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Rimane sempre la Lorella Cuccarini del governo, il più amato dagli italiani, ma da oggi è anche “Mr. Brooklyn, gusto lungo”. Perché Renato Brunetta, ospite al forum de l’Unità, è “un riformista determinato di lunga lena” che non molla. “Un vero socialista”, “più bravo di Tremonti”, meno accomodante di Sacconi, “non porto a cena i sindacalisti”. Uno che “non festeggerà il 25 aprile”, ricorrenza “egemonizzata”, con una grande idea in testa, “quella di vendere le ex case Iacp” e creare altri “2 milioni di nuovi proprietari”, e un’ossessione “la lotta al comunismo” e di riflesso alla Cgil “il sindacato che ormai è un partito”.

Per questa ragione, per dare una risposta “all’architettura di stampo comunista” che secondo Brunetta ha pervaso l'amministrazione e l’urbanistica italiana nei decenni scorsi, il ministro ha difeso con forza il decreto legge che il governo è pronto a varare. Nonostante il “piano casa” violi intimamente la cultura delle regole e sia una sorta di condono preventivo il ministro lo considera “una scommessa”. “Io parto da un dato di fatto: la cultura delle regole ha prodotto l’abusivismo. Questo paese è un paese cattolico e ipocrita. Che si rifà a vincoli e piani regolatori per poi disattenderli. Si chiama azzardo morale. Si sottoscrivono patti sapendo di volerli rispettare”. Meglio allora il “fai da te”.

Accanto a questo Brunetta ha anche un suo piano edilizio. Vendere le case ex Iacp. Che sono un milione. Alle quali potrebbe aggiungersi un altro milione di proprietà dei comuni. “Avremmo così 2 milioni di nuovi piccoli proprietari”. La vendita è a un prezzo capitalizzato d’affitto. Circa 30mila euro, il calcolo è del Sole 24 Ore, ad alloggio. Un affare. “Se la comprano subito tutti” ha detto il ministro, anche “i fricchettoni” che “se la comprano e poi se la possono anche fumare”. I soldi esistono. E anche se la case sono per la maggior parte abitate da anziani “questi hanno i figli”. Lo stato incasserebbe 20 miliardi.

Questa è la scommessa di Brunetta. Ministro molto sicuro (ha già in testa un’autobiografia). “Ho il 70-80% del consenso rispetto alle cose che faccio”. Come la riforma della pubblica amministrazione. “Per strada mi fermano gli insegnanti e mi ringraziano”. Non tutti però. E quelli che lo criticano sono “insegnanti comunisti”.

Chi non gli crede lo vedrà presto: l’11 maggio, nel Forum della pubblica amministrazione, il ministro presenterà i suoi risultati. Forse avrà anche la completa mappatura dei precari (circa 40mila, 10-12 mila dei quali saranno assunti) nel pubblico impiego. Sul quale Brunetta annuncia “sorprese” per il suo collega Raffaele Lombardo: “La metà dei precari italiani è in Sicilia...”.

E a proposito di scuola il ministro ha anche detto che non chiederà scusa ai studenti dell’Onda: “Neanche morto”. Nonostante da giovane anche lui abbia manifestato, “ma solo contro i brigatisti”. Nonostante abbia fatto parte della Cgil, “mi ha iscritto una ragazza di Padova, una terrorista, che non so che fine abbia fatto”. “Da buon socialista sono anti comunista e quindi anche contro la Cgil”. Anche se l’attuale segretario, Guglielmo Epifani, è socialista. “Era socialista. I veri socialisti ora sono con Berlusconi”.

Il premier? “Che piaccia o no è un vero leader”. Uno che ha salvato l’Italia “dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto”, che “ha salvato la democrazia in Italia”. “Un leader di rango” che non ha mai detto di essere antifascista , “ma io lo sono”, che non festeggia il 25 aprile. “E fa bene. E’ un festa egemonizzata”. Dai comunisti, si intende.

Corriere della Sera
«Sento vecchi slogan, sciocco demonizzare»
Marco Nese intervista Carlo Ripa di Meana

ROMA - «Sono pigri. Andrebbero puniti per la loro superficialità». Con chi ce l'ha Carlo Ripa di Meana, presidente della sezione romana di Italia Nostra?

«Ce l'ho con quelli di Legambiente. Berlusconi ha solo annunciato un piano casa. I contenuti non li conosciamo ancora. Ma loro già proclamano l'Apocalisse. Si calmino. Valutino ogni aspetto con serietà, riflettano bene. Se poi trovano qualcosa di poco convincente la contrastino con argomenti ragionevoli per farla modificare ».

Parlano di «mani sulla città». Temono la devastazione.

«Non hanno l'umiltà di esaminare prima il piano quando sarà reso noto nei dettagli. Pigramente sfoderano vecchi slogan e chiamano alla mobilitazione. Non rendono un buon servizio alla gente. La verità è che ormai rappresentano interessi politici. Leader di Legambiente come Realacci, Della Seta, Ferrante si sono accomodati in Parlamento sotto l'egida Pd».

A proposito di Pd, anche il segretario Franceschini è allarmato: prevede un'Italia cementificata.

«Demonizzare il mattone è sciocco. Scacciare il mattone è ingenuo. L'atteggiamento giusto è quello di stare sempre molto vigili per impedire disastri. La reazione più intelligente mi sembra quella del presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo. Interessante il piano, ha detto, però vediamo se comporta problemi ambientali. Questo è sensato. Assurdo invece parlare solo per pregiudizio politico. Siccome il progetto è targato Berlusconi va respinto per principio ».

L'avrebbero accolto bene se portava la firma di Veltroni?

«Con Veltroni sindaco di Roma, noi di Italia Nostra eravamo ignorati. Gli imprenditori edili facevano ciò che volevano. Durante la campagna elettorale Gianni Alemanno ci promise che se fosse stato eletto avrebbe accolto le nostre richieste. E' stato di parola. Per esempio, ha impedito lo sventramento del Pincio per farne un megaparcheggio. Cosa che Veltroni aveva approvato cedendo alle smanie dei costruttori e di quelli che io chiamo i garagisti».

