccinasco da Milano, foto F. Bottini)
Forse non è un caso, se stavolta l'attenzione della politologia si è concentrata sul Veneto, ovvero sul territorio che da decenni ormai vanta quel proprio ambiguo neologismo socio-insediativo detto «città diffusa» per verniciare nobilmente l'obbrobrio ambientale dello sprawl, con una patina di millenaria speranza in un luminoso sol dell'avvenire. Nel territorio amministrativo lombardo adiacente il cosiddetto Zaiastan è forse meno lineare da definire, anche per via del nome diverso di Maroni, ma in realtà proprio nelle pianure e valli della Lombardia si può trovare esattamente conferma al medesimo fenomeno, semplicemente oscurato dall'incomoda presenza della Alamo milanese, oscena concrezione metropolitana (dal punto di vista della destra politica naturalmente) di valori meticci, genericamente progressisti, identitari giusto quando si tratta di trovare qualche etichetta Doc o Dop a valorizzare un prodotto locale. Una questione di densità edilizia, da analizzare su dati satellitari e rilievi campione locali come si fa col consumo di suolo per usi urbani? Certamente no, come ben sa chiunque si sia mai occupato della parolina magica sprawl: l'urbanizzazione dispersa pur avendo solidi intrecci con le infrastrutture di trasporto, l'impermeabilizzazione relativa del suolo, ciò che insomma il nostro conservazionismo spontaneo ha bollato da un po' con lo schifato termine «cementificazione», è ben altro.
È il vivaio, lo zoccolo duro e sinora inscalfibile, del consenso conservatore reazionario più incarognito, fabbrica di sostanziale antipolitica che vede nella triade famiglia-lavoro-piccola patria l'unico orizzonte di vita possibile, e tutto ciò che sta fuori di esso come incombente minaccia aliena. Il voto è l'equivalente del ringhio minaccioso del cane dal buio oltre la siepe della villetta o palazzina familiare, quell'idea di «casa mia» frattale che si moltiplica senza la soluzione di continuità di alcuno spazio pubblico. Posti dove solo certa forse strumentale fresconaggine ideologica da architetti-urbanisti post-qualcosa può cercare di infondere vaga aria di libertà, ribattezzando il tutto Urbs in Horto ovvero ripescando dall'Ottocento industrial-contadino una delle radici del pensiero suburbano classico. E in fondo ricercando, chissà perché e chissà come, l'ennesima uscita laterale «senza fratture» dalla tradizione contadina del localismo familiare. Mentre invece queste fratture, diciamo in altre parole questi conflitti, andrebbero addirittura promossi e somministrati ad hoc, anche se auspicabilmente governati. Altrimenti toccherà aspettare che quella frattura arrivi, senza ammortizzatori, dallo spazio globale esterno dentro cui anche quei processi di impropria urbanizzazione dispersa si collocano, lasciando che nel frattempo gli Zaia, i Maroni, e tutti gli altri che più o meno alla loro ombra campano di piccolo cabotaggio rappresentando interessi vari, con le loro politiche di «sviluppo del territorio» edilizio-autostradali, riproducano tecnicamente e per clonazione il proprio collegio elettorale ideale. Sarà anche il trionfo di Bertoldo, ma non c'è niente da ridere.
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InternazionaleAgence Global). “Nell’economia di mercato quando l’offerta di lavoro è alta, i lavoratori guadagnano di più. Ma oggi questo non succede.
 È la prova che il sistema è in una crisi profonda” (i.b)

Secondo la teoria economica neo- classica, il rapporto tra i salari e l’occupazione è semplice. Quando la domanda di forza lavoro è bassa, i salari si riducono, perché i lavoratori sono in competizione tra loro per ottenere un posto. Quando la richiesta di manodopera è alta, i salari aumentano, perché questa volta sono i datori di lavoro a competere tra loro per accaparrarsi la forza lavoro. Questo ciclo instabile dovrebbe permettere al sistema del libero mercato di funzionare tranquillamente, garantendo un costante ritorno al punto d’equilibrio.

Oggi però il rapporto tra salari e occupazione non segue più questa legge: nono- stante la ripresa, i salari non aumentano o addirittura diminuiscono. Per gli esperti è un grande mistero. Il New York Times ha spiegato il fenomeno con l’aumento dei la- voratori a tempo determinato e part-time e con l’avanzata dei robot. Per tutti questi motivi, ha scritto il quotidiano, le aziende dipendono meno dai lavoratori a tempo pieno, mentre i sindacati sono sempre più deboli e per i dipendenti è più diicile lottare contro i datori di lavoro. Tutto questo è vero. Perché, però, succede ora e non è successo prima?

Un’argomentazione relativamente nuova è quella che fa riferimento ai “lavoratori che svaniscono”. Ma come possono sparire i lavoratori? Cosa signiica? A quan- to pare, un numero crescente di lavoratori smette di cercare lavoro. Forse non hanno più alcuna protezione o hanno inito i risparmi. Sono diventati senzatetto, tossico- dipendenti, o tutt’e due le cose. Ma non hanno smesso volontariamente di cercare un lavoro. Sono stati espulsi dal sistema, e questo dà un doppio vantaggio alle azien- de: non devono investire (attraverso le tasse o in altri modi) nei programmi di prote- zione sociale e possono instillare nei lavoratori che ancora cercano un impiego la paura di essere a loro volta espulsi dal sistema.


Non può durare

Ma, mi chiedo ancora, perché succede ora e non è successo prima? Per “prima” s’inten- de quando il sistema funzionava in modo normale. Prima i capitalisti avevano biso- gno di questi cicli per poter lavorare ottimizzando i guadagni sul lungo periodo. Supponiamo, però, che oggi i datori di lavoro sappiano, o semplicemente intuiscano, che il capitalismo sta attraversando una profonda crisi strutturale e che quindi è moribondo. Cosa potrebbero fare?

Se non devono preoccuparsi che il sistema sia sostenuto da una domanda efettiva, potrebbero accontentarsi di accaparrarsi tutto quello che possono inché possono. Sarebbero completamente concentrati sui risultati immediati. Si limiterebbero a cercare di aumentare i ricavi nei mercati azionari senza preoccuparsi del futuro. Non è forse quello che sta succedendo oggi in tutti i paesi ricchi e perino in quelli meno ricchi?

Naturalmente tutto questo non può durare. Ecco perché le luttuazioni sono così grandi e il caos è così profondo. E sono po- chi, senza dubbio i capitalisti più scaltri, quelli che puntano a vincere la battaglia del medio periodo, cioè quella di individuare la natura del sistema mondiale (o dei sistemi mondiali) del futuro. Non stiamo assistendo a una nuova normalità, ci troviamo di fronte a una realtà transitoria.

Quindi qual è la lezione per chi si preoccupa dei lavoratori “che stanno svanendo”? È abbastanza chiaro che bisogna lottare per difendere tutte le forme di protezione di cui i lavoratori possono ancora beneficiare. Bisogna lavorare per ridurre al minimo la sofferenza. Al tempo stesso, però, è necessario lottare per vincere la battaglia intellettuale, morale e politica sul futuro da costruire. Solo attraverso una strategia che combini la lotta per oggi con quella per il futuro si può sperare in un mondo migliore, che è senz’altro possibile, ma non certo.

il manifesto,


«Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare - "sul presidente del Consiglio pressioni fortissime" - ma invita a salvare l'esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata»

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta. E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Avvenire,

Il caso Anna Frank ha riacceso il dibattito sull'antisemitismo nelle tifoserie ultras delle squadre sportive.

La cosiddetta «tradizione» non c’entra, dietro c’è una precisa strategia politica. La tradizione cittadina vuole il laziale più 'borghese' e il romanista più 'popolano', il primo residente nei quartieri alti di Roma Nord (con un’isola meridionale, l’Eur) e il secondo radicato a Roma Sud.

Per intenderci: Parioli-Trieste-Flaminio contro Testaccio- Garbatella-Magliana. Da qui la storica definizione del laziale 'di destra' e del romanista 'di sinistra' che, come tutte le generalizzazioni, è assai imprecisa. Molto più definita, invece, la collocazione all’estrema destra dei gruppi egemoni di entrambe le tifoserie ultras che, come accennato, fa parte di una strategia di reclutamento politico che affonda le sue radici storiche alla fine degli anni 80 e che si è fatta via via più incalzante. E che, sia detto per inciso, riguarda le curve di buona parte del Paese.

Lo ha spiegato con molta chiarezza, nemmeno due mesi fa, il leader nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore, annunciando che il suo movimento era in cerca di attivisti appartenenti in particolare a tre categorie: «I tifosi delle squadre di calcio, il cui attaccamento alle proprie città è forte e vivo; i tassisti, apprezzati per la loro conoscenza del territorio e l’impegno civico; i pugili noti per coraggio e disciplina».

L’obiettivo era l’organizzazione delle cosiddette «passeggiate per la sicurezza», un modo un po’ edulcorato per definire le ronde di quartiere. E durante una di queste, alla Magliana, il 23 settembre è stato denunciato (insieme ad altri 14 'camerati') Giuliano Castellino, responsabile romano di Forza Nuova e figura storica del tifo ultras giallorosso. Un passato dentro Casapound, da cui poi si è allontanato, Castellino è stato il fondatore del gruppo 'Padroni di casa' in Curva Sud. La stessa curva che frequentava Daniele De Santis, l’estremista di destra condannato per aver ucciso a colpi di pistola il tifoso del Napoli Ciro Esposito nel maggio del 2014, prima della finale di Coppa Italia tra gli azzurri e la Fiorentina. Ben nota, poi, la situazione nella Curva Nord laziale, che prima dei rivali è riuscita ad affermarsi come un punto di riferimento dell’estrema destra capitolina. Attualmente il gruppo principale, gli Irriducibili (nati nel 1987 e ben presto egemoni, ai danni dei vecchi Eagles’ Supporters), tende a parlare in nome collettivo, senza più sovraesporre i capi storici (il più noto alle cronache è Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik), spesso alle prese con problemi giudiziari di vario tipo.

Ma il momento di difficoltà degli ultimi anni, caratterizzati da uno scontro feroce con il presidente della Lazio Claudio Lotito, sembra passato e adesso sarebbe di nuovo Diabolik a comandare. Le 'truppe d’assalto' delle due curve romane (quelle che appiccicano - non solo allo stadio - adesivi come quelli di Anna Frank, oppure con la scritta 'Laziale non mangia maiale') sono invece formate per lo più da giovani e giovanissimi che si ritrovano spesso accomunati nelle manifestazioni politiche a gridare 'Roma ai romani' o 'Prima gli italiani', nei 'presidi' anti-immigrati, nei raid contro chi accoglie i rifugiati.

Insomma, non è vero – come ha detto il vicepresidente della Comunità ebraica Ruben Della Rocca – che gli ultras laziali «hanno esportato razzismo antisemita anche in Curva Sud». Non è vero per il semplice, triste fatto che razzismo e antisemitismo sono già presenti da tempo nella frange estreme di entrambe le curve dell’Olimpico, così come in molte altre curve italiane. Tanto che le espressioni «ebreo» e «giudeo» vengono utilizzate e percepite da entrambe le sponde come un’offesa.


InternazionaleThe Guardian. “Cosa nostra ha perso il controllo del mercato della droga. E ora vuole prendersi i terreni agricoli minacciando i proprietary” (i.b.)
Le sorelle Napoli conservano quell che resta del raccolto in un barattolo di vetro su un tavolo in salotto. Dentro ci sono solo una decina di spighe. Il resto del grano – 80 tonnellate – è stato distrutto dalla mafia. La famiglia Napoli lo coltiva a Corleone, in Sicilia, da tre generazioni.

Processi e arresti hanno spinto cosa nostra a tornare alle sue origini rurali. Ora la mafia vuole riprendersi le terre che le appartenevano. La prima minaccia a Marianna, Ina e Irene Napoli è arrivata nel 2009. Il padre era morto da pochi mesi quando 80 mucche e 30 cavalli hanno invaso i campi della famiglia, distruggendo il raccolto. “Abbiamo pensato a un incidente”, racconta Ina, “ma in fondo sapevamo come funzionano le cose da queste parti”.

Il pascolo non autorizzato è la più antica forma di intimidazione mafiosa in Sicilia. Poco tempo dopo cosa nostra recapitò nella fattoria due cani avvelenati e decine di carcasse di bue. Due trebbiatrici sono state distrutte e l’invasione di bestiame è andata avanti per quasi otto anni. Ogni tanto qualcuno si presentava a casa delle sorelle offrendo cinquemila euro all’anno per “gestire” i loro 90 ettari di terra. Cosa nostra pensava di poter sottomettere facilmente le sorelle, nubili.

La mafia siciliana è in crisi: dal 1990 sono stati arrestati più di quattromila affiliati e i nuovi mafiosi non hanno l’autorità di chi li ha preceduti. Il traffico di droga è ora nelle mani della ’ndrangheta. Inoltre secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), l’industria edile siciliana, da cui in passato la mafia ricavava molto denaro, dal 2007 ha perso più di un miliardo di euro.

Lontano da Palermo, nascosta nell’entroterra siciliano, cosa nostra sta cercando di ripartire da zero. “È come se cosa nostra, spinta dalla crisi, si fosse ritirata nelle campagne”, spiega Sergio Lari, procuratore generale di Caltanissetta.

Gli aiuti dell’Unione europea all’agricoltura, fino a mille euro per ettaro, forniscono un incentivo per l’attività del crimine organizzato. A febbraio le forze dell’ordine di Caltanissetta hanno arrestato nove persone affiliate ai clan di Cesarò e Bronte, che secondo gli inquirenti avevano costretto gli agricoltori a vendere centinaia di ettari di terra. Il processo è in corso.

Emanuele Feltri nel 2010 ha fondato un’azienda per l’agricoltura biologica nella valle del Simeto, che poco dopo è stata data alle fiamme dai mafiosi. “Chiedono il pizzo agli agricoltori, da 50 a 500 euro al mese. Cercano di portarli alla bancarotta distruggendo il raccolto o bruciando i campi. Per poi comprare la terra a prezzi stracciati e incassare gli aiuti europei”.

Produzione azzerata

La terra delle sorelle Napoli vale circa un milione di euro. Oltre ai campi di grano ci sono un lago artificiale e una sorgente d’acqua potabile. Prima della morte del padre l’azienda agricola produceva 36 tonnellate di grano e diverse tonnellate di ieno, per un profitto annuo di 35mila euro. Oggi produce solo 330 balle di fieno, mentre la produzione di grano è a zero. I debiti hanno raggiunto i centomila euro.

“Quest’anno abbiamo guadagnato 660 euro”, racconta in lacrime Marianna. Dal 2014 le sorelle Napoli hanno presentato 28 denunce ai carabinieri, ma da quando hanno scelto di rivolgersi alle autorità sono state emarginate dalla comunità. “La gente non ci saluta più. I braccianti non vogliono lavorare per noi”, spiega Ina. “Una persona è venuta a chiederci di ritirare le denounce per evitare che la situazione peggiori, ma non abbiamo accettato”. Pochi mesi fa la mafia ha consegnato un altro macabro regalo alle sorelle Napoli: la pelle di tre pecore. I responsabili di queste intimidazioni restano liberi.

Le autorità siciliane sono alle prese con decine di casi sulla mafia del bestiame, ma la campagna d’intimidazione in corso da otto anni contro le sorelle Napoli non è uno di questi. I casi individuali di pascolo illegale vengono considerati reati minori, puniti con multe di appena 300 euro. “Qualcuno deve indagare su tutti i casi dal 2009 a oggi, altrimenti i colpevoli dovranno pagare solo qualche multa”, spiega Giorgio Bisagna, avvocato delle sorelle.

Tra qualche mese i loro terreni saranno messi sotto la protezione di Libera terra, un’associazione che gestisce i terreni coniscati alla mafia. “I boss pensavano che rubare a due zitelle sarebbe stato facile come rubare una caramella a un bambino”, racconta Irene. “Ma si sono messi contro le zitelle sbagliate”

il Fatto Quotidiano,

Muhamed si è accasciato sulla terra rossa dei campi del Salento, sotto il sole micidiale di Nardò, in un giorno d’estate del 2015. Aveva 47 anni. Era arrivato dal Sudan, raccoglieva pomodori per un paio d’euro l’ora. Dodici ore al giorno. Lavorava in nero, nella rete dei caporali che portano la manodopera alle aziende agricole del sud. Soffriva di cuore – si è scoperto con l’autopsia – ma non è stato sottoposto a una visita medica prima di iniziare a lavorare. È tornato in Africa in una cassa di legno, accompagnato dalla moglie e dai due figli.

Succede, tra gli schiavi del pomodoro: ogni tanto qualcuno cade. Quella stessa estate è morta Paola Clemente, 47 anni, tarantina, trasformata suo malgrado nella prima martire del bracciantato femminile. La notizia fa il giro delle cronache locali, ogni tanto anche di quelle nazionali. Per i casi più clamorosi arriva il cordoglio delle istituzioni. Poi tutto torna esattamente come prima. Il pomodoro raccolto con il sudore e il sangue degli schiavi rimane sugli scaffali dei supermercati e finisce nelle dispense delle famiglie, in Italia e fuori. La scia criminale riguarda solo i piani bassi: la responsabilità coinvolge i caporali e gli imprenditori agricoli. Ma quel pomodoro viaggia: viene lavorato, trasformato e venduto da imprese multinazionali, finisce nella rete della grande distribuzione. I giganti sono quelli che fanno i prezzi. Si servono di un prodotto raccolto con la violenza e lo schiavismo, ma i loro nomi restano coperti. O meglio, restavano coperti fino a ieri.
L’inchiesta sulla filiera

La morte di Muhamed ha aperto una crepa. La procura di Lecce prima ha individuato i presunti responsabili: è scattata la richiesta di rinvio a giudizio per Giuseppe Mariano, proprietario dell’azienda agricola dove è caduto il bracciante, e per il caporale Sale Mohamed. Le accuse sono omicidio colposo e caporalato. Ma poi la pm Paola Guglielmi si è spinta più in là: ha ricostruito il percorso che hanno fatto i pomodori raccolti dalla vittima e dagli altri schiavi di Nardò. E ha messo nero su bianco, per la prima volta, i nomi di alcune delle grandi imprese che si sono servite della merce raccolta attraverso il caporalato. Si tratta di tre giganti dell’industria dell’oro rosso: Mutti, Conserve Italia (che produce, tra gli altri, Cirio e Valfrutta) e La Rosina. Su queste aziende – è bene specificare – non sono previste ulteriori indagini: non hanno alcuna responsabilità penale nell’inchiesta sulla morte del bracciante. Si discute, semmai, delle responsabilità etiche di chi occupa il vertice della filiera produttiva.
Il percorso dell’oro rosso

I nomi di queste imprese sono finite nell’indagine della sezione anticrimine dei Carabinieri di Lecce, quindi nelle carte della procura: “Dall’esame della documentazione attestante la filiera del pomodoro prodotto dall’azienda agricola in argomento (…) si rileva che il ‘pomodoro’ successivamente alla raccolta viene conferito alla Cooperativa agricola ‘Terre di Federico S.A.S. (…) e da qui trasportato verso le industrie deputate alla successiva lavorazione e trasformazione”. Le tre industrie – si legge – sono “Fiordiagosto Srl”, “La Rosina Srl”, “Conserve Italia Soc. Coop. Agricola”. Il documento dei Carabinieri ne ricostruisce i proprietari: “La Fiordiagosto Srl risulta di proprietà della notissima industria Mutti Spa, (…) colosso nella produzione di conservati, in particolare il pomodoro, commercializzati in tutto il mondo e facilmente reperibili sugli scaffali degli ipermercati e supermercati”, “La Rosina Srl risulta di proprietà della famiglia Russo di Angri, gruppo titolare di industrie alimentari di portata internazionale e con un suo stabilimento produttivo in provincia di Foggia, più grande in Europa, per la trasformazione del pomodoro” e infine “La Conserve Italia Soc. Coop. Agricola opera sotto la partita iva di Conserve Italia (…). Anche questa industria, come è facilmente intuibile ha rapporti commerciali e distribuisce i prodotti conservati su tutto il territorio nazionale ed all’estero”.
I giganti delle conserve