Lei crede che l'edilizia possa rilanciare l'economia?

«La casa è un problema al quale la gente è molto sensibile. Non possiamo dire sempre no. E' anche una questione di sintonia con l'Italia reale. Dobbiamo solo stare attenti che non si faccia un uso fraudolento delle licenze e non si commettano scempi. A questo proposito, ritengo che anche il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi abbia il diritto di intervenire per mettere dei limiti precisi. Non condivido invece ciò che dice Bossi».

Cosa dice Bossi?

«Teme che le nuove case vadano agli immigrati. Ma visto che arrivano, anche su richiesta degli industriali, è meglio se abitano in case che nelle baracche sotto i ponti. Mi viene in mente il piano Fanfani. Era il tempo in cui gli italiani lasciavano le campagne e affluivano verso le città. Per loro Fanfani lanciò un grande piano di edilizia popolare».

Spuntarono borgate fatte di casermoni.

«Hanno le loro magagne, chi lo nega? Però ai grandi criticoni dell'edilizia non vanno bene neanche le villette a schiera. Fanno la guerra a villettopoli. Invece sono una forma di residenza più esigente, non possiamo biasimare le famiglie che fuggono dai condomini per vivere in modo più umano».

il Giornale

Il cemento del NO

di Mario Giordano

Temono la «cementificazione», come dice il leader del Pd Franceschini, sguardo da iena dentro occhi da boyscout, che adesso ha scoperto il nuovo look del maglioncino. La cementificazione? Ma quale cementificazione? Da anni l’unico cemento che soffoca questo Paese è quello dei no: no alla Tav, no alle discariche, no alle centrali, no ai rigassificatori. No ai cantieri. No alle riforme. No al cambiamento. La cementificazione che fa davvero paura è quella delle idee, sono gli encefali a presa lenta, le meningi asfaltate. È questo il cemento che ha bloccato l’Italia. È questo il cemento da cui ci dobbiamo salvare.

Avete notato? Il governo non ha fatto in tempo ad annunciare l’esistenza di un piano per la casa e, ancor prima di conoscerlo nei dettagli, è partita la guerra del no. Alte grida. Lamenti. «Una sciagura che impoverisce il Paese», dice l’urbanista di sinistra. «Un delirio», dice l’architetto di sinistra. «Torna la speculazione anni ’60», sbraitano gli ambientalisti. E poi avanti: «deregulation selvaggia» (la deregulation si sa, è sempre selvaggia. O non è); «proposta indecente»; «casa delle libertà abusive»; «affari per i furbetti»; «condono mascherato»; «scempio», «messaggio devastante per il futuro». Naturalmente, per condire l’orrore, si scomodano Francesco Rosi, «Mani sulla città», Alberto Sordi palazzinaro con annessa locandina di film. Manca solo la copertina del manifesto con un grattacielo che spunta dentro il Colosseo, poi il quadro sarebbe completo. E, intanto, benvenuti nella nuova mansarda costruita al posto della Madonnina...

Assurdo? Macché. Le regioni rosse, tanto per dire, hanno già annunciato che non collaboreranno al rilancio dell’edilizia. Lo boicotteranno. E siccome il piano avrà bisogno, per una parte, dell’appoggio delle regioni, significherà che lo bloccheranno. La lezione di Soru in Sardegna, mandato a casa dagli elettori perché, fermando cantieri e turismo, aveva sclerotizzato l’isola e l’aveva condannata alla povertà, evidentemente non è servita. Così è, anche se non vi pare: c’è un’idea per dare lavoro ai disoccupati e slancio all’economia a costo zero. Ma sembra che non importi a nessuno. Perché non si discute nel merito? Perché non si cerca di migliorarla? Perché si cerca di stroncarla? Perché si parte subito lancia in resta parlando di «interessi illegali» e «scena del delitto», come fa il responsabile Ambiente del Pd Ermete Realacci? Siamo d’accordo o no che questo Paese è bloccato da troppi anni di «non fare»? Siamo d’accordo o no che farlo ripartire ora significa anche rispondere alla crisi? E dare lavoro a imprese e operai? Allora perché questa corsa al no per il no, questi toni apocalittici, questa cementificazione del parencefalo? E quanto dobbiamo aspettare perché Franceschini e Realacci si accorgano che queste posizioni assurde e conservatrici ci fanno perdere contatto con il mondo? Vent’anni, come per il nucleare?

Il Paese oggi si sta dividendo in due. Ma la vera divisione non è fra destra e sinistra, popolari o socialisti, laici o cattolici. La vera divisione è fra chi cerca di disegnare il futuro e, dentro la crisi, cerca soluzioni nuove. E chi rimane ancorato a un passato vecchio e indifendibile, e che mai come oggi appare letale. E per dimostrare che quest’ottusità è un cancro devastante che va oltre il limite dell’antiberlusconismo, basta guardare quello che sta succedendo alla Tod's. Il titolare, Diego Della Valle, che è sempre stato coccolato e riverito nei salotti della sinistra, ha deciso per il secondo anno consecutivo di concedere ai dipendenti un bonus di 1400 euro l’anno, 116 euro mensili. Voi capite: in un momento di crisi, mentre tutti pensano a tagliare e magari a mettere in cassa integrazione, c’è un’azienda che non solo non taglia e non mette in cassa integrazione, ma regala 116 euro mensili a ogni dipendente. Risultato? La Cgil protesta. Si oppone. S’indigna. Motivo: «Non siamo stati consultati». Ma vi sembra possibile? Vi sembra possibile che ci sia qualcuno che antepone, così sfacciatamente, l’antica ideologia all’interesse presente degli operai, le stanche liturgie sindacali agli effetti concreti di una buona decisione?

Dalle regioni rosse alla Cgil, da Epifani a Franceschini: quello che si sta rinsaldando è un nuovo e ottuso asse del no. Ma non dovevano essere riformisti? E che cosa si può riformare riducendosi a spuntoni archeologici, a reperti del mesozoico, a distributori di paure e pasdaran del rifiuto assoluto? Per andare verso il futuro l’Italia ha bisogno di fantasia, coraggio, soluzioni innovative. Ha bisogno di liberarsi dei più oscuri retaggi del passato. La gran parte del Paese è pronta. È pronta a lanciarsi. È pronta a trasformarsi. Che non si faccia sviare da quelli che la vogliono cementificare nell’immobilismo: sono i rappresentanti di un mondo destinato a scomparire. L’unica cosa che riescono a cambiare, in effetti, è il look: si mettono il maglioncino. Ma solo per non far vedere che sono rimasti in mutande.