Parliamo di colossi internazionali dell’industria del pomodoro. La Mutti è forse la più importante azienda del paese (occupa oltre un quinto del mercato nazionale) ed è presente in 82 Paesi nel mondo. Si descrive così, sul suo sito: “Da oltre 100 anni, Mutti, azienda di Parma, è leader nella lavorazione del pomodoro; da quattro generazioni la famiglia Mutti si dedica esclusivamente al miglioramento del suo ‘oro rosso’ realizzando concentrato, passata e polpa di pomodoro. Prodotti che oggi sono apprezzati in tutto il mondo”. I numeri della Mutti sono in costante ascesa: nel 2015 la produzione annuale è balzata al +22% (280mila tonnellate di pomodoro), nel 2016 ha stabilito il suo record di fatturato: 270 milioni di euro. Ogni anno, dal 2000, la Mutti assegna agli agricoltori da cui si rifornisce il premio “Pomodorino d’oro”. “Un segno tangibile – secondo l’amministratore delegato Paolo Mutti – della nostra attenzione alla qualità della filiera”.
Conserve Italia è un altro gigante, una delle principali aziende nel settore delle conserve ortofrutticole in Europa. Produce, tra gli altri, i succhi di frutta Yoga e Derby e le polpe di pomodoro Cirio e Valfrutta. Il fatturato aggregato del gruppo nel 2016 ha raggiunto quota 903 milioni di euro. Il pomodoro vale quasi un quinto del giro d’affari totale: il 22,9%.
La Rosina è invece un’azienda di medie dimensioni con base in provincia di Foggia. Nel 2015 ha fatturato poco più di 13 milioni di euro. Le specialità sono datterini e pomodori pelati. Sul suo sito, vanta “un’esponenziale crescita commerciale in campo nazionale ed estero”. E aggiunge: “I Paesi verso i quali ha maggiore esportazione sono: Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Norvegia”. Come ha spiegato il titolare Giovanni Russo in un’intervista, la Rosina movimenta 1.500 tonnellate di pomodoro all’anno, tutte trasformate e poi vendute tramite la grande distribuzione: “Siamo presenti nelle principali insegne del territorio nazionale quali Coop Italia, Sisa, Carrefour, Sma”. Dai campi agli scaffali: la filiera inizia con il lavoro schiavistico dei braccianti e finisce con le file ordinate di barattoli e bottiglie nei supermercati.
La replica delle aziende: non ne sapevano nulla

Le imprese citate nelle carte della procura di Lecce hanno negato ogni responsabilità. Conserve Italia ha esibito il “contratto per la cessione di pomodoro da industria”, che regola i rapporti tra le organizzazioni di produttori e le industrie che trasformano i loro pomodori. Un documento a cui aveva aderito anche l’azienda agricola dove è morto Muhamed (la “De Rubertis Rita”, controllata da Giuseppe Mariano). Nel contratto con Conserve Italia, Mariano si impegnava a garantire – tra l’altro – “l’osservanza delle vigenti normative in materia di sicurezza e salute sul lavoro, dei contratti collettivi nazionali di lavoro, della normativa in materia previdenziale e assistenziale e di quella in materia di lavoro per gli immigrati”. Promesse rimasta sulla carta: Muhamed e gli altri, come detto, lavoravano in nero, per un paio d’euro l’ora, senza la minima forma di tutela e di controllo.
Maurizio Gardini, presidente di Conserve Italia, sottolinea che i rapporti con l’azienda agricola di Mariano sono cessati: “Mettiamo fuori chi non accetta di firmare i nostri protocolli di legalità, ma pure chi li firma e poi non li rispetta”. Nonostante questo impegno, i pomodori raccolti da Muhamed e dagli altri braccianti sfruttati sono finiti anche nelle loro conserve. “Non possiamo controllare tutto – replica Gardini – e non possiamo sostituirci alle autorità ispettive: questa attività spetta all’Inps e alle forze dell’ordine”.
Anche Francesco Mutti, amministratore delegato dell’azienda che porta il nome di famiglia, ha adottato argomenti simili. Quando gli viene chiesto di chiarire gli affari con chi ha sfruttato i braccianti, risponde così: “Noi non abbiamo ricevuto alcun tipo di informazione dalla procura di Lecce e comunque abbiamo interrotto qualsiasi rapporto con quell’azienda fornitrice due anni fa. Oggi solo una piccola parte dei nostri prodotti arriva dal sud e l’80 per cento della nostra raccolta ora è meccanizzata. La De Dominicis (l’azienda agricola di Mariano, ndr) ci aveva fornito un elenco dei lavoratori assunti, di più non possiamo fare”. Il Fatto Quotidiano ha provato, senza successo, a chiedere un chiarimento anche a La Rosina.
Ogni tanto un bracciante cade. I pomodori che raccoglie finiscono sulle nostre tavole. Le aziende che li mettono in commercio non ne sanno nulla.

L'Espresso,

Non ci sono più le utopie di una volta, decisamente. E quando si affacciano, magari un po' timidamente, lo fanno con i connotati cambiati.In questa nostra epoca, infatti, ad andare alla grande sono le distopie. O la Realpolitik che vola piuttosto basso, e si giustifica spesso a colpi di "Tina" ("There Is No Alternative", come soleva ripetere compiaciuta la signora Thatcher), ma che pressoché nulla ha a che spartire con il realismo alto di personaggi come Thomas Hobbes o Voltaire. E d'altronde, in effetti, ce n'è ben donde, sull'onda di una crisi finanziaria ed economica – o meglio, come palese, un autentico cambio di paradigma del capitalismo – che non molla la presa ormai da un decennio.

E il nostro immaginario, nel corso del secondo Novecento, si è così via via popolato di distopie proiettate dalla letteratura e dalla cinematografia di fantascienza, in particolare per effetto del successo della narrativa di Philip K. Dick (a cui naturalmente si rifà anche il nuovo Blade Runner 2049). E sempre fantascienza distopica è quella al centro del serial televisivo The Handmaid's Tale (Il racconto dell'ancella, ricavato dall'omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985), che ha furoreggiato nelle premiazioni degli ultimi Emmy Awards.

Ma se l'ansia distopica pervade l'età neoliberista – e, a volte, si ha effettivamente l'alquanto spiacevole sensazione di vivere dentro un racconto di James Ballard –, esiste anche chi si dà da fare per mettere in campo delle ricette alternative (magari discutibili, ma comunque utili per cercare di sottrarsi all'onnipresente pensiero unico).

Al proposito, c'è un piccolo Paese che mostra una spiccata vocazione a sfornare visioni utopiche. Si tratta dell'Olanda, nazione libertaria per antonomasia, patria di Erasmo da Rotterdam, di Baruch Spinoza e del comunismo consiliare di Anton Pannekoek (che fu anche il fondatore dell'Istituto di astronomia dell'Università di Amsterdam, a lui intitolato insieme a un asteroide). E, più recentemente, culla dei movimenti per il reddito universale e quello di cittadinanza. Dalle terre basse arriva l'ultima novità in materia – e chissà che non siano proprio la loro collocazione geografica e la natura orografica di piatto fazzoletto di terra, che ha quale unico orizzonte l'infinita visuale del mare e dell'oceano, ad agevolare il plusvalore del pensare oltre certe compatibilità rigide dell'esistente.

A fare dibattito oltre i confini dei Paesi Bassi (dove si è convertito in un best seller) è un libro di Rutger Bregman, classe 1988, storico ed editorialista del trendissimo giornale online nato col crowfunding De Correspondent, che ha ottenuto un paio di nomination per lo European Press Prize.

Si tratta di Utopia per realisti (Feltrinelli), dove lo studioso, dalla scrittura brillante, corre su e giù per la storia (dalla Rivoluzione francese alla robotica contemporanea, dal luddismo all'economia dello sviluppo) perorando la causa di un'utopia «da non prendere troppo sul serio», pena la caduta nel girone infernale dell'utopismo pernicioso e delittuoso di fascismo e comunismo. Dunque, per cominciare, niente fanatismo o settarismo utopistico, da cui uomini e donne di buona volontà si devono premurare di sgombrare il campo. E poi, pur avendo individuato lì l'avversario e la fonte della gran parte dei problemi e delle ingiustizie, un riconoscimento (con una punta di ammirazione) – un po' come fece Karl Marx nei confronti della borghesia e del capitalismo – alla forza trasformatrice del neoliberismo e alla sua capacità di riplasmare il Villaggio globale a propria immagine e somiglianza.

A partire dalla persuasione, espressa da Friedrich von Hayek, che «le idee e le credenze umane siano i motori principali della storia» (una visione, solo in questo, sorprendentemente similare alle convinzioni del suo antagonista per antonomasia, il grande John Maynard Keynes). Per continuare con la reinvenzione semantica e ideologica – dagli effetti devastanti – della categoria di "liberismo", la quale, nel senso comune e nell'immaginario-ideologia collettivo, ha smesso da tempo di identificare l'originaria dottrina economica per trasformarsi nella facoltà – dichiarata alla stregua di un "diritto" – di «essere solo se stessi», e di «fare quel che si desidera», come dire dalle macchine desideranti di Gilles Deleuze al "capitalismo libidinale" trionfante descritto da Bernard Stiegler.

Il punto è che indietro (dalla condizione postmoderna), in tutta evidenza, non si torna. E, quindi, bisogna immettere al suo interno un progetto – concetto caro alla modernità di derivazione illuministica – differente, e alternativo. Et voilà l'utopia per realisti, che magari rischia di provocare qualche delusione nei romantici inguaribili e negli antisistema accaniti, così come nei nostalgici della restaurazione di un (impossibile) mondo fordista. E il catalogo dell'intellettuale olandese prevede il decremento dei consumi e la riduzione dell'orario di lavoro (un cavallo di battaglia di Keynes nel suo utopistico Prospettive economiche per i nostri nipoti del 1930), una società aperta che superi i confini statali e una drastica lotta contro la povertà combattuta con un reddito universale di base. Nei cui riguardi, forzando un poco (ma senza esagerare), si può dire che Marx e Karl Polanyi erano duramente contrari, mentre Richard Nixon e Milton Friedman favorevoli (o almeno possibilisti).

Perché una destra e una sinistra classicamente intese esistono ancora, sostiene Bregman, ma faticano sempre più a dare risposte adeguate a fronteggiare i complicatissimi tempi che viviamo. E sembrano intrise di "Retrotopia", per dirla col titolo dell'ultimo testo (edito da Laterza) dello scomparso Zygmunt Bauman. E un'utopia per realisti potrebbe anche essere quella tratteggiata dallo studioso di geopolitica Parag Khanna nel suo La rinascita della città-Stato (Fazi), dove teorizza il modello degli "info-Stati", la cui governance si basa su tecnocrazia "illuminata" e Big data per dare risposte efficienti ai cittadini (e il cui simbolo è Singapore, che per qualcuno potrebbe invece identificare una distopia).

In ogni caso, qui non siamo precisamente dalle parti di Tommaso Moro, di Tommaso Campanella o di Étienne-Gabriel Morelly. Quanto, piuttosto, in presenza di utopie a congruo tasso di realismo. Visioni, per certi versi, più domestiche e praticabili, con ricadute circostanziate e determinate, e quindi contestualizzate in un quadro che si caratterizza per la resilienza e la longevità quasi inscalfibile del pensiero unico. La nozione di un'"utopia realistica" può allora suonare come un autentico paradosso. Ma, appunto, di paradossi (postmoderni) è disseminata e costellata la nostra problematica contemporaneità.

Sbilanciamoci.info

C’è qualcosa di terribile, e spaventoso, nelle circostanze che stiamo vivendo. Forse le più drammatiche da un secolo in qua. L’innegabile aria di famiglia tra fascismo e populismo non deve far dimenticare le diversità che separano l’un dall’altro. Fascismo e nazismo smantellarono il regime rappresentativo grazie alle milizie private che avevano costituito, sfruttando, con la tolleranza dello Stato, il know how violento che si era accumulato nelle trincee. A fornir loro la base decisiva di consenso fu il risentimento della classe media, frustrata dagli esiti del primo conflitto mondiale e timorosa di essere declassata dall’incedere dei partiti di massa.

Ciò malgrado, l’aria di famiglia rimane. Nella condizione attuale mancano le milizie private, ma sovrabbondano i motivi di risentimento, manipolando i quali, come dimostrano i casi recenti di Francia, Germania e Austria, i populisti stanno già trovando pacificamente quel successo elettorale che fascismo e nazismo ottennero con la violenza. Il cosiddetto populismo si sta infatti rivelando pienamente compatibile con le istituzioni rappresentative e democratiche, la cui adattabilità anche a forze politiche palesemente in contrasto con i principi cui esse s’ispirano non è mai stata considerata a sufficienza.

Quanti scrissero le costituzioni del dopoguerra si premunirono affinché l’abuso del principio di maggioranza non aprisse la strada a un nuovo regime autoritario. Non immaginavano che valori e principi fascisti potessero aggiornarsi, essere smussati e convivere con le istituzioni da essi progettate. Il Brasile ha appena dimostrato come siano possibili colpi di Stato formalmente legali. Forse è venuto il tempo di smetterla di mitizzare la democrazia: che sarà pure il peggiore dei sistemi di governo, tranne tutti gli altri, ma è davvero molto scadente.

Lungo è il catalogo degli odierni motivi di risentimento, che si sovrappongono, s’intrecciano e si stanno pure coagulando elettoralmente: grazie ai populisti, ma pure grazie ai partiti convenzionali (come i popolari austriaci), i quali da un lato nella loro azione di governo, ossequiente alle regole europee, alimentano i motivi di risentimento, dall’altro fanno concorrenza ai populisti adottandone e adattandone alcune istanze e spesso anche lo stile. Alcune vene di risentimento sono antiche: con ogni probabilità non sono le più cospicue. Sono le nostalgie fasciste che resistono in qualche angolo delle società contemporanee. C’è il risentimento antifiscale di alcuni ceti, ravvivato dalla denigrazione simbolica cui l’azione dello Stato è sottoposta dal neoliberalismo. C’è il risentimento conservatore di alcuni ambienti che hanno mal digerito i progressi sul piano dei diritti civili dell’ultimo mezzo secolo: i tentativi di rimuovere le disuguaglianze di genere e il riconoscimento dei diritti Lgtb.

Più recente, e ben più insidioso, è il risentimento fondato sulle paure di declassamento delle classi medie, che stavolta non temono più la concorrenza della classe operaia, ma vedono invece aprirsi innanzi a sé, e ai propri figli, la china dell’impoverimento e della mala occupazione. Sono risentite le classi medie più fortunate di paesi come l’Austria, l’Olanda, la Svizzera, che intendono mantenere la loro condizione di privilegio, e quelle che in paesi come l’Italia e la Francia la loro condizione di privilegio ritengono in pericolo. Enorme è il risentimento che hanno suscitato le politiche di austerità: sono risentiti in special modo i ceti popolari, da tempo non più protetti dalle politiche di welfare e di piena occupazione, nonché orfani dell’azione di rappresentanza dei partiti di massa e dei sindacati e su cui l’austerità ha scaricato gran parte dei costi della grande crisi finanziaria.

Aggiungiamo ancora il risentimento antipolitico e quello anti-migranti. I privilegi di cui il personale politico gode, le sue continue prove d’immoralità e la stigmatizzazione di quest’ultima, da parte di forze politiche che sfruttando i media ne hanno fatto il loro tema preminente, senza mai interrogarsi sulle cause, né tantomeno tentare di curarle, hanno reso questo risentimento vastissimo e anche profondamente radicato. Il risentimento più insidioso infine è quello che si appunta contro i disperati che in condizioni drammatiche attraversano il mare o si assiepano ai confini dei paesi più avanzati.

L’impatto dell’ultima ondata migratoria sulle società europee, anche le più esposte, è modesto. La condizione lavorativa, già pessima, non è peggiorata a causa degli immigrati. Le statistiche sulla criminalità non hanno subito oscillazioni apprezzabili. La pubblica assistenza non è stata più di tanto deviata verso i nuovi arrivati a scapito di altri. Né il paesaggio si è popolato di minareti. Ma la diffidenza verso l’estraneo è congenita. Soprattutto se esasperata dal terrorismo mediatico dei populisti, che, nel silenzio – è l’ipotesi più generosa – degli altri partiti, convoglia contro l’estraneo, e con proprio vantaggio, gli altri motivi di risentimento.

In Usa, in Francia e in Germania questa deriva è apparsa evidente: il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vasti strati sociali ha favorito i successi dell’estremismo di destra. Non è in realtà da escludere che una parte del consenso che i populisti raccolgono sia da intendere più come una testimonianza di sofferenza inascoltata, che non come una prova di razzismo. Lo dimostrerebbe il fatto che allorquando un’alternativa si è profilata in Inghilterra i populisti dell’Ukip sono usciti di scena. Solo che una simile alternativa non riesce a maturare da altre parti.

Cosa possano fare i populisti al governo non è un mistero insondabile. C’è da aspettarsi che in un paese di frontiera come l’Italia mettano in atto spietate, e criminali, politiche di respingimento. Ma le ricette populiste per trattare il disagio sociale sono fatte di rigorose politiche pro-market, magari condite con una dose di sovranismo improbabile. Il presidente Macron, singolare esempio di populisme caviar, o dell’establishment, ha dato una stretta alle politiche di accoglienza, ha ridotto le tutele del mondo del lavoro e promette di ridurre l’imposizione sui ceti abbienti.

Un orientamento analogo aveva assunto la Lega nei suoi anni di governo, mettendoci di suo qualche misura di decentramento, invero assai poco funzionale. Nel caso americano, la politica di Trump si sta mostrando rischiosamente muscolare in politica estera, ma nulla sembra intenzionata a fare a beneficio dei ceti popolari che pure lo hanno votato, tranne che abbattere qualche tutela ambientale. La dice lunga sulla pretesa indigeribilità dei populisti il brillante andamento della borsa americana. L’esito di eventuali governi populisti promette pertanto di essere da un lato un clima inquietante di avvelenamento simbolico, a spese degli immigrati, dall’altro un ulteriore aggravamento delle condizioni dei ceti popolari e di quelli intermedi, che potrebbe a sua volta alimentare ulteriori rigurgiti razzisti e autoritari.

È questo il futuro che si prospetta anche per l’Italia? I giornali ventilano la possibilità di una coalizione centrista, che associ Pd e Forza Italia. I precedenti lasciano pensare piuttosto che se il centrodestra, guidato da Berlusconi, riuscisse a ottenere anche un solo voto di maggioranza in parlamento, grazie a una legge elettorale che smaccatamente lo favorisce, lascerebbe il Pd con un palmo di naso: Berlusconi non è tipo da pagare i suoi debiti se proprio non è costretto.

Al paese toccherebbe invece un disastroso ritorno alla condizione del 2011, che era segnata, oltre che dalla crisi del debito, da una profonda diffidenza internazionale verso i governanti del momento. Che l’atteggiamento dell’Unione e di molti governi nei confronti dell’Italia e dei paesi del Sud Europa sia stato vessatorio è indiscutibile. Che le misure introdotte abbiano solo tamponato la crisi, infliggendo una mazzata all’economia e alla coesione sociale, è certo: la crescita non riprende più di tanto e le disuguaglianze sono aumentate. Ciò non toglie che la diffidenza, invero tardiva, dei partners europei verso il governo di centrodestra guidato da Berlusconi fosse fondatissima.

Adesso le summenzionate misure adottate dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (condite negli ultimi due casi da molte mance elettorali e infiniti favori agli imprenditori) sono paradossalmente riuscite a riabilitare Berlusconi, frettolosamente dato per spacciato, e a sovreccitare tutti quei motivi di risentimento di cui prosperano i populisti. Tutto fa pensare che il successo dei populisti in altri paesi europei, e l’involuzione verso destra dei loro governi, ricreeranno, aggravandolo, il clima di diffidenza. È allarmistico parlare di una condizione emergenziale?

Quel che colpisce è come non sia alle viste alcun credibile tentativo di contrastare tale prospettiva. Con l’arroganza che gli è consueta Renzi ha imposto una legge elettorale non solo mediocre, ma che soprattutto avvantaggerà il centrodestra. Sarebbe elementare buon senso che le disperse componenti dell’ex-centrosinistra si ritrovassero e negoziassero un onesto compromesso. Se n’è ha accorto finanche Veltroni. Ma non è aria. A parte il rifiuto di Renzi di trattare con un po’ di rispetto le forze alla sua sinistra, è forse vero che il Pd, gran parte dei suoi quadri e probabilmente pure una quota dei suoi elettori, sono ormai divenuti più omogenei, sociologicamente e culturalmente, al centrodestra per negoziare alcunché: è sorprendente quanto poca attenzione tra i simpatizzanti del Pd si dedichi alla condizione del lavoro e alla povertà in Italia. Non bastasse, gli odi personali fanno aggio sui progetti politici.

A furia di coltivare il pensiero liberal e quello Third way, invece della cultura socialdemocratica e del solidarismo cattolico, il Pd è divenuto un partito di ventura, prigioniero dei deliri di onnipotenza del suo capo e di un mito della leadership salvatrice coltivato nella pubblica opinione ormai da decenni. Ove ve ne fosse stato bisogno la propensione al servilismo ha appena trovato due conferme nel ricorso al voto di fiducia per far passare la legge elettorale alla Camera e nella mozione contro il governatore di Bankitalia, che avrà anche le sue colpe, ma che è irresponsabile processare in questo modo. Pare non conti nemmeno il fatto che, passata la sbornia delle europee, Renzi abbia inanellato una disfatta appresso all’altra. Per contro il centrodestra offre le consuete prove di pragmatismo affaristico e si ricompone.