Porteremo un pezzo di Uffizi nel deserto degli Emirati Arabi, come stanno facendo i francesi col Louvre, ricavandone un miliardo di euro per i prossimi 15 anni. L'idea nasce per caso, durante l'incontro al ministero dell'economia, un tempio dove si fanno piani d'investimento da capogiro e dove tutti gli amministratori e gli imprenditori del mondo vorrebbero essere ricevuti. Bin Saeed Al Mansoori, sceicco, ingegnere, ma soprattutto ministro dell'economia di uno dei pochi paesi del mondo in grado di spendere alla grande nonostante la crisi galoppante, dichiara di volere il meglio In tutti i campi.

Non bada a spese perché pensa a un futuro, ancora lontano, quando il petrolio diminuirà o sarà meno importante di oggi. A Claudio Martini, presidente della Regione, alla guida di una missione che tenta di aprire nuovi mercati, s'illuminano gli occhi. Così rilancia: «Ho visto i progetti per i musei Guggenheim Abu Dhabi e Louvre Abu Dhabi. Ecco, io credo che non sarà impossibile, in un futuro poco lontano, di parlare degli Uffizi di Abu Dhabi, nelle forme che potremo studiare con il governo. Sapete, la Toscana ha quasi il 50% delle opere d'arte del mondo e molte non trovano spazio nei nostri musei che sono strapieni...». Una proposta? Una provocazione? Del resto, anche tempo fa, durante una visita istituzionale in Giappone, lo stesso governatore aveva pensato di portare la Venere del Botticelli a Tokio. Suscitando un vespaio di polemiche. Ma qui, in un emirato che ricava 85 milioni di euro al giorno dal petrolio (sì, avete letto bene...), Martini fa un briefing coi giornalisti per spiegare bene l'idea. Prima racconta che Al Mansoori gli ha rivelato un aneddoto: «E' stato a Firenze, mangiò dal Latini dove quasi gli imposero di mangiare una monumentale bistecca...». Poi il governatore dice: «Non vedo niente di male, in un momento di crisi come questo a usare il nostro patrimonio culturale come veicolo per gli affari. Se l'hanno fatto la fondazione Guggenheim di New York e addirittura il Louvre, non vedo scandali a proporre gli Uffizi».

Nella mente di Martini, che in passato aveva chiesto maggiore autonomia delle Regioni nella tutela e nella gestione dei beni culturali, la lampadina si è accesa, appunto, domenica pomeriggio, durante la visita ai progetti della Saadiyat Island, l'Isola della felicità di Abu Dhabi, dove figurano i plastici del nuovo Guggenheim e del nuovo Louvre. Accanto ai quali c'è un pannello che spiega che gli Emirati Arabi pagheranno al Louvre 525 milioni di dollari per il marchio e 720 milioni di dollari per la concessione di opere in mostra. In tutto circa un miliardo di euro. Contratto per 15 anni. Come potrebbe svilupparsi questa collaborazione fra Abu Dhabi e gli Uffizi? Per far andare avanti l'idea, serve prima di tutto il sì del governo e quindi un tavolo ufficiale fra Roma e Abu Dhabi. Martini è pronto a fere opera di persuasione, sostenendo che l'arte può aprire le porte ai rapporti internazionali e al business. Certo, potrebbe non mancare chi obietterà che è pericoloso «esportare» un pezzo di Uffizi perché chi vuoi vedere la Primavera, la Venere e il Tondo Doni dovrà sempre venire a Firenze. Martini pensa però alle Opere conservate in cantina, a quelle «mai viste», o ancora da restaurare dopo l'alluvione di 43 anni fa. Che potrebbero trovare finanziatori per il restauro. Prima di essere mostrate, come oggetti del genio «Italians», in un nuovo museo sulla Sabbia del Golfo Persico.

Postilla

Leggendo ieri agenzie stampa e articoli che riportavano le esternazioni di Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, sembrava di essere tornati sul set di Totòtruffa ’62, nell’immortale sketch della vendita della fontana di Trevi.

Sorvoliamo sulle iperboliche affermazioni in stile Guinness dei primati (“la Toscana ha quasi il 50% delle opere d'arte del mondo”) che, seppur destituite di ogni minima credibilità statistica, hanno ripreso a circolare da qualche tempo anche nei piani alti di via del Collegio Romano.

Trascuriamo il fatto che il principio del “visto che l’han fatto gli altri, ci proviamo anche noi”, non pare il non plus ultra della cultura manageriale (per non parlare di quella politica) e, magari, con un minimo di accortezza informativa in più, Martini avrebbe appreso che lo stesso progetto del Louvre è stato oggetto di fortissime discussioni in patria, probabilmente sarà ridimensionato ed è stato già pubblicamente dichiarato che non avrà assolutamente quei margini di guadagno che hanno ingolosito l’amministratore toscano.

Evitiamo anche ogni commento alla plateale affermazione, voce dal sen fuggita, “non vedo niente di male, in un momento di crisi come questo a usare il nostro patrimonio culturale come veicolo per gli affari”, persino imbarazzante nella sua pochezza culturale, oltre che istituzionalmente del tutto inappropriata, dal momento che si parla di un patrimonio statale, indisponibile per la Regione, per di più (e per fortuna) sottoposto alla tutela di organismi scientifici che Martini non si è neppure immaginato di dover preavvertire.

Risparmiamo infine ai nostri lettori la noiosa riproposizione dei mille motivi che si opporrebbero alla svendita del nostro patrimonio culturale, che i frequentatori di eddyburg possono peraltro rileggersi nei moltissimi testi presenti sul sito.

Ci basti, in questa breve nota, sottolineare il ridicolo di simili estemporanee boutades, laddove ai dubbi di chi osserva che spogliare gli Uffizi non sembrerebbe proprio il massimo della strategia, non solo culturale, ma neanche turistica, il presidente della Regione Toscana, in una perfetta incarnazione del più puro spirito italico di monicelliana memoria, replica furbescamente che non pensa certo a trasferire Botticelli o Michelangelo, bensì di ammollare agli arabi, come ognun sa geneticamente improvvidi nell’esercizio della mercatura, i quadri messi in cantina o ancora privi di restauro dai tempi dell’alluvione.

Era il 1966; ieri un sondaggio IPR dava il PD in crollo verticale al 22% dei consensi.

Per risollevare l’umore, andatevi a rivedere il duetto fra il cavalier Antonio Trevi e Decio “Cacio” Cavallo. (m.p.g.)

Presidente Cossiga, pensa che minacciando l'uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato? «

Dipende, se ritiene d'essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché è l'Italia è uno Stato debole, e all'opposizione non c'è il granitito Pci ma l'evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà quantomeno una figuraccia».

Quali fatti dovrebbero seguire? «A questo punto, Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno».

Ossia? «In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito...».

Gli universitari, invece? «Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».

Dopo di che? «Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».

Nel senso che... «Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano».

Anche i docenti? «Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere?«In Italia torna il fascismo», direbbero. «Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l'incendio».

Quale incendio? «Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà ad insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate Rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».

«Entro l’estate il via libera alle norme quadro» sull’architettura propone un manifesto per le città sostenibili.

Non solo tutela del patrimonio ma incoraggiamento dei divenire». Sandro Bondi, ministro per i Beni e le attività culturali ha aperto il XXIII Congresso mondiale degli architetti di Torino (29 giugno-3 luglio) sostenendo che «il rilancio economico e civile del nostro Paese passerà attraverso una nuova stagione della cultura che risponde alle esigenze dei cittadini. Il vero committente ha poi aggiunto - sono le generazioni future: dobbiamo lasciare il mondo un po’ migliore di come ci è stato consegnato».

Legge quadro sull’architettura e concorsi è un mix di «maggiore libertà» e indirizzi pubblici riformatori quello annunciato da Bondi a Torino per rilanciare il contemporaneo.

Un appello che si concretizza nell’intenzione di portare in uno dei prossimi Consigli dei ministri, ed entro l’estate, la «Legge quadro sulla qualità dell’architettura» che per ben tre legislature si è arenata in Parlamento. Un disegno di legge che promuove l’arte e l’architettura contemporanea, attraverso un impegno congiunto dei ministeri dei Beni culturali e delle Infrastrutture.

Tema principale del Ddl già promosso dagli ex ministri Melandri, Urbani e Rutelli è il concorso di architettura. Il Ddl favorisce la partecipazione dei giovani progettisti alle gare e prevede anche la predisposizione di un fondo per l’espletamento dei concorsi «per le opere di rilevante interesse architettonico e che siano destinate ad attività culturali o ubicate in aree di particolare interesse». Nella bozza di Ddl ora riesumata da Bondi c’è anche il «riconoscimento del valore artistico delle opere di architettura contemporanea» e tra le assolute novità del documento ci sono gli incentivi e i bonus fiscali per la realizzazione di opere d’arte negli edifici pubblici e privati. «Le amministrazioni devono promuovere i concorsi di architettura nelle forme del concorso di idee e di progettazione - ha ribadito Bondi a Torino -. Si devono inoltre favorire i giovani con competizioni a loro dedicate. Arte e architettura devono tornare nel cuore delle città. Non va frenata la capacità creativa delle nuove generazioni».

Paesaggio e periferie

Contro la bruttezza dell’edilizia realizzata negli ultimi anni Bondi ha invocato la «libertà» creativa. «In Italia ha aggiunto - ciò che è stato costruito negli ultimi 60 anni è brutto, banale e insignificante. Ci sono eccezioni come ciò che ha realizzato Adriano Olivetti, ma sono rare. Le città d’arte furono costruite senza leggi urbanistiche, leggi che una volta introdotte hanno saputo produrre solo bruttezza e squallore nelle nostre città». Bondi ha così incoraggiato e sostenuto la convenzione europea sul paesaggio e indicato una politica nazionale di recupero delle periferie, «anche incentivando demolizione e ricostruzione». «Paradossalmente i piani regolatori - ha aggiunto Bondi - hanno dato regole ma imbrigliato la creatività, producendo città brutte».

Priorità ambiente

Nel corso del Congresso si sono susseguiti numerosi interventi a sostegno dello sviluppo sostenibile, invitando al riuso del costruito e a un minor consumo del suolo, alla rottamazione di città e di edifici che non garantiscono il benessere. A chiusura dell’evento, l’Uia, Unione internazionale architetti, ha presentato un manifesto dedicato proprio alla «nuova frontiera eco-metropolitana». Un documento interdisciplinare e internazionale «dedicato alle questioni ecologiche e ambientali, in cui si prevede l’intervento delle diverse categorie professionali con proposte che riguardano la crisi ambientale e sociale del pianeta», ha dichiarato Raffaele Sirica, presidente del Consiglio nazionale degli architetti. La carta individua le principali patologie delle aree metropolitane e propone linee strategiche per contrastarle. «Tra i principali elementi di crisi- spiega Aldo Loris Rossi, professore della Federico II di Napoli, uno dei curatori del documento - ci sono l’esplosione demografica, l’espansione delle metropoli e la globalizzazione dei mercati e delle infrastrutture. Altre patologie sono ancora il conflitto per il dominio dell’energie, la crescita di rifiuti, dell’inquinamento e dell’effetto serra. Non ultimo l’ autoreferenzialità dell’architettura nell’era della società-spettacolo». Il manifesto si appella a una sintesi tra economia ed ecologia, e auspica che «l’architettura digitale sia uno strumento per far sì che il progetto non crei icone spettacolari ma protesi della natura». Una nuova civiltà del riciclaggio, del controllo dell’inquinamento e dell’effetto serra. Una nuova alleanza con la natura.