Se però il Pd si è condannato alla sconfitta, le forze alla sua sinistra non si decidono a rompere gli indugi. Il tempo stringe e la prossima partita elettorale promette tempesta. Forse però si potrebbero ridurre i danni proponendo agli elettori una forza politica unitaria, inequivocabilmente contrapposta alle politiche pro-market, sforzandosi di radicarla nel paese. Non tutto è media, né tradizionali né social. Si può parlare ai cittadini in molti modi, perfino faccia a faccia. Che sia chiaro: se niente accadrà e a sinistra resterà un buco nero, nessuno sarà senza colpa. Gravissime sono già quelle del Pd, ma lo saranno pure quelle della sinistra che non trova la forza di mettere a tacere le proprie differenze, dopotutto secondarie alla luce delle circostanze e indecifrabili per la gran parte dei loro potenziali elettori, per decidersi a far causa comune nell’interesse di un largo segmento della società italiana.


C'è chi spera ancora che i residui, gli slogan, le strategie delle sinistre del millennio scorso servano ancora per combattere le forze dello sfruttamento globale di tutte le risorse sopravvissute: dall'aria alle persone, dalla terra all'acqua, dalle memoria all'etica. Noi abbiamo compreso che la parola Sinistra è obsoleta, e che il nuovo sfruttamento può essere battuto da nuove parole, nuove consapevolezze, nuove forme organizzative. Lo abbiamo scritto qui;
"La parola Sinistra". (e.s.)

vocidall'estero, di Stephen Metcalf dal The Guardian il neoliberalismo. (c.m.c.)

«Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani.

La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul “neoliberalismo”: hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI, un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un’ “agenda neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.

Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i Democratici negli Stati Uniti e i Laburisti nel Regno Unito, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi. Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie che li hanno arricchiti; e, nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle disuguaglianze.

Negli ultimi anni il dibattito si è inasprito e il termine è diventato un’arma retorica, un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra. (Non c’è da stupirsi che i centristi dicano che è un insulto insensato: sono quelli nei cui confronti l’insulto è veramente più sensato). Ma il “neoliberalismo” è qualcosa di più che una battuta legittima e gratificante. Rappresenta anche, a suo modo, un paio di lenti attraverso le quali guardare il mondo.

Osserva la realtà attraverso le lenti del neoliberalismo e vedrai più chiaramente come i pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili). Naturalmente l’obiettivo era quello di indebolire lo stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione e, sempre, di ridurre le tasse e deregolamentare. Ma “neoliberalismo” indica qualcosa di più di una lista standard di obiettivi di destra. Era un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati.

Ancora sbirciando attraverso l’obiettivo si vede come, non meno dello stato sociale, il libero mercato è un’invenzione umana. Si vede in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci. Si vede in quale misura un linguaggio che precedentemente era limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale, e come l’atteggiamento del venditore si è infiltrato inestricabilmente in tutte le forme dell’espressione di sé.

In breve, il “neoliberalismo” non è semplicemente un nome che sta a indicare le politiche a favore del mercato, o i compromessi con il capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti. È la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze: che la concorrenza è l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana.

Non appena il neoliberalismo è stato certificato come reale, e non appena ha reso evidente l’ipocrisia universale del mercato, allora i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton, il super-cattivo dei neoliberal, ha perso – e nei confronti di un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio. Quindi quegli occhiali sono ormai inutili? Possono fare qualcosa per aiutarci a capire cosa si è rotto nella politica britannica e americana? Contro le forze dell’integrazione globale, si è riaffermata l’identità nazionale e nel modo più duro possibile. Cosa potrebbero avere a che fare il militante della parrocchia della Brexit e l’America Trumpista con la logica neoliberale? Qual è la possibile connessione tra il presidente – un folle a ruota libera – e il paradigma esangue dell’efficienza conosciuto come libero mercato?

Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo.

Io credo che occorra spostare il dibattito sterile sul neoliberalismo ritornando al principio, e prendendo sul serio la misura del suo effetto cumulativo su tutti noi, indipendentemente dall’appartenenza. E questo richiede il ritorno alle sue origini, che non hanno nulla a che fare con Bill o Hillary Clinton. C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero. Il più importante fra di loro, Friedrich Hayek, non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia.

Pensava di risolvere il problema della modernità: il problema della conoscenza oggettiva. Per Hayek, il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi; rivelava la verità. Com’è che la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto – la sconvolgente possibilità che, grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica?

Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe l’idea, egli si rese conto, con la convinzione di un'”illuminazione improvvisa”, che si era imbattuto in qualcosa di nuovo. «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse», ha scritto, «portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?»

Non si trattava di un punto tecnico sui tassi di interesse o sui crolli deflazionari. Non era una polemica reazionaria contro il collettivismo o lo stato sociale. Era un modo di far nascere un mondo nuovo. Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente.

La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era, e lo è stato fino alla fine della sua vita, un moralista del XVIII secolo. Pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società. Il neoliberalismo è Adam Smith senza il suo timore.

Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo dato che egli era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla.

Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Successivamente ammise di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato.

Hayek fece una figura stupida: un professore alto, eretto e dall’accento pronunciato, in abito di tweed ben tagliato, che insisteva su un formale “Von Hayek”, ma crudelmente soprannominato dietro le spalle “Mr. Fluctooations”. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes. Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’Università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale alla pari della microeconomia del XX secolo e la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». E comunque lo sottovaluta. Keynes non ha vissuto o previsto la guerra fredda, ma il suo pensiero è riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda; così anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek.

Hayek aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia assumendo che quasi tutte le attività umane (se non tutte) sono una forma di calcolo economico e possono così essere assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto prezzo. I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta. Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma, esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso. All’interno di tale società, gli uomini e le donne hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse. Attraverso la concorrenza “diventa possibile“, come ha scritto il sociologo Will Davies, “discernere chi e che cosa ha valore“.

Tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento – una classe media prospera e una sfera civile; istituzioni libere; suffragio universale; libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa; il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità – non ha alcun posto nel pensiero di Hayek. Hayek ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.

Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno stato minimo, noto come “liberalismo classico”. Nel liberalismo classico, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciarli soli” – di “lasciarli fare”. Il neoliberalismo riconosce che lo stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato. Le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, e lo stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo.

Questo non è tutto: ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente. La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita.

Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge. Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra; e si lamentava di essere circondato da “stranieri” e “orientali di tutti i tipi” e “europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza“.

Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo; un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale. Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente. E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare. Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società … Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale».

È una affermazione epistemologica forte – che il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare. L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi.

Dopo essersene venuto via dalla LSE, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. Anche i suoi colleghi conservatori dell’Università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra“, come si suol dire. Nel 1972, un amico andò a trovare Hayek, ora a Salisburgo, e trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile. Nessuno si interessava a quello che aveva scritto!

C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher. Thatcher esaltava Hayek di fronte a tutti, e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro.

Hayek si incontrò privatamente con Thatcher nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione nel Regno Unito, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia. Si consultarono in privato per 30 minuti a Londra, a Lord North Street presso l’Istituto per gli Affari Economici. Dopo l’incontro, lo staff della Thatcher gli chiese ansiosamente cosa stava pensando. Cosa poteva dire? Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo.

Rispose: “Lei è veramente bella”.

La Grande Idea di Hayek non è granché come idea, fino a che non la ingigantisci. Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un Keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?

Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’occidente sin dal 17° secolo. L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa? Sembra che non sia possibile integrare l’esperienza soggettiva e interiore dell’uomo nella natura, nel modo in cui la scienza la concepisce, come un qualcosa di oggettivo, soggetto a regole che scopriamo tramite l’osservazione.

Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di John Maynard Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica.

Secondo questo punto di vista, le questioni di valore sono risolte politicamente e democraticamente, non economicamente – attraverso la riflessione morale e la deliberazione pubblica. La espressione classica moderna di questa convinzione si trova in un saggio del 1922 intitolato Etica e Interpretazione Economica di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek. «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso», scrisse Knight. «L’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».

Gli economisti avevano dibattutto aspramente per 200 anni sulla questione di come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin D Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal, e fondarono l’Università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi. Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura“. Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo.

Non è solo che Simons, Viner e Knight fossero meno dogmatici di Hayek, o più disposti a perdonare lo stato per la tassazione e la spesa pubblica. Non è che Hayek fosse loro intellettualmente superiore. Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore. Questo ha fatto sì che venissero completamente dimenticati dalla storia.

È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione.

Ma più di chiunque altro, anche più di Hayek stesso, è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek. Ma prima ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è “in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi” e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo.

I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore. Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita nega ciò che di noi è più caratteristico. Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici. Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di onniscienza sociale significa ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare – la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle.

Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”. Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.

A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.

«Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute», ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. «Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto – diventa un valore».

Hirschman ha formulato una distinzione tra quella parte di sé che è un consumatore e quella parte di sé che produce ragionamenti. Il mercato riflette ciò che Hirschman ha definito le preferenze, che sono “rivelate dagli agenti quando acquistano beni e servizi”. Ma, come afferma, gli uomini e le donne hanno anche la capacità di rivedere i loro “desideri, volontà e preferenze”, per chiedersi se veramente vogliono questi desideri e preferiscono queste preferenze “. Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione. L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo.

Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra. Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman è una accusa che può essere rivolta a qualsiasi pretesa basata sulla ragione umana. È un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative” a differenza delle scienze. Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. Quando i nostri dibattiti non sono più risolti con deliberazioni basate su ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dai capricci del potere.

È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi. Per citare una vecchia battuta, “avevi solo una cosa da fare!”. Il grande progetto di Hayek, come originariamente concepito negli anni ’30 e ’40, era stato espressamente progettato per impedire di ricadere nel caos politico e ne fascismo. Ma la Grande Idea ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse. Era, fin dall’inizio, intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggere. La società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta ad uno scontro tra mere opinioni; finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili.

Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di Hayek 90enne. Viveva a Freiburg, nella Germania Ovest, in un appartamento al terzo piano ad Urachstrasse. I due uomini si sedettero in una stanza con le finestre che guardavano sulle montagne e Hayek, che si stava riprendendo dalla polmonite, mentre parlavano si mise una coperta sulle gambe.

Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes. Thatcher aveva appena scritto a Hayek con un tono di trionfo epocale. Niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Come ha scritto il giornalista, «In particolare, Hayek vede un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni. Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere ».

Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali. Viviamo in un paradiso costruito dalla sua Grande Idea. Più il mondo può essere fatto assomigliare ad un mercato ideale governato solo dalla libera concorrenza, più il comportamento umano diviene complessivamente “ordinato” e “scientifico”. Ogni giorno noi stessi – nessuno deve più dircelo! – ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi; e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo.