Il Congresso si è chiuso con un messaggio pro ambiente dopo aver dato spazio per cinque giorni a voci di critici, artisti, scrittori, sociologi, architetti, intellettuali di tutto il

mondo. Sono intervenuti anche Kengo Kuma, Massimiliano Fuksas, Dominique Perrault e Peter Eisenman, ma la kermesse è stata concepita soprattutto per essere un evento senza tappeti rossi. «Non c’era chi non ha voluto o potuto esserci» dicono gli organizzatori.

Il Congresso è stato soprattutto un’occasione di dialogo e di condivisione intorno al tema «Trasmitting Architecture», ovvero la capacità e la forza che ha l’architettura di esprimere e trasmettere nel tempo valori, emozioni e culture diverse. «Il Congresso - ha dichiarato Leopoldo Freyrie, relatore generale - è stato promosso come occasione per gli architetti per assumersi, per la loro parte, le proprie responsabilità. Come la democrazia politica è il presupposto irrinunciabile dello sviluppo civile e sociale di ogni Paese, così la democrazia urbana è il fattore di crescita dei confronto per un processo di trasformazione del territorio sostenibile, ordinato e credibile».

Manifestazioni fuori evento

Tra le numerose iniziative organizzate fuori dal programma ufficiale, oltre alle mostre, ai concerti e ai talk in città, è stato presentato un progetto che racconta attraverso video, documentari e reportage come l’architettura incida sulle trasformazioni del tessuto urbano. Si tratta di un progetto dinamico che invita studenti e ricercatori di venti città europee a utilizzare tutti i canali e linguaggi della comunicazione. È questa la sfida di «Check-in Architecture», iniziativa lanciata a livello europeo da Mini, in collaborazione con Torino 2008 World design capital.

Si chiama invece «Machinavisionaria» lo strumento di assistenza alla progettazione con il quale l’Ordine degli architetti di Roma ha partecipato al Congresso. Una piattaforma tecnologica che consente di trasmettere e ricevere, da e per qualsiasi luogo del pianeta, visioni di architettura.

ROMA - Una città tutta in verticale è quella immaginata da Massimiliano Fuksas. Architetto poliedrico e genialoide, riconosce l’importanza dell’iniziativa del sindaco Bertrand Delanoe. E’ sua la Armani Ginza Tower di Tokyo che Berlusconi ha visitato ed elogiato domenica in occasione del suo viaggio in Giappone.

Da sempre lei ha uno studio nel centro di Parigi, come immagina la città francese se arriveranno i grattacieli?

Sono d’accordo, anzi d’accordissimo. Se si costruisce un palazzo sotto i 200 metri di altezza ormai non ne parla nessuno, solamente sopra i 400 metri si comincia a discutere. Per essere al passo con i tempi è necessario progettare in verticale.

Alla Défense arriveranno anche a trecento metri di altezza.

Sì ma non dimentichiamo che la Défense è un comune autonomo. Il discorso potrebbe cambiare se, come ipotizza Sarkozy, tutti i comuni parigini verranno riuniti in uno solo.

Insomma, lei è per una Parigi più diffusa verso l’alto?

Quando si è costruito sul lungo Senna io avrei ipotizzato dei palazzi decisamente più alti e invece si sono limitati a 26 metri.

Anche in Italia è possibile realizzare città che guardano così in alto?

A Roma, per motivi storici, solo in periferia. Le città decisamente più adatte per costruire sono Milano e Torino dove si possono trasformare in nuove aree residenziali gli spazi dismessi. Insomma, il grattacielo come occasione di rinascita per quelle aree da troppo tempo dimenticate.

Gli ambientalisti parigini non sembrano d’accordo.

Bisogna rispettare il senso estetico ed etico. La bellezza del grattacielo sta tutto nel rapporto con lo skyline che va disegnato con attenzione.

ROMA — Il biglietto d'addio a Fausto Bertinotti porta una firma illustre, quella dell'urbanista Massimiliano Fuksas. La motivazione non è sentimentale ma politicissima: «L'universo di Rifondazione e la Sinistra l'Arcobaleno ha un modo antico di analizzare la contemporaneità e i suoi problemi. Si parla ancora di lotta al capitalismo. Vogliamo dirlo? Una questione ormai vecchia, da archiviare. Oggi il nodo vivo, attuale è il consumismo che scaturisce dalla globalizzazione, crudele nell'Occidente opulento quanto lo è nel comunismo-consumistico cinese o nello sviluppo economico dell'India. Se non partiamo da questo dato, tutto diventa polveroso. Ci si ferma agli slogan d'un tempo senza arrivare alla sostanza ». Per farla breve, votare Sinistra l'Arcobaleno sarebbe un errore? «Più che un errore si tratterebbe di un voto inutile. Tutto qui».

L'amore di Fuksas per Rifondazione comunista è durato a lungo: «Ho anche allestito un paio di congressi, a Venezia e a Rimini. Mi ricordo che puntai sulla sola parola "Rifondazione", sulle pareti, tralasciando sia "partito" che "comunista". Suscitai le reazioni di alcuni simpaticissimi trotzkisti. È stata una bella stagione». E poi, Fuksas, cosa è accaduto? Quando sono cominciati i sintomi della crisi? «Lo ricordo benissimo. Fu alla sfilata militare del 2 giugno quando Fausto partecipò da presidente della Camera ma ostentando la spilla dei pacifisti al bavero. Lì mi ribellai. Non era possibile incarnare contemporaneamente su quel palco la terza autorità dello Stato, su una di quelle assurde poltrone dorate che Bertinotti ama tanto, e nello stesso momento voler rimanere un esponente critico del sistema militare. La spilla, diciamo così, fu un gesto arcaico. Invece noi abbiamo bisogno di contemporaneità».