Ciò che è iniziato come una nuova forma di autorità intellettuale, radicata in una visione del mondo onestamente apolitica, si è facilmente trasformata in una politica ultra-reazionaria. Quello che non può essere quantificato non deve essere reale, dice l’economista, e come misurare i principali benefici dell’illuminazione – vale a dire, il ragionamento critico, l’autonomia personale e l’autogoverno democratico? Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire.

L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia. Molto tempo prima che l’amministrazione di Trump cominciasse a squalificarle, queste figure erano state private di rilevanza da uno schema esplicativo che non può spiegarle. Certamente c’è una connessione tra la loro crescente irrilevanza e l’elezione di Trump, una creatura di puro capriccio, un uomo senza principi o convinzioni che lo possano rendere una persona coerente. Un uomo senza mente, che rappresenta la totale assenza della ragione, sta governando il mondo; o portandolo alla rovina. Come una vera agenzia immobiliare di Manhattan, però, Trump, ehi – sa quel che sa: che i suoi peccati devono ancora essere puniti dal mercato.

il Fatto quotidiano

Se l’uomo smette di pensare – e gli indizi ci sono tutti, perché il pensiero è altra cosa rispetto alla banale opinione da talk show, il pensiero è concetto, visione – il caos prevale sul logos, cioè l’armonia relazionale, “il principio costitutivo del reale”.

A quel punto è la fine, professore Mancuso.
«Sì, il mondo può fallire. Pensi alle future guerre, alle bombe atomiche, all’inquinamento, alla lotta per l’acqua. Cosa accadrà tra cent’anni?»

Potrebbe vincere il caos.«Vincerebbe e sarebbe il ritorno all’inizio indifferenziato del grande vuoto. Anche per questo la mia fede è filosofica».

Non formano un ossimoro, fede e filosofia. Da Kant a Bobbio, come lei ricorda, il mistero della vita continua ad attanagliare tante menti non credenti.«La mia fede filosofica non è teismo, che presuppone Dio separato dal mondo, né panteismo, che pensa il contrario. È il mistero dell’essere e dell’aldilà. Abbiamo a che fare con un mondo che sale, tutte le immagini portano scritto “più in là”, per citare Montale. Il regno è qui ma anche di là, dentro di me e nei cieli. Il mistero non può essere posto in laboratorio, lo ammettono anche eminenti scienziati».

Vito Mancuso è uno dei più insigni teologi e filosofi del nostro Paese. Nel suo ultimo libro, Il bisogno di pensare, elabora la formula del suo “sapere fondamentale”: Logos + Caos = Pathos. E se la ragione non resta zitella e si converte all’ottimismo, ecco che ritorna il primato del bene e anche quello dell’etica e della giustizia. È un libro che costruisce speranza e amore, questo di Mancuso.

Oggi prevale il primato dell’io. Egoismo e individualismo.«È la detronizzazione di Dio per l’intronizzazione dell’io. L’io è Dio che perde la “d” iniziale, il desiderio diventa un lupo universale».

Shakespeare, che lei cita tre volte.«L’opera è Troilo e Cressida: il desiderio, lupo universale, farà dell’intero universo la sua preda per poi, alla fine divorare se stesso».

Siamo un mondo senz’anima.«Il malessere che avvolge l’anima riguarda l’economia, la finanza vorace, la politica. Il primato del bene, che ci ha accompagnato per secoli, comportava etica e giustizia».

Lei accosta alla volontà di potenza di Nietzsche il capitalismo di oggi.«Basta guardare le multinazionali. È la modalità con cui il capitalismo schiaccia tutto. Però mi faccia dire che io non auspico un’uscita dal libero mercato, quando ci hanno provato sappiamo com’è finita. Mi auguro delle correzioni. Stasera (ieri per chi legge, ndr) per esempio andrò a Conegliano Veneto».

Nel cuore produttivo del Nord-est.«Si festeggiano i dieci anni di una fondazione di imprenditori che si sono messi insieme con l’idea di restituire quanto hanno ricevuto dal territorio».

Anima e concretezza.«In questi anni hanno raccolto un milione di euro, che hanno destinato a vari investimenti. È il valore sociale dell’impresa, la ricerca della famosa terza via tra capitalismo liberista e comunismo.

Come si chiedeva Kant: “Cosa posso sperare?”. È una domanda etica. Altrimenti ci sono il nulla e il nichilismo.«Nel primato dell’io non c’è niente di etico. E questo clima culturale che viviamo non porta a un nulla metafisico, che magari può avere un senso eroico. Siamo al nichilismo casalingo, al nulla di bottega del particulare».

Specialità in cui noi italiani siamo bravissimi
.«Non a caso ho detto particulare. Ma sia Guicciardini sia Machiavelli vivevano in un tempo che rimandava a una religione. I sacri ideali dell’umanità non si erano consumati».

È l’aspirazione all’unità dell’uomo. Guai però, lei scrive, ai dogmatismi, sia metafisici, sia materialisti.«Prenda il fascino che l’integralismo islamico o certi movimenti cattolici esercitano su tante giovani coscienze. Giovani che sentono un grande senso di unificazione, che però porta alla contrapposizione, all’ostilità e alla chiusura. È la solita questione».

Logos e caos.«Cosa vuol dire pensare? Vuol dire pesare, ponderare. La mente è come una bilancia, bisogna cercare il punto di equilibrio. Se la religione è troppo forte viene meno l’autonomia del singolo».

Dialogo non chiusura. «Più si esercita il dialogo più si genera la pace. Il fenomeno vero primordiale è la presenza della vita. Il caos è l’antitesi, un negativo che può essere tale perché c’è il logos.

L’ottimismo della ragione che ci avvicina al mistero dell’universo.«È il mistero che non comprendiamo e che va al di là della ragione. Vale per Platone, Heidegger, Kant, Einstein».

Per andare in profondità c’è bisogno di silenzio: altra condizione perduta.«Cerco di essere concreto: oggi nella vita di ciascuno c’è un gigantesco chiacchiericcio. È questa connessione cui tutti siamo esposti».

Il nostro destino tecnologico.«È la grande minaccia di questo tempo, oltre ai fanatismi politici e religiosi che ci sono sempre stati. Quella che ci impedisce di rimanere in silenzio».

Lo smartphone peggio dell’Isis.«È una dittatura che può farci perdere la capacità creativa, capace solo di farci avere delle re-azioni. È un pericolo nuovo e pervasivo».

Left

La storia inizia con gli accordi di Sykes-Picot, quando le due grandi potenze coloniali dell’epoca (inizi del Novecento) ridisegnarono sulla carta geografica il nuovo Medio Oriente, inventando Stati senza una propria identità nazionale, cancellando, prima con un tratto di penna e poi con le armi, comunità intere.

Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Algeria, Congo, Mozambico, Angola… È il passato che non passa, sono ferite che non si rimarginano. In periodi storici diversi, sotto regimi diversi, ma con la stessa, lunga scia di sangue. E con una verità che si vorrebbe cancellare. Una verità scomoda. Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, così come Austria, Gran Bretagna, Germania: nel continente Africano, i colonialismi europei si sono spessi trasformati in terrorismo di Stato. Non è solo la storia di Paesi saccheggiati, di popoli sottomessi a forza, di ricchezze naturali depredate da multinazionali onnivore che mantenevano dittatori sanguinari. Questo è il colonialismo “classico”. Ma quello che si vorrebbe cancellare, seppellire nel dimenticatoio, è il terrorismo di Stato: sono le stragi di civili, le città e i villaggi dati alle fiamme, le popolazioni deportate, le fosse comuni, le pulizie etniche.

Un passato che chiama pesantemente in causa l’Italia. Altro che “italiani brava gente”. Angelo Del Boca, il più autorevole storico italiano del colonialismo fascista nel Nord Africa, ha dedicato anni di ricerche e diversi saggi per dimostrare i crimini di guerra e contro l’umanità che le truppe italiane commisero in Libia, Etiopia, Eritrea… Somalia. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e torturate, teste mozzate portate in giro come trofei; torture anche su bambini e vecchi. Racconti documentati di massacri di massa, di uso sistematico dei gas contro la popolazione civile, di lager che nulla avevano ache “invidiare” a quelli nazisti. Il colonialismo italiano è stato brutale, selvaggio, e dietro di sé ha lasciato solo rovine e una memoria che il tempo, non solo in Libia, non ha cancellato. L’Italia ha tutto distrutto e nulla realizzato. A differenza di Francia e Gran Bretagna, rimarca in proposito Del Boca, che nei domini coloniali hanno formato una classe dirigente autoctona, l’Italia neanche questo ha fatto, impedendo anche l’istruzione, percepita come una minaccia.

Sono trascorsi quasi 80 anni da allora, ma la logica colonialista non è cambiata. Il terrorismo di Stato non viene più praticato direttamente ma per interposto regime. Cos’altro è il sostegno italiano alle milizie che in Libia si sono riciclate in guardiane dei lager nei quali vengono segregati e sottoposti alle più abominevoli torture, migliaia di migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica, spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, sostenuta, armata e addestrata dall’Italia? E cos’altro è, se non terrorismo di Stato per interposta persona, quello che si cela dietro all’appoggio dell’Italia, e dell’Europa, ad uno dei più brutali regimi africani: quello dell’Eritrea? Oggi come ieri, la diplomazia dei diritti non ha spazio nelle politiche neocoloniali dell’Europa: l’importante, l’imperativo categorico, è impedire una (inesistente) invasione di rifugiati e migranti dai Sud del mondo. Per ottenere questo risultato, le democrazie europee chiudono gli occhi e mettono mano ai portafogli, per arricchire i “Gendarmi” delle frontiere esterne: gli Erdogan, gli al-Sisi, i signori della guerra libici, i dittatori che spadroneggiano in Eritrea, Corno d’Africa, Sudan, Niger, Nigeria…

L’Italia non è stata la sola a praticare il terrorismo di Stato nel Vicino Oriente e in Africa. Vi sono pagine di vergogna, impastata di sangue, scritte da regni e democrazie europei che hanno depredato Paesi interi, massacrato popolazioni indigene, depredato le ricchezze naturali, sfruttato a livello di schiavitù anche i bambini. È la storia del colonialismo belga – nel Congo – di quello portoghese – in Mozambico e Angola – e poi della Francia, della Gran Bretagna, della Germania. Queste ferite sono ancora aperte. Perché hanno significato la morte di decine di milioni di persone, la negazione dei più elementari diritti umani ad altrettante. Ha significato schiavitù sessuale, fosse comuni, crimini che oggi la “civile” Europa imputa ai nazi-islamisti di Daesh. Senza memoria, non c’è futuro. E coltivare la memoria di un colonialismo “terrorista” significa non solo non mantenere viva una verità storica ma anche ragionare sui guasti del presente e su scelte rivelatesi scellerate. «L’Italia – dice a Left Angelo Del Boca – sembra aver rimosso non solo il passato coloniale del Ventennio fascista, con tutta la brutalità che l’ha caratterizzato, ma con le scelte compiute nel presente dimentica anche cosa abbia voluto dire aver fatto parte dei Paesi europei che nel 2011 hanno portato guerra e distruzione in Libia, usando strumentalmente il tema dei diritti umani, per eliminare un testimone scomodo, Muammar Gheddafi, con il quale mezza Europa, tra cui l’Italia, aveva fatto affari, e, per quanto riguarda Gran Bretagna e Francia, per scalzare l’Eni nella sua posizione petrolifera dominante. Le conseguenze di quella scellerata guerra – conclude Del Boca – sono, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Il problema è che chi governa, quegli occhi li vuol tenere chiusi».