E cosa c'entra i tutto questo il consumismo? «C'entra moltissimo. Mettiamo insieme i dati. Consumismo significa prima di tutto perdita dei valori. Cedere tutto pur di possedere e consumare. Di qui discende ciò che chiamiamo la crisi dei valori. Prendiamo ciò che accade tra i giovani, dalla catastrofe del sistema scolastico alle morti del sabato sera. Tutto è legato al consumismo. Soprattutto, e qui dico un'ovvietà, la questione ambientale ». Qui si prende una pausa riempita da una lunga risata: «Figuriamoci che Pecoraro Scanio vorrebbe affrontarla riproponendo il modello di una società pressoché rurale...». Fuksas arriva lontano: «Dirò di più. Si parla tanto di aborto. Senza dire che se le famiglie non crescono è perché non si vuole rinunciare a dividere in troppe parti ciò che si ha. Nemmeno con i propri figli. Ecco perché dico che la critica al capitalismo è decrepita. La questione si è spostata altrove. Guardare ciò che accade in Cina, dove l'iperproduzione da consumismo mette in dubbio le Olimpiadi per l'inquinamento prodotto. O in India, che tra poco verrà invasa da "Tata", l'auto a bassissimo costo ».

Per queste ragioni Fuksas ha deciso di appoggiare il Pd e Walter Veltroni: «Credo che abbia un'idea giustamente complessa della società italiana e della crisi mondiale. Il suo "ma anche" non è un disvalore ma un modo di annunciare che nessuno è portatore di un'unica verità e che una società è composta da mille piccole realtà, spesso in contraddizione tra loro». Si era parlato di una sua candidatura. Veltroni le ha proposto un seggio? «Macché. Tutto è stato chiaro dall'inizio. Il ruolo dell'intellettuale può essere solo l'esercitare e il manifestare la sua capacità critica attraverso il proprio lavoro. Il famoso "intellettuale organico" caro al Pci? Solo a pensarci mi vengono i brividi... ».

(Di Fuksas, in questo Stupidario, vedi anche l'indimenticabile definizione di Megalopoli)

Stralci da: Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale , Feltrinelli 1957 ; le citazioni sono tratte dal cap. 6 (f.b.)

Cominciamo con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi il problema si pone o si solleva, indifferentemente. Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purchè siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito.

Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione.

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.

Al linguaggio va connessa la gesticolazione, problema peraltro più complesso e meno facilmente definibile. Ci limiteremo a darne qualche cenno.

Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto.

Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita.

Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite.

Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra – piegata a spatola, scava in un mucchietto di sabbia immaginaria, posta di fronte a chi parla.

Chi è Luciano Bianciardi

Il 4 Novembre di quarant'anni fa il mare tracimò nella basilica di San Marco e salì un metro e venti oltre il livello del pavimento. Due anni dopo l'Unesco pubblicò un documento che illustrava come evitare che Venezia facesse la fine di Atlantide, un mito disperso in fondo al mare. Sugli amministratori della città quelle proposte ebbero l'effetto di un bicchiere di acqua fresca: per tentare di scuoterli Indro Montanelli iniziò a scrivere, giunse fino a produrre un film nel quale denunciava l'incapacità della classe dirigente della città ad affrontarne i problemi (era andato perduto, dobbiamo al professor Gherardo Ortalli dell'Università di Venezia il recupero di quel documento straordinario). Risultato, il sindaco denunciò per diffamazione Montanelli e Giovanni Spadolini, allora direttore del Corriere della Sera.

Il processo durò alcuni anni e come sempre accade finì in nulla.

Oggi una delle soluzioni proposte dall'Unesco è in costruzione, un sistema di paratie mobili che in occasione di maree particolarmente impetuose possono essere alzate chiudendo le bocche di porto e impedendo che il mare inondi la città. Ma il sindaco vorrebbe fermare i lavori per valutare soluzioni diverse, come abbiamo fatto per quarant'anni senza venire a capo di nulla. Massimo Cacciari è troppo intelligente per non capire ciò che aveva intuito già trent'anni fa Bruno Visentini: il problema di Venezia è politico, non di ingegneria idraulica; quello che manca alla città non sono le opzioni tecniche per salvarla dal mare bensì la capacità di decidere.

Il giorno dell'alluvione a Venezia vivevano 130 mila persone, oggi sono meno della metà: ma non eleggono loro il sindaco perché i cittadini di Mestre (la terraferma del Comune) sono tre volte più numerosi. Costoro hanno interessi diversi dalla salvaguardia della città: Venezia affondi pure, purché prima di affondare faccia affluire alle casse del Comune ancora un po' di denaro pubblico. Per questo motivo Visentini propose un referendum per dividere Mestre da Venezia, ma la separazione non ha evidentemente alcuna possibilità di passare. Una democrazia bloccata.

Fra trenta, quarant'anni è matematicamente certo che a Venezia non abiterà più nessuno: rimarranno solo i turisti e i venditori che dalla terraferma giungono in città con il loro ciarpame per raccogliere un po' della rendita prodotta dal turismo a buon mercato. Di fronte alla basilica di San Marco ogni mattina si installano alcuni venditori di mangime per piccioni: ognuno di quei banchetti vale qualche centinaia di migliaia di euro e produce un reddito congruente al suo valore. Non importa che, poco a poco, il guano dei piccioni stia distruggendo San Marco. Il sindaco, come i suoi predecessori, ogni anno rinnova le licenze e attraversa quella piazza straordinaria senza più nemmeno accorgersi di quell'orrore.

Patriarca Scola, la basilica è affidata anche a Lei. Come Gesù nel Vangelo, esca sul sagrato e scacci i mercanti di piccioni. Non creda nell'inutilità di questo gesto: talvolta un gesto riesce a rompere un equilibrio che anni di rassegnazione non erano riusciti a scalfire. E' accaduto nella metropolitana di New York: dieci anni fa pochi vi si avventuravano la notte, poi l'equilibrio cambiò ed oggi è uno dei luoghi più sicuri della città (lo racconta un libro «The tipping point», che consiglio ai nostri sindaci).

A Venezia arrivano ogni giorno decine di migliaia di turisti, ma gli amministratori della città la gestiscono come se si trattasse di un qualsiasi borgo: la spazzatura viene raccolta una volta al giorno e non nei giorni di festa. Così la domenica sera nelle calli scorazzano pantegane e gabbiani disseminando rifiuti e avanzi di cibo. Il settimanale inglese Observer

— devo anche questa citazione al professor Ortalli, uno dei pochi che riesce ancora a ragionare su Venezia — alcuni mesi or sono lanciò una provocazione: se l'unico destino di Venezia è il turismo a buon mercato affidiamo la città alla Walt Disney Corporation.

Ad Orlando, in Florida, questa azienda gestisce con efficienza grandi flussi di visitatori: per terra non si vede una carta, una bottiglietta di plastica, le code sono ordinate.

Se Venezia non vuole diventare Disneyland deve ritrovare i suoi abitanti. Con una popolazione di sessantenni un boom demografico è evidentemente improbabile. Una soluzione è portarvi studenti universitari: c'è già un'università, e vi è un gran numero di edifici abbandonati.

Ma gli studenti vanno cercati all'estero, perché la demografia è un problema italiano, non solo di Venezia. Il motto potrebbe essere «un turista cinese in meno, ma uno studente cinese in più». Per riuscirci però i corsi debbono essere insegnati in inglese: oggi nessuno lo fa e infatti non c'è neppure uno studente straniero. Il rettore dice che ci penserà, ma in realtà nulla si muove. Che interesse hanno i professori a cambiare il loro comodo tran tran? Magari studenti cinesi residenti chiederebbero di essere ricevuti dopo le quattro del pomeriggio, magari chiederebbero biblioteche aperte la sera. Troppa fatica. Il seminario dei Gesuiti è abbandonato: da anni il Comune si illude di attrarvi la sede di un'organizzazione europea, ma non c'è mai riuscito. Sindaco Cacciari perché è tanto difficile aprire nell'ex seminario una residenza universitaria?

Se a Venezia la democrazia è bloccata che cosa può fare lo Stato? «Non possiamo certo tagliare i fondi per la salvaguardia della città» direbbe il ministro dell'Economia. E invece è proprio quello che bisognerebbe fare.

Non più un soldo pubblico senza un progetto.

Perché se il progetto è solo il turismo a buon mercato allora basta la Walt Disney Corporation. Il parco di Orlando non riceve neppure un dollaro dal governo, anzi fa lauti profitti.

Gli amministratori gestiscono la città come un qualsiasi borgo È meglio un turista cinese in meno ma uno studente cinese in più.

Le cose serie su Venezia, la laguna e il MoSE nelle cartelle dedicate a Venezia e la sua Laguna

«E villettopoli in Costa Smeralda? E la raffineria della Saras accanto all'oasi vivaistica cagliaritana? Si mandano le guardie forestali nella villa di Silvio Berlusconi solo perché ciò ha un effetto mediatico. Ma in un Paese non normale ci sta anche questo».

A parlare non è l'avvocato Niccolò Ghedini o il responsabile per l'Ambiente di Forza Italia, bensì il fiero avversario del cavaliere, da lui chiamato «il signor B»: l'architetto Massimiliano Fuksas. Argomento di discussione: l'ispezione a Villa Certosa delle guardie forestali inviate dalla Regione Sardegna per verificare se nei lavori al parco si configurano abusi. «Moratti ha le raffinerie in Sardegna vicino a una delle oasi faunistiche più importanti del mondo, mentre ho sentito che le donne di famiglia vogliono costruire una casa ecologica in trentino. Ma qualcuno ha chiesto ai sardi il permesso per fare le raffinerie vicino alle oasi vivaistiche? Se uno le mettesse a Cortina, le raffinerie?». Lì dove non vogliono la circonvallazione? «Proprio lì».

Almeno Berlusconi le montagnette artificiali le fa a casa sua... «Guardi, io l'ho attaccato cento volte. Il signor B sembra quel protagonista di 007 che faceva le caverne scavando la roccia. Ma ora che è in decadenza politica mi sta più simpatico. La Regione manda lì gli agenti della forestale perché c'è potere mediatico. Vengono denunciati i personaggi famosi che tanto poi ottengono i condoni».

Perché gli agenti non erano a controllare abusi evidenti in Costa Smeralda? «Perché? Non so rispondere. Berlusconi si è fatto metà del Paese nemico... Forse gliela stanno facendo pagare. Le sue ville erano tutte protette dal segreto, ora non so».

I suoi interventi sembrano quelli che i nobili del Settecento si facevano fare dagli architetti dell'epoca: finti vulcani, tempietti in rovina... «Un attimo, lui è malconsigliato in politica e anche in estetica. Ha cattivo gusto. Non si fa un giardino di cactus e di ulivi fatti venire forse dalla Spagna o dalla Puglia in Sardegna, dove ci vogliono lecci e sugheri. Inventa una natura falsa distruggendone una vera. Come a Los Angeles. È americano anche in questo! Ma il problema della salvaguardia del paesaggio italiano non è certo Berlusconi». Bensì? «È Marghera, ad esempio. Non c'è stato un partito in cinquant'anni che si sia lamentato. Si può costruire un petrolchimico a Venezia?».

E poi e poi... «Vogliamo parlare della Sicilia? Uno dei posti più belli era Gela, e ci hanno fatto un altro petrolchimico. E tra Messina e Cefalù, a Pace del Mela, ci hanno fatto una centrale elettrica di produzione energetica. Se si sorvola la zona in elicottero si vede una nube gialla. Perché non ci occupiamo delle raffinerie?».

Qualcosa si sta facendo, come l'abbattimento di Punta Perotti. «Va bene Punta Perotti e il Fuenti. Ma la costa italiana, dalla Liguria alla Sicilia, è tutta costruita. A pochi metri dal centro di Civitavecchia c'è una centrale elettrica!». E se non son centrali, son villette. «È un fenomeno che colpisce dalla Sardegna al Veneto. In Sardegna, il problema non è stato l'Aga Khan, che aveva sviluppato zone residenziali per ceti ad alto reddito. Ma il fenomeno che si è ingenerato». C'è altro da demolire? «C'è quasi tutto. I quartieri a vocazione sociale, come le Vele, lo Zen e il Corviale. Anche se ormai c'è appartenenza della popolazione anche a luoghi come questi, nei quali si vive male».

Ma anche l'abusivismo diffuso va combattuto. «Abbiamo 9 milioni di case abusive. Vengo da Madrid, lì non c'è abusivismo. Da noi ormai è impossibile pianificare, non si può allargare una strada nemmeno volendo».