Un atteggiamento complice che l’Italia condivide con l’Europa. L’Europa che ha scelto di pagare raìs, generali, autocratici per fare il lavoro sporco. Che erige muri e militarizza frontiere per ricacciare indietro milioni di persone che fuggono da guerre, disastri ambientali, sfruttamento inumano di multinazionali onnivore, che sono, spesso, il frutto delle scelte europee o occidentali. È la democrazia imposta dall’esterno in Iraq, che ha liquidato Saddam Hussein consegnando il Paese ad al-Qaeda e alla dittatura sciita. È lo “scontro di civiltà” che ha ideologicamente supportato le guerre contro il terrorismo nel Grande Medio Oriente; guerre che invece di stabilizzare e pacificare, hanno destabilizzato e portato al potere tanti Pinochet mediorientali o africani. Uno per tutti: Abdel Fattah al-Sisi. È la doppia morale di chi si batte contro l’Isis, salvo poi fare affari con lo “Stato islamico” veramente realizzato: l’Arabia Saudita. Ieri era terrorismo di Stato colonialista. Oggi è usare la lotta al terrorismo jihadista per continuare a sfruttare popoli, alimentando guerre per procura. È il terrorismo di Stato del Terzo millennio. E l’Europa ne è parte attiva.

il manifesto, 18 ottobre 2017. Un intervento del nostro opinionista nel dibattito sulla sinistra. Per un disguido ci è giunto in ritardo, ma il suo interesse ci sembra immutato

E’ ormai evidente, uno spettro si aggira per i cieli della politica italiana e minaccia la nostra prospera democrazia: la Cosa Rossa. Nessuno sa precisamente che cosa sia, ma assume già caratteri inquietanti. Giuliano Pisapia, che non è ancora riuscito a trovare «la formula che mondi possa aprirci», la indica ormai montalianamente come «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», una deriva minoritaria da scansare come la peste. Il giornalismo politico, che spesso va in cerca di sigle semplici, da qualche tempo la considera come l’indistinto coacervo dell’estremismo italiano. Fabrizio D’Esposito, ad esempio, riferisce « dell’inclinazione massimalista a fare una Cosa Rossa» a sinistra del Partito Democratico. (La corsa a contendersi il mito dell’Ulivo, Il Fatto quotidiano, 10 novembre 2017), contrapposta a «una spinta riformista». Ma pare che la paura per l’indistinta creatura dilaghi anche tra le più alte cariche dello Stato. Circola voce secondo cui la presidente della Camera, Laura Boldrini, «appare lontanissima dalla “Cosa rossa” » (Daniela Preziosi, "MdP-SI verso l’accordo", , 10/10/ 2017). Destino delle parole. E pensare che il termine, il terribile sintagma, apparso lo scorso anno sulle cronache politiche di tutta la stampa italiana, era stato coniato per designare qualcosa di nuovo che stava nascendo a sinistra del PD. Ma destino anche della vita politica di questo davvero malmesso Paese.

Per mesi a sinistra (come del resto a destra, ma forse meno) non si è dibattuto che di posizionamenti, di qua o di là, di leader, questo o quello, di partecipazioni consentite e vietate, tu si tu no, e mai un ragionamento programmatico, una indicazione di contenuto strategico che illuminasse la scena della depressa vicenda politica nostrana. Appena si fa un accenno ai contenuti si ricorre a formulette di pronto uso. Ma in questo caso la semplificazione non è innocente. La Cosa Rossa sta diventando un dispositivo ideologico per bollare con il marchio infamante dell’estremismo, del minoritarismo, del velleitarismo, del massimalismo (altri ismi si aggiungeranno a breve) le uniche forze politiche realmente ispirate da un progetto riformatore. E’ davvero singolare vedere bollati Sinistra Italiana, Possibile, il movimento civico di Tomaso Montanari e Anna Falcone come esponenti di un progetto estremista.

Qualcuno ha avuto la pazienza di leggere la Piattaforma programmatica di Sinistra Italiana, che ha celebrato il suo congresso fondativo nel febbraio di quest’anno? Qualcuno ha trovato velleitarismi eversivi nel discorso di apertura di Montanari al Brancaccio, un esponente che vuole fare dell’applicazione della nostra Costituzione l’asse di un programma strategico? Saremmo al ridicolo, se non fossimo al tragico, alle ulteriori prove di una degradazione culturale della politica nazionale che non sembra conoscere confini. La difesa e l’applicazione della Costituzione diventano programmi eversivi, nonostante il 60% degli elettori italiani abbiano da poco votato per la sua intangibilità.

Ma sotto l’immiserimento colturale o, meglio, di conserva con esso, si cela una trama di pratiche politiche oggi dominante nel fronte che si definisce riformista. La sinistra diventa una Cosa Rossa innominabile e infrequentabile perché impedirebbe le necessarie alleanze con le pattuglie parlamentari del trasformismo militante degli Alfano o dei Lupi, e di qualunque altro transfuga si presti alla bisogna. L’intransigenza politica e morale diventa così settarismo, impedisce elasticità di manovra, flessibilità e adattabilità nelle alleanze. Per alcuni esponenti di MDP e per tanti di Campo progressista, infatti, il riformismo che conta è quello che si fa dai banchi del governo, con buoni piazzamenti negli scranni del Parlamento, e consistente nella realizzazione di “quel che si può”, senza rischiare troppo, tenendo nel debito conto gli equilibri dominanti. Primum vivere.. E’ tale riformismo, indistinguibile da quello del centro-destra, che ha ispirato negli ultimi anni le magnifiche sorti e progressive dell’Italia di oggi.

il manifesto,

«Nel suo discorso del 10 ottobre, Puigdemont ha fatto un mezzo passo indietro. Darebbe prova di responsabilità Rajoy se facesse altrettanto. Dubito che lo faccia, ma sarei felice di sbagliare». A parlare è Alfonso Botti, storico, ispanista e firma nota ai lettori del manifesto. Docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è condirettore della rivista «Spagna contemporanea» e dal 2015 di «Modernism».

Si è occupato di nazionalismi e del rapporto tra cattolicesimo e modernità tra Otto e Novecento – Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, 1881-1975 (1992), La questione basca (2003), Storia della Spagna democratica (2006) con C. Adagio – facendo alcune incursioni nella storia politica spagnola più recente: Politics and Society in Contemporary Spain. From Zapatero to Rajoy (2013), curato con B.N. Field. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a dare una profondità storica a quanto sta accadendo oggi in Catalogna.

Partiamo dalla storia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna e i Paesi baschi ottennero i loro primi Statuti di autonomia in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che spazzò via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Come è cambiata la questione dei nazionalismi periferici nel corso del Novecento?

«Vedo due costanti nell’evoluzione storica dei due nazionalismi: emergono (e riemergono) in concomitanza delle crisi economiche e si radicalizzano ogni qualvolta Madrid li reprime o respinge richieste di maggiore autonomia. Più forte dell’esplicita richiesta d’indipendenza è sempre stata la domanda di sovranità, cioè del diritto di decidere. Il quale, certo, è stato anche un’eufemistica copertura delle reali aspirazioni, ma lasciava aperta la strada a soluzioni di tipo federale. Aggiungo che non bisogna dimenticare che la Spagna (insieme al Portogallo) è l’unico paese europeo nel quale non sono sorti movimenti xenofobi e populisti di destra. Forse anche perché la presenza dei nazionalismi catalano e basco, entrambi fortemente europeisti, ha agito da deterrente».

Quali sono state le trasformazioni nella composizione politica e sociale del movimento indipendentista catalano?

»A differenza di quello basco (che nacque cattolico integralista e si democratizzò dalla metà degli anni Trenta), il nazionalismo catalano è stato ideologicamente più articolato e punto di confluenza di repubblicani, federalisti, moderati, cattolici democratici e conservatori. Storicamente vi si avverte l’egemonia di una parte della borghesia catalana, con innervature popolari. La novità degli ultimi anni è la forte presenza giovanile, per la quale – sintetizzando – direi che la nazione ha funto da rifugio alla crisi dei progetti fondati sulla classe».

Si può parlare anche di una ripresa di un «nazionalismo spagnolo»? In che modo le vicende catalane degli ultimi anni hanno modificato l’identità nazionale a pochi anni dal lancio del progetto di Zapatero di una «Spagna plurale»?
«Dietro il «patriottismo della Costituzione» ha senz’altro ripreso vigore il vecchio nazionalismo spagnolo, che tuttavia in questo modo sembra prendere le distanze dalla visione centralista tipica della destra spagnola. Con Zapatero era riaffiorata una sensibilità storicamente presente nella tradizione socialista: quella disponibile a discutere un nuovo modello di paese, fondato su una pluralità di nazioni e magari su un federalismo asimmetrico. Problema complesso e di difficile soluzione, ma che almeno Zapatero aveva colto come urgente, facendo sì che il nuovo Statuto catalano, che conteneva la controversa definizione della Catalogna come nazione, fosse approvato dalle Cortes nel 2006. I popolari di Rajoy ricorsero al Tribunale costituzionale, con le conseguenze che ora abbiamo davanti agli occhi.
Centinaia di sacerdoti catalani si sono schierati a favore del referendum, i loro vescovi hanno invitato al dialogo».

Come interpretare il ruolo della Chiesa spagnola in questa fase e anche in relazione alla sua storia?
«Sulla questione nazionale la faglia che divide la società spagnola e catalana attraversa anche la Chiesa da oltre un secolo. Negli ultimi mesi ho studiato sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano l’atteggiamento della S. Sede di fronte ai nazionalismi catalano e basco, costantemente alla ricerca di quella legittimazione che da Roma non ebbero mai. Anzi, la S. Sede stigmatizzò a più riprese il clero nazionalista perché faceva politica, come se quello spagnolista non facesse altrettanto».

La linea di Podemos e quella dei socialisti. Quale percorso alle spalle? E oggi in che modo l’esplosione della questione indipendentista interroga questi due soggetti e, più in generale, le diverse sinistre spagnole?