Veniamo alle speranze. Cuneo fiscale, Pacs, ma il nuovo governo avrà maggiore accortezza nella tutela del paesaggio? «Io non ci credo. Manca la conoscenza a tutto il ceto politico e sono estranei a ciò che succede sul territorio. Sento in Tv deputati che non conoscono quando c'è stata la Rivoluzione francese o chi ha dipinto il Cenacolo; non c'è sensibilità nemmeno per fare aeroporti di qualità che sono le porte d'ingresso in un Paese».

Alla fine, la collina di Villa Certosa è una architettura d'invenzione un po' misteriosa come Bomarzo... «Secondo me Berlusconi applica il suo cattivo gusto. Lui non è interessato all'arte contemporanea; gli piace solo quella figurativa.

E poi non si è mai occupato veramente di estetica urbana, anche se so che gli è piaciuta la mia nuova fiera di Milano. È una delle poche cose che lo avvicina al mondo contemporaneo. Sono disposto a dargli lezione settimanali di estetica a 500 euro».

Da: Massimiliano Fuksas, con Paolo Conti, Caos Sublime, Rizzoli 2001

Qual è la sostanziale differenza urbanistica tra metropoli e megalopoli?

Non la quantità di abitanti, naturalmente. È l'accelerazione della crescita. Per parlare chiaramente e terra terra: in Europa non esistono, almeno per ora, megalopoli ma solo metropoli. Megalopoli è Kuala Lumpur, passata in una manciata di anni da alcune centinaia di migliaia di abitanti a 18 milioni. Megalopoli è Dakka, che attira gran parte della popolazione dell'intero Bangladesh. Megalopoli è naturalmente Calcutta, che non smette di ricevere umanità.

La megalopoli è insomma la moderna rappresentazione del nomadismo: l'aggregato si sposta, si modifica continuamente, è qualcosa di duttile.

Ecco perché la megalopoli ha poco a che fare con la metropoli. Perché la metropoli non ha alcuno di quei problemi. E la megalopoli, a sua volta, spesso non ha nemmeno un centro e quindi non è policentrica come la metropoli. (p. 16)

Nota: secca, precisa, questa definizione nasometrica di megalopoli (e di cosa esattamente la distingue dalla metropoli) non ha bisogno di commenti. Di commenti no, magari di un link sì. Un link ad alcuni estratti di Jean Gottmann, il quale circa mezzo secolo fa riteneva ci volesse qualcosa di più complesso e diverso dalla "moderna rappresentazione del nomadismo", per costruire il sistema insediativo che faticosamente (almeno noi) chiamiamo Megalopoli. "Per parlare chiaramente e terra terra", naturale (f.b.)

In Val di Susa, sono contro il tunnel

, che ci collegherebbe al resto d'Europa (e persino all’Asia); in Campania, contro i termovalorizzatori, con i quali si produce energia dai rifiuti; un po' dappertutto, sono contro gli inceneritori, che i rifiuti si limitano a bruciarli. A Brindisi, non vogliono il degassificatore, che serve a riportare il gas dallo stadio liquido (compresso) — che ci arriva via mare, invece che attraverso gasdotto — a quello gassoso; a Grosseto, le pale eoliche che hanno la funzione di utilizzare il vento per produrre energia. Per altri ancora, il ponte sullo stretto di Messina, che ancorerebbe la Sicilia alla penisola, è inutile. Solo l'altro ieri, la variante di valico sulla Firenze- Bologna, progettata per migliorare il traffico automobilistico, aveva provocato un'ondata di «no». Ora, ci si è messo anche il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, a sollevare dubbi sul Mose — il progetto di paratie mobili per bloccare il flusso delle maree e salvare la città dal pericolo di sprofondare «nell'acqua alta» — suggerendone la revisione a opera già approvata e ormai iniziata.

L'elenco dei «no» — che Piero Fassino ha opportunamente denunciato— sembra destinato a crescere a dismisura e la sua ombra, dopo aver paralizzato quello di centrodestra, minaccia di allungarsi anche su un eventuale governo e sulle future amministrazioni locali di centrosinistra qualora l'Unione vincesse le prossime elezioni. Il grande esercito dei «no» (ecologisti, movimentisti, dirigisti e quant'altro) tende, infatti, a identificarsi prevalentemente con la cultura di sinistra e sulle maggioranze di governo di centrosinistra farebbe certamente sentire il proprio peso. Il rischio, allora — poiché non c'è uomo politico che non sia incline a piegarsi ai «no» per non provocare fratture nella propria parte — è che, a tutti i livelli del processo decisionale, finisca col prevalere la «cultura del non fare». Sarebbe un disastro.

E' un rischio, dunque, che il centrosinistra, in tutte le sue componenti — prima fra tutte quella riformista, ma non escluse quelle radicali — farebbe male a sottovalutare e di fronte al quale farebbe invece bene fin d'ora ad attrezzarsi. Non con un generico e retorico «programmismo », già denunciato su queste stesse colonne da Angelo Panebianco e Dario Di Vico. Ma con un'«idea forte» circa quello che occorre fare per dare al Paese le infrastrutture di cui necessita e consentirgli, così, di stare al passo con i tempi e con il resto dell'Europa.

Il riformismo — che è una sorta di ingegneria sociale gradualistica—è innanzi tutto, rispetto al massimalismo, «una questione di metodo». E' la differenza — ha spiegato bene Karl Popper — «fra un metodo che può essere applicato in ogni momento e un metodo la cui adozione può facilmente diventare un alibi per il continuo rinvio dell'azione a una data successiva, quando le condizioni risultino più favorevoli». Il riformismo — secondo Popper —è, in sostanza, un continuo processo di soluzione di problemi parziali; problemi che il pensiero massimalista rinuncia a risolvere, chiedendosi continuamente se i mezzi adottati siano idonei a raggiungere il Fine ultimo, il Bene assoluto. Ma, conclude Popper, non c'è un metodo razionale per determinare il Fine ultimo (la Perfezione). Ci riflettano tutti quelli che, nel centrosinistra, si dicono riformisti.

Vedi anche, sullo stesso argomento, l’eddytoriale n. 84

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