«Durante la lotta antifranchista socialisti e comunisti sostennero il principio dell’autodeterminazione di catalani e baschi. Morto Franco, cambiarono bruscamente posizione e con la Costituzione del 1978 pensarono di aver trovato la quadratura del cerchio. Podemos e l’area post-comunista si collocano nel solco di quella tradizione, il PSOE forse vorrebbe, ma non può. La vecchia guardia dei Felipe González, Alfonso Guerra e il socialismo andaluso di Susana Díaz tengono in ostaggio Pedro Sánchez. Voglio essere chiaro: a mio avviso non è di sinistra essere nazionalisti, mettere mano alla Costituzione sì».

Quali sarebbero le conseguenze di una secessione per i settori sociali subalterni?

«Le classi popolari hanno pagato i tagli alla spesa pubblica voluti da Artur Mas. Per questo la CUP ha imposto la sua sostituzione alla guida della Generalitat. L’indipendentismo catalano nasconde le proprie profonde divisioni dietro la bandiera della secessione, ma disegnando uno scenario del tutto virtuale non potrebbe governare una Catalogna indipendente. La CUP pensa che l’indipendenza favorirà i lavoratori. Fa venire in mente quel socialismo che nel 1914 pensò che la guerra avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione in Europa. Sappiamo tutti cosa venne dopo».

C’è chi ha osservato che non è più possibile contestare il governo centrale senza essere etichettati come indipendentisti e viceversa per quanto riguarda le critiche all’indipendentismo. Quali conseguenze hanno avuto le vicende degli ultimi mesi sulla tenuta del sistema democratico? Si può parlare di un pericolo di “semplificazione” del dibattito politico spagnolo?

«Siamo di fronte alla più grave crisi istituzionale, politica e sociale dal ritorno della democrazia in Spagna. L’attuale polarizzazione delle posizioni cancella le sfumature e con esse la politica nella sua accezione più alta. Lo avverto nelle posizioni dei tanti amici e colleghi catalani e spagnoli con i quali sono in contatto quotidiano. C’è solo da sperare che il sussulto di sensatezza che ha attraversato nei giorni scorsi la Spagna all’insegna del parlem si estenda. Le centinaia di migliaia di catalani andati alle urne configurano un fenomeno di disubbedienza civile, pacifica e di massa che un governo democratico dovrebbe saper leggere e considerare come problema politico a cui dare risposta».

Micromega



“Va costruita una via italiana per una nuova sinistra che abbia come pilastro il protagonismo dei cittadini”. I modelli da seguire? “Corbyn e Podemos sono le due esperienze che guardo con maggiore interesse”. Anna Falcone, avvocato cassazionista e combattiva leader dell'Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza, sta provando insieme a Tomaso Montanari a creare per le prossime politiche del 2018 una lista unitaria di sinistra, ma con facce e schemi rinnovati: “Gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti, la chiave del cambiamento sta nella partecipazione”.

Anna Falcone, il momento è veramente ora? Esiste lo spazio politico per un soggetto a sinistra del Pd?
«Il momento era buono già dopo la vittoria del 4 dicembre. Ma non è troppo tardi, siamo ancora in tempo: con il voto referendario – che ha rispedito al mittente la riforma costituzionale ispirata al modello dell’“uomo solo al comando” – è maturata nel Paese la consapevolezza che esiste un’alternativa possibile a quelle politiche neoliberiste di precarizzazione del lavoro, mercificazione dei diritti e cancellazione dello Stato sociale che hanno attraversato gli ultimi governi. E c’è un popolo vastissimo pronto a sostenere una forza politica che se ne faccia interprete. A condizione di segnare una netta rottura con il passato, di ridare protagonismo alla partecipazione dei cittadini, di rivendicare senza compromessi i diritti che ci sono stati tolti per costruire una società più giusta, inclusiva e realmente fondata sul riconoscimento dei talenti e sulla solidarietà sociale».

Lo scorso 18 giugno, al Teatro Brancaccio di Roma, è nata l'“Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza”, un nuovo soggetto che mira a rilanciare la Sinistra nel Paese attraverso il protagonismo dei cittadini. A quasi 4 mesi da quell'esordio, qual è la situazione?

«Più che un nuovo soggetto, direi un percorso democratico che mira a creare uno spazio aperto ai singoli cittadini, alle forze civiche e politiche, alle realtà sociali che vogliono impegnarsi in un percorso di costruzione della “Sinistra che non c’è ancora”. Non è un tentativo di mettere insieme i cocci del vecchio ceto politico, ma di costruire, anche in Italia, una forza capace di interpretare la voglia di partecipazione, di riscatto. Gli obiettivi sono da un lato creare un fronte unito e plurale in grado di contrastare le riforme dettate da un turbocapitalismo rapace a governi deboli e forze politiche autoreferenziali; dall'altro dar vita, in prospettiva, anche in Italia, a una forza politica capace di invertire la rotta di un modello di sviluppo fondato sulla cancellazione dei diritti e sullo sfruttamento cieco e dissennato dell’ambiente, territorio, delle risorse artistiche e culturali del Paese».

Cosa ne pensa della nuova legge elettorale in discussione? Siamo ad una nuova legge truffa?
«È il vergognoso prodotto di una maggioranza eletta con una legge incostituzionale, che – avendo fallito con l’Italicum l’obiettivo di tornare a blindare candidature, eletti e composizione del Parlamento – ricorre oggi a un accordo con i partiti di destra, con cui mira a governare per reiterare le politiche neoliberiste di cui entrambi sono stati promotori. Lo scopo non è dare una legge elettorale più giusta al Paese (il Consultellum con soglie equiparate fra Camera e Senato sarebbe stato più che sufficiente), ma favorire un governo di larghe intese PD-Destre, impedire agli italiani di scegliere candidati ed eletti, mortificare i partiti di opposizione, Sinistra e M5S. Il dramma è che, nella preoccupazione di mantenere ben saldo il potere nelle loro mani, hanno ulteriormente minato la fiducia dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni. Insomma, le forze della futura “santa alleanza” che si presenta come l’unica alternativa possibile (sempre l’unica eh!) per salvare il Paese dai “populismi” è la prima vera causa della fuga dalle urne e del rifugio nel voto di protesta e di rottura».

So che lei è intenta a costruire la Sinistra dai territori ma come giudica la rottura tra Giuliano Pisapia e Mdp-Articolo 1? Pisapia andrà con Renzi ed Mdp si metterà a servizio per la costruzione del Quarto Polo?

«Pisapia ha un progetto diverso da quello del popolo di Mdp: lui vuole ricostruire il centro-sinistra (che non c’è più) anche con Renzi. La sinistra del Pd che, dopo un lungo travaglio, è andata via dal Partito democratico, perché non si riconosce più nei suoi metodi e nelle sue politiche, vuole costruire un progetto autonomo fondato sul rilancio dei diritti e, giustamente, incompatibile con Renzi. Non è solo una questione di “geometrie politiche”, ma di credibilità. Non so dove andrà Pisapia, ma gli iscritti di Mdp partecipano già alle nostre riunioni sul programma, insieme a molti elettori delusi del Pd, e c’è un dialogo aperto per costruire un Polo civico e di Sinistra».

In realtà Massimo D'Alema ha ripetuto più volte che vuole ricostruire il centrosinistra ma che ciò richiede una discontinuità di contenuti e di leadership. Anche Anna Falcone vuole ricostruire il centrosinistra senza Renzi? Siete in sintonia?

«D’Alema ha compreso con grande lucidità, e prima di altri, che quello che manca al Paese è una grande forza politica che torni a rappresentare i diritti e le ragioni del lavoro, dei giovani senza futuro, della vecchia classe media che non esiste più, che è molto più a sinistra di noi e che non vota, né voterebbe mai questo Pd. Noi lo sosteniamo fin dall’inizio: quello da riconquistare non è un partito che è stato scippato di mano, e non ci interessano i regolamenti di conti fra vecchia e nuova dirigenza, ma un elettorato enorme e disperso che si astiene o che si rifugia nel voto di protesta. Un popolo che vorrebbe contribuire a un progetto più grande, che ambisca a costruire un futuro alternativo per questo Paese. Per farlo non bisogna stringere accordi con Renzi: il suo modello sociale lo abbiamo sotto gli occhi ed è incompatibile con questo progetto. Non bisogna insistere in politiche di compromesso, altrimenti vince la destra. Per essere coerenti con la costruzione di questo spazio politico nuovo e conseguenti con questi obiettivi occorre riconnettersi con un popolo senza guida e senza rappresentanza, un popolo vivo – e l’abbiamo visto il 4 dicembre – che freme per tornare a contare, a sognare, a costruire insieme un mondo migliore».

Ma riuscirete a fare un Quarto polo che andrà da Mdp a voi del Brancaccio passando per Sinistra Italiana, Possibile e Rifondazione? Una sola lista di sinistra, è questo l'intento? Lavora per questo?

«Una sola lista civica e di Sinistra, lo abbiamo detto nel nostro appello e lo ribadiamo. Ci sono tutti i presupposti e sono fiduciosa. La sfida non è solo la lista, ma costruire, anche in Italia, la via per la nuova Sinistra, una forza partecipata, innovativa e lungimirante, che possa imprimere alla politica quella svolta prodotta da Podemos in Spagna e da Corbyn nel Regno Unito. Solo per citare due esempi che, uniti a quello francese, dimostrano come la Sinistra vince solo se unita e se torna a fare la sinistra, a lottare per i diritti e su proposte concrete e alternative, con coraggio e senza compromessi».

Se alla fine andrete divisi – serpeggia malumore per l'alleanza con D'Alema e Bersani - non sarà impossibile raggiungere la soglia per entrare in Parlamento?

«Confido nel senso di responsabilità di tutti: la posta in gioco è molto alta ed è più importante degli interessi dei singoli pezzi e leader. Non abbiamo paura di sparire, ma di avere un Parlamento con tre diverse destre e un popolo fuori non rappresentato».

Ultima cosa, fondamentale: non teme che finirà con la solita sommatoria dei ceti politici simil Arcolabeno o Lista Ingroia? Perché questa volta dovrebbe essere diverso che in passato?
«Perché gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti e anche loro hanno imparato che non ci sono leader salvifici che possano risolvere da soli i problemi di tanti. La chiave del cambiamento sta nella partecipazione. Una consapevolezza ormai chiara anche nei leader degli attuali partiti di sinistra: quando il futuro arriva, sopravvive solo chi sa interpretarlo. Questa è la stagione del coraggio: più ne avremo, più gli elettori ci premieranno».
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